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Centro di metodologia delle scienze sociali L’OGGETTIVITÀ DELLINFORMAZIONE TRA MITO PROFESSIONALE E IDEALE REGOLATIVO Flaminia Festuccia Working Papers n. 111, 2008 © 2008, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.700-702 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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L’OGGETTIVITÀ DELL’INFORMAZIONE TRA MITO PROFESSIONALE E IDEALE REGOLATIVO

Flaminia Festuccia

Working Papers n. 111, 2008

© 2008, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.700-702 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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L’obbiettività dell’informazione. Mito o possibilità?

Non dire mai: «L'obiettività non esiste».

È l'alibi di chi vuole raccontare

balle.(Piero Ottone)

L’obbiettività dell’informazione è un concetto da sempre centrale nella professione giornalistica. In linea teorica, è una caratteristica che ha il ruolo di ideale discrimine tra “buona” e “cattiva” informazione. L’idea di un giornalismo “obbiettivo” riassume l’esigenza che il sistema dell’informazione sia libero da condizionamenti, non diventi uno strumento di manipolazione al servizio del potere o delle idee personali del singolo giornalista.

Gli inizi della professione giornalistica (dalla metà dell’Ottocento ai primi anni del Novecento, quando il trauma della Prima Guerra Mondiale contribuì a cambiare la prospettiva) sono stati segnati da una convinzione ingenua, “empirista”: il giornalista doveva essere un mero fotografo della realtà, i fatti erano lì a portata di mano, bastava osservare e riferire. Ma già negli anni Venti del Novecento negli Stati Uniti inizia a farsi largo la convinzione che questo approccio non sia sufficiente. Riporta Schudson:

“la tendenza è innegabilmente quella di combinare le funzioni di interprete e di reporter, dopo circa mezzo secolo durante il quale l’etica giornalistica imponeva una rigida separazione tra il cronista e il commentatore.” (1)

Sempre Schudson riporta una dichiarazione dell’American Society of Newspaper Editor del 1933:

“(…) questa Società approva che i giornalisti dedichino maggior attenzione e spazio alla spiegazione e all’interpretazione delle notizie, e alla

1) SCHUDSON, 1987, p.141 cit. da Alessandro Mazzanti “L’obbiettività giornalistica: un ideale maltrattato – il caso italiano in una prospettiva storico-comparativa (1815-1990)” Liguori Editore 1990, p.86.

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presentazione di informazioni di sfondo, così da consentire al lettore medio di capire meglio il significato degli eventi.” (2).

Una consapevolezza esplicita della necessità del momento interpretativo, con tutti i rischi connessi: primo fra tutti il pericolo di rifugiarsi dietro un’inevitabile soggettività, che nel clima di incertezza dei primi anni Trenta rendeva la categoria bersaglio di critiche, sminuiva il ruolo dell’informatore come incapace di fornire notizie corrispondenti alla realtà dei fatti. E quindi, continua Schudson:

“I reporters avevano ancora bisogno di credere nel valore del proprio lavoro di raccolta e di interpretazione dei fatti.

Avevano bisogno di un quadro di riferimento entro cui potessero prendere sul serio il proprio lavoro e persuadere i lettori e i critici a fare altrettanto.

A questo provvide la nozione di “obbiettività”, così come venne elaborata negli anni Venti e Trenta” (3).

La situazione italiana

Da noi sembra mancare una prospettiva analoga, una simile organicità di dibattito.

“La questione dell’obbiettività giornalistica – ha scritto Giovanni Bechelloni – è una di quelle questioni che, considerata centrale nella nascita e nello sviluppo del giornalismo moderno, i giornalisti italiani amano riguardare con sufficienza. Quasi che fosse una questione non solo secondaria, ma addirittura fuorviante” (4).

Alcune peculiarità del giornalismo italiano vengono assunte come giustificazione per evitare, se non il dibattito, il confronto aperto con la tematica dell’obbiettività. La dipendenza dalla politica, l’editoria “impura”, la scarsa autonomia relativa delle testate, sono considerate “peccati originali” del nostro giornalismo, escludendo quindi, come vedremo, la possibilità di una definizione serena del concetto di obbiettività. Da un lato, la ripetuta affermazione del carattere velleitario e ideologico dell’obbiettività da parte degli operatori istituzionali e professionali dell’informazione, per quanto si fondi su considerazioni epistemologicamente corrette, nasconde talvolta la segreta intenzione di sentirsi liberi da vincoli e da verifiche. 2 ) SCHUDSON, 1987, p.142 cit. da A. Mazzanti, op. cit., p.87. 3 ) SCHUDSON, 1987, p.145 cit. da A. Mazzanti, op. cit., p. 87. 4) MASSIMO BALDINI, introduzione a Philip Meyer, “Giornalismo e metodo scientifico. Ovvero il giornalismo di precisione” (2002), Luiss University Press 2006, p. 7.

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Dall’altro lato, il richiamo all’ideale dell’obbiettività sembra costituire il risultato di un ritardo storico della professione giornalistica in Italia che trova quindi difficoltà ad assumere consapevolmente un funzionale ruolo di informazione al di fuori di condizionamenti. Il ritardo italiano, in questo senso, è anche frutto del periodo fascista: il duce, giornalista ancor prima che politico, ben capiva l’importanza dell’informazione, di tutta l’informazione. E quindi, mentre sul cinema i suoi interventi si limitavano a circoscrivere l’invadenza delle produzioni americane, la stampa era teleguidata tramite le sue celebri “veline”. A leggere i giornali di allora, emergeva il ritratto di un’Italia perfetta: criminalità azzerata – così come la disoccupazione - l'ordine regnava sovrano, il popolo era giovane, entusiasta e virile. I mezzi di comunicazione ricevevano precise disposizioni affinché facessero il più possibile da "cassa di risonanza" dell'ottimismo fascista. Mentre, come abbiamo visto brevemente sopra, quelli erano proprio gli anni in cui il giornalismo statunitense scendeva a patti con la realtà , elaborando una propria etica professionale incentrata sull’obbiettività.

Umberto Eco e Piero Ottone. Le due facce del dibattito

Umberto Eco ha scritto, negli anni ’60 del secolo scorso, che l’obbiettività dell’informazione è un “mito professionale”, una “manifestazione di falsa coscienza, un’ideologia”. È l’Espresso, 13 luglio 1969. L’articolo si intitolava “Il lavaggio dei lettori”. Le sue considerazioni non erano casuali, né nascevano da idee strettamente personali, ma erano portate, per così dire, dall’onda della contestazione operaia e studentesca, che considerava la stampa ufficiale “serva del potere” e chiedeva a gran voce una propria “controinformazione”. Eco nel suo articolo definisce il quotidiano italiano

“non uno strumento di liberazione critica che permetta a tutti di ascoltare le parole altrui e di prendere la parola, ma uno strumento autoritario di repressione”.

L’obbiettività è definita “ideologia” nell’accezione di “struttura teorica elaborata per coprire altre cose”. Per coprire, cioè, l’inevitabilità dell’adozione di una particolare prospettiva da parte del giornalista. Far credere al lettore che sia possibile dare un’informazione che sia l’immagine globale e speculare della realtà, non è altro che un inganno. La realtà che appare sui media è per forza di cose “manipolata”: già solo la scelta della notizia da pubblicare è un’interpretazione che deriva dall’importanza relativa che il giornalista attribuisce all’avvenimento. E ancora, a prescindere dal contenuto, altri interventi saranno la titolazione, l’impaginazione, il taglio, la presenza o meno di immagini – e quali immagini. Informazione parziale e imperfetta, soggettiva

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nel migliore dei casi, fuorviante nel peggiore. Ma come si deve comportare allora il giornalista?

“Il giornalista non ha un dovere di obbiettività. Ha un dovere di testimonianza. Deve testimoniare su ciò che sa (…) e deve testimoniare dicendo come la pensa lui (…) …compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che egli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che egli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre. Il giornalista che rispetta il lettore deve lasciargli il senso dell’alternativa”.

Difficile ribattere ad argomentazioni così forti, stringenti e convincenti. Eppure molte voci si sono levate in difesa della maltrattata obbiettività. Le reazioni sono state molteplici e tempestive. La discussione accesa. Una delle voci più autorevoli è quella di Piero Ottone (all’epoca direttore del Corriere della Sera), che sostiene una visione del giornalismo del tutto differente, su posizioni radicalmente divergenti da quelle di Eco. Paladino del modello anglosassone, Ottone difende un giornalismo che sia disposto a seguire una serie di regole base, valide per tutti: citazione rigorosa delle fonti, separazione tra notizia e commento, descrizione dei vari punti di vista sullo stesso argomento. Il suo pensiero è sviluppato nell’ “Intervista sul giornalismo italiano” (Laterza, 1978): emerge da qui un’altra radicale differenza con le posizioni di Eco, che riguarda la funzione dell’informazione. Mentre per Eco “Il giornale non è un organo al servizio del pubblico, ma uno strumento di formazione del pubblico”, Ottone ribatte che:

“Il giornale può esprimere opinioni, e quindi contribuire a fare opinione, però la sua funzione prevalente è un’altra: scoprire i fatti e, una vota che li ha scoperti, non nascondere niente di quello che esso sa”. (5).

O ancora:

“Io credo in un giornalismo che ha lo scopo di informare, e non di spingere i lettori verso un partito o verso un’azione politica” (6), perché “chi fa il giornalista con fini politici è un politico mancato ed è probabilmente un cattivo giornalista”. (7).

Alla fine degli anni ’70 (come dimostra “Intervista sul giornalismo italiano”, che è del 1979), il dibattito riprende. Il 15 e 16 aprile 1978 la Casa della Cultura di Milano e l’Istituto Gramsci di Roma organizzano un convegno intitolato “Realtà e ideologia

5) PIERO OTTONE, “Intervista sul giornalismo italiano” (a cura di Paolo Murialdi), Laterza 1978, p. 103. 6) Ivi p. 5 7) Ivi p. 4

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dell’informazione”, in un momento decisamente critico per il mondo politico e giornalistico (e per l’intera nazione): il 9 marzo, infatti, era avvenuto il rapimento di Aldo Moro per opera delle Brigate Rosse.

Dalla relazione di Eco emergono nuove posizioni meno drasticamente “pessimiste”: si parla, più realisticamente, di “limite alto” e “limite basso” dell’obbiettività. Il primo, irraggiungibile, è corrispondenza assoluta e speculare fra resoconto ed evento; il secondo, in sostanza, coincide con le idee espresse da Ottone nel 1969, con cui Eco alla fine si trova d’accordo:

“Ma in definitiva concordo, c’è un limite basso dell’obbiettività che consiste nel separare notizia e commento; nel dare almeno quelle notizie che circolano via agenzia; nel chiarire se su una notizia vi sono valutazioni contrastanti; nel non cestinare le notizie che appaiono scomode; nell’ospitare sul giornale, almeno per i fatti più vistosi, commenti che non concordino con la linea del giornale” (8).

Negli anni Novanta Furio Colombo inserisce un nuovo problema nel dibattito: l’oggettività, il controllo rigoroso dei fatti e delle fonti. Non più quindi, obbiettività come disposizione personale all’onestà intellettuale nei confronti del lettore, ma anche scientificità della ricerca e dell’esposizione dei fatti.

Uno sguardo epistemologico: il giornalista storico del presente

Philip Meyer, giornalista statunitense ora docente di giornalismo all’Università del North Carolina, nel suo saggio “Precision Journalism. A Reporter’s Introduction to Social Science Methods”, paragona il lavoro del giornalista a quello dello scienziato sociale (e non solo).

“Il nuovo giornalismo di precisione è un giornalismo scientifico. (In Francia l’espressione ‘giornalismo di precisione’ è stata tradotta con ‘le journalisme scientifique’). Ciò significa trattare il giornalismo come fosse una scienza, adottando il metodo scientifico, l’oggettività scientifica e gli ideali scientifici per l’intero processo della comunicazione di massa” (9).

Il metodo scientifico: esperimenti, osservazioni, tentativi ed errori: termini che sembrano assai poco affini al giornalismo d’oggi e di ieri, preso dalla frenesia dello

8 ) Ivi p. 197 9 ) Philip Meyer, op. cit. p. 7

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scoop, incastrato fra poteri economici e politici che se lo contendono, carico a volte di velleità letterarie.

“Ma, se il giornalista è sulla stessa barca dello scienziato e dello storico, del detective e del clinico, allora egli dovrebbe possedere delle competenze epistemologiche, in quanto proprio dall’epistemologia è possibile tratte alcune riflessioni che sono particolarmente utili per la sua professione”(10).

Philip Meyer, invece, è tra i sostenitori di un’idea di stampo diverso, ritenendo che tra il mestiere del giornalista e quello dello scienziato vi siano molti punti di contatto.

Il giornalismo è stato definito (e a ragione) come “storiografia dell’istante”: dagli scritti di Luciene Febvre, Carr, e dello stesso Popper, emerge quanto alla storia sia applicabile il metodo “nomologico-deduttivo” tipico delle scienze fisiche.

Meyer, sulla loro scia, rifiuta gli esiti ai quali è andato incontro il cosiddetto new journalism, e afferma, con decisione, che il giornalista non deve avere niente a che fare con la dimensione della fiction, e che il giornalismo è più una scienza che un’arte. (11)

La storia è una scienza?

Definendo il giornalista uno “storico del tempo breve”, si pone il problema se il suo mestiere possa o meno essere considerato una scienza, al pari di quello del fisico. Arriveremo ora a vedere come le scienze sociali e naturali muovano dagli stessi presupposti.

In “Logica della scoperta scientifica” Popper definisce il concetto di “spiegazione”:

“Dare una spiegazione causale di un evento significa dedurre un’asserzione che lo descrive, usando come premesse una o più leggi universali, insieme con alcune asserzioni singolari dette condizioni iniziali”(12)

Spiegare causalmente un evento significa mettere in relazione causa ed effetto tramite l’uso di leggi. Senza leggi, infatti, non si ha né una spiegazione né una previsione.

Il modello che riassume il meccanismo della spiegazione è quello “nomologico-deduttivo” (detto anche “modello Popper-Hempel”) (13).

10 ) MASSIMO BALDINI, introduzione a Philip Meyer, op. cit., p. 8 11 ) Cfr. MASSIMO BALDINI, introduzione a Philip Meyer, op. cit. 12 ) K.R.POPPER, “Logica della scoperta scientifica”, Einaudi, 1974, p.44

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Quando affrontiamo un problema ci troviamo davanti un asserto che descrive un fatto da spiegare (“Explanandum”, dal latino: che deve essere spiegato). Per spiegarlo dobbiamo addurre una serie di asserti che descrivono le “condizioni iniziali”, o cause del fatto da spiegare. Quindi ci troviamo a scegliere, tra gli infiniti fatti del mondo, quelli a cui imputiamo la responsabilità del fatto da spiegare. La scelta non avviene in modo casuale, ma grazie a leggi: esse sono logicamente necessarie, perché sono quegli asserti che legano tra di loro fatti ad altri fatti, le cause ai loro effetti.

Riassumendo: (14)

Un fatto è spiegato (o spiegabile) scientificamente quando l’asserto che lo descrive è dedotto (o deducibile) da un Explanans formato da condizioni iniziali coperte da leggi (covering laws) rilevanti.

Ora il nocciolo della questione è capire se anche le scienze sociali, e in particolare la storia, adottano o meno questo tipo di ragionamento. Partiamo da un esempio:

“Luigi XIV morì nell’impopolarità (…) perché aveva causato alla Francia la perdita dell’incomparabile posizione che essa aveva guadagnato attraverso l’attività dei cardinali”. In questo brano l’explanandum afferma che ‘Luigi XIV morì nell’impopolarità’. La condizione iniziale o causa del fenomeno rintracciata da Seignobos è che egli ‘aveva causato alla Francia la perdita della incomparabile posizione che essa aveva guadagnato attraverso l’attività dei cardinali’. La legge di copertura, anche se non espressa, è facilmente ricostruibile, L1: ‘Non può morire compianto dal popolo chi al popolo ha causato danni’”. (15)

Vediamo quindi come la struttura logica della spiegazione di Seignobos corrisponda perfettamente al modello Popper-Hempel, e non differisca dalla struttura di una spiegazione fisico-naturalistica. E, come quest’ultima, una spiegazione storica, per essere scientifica, deve rispondere a determinate caratteristiche (empiricità dell’explanandum, delle condizioni iniziali e delle leggi di copertura; deducibilità logica dell’explanandum dall’explanans). (16)

13) Il “modello Popper-Hempel” è la teoria della spiegazione scientifica delineata da K.R.Popper nella “Logica della scoperta scientifica” del 1934, ed elaborata da C.G.Hempel, prima nel saggio “La funzione delle leggi generali nella storia” (1942) e poi sistematicamente in “Aspetti della spiegazione scientifica (1965). (“Popper-Hempel, modello”, in “Enciclopedia di Filosofia, Garzanti 1993, p. 881) 14) Cfr. DARIO ANTISERI, “Trattato di metodologia delle scienze sociali”, cit., p.291 15) Ch. SEIGNOBOIS, cit. e commentato da DARIO ANTISERI, “Trattato di metodologia delle scienze sociali”, cit., p.295 16) Molto spesso si sente replicare che le spiegazioni storiche non sarebbero scientifiche in quanto corredate dalla visione ideologica dello storico. Ma si tratta di un caso differente; cito a riguardo Dario Antiseri: “Gli storici, in effetti (…) non producono soltanto spiegazioni storico-scientifiche. Loro, infatti,

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Il lavoro di uno scienziato

“Il tempo breve è per eccellenza il tempo del cronista, del giornalista” (17): il lavoro dello storico, allora, ma contratto su una dimensione temporale minima, continuamente in divenire (e per questo più scivolosa, più complessa, più difficile da interpretare).

Edward H.Carr scrive: “I buoni storici hanno il futuro nel sangue. Oltre alla domanda ‘Perché?’ lo storico si pone anche l’altra: ‘Verso dove?’” (18). Ancor più che per lo storico, questo vale per il giornalista, spinto a guardare avanti, alle conseguenze che avranno domani le notizie di oggi, se e quando diverranno “storia”. Secondo Braudel, però, lo storico ha un innegabile vantaggio: sa già come andranno a finire le cose.

“Delle forze in campo noi sappiamo quali la vinceranno, distinguiamo in anticipo gli avvenimenti importanti, quelli che avranno delle conseguenze. Vediamo a chi appartiene il futuro. Privilegio immenso! Chi potrebbe nell’intrico di fatti della vita attuale, distinguere con altrettanta sicurezza il durevole dall’effimero? Per i contemporanei i fatti si presentano, ahimé, troppo spesso su uno stesso piano di importanza, e i grandissimi avvenimenti, quelli che costruiscono il futuro, fanno così poco rumore – Nietzsche diceva che arrivano su zampe di tortora – che di rado se ne percepisce la presenza”. (19)

Questo rende il mestiere del giornalista ancora più difficile e controverso di quello dello storico (anche se la Storia stessa vive i suoi grandi periodi di “revisionismo”). Ed è proprio questa incertezza a far parere il giornalismo meno “scientifico”, e il fatto di essere legato al tempo breve lo fa apparire necessariamente meno accurato e documentato. Ma, né più né meno che un fatto storico, la notizia giornalistica è una

ammoniscono, emettono giudizi di valore e soprattutto offrono spesso interpretazioni ideologiche degli eventi storici. E si hanno interpretazioni storiche ideologiche quando gli storici invece di dedurre (insieme a condizioni iniziali) gli eventi da leggi empiriche (…), li ‘deducono’ da visioni teologiche o filosofiche della storia. Nel primo caso abbiamo le teologie della storia (Per esempio quelle di Agostino o di Orosio) e nel secondo caso le filosofie della storia (per esempio, quelle di Platone, di Vico, di Hegel, di Marx o di Engels). E la caratteristica fondamentale di siffatte interpretazioni è che esse non sono falsificabili. E quindi non sono scientifiche”. (Dario Antiseri, “Trattato di metodologia delle scienze sociali”, cit., pp. 296-297) 17) FERNAND BRAUDEL, “Scritti sulla storia”, cit. da Massimo Baldini, introduzione a Philip Meyer, op. cit., p. 11 18 )EDWARD H.CARR, “Sei lezioni sulla storia”, cit. da Massimo Baldini, introduzione a Philip Meyer, op. cit., p. 11 19) FERNAND BRAUDEL, “Scritti sulla storia”, cit. da Massimo Baldini, introduzione a Philip Meyer, op. cit., p. 11

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ricostruzione documentata, e come lo storico il giornalista è chiamato a ricostruire l’analisi situazionale di un certo evento. (20)

Il lavoro del giornalista deve essere considerato, a tutti gli effetti, quello di uno scienziato sociale. E come quest’ultimo il giornalista ragiona in termini scientifici: inciampa in un problema, e, alla luce di leggi più o meno universali, elabora una serie di ipotesi per spiegarlo. Ma questo ancora non basta perché il suo lavoro sia definito realmente “scientifico”. Vediamo perché:

“Se il giornalista si serve, nel raccontare ai lettori le notizie, di leggi tratte da scienze empiricamente controllabili avremo spiegazioni scientifiche, se invece si serve per le sue argomentazioni di generalizzazioni incontrollabili (prese, ad esempio, da teologie o filosofie della storia) avremo interpretazioni ideologiche”.(21)

Il giornalismo è scienza. La controllabilità

Ed ecco che ci troviamo di fronte al nocciolo della questione: la controllabilità. Popper, in opposizione al cosiddetto “principio di verificazione” (22) fatto proprio dai membri del “circolo di Vienna” (23), ha sostenuto che un adeguato criterio di demarcazione tra le scienze e altre forme di cultura andrebbe visto nel principio di 20) Il metodo delle scienze sociali deve consistere, secondo Popper, nell' analisi situazionale , la quale comprende e spiega le azioni umane particolari come soluzioni relative a specifiche situazioni problematiche, sulla base di determinate scelte di valore. Per analisi situazionale si intende un certo tipo di spiegazione tentativa o congetturale di qualche azione umana che si riferisce alla situazione in cui l’agente si trova. Possiamo interpretare ogni azione come il tentativo di risolvere un problema. La comprensione o spiegazione razionale di un’azione consisterà nella ricostruzione congetturale della situazione problematica, analizzando cioè il singolo problema con il suo sfondo storico, psicologico, geografico e così via. 21) MASSIMO BALDINI, introduzione a Philip Meyer, op. cit., p. 9, corsivi miei 22) “Il criterio di significanza empirica proposto dal positivismo logico, in base al quale un enunciato che non sia analitico è dotato di significato “cognitivo” o fattuale se e solo se la sua verità o falsità risulta accertabile mediante osservazioni empiriche. […] Il criterio in questione presuppone che le asserzioni osservative siano verificabili esse stesse in modo definitivo. Quest’ultima difficoltà solleva una questione centrale: esistono verificazioni conclusive?” (“Verificazione, principio di”, in “Enciclopedia di Filosofia, Garzanti 1993, p. 1191) 23) Circolo filosofico frequentato dai maggiori esponenti viennesi del movimento neopositivistico. Il programma filosofico del gruppo trova la sua espressione in “La concezione scientifica del mondo: il circolo di Vienna” (1929), “manifesto” firmato da Hahn, Neurath, Carnai e Feigl. Negli scritti del gruppo si riflette la parte più ambiziosa del programma neopositivistico, la rifondazione su basi esclusivamente logiche ed empiriche dell’intera conoscenza umana, e la sua ricostruzione in un linguaggio unificato della scienza.

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falsificazione (24). Secondo questo principio, una teoria poggia su basi scientifiche quando il suo contenuto (le sue conseguenze) è controllabile empiricamente, e quindi suscettibile di essere confutato (falsificato). La controllabilità di una teoria (e dunque la sua scientificità) equivale alla possibilità di essere falsificata. E cioè dipende da quanto la suddetta teoria venga esposta alle critiche e ai controlli. Un “bravo” scienziato ha l’obbligo di mettere tutto in dubbio: se nessuna teoria è logicamente certa (perché non possediamo un “principio di verificazione”), allora l’epistemologia comanda al ricercatore di andare alla caccia di eventuali punti vulnerabili delle teorie, perché la loro scoperta potrebbe essere il punto di partenza per la scoperta di teorie migliori, più potenti. (25)

Ecco quindi, seguendo la teoria falsificazionista di Popper, gli errori che il giornalista (in qualità di scienziato, e non di ideologo) deve evitare.

Il primo, e più grave peccato dello scienziato, è quello di difendere una teoria dai fatti, non sottoporla mai al confronto con la realtà empirica: è il caso di quelle teorie che si appoggiano a concezioni metafisiche del mondo. La visione di una Provvidenza divina che scatena epidemie e ricompensa gli uomini giusti, interpreta tutto e non spiega niente: si parla di fede, non di scienza, di concetti che non possono essere smentiti perché non esistono fatti capaci di confutarli. Ma non solo la fede religiosa svolge questa funzione: pensiamo a quelle filosofie deterministe che credono in un necessario progresso della storia verso il miglioramento (da Hegel a Marx, per capirci).

Le nostre teorie possono anche essere difese dalla confutazione quando si scontrano con fatti che le falsificherebbero; parliamo allora di “ipotesi ad hoc”. Secondo Hempel un’ipotesi ad hoc:

“non è logicamente assurda o evidentemente falsa, tuttavia essa è soggetta a obiezioni dal punto di vista della scienza, in quanto verrebbe introdotta ad hoc, cioè al solo scopo di salvare un’ipotesi gravemente minacciata da prove negative”.(26)

L’esito di tali operazioni è riaffermare una teoria falsificata, impedendo così il procedere della scienza verso teorie migliori (27). Le ipotesi ad hoc si riconoscono per non poter essere controllate indipendentemente dall’effetto da spiegare, e nei casi estremi portano a spiegazioni circolari: “è così perché è così”. Il ragionamento logicamente è valido (A segue sempre da A) ma non può essere soddisfacente.

24) Cfr. “Falsificazione, principio di”, in “Enciclopedia di Filosofia, Garzanti 1993, pp. 363-364 25) Cfr. DARIO ANTISERI, “Trattato di metodologia delle scienze sociali”, cit., p.68 26) C.G.HEMPEl, “Filosofia delle scienze naturali”, Il Mulino, 1968, p.51 27) Cfr. DARIO ANTISERI, “Trattato di metodologia delle scienze sociali”, cit., p. 173

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Oggettività come controllabilità

Se il giornalista fa il lavoro dello scienziato, se non possiede un criterio di verità, e se, ancora, non potrà mai essere imparziale per l’impossibilità di sapere e riferire assolutamente tutto su un dato argomento, l’unico criterio che abbiamo per distinguere una notizia “buona” (oggettiva) da una “cattiva” (faziosa) è il criterio di falsificabilità.

“Noi non possiamo conoscere nella sua interezza nemmeno il più piccolo spicchio di mondo”, ha scritto Popper: e quindi la notizia oggettiva non è completa. E nemmeno incontrovertibile o incontestabile. La notizia oggettiva è quella che si espone a critiche e confutazioni sulla base dei fatti empirici. Ed è tanto più criticabile e confutabile quanto più si espone, vale a dire quanto più si carica di elementi e proposizioni controllabili. In questo senso, ogni atto comunicativo, orale o scritto, è un’assunzione di responsabilità. Un codice etico dell’informazione deve prevedere, oltre a dovuti controlli ex ante, anche una responsabilità precisa e personale ex post facto: vale a dire, dopo la diffusione della notizia. L’errata corrige è stata una conquista non indifferente come lo è lo spazio concesso alla discussione: risposte di personaggi chiamati in causa pubblicate, lettere dei lettori. Parlando di carta stampata, è ovvio: ma anche l’informazione televisiva ha i suoi metodi, e il suo potenziale di controllabilità.

Cos’è la notizia?

Tutta l’industria dei media si regge, come ogni altra produzione di beni di consumo, su una domanda. A seconda di questa domanda il giornalista guarderà in modo diverso gli avvenimenti, cercando soprattutto quelli che potranno interessare il suo potenziale pubblico. Questa constatazione ha dato il via, nel Nordamerica, agli studi sulle dinamiche di newsmaking: in parole povere, su quei meccanismi che fanno sì che alcuni fatti siano identificati come idonei a diventare “notizia”.

“Una vecchia mentalità giornalistica – scrive Faustini – considerava le notizie un po’ come le “idee” platoniche, esistenti ma difficili da scovare se non a patto di avere un buon “fiuto”. Solo che le notizie, come abbiamo già accennato, non esistono nella realtà. Esistono degli eventi la cui notiziabilità dipende da molti fattori, comunque prevalentemente legati alla routine dell’informazione”. (28)

28) GIANNI FAUSTINi, “Le tecniche del linguaggio giornalistico”, NIS 1995, p. 61

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Per “notiziabilità” si intende “l’insieme degli elementi attraverso i quali l’apparato informativo controlla e gestisce il tipo di eventi da cui selezionare le notizie”. (29) I fattori di cui parla Faustini sono chiamati “criteri di notiziabilità”, o anche “valori-notizia”, definibili come:

“delle regole pratiche comprendenti un corpus di conoscenze professionali che implicitamente, e spesso esplicitamente, spiegano e guidano le procedure lavorative redazionali […] essi costituiscono dei chiari e disponibili riferimenti a conoscenze condivise sulla natura e gli scopi delle notizie […]. I valori.notizia sono qualità degli eventi o della loro costruzione giornalistica, la cui relativa assenza o presenza li raccomanda per l’inserimento in un prodotto informativo”. (30)

In poche parole, i criteri di notiziabilità non sono altro che particolari caratteristiche degli eventi che li rendono idonei a diventare Notizia, adattati di volta in volta alla linea editoriale, al contesto e al tipo di lettore. Oggi, poi, la presenza di un elevato numero di testate rende quest’ultimo elemento molto importante, perché porta alla fidelizzazione di un determinato pubblico che si riconosca in interessi e valori comuni.

I criteri di notiziabilità non sono statici:

“i fattori che concorrono a rendere più o meno importante e urgente una notizia sono molteplici, diversi fra loro e soprattutto mutevoli, nel senso che possono cambiare secondo il tipo di giornale, l’area di lettura, il genere dell’informazione, la linea editoriale, l’ora in cui giunge una notizia, la rilevanza degli altri avvenimenti del giorno”.(31)

E sta al giornalista individuare di volta in volta, in un mondo che tende sempre più a mettere l’accento sulla “vendibilità” del prodotto d’informazione, le caratteristiche salienti che attireranno l’attenzione del lettore e verranno incontro alle sue aspettative, in base a queste linee guida pragmatiche.

Abbiamo visto, fin qui, come siano da distinguere due termini (oggettività e obbiettività), usati e abusati riguardo all’informazione: e cioè come il concetto di oggettività sia pubblico, esposto agli sguardi di tutti.

“Un asserto o un insieme di proposizioni (e quindi un’informazione o un insieme di informazioni) sono oggettive se sono pubblicamente

29) Ibid. p. 66 30) ELLIOTT GOLDING, “Making the news”, cit. da Gianni Faustini, “Le tecniche del linguaggio giornalistico”, cit., p. 67 31) GIANNI FAUSTINI, “Le tecniche del linguaggio giornalistico”, cit., p. 67

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controllabili: pubblicamente controllabili in base a fatti e quindi passibili di smentita o conferma. In altri termini, una proposizione, una notizia o un’informazione è oggettiva se noi abbiamo i mezzi per poterla controllare. Questo è esattamente il significato epistemologico del termine ‘oggettività’”.(32)

Mentre quando parliamo di obbiettività ci riferiamo ad una dote della persona, del giornalista: una dote di onestà non riferibile alla notizia, ma alle intenzioni di chi l’ha scritta. Ed è una dote che si manifesta già nella scelta delle notizie da pubblicare, nel loro ordine di importanza, nello stesso modo di scrivere, di aggiungere dettagli o di ometterli consapevolmente.

E, infine, l’obbiettività di un giornalista sta nel seguire le regole del metodo scientifico, fornendo al pubblico un’informazione di qualità, necessariamente parziale ma non faziosa, necessariamente incompleta ma non manipolata.

I problemi del mestiere

A seguito dell’evoluzione dell’editoria quotidiana, a partire dagli inizi del ‘700 con un’incredibile fioritura di testate in Gran Bretagna (che si sarebbe ben presto estesa al di qua della Manica), in “industria culturale”, l’informazione su carta stampata ha subito delle forti modificazioni, del mercato di collocazione, del prodotto stesso e del marketing. Si sono trovati quindi nuovi usi, nuove funzioni, l’introduzione di iniziative promozionali. Inoltre, soprattutto nel giornalismo “europeo” (così inteso per differenziarlo dal modello anglosassone), le imprese editrici di quotidiani hanno spesso incorporato nei propri prodotti fini diversi da quelli dell’informazione: creazione di opinioni, sostegno di orientamenti politici, promozione pubblicitaria, tutela di interessi economici. Il tutto, non sempre allo scoperto (anzi, quasi mai), ma con l’implicito fine di assicurarsi la sopravvivenza sul mercato, garantendosi un buon livello di diffusione e di acquirenti abituali (da fidelizzare al giornale come a una qualsiasi altra merce).

Associare poi il quotidiano ad un orientamento politico o a particolari interessi economici è fonte di ulteriori garanzie per l’impresa editoriale: anche se questa non raggiunge traguardi di vendite adeguatamente remunerativi può rendere indispensabile o caldamente favorita la sua presenza sul mercato, attirando dunque finanziamenti e supporto da quei poteri che protegge e sostiene, e che quindi ne garantiscono la sopravvivenza sul mercato: Mario Missiroli, celebre direttore del Corriere della Sera, ha

32) DARIO ANTISERI, “Leggere la realtà”, cit. da Massimo Baldini, “Obiettività e oggettività, due realtà distinte” in Antiseri, Santambrogio (a cura di) “Giornali. L’informazione dov’è?”, Rubbettino 1999, p. 54

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sintetizzato la situazione affermando che un giornale non necessariamente deve garantire un utile economico, basta che offra un “utile politico”.

Negli ultimi anni, però, nemmeno questo sembra più sufficiente: la rivoluzione elettronica, l’avvento del computer e di internet, hanno destinato all’oblìo quanti non si sono adeguati al cambiamento. Il tempo è cessato, lo spazio è svanito: per dirla con Marshall Mc Luhan “ora noi viviamo in un villaggio globale”.

La moltiplicazione e l’aumentata facilità di accesso a banche dati telematiche, la presenza sempre più invadente di molteplici soggetti (politici, economici culturali) che palesano la propria esistenza inondando le redazioni di comunicati, rapporti, annunci, fanno sì che sui redattori si riversi una tale quantità di materiale da renderli, più che cacciatori di notizie, prede di esse. Il loro lavoro ha assunto sempre più i connotati di un semplice gatekeeping su notizie presentate e prodotte da altri (in primis le agenzie di stampa). Così, con un numero minore di redattori, il quotidiano può, in un tempo inferiore al passato, confezionare un numero decisamente maggiore di pagine, incrementando le attività di desk e “cucina” e diminuendo la ricerca sul campo. A questo si è unita la possibilità di acquistare da altre aziende specializzate blocchi di servizi o intere pagine pronte per la pubblicazione, senza ulteriori modifiche.

Le conseguenze per il lavoro del giornalista – e per la sua professionalità – sono davvero rilevanti:

“i redattori, sommersi da questa alluvione informativa e pressati dalla necessità di non privare il proprio quotidiano, rispetto, soprattutto, a quelli con cui esso si confronta sul mercato, di notizie nuove, più aggiornate, strane e sorprendenti attorno ad eventi di cui sui loro tavoli e sui loro computer pervengono i materiali semilavorati, non hanno molte possibilità di comprendere come molte di esse siano nate, per quale finalità esse siano state diffuse o, addirittura, se siano autentiche o false”.(33)

Il controllo della notizia, in particolare, dato che ormai sembra che siano le notizie a rincorrere il giornalista, e non viceversa, si riduce spesso a

“una valutazione personale da parte di colui che deve tradurla in un articolo, assunta tra l’urgenza di ‘chiudere’ il maggior numero di pagine e gli imperativi di non ‘bucare’ e di produrre informazioni quasi ‘in tempo reale’.” (34)

33) S.CASILLO, F. DI TROCCHIO, S. SICA, “Falsi giornalistici. Finti scoop e bufale quotidiane”, Alfredo Guida Editore, 1997, pp. 22-23 34) Ibid.

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Tale urgenza è, nella maggior parte dei casi, all’origine di errori, imprecisioni e distorsioni delle notizie, con il controllo da parte del giornalista che si riduce spesso ad una valutazione di carattere personale sull’attendibilità delle fonti.

Ma non sta solo qui il motivo dei “falsi giornalistici”: nella maggior parte dei casi, un “falso” che giunga all’attenzione degli stessi media è prodotto da ragioni diverse, più consapevoli e profonde, che si articolano intorno a due strumenti: la mancata pubblicazione di notizie di eventi avvenuti, e la pubblicazione di notizie di eventi non avvenuti. Si tratta, ovviamente, di due casistiche estreme che possono realizzarsi in vari gradi: l’occultamento, ad esempio, può derivare non solo dall’assenza totale della notizia, ma magari della sua pubblicazione “sotto tono”, o dell’”annegamento” del nucleo della stessa in mezzo ad altri fatti che la fanno passare in secondo piano. Un esempio riportato in “Falsi giornalistici” riguarda le mobilitazioni dei metalmeccanici del 20 dicembre 2006, in occasione della lotta per il rinnovo del contratto nazionale.

“Quel giorno migliaia di operai in moltissime città italiane hanno sfilato nelle strade, tenuto comizi, arrestato il traffico autostradale e ferroviario (…), ma il giorno dopo, per alcuni quotidiani questi eventi si sono verificati e per altri praticamente no”. (35).

Salvatore Casillo nota infatti che, accanto a titoli come quelli de “La Repubblica”5 e de “La Stampa” (36),

“Il Corriere della Sera, che pure ha dedicato alla questione contrattuale mezza pagina, ha riservato alle iniziative sindacali poco più di trenta parole (…), il Giornale, anch’esso apparso con mezza pagina sul problema del contratto di questa categoria, non vi ha fatto cenno nei titoli degli articoli che vi erano contenuti e si è limitato a un inciso quasi invisibile”(37).

L’annegamento di notizie o di dettagli di esse, come può far comprendere l’esempio sopra riportato, sembra essere prassi comune, dettata molto spesso dall’orientamento del giornale (nel caso degli scioperi più o meno “filopadronale”), dalla sua linea editoriale e non ultimo dalla proprietà. Ma le manipolazioni che colpiscono di più, e spesso arrivano ad essere sconfessate e rivelate, riguardano la maggior parte delle volte la pubblicazione di notizie di eventi non avvenuti (dalle leggende metropolitane che si autogenerano alle

35) Ivi p. 27 36) V. SIVO, su “La Repubblica” del 21 dicembre 1996: Congelate le trattative. Manifestazioni in tutta Italia. Blocchi stradali. CRESCE LA PROTESTA DELLE TUTE BLU. TREU: “IL GOVERNO INTERVERRÀ” 37) P. PATRONO, su “La Stampa” del 21 dicembre 1996: Verdi e Rifondazione chiedono un’iniziativa. L’esecutivo attacca Federmeccanica: posizione inaccettabile. DAI SINDACATI ULTIMATUM AL GOVERNO. “Intervenga sui metalmeccanici o sarà sciopero generale”. Ieri molte fermate e manifastazioni. Bloccata anche l’autostrada Milano-Venezia

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“bufale” costruite ad hoc da soggetti esterni alle redazioni, fino ad arrivare al falso giornalistico vero e proprio, che nasce e cresce all’interno del giornale stesso).

L’università della Svizzera Italiana ha fondato nella primavera 2004 un Osservatorio Europeo di Giornalismo (EJO – European Journalism Observatory), con lo scopo di rilevare “le tendenze più significative nel mondo dei media, comparando le diverse culture giornalistiche in Europa e negli Stati Uniti” per “contribuire al miglioramento qualitativo della professione e a soddisfare le esigenze di giornalisti, direttori ed editori, avvicinando il mondo accademico della comunicazione a quello dei media” (38). È lo stesso EJO a rilevare che: “apparentemente i casi in cui i giornalisti e i media informano in modo errato sono aumentati negli ultimi tempi” (39). Ma, continua “potrebbe anche essere, più semplicemente, che oggi i casi in cui i giornalisti mentono e i media tradiscono il proprio pubblico vengono più spesso alla luce rispetto al passato. E questo grazie ai migliori controlli sulla qualità e all’intensificata auto osservazione del giornalismo” (40). L’EJO propone una raccolta di falsi giornalistici e scandali del mondo dell’informazione, di casi “gonfiati” ad arte o addirittura creati dal nulla, che vanno a toccare il giornalismo europeo ma anche statunitense. Per mettere “in luce la natura di un inganno inquietante di cui sono vittima i media e i cittadini: quello delle notizie falsificate a tavolino a scopi propagandistici dagli spin doctor, moderni stregoni dell’informazione” (41).

Fare “carte false”, ieri e oggi

Chi in particolare ha sottolineato le ipocrisie e le illusioni di cui si è circondato il giornalismo italiano è stato Giampaolo Pansa, nel suo celebre libro “Carte false” (42). Interessante, perché enumera una casistica davvero consistente di giornalisti che vanno contro le regole del metodo, tappano occhi e orecchie pur di seguire la strada che ritengono giusta, si sottraggono in ogni modo alle rettifiche. E così, accanto ai giornalisti che cercano di mantenersi sulla retta via della professione, secondo Pansa c’è

“il giornalista che non vede. Ma esiste anche il giornalista che vede e tace. E c’è quello che non si limita a tacere la realtà che non gli piace: la ritocca, la

38) S.CASILLO, F. DI TROCCHIO, S. SICA, op. cit., p.28 39) http://www.ejo.ch/about/mission_it.html 40) http://www.ejo.ch/analysis/qualitymanagement/Fakes_it.print.html 41) Ibid. 42) Ibid

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sistema, la colora dei colori giusti. E c’è, infine, il giornalista che, semplicemente, sceglie la strada della bugia”(43).

Il quadro che ne emerge è comico e contemporaneamente desolante, un repertorio dell’Italia di ieri ancora decisamente attuale. Pansa raccoglie i suoi “casi” in una serie di categorie (i Ciechi, i Reticenti, i Giustizieri, i Corrotti, i Dimezzati e così via). Ognuna rappresenta un vizio, un errore, una paura di chi esercita questa professione. a cominciare dallo spauracchio più grande: la smentita.

“D’accordo, non tutti i giornalisti italiani mentono. Ma una parte di noi, in epoche diverse, ha sempre mentito” (44).

Molti sono i motivi che spingono il “paladino della verità” a ricorrere alla bugia:

“Abbiamo mentito per conto del padrone del giornale, soprattutto quando l’interesse numero uno del padrone non era quello di vendere notizie. Abbiamo mentito per riguardo al potere politico dominante. Abbiamo mentito per favorire l’opposizione. Abbiamo mentito quando ce lo chiedeva qualche club così poco presentabile da essere segreto, come accadde con la Loggia P2. Abbiamo mentito per favorire o contrastare la polizia e la magistratura. Abbiamo mentito per tornaconto personale” (45).

E col passare del tempo non ha cambiato la sua disincantata opinione: in un’intervista pubblicata sul “Sette” (inserto settimanale del “Corriere della Sera”), Pansa afferma che

“Noi giornalisti possiamo essere bugiardi per tante ragioni. Primo perché siamo deboli. Chi non è sicuro di sé, chi ha paura di perdere il posto diventa un potenziale bugiardo”.

E ancora: “Poi si è bugiardi per appartenenza politica. Infine per marchettismo” (46). Ma se finora abbiamo nominato peccati e peccatori del giornalismo italiano, bisogna

dire che anche il tanto osannato giornalismo Usa, con la sua rigida etica del “telling the truth”, non è immune dalle sue cadute.

Un caso relativamente recente (marzo 2004) riguarda le vicende in cui è rimasto coinvolto Jack Kelley, reporter d’assalto di USA Today (quotidiano nazionale con una tiratura media di 2,3 milioni di copie) e cinque volte candidato al Premio Pulitzer. Kelley dal 1993 al 2003 ha firmato quasi 200 tra inchieste e servizi, e ben 150 sono stati 43) GIAMPAOLO PANSA, “Carte false. Peccati e peccatori del giornalismo italiano” , Rizzoli, 1986 44) Ivi p. 50 45) Ivi., p. 51 46) Ibid

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messi sotto accusa da un team composto dai suoi stessi colleghi. Di questi, 56 erano basati su testimonianza oculare dello stesso reporter, molti citavano come fonti anonime alti membri dell’esercito o dei servizi segreti. Kelley puntava molto su storie di interesse umano, descrivendo accuratamente le sofferenze provocate da guerre, malattie, sfruttamento. In circa 10 casi Kelley ha raccontato di aver assistito in prima persona alla morte di una o più persone. Circa un centinaio delle storie sono risultate chiaramente contraffatte. Quando è partita l’inchiesta, il team ha provato a controllare i documenti citati come fonti da Kelley, ma le registrazioni telefoniche erano per la maggior parte incomplete e i dati nel computer del reporter erano stati parzialmente cancellati, ancora prima che Kelley lasciasse la redazione. Il caso più eclatante riguarda la vicenda di una donna cubana, che secondo uno scoop di Kelley sarebbe annegata insieme ad altre sei persone mentre tentava di fuggire dall’isola a bordo di una piccola imbarcazione. A testimonianza, oltre al racconto diretto di Kelley (che avrebbe assistito alla scena in prima persona) anche una fotografia scattata da lui stesso. Una storia inventata dall’inizio alla fine. Non c’era la luna piena che lui descrive, quella notte,e nemmeno la tempesta che avrebbe causato la morte dei fuggitivi, dando retta ad osservatori astronomici e meteorologici del governo statunitense. E la donna, Yacqueline, è legalmente immigrata negli USA e ai tempi dell’inchiesta si era appena sposata e aspettava un figlio (47).

In Italia un caso decisamente eclatante risale al 1982, protagonista la giornalista dell’Unità Marina Maresca (48). Il 16 marzo di quell’anno pubblica un articolo in cui sostiene l’esistenza di un accordo segreto tra Democrazia Cristiana, servizi segreti e malavita organizzata per trattare la liberazione dell’assessore napoletano Ciro Cirillo. Ma il documento si rivela subito come un falso, e il 23 marzo Giorgio Napolitano presenta le pubbliche scuse del PCI alle persone coinvolte nella vicenda, mentre Marina Maresca è espulsa dal partito e soprattutto licenziata dal giornale.

La creazione del “mostro” è sempre efficace, “fa notizia”, è facile e di successo perché accarezza tendenze e pulsioni nascoste dell’opinione pubblica.

Nel biennio 1975-1976 Italia, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Spagna e Giappone furono al centro del cosiddetto Scandalo Lockheed: l'industria aeronautica americana Lockheed aveva riconosciuto di aver pagato a esponenti politici di vari paesi somme per oltre 24 milioni di dollari per favorire l'acquisto di propri aerei. In Italia, vengono condannati esponenti dell'Aeronautica Militare e l'ex ministro della difesa Tanassi. Nello scandalo rimane coinvolto anche l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, che viene 47) Intervista a cura di Claudio Sabelli Fioretti, “Sette”, 18 ottobre 1992 48) Dello scandalo ha dato notizia la stessa testata, e sul suo sito internet, dalla pagina http://www.usatoday.com/news/2004-03-18-2004-03-18_kelleymain_x.htm si accede a una descrizione dettagliata delle indagini che hanno portato al licenziamento di Kelley

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“riconosciuto” (erroneamente) nello pseudonimo di uno degli indagati: Gian Guido Vecchi, in poche righe (in un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 26 novembre 2006) fa una lucida analisi del clima di quel periodo:

“Non erano anni granché sereni, com’è noto, e Leone suo malgrado si trovò a rappresentare lo spostamento a destra di un Paese che aveva iniziato dal ’63 la stagione del centrosinistra (…). Niente di ‘fascista’, ma era quanto bastava per non godere di buona stampa progressista. E poi c’era il Watergate, il mito dell’inchiesta di Bob Woodward e Carl Bernstein, due reporter del Washington Post che nel ’74 avevano costretto alle dimissioni il presidente Richard Nixon. C’era l’insofferenza crescente verso i “gerarchi Dc”, per dirla con Pasolini” (49).

Le accuse nei confronti di Leone non furono mai provate, ma il Presidente, travolto dallo scandalo, rassegnò le dimissioni e si ritirò a vita privata.

Parlando di casi più recenti, viene subito in mente la “strage di Erba”, un massacro tra vicini di casa costato la vita a quattro persone: il mattino successivo agli omicidi i giornali sono usciti indicando già il colpevole: il marito tunisino, da poco liberato grazie all’indulto, talvolta, come La Repubblica, con titoli perentori: «Uccide e brucia tre donne e il figlio» o «Caccia all’omicida tunisino». Ma dopo 24 ore si è scoperto che il maghrebino non c’entrava nulla, perché era da venti giorni nel Paese natale.

Una riflessione

Questa ennesima e ingiustificata “caccia al mostro” ha stimolato le riflessioni degli stessi addetti ai lavori. Si legge infatti in un articolo pubblicato da Lorenzo Del Boca, del Consiglio Nazionale dell’Ordine, sul sito dell’Ordine dei Giornalisti:

“Adesso che per il delitto di Erba sono stati individuati i veri responsabili, dovrebbe aprirsi un serio esame di coscienza sul modo di lavorare dei giornalisti. Forse pubblichiamo articoli e mandiamo in onda interviste con troppa superficialità. Assecondando il bisogno di assicurare quantità industriali di parole e di espressioni ad effetto piuttosto che la necessità di valutare le conseguenze che le nostre valutazioni comportano”(50).

E, infatti, continua:

49) GIAN GUIDO VECCHI, “Italia 1978: così il presidente diventò capro espiatorio, “Corriere della Sera”, 26 novembre 2006 50) http://www.odg.it/primo_piano/show_news.asp?ID=680

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“Adesso che il caso sembra chiuso con la confessione, prova regina, dei presunti responsabili, rimangono le pagine dei giornali dei giorni immediatamente successivi al delitto che accusano un poveraccio e rappresentano un atto d'accusa per noi stessi” (51).

Del Boca conclude con due consigli ai colleghi, che esortano a una maggiore accuratezza in quello che si scrive, e ad esercitare sempre il dubbio come sintomo di professionalità:

“I giornalisti non hanno la verità in tasca, la cercano sempre ed è bene che lo facciano senza la presunzione di poterla trovare in fretta.(…) Qual è la verità? Il suo senso e il suo valore possono cambiare anche radicalmente in breve tempo. Per questo non guasta un poco di attenzione in più. Il lasciarsi avvinghiare da qualche dubbio - considerare che quello che sembra non necessariamente è ciò che - aiuterebbe a commettere meno errori e a esercitare un giornalismo più professionale” (52).

La necessità di una deontologia

La metodologia scientifica che il giornalista deve seguire nel suo lavoro ha, come per tutti i mestieri umani, risvolti etici e morali che lo devono responsabilizzare nei confronti dei destinatari delle notizie (e di chi, dall’altra parte, ne diventa invece l’oggetto). E se è calzante il paragone di Ottone, che definisce il giornalista “diagnostico della realtà”, è giusto che anche a lui, come al medico, siano posti dei principi che pongano il suo mestiere in una dimensione più ampia di servizio “sociale”. Senza tralasciare però, come afferma Papuzzi, che

“il significato morale da attribuire alla condotta dei giornalisti non dipende tanto dagli atteggiamenti e dalle motivazioni di carattere individuale per cui agiscono, quanto dal significato dell’informazione che producono, a conferma che l’etica giornalistica riguarda non il giudizio ma la funzione” (53).

Per questo motivo c’è un accordo generale sul fatto che il giornalismo debba essere dotato di un codice deontologico, e di un adeguato sistema di sanzioni in caso di violazione. In particolare in Italia l’Ordine dei Giornalisti afferma che : 51) Ibid 52) Ibid. 53) A. PAPUZZI, op. cit., p. 243

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“Negli ultimi anni si è sentita la necessità di regolare e distinguere i vari campi dell'informazione: giornalismo, pubblicità, sondaggi e pubbliche relazioni, ognuno con caratteristiche, finalità, compiti diversi e particolari. L'Ordine dei Giornalisti, nel rispetto dei suoi diritti di autoregolamentazione e del suo dovere di fornire quanto più possibile la "verità", ha firmato una serie di Protocolli con gli altri attori dell'informazione, per stabilire "l'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui"(art.2, legge n.69/63)” (54)

I protocolli in questione riguardano appunto le varie sfere di cui si occupa l’informazione, con un’attenzione particolare dedicata ai temi più delicati come la tutela dei minori e l’informazione economica.

54) http://www.odg.it/barra/etica/etica.htm

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Censura e autocensura: due facce dell’azione del potere

“Il male più temibile non è il violento conflitto

tra parti diverse della verità, ma la silenziosa

oppressione di una sua metà” (J.S.Mill) (55)

Abbiamo affrontato fin qui problemi che riguardano la professionalità e il metodo del singolo giornalista, seppur inserito in un contesto di influenze editoriali, culturali, economiche e politiche. Dando quasi per scontato che la scelta di seguire un metodo “scientifico” nell’esercizio della professione spetti esclusivamente al giornalista: seguire o meno un’etica, una deontologia, chinare o meno il capo alle richieste e alle pressioni esterne; come se fosse una via agevole, che se non viene percorsa è per faziosità intrinseca, pigrizia, servilismo, partigianeria. Ma la realtà non è così lineare. A partire proprio dalle pressioni che il giornalista subisce nel suo lavoro:

“La divisione, la contrapposizione manichea fra giornalismo puro, buono, onesto, e informazione impura, cattiva, fra redattori al servizio della verità e padroni al servizio del loro capitale va lasciata ai demagoghi. Il problema è di capire quale sia la convivenza migliore, quali possano essere le nuove accettabili regole del gioco” (56).

Questo scriveva Giorgio Bocca nel 1989, e la situazione della proprietà editoriale in Italia non è cambiata più di tanto, come vedremo più avanti.

Oggi si tende a considerare sempre meno un’anomalia la non esistenza di “editori puri”, si dà per scontato che chi possiede quote importanti di uno o più quotidiani o periodici abbia anche altri – e più importanti – interessi in ballo nel mondo dell’economia o della politica.

Cosa messa in evidenza dal rapporto Freedom House sulla libertà di stampa in Italia, del 2005:

55) JOHN STUART MILL, “On liberty”, 1858 56) GIORGIO BOCCA, “Il padrone in redazione”, Sperling &Kupfer, 1989, p. 23

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“La maggior parte delle testate giornalistiche sono possedute da privati ma sono spesso collegate a partiti politici o controllate da grandi gruppi attivi nel settore dei media, che esercitano una qualche influenza editoriale” (57).

Il problema del “padrone in redazione”, particolarmente sentito nello scenario italiano, va a toccare due aspetti differenti e complementari della libertà di stampa. Il primo, e più vicino al lavoro quotidiano del giornalista, è quel fenomeno di “autocensura” che fa evitare a monte la pubblicazione di notizie o dati che possano infastidire la proprietà della testata, il potere politico o economico di turno. Di una forma di autocensura scriveva già John Stuart Mill (On liberty, 1858), definendo, con un’espressione davvero evocativa, “il silenzio degli eretici”, la situazione di chi, per un clima culturale di “caccia alle streghe” rinuncia a sostenere le proprie idee:

“anche se oggi non infliggiamo a coloro che dissentono da noi tanto male quanto solevamo, può darsi che il nostro trattamento dei dissenzienti ci danneggi altrettanto quanto in passato (…) La nostra intolleranza limitata alla sfera sociale non uccide nessuno e non sradica opinioni, ma spinge gli uomini a celarle o a evitare di impegnarsi attivamente a diffonderle” (58).

E aggiunge:

“Viene così mantenuto uno stato di cose secondo alcuni molto soddisfacente perché, senza incidenti spiacevoli come multe o arresti, lascia apparentemente indisturbate tutte le opinioni predominanti (…) Ma il prezzo di questa sorta di pacificazione è il completo sacrificio del coraggio morale e intellettuale” (59).

Dato che i governi hanno quasi sempre l’interesse di evitare che certe notizie si diffondano liberamente, la censura ufficiale, vale a dire il controllo diretto da parte di un’autorità pubblica sulla libertà di espressione, è un pericolo da cui bisogna sempre guardarsi. Ma al giorno d’oggi gli interessi dei grandi gruppi, più che l’azione dei governi, sono una fonte più comune di censura, o meglio: di autocensura, che è diventata oggi la forma più comune di manipolazione dei fatti nelle società occidentali. Sono sempre più frequenti i casi di giornalisti che decidono di non divulgare una notizia per timore che possa venire in contrasto con gli interessi del proprio gruppo editoriale, senza che ci sia bisogno di specifiche direttive dall’alto.

57) http://www.freedomhouse.org/template.cfm?page=251&year=2005 58) John Stuart Mill, “On liberty”, 1858 59) Ibid

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La loro versione dei fatti

“Osservare, essere spettatore, cercare di capire. E

poi riferire ciò che si crede di aver capito”

(Piero Ottone, “Professione giornalista”)

Scarpe buone e un quaderno di appunti: per Checov, gli ingredienti di un reportage riuscito. E un registratore, aggiungo, perché per tirare le somme di questa tesi, è stato un registratore l’alleato più prezioso. Ma la sostanza non cambia.

Armarsi di pazienza, tempo e un po’ di faccia tosta: per andare, come ho fatto, ad “importunare” quattro grandi nomi del giornalismo italiano. Il risultato sono queste interviste, svolte tra novembre e dicembre 2006: non semplici testimonianze ma un assaggio, anche per me, della professione che amo e che non volevo restasse ingabbiata, sulla carta, nei discorsi teorici – necessari ma non sufficienti.

Una “discesa in campo” da e come giornalista, alla ricerca di spunti e risposte da chi il mestiere lo vive e l’ha vissuto. Tra amori, antipatie, speranze e disillusioni.

Mauro Mazza mi ha ricevuto nel suo ufficio di direttore, a Saxa Rubra, al secondo piano della palazzina del Tg2 , il 10 novembre. Intorno scorreva la vita quotidiana della redazione, e nella nostra chiacchierata siamo stati interrotti un paio di volte dall’urgenza di risolvere questioni pratiche: the show must go on, tanto più se i ritmi sono quelli di un telegiornale nazionale che va in onda cinque volte al giorno.

Il 6 novembre sono stata accolta, invece, nell’appartamento, in un’elegante palazzina del centro storico di Roma, di un gentilissimo Roberto Gervaso, che tra le pareti interamente tappezzate di libri del suo salotto ha risposto alle mie domande.

Più difficili da raggiungere – ma non per questo meno disponibili – sono stati Marcello Sorgi e Gianpaolo Pansa.

Sorgi perché, inviato a Londra per “La Stampa”, sarebbe stato di passaggio solo per pochi giorni a Roma. Dopo un serrato scambio di telefonate, siamo però riusciti a incontrarci, la mattina dell’ultimo dell’anno, nel suo appartamento sulla Nomentana.

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Con Gianpaolo Pansa l’intervista ha avuto il corso più travagliato: non ci siamo visti di persona, ma una fitta corrispondenza – fra telefonate, fax e e-mail – ha prodotto il risultato definitivo, datato 20 dicembre 2006, che leggerete in queste pagine.

Il mio intento era quello di far uscire il concetto di “professione giornalistica” dalla sua bolla di teoria, per capire come vive le contraddizioni di questa professione che ci si sporca le mani ogni giorno. Ecco quello che mi hanno raccontato.

Intervista con Mauro Mazza

Mauro Mazza è giornalista professionista dal 1979. Ha lavorato al "Secolo d'Italia" e all'agenzia di stampa "AdnKronos" prima di entrare in Rai nel 1990. È nel Gr1 diretto da Livio Zanetti fino al '93, quindi al Tg1 allora diretto da Demetrio Volcic, dove viene nominato nel 1998 vice direttore. Giornalista parlamentare dal 1987, conduttore del Tg1-notte dal 1995 al 1998 e della rubrica “Stampa Oggi” dal 1998 al 2001, ha condotto più volte trasmissioni speciali in occasione di elezioni e consultazioni referendarie. Ha pubblicato nel 2004 “Tv moglie, amante, compagna” e nel 2006 “I ragazzi di via Milano”. Dal 2002 è direttore del Tg2.

Oggettività e obbiettività: cosa sono?

Se parliamo di bussola dell’informazione, sono cose a cui tendere, ma con un limite oggettivo, cioè la consapevolezza che qualunque descrizione o racconto della realtà non sarà mai oggettivo, e non sarà mai quindi obbiettivo, perché ciascuno vedrà la realtà, qualunque realtà, con i propri occhi e con i propri occhiali, con la propria telecamera, con la propria macchina fotografica, con la propria penna.

Quindi lei pensa che questi concetti si possano applicare solo relativamente al mondo dell’informazione?

Io parlo dell’esperienza che ho, di quella italiana, da molti anni ormai televisiva, prima ancora di carta stampata, di agenzie di stampa o radiofonica. La mia esperienza trentennale mi dice che, essendo impossibile un’informazione oggettiva ed obbiettiva per ragioni proprio a monte, nel dna dell’informazione, soprattutto in un contesto come il nostro fortemente ideologizzato, fortemente caratterizzato, l’alternativa non è il camuffamento, cioè lo spacciare per oggettivo quello che non può essere tale, ma è nella consapevolezza, da parte di chi legge, di chi fruisce di un telegiornale, di un approfondimento televisivo, nel sapere chi è colui che parla.

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Cosa possono fare allora il lettore, il telespettatore?

Sarebbe bello se in Italia si sapessero le linee editoriali, culturali e politiche, dei giornali o dei telegiornali. Perché ormai non è più come una volta quando c’era un unico telegiornale di riferimento per tutti, oggi per fortuna ci sono molti giornali a disposizione, molti canali televisivi, c’è internet alla portata di tutti, che consente l’accesso a fonti di informazione fino a pochi anni fa impensabili. Non bisogna cercare il canale più oggettivo o obbiettivo, ma le informazioni vanno confrontate e filtrate dalla propria intelligenza e dalla propria capacità di giudizio: sfruttare al massimo questa molteplicità di opzioni e di visioni alla realtà che sono alla nostra portata.

Quindi non esiste il fatto separato dal commento, è un’utopia?

No, può esistere, se esiste è meglio. Per quanto riguarda il Tg2 a lungo c’è stata la divisione del telegiornale in due parti, alle 20.30 la prima parte per le news, poi la seconda per gli approfondimenti: è un modo per dividere, per distinguere sempre più nettamente i fatti dalle opinioni. Questo non significa che i fatti li presentiamo in modo neutro, ma significa che gli approfondimenti, che coincidono con le opinioni di chi approfondisce un tema, sono ancor più marcatamente non imparziali e non oggettivi, ma nascono da un punto di vista, onesto. Questo è il problema, l’onestà del proprio approccio, della propria proposizione. È il preconcetto, il pre-giudizio che è il vero pericolo, non è la parzialità o la scarsa obbiettività.

Intervista con Roberto Gervaso

Roberto Gervaso è nato a Roma il 9 luglio 1937. Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti e si è laureato in Lettere moderne con una tesi su Tommaso Campanella. Ha alle spalle una lunga carriera da giornalista che lo ha visto collaborare con quotidiani e periodici, ma anche alla radio e in televisione.�Nella seconda metà degli anni '60 ha iniziato a dedicarsi alla divulgazione storica firmando, insieme all'amico Indro Montanelli, sei volumi della "Storia d'Italia". Commentatore politico e di costume, ha pubblicato più di quaranta libri tra biografie, raccolte di interviste e saggi storici.

Oggettività e obbiettività: cosa sono per lei?

L’oggettività esiste, ma noi non la vediamo: la vediamo con i nostri occhi, diventa un’oggettività soggettiva.

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E l’obbiettività e qualcosa di diverso?

L’obbiettività è quasi un sinonimo di oggettività: si applica alla persona del giornalista. Il giornalista obbiettivo è quel giornalista che dice le cose come stanno. dice le cose come le vede senza pregiudizi, senza paraocchi, o per lo meno con pregiudizi e paraocchi che nel momento in cui vede le cose non lo condizionano, lui vuole essere sincero, vuol dire la verità, vuol raccontare le cose come le vede, anche se non è escluso che le possa vedere in modo sbagliato.

E quindi obbiettività per il giornalista è sinonimo di professionalità?

È sinonimo di sincerità, di onestà e di professionalità.

Quindi new journalism, spettacolarizzazione dell’informazione, contravvengono al dovere del giornalista?

Certo: una notizia, un grande avvenimento, un grande personaggio, non ha bisogno di essere spettacolarizzato, basta descriverlo, basta raccontarlo. Se tu avessi assistito all’affondamento del Titanic, non c’era bisogno di caricarlo di tinte, era già il fatto in sé. Il processo a Saddam Hussein è già un evento, basta che tu racconti quello che vedi

Lei propende di più per una divisione rigida tra notizia e commento?

È difficile dividere la notizia dal commento. Il giornalista onesto è quello che si sforza di separare la notizia dal commento, il giornalista disonesto è quello che consapevolmente inquina la notizia con il commento. Oppure è un giornalista incapace, che ha le idee confuse, che si traducono in scrittura confusa e confondono le idee di chi legge e che non conosce il fatto.

Intervista con Giampaolo Pansa

Giampaolo Pansa è nato a Casale Monferrato in provincia di Alessandria nel 1935, ha lavorato per La Stampa, per il Giorno, per il Corriere della Sera, per Repubblica e per Panorama. Condirettore de L'Espresso, ha pubblicato con la Sperling & Kupfer saggi e romanzi riscuotendo grande successo e una buona dose di polemiche. Recentemente, "La grande Bugia" ha riportato alla ribalta le problematiche della Resistenza, accendendo discussioni e confronti in tutti i salotti televisivi.

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Oggettività e obbiettività: che cosa sono? Sono concetti applicabili all’informazione?

Sono parole vuote, prive di senso nel lavoro di un giornalista. Però possiamo anche considerarle due astrazioni o due chimere: traguardi irraggiungibili non soltanto nel campo dell’informazione, ma in qualsiasi altra attività umana. Chi è oggettivo? Nessuno. Neppure il magistrato lo è quando deve giudicare la responsabilità di un imputato. Anche se applica in modo corretto la legge, il giudice arriva alle proprie conclusioni attraverso un percorso che è sempre molto personale e, dunque, non oggettivo. L’unico dovere che il giornalista deve sentire è quello dell’onestà professionale: raccontare al lettore un fatto dopo un controllo accurato delle fonti e senza farsi influenzare dalle proprie opinioni. Già questo è un traguardo che spesso non viene raggiunto. Per scelta personale (faziosità) o per qualche errore involontario (incompetenza).

Spettacolarizzazione della notizia, new journalism, possono portare a una perdita di obbiettività?

La prima è una droga che porta al new journalism, un giornalismo eccitato, drogato in modo volontario dall’emozione, dal desiderio di stupire il lettore. Rappresentano una pessima moda che allontana dai giornali (stampati o televisivi) molti lettori o telespettatori. Nel mondo caotico di oggi, il lettore cerca soprattutto una possibile verità, anche questa molto difficile da raggiungere.

Ha senso una rigida separazione tra notizia e commento?

Certo che ha senso! Era la prima lezione che ci impartivano i nostri vecchi maestri professionali. Ma oggi è una lezione dimenticata in quasi tutti i giornali. Anche i quotidiani d’informazione risentono dello schieramento politico dei loro giornalisti. Quasi dappertutto a vincere è il commento, ossia l’opinione del redattore, che viene travestita da notizia. E fa della notizia vera un ingrediente secondario dell’informazione.

Intervista con Marcello Sorgi

Marcello Sprgi è nato a Palermo nel 1955. Laureato in legge, comincia a lavorare nel 1973 all’Ora, la testata del pomeriggio del capoluogo siciliano.� Nel 1978 si trasferisce a Roma come corrispondente. Un anno dopo passa al Messaggero, come inviato. In seguito Sorgi diventa cronista parlamentare e con questo incarico viene assunto nel 1986 alla redazione romana de La Stampa. Nel 1989 diventa responsabile del quotidiano torinese e nel 1994 è nominato vicedirettore. Nel settembre del 1996 inizia a lavorare alla Rai come direttore del Giornale radio. Due mesi dopo viene

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nominato responsabile del Tg1.� Sorgi lascia il suo incarico in Rai nel giugno del 1998. È stato direttore de La Stampa, e attualmente è inviato a Londra per il quotidiano torinese.

Oggettività e obbiettività: può dare una definizione?

Io direi che sono due valori che nel tempo hanno perso importanza, a favore di un valore diverso, che è quello della trasparenza. L’oggettività e l’obbiettività erano molto più importanti quando ho cominciato a lavorare. Intanto erano considerate falsi miti, vissute come un impedimento. Nel periodo a cavallo del 68 si faceva la controinformazione, bisognava informarsi con la controinformazione. C’erano i giornali murali, e molte radio private, che nacquero proprio negli anni 70 con l’idea di far un’informazione in antagonismo all’informazione ufficiale. L’idea chep l’informazione potesse contenere l’obbiettività non era contemplata. Anche chi cominciava a fare il giornalista, lo faceva a partire da una specie di compromesso: io farò il giornalista sapendo che non portò essere oggettivo o obbiettivo.

E come mai c’era questa sensazione?

Perché prima di tutto già allora in Italia non c’erano praticamente editori puri, i quotidiani erano posseduti da grandi gruppi industriali, o da società di imprenditori, e l’idea era che i giornali erano stati comprati perché facessero informazione nell’interesse dei loro proprietari. Era una visione molto schematica. E poi c’era un’attenzione spropositata al sociale, un incidente sul lavoro, ad esempio, non era mai una semplice violazione delle norme di sicurezza, ma una conferma della lotta di classe.

E nel rapporto con le fonti?

Chi iniziava a fare il giornalista, se gli andava bene andava a lavorare in cronaca, in quella principale o più spesso in una cronaca locale. E fare la cronaca significava soprattutto stabilire un rapporto molto stretto con le fonti, per la cronaca nera la questura, i magistrati, gli avvocati, per la cronaca comunale il sindaco, gli assessori, l’opposizione, per la sanità gli ospedali. Applicando uno stretto criterio di oggettività o di obbiettività, si vedeva che queste fonti erano comunque molto di parte, e per certi versi tendevi allora a contrastare l’informazione che ricevevi, non a ospitarla come una parte importante del tuo lavoro. Poi lavorando ti rendevi conto che comunque le fonti erano utili, ma che andavano sempre verificate, specialmente nella cronaca nera.

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Ma invece il criterio di separare notizia e commento può essere utile?

Sì, questo è un criterio fondamentale, altrimenti c’è il rischio che molti scrivano articoli di solo commento.