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Centro di metodologia delle scienze sociali OBIETTIVI DEL MILLENNIO E AMMINISTRAZIONI LOCALI: IL CASO DI ROMA. Daniela Diamanti Working Papers n. 107, 2007 © 2007, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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Centro di metodologia delle scienze sociali

OBIETTIVI DEL MILLENNIO E AMMINISTRAZIONI LOCALI:

IL CASO DI ROMA.

Daniela Diamanti

Working Papers n. 107, 2007

© 2007, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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Introduzione Il presente lavoro rappresenta al tempo stesso il punto di arrivo e la sintesi di un percorso di analisi che si snoda nell’ambito del complesso intreccio delle tematiche e dei cambiamenti che contraddistinguono l’inizio del terzo millennio. Il ventunesimo secolo, infatti, si caratterizza per la presenza di tendenze contrastanti e in continua evoluzione, che offrono all’umanità possibilità di sviluppo senza precedenti ponendola, al tempo stesso, di fronte a grandi prove da affrontare con urgenza e senza alcuna ipocrisia.

Il modo in cui si è concluso il secolo scorso e lo scenario con cui si è aperto il nuovo millennio presentano elementi inediti e interessanti frutto della globalizzazione, espressione ormai abusata dietro cui si celano le grandi rivoluzioni pacifiche del nostro tempo1. Se quella dei trasporti consente oggi spostamenti rapidi ed economici, che si ripercuotono non solo sulla vita dell’élite al potere o dei turisti ma anche sul quotidiano dei lavoratori, degli studenti o degli immigrati, la rivoluzione delle comunicazioni permette uno scambio di idee, informazioni ed immagini velocissimo –quando non simultaneo-, quella organizzativa porta a un processo di forte decentramento dell’autorità e alla dispersione del potere, che oltrepassa i confini tradizionali, mentre quella economica ridireziona il flusso di beni e capitali e i processi di ownership.

Ci si trova, dunque, di fronte a un mondo dal volto nuovo e apparentemente sempre più piccolo, in cui le distanze si riducono e le informazioni viaggiano a una velocità prima sconosciuta, offrendo possibilità di conoscenza e collegamento assolutamente inimmaginabili fino a pochi decenni fa. Il crollo della logica bipolare, inoltre, apre un potenziale scenario di coesistenza pacifica a livello globale, sostituendo alla tensione e al conflitto la possibilità di dialogo e convergenza, dato il grande bisogno di collaborazione e di cooperazione nella gestione di problematiche svariate e difficilmente risolvibili a livello nazionale.

Tuttavia, il quadro positivo appena delineato appare fortemente temperato dall’esplodere dei fenomeni di terrorismo internazionale o di microconflitto interetnico, che offrono ai nostri occhi l’immagine di un mondo sempre meno sicuro. Ogni anno, circa dieci milioni di bambini muoiono prima di raggiungere l’età dei cinque anni, quasi tutti in Paesi in via di sviluppo e per malattie facilmente curabili nel Nord del Mondo. In più, dal Vertice mondiale FAO “Food Summit plus 10” del novembre 2006 si diffonde la disarmante notizia che non solo la fame nel mondo non è in diminuzione, ma che al contrario essa continua a crescere a ritmo sostenuto. Lo stesso modello attuale di sviluppo viene spesso messo in discussione da una pluralità di voci che assegnano alla stessa parola connotazioni molto diverse, con profonde implicazioni sul piano operativo delle politiche di cooperazione da implementare. Il tutto in un’epoca storica in cui l’umanità si trova -per strumenti, risorse, conoscenze e capacità- nella condizione più favorevole che si sia mai verificata per sconfiggere definitivamente la povertà estrema.

Si comprende facilmente come quello attuale sia un momento di profondo ripensamento delle strategie che, con fatica e sulla base di un processo di trial and error tuttora in corso, sono state concepite, analizzate e messe in atto dal dopoguerra ad oggi. Un periodo di intenso dibattito, un laboratorio di idee, ma anche una doverosa presa di coscienza che l’inizio del terzo

1 ROSENAU J. N., State, Sovereignty and Diplomacy in the Information Age, Virtual Diplomat, 1999.

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millennio rischia di divenire tristemente noto come quello delle occasioni mancate, delle promesse disattese. Recuperare gli strumenti concettuali elaborati negli ultimi decenni e adattarli al mutato contesto del mondo post-bipolare, dando il giusto ruolo ai nuovi attori emersi sulla scena internazionale, diventa quindi una sfida stimolante, attuale e necessaria al fine di giungere all’identificazione di un concetto di sviluppo e di un modello di cooperazione in grado non solo di raggiungere le priorità dell’agenda globale, ma anche di dare il giusto riconoscimento ai nuovi protagonisti delle relazioni internazionali, nell’ottica di uno sviluppo umano, bottom-up e partecipato.

L’itinerario che si è scelto di seguire si snoda tra la dimensione globale e quella locale, alla ricerca di una sintesi che bilanci il rispetto del particolarismo e delle specificità con le tendenze all’universalismo del mondo contemporaneo. Presupposto fondamentale dell’analisi, infatti, è la convinzione che, nell’attuale scenario internazionale, siano proprio i governi di prossimità -e in particolar modo le città- a godere delle maggiori prospettive di azione e successo nella promozione della pace e dello sviluppo: se il forte radicamento territoriale consente alle entità substatali di preservare il proprio patrimonio identitario dalle tendenze omologatrici e uniformanti, è al tempo stesso vero che è proprio la percezione della propria soggettività a consentire loro un’importante capacità di apertura nei confronti dell’esterno, in grado di affermare un modello di globalizzazione basato non su rapporti di potere ma su partnership durature e stabili.

Ecco, dunque, la relazione che spiega la scelta di occuparsi, simultaneamente, di due mondi apparentemente così distanti come quelli dei grandi obiettivi globali fissati in sede Nazioni Unite e delle istanze di governo più piccole e prossime alla cittadinanza. Mai come oggi, infatti, è proprio su scala locale che è necessario lavorare per sradicare le cause degli squilibri e delle disuguaglianze che portano alla diffusione di insicurezza, povertà, violenza, senza ignorare che la strada che gli enti locali devono percorrere per affermarsi in maniera ufficiale e stabile come attori riconosciuti di global governance è ancora all’inizio, con la conseguente carenza di certezze assolute sul percorso da seguire e sulle modalità di intervento da ritenere valide.

Di qui, allora, la decisione di affiancare a un approccio di carattere teorico, volto a realizzare un’elaborazione organica del materiale disponibile in relazione agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e all’universo delle relazioni internazionali decentrate, un’ottica più pragmatica, incentrata sull’esame di un case study. In particolare, poi, la scelta di analizzare il caso del Comune di Roma è motivata dall’eccezionalità della città in questione, che aspira a un ruolo di leadership mondiale nella lotta contro la povertà nel mondo e che, per tradizione storica, religiosa e artistica, ma anche per la presenza di un tessuto associativo ricco e di numerose organizzazioni multilaterali o rappresentanze diplomatiche, presenta una innata vocazione internazionale, ponendosi -geograficamente e simbolicamente- come ponte tra est ed ovest e, soprattutto, tra Nord e Sud del mondo.

Ciò che risulta è, dunque, un tentativo di ricomporre –pur senza pretese di esaustività, data la vastità del campo di analisi- i vari tasselli delle relazioni internazionali decentrate impegnate nella lotta contro la povertà e per la pace, con particolare attenzione a quelle capitoline, mettendo in rilievo luci ed ombre del panorama contemporaneo e offrendo un contributo -auspicabilmente interessante e utile- all’appassionante dibattito tuttora in corso. 1. L’Agenda di Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite: i Millennium Development Goals.

Per comprendere la portata delle novità che l’inizio del nuovo millennio introduce nella

promozione internazionale dello sviluppo, in particolare con l’adozione della Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, è opportuno partire dalla presentazione di una breve panoramica

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delle principali teorie dello sviluppo stesso, volta a ricercare le radici di tale termine e a specificarne il significato. Infatti, malgrado il quadro delle priorità espresse dalla comunità internazionale in sede ONU per il nuovo millennio mostri la centralità acquisita da tale concetto, la nozione di sviluppo, lungi dall’essere univoca, si presta –e si è prestata storicamente- a molteplici interpretazioni diverse, sia con riferimento al contenuto, sia in relazione alle modalità per conseguirlo.

Occorre, quindi, partire dagli anni Quaranta e Cinquanta, che vedono i primi passi della cooperazione internazionale e della sua elaborazione teorica, con la nascita delle istituzioni finanziarie internazionali di Bretton Woods2 e la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.3

Nonostante la forte attenzione riservata allo sviluppo economico in quanto condicio sine qua non per un pieno godimento dei diritti individuali nonché in qualità di presupposto fondamentale per la pace e la sicurezza, come mostrato dalla Carta dell’ONU e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la concezione teorica dello sviluppo nel secondo dopoguerra è ancora di carattere lineare e si basa sulla pura misurazione del reddito, senza alcun riferimento a parametri di carattere qualitativo4. Le prime elaborazioni, infatti, non sono altro che una semplice estensione della teoria economica convenzionale, che identifica lo sviluppo con la crescita e l’industrializzazione, e nascono con lo scopo di risolvere il problema della ricostruzione post-bellica in Europa, giungendo però alla determinazione di una ricetta applicabile a qualsiasi contesto sociale, economico e culturale5, come suggerito dalla logica di “colonialismo ideologico” alla base della Guerra Fredda.

Per assistere alle prime contestazioni dell’idea che esista una via unica per raggiungere lo sviluppo occorre attendere fino al decennio successivo. Così, con gli anni Sessanta si passa da un unico coro a una pluralità di voci. In particolare, il fallimento della strategia di import substitution promossa dalla CEPAL6 e volta a favorire l’accumulazione capitalistica e l’industrializzazione nei PVS attraverso la protezione e il sovvenzionamento dei settori nascenti, porta da un lato alla rinascita neoclassica, profondamente critica verso il protezionismo e l’interventismo statale, e dall’altro al nuovo approccio della cosiddetta Scuola della Dipendenza, 2 Vale la pena ricordare che la Conferenza internazionale tenutasi nell’aprile del 1944 a Bretton Woods determina la nascita di due importanti istituzioni, tuttora operanti: la Banca Internazionale di Ricostruzione e Sviluppo (BIRS), nota anche come Banca Mondiale, concepita con il mandato di combattere la povertà nei Paesi poveri, e il Fondo Monetario Internazionale (IMF), preposto alla prevenzione delle crisi finanziarie internazionali. 3La nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite può essere fatta risalire al 25 Aprile 1945, data della Conferenza di San Francisco. 4 L’assenza di riferimenti alle componenti qualitative dello sviluppo deriva dalla convinzione che esista un automatico meccanismo di trickle down (a cascata), per il quale gli effetti positivi derivanti dal processo di crescita del reddito sono destinati a ricadere inevitabilmente sull’intera popolazione. In questa direzione va, in particolare, l’analisi di Kunetz nota come “ipotesi della curva ad U”, secondo cui esiste, nel corso della crescita economica, una tendenza iniziale della disuguaglianza ad aumentare, per poi stabilizzarsi e infine diminuire. Cfr. KUNETZ S. “Economic Growth and Income Inequality”, in American Economic Review, Vol. 45, Marzo 1955. 5 Il principale esponente del cosiddetto “paradigma della modernizzazione” è senz’altro W.W. Rostow, autore della celebre “teoria degli stadi”, secondo cui ciascuna economia, nel suo progresso verso lo sviluppo, deve attraversare inevitabilmente cinque fasi consecutive o stadi (primitivo, della transizione, del take-off, della maturità, del consumo di massa), ciascuna caratterizzata da specifici fenomeni economici, istituzionali e sociali. Cfr. ROSTOW W.W., The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Cambridge University Press, Cambridge, 1960. 6 La CEPAL, Commissione Economica per l’America Latina, nasce nel 1948 a Santiago del Cile nel contesto delle strategie di ricostruzione postbellica delle Nazioni Unite e rappresenta la soddisfazione concreta della richiesta dei Paesi Sudamericani di una propria commissione autonoma operante su scala regionale.

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la cui tesi centrale è che sviluppo e sottosviluppo siano fenomeni connessi fra loro in quanto aspetti del medesimo processo storico di formazione del sistema capitalistico mondiale. Secondo tale scuola, infatti, le economie arretrate sono dipendenti da quelle sviluppate e lo sviluppo è alimentato dal sottosviluppo, perché la legge del vantaggio comparato penalizza i Paesi del Terzo Mondo, specializzati nella produzione di materie prime e dunque maggiormente vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi.

Nel frattempo, anche sul fronte Nazioni Unite nasce una profonda consapevolezza del fatto che la prospettiva di un imminente decollo del Terzo Mondo si allontana sempre di più e che, di conseguenza, sono necessari profondi cambiamenti e nuove prospettive. Così, la crescente preoccupazione dei Paesi in via di sviluppo per la propria collocazione nell’ambito del commercio internazionale porta alla convocazione, nel 1964, della prima Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), concepita come forum alternativo al GATT 19477; nel 1966, inoltre, vengono aperti alla firma i due Patti internazionali delle Nazioni Unite –l’uno sui diritti civili e politici, l’altro sui diritti economici, sociali e culturali- che traducono per la prima volta in norme pattizie i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, aggiungendo, però, un importante e innovativo riferimento al diritto dei popoli all’autodeterminazione e a disporre liberamente delle proprie risorse per perseguire il proprio sviluppo.

E’ facile, allora, notare come le premesse per una ventata di novità siano state poste. Tale clima, poi, viene rafforzato dagli shock petroliferi del 1973-1974, che portano a una definitiva messa in discussione dell’idea che lo sviluppo sia raggiungibile solo con i propri mezzi: la crisi energetica, infatti, rende evidente la non inesauribilità delle risorse naturali e l’esistenza di limiti fisici alla crescita industriale, fulcro del tradizionale modello di sviluppo occidentale, mostrando, inoltre, come anche i Paesi sviluppati siano deboli e dipendenti.

Così, la presa di coscienza dei vincoli che legano le diverse aree del sistema economico fa sì che le linee teoriche della scuola dipendentista sfocino nel nuovo approccio dell’interdipendenza, la cui componente più rilevante è costituita dall’“economia mondo di Immanuel Wallerstein. In questo caso, l’intera economia viene vista come capitalistica, mentre il sistema si compone di un centro, una periferia ed una semiperiferia, inseriti in un unico quadro che va quindi analizzato nel suo complesso e da cui è impossibile, per un singolo Paese, “sganciarsi”, come auspicato dai dipendentisti, senza che cambi l’intero sistema.

Nello stesso periodo, poi, nascono il concetto di sviluppo sostenibile, definito dal Rapporto Brundtland dell’ONU come quello “sviluppo che fa fronte alle necessità del presente, senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le proprie esigenze” e l’approccio dei basic needs8, elaborato dall’ILO, che pone la riduzione della povertà e il miglioramento delle condizioni di vita essenziali della popolazione come obiettivo fondamentale delle azioni di cooperazione internazionale.

Malgrado i progressi fatti sulla strada di una definizione di sviluppo che non si riduca a pura crescita economica, gli anni Settanta terminano con una rinnovata attenzione al monetarismo e al neoliberismo, destinati a divenire la base delle politiche di aggiustamento strutturale messe in atto dalle istituzioni economiche internazionali negli anni Ottanta, tristemente noti come il

7 Il General Agreement on Trade and Tariffs (Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio, meglio conosciuto come GATT) è un accordo internazionale, firmato il 30 ottobre 1947 a Ginevra (Svizzera) da 23 Paesi -poi destinati ad aumentare vertiginosamente- per stabilire le basi per un sistema multilaterale di relazioni commerciali con lo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio mondiale. Il GATT è confluito poi nel pacchetto di accordi internazionali alla base dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, creata nel 1994. 8 ILO, Employment, Growth and Basic Needs: A One World Problem, Report of the Director General of the ILO to the Tripartite World Conference on Employment, Income Distribution and Social Progress, and the International Division of Labour, Geneva, 1976.

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“decennio perso dello sviluppo” a causa del fallimento degli interventi implementati. In particolare, la dottrina prevalente in questo periodo fa appello alla liberalizzazione del commercio, alla promozione del settore privato, alla rimozione del controllo sui prezzi e dei sussidi, dando luogo a una “nuova ortodossia” nota come Washington Consensus9, secondo cui lo sviluppo non deve essere visto come una reazione automatica a stimoli esterni ma come un processo economico da attivare volontariamente e con determinazione, rimuovendo eventualmente anche le strutture statali che impediscono la crescita. Tali misure, fortemente incentrate sull’affermazione del libero mercato, presentano l’economia USA come modello da seguire, proponendo la liberalizzazione del commercio internazionale e degli investimenti diretti esteri, la privatizzazione delle imprese statali, la ridefinizione della spesa pubblica -da dirigere verso settori chiave per la crescita economica, come l’istruzione, la salute o le infrastrutture- e la garanzia dei diritti di proprietà.

Sebbene la rinascita del monetarismo sembri segnare una battuta d’arresto nel processo di emancipazione dello sviluppo dal riduzionismo del passato, è necessario notare come sia proprio alla fine del decennio in questione che vengono poste le basi per la nascita di un orientamento nuovo, incentrato sull’individuo e le comunità in cui questi vive, che porta all’affermazione di un “nuovo umanesimo” dello sviluppo. E’ l’economista indiano Amartya Sen, infatti, a proclamare con forza la necessità di misurare il livello di benessere di una popolazione in termini di capabilities e funzionamenti, subordinando l’importanza del reddito e del possesso di beni alla possibilità che questi offrono di esercitare libertà fondamentali10. Da parte dell’ONU, inoltre, si arriva all’adozione della Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo, nel 1986, che contiene il primo riconoscimento esplicito del diritto allo sviluppo, posto in capo tanto agli individui quanto ai popoli.

Si giunge così, con l’inizio degli anni Novanta, a una vera e propria svolta: presa coscienza della fine della contrapposizione bipolare e del conseguente asservimento della cooperazione alla diffusione delle ideologie, l’UNDP elabora la nozione di sviluppo umano -uno sviluppo, cioè, in grado di fornire ad ogni essere umano la possibilità di realizzare la propria libertà e di vivere una vita lunga, sana e creativa11- misurabile attraverso un nuovo indice, lo Human Development Index, basato sull’interazione di reddito, speranza di vita alla nascita e grado di alfabetizzazione degli adulti. Le Nazioni Unite, allora, promuovono la nascita di una piattaforma globale per lo sviluppo, organizzando una serie di grandi Vertici mondiali volti ad affrontare i temi di maggiore rilevanza per il pianeta, dalla sostenibilità ambientale -con la Conferenza di Rio de Janeiro- allo sviluppo sociale -con il Summit di Copenaghen-.

Così, a suggellare questo lungo processo di dialogo ed elaborazione, interviene la firma -nel settembre del 2000- della Dichiarazione del Millennio, documento espressione del consenso raggiunto dalla comunità internazionale sull’identificazione della lotta contro la povertà come priorità del XXI secolo. Per scongiurare, poi, il rischio che le disposizioni adottate restino lettera morta, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite chiede al Segretario Generale di articolare gli impegni presi dai leader mondiali in una serie di obiettivi specifici da perseguire, misurabili e suscettibili di monitoraggio e valutazione. Nascono così i Millennium Development Goals (MDGs), una road map operativa costituita da otto Obiettivi, a loro volta articolati in diciotto

9 Tale espressione è coniata alla fine degli anni Ottanta da John Williamson ad indicare un insieme piuttosto specifico di dieci ricette di politica economica ritenute una sorta di “pacchetto standard” da applicare ai Paesi assistiti dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dal Dipartimento del Tesoro statunitense. 10 SEN A., Development as Freedom, Oxford University Press, Oxford, 1999 (trad. It.: Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano, 2000). 11 Cfr. UNDP, Rapporto 1993 sullo sviluppo umano. Le azioni politiche contro la povertà, Rosemberg and Sellier, Torino, 1993.

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traguardi intermedi e misurabili sulla base di quarantotto indicatori quantitativi, volti a diffondere lo sviluppo perseguendo le seguenti finalità:

Obiettivo 1: Eliminare la povertà estrema e la fame. Obiettivo 2: Raggiungere l’istruzione elementare universale. Obiettivo 3: Promuovere l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne. Obiettivo 4: Diminuire la mortalità infantile Obiettivo 5: Migliorare la salute materna. Obiettivo 6: Combattere l’HIV/AIDS, la malaria e le altre malattie. Obiettivo 7: Assicurare la sostenibilità ambientale. Obiettivo 8: Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo.

Presentati alla comunità internazionale nel 2001, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio non

offrono una visione del mondo radicalmente nuova, dal momento che aspirano a proporsi come sintesi di quanto elaborato in decenni di riflessioni e pratiche di cooperazione, ricalcando –volontariamente- i risultati emersi dalle Conferenze degli anni Novanta e dagli Obiettivi elaborati nel 1996 dal Comitato sull’Aiuto allo Sviluppo dell’OCSE12. Tuttavia, gli MDGs hanno l’innegabile merito di definire in modo chiaro e inequivocabile le priorità dell’agenda internazionale, segnalando in modo preciso i settori centrali di intervento per il raggiungimento di uno sviluppo di qualità e focalizzando l’attenzione su temi di grande rilievo e problematiche urgenti, offrendo quindi, in sintesi, una precisa direzione di marcia verso cui ogni soggetto attivo nell’aiuto allo sviluppo è invitato a orientare la propria azione..

Pertanto, malgrado le critiche che li accusano di ridurre le grandi tragedie del mondo a semplici numeri, gli Obiettivi del Millennio mostrano una serie di importanti potenzialità. In primo luogo, infatti, essi sono incentrati su una visione dello sviluppo volta ad affermare la centralità dell’essere umano, con i propri bisogni e aspirazioni; inoltre, essendo dotati di una scadenza temporale ben precisa, essi si pongono come importante strumento di responsabilizzazione del ceto politico tanto dei Paesi in Via di Sviluppo quanto di quelli del Nord del Mondo, consentendo alle istituzioni multilaterali, alla società civile organizzata, agli attori di cooperazione internazionale e persino ai singoli cittadini di tenere sotto controllo le azioni intraprese e i progressi realizzati, denunciando eventualmente le promesse disattese e gli obiettivi mancati. Infine, gli Obiettivi del Millennio lanciano sì una sfida ambiziosa, ma anche un forte ed esplicito messaggio positivo, riconoscendo l’effettiva e reale possibilità, allo stato attuale, di eliminare definitivamente la povertà attraverso la creazione di una partnership globale che coinvolga tutti gli stakeholders.

Malgrado le potenzialità sopra elencate, se si passa dal piano delle intenzioni a quello dei fatti il quadro che emerge mostra come i progressi effettuati non possano essere ritenuti sufficienti. Se in alcuni ambiti le sinergie create e gli sforzi fatti sono stati canalizzati nella giusta direzione e hanno portato a risultati apprezzabili, come nel caso della crescita del numero di Paesi che si avvicinano al conseguimento dei traguardi dell’istruzione elementare universale (Obiettivo 2) e della parità di accesso alla scuola primaria e secondaria (Obiettivo 3), in altri campi la situazione è decisamente scoraggiante, come mostrato, ad esempio, dal fatto che solo

12 Si fa riferimento al rapporto “Shaping the 21st century: the contribution of development cooperation”, che identifica sette obiettivi da perseguire, vale a dire quelli di dimezzare il numero di persone in condizioni di povertà estrema entro il 2015, di garantire l’accesso all’istruzione elementare universale entro il 2015, di dimostrare progresso verso la parità dei sessi mediante l'eliminazione delle diseguaglianze nell'istruzione elementare e media entro il 2005, di ridurre di due terzi i tassi di mortalità infantile e dei bambini di età inferiore ai cinque anni, e di tre quarti i tassi di mortalità materna, entro il 2015, di fornire accesso a servizi di salute riproduttiva per tutti gli individui di età idonea entro il 2015, di implementare strategie nazionali di sviluppo sostenibile entro il 2005.

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un quinto dei PVS appare in grado di raggiungere l’obiettivo di ridurre la mortalità infantile entro i tempi previsti. Inoltre, la consapevolezza da parte dell’opinione pubblica delle tematiche contenute negli MDGs e dell’urgenza di agire per conseguirli è ancora scarsa13, malgrado i progressi compiuti grazie alle azioni della società civile e alle attività di sensibilizzazione organizzate dalla Campagna No Excuse 201514.

In sintesi, dunque, molto ancora deve essere fatto per non mancare gli Obiettivi. In particolare, per consentire una maggiore diffusione degli MDGs e la messa a punto di interventi più efficaci per il loro conseguimento appare indispensabile, oltre all’azione governativa, un più ampio riconoscimento del ruolo dei governi subnazionali, tanto nel Sud del mondo, dove è necessario un supporto ai processi di decentramento al fine di avvicinare i servizi all’intera popolazione -incluse le comunità più difficilmente raggiungibili- quanto nel Nord, dove la vicinanza dell’istituzione ai cittadini consente di ascoltarne la voce e la conoscenza del territorio permette la valorizzazione delle risorse. Il tutto nell’ottica di uno sviluppo umano e partecipato, che trovi fondamento nelle peculiarità di ogni società e faccia degli attributi comunitari della stessa la propria ricchezza.

2. Le relazioni internazionali tra interdipendenza e dimensione locale: glocalismo, city diplomacy e cooperazione decentrata.

Ogni momento a cavallo tra due secoli, come la storia insegna, si pone come fase di transizione, una sorta di ponte tra vecchi paradigmi ormai in discussione e nuovi valori all’orizzonte. Questo è ancor più vero quando, come nel caso del “secolo breve”, il punto di cesura è rappresentato da un evento dirompente come il crollo del muro di Berlino, con la conseguente fine dell’ordine internazionale di cui esso era simbolo, la cui “apparente semplicità velava appena, sul piano dei contenuti reali, la complessità delle situazioni da esso ordinate concettualmente”15.

Così, venuta meno la logica bipolare, gli anni Novanta vedono l’esplodere di contraddizioni in precedenza celate, oltre a nuove sfide e problematiche. Il mondo appare in bilico tra tendenze dicotomiche e contrastanti (piccolo/grande, locale/globale, vecchio/nuovo, laico/religioso), alla ricerca di un equilibrio che non può che essere multidirezionale. Si comprende, allora, la difficoltà di capire e sintetizzare il complesso quadro di fine secolo, trovando uno schema interpretativo condiviso e univoco che spieghi i fenomeni attuali.

Certo è che la fine della storia, con il conseguente sopraggiungere di un’epoca priva di contrasti e contrapposizioni, non si è verificata16, e anzi si assiste alla cosiddetta globalizzazione della violenza: la disponibilità di sofisticate tecnologie di comunicazione e informazione a basso costo, l’accresciuto accesso a mercati internazionali, la facilità dei trasporti e degli spostamenti rendono possibile una diffusione della violenza prima sconosciuta, e aprono la strada all’espansione di fenomeni quali il terrorismo internazionale, la minaccia di armi batteriologiche, l’estremismo religioso o nazionalistico, oltre a una rinnovata corsa al riarmo, sia pur di natura diversa. Egualmente semplicistica appare anche la visione secondo cui sarebbe

13 J. FRANSMAN, A.L. MACDONALD, I. MC DONNELL, G. PONS-VIGNON, Public Opinion Polling and the Millennium Development Goals, OECD Working paper N. 238, October 2004. 14La Campagna del Millennio “No excuse 2015” è stata lanciata nel 2002 dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza del patto tra Sud e Nord del mondo che gli MDGs rappresentano e per ricordare ai governi gli impegni assunti. 15 DI NOLFO E., Storia delle Relazioni Internazionali. 1918-1999, Editori Laterza, Roma, 2005. 16 Si fa riferimento alla nota tesi presentata da Francis Fukuyama nel saggio “The end of History?” sulla rivista The National Interest, e poi ampliata e divulgata con la pubblicazione del volume La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.

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possibile dividere il mondo in “aree di pace e democrazia” e “aree di disordine e conflitto”17: le più grandi tragedie dell’ultimo ventennio, dalla guerra nell’ex-Jugoslavia al genocidio del Rwanda, fino all’attuale drammatica crisi del Darfur, si caratterizzano per il fatto di essere nate da focolai intrastatali e di matrice etnico-religiosa; inoltre, anche Paesi dalla radicata tradizione democratica come la Francia, l’Austria o la Germania, hanno assistito alla rinascita di correnti di estrema destra, con il rischio di pericolosi sconfinamenti nella xenofobia e nel populismo.

Quelli citati sono solo alcuni esempi della varietà di orientamenti volti a dare un’interpretazione della realtà contemporanea; tuttavia, essi sono sufficienti per capire come, ad oggi, manchi una visione condivisa in grado di inquadrare le attuali tendenze in categorie concettuali ben definite. Ciò che appare chiaro, comunque, è che questo contesto in mutamento non può che offrire importanti scenari di intervento ad attori nuovi, che siano al tempo stesso più vicini ai cittadini e alle loro istanze e in grado di agire sulla scena internazionale. Il mondo non governativo, le imprese, i sindacati o le università cominciano quindi a ricoprire un ruolo rilevante in qualità di gruppi di pressione, quando non di interlocutori diretti del potere; tuttavia, sono le amministrazioni locali –e soprattutto le città- a destare particolare interesse, poiché sono dotate -a differenza degli altri soggetti sopra citati- della legittimazione derivante dal voto popolare e sembrano in grado, operando all’interno del “sistema Stato”, di bilanciare le attuali spinte centrifughe e disgregatrici con istanze di coordinamento e concertazione.

D’altra parte, l’accresciuta presenza di minacce alla sicurezza internazionale, accentuata dall’inadeguatezza dello Stato nazione tradizionale -che vede i grandi temi globali affrontati fuori dal proprio spazio decisionale- fa sì che gli effetti dei fenomeni internazionali si riversino direttamente sulle comunità locali. Pertanto, sono proprio i governi di prossimità a dover affrontare, quotidianamente e in prima persona, i problemi della globalizzazione e delle criticità dell’attuale modello di sviluppo, acquisendo una legittimazione sostanziale ad agire in ambiti prima riservati all’azione esclusiva della comunità degli Stati sovrani. Infine, il riconoscimento del principio di sussidiarietà, che vede l’ente locale -per sua stessa natura costitutiva- come primo garante dei diritti umani per gli abitanti del territorio amministrato, in quanto a questi più vicino, conferisce alle autorità subnazionali un’aura di legittimità formale.

Sono questi i presupposti che rendono il glocalismo, fusione -anche etimologica- dei complessi fenomeni della globalizzazione con la rinnovata attenzione alla dimensione locale, una teoria ricca di prospettive, in quanto volta a coniugare le specificità di ogni contesto con quel connotato di interdipendenza che caratterizza il pianeta all’inizio del III millennio. Esso, in particolare, esprime l’aspirazione a un ordine internazionale riformato e decentrato, in cui le città possano fare da ancora tra la dimensione economica e di governance mondiale e quella sociale e culturale specifica di un determinato luogo, perché il collegamento tra comunità locali tra loro, con conseguente scambio di risorse e know-how, riesca a portare a un sistema internazionale innovativo, che passi dal tradizionale balance of power dell’ordine ottocentesco a un balance di interessi culturali e bisogni locali, senza però chiusure di carattere nazionalistico o dalle pretese autarchiche18.

A conferma delle potenzialità della visione sopra riportata è possibile citare il fatto che anche la diplomazia -tradizionalmente ritenuta appannaggio esclusivo degli Stati sovrani e, in misura minore, degli altri soggetti di diritto internazionale- mostra oggi segnali di apertura verso l’apporto di nuovi attori, dopo essere stata associata esclusivamente, per secoli, all’azione di ambasciatori e inviati. La commistione tra politica interna e politica estera, l’empowerment della società civile e la moltiplicazione dei centri di potere e delle relazioni più o meno formali tra attori di Stati diversi, infatti, mettono in discussione la vecchia concezione dei rapporti

17 Per questa visione si vedano SINGER M. e WILDAWSKI A., The real World Order: Zones of Peace/Zones of Turmoil, Chatham House, Chatham (New Jersey), 1993. 18 CERFE, THE GLOCAL FORUM, The Glocalization Manifesto, Rome, 2004.

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diplomatici, consentendo loro di recepire quel pluralismo e quei cambiamenti che informano la vita di ogni cittadino e di ogni istituzione del “villaggio globale”19.

Così, già dalla fine degli anni Ottanta si afferma la teoria della Multi-Track Diplomacy, un sistema multidisciplinare che intende le relazioni internazionali e diplomatiche come un processo fondato sull’interrelazione e la connessione delle componenti del sistema stesso20. L’idea alla base di tale visione, infatti, è che ogni settore della società sia importante per la creazione di un clima di dialogo e coesione, e sia pertanto in grado di concorrere alla realizzazione delle condizioni di risoluzione dei conflitti attuali o potenziali, necessitando di essere informato, supportato, ascoltato e reso partecipe.

La definizione e il campo di azione della diplomazia vengono dunque ampliati e immaginati come l’interazione dinamica tra nove canali (tracks) di intervento, concepiti in modo non gerarchico, la cui sinergia crea quel valore aggiunto che rende il sistema più efficace e prezioso della semplice somma delle sue parti. Senza dimenticare il ruolo fondamentale dei negoziati ufficiali e governativi, allora, si sottolinea l’importanza della diplomazia non governativa e di quella cittadina, del mondo economico, delle istituzioni di ricerca e studio, dei movimenti, della religione, dei mass media e delle agenzie di fund raising, attori non tradizionali ma indispensabili per porre in essere tutto l’intreccio di relazioni e rapporti in grado di creare fiducia reciproca tra le parti e preparare il terreno ai negoziati ufficiali.

Il tentativo di adattare la diplomazia ai cambiamenti del mondo contemporaneo, aprendola alle nuove istanze della globalizzazione e rendendola flessibile, appare degno di nota; tuttavia, ai fini del presente lavoro è necessario rilevare come il possibile apporto delle autonomie locali non sia preso in esame nello specifico, tanto che appare piuttosto difficile determinare il track (o i tracks) cui ricondurre la loro attività.

Perché si abbia tale riconoscimento occorre allora passare alle nozioni di paradiplomacy -abbreviazione di parallel diplomacy- e di city diplomacy21, che si fondano sull’idea che le città, in qualità di soggetti che vivono in prima persona le sfide e le disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione in termini di sviluppo e sicurezza, siano gli attori più adatti a risolvere le attuali problematiche internazionali dal basso, accudendo e stemperando le tensioni e i contrasti latenti prima che esplodano ed assicurando un livello di benessere e coesione tale da evitare violenza e disordini. Così, l’azione di promozione della pace messa in atto dai governi locali si lega agli interventi di sviluppo che mirano a sostenere la crescita economica, alla ricerca di un equilibrio tra questa e le dimensioni sociale e ambientale. In tale visione, dunque, l’azione diplomatica e quella di cooperazione sono fortemente connesse, tanto che la city diplomacy fornisce l’inquadramento teorico per quel nuovo laboratorio di politiche e pratiche noto sotto il nome di cooperazione decentrata.

Nata spontaneamente a partire dagli anni Novanta per rispondere alla situazione di stallo delle azioni di promozione internazionale dello sviluppo, la cooperazione decentrata si basa sull’idea che i governi di prossimità, grazie al rapporto con il territorio ma anche alla legittimità istituzionale di cui godono, possano promuovere un modello di sviluppo locale applicabile su scala globale, ponendosi come attori cruciali nella lotta contro la povertà nel mondo. Tali amministrazioni, infatti, appaiono in grado di creare un nuovo multilateralismo più vicino alla popolazione e più democratico, grazie alle numerose chances di dialogo e concertazione con gli

19 Cfr. M. MCLUHAN, B.R. POWERS, Il villaggio globale, SugarCo, Milano, 1992. 20 DIAMOND L., MCDONALD J., Multi-Track Diplomacy: a system approach to peace, West Hartford, Kumarian Press, 1996. 21 Si vedano, in particolare, ADELCOA F., KEATING M. (a cura di), Paradiplomacy in action. The Foreign Relations of Subnational Governments, Frank Cass, Londra, 1999, e CERFE, THE GLOCAL FORUM, City-to-City Cooperation Cost effectiveness Analysis, Rome, 2004.

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attori della società civile organizzata presenti sul territorio e con il mondo della cultura, delle imprese, dei sindacati e della diaspora. Per di più, le comunità locali hanno il merito di saper lavorare in rete e collaborare alla pari, scambiandosi metodologie, competenze e know-how anche quando provengono da contesti culturali, economici o sociali profondamente diversi.

Proprio quest’ultima caratteristica, in particolare, è alla base del modello di cooperazione decentrata promosso dalle Nazioni Unite a partire dai primi Programmi-quadro (PDHL) e fino alla nascita dell’iniziativa ART22 attualmente in corso. La metodologia di azione proposta, infatti, mira a risolvere i mali della cooperazione tradizionale attraverso una ricetta basata sul decentramento, sulla partecipazione degli stakeholders e sulla concertazione, con la prospettiva di un approccio integrato e di interventi volti a stimolare l’autonomia delle fasce deboli, assicurando così la sostenibilità dei progetti. Il tutto attraverso l’elaborazione di un “documento di marketing territoriale”, uno strumento con cui è la stessa comunità locale ad analizzare il proprio territorio mettendone in luce le ricchezze e le criticità e suggerendo i campi di azione su cui lavorare.

Anche l’Unione europea ha da tempo aperto la propria strategia di promozione dello sviluppo all’apporto di attori diversi dai governi nazionali. Il riconoscimento dell’importanza della cooperazione decentrata, infatti, comparso con la IV Convenzione di Lomè del 1989, resta da allora costante in tutto il percorso evolutivo del progetto comunitario, tanto che la suddetta modalità di azione sembra divenuta una dei perni della cooperazione europea del futuro ed è provvista di un apposito strumento di bilancio23. Occorre rilevare, però, che l’approccio comunitario si caratterizza per una definizione più ampia di decentralized cooperation, in cui i governi territoriali rivestono una centralità minore rispetto a quanto visto in relazione all’ONU e a quanto si vedrà per l’Italia: affinché tale fattispecie si configuri, infatti, non è necessaria la presenza di un ente locale, ma è sufficiente fare riferimento ad azioni implementate da attori diversi rispetto ai governi centrali degli Stati membri o di quelli partner.

Più complesso è, invece, il quadro che caratterizza il panorama italiano, in cui il processo di regolamentazione della cooperazione non è andato del tutto di pari passo con quello di decentramento amministrativo e di riforma costituzionale. Il nuovo Titolo V, infatti, inserisce la politica estera tra le competenze esclusive dello Stato e, dal momento che la legge n. 49 del 1987 -che regola la cooperazione- la definisce come parte integrante della politica estera, il margine di legittimazione della decentrata appare piuttosto limitato. Così, se da una parte c’è chi ritiene che l’art. 1 della legge 49/87 sia pervaso da un’ambiguità di fondo -poiché non spiega se sia la politica estera a doversi ispirare alla cooperazione allo sviluppo o viceversa- e risolve la questione appellandosi alla Costituzione e, in particolare, al principio solidaristico affermato

22 I PDHL (Programmi di Sviluppo Umano Locale) proposti e finanziati dalla cooperazione italiana sul canale internazionale multibilaterale attraverso l’UNDP e avviati in numerosi Paesi, sono programmi mirati a sviluppare contemporaneamente tutte le componenti di base dello sviluppo con una metodologia basata su partenariati tra autorità locali italiane ed enti omologhi del Paese partner, coordinati e gestiti all’interno di un Programma concordato con il governo centrale. Il Programma ART, “Appoggio alle reti territoriali e tematiche di cooperazione allo sviluppo umano” è invece un’iniziativa di cooperazione internazionale nata nel 2004, che associa programmi e attività di diversi segmenti delle Nazioni Unite (tra cui UNDP, UNESCO, UNIFEM, OMS e UNOPS) al fine di promuovere un nuovo multilateralismo in cui l’ONU lavora con i governi favorendo la partecipazione attiva delle comunità locali e degli attori sociali del Sud e del Nord. In particolare, l’approccio intersettoriale di ART integra i temi -considerati complementari- della governance, dell’ambiente, dell’assetto del territorio, dello sviluppo economico locale, dei sistemi locali di sanità e welfare e di quelli per l’educazione di base e la formazione attraverso la metodologia dei Programmi-quadro, nella logica del cosviluppo. 23 Nel 1992, infatti, l’autorità di bilancio comunitaria decide di destinare una nuova e apposita linea di finanziamento, poi rinnovata, alla cooperazione decentrata, denominata B7-6000, volta a promuovere l’insieme delle attività di cooperazione poste in essere da attori diversi dai governi nazionali, incluse quindi le autonomie locali.

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dall’art. 2 e a quello internazionalistico degli artt. 10 e 11, ricavando la legittimità della cooperazione decentrata dal principio autonomistico presente all’art. 5, i sostenitori della recente riforma costituzionale sono invece dell’avviso che sia la cooperazione a doversi piegare agli imperativi della politica estera in quanto parte della stessa e competenza esclusiva dello Stato.

Da questo punto di vista, una possibile soluzione di carattere metodologico sembrerebbe potersi trovare nella nozione di “azioni di mera rilevanza internazionale”24, introdotta dalla Sentenza della Corte Costituzionale 179/87. Si tratterebbe, dunque, di legare le azioni di cooperazione decentrata al concetto appena menzionato, dotandolo così di legittimità: tale soluzione, malgrado un apparente declassamento degli interventi in favore dello sviluppo e della pace messi in atto dai governi locali, in realtà finirebbe per garantire loro autonomia, grazie all’individuazione di un ambito di azione conforme alla disciplina vigente. In ogni caso, il decreto di legge delega di riforma della cooperazione presentato dalla Viceministra degli Esteri Patrizia Sentinelli nell’aprile 2007 e attualmente sottoposto all’attenzione del Parlamento sembra far ben sperare nel senso di una disciplina più completa, organica e innovativa, che consenta una valorizzazione e un maggior riconoscimento delle comunità locali e dei loro governi.

Questi ultimi, infatti, appaiono indispensabili perché il valore aggiunto della cooperazione decentrata possa effettivamente esplicarsi; a tal fine, però, essi devono porsi non solo come ulteriori attori in un panorama già di per sé affollato e, per molti versi, confuso, ma come coordinatori e promotori di politiche innovative e coerenti e di riflessioni attente. Gli enti locali non sono esenti da responsabilità: essi devono mostrarsi in grado di mettere a punto politiche nuove, lungimiranti e di ampio respiro, che coniughino le azioni di paradiplomazia, di internazionalizzazione e di cooperazione, nonché la valorizzazione del territorio con la proiezione globale del proprio sviluppo.

3. Priorità globali e sviluppo locale: l’agenda del millennio per le amministrazioni territoriali.

Dopo aver delineato le principali caratteristiche dello scenario delle relazioni internazionali a

cavallo tra il secondo e il terzo millennio, soffermandosi prima sull’analisi e l’evoluzione dell’agenda globale e poi sull’esame degli attori che si affacciano al mondo della cooperazione, è possibile giungere a una sintesi tra le due dimensioni, al fine di determinare in che modo i nuovi protagonisti possano contribuire al perseguimento delle priorità individuate.

Sulla base di quanto finora esaminato, infatti, se da un lato si può affermare che gli Obiettivi del Millennio sono stati concepiti per un quadro di cooperazione tradizionale, indirizzandosi sostanzialmente ai governi nazionali, dall’altro è impossibile ignorare che gli enti locali sono ormai divenuti strategici per il raggiungimento delle priorità globali. Si tratta, dunque, di coniugare i due piani di analisi che, pur apparentemente antitetici, in realtà mostrano di essere reciprocamente complementari e vantaggiosi.

Così, da una parte è indispensabile localizzare gli MDGs se si vuole assicurare il loro raggiungimento in modo equilibrato, sostenibile e bottom-up: una delle critiche più frequentemente rivolte agli Obiettivi evidenzia che gli indicatori individuati pongono l’accento

24 In particolare, ai sensi dell’art. 2 del D.p.R. del 31 marzo 1994, sono attività di mero rilievo internazionale “studi e informazioni, scambio di notizie e di esperienze, partecipazione ad eventi, visite nell’area europea, rapporti conseguenti ad accordi o forme associative finalizzate alla collaborazione interregionale e transfrontaliera” e le “visite al di fuori dell’area europea, gemellaggi, formulazione di proposte di comune interesse, contatti con le comunità regionali all’estero”.

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solo sul risultato numerico da raggiungere, omettendo di fornire informazioni sul percorso metodologico da seguire e consentendo, così, ai governi, di concentrare gli sforzi sulle situazioni più semplici da risolvere e trascurare, invece, quelle più complesse e drammatiche. Al contrario, instaurare un forte rapporto di partenariato con le comunità locali, considerandole interlocutori privilegiati e ascoltando le loro istanze, permette di assicurarsi che gli interventi e le politiche messi in atto riescano effettivamente a indirizzarsi alle necessità dell’area di riferimento e a portare dunque benefici reali e sostenibili, in un’ottica di sviluppo locale che non perda, però, di vista, le dimensioni nazionale e sovranazionale. In aggiunta a ciò, occorre rilevare che è a livello locale che gran parte delle finalità perseguite dagli otto obiettivi è raggiungibile, poiché il soddisfacimento dei bisogni cui essi si indirizzano e la protezione dei diritti da essi tutelati dipendono essenzialmente da good practices o da inefficienze dei governi subnazionali, che provvedono in prima persona alla gestione e alla prestazione dei servizi di base25.

D’altro canto, è opportuno sottolineare come gli Obiettivi del Millennio non rappresentino solo, per gli enti locali, un traguardo verso cui lavorare, ma come essi siano, invece, soprattutto un’importante occasione di rafforzamento istituzionale e democratico e di acquisizione di competenze e know-how. Il processo di decentramento amministrativo, infatti, ritenuto ormai componente irrinunciabile nel perseguimento dello sviluppo sostenibile, ha valore solo se portato avanti in maniera democratica: il trasferimento di autorità dal livello centrale a quello subnazionale, se fatto in maniera puramente funzionale -ad esempio attraverso la nomina di emissari del governo che non hanno alcuna legittimazione popolare- può addirittura rivelarsi un modo per rafforzare la capacità del potere centrale di controllare il territorio periferico, quando non uno strumento di deresponsabilizzazione volto a dirottare lo scontento popolare su amministrazioni più vicine fisicamente ai cittadini ma senza poteri o risorse sufficienti per agire.

Da questo punto di vista, allora, gli Obiettivi forniscono alle amministrazioni locali uno strumento chiave per legittimare e consolidare i propri sforzi verso la promozione dello sviluppo, poiché riconoscono il valore della partecipazione e della collaborazione con la società civile locale, cui viene attribuito anche un potere di controllo e advocacy grazie alla disponibilità di indicatori numerici monitorabili, rafforzando la capacità democratica della comunità. Inoltre, incentivandole ad effettuare uno studio sistematico del territorio, coerente e multidisciplinare, gli MDGs incoraggiano le amministrazioni locali a pervenire a una più profonda conoscenza del contesto in cui operano, accrescendo la loro capacità di individuare politiche mirate e coerenti e dando impulso alla messa in atto di sforzi coordinati tra diversi settori e dipartimenti, con effetti positivi sul rendimento delle istituzioni in termini di policy coherence, struttura e organizzazione.

Infine, localizzando gli Obiettivi del Millennio e adattandoli al proprio contesto di riferimento, gli enti locali possono acquisire un linguaggio internazionale comune, che consenta loro di comunicare senza ostacoli tanto con enti omologhi quanto con il governo nazionale e con le grandi istituzioni mondiali, facendo sì che anche l’opinione pubblica internazionale si interessi maggiormente alla dimensione locale dello sviluppo.

Data l’importanza del tema in questione, negli ultimi anni sono state avanzate, a vari livelli, alcune proposte volte a tradurre gli Obiettivi del Millennio in modalità di azione implementabili a livello locale. Le opinioni espresse, però, non sono del tutto unanimi; se da parte di alcuni si mette l’accento sulla possibilità, da parte degli enti locali, di lavorare sulla sensibilizzazione, l’informazione e la mobilitazione della cittadinanza sui grandi temi che sono alla base degli 25 E’ opportuno precisare che l’accento posto sull’attività delle città, tra i vari livelli di amministrazione locale, deriva dalla tendenza ormai diffusa all’urbanizzazione della povertà: si prevede, infatti, che entro il 2025 otto miliardi di persone -circa il 60% della popolazione mondiale- vivranno in realtà urbane. In quest’ottica, i grandi problemi globali, dalla povertà all’ambiente, fino alla tutela dei diritti fondamentali della persona, diventano questioni da gestire a livello locale e, soprattutto, comunale.

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MDGs, altri insistono sulla necessità di un intervento più attivo delle amministrazioni del Nord nei progetti di cooperazione allo sviluppo. In ogni caso, le elaborazioni teoriche volte a localizzare l’Agenda del Millennio delle Nazioni Unite si sono indirizzate, principalmente, verso due tipi di azione: da un lato si è preferito focalizzare l’attenzione sull’elaborazione di una strategia puntuale volta a integrare gli Obiettivi nell’insieme delle politiche di competenza dell’ente, tenendoli in considerazione nella formulazione del bilancio, nell’ottica di un approccio integrato; dall’altro, invece, il lavoro è stato incentrato sulla messa a punto di liste di interventi concreti e di esempi pratici.

Quanto al primo approccio, il tentativo più interessante è quello effettuato da UN-HABITAT, che aspira a fare degli Obiettivi del Millennio il quadro di riferimento dell’azione complessiva delle amministrazioni subnazionali. La guida appositamente realizzata dall’organizzazione26, infatti, si basa sulla proposta di sviluppare, in ogni comunità locale, una Local MDGs Response Strategy, vale a dire una strategia elaborata in modo democratico e partecipativo, con il contributo di tutti i principali stakeholders, che deve essere parte integrante dell’azione dell’amministrazione e del bilancio, nonché suscettibile di monitoraggio e valutazione. L’idea alla base di tale approccio è che gli Obiettivi del Millennio non debbano essere visti come un peso a carico degli enti locali ma come uno strumento a loro disposizione per fare della lotta contro la povertà una priorità operativa e per dare coerenza alle politiche. Pertanto, vengono individuati quattro passaggi attraverso cui giungere all’elaborazione della strategia locale per gli MDGs: la redazione di un MDGs City Profile (ritratto della città elaborato da una Action Team appositamente costituita e sottoposto all’approvazione degli stakeholders), l’elaborazione della MDGs Response Strategy, l’implementazione delle azioni delineate e approvate nell’ambito del documento strategico locale e il monitoraggio delle politiche messe in atto.

L’esame della proposta appena illustrata mostra alcune prospettive interessanti. La redazione della strategia, infatti, che si fonda su un’analisi approfondita del territorio al fine di ottenerne una fotografia puntuale, offre una base utile da cui partire per l’individuazione degli Obiettivi da ritenere prioritari per il contesto di riferimento e, di conseguenza, per la scelta delle politiche più efficaci per conseguirli. D’altro canto, se la metodologia in questione viene estesa alle dimensioni nazionale e internazionale, è possibile raggiungere anche l’auspicata coerenza delle politiche e porre in atto una strategia di cooperazione che risponda alla vocazione e alla specializzazione del territorio.

Se da parte di UN-HABITAT si opta per la strada di fornire assistenza sostanzialmente metodologica ai governi locali, lasciando poi a ciascuno di essi il compito di determinare in concreto quali siano le politiche in grado di coniugare le priorità fissate a livello internazionale con quelle individuate a livello locale, altri tentativi vanno invece in direzione diversa, cercando di elaborare vere e proprie liste di azioni da implementare al fine di consentire la localizzazione degli MDGs. Tra questi, quello che appare più rilevante è costituito dal contributo offerto dall’organizzazione Città e Governi Locali Uniti (CGLU)27 in collaborazione con la Millennium Campaign,28, in cui viene messo a punto un “kit” di otto misure, diverse a seconda che il destinatario sia un’amministrazione del Nord o del Sud del mondo.

Per quanto riguarda i Paesi cosiddetti avanzati, le otto misure suggerite comprendono l’adozione di una risoluzione sul tema degli MDGs; l’esercizio di azioni di pressione nei

26 UN-HABITAT, Localising the Millennium Development Goals. A guide for municipalities and local partners, UN-HABITAT, Nairobi, march 2006. 27 Città e Governi Locali Uniti nasce nel 2004 da un’idea di Pascual Margall -per molti anni sindaco di Barcellona- al fine di dotare gli enti locali di un’organizzazione universale e forte, in grado di interloquire alla pari con gli altri attori della comunità internazionale. 28 MILLENNIUM CAMPAIGN, Eight ways to change the world. Local authorities and the Millennium Development Goals, Millennium Campaign, New York, 2006.

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confronti del governo nazionale; la promozione di iniziative di cooperazione o di gemellaggio focalizzate sugli Obiettivi che coinvolgano propri cittadini; la creazione di partnership con la società civile; la destinazione di una percentuale fissa del bilancio alla cooperazione allo sviluppo; l’utilizzo di eventi cittadini dotati di forte visibilità per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema degli MDGs; la disponibilità ad ospitare le “Porte” e la “Voice Box”29, l’organizzazione di attività scolastiche o extracurriculari per educare i giovani sui temi dello sviluppo umano.

Ciò che si nota chiaramente è che, malgrado le intenzioni di rendere la traduzione locale degli MDGs pragmatica e operativa, le uniche azioni sul territorio ad essere menzionate sono quelle di educazione allo sviluppo. Al contrario, non è presente alcun cenno alla possibilità – e, per certi versi, necessità- di agire con specifiche politiche di sviluppo, portando avanti la lotta contro la povertà contemporaneamente nell’ambito della propria comunità locale e a livello internazionale. Pur senza sottovalutare l’importanza delle azioni di sensibilizzazione sopra menzionate, è opportuno mettere in luce che il pericolo insito in questo approccio sta nella possibilità che si perda di vista la logica di interdipendenza alla base degli MDGs, con il forte accento posto sulla necessità di policy coherence, o che si giunga a un eccesso di attenzione nei confronti dell’educazione della cittadinanza a scapito delle attività di cooperazione in termini di attenzione e soprattutto di risorse, lasciando i fondi nel territorio dei Paesi del Nord senza farle giungere a quelli più poveri.

Di carattere del tutto diverso appare invece l’approccio suggerito dalla Commissione MDGs della CGLU alle amministrazioni locali dei Paesi in via di sviluppo. In questo caso, infatti, malgrado la coincidenza di alcune misure -come, ad esempio, la necessità di esercitare pressione sul governo nazionale in favore degli Obiettivi o l’invito a creare partnership sia con la società civile, sia con altri enti omologhi- l’orientamento seguito ha un carattere decisamente più pragmatico e volto ad adattare specificamente gli Obiettivi del Millennio a ciascun contesto locale, come suggerito dalla prima azione raccomandata. I non-central governments del Sud del mondo, dunque, come già fatto dalla guida di Habitat, sono esplicitamente invitati ad inserire gli Obiettivi del Millennio nel piano di sviluppo locale, che deve essere monitorabile, trasparente e avere un approccio intersettoriale. L’approccio al policy making, inoltre, deve essere partecipativo in ogni sua fase, dalla scelta delle priorità alle destinazioni di bilancio, includendo anche la determinazione dei progetti e delle azioni da implementare e la gestione dei servizi pubblici. Si suggerisce, inoltre, di utilizzare gli MDGs come possibilità per dare accountability all’amministrazione, predisponendo sistemi di monitoraggio interni al governo stesso, efficaci e basati su indicatori ben definiti. Si affronta, infine, il tema del finanziamento allo sviluppo: senza affatto sottovalutare l’importanza degli aiuti esterni, si sottolinea come sia importante generare anche entrate locali, rendendo più efficiente il sistema fiscale ma anche dando garanzia ai cittadini di un utilizzo equo e onesto del loro denaro.

L’analisi combinata di entrambi i contributi esaminati consente di individuare le modalità con le quali un ente locale può dare il proprio apporto al raggiungimento degli MDGs. In particolare, appare chiaro come i governi di prossimità, per incidere in maniera efficace, debbano agire su piani diversi e al tempo stesso complementari. Le azioni di sviluppo locale, infatti, condotte sia in ambito interno, sia in campo internazionale, sono la prima delle dimensioni da prendere in esame: è impossibile pensare di lottare contro la povertà in una

29 Si tratta di strumenti di sensibilizzazione sugli MDGs messi a punto dalla Millennium Campaign: le “Porte” sono sedici totem a forma di otto porte, che simboleggiano l’unione tra otto bambini dei Paesi ricchi e otto bambini del Sud del mondo. Quanto alla Voice Box, si tratta di uno studio TV mobile, all’esterno del quale sono descritti gli otto Obiettivi del Millennio e all’interno del quale si dà particolare enfasi all’Obiettivo 8. Il “visitatore” della Voice Box potrà apprendere degli Obiettivi del Millennio e quindi lasciare dinanzi ad un cameraman la propria voce. I messaggi vengono poi montati in un unico clip.

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comunità se non si interviene concretamente a migliorare le condizioni di vita e i servizi essenziali della stessa. Tuttavia, tali interventi non possono essere ritenuti in grado di esaurire l’intero spettro di azioni che un’amministrazione può porre in essere per il conseguimento degli MDGs. Accanto alla definizione di progetti di cooperazione e solidarietà e all’implementazione di misure di riqualificazione urbana, crescita economica e tutela ambientale e sociale, occorre sviluppare anche altri due piani di azione: quello politico e quello legato agli ambiti della comunicazione e della sensibilizzazione.

Quanto al primo, gli enti locali possono sfruttare la propria appartenenza al mondo governativo per godere di un’interlocuzione privilegiata con il potere centrale a livello nazionale, facendo pressione affinché questo predisponga strumenti finanziari e normativi in favore dello sviluppo umano e rispetti gli impegni presi nell’arena internazionale. Anche l’ambito degli organismi multilaterali, inoltre, offre interessanti possibilità di azione, sia per la capacità di mettere in rete e in collegamento realtà urbane rappresentative di gran parte della superficie e della popolazione del pianeta, sia per il nuovo peso acquisito dai governi subnazionali a seguito della nascita di Città e Governi Locali Uniti.

Tutto questo può essere reso ancor più incisivo se diviene espressione di istanze fatte proprie dalla cittadinanza: in una nuova concezione dell’amministrazione locale democratica, che vede il governo di prossimità impegnato non solo nell’erogazione dei servizi di base ma anche nella rappresentanza degli ideali e delle istanze espressi dalla propria comunità, il governo subnazionale assiste a un ampliamento del proprio campo di azione ma, al tempo stesso, ha l’obbligo di comunicare il proprio operato ai cittadini, che devono essere messi in condizione di valutare le azioni intraprese e di godere di un’informazione valida e attenta su temi ormai divenuti il centro dell’agenda internazionale. Di qui, dunque, l’importanza assunta dalla sensibilizzazione: è attraverso tale attività, infatti, che un ente territoriale può costruire una cittadinanza attiva e solidale, informata sulle grandi questioni di valenza planetaria e pronta ad affrontare le sfide della globalizzazione con equità e consapevolezza. Così, le azioni di educazione allo sviluppo sul territorio, l’organizzazione di eventi più o meno grandi, i gesti simbolici diventano, nell’attuale epoca della comunicazione, un elemento primario delle attività internazionali di una comunità locale, purché coerenti con il messaggio politico trasmesso e con la gestione concreta della politica interna e “estera”.

Le suddette tre dimensioni di azione, quella degli interventi concreti –di cooperazione o di sviluppo del proprio territorio-, quella dei gesti simbolici o di pressione politica e quella, infine, delle iniziative di sensibilizzazione e informazione, offrono quindi un quadro di riferimento non solo per orientare i comportamenti concreti di un ente locale in qualità di best practice, ma anche per analizzare e valutare l’operato reale di un’amministrazione. Ed è proprio questo lo schema interpretativo sulla base del quale si affronterà l’analisi del case study scelto, vale a dire il Comune di Roma.

4. Roma per gli MDGs: un ruolo internazionale tra city diplomacy e cooperazione internazionale.

La decisione di inserire un caso di studio all’interno di un lavoro di ricerca risponde alla

logica di dotare di un fondamento empirico quanto in esso si afferma, permettendo un riscontro “sul campo” delle tesi sostenute. Tuttavia, il contributo fornito da un case study non si limita a ciò: tale metodologia, infatti, consente anche di affrontare prospettive di analisi più ampie, rispondendo a quella vivacità di spunti di riflessione che solo l’esperienza pratica sa far emergere. Se poi la scelta cade, tra i tanti possibili, su un caso variegato e complesso quale quello di Roma, con la sua ricchezza di esperienze ma anche con le contraddizioni che ne conseguono, ecco allora che la sfida si fa ancora più stimolante, così come cresce la possibilità

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di imbattersi in quell’intrico di azioni ed intenzioni, competenze e attività che rispecchiano il processo di profondo cambiamento che gli enti locali stanno attraversando e di cui si è in precedenza parlato.

La città di Roma si presenta come un eccezionale osservatorio per analizzare i nuovi fenomeni che caratterizzano l’attuale mondo delle relazioni internazionali e della cooperazione allo sviluppo, grazie alla sua capacità di contemperare e fare da ponte tra la dimensione globale e quella locale, costituendo una sorta di unicum nel panorama internazionale. Da un lato, infatti, la forte presenza sul territorio di istituzioni internazionali -il cui numero è paragonabile a quello di città come Ginevra, Bruxelles, Londra o New York- rende Roma una città “globale”: terzo polo mondiale delle Nazioni Unite, e soprattutto sede del loro Polo alimentare, essa è dotata di una forte valenza simbolica anche in relazione al progetto comunitario, che qui non solo ha avuto inizio, nel 1957, ma ha anche affrontato il momento storico della firma della Costituzione Europea. Inoltre, in qualità di capitale, la “città eterna” è anche sede del governo italiano, ponendosi quindi come maggior centro politico e burocratico del Paese e ospitando un numero assai elevato di ambasciate –presso l’Italia e presso la Santa Sede-, con la conseguenza di ricevere continue visite di alti funzionari e rappresentanti stranieri, ai quali ha il compito di trasmettere un’immagine positiva dell’Italia.

In aggiunta a ciò, Roma, in quanto sede del Vaticano, è da sempre il centro della cristianità, con una conseguente vocazione universalistica spiccata e una forte attenzione ai temi della pace, del confronto e della solidarietà, resa ancor più forte dal fatto che la presenza della Chiesa cattolica non compromette la capacità di apertura e multiculturalismo della città stessa, che ospita ad oggi la più grande moschea in Europa e collabora attivamente con il rabbino capo della Sinagoga e con la più antica comunità ebraica del mondo sui temi del dialogo interreligioso e della memoria.

D’altra parte, però, la forte vocazione internazionale di Roma non nasce solo dal suo essere “città globale” ma anche dal proprio territorio: essa, infatti, poggia su un tessuto sociale locale caratterizzato da un numero enorme di realtà che si occupano di temi quali la promozione dello sviluppo, la solidarietà, la cooperazione e il volontariato e che, oltre a una presenza formale in città, spesso mostrano una forte capacità di attivazione della comunità. Senza contare, poi, l’enorme numero di turisti e pellegrini che affollano, ogni anno, la “città eterna”, che contribuiscono a creare un contatto continuo tra Roma, il suo territorio e le più disparate parti del mondo.

Sono queste le premesse sulla base delle quali l’amministrazione capitolina ha deciso di rilanciare quel profilo di città ponte tra l’Europa e il Sud del Mondo profilatosi spontaneamente dagli anni Cinquanta e poi parzialmente abbandonato, valorizzando quell’identità di città crocevia tra religioni e culture, a cavallo tra passato e presente, che da sempre la contraddistingue. L’inizio del terzo millennio, infatti, coincide per Roma con l’avvio di una nuova fase, all’insegna della visibilità e del rilievo della “città eterna” sulla scena internazionale. Il Giubileo prima, con le molteplici manifestazioni ad esso collegate e l’arrivo di migliaia di pellegrini, e l’elezione di Veltroni a Sindaco poi, con la presentazione di un programma elettorale fortemente incentrato sui temi della solidarietà e della cooperazione, vedono i riflettori internazionali puntati di nuovo sulla capitale d’Italia, che mostra ora i segni di una forte volontà di cambiamento e di rilancio della propria immagine a livello globale, alla ricerca di un nuovo ruolo nel mondo. Così, Roma decide di candidarsi a città simbolo dell’impegno per la pace e per la lotta contro la povertà, nel tentativo di valorizzare il proprio patrimonio di esperienze facendolo confluire nella sfida di proporsi come laboratorio in cui sperimentare un modello di sviluppo inclusivo e partecipato, che faccia del legame tra la coesione sociale e l’attenzione alle sorti del pianeta il proprio punto di forza.

La scelta dei due temi di pace e sviluppo, così come quella di portarli avanti in parallelo, non è casuale, ma risponde tanto alla tradizionale vocazione di Roma -crocevia tra religioni e sede

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delle più grandi istituzioni internazionali impegnate nella lotta contro la fame- quanto a considerazioni di coerenza politica: il messaggio lanciato è quello del legame tra sviluppo e sicurezza, partendo dal presupposto che non sia possibile sconfiggere stabilmente la povertà senza porre fine ai conflitti, e al tempo stesso che l’unica base possibile per una pace stabile e duratura sia quella di assicurare un modello di sviluppo inclusivo, che ponga fine alle disuguaglianze estreme che caratterizzano l’attuale stato del pianeta.

In realtà, l’attenzione a tematiche diverse da quelle tradizionalmente ritenute di competenza dei governi di prossimità precede l’inizio del nuovo millennio, tanto che il processo di ridefinizione delle strutture e delle competenze tocca il Comune di Roma già dai primi anni Novanta. A partire da questo momento si decide di seguire la strada del decentramento amministrativo e della specializzazione funzionale, puntando a una più netta definizione e distinzione della fase politico-amministrativa da quella operativo-gestionale attraverso il conferimento di funzioni -per ciò che attiene a quest’ultimo ambito- ad aziende municipalizzate o a partecipazione mista, privilegiando invece la gestione diretta delle competenze di indirizzo da parte dell’amministrazione. Si avvia così anche una maggiore definizione delle strutture destinate ai temi della cooperazione, della pace e della solidarietà: nel 1994 viene creato l’Ufficio Speciale per le Relazioni Internazionali (URI), presso il Gabinetto del Sindaco, cui si aggiungono, poi, man mano, la nascita di un’unità organizzativa finalizzata a coordinare la partecipazione dei vari attori del panorama capitolino ai progetti comunitari30, la nomina di un consigliere diplomatico -volto ad assistere il Sindaco nella gestione degli affari internazionali- e il conferimento delle deleghe per i rapporti con l’Africa e per la solidarietà internazionale a due consiglieri comunali.

La rinnovata attenzione alla dimensione internazionale, comunque, non sfocia solo in una riorganizzazione amministrativa interna all’apparato comunale; al contrario, essa coinvolge in profondità anche le relazioni con l’esterno e, in particolare, con gli stakeholders attivi sui temi della pace e della cooperazione. Da questo punto di vista, un momento fondamentale per consolidare e ufficializzare il dialogo tra l’amministrazione capitolina e le realtà espressione del territorio romano è costituito dalla nascita del Comitato Cittadino per la Cooperazione Decentrata (CCCD)31, che crea uno spazio di concertazione e confronto permanente tra coloro che operano sui temi della lotta contro la povertà, dei diritti e della pace.

Il Comitato, dunque, nasce come organo consultivo del Comune di Roma, in qualità di sede di elaborazione delle politiche e di confronto sui temi della cooperazione e della promozione dello sviluppo, e le sue risoluzioni sono dotate del valore di raccomandazioni all’amministrazione. Quanto ai compiti ad esso affidati, il regolamento interno, approvato il 18 marzo 2003, prevede tre livelli di azione, che vanno da quello informativo e di coordinamento -promuovendo lo scambio di esperienze tra gli attori del territorio e la creazione di sinergie e azioni comuni- a quello consultivo- in qualità di sede privilegiata di confronto tra Comune e società civile sulle iniziative di cooperazione, al fine di rendere efficaci i momenti di valutazione e verifica-, fino a quello propositivo- grazie alla capacità di partecipazione alla definizione delle strategie, delle priorità e delle politiche, soprattutto in relazione alle attività realizzate sul territorio-. La volontà di promuovere il dialogo e favorire la partecipazione del numero quanto più ampio possibile di attori, inoltre, porta il regolamento ad aprire la membership del Comitato non solo alle realtà strettamente legate al mondo della cooperazione,

30 In particolare, nel 1997 viene costituita, presso l’URI, una sezione appositamente dedicata alla gestione della progettazione comunitaria, affiancata poi, nel 2002, dall’Unità operativa programmi comunitari, collocata presso l’Assessorato al Bilancio (Dipartimento XV- Politiche economiche e di sviluppo) con il mandato di occuparsi delle attività di formazione, informazione e gestione dei programmi comunitari, ad esclusione dei Fondi strutturali, collaborando con l’URI per ciò che attiene ai contatti internazionali. 31 La nascita del Comitato Cittadino per la Cooperazione Decentrata viene formalizzata con deliberazione consiliare n. 144 del 17 ottobre 2002.

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ma anche a tutti i soggetti potenzialmente interessati ai lavori, purché si tratti di organismi legalmente costituiti che abbiano sede operativa nel Comune di Roma e che siano attivi da almeno un anno nei settori della solidarietà internazionale e della cooperazione. Per quanto riguarda, infine, la struttura operativa, si stabilisce che le attività del CCCD si sviluppino su tre livelli: quello delle Riunioni plenarie – con la previsione di almeno due Assemblee ordinarie l’anno, dirette alla definizione di strategie, priorità e obiettivi delle politiche di cooperazione decentrata della città di Roma-, quello intermedio, operativo, di coordinamento e di interfaccia tra Comitato e Amministrazione comunale- mediante la creazione di una Commissione permanente32- e quello delle sessioni tematiche –con l’organizzazione di Tavoli di lavoro tematici33, sedi operative di confronto, approfondimento tecnico ed elaborazione progettuale su specifici settori di intervento cui possono prendere parte tutti i soggetti interessati, anche se esterni al CCCD, purché competenti in materia-.

Malgrado l’esistenza di alcune criticità, legate ad esempio alla difficoltà di coordinamento dovuta alla presenza di attori numerosi e assai vari, e di qualche limite, che talvolta rende il Comitato più simile a una consulta che a un organo sussidiario del Comune, la formalizzazione di un luogo di confronto permanente deve essere salutata in modo decisamente positivo, poiché è sintomo di una forte volontà politica da parte dell’amministrazione di portare avanti azioni decise con metodologia partecipativa e inclusiva. Ciononostante, il rapporto con il territorio e il dialogo con gli attori che lo animano non sono sufficienti a coprire tutte le dimensioni fondamentali della cooperazione decentrata. Per tracciare un quadro completo, allora, accanto alle componenti sopra analizzate occorre esaminare anche l’impegno dell’amministrazione capitolina in ambito multilaterale, con riferimento ai rapporti tanto con l’Unione europea quanto con le Nazioni Unite.

Quanto alla prima, la rilevanza della dimensione comunitaria nell’ambito dell’attività del Comune di Roma e la sua forte valenza simbolica trovano origine nello stesso Statuto della città. E’ l’art. 2 comma 1, infatti, ad affermare che “il Comune di Roma, consapevole delle responsabilità che gli derivano dall'essere stato sede della firma dei trattati istitutivi della Comunità Europea, avvenuta in Campidoglio il 25 marzo 1957, riconosce la validità ed il rilievo del processo di integrazione europea”, promuovendo la cooperazione con altri enti locali nell'ambito dei processi di integrazione e di interdipendenza internazionale, secondo i principi della Carta Europea delle Autonomie Locali, e sostenendo la partecipazione della comunità cittadina e delle formazioni sociali alla costituzione dell'Europa unita ed alla tutela dei diritti di cittadinanza comunitaria.

In quest’ambito, dunque, Roma ha agito su vari piani, assumendo ruoli diversi a seconda delle fattispecie di riferimento. In primo luogo, fin dalle prime espressioni di interesse nei confronti del settore delle relazioni internazionali, il Comune ha esercitato una forte azione politica e di pressione volta ad ottenere il riconoscimento del contributo delle città alla buona riuscita del partenariato euro-mediterraneo da parte della Comunità europea. In particolare, Roma è riuscita a esercitare un ruolo efficace grazie alla presidenza, dal 1998, di Medcities34, 32 Si tratta di un organo a composizione ristretta, che consta di 19 membri, 5 nominati dal Comune e 14 eletti dall'Assemblea in rappresentanza delle Associazioni. 33 In particolare, in occasione dell'Assemblea del 16 luglio 2003, si decide di costituire quattro Tavoli di lavoro: il Tavolo 1 -“Pace come elemento caratterizzante le attività di solidarietà internazionale”, il Tavolo 2 –“ Lotta alla povertà e Obiettivi di Sviluppo del Millennio”, Tavolo 3-“ Intercultura, formazione, educazione allo sviluppo”; Tavolo 4 –“Sviluppo sostenibile”. 34 Medcities è una rete di 28 città costituita nel 1991 su impulso di Barcellona, dell’Organizzazione delle città unite -UTO e della Banca Mondiale, in relazione ai temi dello sviluppo sostenibile e rappresenta l’unica rete permanente di città euro-mediterranee che partecipa, con la carica di vice-presidente, alla Commissione mediterranea per lo Sviluppo Sostenibile del Piano d’Azione Mediterraneo delle Nazioni Unite e al Comitato di Gestione della Campagna Europea Città Sostenibili, oltre ad avere forti rapporti di collaborazione con numerose altre reti ed organizzazioni. Roma entra a far parte di questa rete solo nel

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oltre alla partecipazione attiva ai lavori di Eurocities35, nell’ambito della quale ha dato un forte impulso al Gruppo Euromed, e della Commissione Mediterranea dell’Organizzazione mondiale Città e Governi Locali Uniti, di cui il Sindaco ha la vice-presidenza. E’ opportuno ricordare, inoltre, che lo stesso Veltroni ha anche la carica di presidente delegato del Consiglio dei Comuni e delle Regioni di Europa.

L’azione di advocacy, portata avanti per anni e contraddistinta da un impegno costante e condiviso con numerose realtà omologhe di altri Paesi, è riuscita ad conseguire risultati importanti in termini di riconoscimento comunitario anche grazie al sostegno del Parlamento Europeo, come mostrato dalla nascita del Programma Euromed Pact della Commissione Europea e dai numerosi altri canali di azione o finanziamento della cooperazione tra città in ambito euro-mediterraneo sviluppati soprattutto a partire dal 1995. L’azione europea di Roma, poi, non si è limitata al piano della pressione politica; al contrario, l’amministrazione capitolina partecipa attivamente a numerosi programmi comunitari, in prima persona o attraverso le proprie aziende, nel tentativo di garantirsi l’accesso alle varie linee di finanziamento aperte a Bruxelles sia per promuovere lo sviluppo del proprio territorio, sia per prendere parte a reti di città che sostengono processi di scambio di competenze o di definizione di politiche comuni.

Anche il rapporto con le Nazioni Unite rappresenta un elemento importante della politica “estera” e di cooperazione del Comune di Roma. La presenza della sede di numerosi istituti specializzati e agenzie internazionali sul territorio romano ha fatto sì che l’amministrazione capitolina abbia sempre cercato di mantenere rapporti buoni e stabili con l’ONU e, in particolare, con il suo Polo Alimentare. Tale elemento, inoltre, è stato ulteriormente valorizzato a partire dall’inizio del terzo millennio, quando la nuova giunta ha cercato di segnare una discontinuità rispetto al passato creando maggiore vicinanza tra la città e i funzionari internazionali che vi risiedono36.

Complessivamente, il Comune di Roma si è mosso nella direzione di offrire supporto logistico e collaborazioni di vario genere, appoggiando le iniziative promosse dall’ONU e cercando di migliorarne la capacità di comunicazione nei confronti del territorio. Non sono mancati, però, esempi di cooperazione tra l’amministrazione e le stesse Nazioni Unite nell’ambito di progetti concreti, che hanno visto il Comune impegnarsi in iniziative spesso piuttosto innovative. Tra i vari esempi che è possibile citare ed analizzare, particolare interesse riscuote il rapporto tra Roma e il Mozambico, nato oltre un decennio fa e che vede una convergenza tra l’attività dell’amministrazione e quella della cittadinanza. L’interesse romano nei confronti di Maputo nasce infatti a partire dagli stretti legami di solidarietà che uniscono le associazioni e i movimenti romani alla popolazione locale già al tempo della lotta di liberazione delle colonie portoghesi in Africa, portando alla presenza di un numero notevole di organizzazioni capitoline attive nel Paese. A queste iniziative, inoltre, si aggiunge l’importante ruolo rivestito dalla città di Roma in virtù dell’intensa azione di diplomazia parallela portata avanti dalla Comunità di Sant’Egidio nell’ambito del processo di pace, tanto da ospitare, il 4 ottobre 1992, la firma degli accordi di pace tra la Re.Na.Mo (Resistenza Nazionale Mozambicana) e il governo del Mozambico, a conclusione di quattordici anni di guerra civile.

1996, quando la membership, originariamente limitata alle “seconde città”, viene aperta anche alle capitali e si consente la presenza di più realtà urbane dello stesso Paese. 35 Eurocities, fondata nel 1986 e organizzata in commissioni, è una rete di circa cento città dell’Unione Europea, della Svizzera, dell’Europa centrale e dell’est e dei Nuovi Stati Indipendenti (NIS) finalizzata ad assicurare la centralità delle politiche urbane all’interno dell’Unione, a promuovere i progetti di cooperazione transnazionale tra i membri della Rete, a facilitare l’accesso ai fondi comunitari e a promuovere una metodologia di lavoro in rete. 36 Risponde a tale fine, ad esempio, la decisione di Veltroni, all’indomani della sua elezione, di dedicare quattro concerti jazz alla FAO, dandole modo di organizzare tavoli per distribuire materiale informativo e invitandone il Direttore Generale.

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Così, all’indomani della propria elezione a Sindaco, Rutelli sottolinea la volontà di non abbandonare a se stessa la parte più povera dell’Africa, e l’occasione gli viene offerta dal Programma di Sviluppo delle Municipalità- Municipal Development Program (Mdp)37 gestito congiuntamente dalla Banca Mondiale e dalle cooperazioni italiana, olandese e canadese, in partenariato con i governi e le istituzioni dell’Africa Sub-Sahariana, nell’ambito del quale si sigla un Protocollo di Intesa tra Roma e Maputo. La conclusione del progetto Mdp, nel 2001, non segna la fine del rapporto di collaborazione che intercorre tra le due città. L’anno successivo, infatti, in occasione del decennale della firma degli accordi di pace, Veltroni decide di riproporre all’attenzione dei romani la situazione in Mozambico, appoggiando una serie di eventi pubblici organizzati da associazioni, ONG o altri attori presenti sul territorio. In quella stessa occasione, inoltre, esce il cd “Me We”, una compilation di brani proposti dal Sindaco nel corso di alcune puntate di una trasmissione radiofonica, che vende diecimila copie e il cui ricavato viene destinato a finanziare iniziative di solidarietà in Mozambico.

E’ così che, in collaborazione con l’ONG Movimondo, viene messo a punto e realizzato un progetto per la costruzione di quattro pozzi per l’estrazione di acqua potabile a Marracuene, alla periferia di Maputo; l’inaugurazione dei pozzi costruiti, inoltre, è l’occasione per visitare alcune aree e quartieri periferici e semirurali circostanti, da cui nasce, in risposta a una richiesta ricevuta in relazione alla creazione di una scuola elementare, la campagna “Vado al liceo e faccio la scuola elementare”. Si tratta di un’iniziativa importante, che crea uno stretto legame tra le attività di educazione allo sviluppo e un concreto progetto di solidarietà, poiché coinvolge attivamente quattro licei romani, dedicando le assemblee mensili alla discussione di temi quali la globalizzazione, il commercio internazionale, lo sviluppo e i diritti e facendo svolgere le attività di comunicazione e di raccolta fondi ai ragazzi. Inoltre, l’inaugurazione della scuola offre l’occasione per l’avvio del progetto “Roma-Maputo andata e ritorno”, che vede il Sindaco e cento studenti dei quattro licei romani recarsi nella capitale mozambicana per inaugurare la scuola, nel frattempo costruita, e un pozzo d’acqua aperto davanti al nuovo plesso scolastico38.

Malgrado i numerosi aspetti positivi dell’iniziativa, in grado di attivare il territorio così come previsto dalla decentrata, è necessario però rilevare la presenza di alcune criticità legate a una “vecchia” visione della cooperazione, come l’attivazione di flussi essenzialmente Nord-Sud e la mancata creazione di partnership durevoli tra le istituzioni delle due amministrazioni coinvolte. In questo senso, l’approdo al Programma ART delle Nazioni Unite può essere ritenuto un importante passo avanti verso l’acquisizione di maggiori elementi di coerenza ed efficacia nelle azioni di cooperazione, poiché da un approccio di microprogettualità si approda al nuovo multilateralismo delle Nazioni Unite.

In particolare, l’accordo di finanziamento del Programma, siglato il 10 novembre 2004 tra il Comune di Roma e i tre partner multilaterali UNESCO, UNDP e UNOPS, si propone di perseguire obiettivi di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, di promozione della good governance, di benessere sociale, di sviluppo sostenibile e di internazionalizzazione dello sviluppo locale attraverso metodi di lavoro capaci di favorire la coesione sociale, rafforzando le

37 Il MDP, operativo dal 1991, è un programma di sostegno e di promozione delle politiche di decentramento e di gestione urbana nell’Africa Sub-sahariana, mirante a promuovere lo sviluppo locale, creare un quadro politico in grado di rispondere alle nuove esigenze di governabilità, rafforzare le capacità dei governi locali e dare inizio o sviluppare sinergie tra istituzioni, Agenzie multilaterali e società civile. 38 E’ interessante notare che la buona risposta ricevuta dai ragazzi ha fatto sì che l’Assessorato alle Politiche Scolastiche abbia proposto di ripetere l’esperienza coinvolgendo altre scuole, tanto che nel 2005 gli istituti superiori sono diventati ventiquattro e hanno portato alla realizzazione di una scuola elementare a Gatare, in Rwanda, inaugurata ancora una volta dal Sindaco con cento studenti romani; nel 2006, invece, l’obiettivo fissato è stato quello della costruzione di un istituto in Malawi, alla periferia della capitale Lilongwe, seguendo le medesime modalità.

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istituzioni e le organizzazioni degli attori sociali e stimolando il dialogo costruttivo tra soggetti istituzionali e non istituzionali, oltre a promuovere la partecipazione e a valorizzare le Agenzie di Sviluppo Economico Locale già attivate dai programmi precedenti. In quest’ambito, Roma si assume il compito di promuovere la nascita di un Comitato internazionale per la cooperazione decentrata allo sviluppo umano con il Mozambico, in cui far confluire tutti gli enti territoriali interessati a prendere parte al programma. Al tempo stesso, ART Gold Mozambico prevede anche importanti ricadute sul territorio romano, attraverso il Progetto speciale per l’internazionalizzazione del Piano regolatore sociale del Comune di Roma39, facendo pervenire nella capitale un apporto internazionale altamente qualificato e diffondendo globalmente i risultati delle suddette esperienze. A completare il quadro, si prevede infine anche la messa a punto di un corso di laurea internazionale specialistica o Master Internazionale per i quadri della cooperazione allo sviluppo umano, in collaborazione con la Rete Universitas del Programma-quadro ART, da realizzare a Roma.

Da quanto finora visto, sembra emergere in maniera evidente una vocazione capitolina a proporsi come modello e leader nella lotta contro la povertà e la pace, ambiti in cui l’amministrazione rivendica di avere un buon livello di coerenza, identificando il fil rouge delle azioni condotte nel concetto di città solidale, in cui le politiche sociali interne sono legate alla proiezione esterna e si attua un modello partecipativo e inclusivo. Ciononostante, la mancanza di un documento di programmazione che chiarisca espressamente obiettivi e modalità di azione, consentendo sia una corretta gestione del ciclo del progetto, sia una valutazione trasparente di quanto fatto, rende opportuno approfondire l’analisi, verificando l’effettiva presenza di coerenza non solo tra le dimensioni interna e internazionale della promozione dello sviluppo, ma anche tra le priorità individuate a livello locale e quelle fissate in ambito globale.

Quanto al primo aspetto, il Comune sembra segnalarsi per l’esistenza, dal punto di vista delle politiche sul territorio, di caratteristiche precise e ben identificabili, che individuano un vero e proprio “modello Roma” basato su concertazione, solidarietà e partecipazione. L’obiettivo principale perseguito dall’attuale amministrazione è costituito, infatti, dalla capacità di coniugare delle buone performance in termini di crescita economica con una forte attenzione alla dimensione sociale e alla sostenibilità ambientale, al fine di garantire un livello di benessere elevato, diffuso e duraturo. Da questo punto di vista, il Comune dimostra di avere una buona conoscenza del territorio, raggiunta grazie a un’attenta attività di studio delle problematiche di sviluppo locale40; interessante è anche la rilevanza attribuita alla riqualificazione urbana –soprattutto nell’ambito delle periferie- così come l’impegno in favore delle energie rinnovabili e il sostegno fornito alla diffusione di modelli di consumo e di commercio incentrati sulla garanzia del rispetto dei diritti umani, a partire dal comportamento dell’amministrazione41. Anche la metodologia utilizzata, che mira a realizzare politiche inclusive mediante la 39 Il Piano Regolatore Sociale, avviato nel 2001, è il documento programmatico che definisce le politiche sociali del Comune di Roma a scadenza triennale, con lo scopo di impegnare l'amministrazione ad una risposta più puntuale ai bisogni e alle domande sociali e di essere un mezzo attraverso cui il “sociale” può orientare la determinazione delle politiche. 40 Si fa riferimento, in particolare, all’attività di studio svolta da Risorse per Roma spa -società in house del Comune di Roma- a sostegno dei progetti di sviluppo sociale ed economico della città e di sue specifiche componenti territoriali sulla base di due filoni di approfondimento: l’Osservatorio permanente sull’economia romana (OPER) e le analisi socio-economiche a sostegno degli interventi di trasformazione del territorio. 41 Un buon esempio, a questo proposito, è costituito dall’attenzione e dal sostegno al mondo dell’Altra Economia attraverso molteplici iniziative a veri livelli, che vanno dall’inserimento di prodotti biologici ed equo-solidali nelle mense o nei distributori automatici presenti nelle pubbliche amministrazioni al progetto di costruzione della Città dell’Altra Economica nel quartiere storico di Testaccio, prossima all’inaugurazione. Non a caso, Roma è risultata vincitrice, nel 2005, del titolo di prima città equo-solidale d’Italia.

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concertazione tra i vari interessi e segmenti della società, appare degna di nota e in linea con le ambizioni del “modello Roma”, finalizzato a portare avanti la lotta contro la povertà e l’esclusione, raggiungendo un buon livello di coesione sociale tanto sul territorio quanto al di fuori di esso.

Dopo aver esaminato il rapporto che intercorre tra le azioni interne e quelle internazionali, è d’obbligo –ai fini del presente lavoro- passare ad un’analisi delle politiche capitoline a livello internazionale, indagando sulla relazione esistente tra le priorità scelte dalla giunta romana e quelle fissate a livello globale. L’inserimento delle città nel circuito di promozione dello sviluppo umano, infatti, fa sì che l’efficacia della loro azione non possa essere misurata solo sulla base della coerenza del modello costruito in politica interna rispetto a quello che si proietta all’esterno, ma sia legata necessariamente anche alla capacità di concorrere alla determinazione e al conseguimento delle priorità fissate a livello mondiale, vale a dire –sulla base di quanto visto- gli MDGs.

In particolare, l’incontro tra la capitale e la nuova Agenda di Sviluppo delle Nazioni Unite risale al 2004 quando, in occasione del IV Forum Mondiale dell’Alleanza delle Città per la Lotta contro la Povertà, ospitato a Roma, il Sindaco Veltroni incontra Eveline Herfkens, coordinatrice esecutiva della Campagna delle Nazioni Unite per gli Obiettivi del Millennio, e decide di offrirle la propria collaborazione. Nasce, così, un rapporto destinato a rivelarsi stabile nel tempo, da cui si originano numerose iniziative e che vede il Comune mostrare la propria disponibilità su vari fronti. Il vasto complesso di azioni così configurato, infatti, risponde alla volontà di Roma di contribuire al raggiungimento degli MDGs nei diversi ambiti degli interventi sul territorio –cittadino o del partner scelto-, dell’operatività diplomatica e politica e della sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Così, l’amministrazione decide, per prima cosa, di mettere a disposizione una sede per la coordinatrice italiana della Campagna sugli MDGs, sia per fornire supporto e assistenza logistica a No Excuse 2015, sia per avere la possibilità di un collegamento diretto con essa. A questo si aggiungono poi una serie di iniziative simboliche e di comunicazione, come la decisione di ospitare le Porte del Millennio e di dedicare una Notte Bianca agli MDGs e, in particolar modo alla lotta contro la povertà, adornando i principali monumenti con la white band simbolo dello slogan “Make poverty history”.

In quest’ambito, in particolare, è d’uopo rilevare come il Comune di Roma abbia agito, simultaneamente, su due piani diversi. Da una parte, infatti, esso ha finanziato e organizzato progetti di educazione allo sviluppo sul territorio, rivolti alla propria cittadinanza e con una precisa ricaduta sulla comunità locale: è questo il caso, ad esempio, di “Scuole per il Millennio”, un’iniziativa voluta dal Dipartimento Politiche Economiche e di Sviluppo e volta a diffondere gli MDGs tra i ragazzi delle scuole romane attraverso l’organizzazione di un ciclo di seminari in ventiquattro istituti della capitale, coinvolgendo i giovani nel dibattito relativo al loro stesso futuro e alla sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Dall’altra, invece, la “città eterna” ha deciso di sfruttare la sua grande visibilità e il fascino della propria tradizione storica, religiosa e culturale per abbinare le azioni “micro” e di impatto prevalentemente locale con l’organizzazione di eventi mediatici in grado di parlare all’opinione pubblica nazionale e internazionale. Ad esempio, limitandosi ad alcuni tra gli eventi più recenti è possibile ricordare due importanti iniziative di musica e sensibilizzazione: il lancio del progetto “We are the Future”42 con un grande concerto al Circo Massimo nel maggio del 2004, e l’edizione italiana di “Live 8” –ancora una volta con un concerto a Circo Massimo- organizzata da Bob Geldolf per sensibilizzare governi e opinioni pubbliche sul problema del debito alla vigilia del G8 di Gleneagles. La capitale, inoltre, si è resa disponibile ad organizzare e ospitare i momenti centrali e l’evento conclusivo di “STAND UP!”, iniziativa lanciata dalla Campagna delle Nazioni Unite sugli Obiettivi del Millennio il 15 ottobre del 2006 e volta a stabilire un record 42 L’evento è stato realizzato dal Comune di Roma in collaborazione con il Glocal Forum, la Banca Mondiale e la Fondazione “Listen up” di Quincy Jones.

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mondiale -da registrare nel Guinness dei Primati- in relazione al maggior numero di persone al mondo disposte ad alzarsi in piedi, simbolicamente e insieme, contro la povertà43.

In ogni caso, l’esempio più interessante da citare è costituito da ItaliAfrica, manifestazione che, al contrario delle altre iniziative menzionate, non si limita a sostenere campagne o eventi promossi da altri attori ma nasce da un’idea lanciata direttamente dal Sindaco Veltroni per “rompere il muro di silenzio che tiene separata l’Africa dal mondo ricco, dall’Occidente”44. Roma diviene così la prima grande città occidentale a volere una grande manifestazione popolare che richiami l’attenzione del mondo sulla sfida di liberare il continente africano e i suoi popoli dalla povertà, dalla fame, dalle malattie e dalla guerra, mettendo a punto insieme ai maggiori sindacati e a diverse organizzazioni della società civile un’iniziativa mirata non a risolvere i problemi dell’Africa –azione impossibile per una città- ma a porre la questione di tale continente tra le priorità dell’Agenda internazionale, legando poi tali temi, nell’edizione 2007, agli MDGs.

Il tentativo di dare visibilità ai temi contenuti negli Obiettivi del Millennio caratterizza anche l’ultimo ambito di azione da esaminare, vale a dire quello dell’operatività politica diplomatica. Si è già fatto cenno, in termini generali, al ruolo internazionale che Roma ricopre in quanto sede del Polo alimentare dell’ONU e luogo di nascita del progetto dell’Europa unita, elementi a cui si aggiunge una fitta rete di relazioni con molte amministrazioni locali, dal gemellaggio esclusivo che lega la “città eterna” a Parigi da oltre cinquant’anni ai recenti accordi di amicizia e cooperazione siglati con Atene, Madrid, Tallin, Brazzaville o Nairobi. Si è già menzionata, inoltre, l’importanza dello status di capitale d’Italia, che comporta non solo il compito di trasmettere ai numerosi leader politici che visitano Roma un’immagine positiva dell’Italia, ma anche la capacità di fungere da tramite tra mondo governativo e non, per la presenza simultanea di enti erogatori ed esecutori.

Per ciò che attiene, nello specifico, al tema degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, però, occorre aggiungere a quanto detto che la dimensione di “politica estera” del Comune di Roma, sia pur connaturata alla città stessa, ha assistito a un rafforzamento notevole soprattutto a seguito dell’elezione della prima giunta Veltroni, candidandosi apertamente a un ruolo di leadership mondiale nella lotta contro la povertà e assumendosi la responsabilità di proporsi sulla scena mondiale come guida e stimolo per gli enti locali intenzionati a concorrere al conseguimento dell’Agenda di sviluppo internazionale. Il Sindaco, infatti, ha assunto uno specifico incarico nell’ambito di Città e Governi Locali Uniti, ricoprendo il ruolo di presidente della Commissione sugli Obiettivi del Millennio, e in questo caso è stata la stessa Roma a offrire spontaneamente la propria disponibilità per costituire la Commissione, determinarne la struttura, organizzarne le riunioni e definirne il programma di azione45.

L’analisi condotta mostra allora come Roma abbia oggi le potenzialità per proporsi sulla scena mondiale come attore “a tutto tondo”, dotato di peculiarità interessanti e ricco di prospettive. La città, infatti, è in grado di dare al tempo stesso visibilità diffusa ai grandi temi 43 L’evento finale della manifestazione prevedeva che il 17 ottobre, giornata mondiale contro la povertà, Roma ospitasse la Conferenza stampa di chiusura dello STAND UP Internazionale, in video collegamento con il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite per seguire l’annuncio relativo al numero complessivo delle adesioni allo STAND UP. Tale evento, tuttavia, è saltato a causa di un grave incidente sulla metropolitana di Roma, che ha indotto il Sindaco a chiedere di annullare le iniziative non conformi al momento di lutto vissuto dalla città. 44 VELTRONI W., Forse Dio è malato. Diario di un viaggio africano, BUR, Milano, 2005. 45 Un’importante dimostrazione dell’impegno profuso è costituita dall’organizzazione, a giugno 2007, di un meeting internazionale finalizzato a una valutazione di metà percorso degli Obiettivi del Millennio, in collaborazione con l’Unione Europea e le Nazioni Unite, che ha portato al Campidoglio le amministrazioni locali delle maggiori città e regioni del mondo, oltre a rappresentanti delle più importanti organizzazioni multilaterali, per fare il punto della situazione sullo stato attuale dell’Agenda di sviluppo presentando alla comunità internazionale il contributo dei non-central governments su tali temi.

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universali attraverso eventi che sfruttino il suo suggestivo fascino, concretezza al messaggio di pace e sviluppo mediante gli esempi di best practices dell’amministrazione e del territorio, risonanza alle sfide globali da affrontare localmente grazie al ruolo di leadership assunto nei principali forum politici internazionali. Solo coniugando le suddette dimensioni di azione con coerenza ed impegno, allora, Roma potrà davvero proporsi, agli occhi del mondo, come città simbolo di sviluppo, dialogo e lotta contro la povertà, rivestendo concretamente quel ruolo di fiaccola di pace e benessere già intuito come possibile, oltre cinquanta anni fa, dal professor Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze negli anni della Guerra Fredda. E’ così, infatti, che la “città eterna” potrà realizzare quel sogno, oggi quanto mai attuale e necessario, di essere “una città sul monte, un candelabro destinato a far luce al cammino della storia”46. Conclusione: bilanci e prospettive. Giunti alla fine del presente lavoro, è possibile tracciare un bilancio dei fenomeni esaminati, al fine di trarre alcune osservazioni conclusive e tracciare qualche proposta di lavoro percorribile. L’analisi svolta, infatti, ha mostrato come l’attuale scenario si caratterizzi come un momento di grande complessità, in cui le relazioni internazionali oscillano tra movimenti simultanei e contrapposti -dall’unità alla diversità, dall’integrazione culturale alla preservazione delle differenze, dal cosmopolitismo all’omogeneizzazione culturale- che si incontrano e scontrano contemperandosi in quella che Rosenau, con espressione suggestiva, ha definito fragmegration47, punto di incontro, cioè, tra frammentazione e integrazione.

L’incertezza del contesto in questione, tuttavia, è temperata dall’identificazione chiara –almeno a livello ufficiale- di priorità globali condivise, che vedono nel conseguimento di un adeguato livello di sviluppo umano la possibile base per un nuovo ordine internazionale incentrato su sicurezza e coesistenza pacifica, in cui si aprono interessanti prospettive di azione per attori nuovi e più vicini ai cittadini. Come visto, infatti, gli enti locali possono presentarsi sulla scena globale, in virtù del principio di sussidiarietà, come promotori e garanti del diritto alla pace positiva sancito dall’art. 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; conseguentemente, le azioni di cooperazione da essi messe a punto e coordinate appaiono capaci di garantire l’affermazione di un modello di sviluppo in grado di rispondere in modo efficace ed effettivo ai bisogni delle popolazioni, affermando un approccio bottom-up.

Il successo della cooperazione decentrata, e della city diplomacy che la contiene e completa, non è però un risultato né scontato, né perseguibile senza sforzo alcuno. Al contrario, affinché le potenzialità dell’approccio locale allo sviluppo possano esplicarsi, gli enti locali devono dare una risposta efficace alle maggiori criticità oggi esistenti, riassumibili nell’insufficienza di risorse e di elaborazione. In primo luogo, allora, è indispensabile che essi si dotino di risorse umane adeguate: occorre prestare un’attenzione maggiore alla formazione offerta e alle capacità e competenze richieste ai propri funzionari, mettendo a punto strutture appositamente dedicate alle relazioni internazionali -pur essendo in grado di lavorare di concerto con altri settori - e con sufficiente dotazione sia in termini di personale, sia di risorse finanziarie. C’è bisogno, inoltre, di un approccio più coerente alla definizione del ciclo del progetto, in tutte le sue fasi, con un’attenta attività di programmazione e pianificazione da parte dell’ente locale che preveda la fissazione di criteri e parametri trasparenti e chiari per la creazione di partenariati, la definizione delle condizioni di scelta dei partner e il rafforzamento del momento valutativo. E’ necessaria, poi, la predisposizione (o, se già esistenti, il miglioramento e rafforzamento) di meccanismi di dialogo e spazi di incontro con la società civile, il mondo imprenditoriale, le università, i 46 Tratto dal discorso del professor Giorgio La Pira al Convegno dei Sindaci delle capitali di tutto il mondo, tenuto a Firenze il 2 ottobre 1955. 47 J.N. ROSENAU, op. cit.

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sindacati e tutti gli altri soggetti attivi nella comunità che fa capo all’amministrazione in questione, al fine di realizzare esperienze concrete di concertazione. Per finire -ma non meno importante- è necessario che il governo di prossimità integri le politiche internazionali portate avanti con un’attenta conoscenza del proprio territorio, mirata a conoscerne a fondo i bisogni, gli interessi e gli elementi di forza e di debolezza al fine di rendere possibile e operativa l’idea del cosviluppo e l’adozione di una logica win-win.

Quanto al case study, l’analisi del Comune di Roma ha messo in luce la presenza di un contesto di grande interesse, in cui l’impegno costante sui temi dello sviluppo, della pace e della lotta contro la povertà mostra l’esistenza di una volontà politica forte, così come dimostrato anche dall’adozione degli MDGs come obiettivi prioritari da perseguire in tutte le azioni di rilevanza internazionale, a partire dai progetti finanziati attraverso i bandi dell’Ufficio Relazioni Internazionali fino ai grandi eventi di sensibilizzazione o di carattere politico. Sembra possibile affermare, inoltre, che l’amministrazione capitolina abbia raggiunto un buon livello di coerenza tra le finalità perseguite all’interno e gli obiettivi ritenuti prioritari nelle relazioni esterne. Tuttavia, se la capacità di programmazione si mostra solida per quel che concerne le azioni sul territorio, essa mostra maggiori lacune quando si passa alla dimensione della cooperazione decentrata, malgrado le priorità tematiche (pace e sviluppo) e geografiche (Africa) generali siano evidenti.

Riprendendo i tre piani di intervento individuati nella prima parte del presente lavoro (territoriale, sensibilizzazione, pressione politica) e cominciando dal primo, il fulcro delle linee individuate per migliorare l’approccio progettuale e territoriale del Comune di Roma alla cooperazione è sintetizzabile nel rafforzamento di tre capacità: quelle di indirizzo strategico -volte a raccordare la definizione delle politiche di sviluppo del territorio locale con le iniziative di cooperazione decentrata-, quelle analitiche -relative alla conoscenza della gestione del ciclo del progetto, aprendo però tale processo a meccanismi partecipativi- e quelle negoziali -finalizzate a facilitare i processi di consultazione e partenariato tra soggetti diversi del proprio territorio e di quello partner-.

L’importanza acquisita dalla comunicazione nell’epoca attuale e il nuovo volto della città che, con l’elezione di Veltroni, ha reso chiara ed evidente la propria aspirazione alla leadership mondiale nell’impegno per gli MDGs rendono necessario poi coniugare le azioni concrete con un forte impegno in termini politici e di visibilità.

Quanto al primo aspetto, si è visto come Roma goda di una rete di contatti e relazioni assai fitta, ulteriormente rafforzata dall’attuale Sindaco, giunto al Campidoglio dopo essersi affermato sulla scena politica nazionale e internazionale. Da questo punto di vista, inoltre, le implicazioni politiche della scelta di assumere la presidenza della Commissione sugli MDGs della CGLU non sono da sottovalutare: tale organizzazione, infatti, rappresenta il più grande organismo di enti locali al mondo, nonché il principale interlocutore –per conto degli stessi- con cui si confrontano le Nazioni Unite. La presidenza, pertanto, implica un impegno attivo di Roma per il coinvolgimento delle altre città del mondo, al fine di mettere in rete le esperienze e le competenze e creare –su base locale- una partnership globale per lo sviluppo. D’altra parte, lo status di capitale richiede alla città di fare da traino per tutte le altre realtà attive sul territorio italiano, che si caratterizza a livello internazionale per la coesistenza –paradossale- di uno dei tessuti sociali più solidali al mondo e di una situazione d’impasse quasi totale dell’azione governativa, che colloca l’Italia agli ultimi posti tra i Paesi donatori dell’OCSE.

Pertanto, evitando di lavorare da sola, Roma potrebbe non solo stimolare le iniziative di altri attori nazionali, ma anche portare a un’interessante influenza a livello istituzionale in relazione alla predisposizione di strumenti normativi e finanziari adeguati. In quest’ottica, un importante punto di partenza potrebbe essere costituito dal rafforzamento dei legami tra il Comune e i governi locali ad esso più vicini, quali la Provincia e la Regione, al fine di creare un “sistema Lazio” integrato che porti a una reale attuazione della logica di sussidiarietà degli interventi e

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alla creazione di sinergie positive. Analogo discorso potrebbe valere, poi, per il rapporto della città con gli organismi delle Nazioni Unite presenti sul territorio, attraverso la predisposizione di un meccanismo stabile di concertazione e dialogo. In questo caso, però, potrebbero sorgere ostacoli legati a questioni di legittimità giuridica -essendo gli Stati gli unici interlocutori legittimati a concludere accordi con le Nazioni Unite- e occorrerebbe prestare attenzione al rischio che tale foro possa finire per trasformarsi in un’ulteriore macchina burocratica o in un’occasione per discutere di problemi non strettamente legati alle attività di cooperazione e promozione dello sviluppo.

Oltre a diffondere il messaggio degli MDGs tra enti omologhi e attori istituzionali, infine, l’analisi ha messo in luce come Roma possa consentire anche il coinvolgimento dell’opinione pubblica locale e nazionale attraverso l’organizzazione di grandi eventi di sensibilizzazione in grado di mantenere alta l’attenzione sui temi dello sviluppo, della lotta contro la povertà e della pace. L’attuale amministrazione, infatti, al di là delle valutazioni politiche soggettive, gode di grande visibilità a livello nazionale e internazionale e si caratterizza per uno stile di governance in cui la mediazione e la comunicazione giocano un ruolo fondamentale, tanto che è proprio questo particolare stile di governo -incentrato su pacatezza, mediazione e comunicazione- ad essere al centro del dibattito su Veltroni e la sua politica. Così, chi lo ama sottolinea come egli sia riuscito a ridare lustro a temi importanti e prima sottovalutati, rilanciando l’immagine della città e rendendo Roma di nuovo una grande capitale internazionale, pur riuscendo a coniugare tutto questo con una buona performance economica anche in momenti non facili per l’economia nazionale e internazionale. Gli avversari del Sindaco, da parte loro, lo accusano invece di dare eccessivo peso all’immagine e all’esteriorità e di aver reso Roma una sorta di grande Luna Park, scintillante e continuo teatro di eventi, senza che l’amministrazione mostri però capacità di approfondimento e di comprensione dei problemi reali e quotidiani. Secondo questi ultimi, infatti, la sua azione di governo sarebbe costruita cavalcando l’onda di iniziative o idee frutto del lavoro di altri, con la caratteristica di rendere tutto un fenomeno mediatico e svuotandolo di significato.

La realtà, come spesso accade, sembra essere nel mezzo: la “bella politica”48 di Veltroni va contestualizzata nel complesso quadro di un’epoca in cui anche i nostalgici della vecchia politica -basata sui comizi nelle piazze e sulle grandi ideologie- devono riconoscere che, senza nulla togliere alla necessità di un’elaborazione solida che porti ad approcci analitici e strutturati, e pur ammettendo che l’abilità mediatica non necessariamente è sinonimo di buona amministrazione, un forte impegno di comunicazione e sensibilizzazione è indispensabile.

Sulla base di tali considerazioni, è possibile tentare di sciogliere il nodo principale cui quest’analisi tenta di dare risposta, vale a dire l’individuazione del possibile contributo degli enti locali al raggiungimento delle priorità di sviluppo dell’Agenda globale. Partendo dalle ultime riflessioni e ripercorrendo quanto visto finora, infatti, sembra potersi affermare che il nuovo ruolo internazionale dei governi di prossimità sia riassumibile nella capacità di rilanciare in modo chiaro e visibile il messaggio della centralità della lotta contro la povertà e dello sviluppo umano, riaffermando efficacemente il valore della solidarietà e il senso di appartenenza a una comunità –locale e al tempo stesso globale- grazie a un rapporto diretto con il territorio in grado di dare voce a quegli stessi popoli delle Nazioni Unite in nome dei quali da decenni si parla e agisce ma che troppo spesso finiscono per essere ignorati o dimenticati.

48 Espressione ripresa da W. Veltroni, La bella politica. Un’intervista di Stefano Del Re, Rizzoli, Milano, 1996.

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86. Dario Vadacca, Dario Antiseri e Marcello Pera: confronto sulla questione del metodo scientifico, 2003. 87. Paolo D’Ambrosio, La ricezione del pensiero di Thomas Kuhn nei testi liceali italiani di storia della filosofia, 2003. 88. Nicola Pastore, La programmazione neuro-linguistica: un’analisi epistemologica, maggio 2003. 89. Alban Bouvier, In che misura la teoria sociale di James Coleman è troppo parsimoniosa? Potenza e limiti delle Teorie della Scelta Razionale, maggio 2003. 90. Sebastiano Bavetta, Analisi e misura della libertà. Una proposta metodologica ed una sostanziale, 2003. 91. Baby George, The Relevance of the “Open Society” in World Politics, ottobre, 2003. 92. Massimo Tringali, Diritto e stato in Kelsen e Passerin D’entreves, 2003. 93. Luigi Di Gregorio, I modelli di democrazia di Lijphart tra ‘ideale’ ed ‘empirico’, dicembre 2003. 94. Donatella Marucci, Teoria e tecnica del lobbing, dicembre 2003. 95. Fabrizio Fontana, Può una teoria fisica evolvere anche se i suoi nemici sono vivi?, 2004. 96. Francesco Cherubini, Relativismo e contestazione: per una interpretazione individualistica del terrorismo, 2004. 97. Giuseppina Gianfreda, Le fasi iniziali della crisi Argentina: una spiegazione monetaria?, 2004. 98. Maria Verdiana Tardi, Le trasformazioni dei partiti politici italiani nell’ambito del passaggio dalla prima alla seconda repubblica: il caso di alleanza nazionale, 2004. 99. Italo Francesco Baldo, Libertà e giustizia. L’antiutopia di Georg Orwell, 2004. 100. Jean Petitot, Le libéralisme come éthique critique chez Friedrich von Hayek, 2005. 101. Adolfo Fabbio, L’etica inintenzionale di Kant, 2005. 102. Gregorio Alteri, La questione degli “indi” nel pensiero di Bartolomé De Las Casas e Francisco De Vitoria, 2005. 103. Francesco Di Iorio, Dalla teoria della dispersione della conoscenza alla cibernetica economica: l’auto-organizzazione del mercato secondo F.A. von Hayek, 2006. 104. Simona Fallocco, Gli adolescenti e la devianza, 2006. 105. Dario Antiseri, Principi liberali, 2007, traduzione in serbo di Jovika Milic. 106. Dario Antiseri, Questioni di metodologia clinica. Domande a Vito Cagli, 2007. 107. Daniela Diamanti, Obiettivi del Millennio e Amministrazioni Locali: il Caso di Roma, 2007