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Centro di metodologia delle scienze sociali LE IPOTESI DELLA RAGIONE E I LIMITI DELLA CONOSCENZA «POSSIBILITAIPOTETICA», «INDUZIONE», «ANALOGIA», «RIFLESSIONE» E «ASTRAZIONE» NELLA LOGICA DI KANT Andrea Gentile Working Papers n. 108, 2007 © 2007, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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Centro di metodologia delle scienze sociali

LE IPOTESI DELLA RAGIONE E I LIMITI DELLA CONOSCENZA

«POSSIBILITA’ IPOTETICA», «INDUZIONE», «ANALOGIA»,

«RIFLESSIONE» E «ASTRAZIONE» NELLA LOGICA DI KANT

Andrea Gentile

Working Papers n. 108, 2007

© 2007, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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«Abbiamo osservato, a proposito della probabilità, che essa non è altro che un’approssimazione alla certezza. Questo è in particolare il caso

delle ipotesi, con le quali non possiamo mai pervenire ad una certezza apodittica, ma sempre solo ad un grado, ora maggiore ora minore, di

probabilità nella nostra conoscenza».

«L’insieme di tutti gli oggetti accessibili alla nostra conoscenza ci si presenta come una superficie piana, fornita di un orizzonte apparente,

che abbraccia il suo ambito intero, a cui abbiamo dato il nome di concetto razionale della totalità incondizionata: non c’è questione della

nostra ragion pura che non riguardi ciò che si trova al di là di questo orizzonte o almeno sulla sua linea-limite (Grenzlinie)»

Immanuel Kant

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1. Le «ipotesi» e la «possibilità ipotetica»: hypothetische Möglichkeit

Sullo sfondo della distinzione semantica tra “astrazione”, “comparazione” e “riflessione”, nella Logica di Kant assume un ruolo decisivo il significato di “ipotesi” (Hypothese) in un orizzonte critico-trascendentale. «Abbiamo osservato, a proposito della probabilità, che essa non è altro che un’approssimazione alla certezza. Questo è in particolare il caso delle ipotesi, con le quali non possiamo mai pervenire ad una certezza apodittica, ma sempre solo ad un grado, ora maggiore ora minore, di probabilità nella nostra conoscenza»1. Che cos’è un ipotesi? Qual è la sua funzione e la sua finalità nella filosofia trascendentale di Kant? Quali sono le condizioni che definiscono e fondano la “possibilità ipotetica” (hypothetische Möglichkeit)?

«Un’ipotesi – osserva Kant – è un tener-per-vero (Fürwahrhalten) il giudizio nella verità di un fondamento per la sufficienza delle conseguenze o, più brevemente, il tener-per-vera una presupposizione come fondamento. Nelle ipotesi, ogni tener-per-vero si fonda perciò sul fatto che la presupposizione, come fondamento, è sufficiente a spiegare altre conoscenze come sue conseguenze. Qui, infatti, inferiamo dalla verità della conseguenza la verità del fondamento. Ma siccome questo tipo di inferenza fornisce un criterio sufficiente della verità e può condurre ad una certezza apodittica solo se tutte le possibili conseguenze di un fondamento ammesso sono vere, ne deriva evidentemente che, giacché non possiamo mai determinare tutte le conseguenze possibili, le ipotesi restano sempre ipotesi, vale a dire presupposizioni alla cui piena certezza non possiamo mai pervenire. Nonostante ciò, la probabilità di un’ipotesi può ben crescere ed elevarsi fino al rango di analogon della certezza: ciò accade quando tutte le conseguenze che ci si sono presentate finora possono venire spiegate in base al fondamento presupposto. In questo caso, infatti, non c’è nessuna ragione per cui non dovremmo assumere che tutte le possibili conseguenze possano venire spiegate in tal modo. In questo caso, dunque, ci atteniamo all’ipotesi come se fosse pienamente certa, anche se essa non lo è che per induzione»2. Ma «qualcosa – aggiunge Kant – deve pur essere certo in ogni ipotesi». Questo «qualcosa» viene sintetizzato in tre punti fondamentali:

a) La possibilità soggettiva della presupposizione. b) La conseguenza. Le conseguenze devono “derivare” in modo corretto e

rigorosamente necessario dal fondamento assunto, altrimenti l’ipotesi diventa una semplice “chimera”.

c) L’unità. Requisito essenziale di un’ipotesi è che si tratti di un’ipotesi unica, semplice, originaria e che essa non abbia bisogno, a suo sostegno, di “ipotesi sussidiarie” (hypotheses subsidiariae).

1 I. Kant, Logica, a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma, 1990, p. 77. 2 Ibid., p. 78.

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Nel paragrafo Del grado della possibilità (Vom Grade der Möglichkeit) delle Lezioni

di Metafisica, Kant confronta la “possibilità ipotetica” (hypothetische Möglichkeit) della ragione con la “possibilità intrinseca” (innere Möglichkeit). «Mentre la possibilità intrinseca non ha alcun grado, la possibilità ipotetica ha un grado, perché ogni ipotesi è un principio (Grund) e ogni principio ha una grandezza. Ogni principio ha un grado, ma le conseguenze possono a loro volta essere considerate estensivamente (extensiv) o intensivamente (intensiv). Un principio che ha molte conseguenze si chiama principio fecondo (fruchtbarer Grund). Un principio che ha grandi conseguenze (grosse Folgen) si chiama: wichtiger Grund»3.

In linea con queste riflessioni, nella Dottrina trascendentale del metodo nel paragrafo: La disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi, Kant sostiene che se la capacità di immaginazione non vuole “sognare”, bensì “congetturare” (dichten) sotto la rigida sorveglianza critica della ragione, in tal caso dovrà preesistere qualcosa che sia pienamente certo, e non già “inventato” (erdichtet) come semplice opinione: questo qualcosa è la possibilità dell’oggetto stesso. «Sarà allora certamente permesso di ricorrere, per quanto riguarda la realtà di tale oggetto, all’opinione, la quale peraltro, per non essere infondata, deve porsi in relazione, come fondamento esplicativo, con ciò che è realmente dato. In tal caso, l’opinione si chiama ipotesi»4.

Sullo sfondo del rapporto semantico tra ipotesi, possibilità ipotetica, metodo ed esame critico della ragione, il filosofo di Königsberg osserva che «se nelle questioni speculative della ragion pura non è lecito introdurre ipotesi come fondamento costitutivo di proposizioni, le ipotesi però sono perfettamente lecite se si tratta di difendere tale proposizioni: cioè, le ipotesi sono ammissibili non nell’uso dogmatico, ma in quello polemico. Io intendo per difesa, non l’aumento delle prove di un’asserzione, ma semplicemente la confutazione degli argomenti inconsistenti dell’avversario, diretti a inficiare le nostre asserzioni. Ora, tutte le proposizioni sintetiche della ragion pura hanno questo di peculiare che, se da un lato colui il quale afferma la realtà delle idee non è mai in grado di rendere certa la sua proposizione, dall’altro, l’avversario è altrettanto poco in grado di confutarla. Questa parità fa sì che nessuna delle due parti è favorita dalla ragione umana per quanto riguarda la conoscenza speculativa, sicché ne risulta un campo di battaglia le cui lotte non troveranno mai fine»5. Nel campo della ragion pura, le ipotesi “trovano ospitalità” come “armi di difesa”, non per fondare un “diritto”, ma per difenderlo. Secondo Kant, le ipotesi sono giudizi problematici, tali che nulla è in grado di contraddirli, ma allo stesso

3 I. Kant, Lezioni di Metafisica, con testo tedesco a fronte, a cura di A. Rigobello, S. Paolo, Roma, 1998, p. 123. 4 KrV, B798/A770. 5 Ibid., B804/A776.

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tempo, nulla è in grado di dimostrarli in modo rigorosamente certo e definitivo secondo un uso apodittico della ragione. Ma secondo quali strutture del trascendentale è possibile distinguere l’uso apodittico da un uso problematico della ragione? Quali sono i limiti e la possibilità dell’uso problematico della ragione nella filosofia trascendentale di Kant? Se, come afferma Kant, la ragione è la facoltà di «dedurre il particolare dall’universale, senza dubbio l’universale può essere già in sé certo e dato, ed allora si richiede soltanto la capacità di giudizio per la sussunzione, cosicché il particolare risulta necessariamente determinato. Chiamerò ciò uso apodittico della ragione. Ma può darsi il caso che l’universale venga assunto solo problematicamente, e sia una semplice idea: il particolare è certo, ma l’universalità della regola riguardante questa conseguenza rimane ancora un problema. Così parecchi casi particolari, che sono tutti quanti certi, vengono provati rispetto alla regola, per vedere se derivino da essa, ed allora, quando tutti i casi particolari che si possono addurre risultano conseguire da essa, si conclude all’universalità della regola, che viene poi estesa a tutti i casi, anche se non sono dati in sé. Quest’altro uso, lo chiamerò l’uso ipotetico della ragione»6.

L’uso ipotetico della ragione, fondato su idee intese come concetti problematici, non è propriamente costitutivo, cioè non ha una natura tale che da esso segua la verità della regola universale, la quale è stata assunta come ipotesi. Tale uso è invece regolativo ed ha lo scopo di portare all’unità, per quanto è possibile, le conseguenze particolari e di approssimare in tal modo la regola all’universalità. L’uso ipotetico della ragione tende perciò all’unità sistematica delle conoscenze dell’intelletto: tale unità, del resto, è la pietra di paragone della verità delle regole e serve tuttavia a trovare un principio per l’uso molteplice e particolare dell’intelletto. L’unità sistematica, intesa come semplice idea, è unicamente l’unità “proiettata”, che in sé deve essere considerata non già come data, bensì soltanto come un problema in un orizzonte critico-trascendentale.

2. «Astrazione», «comparazione» e «riflessione»

Sullo sfondo del concetto di “ipotesi”, di “possibilità ipotetica” e di “uso ipotetico” della ragione, nel paragrafo 6 della Logica, Kant afferma che «gli atti logici dell’intelletto, grazie ai quali i concetti vengono prodotti», sono: a) la comparazione, cioè il confronto delle rappresentazioni tra di loro, in rapporto all’unità della coscienza; b) la riflessione, cioè la considerazione del modo in cui le rappresentazioni diverse possono essere contenute in un’unica coscienza; c) l’astrazione di tutto il rimanente (vale a dire astrarre da tutto ciò in cui le rappresentazioni date si distinguono).

6 Ibid.

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Per elaborare, formare e definire concetti sulla base delle rappresentazioni, bisogna dunque essere in grado di comparare, riflettere e astrarre. Secondo Kant, queste tre operazioni logiche dell’intelletto, infatti, sono le condizioni “essenziali” e “universali” per la produzione di qualunque concetto in generale. «Io vedo, per esempio, un salice e un tiglio. Confrontando questi oggetti tra loro, innanzi tutto, noto che essi sono diversi l’uno dall’altro riguardo al tronco, ai rami, alle foglie, al colore; ma poi, riflettendo solo su ciò che essi hanno in comune tra di loro: il tronco, i rami e le foglie stesse, e astraendo dalle loro caratteristiche variabili, particolari (dalla loro grandezza, dalla loro figura), ottengo il concetto di albero»7.

L’astrazione è la condizione negativa sotto la quale possono venire prodotte rappresentazioni universalmente valide; la condizione positiva è la comparazione e la riflessione8. Nella logica non sempre, però, si usa correttamente il termine astrazione. «Non dobbiamo dire “astrarre qualcosa” (abstrahere aliquid), ma “astrarre da qualcosa” (abstrahere ab aliquo). Quante più differenze delle cose vengono lasciate fuori da un concetto, ovvero da quante più determinazioni si astrae nel concetto stesso, tanto più astratto è il concetto. I concetti astratti dovrebbero perciò propriamente chiamarsi concetti astraenti (conceptus abstrahentes), cioè tali che in essi hanno luogo più astrazioni»9. L’astrarre come processo razionale è l’operazione mediante la quale qualcosa è prima scelta come oggetto di percezione, osservazione, considerazione, analisi e indagine critica e poi viene isolata da altri elementi o nozioni con cui entra in relazione. L’astrazione da un punto di vista operativo presenta due aspetti: a) isolare il concetto prescelto dagli altri con cui è in relazione; b) assumere come oggetto specifico di analisi quello che con ciò viene isolato (astrazione selettiva). Pur distinguendo questi due significati in un orizzonte semantico, Kant tuttavia sottolinea l’importanza dell’astrazione nel senso tradizionale, come uno dei processi “ordinari” della ragione, sottolineando la sua funzione di separare una rappresentazione, di cui si è coscienti, dalle altre con cui essa è legata nella coscienza. E’ chiaro che l’intero procedimento di Kant inteso a “isolare” (isolieren) gli elementi a priori della conoscenza o in generale dell’attività umana è un procedimento astrattivo in un orizzonte critico-trascendentale. In una logica trascendentale – osserva Kant – «noi isoliamo l’intelletto (come nell’Estetica trascendentale, la sensibilità) e rileviamo di tutta la nostra conoscenza soltanto la parte del pensiero che ha la sua origine unicamente nell’intelletto».

Nella filosofia trascendentale di Kant, i termini “astrazione” (Abstraktion), “astratto” (Abstrakt) e “astrarre” (Abstrahieren) entrano in relazione semantica con l’origine logica dei concetti. L’origine dei concetti, rispetto alla mera forma, si fonda sulla 7 I. Kant, Log., 87. 8 Cfr. M. Lobeiras Vázquez, Die Logik und ihr Spiegelbild. Das Verhältnis von formaler und transzendentaler Logik in Kants philosophischer Entwicklung, Stuttgart, 1998. 9 I. Kant, Log., 87.

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riflessione e sull’astrazione «dalla differenza tra le cose che sono designate a partire da un certa rappresentazione»10. E qui sorge la domanda: Quali operazioni dell’intelletto formano un concetto o quali sono le condizioni di possibilità per la produzione di un concetto a partire da rappresentazioni date? La logica generale, giacché astrae da ogni contenuto della conoscenza per concetti, può esaminare il concetto solo riguardo alla sua forma, cioè solo dal punto di vista soggettivo; non può esaminare come esso, attraverso una nota determina un oggetto, ma solo come esso può venire riferito a più oggetti. La logica generale non ha la finalità quindi di indagare la fonte dei concetti, ossia non il modo in cui i concetti hanno origine, in quanto rappresentazioni, ma esclusivamente il modo in cui rappresentazioni date divengono, nel pensiero, concetti. «Questi concetti, per il resto, possono contenere qualcosa che deriva dall’esperienza o dalla natura dell’intelletto. Tale origine logica dei concetti (l’origine rispetto alla loro mera forma) si fonda sulla riflessione attraverso la quale una rappresentazione comune a più oggetti (conceptus communis) ha origine quale forma richiesta per il giudizio»11.

Secondo Kant, in base ad un processo razionale di “astrazione”, non “si forma” né si elabora alcun concetto: l’astrazione «perfeziona soltanto il concetto, lo racchiude e lo definisce nei suoi limiti determinati»12. L’astrazione è la condizione “negativa” in base alla quale possono venire prodotte rappresentazioni universalmente valide, mentre la condizione “positiva” è la comparazione e la riflessione in un orizzonte trascendentale13. La riflessione – come afferma Kant nelle Anfibolie dei concetti della riflessione – è quello stato dello spirito in cui cominciamo a disporci a scoprire le condizioni soggettive in base alla quali è possibile arrivare ai concetti: è la coscienza della relazione tra le rappresentazioni date e le varie fonti della conoscenza. «Non tutti i giudizi hanno bisogno di un’indagine, non tutti cioè richiedono che si ponga attenzione ai fondamenti della loro verità; in effetti, se essi sono immediatamente certi (per esempio: tra due punti può esservi una sola linea retta) non si può indicare a loro riguardo un segno di verità più immediato di quello che essi stessi esprimono. Tutti i giudizi, però, richiedono una riflessione (Reflexion), cioè una distinzione della facoltà conoscitiva, cui appartengono i concetti dati. L’atto, con cui il confronto delle rappresentazioni in generale è da me raccolto insieme alla facoltà conoscitiva dove esso viene istituito, e con cui distinguo se tali rappresentazioni sono confrontate tra loro

10 Ibid. 11 Ibid. 12 Ibid., p. 88. 13 Cfr. A. Goldman, Transcendental Reflexion and the Boundary of Possible Experience, in: Kant und die Berliner Aufklärung, n. 193, Bd. 2, 2001, pp. 289-297; R. Hiltscher, Einige Anmerkungen zu Kants Lehre von Reflexion, Selbstbewusstsein und Subjektivität, in: AA.VV., Perspektiven der Transzendentalphilosophie, n. 36, 2002, pp. 273-300.

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come appartenenti all’intelletto puro, o all’intuizione sensibile, io la chiamo riflessione trascendentale»14.

In questo orizzonte trascendentale, la relazione che può sussistere tra i concetti è quella di “identità” e “diversità”, quella di “accordo” e “contrasto”, quella di “interno” e ed “esterno”, quella di “determinabile” e di “determinazione”. La definizione semantica di questa relazione dipende dall’accertare in quale facoltà conoscitiva i concetti appartengono soggettivamente l’uno all’altro, se nella sensibilità oppure nell’intelletto. «Prima di costituire un qualsiasi giudizio, – osserva Kant Kant – noi confrontiamo i concetti, per giungere all’identità (di molte rappresentazioni subordinatamente ad un solo concetto), in vista di giudizi universali, o alla diversità di tali rappresentazioni, per la produzione di giudizi particolari; all’accordo, onde possono risultare giudizi affermativi, e al contrasto, onde possono risultare giudizi negativi. Poiché tuttavia, quando si tratta non già della forma logica, bensì del contenuto dei concetti le cose possono avere una duplice relazione con la facoltà conoscitiva, ossia possono essere in rapporto con la sensibilità o con l’intelletto, e poiché d’altronde il modo in cui esse debbono appartenere l’una all’altra dipende da questa posizione, in cui rientrano, in tal caso la riflessione trascendentale (cioè il rapporto di rappresentazioni date con l’uno o l’altro modo di conoscenza) potrà essa sola determinare la relazione reciproca di tali rappresentazioni. Inoltre, se le cose siano identiche o differenti, concordanti o contrastanti, potrà essere stabilito non già immediatamente in base ai concetti stessi e attraverso una semplice comparazione (comparatio), bensì solo attraverso la distinzione del modo di conoscenza cui tali cose appartengono, e mediante una riflessione trascendentale»15.

Mentre la riflessione logica è una semplice “comparazione”, poiché in essa si astrae completamente dalla facoltà conoscitiva a cui si riferiscono le rappresentazioni date; al contrario, la riflessione trascendentale, che si riferisce agli oggetti del molteplice sensibile dato, contiene invece il fondamento della possibilità della comparazione oggettiva delle rappresentazioni. Se noi riflettiamo soltanto logicamente, ci limitiamo allora a confrontare tra loro, nell’intelletto, i nostri concetti, osservando se due concetti abbiano lo stesso contenuto, se essi si contraddicano o no, se qualcosa sia contenuto entro il concetto, oppure si aggiunga ad esso, e notando quale dei due sia “dato” e quale invece possa essere solo “pensato” secondo la “possibilità logica”. Però, se applichiamo questi concetti ad un oggetto in generale in senso trascendentale, senza determinare ulteriormente se esso sia un oggetto dell’intuizione sensibile oppure di quella intellettuale, si mostrano allora senz’altro certe limitazioni che caratterizzano ogni uso empirico dei concetti della riflessione. Queste limitazioni dimostrano che si può

14 KrV., A261/B317. 15 Ibid., A262/B318.

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“astrarre” da ogni oggetto (come avviene nella riflessione logica), oppure, se si assume un oggetto del molteplice sensibile, è necessario uniformarsi alle condizioni di possibilità della riflessione trascendentale. «Questa riflessione trascendentale è un dovere da cui nessuno può esimersi, quando si vuole formulare un qualche giudizio a priori sulla totalità del molteplice sensibile»16.

3. Inferenze «immediate» e inferenze «mediate» della ragione

Secondo Kant, tutte le inferenze della ragione sono immediate o mediate. «L’inferire va inteso come quella funzione del pensiero per mezzo della quale un giudizio viene derivato da un altro. Pertanto, un’inferenza in generale è la derivazione di un giudizio da un altro. Un’inferenza immediata (consequentia immediata) è la derivazione (deductio) di un giudizio da un altro senza un giudizio intermedio (iudicium intermedium). Un’inferenza è mediata quando, oltre al concetto che un giudizio contiene in sé, ha bisogno anche di altri giudizi per derivarne una conoscenza. Le inferenze immediata sono inferenze dell’intelletto mentre tutte le inferenze mediate sono o inferenze della ragione o inferenze del Giudizio. Il carattere essenziale di tutte le inferenze immediate o il principio della loro possibilità consiste esclusivamente in un mutamento della mera forma dei giudizi; mentre la materia dei giudizi, il soggetto e il predicato, resta la medesima, immutata»17. Per il fatto che nelle inferenze immediate, viene mutata solo la forma e in nessun modo la “materia” dei giudizi, queste inferenze si distinguono per la loro natura da tutte quelle mediate, nelle quali i giudizi sono diversi anche rispetto alla “materia” o al contenuto, giacché qui deve intervenire un nuovo concetto quale giudizio intermedio o termine medio (medius terminus) per poter derivare un giudizio da un altro. Un’inferenza della ragione – osserva Kant – è la “conoscenza della necessità” di una proposizione mediante la “sussunzione della sua condizione” sotto un regola universale data. «Il principio universale sul quale si fonda la validità di ogni inferire mediante la ragione si può esprimere in modo determinato con la seguente formula: ciò che sta sotto la condizione di una regola sta anche sotto la regola stessa. L’inferenza della ragione premette una regola universale e una sussunzione sotto la condizione di questa. In tal modo si conosce la conclusione a priori non nel caso singolo, ma come contenuta nell’universale e come necessaria sotto una certa condizione. E questo fatto che tutto stia sotto l’universale e sia determinabile in regole universali è appunto il principio della razionalità o della necessità (principium

16 Ibid. 17 I. Kant, Log., p. 112.

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razionalitatis s. necessitatis)»18. Di ogni inferenza della ragione fanno parte i seguenti tre elementi essenziali:

a) una regola universale che viene detta propositio maior;

b) la proposizione che sussume una conoscenza sotto la condizione della regola universale e che si chiama propositio minor;

c) la proposizione che afferma o nega il predicato della regola a proposito della conoscenza sussunta: la conclusione (conclusio).

Le prime due proposizioni, nella loro connessione reciproca, vengono chiamate proposizioni antecedenti o premesse. Una regola è un’asserzione sotto una condizione universale, mentre il rapporto della condizione con l’asserzione, cioè il modo in cui questa sta sotto quella, è «l’esponente della regola». La conoscenza del fatto che la condizione ha luogo è la sussunzione: la connessione di ciò che è stato sussunto sotto la condizione con l’asserzione della regola è l’inferenza. «Tutte le regole (giudizi) contengono l’unità oggettiva della coscienza del molteplice della conoscenza, quindi una condizione sotto la quale una conoscenza appartiene, insieme all’altra, ad una sola coscienza. Vi sono tre condizioni di possibilità di questa unità, vale a dire: come soggetto dell’inerenza delle note, come fondamento della dipendenza di una conoscenza dall’altra, o, infine, come congiunzione delle parti in un tutto (divisione logica). Di conseguenza, possono esserci solo altrettante specie di regole universali (propositiones maiores) mediante le quali la conseguenza di un giudizio viene mediata da un altro giudizio. E ciò che fonda la ripartizione di tutte le inferenze della ragione in categoriche, ipotetiche e disgiuntive»19. Nelle inferenze categoriche della ragione la propositio maior è una proposizione categorica, nelle ipotetiche è una proposizione ipotetica o problematica e nelle disgiuntive è una proposizione disgiuntiva20. In ogni inferenza categorica della ragione si trovano tre concetti principali (termini), vale a dire: a) il predicato (nella conclusione), concetto che si chiama concetto maggiore (terminus maior), perché esso ha una sfera maggiore di quella del soggetto; b) il soggetto (nella conclusione), il cui concetto si chiama concetto minore (terminus minor); c) e infine, una nota intermedia che si chiama concetto medio (terminus medius), attraverso il quale una conoscenza viene sussunta sotto la condizione della regola.

18 Ibid., p. 114. 19 Ibid. 20 In questa direzione di ricerca, cfr. W. Vossenkuhl, Hypotetische und disjunktive Schlüsse, pp. 237-238 in: W. Vossenkuhl, Das System der Vernunftschlüsse, pp. 232-234 in: AA.VV., System der Vernunft. Kant und der Deutsche Idealismus, Band I, Herausgegeben von W. G. Jacobs, H. D. Klein, J. Stolzenberg, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 2001.

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4. Le «inferenze ipotetiche» della ragione

Secondo Kant, un’inferenza ipotetica si fonda su due proposizioni: «una proposizione antecedente (antecedens) e una conseguente (consequens) e qui si conclude o con il modus ponens con il modus tollens»21. Le inferenze ipotetiche della ragione non hanno dunque alcun medius terminus, ma invece in esse la conseguenza di una proposizione dall’altra viene solo indicata. Infatti, nella loro propositio maior viene espressa la conseguenza di due proposizioni l’una dall’altra: di queste due proposizioni, la prima è una premessa, la seconda è la conclusione. La minore è una trasformazione della condizione problematica in una proposizione categorica. «Il fatto che l’inferenza ipotetica consiste solo di due proposizioni, senza avere un concetto medio, rende evidente che essa non è propriamente un’inferenza della ragione, ma, piuttosto, solo un’inferenza immediata, dimostrabile a partire da una proposizione antecedente e da una conseguente, secondo la materia e la forma (conseguentia immediata demonstrabilis ex antecedente et consequente vel quoad materiam vel quoad formam). Pertanto, il principio delle inferenze ipotetiche è il principio di ragione: A ratione ad rationatum, a negatione rationati ad negationem rationis, valet consequentia»22. Diversamente dalle inferenze ipotetiche, nelle inferenze disgiuntive la propositio maior è una proposizione disgiuntiva e deve perciò avere, in quanto tale, membri della ripartizione o disgiunzione. «Qui si conclude o dalla verità di un membro della disgiunzione alla falsità degli altri oppure dalla falsità di tutti i membri, eccetto uno, alla verità di quest’ultimo. Il primo caso ha luogo attraverso il modus ponens (o ponendo tollens), il secondo attraverso il modus tollens (tollendo ponens)»23. Tutti i membri della disgiunzione eccetto uno, presi insieme, formano l’opposto “contraddittorio” di quell’uno. Qui ha dunque luogo una dicotomia per la quale, se uno dei due è vero, l’altro deve essere falso e viceversa. Tutte le inferenze disgiuntive della ragione composte da più di due membri della disgiunzione sono perciò propriamente «polisillogistiche e la condizione o il principio logico che ne fonda la possibilità è il principio del terzo escluso: A contradictorie oppositorum negatione unius ad affirmationem alterius, a positione unius ad negationem alterius, valet consequentia»24.

Sullo sfondo della distinzione semantica tra inferenze categoriche, disgiuntive e ipotetiche, nel paragrafo 81 della Logica Kant definisce il significato di “inferenze del Giudizio” che assume un ruolo centrale nella filosofia critica in particolare in rapporto alle strutture del trascendentale nella Critica del Giudizio: «Le inferenze del Giudizio sono certi modi di inferire per arrivare a concetti universali partendo da concetti

21 I. Kant, Log., p. 123. 22 Ibid. 23 Ibid., p. 124. 24 Ibid.

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particolari. Non sono dunque funzioni del giudizio determinante, ma di quello riflettente; a tal modo, esse non determinano neppure l’oggetto, ma solo il modo della riflessione su di esso, per pervenire alla sua conoscenza. Il principio che sta a fondamento delle inferenze del Giudizio è il seguente: molte cose non possono accordarsi in unità senza un fondamento comune, ma, invece, ciò che conviene, in tal modo, a molte cose deve essere necessario a partire da n fondamento comune. Il Giudizio è di due tipi: il Giudizio determinante e il Giudizio riflettente. Il primo va dall’universale al particolare, il secondo dal particolare all’universale. Il secondo ha validità solo soggettiva; infatti, l’universale verso il quale esso procede, partendo dal particolare, è solo l’universalità empirica, un mero analogon di quella logica»25. In questo orizzonte soggettivo, Kant distingue due modi di “inferire”: l’inferenza per induzione e l’inferenza per analogia.

5. «Induzione» e «analogia»: che cosa significa «simulare»

«Il Giudizio, procedendo dal particolare all’universale per trarre dall’esperienza, quindi non a priori (empiricamente) giudizi universali, conclude o da molte cose a tutte le cose di una specie, oppure da molte determinazioni e proprietà in cui cose della medesima specie si accordano alle rimanenti, in quanto esse appartengono allo stesso principio. Il primo modo d’inferire si chiama inferenza per induzione; il secondo, inferenza per analogia»26. Con queste parole, Kant nel paragrafo 84 della Logica definisce e distingue l’induzione dall’analogia. L’induzione conclude dal particolare all’universale (a particulari ad universale) secondo il principio della “generalizzazione”: ciò che conviene a molte cose di un genere conviene anche alle altre. L’analogia conclude dalla somiglianza particolare di due cose alla somiglianza totale, secondo il principio della “specificazione”: le cose di un genere delle quali si conoscono molti punti in comune s’accordano anche in ciò che conosciamo in alcune cose di quel genere, ma che non vediamo in altre. Mentre l’induzione estende ciò che è dato empiricamente dal particolare all’universale riguardo a molti oggetti, l’analogia, invece, estende le proprietà date di una cosa a più proprietà della stessa medesima cosa. «Uno in molti, dunque in tutti: induzione; molti in uno (di ciò che è anche in altri): analogia. Nell’inferire per analogia, pertanto, non è richiesta l’identità del fondamento (per ratio), né si può concludere per analogia al di là del tertium comparationis»27.

Secondo Kant, l’induzione e l’analogia non sono dunque “inferenze della ragione”, ma solo “presunzioni logiche”28, ovvero inferenze empiriche: attraverso l’induzione si

25 I. Kant, Log., p. 126. 26 Ibid., p. 127. 27 Ibid. 28 Ibid.

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ottengono sì proposizioni generali, ma non propriamente universali. Queste inferenze del Giudizio sono “utili” e “indispensabili” in vista dell’estensione della nostra conoscenza in un orizzonte soggettivo-trascendentale. In filosofia, però, le analogie29 significano qualcosa di assai diverso da ciò che esse rappresentano in matematica. In quest’ultima si tratta di formule che stabiliscono l’uguaglianza di due relazioni quantitative e si tratta di analogie sempre costitutive: quando sono dati tre termini della proporzione, in tal modo anche il quarto risulta dato, cioè può essere costruito. In filosofia, invece, l’analogia non è l’uguaglianza di due relazioni quantitative, bensì l’uguaglianza di due relazioni qualitative: partendo da tre termini dati, posso conoscere e fornire a priori solo la relazione con un quarto termine, e non già questo quarto termine stesso. Con tale analogia, si fa riferimento ad una regola per cercare il quarto termine nell’esperienza. Una analogia dell’esperienza, dunque, sarà soltanto una regola valida come proposizione riguardante il molteplice sensibile a cui è possibile fare riferimento non in modo costitutivo, ma in modo semplicemente regolativo.

In questo contesto assume un ruolo particolarmente significativo definire che cosa significa simulare in un orizzonte «regolativo-trascendentale-analogico»30. Simulare (dal latino simulare, propriamente “rendere simile”; da similis, simile) significa riprodurre le caratteristiche essenziali e autentiche di un fenomeno direttamente (in scala uguale o diversa dal reale) o mediante un modello analogico elaborato, definito e determinato dalla ragione. Qui l’analogia non esprime, come generalmente s’intende, una somiglianza “imperfetta” (unvollkommene) di due cose, ma una somiglianza “perfetta” (vollkommene) di due rapporti tra cose del tutto dissimili. In questo orizzonte, l’analogia si dà come una “regola” di ricerca o come un “contrassegno” (Merkmal) che, nei dati dell’esperienza, ci dirige proprio verso quell’inconoscibile che è il quarto termine. Le conclusioni per analogia vengono considerate «utili e indispensabili per estendere la nostra conoscenza», ma vengono definite da Kant come semplici “presunzioni” (Präsumtionen), piuttosto che come conclusioni razionali. Che cosa intende Kant con il termine Präsumtionen? Quali sono le condizioni di possibilità dei processi soggettivi della ragione? In quale orizzonte trascendentale è possibile affermare la legittimità del “presupporre” o dell’“ipotizzare” qualcosa in un campo di possibilità soggettivo-trascendentale?

29 Cfr. F. Marty, L'analogie chez Kant: une notion critique, in : «Les Etudes Philosophiques», luglio-dicembre, 1989, pp. 455-474 ; B. Camper, Analogie. Ein Hinweis auf die Möglichkeit, sie zeitlich zu denken, in: R. Mosis-L. Ruppero, Der Weg zum Menschen, Freiburg-Basel-Wien, 1989 e in: AA.VV., Perspektiven der Transzendentalphilosophie im Anschluß an die Philosophie Kants, Herausgegeben von André Giorgi und Reinhard Hiltscher, Freiburg-München, 2002. 30 Cfr. AA.VV., Synästhesie. Interferenz, Transfer und Synthese der Sinne, Herausgegeben von H. Adler, Würzburg, 2002.

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In questo orizzonte di ricerca, nella Dottrina trascendentale del metodo Kant ci fornisce alcune riflessioni particolarmente significative, sullo sfondo della distinzione semantica tra “opinare”, “credere” e “sapere”. Il credere a differenza del sapere e dell’opinare, è un “tener-per-vero” (Fürwahrhalten) che, pur non essendo sufficiente sul piano della fondazione oggettiva, lo è sul piano di una fondazione soggettiva.. Come afferma Kant, la “fondazione soggettiva” produce “convinzioni” e non “certezze”, come accade sul piano del “sapere” costitutivo. Ed è quasi superfluo ricordare che qui “fondazione soggettiva” non vuol dire arbitrio, ma riferimento alle strutture fondamentali e autentiche della “soggettività” (Subjektivität): è un analogon che Kant chiama anche “fede soggettiva” o ancora “fede razionale” nella Religione entro i limiti della sola ragione, nel saggio Che cosa significa orientarsi nel pensare e nella Critica del Giudizio.

6. «Credere», «opinare», «sapere»

L’opinare, ossia il tener per vero in base ad un fondamento di conoscenza che non è sufficiente né soggettivamente né oggettivamente, può essere considerato – secondo Kant – come un “giudicare provvisorio” (sub conditione suspensiva ad interim). «Bisogna cominciare con l’opinare prima di assumere ed affermare, ma facendolo, bisogna anche guardarsi dal prendere un’opinione per qualcosa di più di una mera opinione. E’ con l’opinare che noi cominciamo per lo più in tutte le nostre conoscenze. Talvolta abbiamo un oscuro presentimento della verità; una cosa ci sembra contenere note della verità o abbiamo un presagio della sua verità, ancor prima di conoscerla con certezza determinata»31. Ma in rapporto a quali “condizioni di possibilità” – si chiede Kant – ha senso e significato il “mero opinare”? E’ possibile definire i limiti e la possibilità dell’opinione? Che cosa significa “opinione verosimile”?

L’opinare non ha senso né significato nelle scienze che contengono “conoscenze a priori”: quindi né nella matematica, né nella metafisica, né nella morale, ma esclusivamente nelle conoscenze empiriche (nella fisica, astronomia, psicologia). Secondo Kant, è “assurdo” e “impossibile” opinare a priori. «Niente potrebbe essere più ridicolo che limitarsi a opinare in matematica. Qui, come nella metafisica e nella morale, l’unica alternativa è: o sapere o non sapere. Cose d’opinione non possono perciò mai essere altro che oggetti di una conoscenza per esperienza che in sé è senz’altro possibile, ma che è impossibile solo per noi in rapporto alle restrizioni e

31 I. Kant, Log., p. 60.

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condizioni empiriche della nostra facoltà conoscitiva e al grado che, di conseguenza, possediamo di tale facoltà»32.

Nella Critica della ragion pura Kant afferma che non si potrà mai “presumere” di opinare, senza almeno “sapere” qualcosa con cui il giudizio (in sé semplicemente problematico) ottenga una “connessione” con la verità: connessione che, sebbene non completa, è tuttavia qualcosa di più che una “finzione arbitraria”. I principi o le condizioni di possibilità di tale connessione devono essere determinati dalla ragione. «Se infatti, anche rispetto a tale legge, io non possiedo altro se non un’opinione, allora tutto risulta un semplice gioco dell’immaginazione, privo di ogni riferimento reale alla verità. Nei giudizi fondati sulla ragione pura non è assolutamente permesso di opinare. In effetti, dal momento che essi sono sostenuti da fondamenti di esperienza, e che in essi, piuttosto, tutto deve essere conosciuto a priori, in tal caso il principio della connessione richiede universalità e necessità, e di conseguenza una completa certezza, poiché in caso contrario non vi sarebbe alcuna guida per giungere alla verità. Nella matematica pura, perciò, è assurdo opinare: bisogna sapere, oppure astenersi da ogni giudizio. La situazione è analoga rispetto alle proposizioni fondamentali della moralità: in tal caso, non abbiamo il diritto di intraprendere un’azione, facendo riferimento alla semplice opinione»33.

L’“opinare”, pertanto, viene definito da Kant come un “tener per vero” (Fürwahrhalten). Il tener per vero è «di due tipi: o certo o incerto. Quello certo, è accompagnato “dalla coscienza della necessità”; quello incerto, dalla coscienza della contingenza o della “possibilità del contrario”. Il secondo, a sua volta, è o insufficiente sia soggettivamente sia oggettivamente oppure è insufficiente oggettivamente, ma sufficiente soggettivamente»34. Il primo si chiama “opinione” (Meinung), il secondo può essere chiamato “fede” (Glaube).

Sia nella Logica sia nella Dottrina trascendentale del metodo, Kant afferma che ci sono tre tipi o modi del tener-per-vero: l’opinare, il credere, il sapere. L’opinare è un giudicare “problematico”, il credere è un giudicare “assertorio”, infine, il sapere è un giudicare “apodittico”. «Infatti, giudicando, ho coscienza di considerare solo come problematico ciò che opino, come assertorio ciò che credo – ma necessario non oggettivamente, bensì solo soggettivamente (valido solo per me) – e, infine, come apoditticamente certo, ossia necessario oggettivamente e universalmente (valido per tutti), ciò che so, anche supponendo che l’oggetto stesso al quale si riferisce questo tener-per-vero che è certo non fosse altro che una verità empirica. Questa distinzione del

32 Ibid., p. 61. 33 KrV., B850/A822. 34 I. Kant, Log. p. 59.

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tener-per-vero secondo i tre modi appena indicati non riguarda che il Giudizio in rapporto ai criteri soggettivi di sussunzione del giudicare sotto regole oggettive»35.

A differenza dell’opinare, il “credere” (Glauben) è un tener-per-vero in base ad un fondamento che è «oggettivamente insufficiente, ma soggettivamente sufficiente: ciò che resta è un libero tener-per-vero, necessario solo in una prospettiva pratica data a priori, dunque un tener-per-vero necessario solo in una prospettiva pratica data a priori: è un tener-per-vero che io assumo per ragioni morali e che assumo nella certezza che non può mai venire provato il contrario»36.

Nella Logica in una nota al verbo Glauben, Kant afferma che il credere si distingue dall’opinare non per il “grado”, ma per il “rapporto” che ha, in quanto conoscenza, con l’agire. «Noi abbiamo conoscenze teoretiche del sensibile in cui possiamo arrivare alla certezza e la cosa deve essere possibile in rapporto alla totalità che possiamo chiamare conoscenza umana. Tali conoscenze certe e del tutto a priori ci sono date anche nelle leggi pratiche: queste ultime, però, si fondano su un principio soprasensibile della libertà e, invero, in noi stessi, come principio della ragion pratica. Ma questa ragion pratica è una causalità in rapporto ad un oggetto parimenti soprasensibile, il sommo bene, il quale non è possibile per facoltà nostra nel mondo sensibile. Tuttavia, la natura come oggetto della nostra ragione teoretica deve accordarvisi; infatti, la congruenza o l’effetto di questa idea deve venire incontrata nel mondo sensibile. Pertanto, noi dobbiamo agire in modo da realizzare questo fine»37.

Sullo sfondo di queste riflessioni, Kant afferma che nel mondo sensibile noi troviamo anche tracce di una «saggezza che opera ad arte» (Kunstweisheit). Si tratta di un tener-per-vero che è sufficiente per l’agire, ossia di una “fede” (Glaube)38. Ora, di essa «non abbiamo bisogno per agire secondo leggi morali, perché queste ultime vengono date soltanto dalla ragion pratica; ma abbiamo bisogno di ammettere, come oggetto della nostra volontà morale, una saggezza somma in vista della quale non possiamo fare a meno di orientare i nostri fini, al di là della mera rettitudine delle nostre azioni. Benché da un punto di vista oggettivo, non si tratterebbe di un rapporto necessario del nostro arbitrio, tuttavia il sommo bene, da un punto di vista soggettivo, è l’oggetto di una volontà buona e la fede nella sua raggiungibilità viene quindi necessariamente presupposta»39.

Tra l’acquisizione di una conoscenza mediante l’esperienza (a posteriori) e quella mediante la ragione (a priori) non c’è alcun “medio”. Ma tra la conoscenza di un oggetto e la mera presupposizione della sua possibilità c’è un “medio”: un fondamento 35 Ibid., p. 60. 36 Ibid., p. 61. 37 Ibid., nota a p. 61. 38 Ibid, nota a p. 62. 39 Ibid.

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empirico o razionale per ammettere la seconda in relazione ad un ampliamento necessario del campo degli oggetti possibili oltre i limiti di quegli oggetti la cui conoscenza è per noi possibile. Questa necessità ha luogo solo in relazione al fatto che l’oggetto venga conosciuto in quanto pratico e come “praticamente” necessario per la ragione. Infatti, ammettere qualcosa in vista del mero ampliamento della conoscenza teoretica è sempre contingente. «Questa presupposizione praticamente necessaria di un oggetto è quella della possibilità del sommo bene come oggetto dell’arbitrio, quindi anche della condizione di tale possibilità. Si tratta di una necessità soggettiva di ammettere la realtà dell’oggetto per via della necessaria determinazione dell’arbitrio. E’ il casus extraordinarius senza il quale la ragion pratica non può mantenersi in rapporto al suo fine necessario e qui il favor necessitatis lo soccorre nel suo proprio giudizio»40. La fede è una presupposizione della ragione in una prospettiva pratica soggettiva, ma assolutamente necessaria. L’intenzione conforme a leggi morali conduce ad un oggetto di quell’arbitrio che è determinato dalla ragion pura. Ammettere l’attuabilità di quest’oggetto e quindi anche la realtà della sua causa è una fede morale o un tener-per-vero libero e dal punto di vista morale per il conseguimento dei suoi fini è un tener-per-vero necessario. «Cose di fede perciò non sono oggetti della conoscenza empirica. Anche la cosiddetta fede storica non può quindi propriamente essere chiamata fede e venire contrapposta, in quanto tale, al sapere. Il tener-per-vero in base ad una testimonianza non è distinto né per grado né per specie dal tener-per-vero derivante da esperienza personale. Cose di fede non sono nemmeno oggetti della conoscenza razionale (conoscenza a priori), né di quella teoretica, per esempio nella matematica e nella metafisica, né di quella pratica nella morale. Le verità razionali matematiche possono sì essere credute su testimonianza, perché qui l’errore, da un lato, non è facile che accada e, dall’altro, è invece facile da scoprire, ma non le si può sapere in tal modo. Le verità razionali filosofiche non si possono neanche credere; esse non possono che venire sapute e per quanto riguarda, in particolare, gli oggetti della conoscenza razionale pratica della morale (i diritti e i doveri) nemmeno in relazione ad essi è mai possibile un mero credere. Bisogna essere del tutto certi – osserva Kant – se qualcosa è giusto o ingiusto, conforme o contrario al dovere, lecito o illecito. Sull’incerto non si può, nelle cose morali, rischiare niente e niente decidere, con il pericolo di un’infrazione contro la legge. Così, per esempio, per un giudice non è sufficiente credere soltanto che l’imputato di un crimine l’abbia davvero commesso. Lo deve sapere (giuridicamente), altrimenti agisce senza coscienza»41.

In questo orizzonte Kant afferma che sono “oggetto di fede ” solo quelle realtà a proposito delle quali il tener-per-vero è necessariamente libero, ossia non è determinato

40 Ibid. 41 Ibid., p. 63.

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da fondamenti di verità oggettivi, indipendenti dalla natura e dall’interesse del soggetto. «Solo io stesso posso essere certo – conclude Kant – della validità e immutabilità della mia fede pratica e la mia fede nella verità di una proposizione o nella realtà di una cosa è ciò che, in rapporto a me, tiene il posto di una conoscenza, pur senza essere un sapere costitutivo. Manca di fede morale chi non ammette che è senz’altro impossibile sapere, ma moralmente necessario presupporre qualcosa»42.

A fondamento di questa particolare mancanza di fede c’è sempre una carenza di interesse morale. Quanto più profonda e autentica è la moralità dell’uomo, tanto più solida e viva sarà anche la sua fede in tutto ciò che egli si sente di dover necessariamente (da un punto di vista pratico) accettare o presupporre a partire dalla sua coscienza nel rispetto di una legislazione morale pura connaturata universalmente nella soggettività dell’uomo. «Il completo tener-per-vero, in base a fondamenti soggettivi che dal punto di vista pratico valgono tanto quanto gli oggettivi, è una “convinzione” pratica non logica: e questa convinzione pratica o fede razionale morale – osserva Kant – è spesso più solida di ogni altro sapere»43. Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura il filosofo di Königsberg scrive: «Ich musste also das Wissen aufheben um zum Glauben Platz zu bekommen; um Platz zu bekommen: Ho dovuto, dunque, eliminare il sapere per far posto alla fede»44. Una «pura fede razionale» (reiner Vernunftglaube), «che si fonda sul bisogno del suo uso in una prospettiva pratica, potrebbe definirsi un postulato della ragione: non come se fosse una conoscenza che soddisfi ogni esigenza logica di certezze; bensì per il motivo che questo tener per vero (Fürwahrhalten) non è secondo nel grado a nessun altro sapere»45.

A differenza del credere e dell’opinare, il “sapere” (Wissen)46 è «il tener-per-vero in base ad un fondamento della conoscenza che è sufficiente sia soggettivamente sia oggettivamente, ovvero la certezza (Gewißheit): qui il fondamento o il principio della conoscenza è o empirico o razionale, a seconda che esso si fondi sull’esperienza (propria o comunicataci da altri) o sulla ragione. Questa distinzione si riferisce perciò alle due fonti dalle quali viene attinta tutta la nostra conoscenza: l’esperienza e la ragione»47. Ma che cosa intende Kant per fondamento o principio della conoscenza? In 42 Ibid, p. 64. 43 Ibid., p. 66. 44 KrV., BXXX. Sul rapporto tra fede e sapere cfr. H. G. Gadamer, Kant e la filosofia ermeneutica, in: “Rassegna di teologia”, 3, 1975 e D. Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. 45 I. Kant, Was heisst: sich im Denken orientieren?, a cura di A. Gentile, Che cosa significa orientarsi nel pensare?, p. 97, Edizioni Studium, Roma, 1996. 46 Cfr. D. Bell-W.Vossenkuhl, Wissenschaft und Subjektivität. Der Wiener Kreis und die Philosophie des 20. Jahrhunderts, Akademie Verlag, Berlin 1992 e S. Funaki, Kants Unterscheidung zwischen Scheinbarkeit und Wahrscheinlichkeit. Ihre historischen Vorlagen und ihre allmähliche Entwicklung, Berlin, 2002. 47 I. Kant, Log., p. 66.

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base a quale condizioni di possibilità o strutture del trascendentale possiamo definire le fonti della conoscenza? Kant, nel definire il tener-per-vero in base ad un fondamento o un principio della conoscenza che è sufficiente sia “soggettivamente” sia “oggettivamente”, fa riferimento al sapere e alla “certezza” (Gewißheit) razionale ed empirica. «La certezza razionale è a sua volta o certezza matematica o certezza filosofica. La prima è intuitiva, la seconda è discorsiva. La certezza matematica si chiama evidenza, perché è una conoscenza intuitiva che è più chiara di una discorsiva. Dunque, sebbene le due conoscenze razionali, quella matematica e quella filosofica, siano in sé ugualmente certe, tuttavia il modo della certezza è differente nell’una e nell’altra. La certezza empirica invece è originaria quando divento certo di qualcosa per esperienza personale, e derivata quando ne divengo certe attraverso l’esperienza altrui. Quest’ultima viene anche comunemente chiamata certezza storica. La certezza razionale si distingue dall’empirica perché è accompagnata dalla coscienza della necessità: essa è dunque una certezza apodittica; quella empirica, invece, è solo assertoria. Le nostre conoscenze possono pertanto riguardare oggetti d’esperienza e la certezza relativa ad esse, tuttavia, può essere empirica e razionale ad un tempo, quando cioè conosciamo per principi a priori una proposizione empiricamente certa»48.

Mantenendo la distinzione semantica tra certezza “apodittica” e certezza “assertoria”, Kant afferma che ogni certezza è o “immediata” o “mediata”, cioè o ha bisogno di prova o non ne ha bisogno e non ne è suscettibile. «Anche se tantissime delle nostre conoscenze non sono certe che in modo mediato, cioè attraverso una prova, tuttavia deve esserci anche qualcosa di indimostrabile o immediatamente certo, e tutta la nostra conoscenza deve procedere da proposizioni immediatamente certe»49.

Questa osservazione di Kant, che non è mai stata presa in considerazione dalla letteratura critica, assume un ruolo centrale e decisivo nella Logica del filosofo di Königsberg. Alcune proposizioni da cui deriva “tutta” la nostra conoscenza sono “immediatamente” certe alla nostra soggettività. L’immediatezza, l’istantaneità, la simultaneità, la puntualità con cui il soggetto ne riconosce l’evidenza garantiscono la loro credibilità, validità e universalità in un orizzonte trascendentale. Questa conoscenza immediata si oppone alla certezza mediata, acquisita cioè attraverso una mediazione della conoscenza. «Le prove sulle quali si fonda ogni certezza mediata (ossia acquisita attraverso una mediazione) della conoscenza sono o “dirette” o “indirette”. Se proviamo una verità a partire dai suoi fondamenti, allora ne adduco una prova diretta; se inferisco la verità di una proposizione dalla falsità dell’opposto, ne adduco una prova apagogica. Ma poiché quest’ultima abbia validità, occorre che le proposizioni siano opposte in modo contraddittorio o diametraliter. Infatti, due proposizioni opposte in

48 Ibid. 49 Ibid., p. 65.

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modo semplicemente contrario (contrarie opposita) possono essere ambedue false. Una prova che costituisce il fondamento di una certezza matematica o scientifica si chiama dimostrazione, quella che costituisce il fondamento di una certezza filosofica si chiama prova acroamatica. Gli elementi essenziali di ogni prova in generale sono la sua materia e la sua forma, ossia il fondamento della prova e la conseguenza»50. Da Wissen (sapere) deriva Wissenschaft (scienza), termine con il quale Kant definisce il complesso di una conoscenza in quanto sistema. In questo orizzonte semantico, la scienza viene contrapposta alla conoscenza “comune”, cioè al complesso di una conoscenza in quanto “mero aggregato tra le parti”. Mentre il sistema si fonda su un’idea della totalità che precede le parti, nella conoscenza comune o “mero aggregato” di conoscenze, le parti precedono la totalità. Se ogni conoscenza deve essere conforme ad una regola o ad un principio, la conoscenza in quanto scienza deve essere strutturata secondo un metodo: la scienza, infatti, è la conoscenza nella sua totalità come sistema e richiede pertanto la conoscenza dei principi e delle condizioni di possibilità (Bedingungen der Möglichkeit) per definire e costituire la struttura di un sistema.

7. La «probabilità» e l’«opinione verosimile»

Sullo sfondo della distinzione semantica tra credere, opinare e sapere, Kant afferma che «nella dottrina della certezza della nostra conoscenza rientra anche la dottrina della conoscenza del probabile, che va considerata come un’approssimazione alla certezza. Per probabilità logica bisogna intendere un tener-per-vero in base a ragioni insufficienti che però hanno, con le ragioni sufficienti, una proporzione maggiore di quella delle ragioni del contrario. Con questa definizione distinguiamo la probabilità (probabilitas) dalla mera verosimiglianza (verisimilitudo): un tener-per-vero in base a ragioni insufficienti in quanto esse sono più grandi delle ragioni del contrario. Nel caso della probabilità, dunque, la ragione del tener-per-vero è valida oggettivamente; nel caso della verosimiglianza o dell’opinione verosimile, invece, è valida solo soggettivamente. Nel caso della probabilità deve esserci sempre un criterio di misura in rapporto al quale io la posso valutare. Questo criterio di misura è la certezza. Infatti, dovendo paragonare le ragioni insufficienti con quelle sufficienti, devo sapere quanto pertiene alla certezza. Ma un tale criterio di misura manca nel caso della mera verosimiglianza, perché qui paragono le ragioni insufficienti non con quelle sufficienti, ma solo con le ragioni del contrario»51.

50 Ibid. 51 I. Kant, Log., p. 75.

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Gli stadi o i diversi livelli della probabilità possono essere o “omogenei” o “eterogenei”52. Se sono omogenei, come nella conoscenza matematica, devono essere “progressivi” e riferiti a quantità numeriche. Se sono eterogenei, come nella conoscenza filosofica, devono essere “ponderati”, cioè valutati secondo il loro effetto e sottoposti all’esame critico della ragione. «Da ciò deriva che solo il matematico può determinare la proporzione delle ragioni insufficienti con le ragioni sufficienti. Il filosofo deve accontentarsi della verosimiglianza, cioè di un tener-per-vero sufficiente solo soggettivamente e praticamente. Nelle conoscenze filosofiche, infatti, a causa dell’eterogeneità delle ragioni, la probabilità non può essere valutata; i pesi qui non sono, per così dire, tutti marcati. Perciò, è solo della probabilità matematica che si può propriamente dire che essa è più di metà della certezza. Si è parlato molto di una logica della probabilità (logica probabilium): ma essa non è possibile; infatti, se la proporzione delle ragioni insufficienti con quelle sufficienti non può venire stabilita matematicamente, non c’è regola che serva. Né si possono dare in alcun modo regole universali della probabilità, tranne questa: l’errore non s’incontra mai da una parte sola, bensì deve esserci nell’oggetto un fondamento dell’accordo; così, se si erra in egual misura e grado da due parti contrapposte, la verità sarà nel mezzo»53. La probabilità è pertanto una approssimazione alla certezza. In questo orizzonte semantico nella filosofia trascendentale di Kant assume un ruolo decisivo il significato delle ipotesi con le quali non possiamo mai pervenire ad una certezza “apodittica” rigorosamente necessaria, ma sempre solo ad un grado, ora maggiore ora minore, di probabilità nella nostra conoscenza.

8. La cognitio symbolica e la generatio homonyma

Seguendo le diverse strutture del trascendentale e mantenendo il rapporto semantico tra probabilità, ipotesi e analogia è interessante fare riferimento alle riflessioni kantiane sul linguaggio simbolico e sulla cognitio symbolica e generatio homonyma. Nel paragrafo 59 della Critica del Giudizio Kant definisce il simbolo come una “ipotiposi”, cioè come una “esibizione” che, attraverso il dato di un’intuizione, lascia pensare un’idea della ragione. «L’ipotiposi (esibizione, subiectio sub adspectum), in quanto è qualcosa di sensibile, è duplice; schematica, quando l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto è data a priori; simbolica, quando ad un concetto che può essere pensato solo dalla ragione, e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, viene sottoposta un’intuizione, nei cui confronti il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo; vale a dire, che si accorda con questo soltanto 52 Cfr. A. Rosales, Sein und Subjektivität bei Kant, Berlin, 2000. 53 I. Kant, Log., p. 76.

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secondo la regola del procedimento, non secondo l’intuizione stessa, e quindi soltanto secondo la forma della riflessione e non secondo il contenuto. A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (exhibitiones): non sono caratterismi, cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo la legge associativa immaginativa, e quindi per uno scopo soggettivo; tali sono, come semplici espressioni dei concetti, o le parole oppure i segni visibili (gli algebrici ed anche i mimici)»54.

Sono due gli aspetti rilevanti di questa definizione. Da un lato Kant fa notare che il simbolo, come lo schema, va inteso quale “modo dell’intuizione”: non se ne può parlare dunque in antitesi a questa, confondendolo con un “caratterista”, vale a dire con un semplice segno convenzionale. Dall’altro lato, Kant ci pone davanti alla tensione apparentemente paradossale del simbolico: si tratta infatti di una “esibizione intuitiva” di ciò che in sé e per sé non sopporta un’espressione propriamente intuitiva. In questo orizzonte semantico, sta il carattere analogico del simbolo che, per un verso esprime qualcosa di “immediatamente intuitivo”, per altro verso lascia che in questa intuizione si rifletta «un oggetto del tutto diverso, di cui ciò che è immediatamente intuito costituisce un’esibizione indiretta, cioè simbolica. Giungiamo così a quella nozione che fa del simbolo un trasparire dell’indicibile, un’espressione a duplice e inscindibile articolazione di un significato primario ed immediato e di un significato secondario mediato: modi, che, nell’ambito del pensiero contemporaneo, troveremo riproposti in Jaspers e più recentemente in Ricoeur»55.

Secondo Kant, “tutte le intuizioni” che sono sottoposte a concetti a priori, sono dunque o schemi o simboli: le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde esibizioni indirette. Le prime procedono “dimostrativamente”, le seconde per mezzo di una “analogia”, in cui il Giudizio ha una doppia funzione: in primo luogo, di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile; in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso: il simbolo. Il nostro linguaggio – osserva Kant – “è pieno” di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene le schema proprio del concetto, ma soltanto un “simbolo” per la riflessione. Le “ipotiposi” non schematiche,

54 KU, p. 215. 55 In questa direzione di ricerca, cfr. La cognitio symbolica in: V. Melchiorre, Analogia e Analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Mursia, Milano, 1991, p. 75.

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ma simboliche, designano concetti, non mediante intuizioni dirette, ma soltanto secondo l’analogia con queste, cioè con il trasferimento della riflessione su di un oggetto dell’intuizione ad un concetto del tutto diverso, al quale forse non potrà mai corrispondere direttamente un’intuizione.

Nel simbolo, l’oggetto non è dato o rappresentato, bensì riconosciuto: si tratta di una conoscenza “indiretta” fondata su un’intuizione analogica che come tale richiama una presenza al di là di se stessa, oltre i limiti della possibilità reale. Kant riferisce «l’orizzonte simbolico a quel mondo dell’immaginario che, pur costituendosi ad esibizione di un concetto, per se stesso dà però talmente a pensare (viel zu denken veranlasst) da non lasciarsi mai contenere in un concetto determinato»56. In questo contesto semantico, la cognitio symbolica si rapporta alla generatio homonyma. «La ragione prepara il campo all’intelletto: a) con un principio della omogeneità del molteplice entro generi superiori; b) con un principio della varietà dell’omogeneo entro specie inferiori. E per completare l’unità sistematica, la ragione aggiunge ancora, in terzo luogo, una legge dell’affinità di tutti i concetti, legge che impone un passaggio continuo da ogni specie a ogni altra specie, mediante un graduale progressivo accrescimento delle diversità. Possiamo chiamarli principi dell’omogeneità, della specificazione e della continuità delle forme. L’ultimo sorge dalla riunione dei primi due, una volta che è stato compiuto il collegamento sistematico nell’idea, tanto che l’ascesa ai generi più alti, quanto con la discesa alle specie più basse. In tal caso, difatti, tutte le molteplicità sono affini tra loro, poiché derivano tutte quante ad un unico genere supremo, attraverso tutti i gradi di una determinazione sempre più estesa»57. Se l’intelletto produce analogie dell’esperienza, la ragione, con i modi supremi dell’affinità, della specificazione e dell’omogeneo, costituisce via via delle analogie dell’intelletto. Facendo riferimento all’unità ideale della ragione, Kant reintroduce ancora la figura dello schema: come le funzioni analogiche dell’intelletto si facevano determinate e determinanti nella duplice appartenenza degli schemi, così le funzioni della ragione si precisano in una sorta di superiore analogia. «Sebbene nell’intuizione – osserva Kant – non si possa scoprire alcuno schema per la completa unità sistematica di tutti i concetti dell’intelletto, tuttavia, può e deve essere dato qualcosa di analogo a tale schema: questo qualcosa è l’idea del maximum sia nella divisione di una conoscenza dell’intelletto sia nella riunione della conoscenza dell’intelletto in un principio. L’idea della ragione è dunque qualcosa di analogo ad uno schema della sensibilità, con la differenza però, che l’applicazione dei concetti dell’intelletto allo schema della ragione non costituisce allo stesso modo una conoscenza dell’oggetto stesso (come

56 Cfr. H. Bielefeldt, Kants Symbolik, Freiburg, 2001. 57 Ibid., p. 55.

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nell’applicazione delle categorie ai loro schemi sensibili), ma è soltanto una regola o principio dell’unità sistematica di ogni uso dell’intelletto»58.

Il principio dell’unità analogica diventa così la chiave di lettura per ricomprendere la totalità attraverso la generatio homonyma: l’intera realtà finita è in funzione di uno stesso principio unitario. L’orizzonte della generatio homonyma costituisce una determinazione della più alta unità ideale, quella teologica. Questa determinazione non ha lo statuto del giudizio determinante: resta pur sempre al di sopra di ogni esperienza e si dà semplicemente come un ideale regolativo-trascendentale della ragione, cioè come Prototypon transzendentale. Tutti i principi soggettivi e le condizioni che fondano la possibilità della totalità devono essere comunque strutturati all’interno di un sistema: cioè l’unità di un molteplice di conoscenze sotto un’unica idea. Questo è il concetto razionale della forma di un tutto, per mezzo del quale è determinato a priori sia l’ambito del molteplice, sia la reciproca connessione delle parti; la conoscenza di questo «sistema della ragion pura» deve essere strutturato secondo un metodo in un orizzonte trascendentale.

9. La «dottrina trascendentale del metodo»: architettonica e sistema della ragion pura

«Per dottrina trascendentale del metodo, io intendo – osserva Kant – la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura. A questo fine dovremo occuparci di una disciplina, di un canone, di un’architettonica, infine di una storia della ragion pura, e dovremo compiere, dal punto di vista trascendentale, ciò che nelle scuole si cerca di fare – però con cattivi risultati – rispetto all’uso dell’intelletto in generale, sotto il nome di logica pratica. Questi scarsi risultati si spiegano per il fatto che, non essendo la logica generale ristretta ad una specie particolare di conoscenza dell’intelletto (non essendo ristretta per esempio a quella pura), e neanche a certi oggetti, essa allora, senza prendere a prestito conoscenze da altre scienze, non può esporre se non titoli di metodi possibili ed espressioni tecniche, che vengono adoperati in riferimento al lato sistematico delle varie scienze e che presentano anticipatamente al discepolo nomi, il cui significato ed il cui uso egli imparerà a conoscere soltanto più tardi»59.

Secondo Kant, ogni singola particolare conoscenza e ogni totalità di conoscenze devono essere conformi ad un principio. La conoscenza in quanto scienza deve essere strutturata secondo un metodo: la scienza, infatti, è la “totalità organica” della conoscenza come sistema: essa richiede pertanto una conoscenza “sistematica” secondo 58 Ibid. 59 KrV., B736/A708.

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principi e condizioni di possibilità. Se la dottrina degli elementi ha, nella logica, come proprio contenuto gli elementi e le condizioni di possibilità della conoscenza, la dottrina del metodo, quale seconda parte della logica, deve invece trattare della “forma” di una scienza in generale, ossia della possibilità di organizzare il molteplice della conoscenza facendone una scienza. Una delle finalità essenziali della conoscenza consiste nella distinzione, nel rigore e nella connessione sistematica tra i saperi. La distinzione delle conoscenze e la loro connessione in una totalità sistematica assume un ruolo particolarmente significativo nella filosofia trascendentale. Con il termine “architettonica” (Architektonik) Kant intende «l’arte di costruire sistemi»60: poiché l’unità sistematica è l’unico elemento che possa trasformare la conoscenza comune in scienze (definendo cioè un sistema da un semplice aggregato di conoscenze) l’architettonica è pertanto la dottrina di ciò che è scientifico nella nostra conoscenza: in questo orizzonte, essa appartiene alla dottrina trascendentale del metodo. «Sotto il governo della ragione, le nostre conoscenze in generale non possono costituire una rapsodia, ma un sistema; solo in questo, infatti, sono in grado di sostenere e promuovere i fini essenziali della ragione. Per sistema intendo l’unità di un molteplice di conoscenze sotto un’unica idea. Questo è il concetto razionale della forma di un tutto, per mezzo del quale è determinato a priori sia l’ambito del molteplice sia la reciproca posizione e connessione tra le parti che costituiscono il sistema. Il concetto scientifico della ragione racchiude pertanto il fine e la forma del tutto ad esso corrispondente. L’unità del fine, a cui tutte le parti fanno riferimento, mentre si connettono tra di loro nell’idea del fine stesso, fa sì che ci possiamo rendere conto della mancanza di una parte qualsiasi mediante la conoscenza che abbiamo degli altri elementi che costituiscono il sistema. La totalità è pertanto articolata (articulatio), e non ammucchiata casualmente (coacervatio); è suscettibile di crescita dall’interno (per intussusceptionem), ma non dall’esterno (per appositionem)»61.

Queste riflessioni kantiane sono particolarmente significative, facendo riferimento al rapporto semantico tra unità architettonica e sistema architettonico della ragion pura62. Ma come è possibile la sua esecuzione in un orizzonte operativo? Seguendo le strutture del trascendentale, quali sono le condizioni che fondano la possibilità del sistema della ragion pura nella sua totalità costitutiva? Kant afferma che in rapporto alla sua “esecuzione”, l’idea ha bisogno di uno “schema”: cioè di una molteplicità essenziale e 60 Cfr. S. Palmquist, Kant’s System of Perspectives: an architectonic interpretation of the Critical Philosophy, University Press of America, Lanham, 1993; H. G. Callaway, Open Transcendentalism and the Normative Character of Methodology, in: «Philosophy and Social Criticism», 44, 1993, pp. 1-24 e AA.VV., Architektonik und System in der Philosophie Kants, Herausgegeben von H. Friedrich Fulda und J. Stolzenberg, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 2001. 61 KrV., B861/A833. 62 Cfr. B. Tuschling, System des transzendentalen Idealismus bei Kant? in: «Kant Studien», 86, 1995, pp. 196-210.

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di un ordine delle parti, determinati a priori secondo il principio del fine. Quando uno schema non è definito in base ad un’idea, cioè secondo il fine della ragione, ma è definito “empiricamente”, secondo fine insorti “accidentalmente”, esso porta solo ad una unità tecnica. Quando invece si origina esclusivamente da un’idea (nel qual caso la ragione prescrive i fini a priori) fonda una unità architettonica. Ciò a cui diamo il nome di scienza non può costituirsi “tecnicamente”, in virtù della somiglianza riscontrata nel molteplice o dell’impiego casuale della conoscenza in concreto per ogni specie di scopi arbitrari ed esterni, bensì architettonicamente, sulla scorta e sulla base dell’affinità delle parti e in a base alla derivazione da un fine interno unico e supremo, il solo in grado di rendere possibile il tutto: il suo schema deve perciò contenere, in conformità all’idea, ossia a priori, il tracciato (monogramma) e la ripartizione del tutto nei suoi principi costitutivi. «Nessuno potrà mai tentare di costruire una scienza – osserva Kant – senza porre a suo fondamento un’idea. Ma nella successiva elaborazione, molto raramente lo schema, e la stessa definizione che si dà all’inizio della scienza, corrispondono all’idea; e ciò perché quest’ultima è presente nella ragione come un germe in cui le varie parti si occultano. Ne deriva che le scienze, essendo tutte concepite in base ad un certo interesse generale, siano chiarite e determinate, anziché dalla descrizione che di esse ci dà il loro autore, dall’idea che si trova fondata nella ragione stessa e che viene dall’unità naturale delle parti che l’autore ha posto assieme. E’ allora possibile rendersi conto che l’autore, e sovente anche i suoi seguaci, brancolano attorno ad un’idea, di cui non sono riusciti a venire in chiaro e si trovano così nell’impossibilità di determinare il contenuto particolare, l’articolazione (l’unità sistematica) e i confini (Schranken) della scienza»63. I sistemi hanno tutta l’apparenza di formarsi per generatio aequivoca: di conseguenza, non solo ogni sistema è di per sé strutturato in base ad un’idea, ma tutti si riuniscono adeguatamente tra di loro, quali principi o condizioni di possibilità di una totalità, dando luogo ad un unico sistema della conoscenza umana e rendendo possibile una architettonica dell’intero sapere umano. «Noi ci limiteremo a definire e a progettare – osserva Kant – soltanto l’architettonica dell’intera conoscenza ricavabile dalla ragion pura prendendo le mosse dal punto in cui la radice universale della nostra facoltà conoscitiva si divide in due orizzonti: se si astrae da tutto il contenuto della conoscenza, presa oggettivamente, ogni conoscenza, sotto l’aspetto soggettivo, è o storica o razionale. La conoscenza storica è cognitio ex datis; la conoscenza razionale, invece, è cognitio ex principiis»64. Secondo Kant, il sistema di tutta la conoscenza filosofica è la filosofia. La filosofia è il sistema delle conoscenze filosofiche, ovvero delle conoscenze razionali per concetti: questo è il concetto “scolastico” della filosofia, mentre il concetto “cosmico” è la scienza dei “fini” ultimi della ragione umana. Per la filosofia intesa

63 KrV., B862/A834. 64 Ibid., B863/A835.

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secondo il concetto scolastico è necessario fare riferimento a due elementi fondamentali: in primo luogo, ad un insieme di principi, condizioni e conoscenze razionali; in secondo luogo, ad una connessione “sistematica” di queste conoscenze. «La filosofia –osserva Kant – non solo si presta ad una connessione rigorosamente sistematica, ma essa, anzi, è l’unica scienza che ha, nel senso più proprio, una connessione sistematica e che dà unità sistematica a tutte le altre scienze. La filosofia occorre considerarla oggettivamente, se si vuole intendere con essa il modello di valutazione di tutti i tentativi di filosofare, che deve servire alla valutazione di ogni filosofia soggettiva, la cui struttura è spesso varia e mutevole. Così intesa, la filosofia è semplicemente l’idea di una scienza possibile, mai data in concreto, a cui si cerca tuttavia di avvicinarsi per diverse strade, per giungere alla scoperta dell’unico sentiero, che la sensibilità quasi celava, e far sì che la copia, finora manchevole, sia pari al modello, almeno entro i limiti concessi agli uomini. Ma prima di giungere a questo non si potrà imparare la filosofia; infatti, dove si trova? Chi la possiede? Come la si può riconoscere? Si può soltanto imparare a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione mediante l’applicazione dei suoi principi universali, ma sempre con riserva del diritto della ragione di indagare su quei principi fino alle loro fonti in un orizzonte critico»65.

10. Le ipotesi della ragione e i limiti della conoscenza

Secondo Kant, la filosofia «è la scienza della suprema massima nell’uso della nostra ragione, intendendo per massima il principio interno della scelta tra fini diversi. La filosofia è la scienza della relazione di ogni conoscenza e di ogni uso della ragione con lo scopo finale della ragione umana, al quale, in quanto fine supremo, tutti gli altri fini sono subordinati e nel quale devono raccogliersi in unità»66. In questo significato cosmopolitico, il “campo” (Feld) della filosofia si può ricondurre alle seguenti domande fondamentali: a) Che cosa posso sapere? b) Che cosa devo fare? c) Che cosa mi è dato sperare? d) Che cos’è l’uomo? Alla prima domanda risponde la metafisica, alla seconda la morale, alla terza la religione e alla quarta l’antropologia. «In fondo, – osserva Kant – si potrebbe però ricondurre tutto all’antropologia, perché la prime tre domande fanno riferimento all’ultima. Il filosofo deve dunque sapere determinare:

a) le fonti del sapere umano;

b) l’estensione dell’uso possibile e utile di ogni sapere;

65 Ibid. 66 Log., p. 19.

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c) e, infine, i limiti della ragione (die Grenzen der Vernunft). L’ultima cosa è la più necessaria, ma anche la più difficile»67.

In base a queste riflessioni kantiane si costituisce un nesso fondamentale sia tra

filosofia come sistema cosmopolitico e destinazione dell’uomo, sia tra i fondamenti della logica e il problema della determinazione dei limiti della ragione. E’ proprio nella correlazione semantica tra i limiti della ragione, la logica e le strutture del trascendentale (nell’orizzonte del significato di filosofia in senso cosmopolitico) che si costituisce la struttura e la finalità della filosofia critica. Solo mediante «la critica è possibile estirpare sin dalle radici il materialismo, il fatalismo, l’ateismo, l’incredulità dei liberi pensatori, la fantasticheria, la superstizione e anche l’idealismo e lo scetticismo»68. Chi vuole «imparare a filosofare deve considerare tutti i sistemi della filosofia solo come storia dell’uso della ragione e come oggetti di esercizio del suo talento filosofico. Il vero filosofo deve fare un uso libero, autonomo e critico della propria ragione e non un uso servilmente imitativo. Ma non deve farne nemmeno un uso dialettico, un uso cioè che miri soltanto a dare alle conoscenze una parvenza di verità e saggezza. Questo è il mestiere di chi non è che un sofista e non è assolutamente compatibile con la dignità di un filosofo, in quanto conoscitore e maestro di saggezza. La scienza, infatti, ha un valore intrinseco solo in quanto organo della saggezza. La filosofia è l’unica scienza che chiude per così dire il cerchio scientifico e solo grazie ad essa le scienze acquistano ordine e connessione. Al fine di esercitarsi a pensare in proprio, ossia a filosofare, dovremmo dunque fare attenzione più al metodo del nostro uso della ragione che non alle proposizioni stesse alle quali siamo giunti grazie a quel metodo»69.

In questo orizzonte, la filosofia critica nell’intento di Kant vuole essere come una «propedeutica filosofica», cioè un esame critico preliminare che secondo le strutture del trascendentale si traduce e si attua in un orizzonte teoretico-razionale-cognitivo: tracciare le «condizioni di possibilità» (Bedingungen der Möglichkeit) della conoscenza in rapporto ai suoi limiti e in rapporto alla sua interna struttura costitutiva. L’idea del circuito, cioè dei limiti esterni e costitutivi dei diversi campi ambiti e limiti di possibilità della conoscenza si è andata delineando nel pensiero di Kant quando ancora intitolava la sua opera (la futura Critica della ragion pura): Limiti della sensibilità e dell’intelletto e immaginava di poterla condurre a termine in pochi mesi. Poi, si è accorto che per capire, definire e determinare i limiti della ragion pura doveva definire e organizzare dall’interno nella sua totalità organica tutto il territorio: cioè riconoscerne la sua

67 Ibid. 68 KrV., BXXXV. 69 Log., p. 19.

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struttura critico-trascendentale. Questa finalità e questo compito in un orizzonte critico ha richiesto un decennio di lavoro. E’ rimasta però nel titolo dell’opera una traccia del primitivo significato negativo e/o limitativo che deve essere integrato con il secondo e più positivo significato, se si vuole abbracciare il significato e la struttura del trascendentale in tutta la sua complessità teoretica. Critica, dunque, vuol dire non soltanto esame dei limiti, ma anche dell’interna struttura del sapere. La ragion pura, che forma oggetto della critica, è denominata nel senso più largo come “fonte” di tutti gli elementi a priori della conoscenza. Con il nome di conoscenze a priori s’intendono quelle conoscenze che sono indipendenti da ogni esperienza. Pertanto, la determinazione dei «limiti della ragione»70 è un esame critico della ragione e delle diverse fonti e condizioni di possibilità della conoscenza.

Sullo sfondo di queste riflessioni, nella filosofia trascendentale di Kant, assume un ruolo particolarmente significativo definire e analizzare i diversi campi, ambiti e limiti di possibilità dei processi cognitivi e razionali. La positività del limite sta proprio nel riconoscere la validità e la legittimità di un orizzonte trascendentale dei diversi campi e condizioni di possibilità che assumono diverse funzioni e strutture trascendentali. Riconoscere i limiti di queste diverse condizioni di possibilità significa: a) definire la natura critica del trascendentale; b) esaminare i limiti di ogni processo cognitivo nel suo processo dinamico e genetico; c) analizzare criticamente i principi e le strutture a priori del trascendentale in rapporto alla loro origine, alla loro deduzione-giustificazione e facendo riferimento ai loro diversi campi, ambiti e limiti di possibilità; d) orientarsi secondo una metodologia di ricerca in funzione di una sorta di meta-sapere, di «possibilità della possibilità», di «filosofia della filosofia».

Pertanto, se la filosofia critica di Kant copre un ambito prevalentemente formale che potremmo definire come una formalità dinamico-genetica, tuttavia entra continuamente in rapporto sia con il problema della determinazione dei limiti del conoscere (problema pregiudiziale e prioritario ad ogni considerazione gnoseologica), sia con la definizione degli ambiti e dei limiti delle diverse condizioni e/o principi puri a priori connaturati nella soggettività. In questo orizzonte si costituisce una filosofia in cui la razionalità è mutuata dalla riflessione in un orizzonte critico-trascendentale e riflessivo-trascendentale. Il fissare, il definire e il determinare i limiti della ragione nella definizione delle diverse condizioni di possibilità della conoscenza conferisce di fatto alla ragione piena sovranità all’interno di quei limiti. Da qui scaturisce il concetto di autonomia della ragione, sia nella qualificazione positiva (la ragione si determina, cioè determina se stessa), sia nella sua accezione negativa e/o polemica: all’interno dei limiti fissati, la ragione umana “si determina” (sich bestimmt) e non riconosce alcun

70 Cfr. A. Gentile, Ai confini della ragione. La nozione di «limite» nella filosofia trascendentale di Kant. Presentazione di Wilhelm Vossenkuhl, Studium, Roma, 2003

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legislatore se non se stessa. Il criterio della ragion pura risiede nell’universalità, nella necessità e nella autonomia che determinano l’auto-orientamento della ragione. In questa prospettiva, Kant definisce la filosofia della ragion pura in quanto indaga la facoltà della ragione rispetto ad ogni conoscenza pura a priori. Pertanto, assume un ruolo decisivo l’atto e/o il processo critico della ragione che si può definire Critica della ragion pura. Ed è proprio in questo orizzonte, che si costituisce il rapporto tra la determinazione dei limiti della ragione e la struttura più propria e autentica del trascendentale. Ciò che qualifica l’a priori come trascendentale è la più completa ed elaborata consapevolezza del processo dinamico-genetico-conoscitivo che comporta: il riconoscimento della legittimità e dell’applicabilità dei concetti in quanto condizioni di possibilità dell’esperienza; la conoscenza del modo in cui tali condizioni e/o principi sono possibili ed applicabili a priori; infine, il riconoscimento dell’origine non empirica delle diverse condizioni di possibilità in quanto principi dell’intelletto puro. Il continuo “risalire” dal particolare all'universale, dal «condizionato» (Bedingt) alle «condizioni di possibilità» (Bedingungen der Möglichkeit) è il processo di ricerca che caratterizza e costituisce il metodo di una filosofia trascendentale. Il metodo tipico kantiano è caratterizzato dal risalire dal condizionato alla condizione. Il risalire non può essere che sforzo di “risalimento” dell'esperienza nelle sue condizioni interne, nel suo orizzonte non disegnabile dall'esterno, e quindi tentativo necessario di riconoscere sempre di nuovo i confini dell'esperienza dal suo stesso interno. La filosofia trascendentale «è la rappresentazione della conoscenza sintetica a priori di concetti nell’intero sistema dei suoi principi: è un principio delle forme della conoscenza filosofica: è filosofia della filosofia»71.

71 I. Kant, Opus Postumum, p. 367.

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Centro di metodologia delle scienze sociali Luiss Guido Carli

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