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241 Capitolo 7 I SISTEMI LOCALI DI IMPRESE: STUDI TEORICI E INTERVENTI DI POLITICA ECONOMICA I profondi mutamenti nella struttura produttiva delle economie, intervenuti durante l'ultimo trentennio, hanno stimolato un’ampia letteratura economica su un fenomeno non previsto dalle teorie tradizionali, ma che ha avuto notevole diffusione, specialmente in Italia: lo sviluppo dei sistemi produttivi locali di piccola e media impresa. Peraltro il procedere del processo di unificazione europea e la sempre più ampia applicazione comporterà un abbandono progressivo delle politiche macroeconomiche a favore di interventi a carattere locale. Anche questa circostanza dovrebbe logicamente indurre una maggiore attenzione all’analisi e alla comprensione delle condizioni che favoriscono lo sviluppo di una determinata area geografica. Questo capitolo offre un tentativo di sintesi, da un lato, dei principali contributi teorici in tema di localizzazione e, dall’altro, del quadro normativo e delle politiche economiche attualmente poste in essere per favorire lo sviluppo delle aree locali. Il quadro normativo esistente viene descritto con riferimento ai tre livelli - europeo, nazionale e regionale (con particolare attenzione alle iniziative della regione Piemonte) – in cui tradizionalmente si articolano gli interventi di politica economica, cercando in particolare di cogliere, se esiste, un coordinamento, o quantomeno un’unità di intenti, fra le azioni delle diverse istituzioni. L’obiettivo che ci si prefigge è quello di verificare se, dal confronto fra la letteratura e la pratica politico-normativa, possano emergere utili suggerimenti per migliorare l’azione della politica economica orientata allo sviluppo delle aree locali. Il capitolo si divide in due parti. Nella prima, a partire dalla letteratura sui modelli locali di sviluppo, vengono innanzitutto tratteggiate le caratteristiche principali dei sistemi locali d’impresa, Int r roduzione

Capitolo 7 I SISTEMI LOCALI DI IMPRESE: STUDI TEORICI E …images.no.camcom.gov.it/f/Economia/St/Studio_SEMEQ_Capitolo7.pdf · 241 Capitolo 7 I SISTEMI LOCALI DI IMPRESE: STUDI TEORICI

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CCaappiittoolloo 77

II SSIISSTTEEMMII LLOOCCAALLII DDII IIMMPPRREESSEE:: SSTTUUDDII TTEEOORRIICCII EE

IINNTTEERRVVEENNTTII DDII PPOOLLIITTIICCAA EECCOONNOOMMIICCAA

I profondi mutamenti nella struttura produttiva delle economie, intervenuti

durante l'ultimo trentennio, hanno stimolato un’ampia letteratura economica su un

fenomeno non previsto dalle teorie tradizionali, ma che ha avuto notevole diffusione,

specialmente in Italia: lo sviluppo dei sistemi produttivi locali di piccola e media

impresa.

Peraltro il procedere del processo di unificazione europea e la sempre più

ampia applicazione comporterà un abbandono progressivo delle politiche

macroeconomiche a favore di interventi a carattere locale. Anche questa circostanza

dovrebbe logicamente indurre una maggiore attenzione all’analisi e alla

comprensione delle condizioni che favoriscono lo sviluppo di una determinata area

geografica.

Questo capitolo offre un tentativo di sintesi, da un lato, dei principali

contributi teorici in tema di localizzazione e, dall’altro, del quadro normativo e delle

politiche economiche attualmente poste in essere per favorire lo sviluppo delle aree

locali.

Il quadro normativo esistente viene descritto con riferimento ai tre livelli -

europeo, nazionale e regionale (con particolare attenzione alle iniziative della regione

Piemonte) – in cui tradizionalmente si articolano gli interventi di politica economica,

cercando in particolare di cogliere, se esiste, un coordinamento, o quantomeno

un’unità di intenti, fra le azioni delle diverse istituzioni.

L’obiettivo che ci si prefigge è quello di verificare se, dal confronto fra la

letteratura e la pratica politico-normativa, possano emergere utili suggerimenti per

migliorare l’azione della politica economica orientata allo sviluppo delle aree locali.

Il capitolo si divide in due parti.

Nella prima, a partire dalla letteratura sui modelli locali di sviluppo, vengono

innanzitutto tratteggiate le caratteristiche principali dei sistemi locali d’impresa,

IInnttrroodduuzziioonnee

242

prendendo come riferimento principale l'ormai classico modello del distretto

industriale (paragrafo 2); ad esso segue una descrizione dell'origine del fenomeno

della localizzazione, anche da un punto di vista storico, con particolare riferimento

all'Italia (paragrafo 3); infine, si discutono gli aspetti salienti degli approcci

alternativi – rispetto a quello distrettuale – allo studio dei sistemi locali di imprese

(paragrafo 4).

Nella seconda parte - dedicata all’analisi del quadro normativo e delle azioni

di politica economica - dopo un paragrafo introduttivo sul ruolo delle istituzioni

(paragrafo 5), si descrivono sinteticamente la struttura normativa attualmente

progettata a livello europeo (paragrafo 6), nonché gli interventi legislativi in favore

delle piccole e medie imprese (Pmi) e dei distretti industriali posti in essere a livello

nazionale (paragrafo 7) ed, infine, come la regione Piemonte sta attualmente

applicando la legge nazionale sui distretti industriali (paragrafo 8).

Nel paragrafo conclusivo del capitolo (paragrafo 9) si riprende il tema del

confronto e della sostanziale distanza fra l’analisi teorica e la pratica normativa in

tema di modelli locali di sviluppo.

77..11 II ssiisstteemmii llooccaallii dd’’iimmpprreessaa nneellll’’aannaalliissii tteeoorriiccaa Nello studio delle realtà produttive locali un primo fondamentale problema è

quello definitorio. Differenti terminologie sono spesso, anche se non

necessariamente, legate a diversi modelli o chiavi di lettura proposte per l’analisi dei

sistemi economici locali.

Il concetto di distretto industriale, o distretto industriale marshalliano, è

quello a cui più spesso, specialmente gli studiosi italiani, hanno fatto ricorso e che

compare con maggiore frequenza nei lavori pionieristici sul tema dei sistemi locali

d’impresa. Tuttavia, uno studio dettagliato del ruolo del territorio sul sistema

produttivo e sulla competitività delle imprese locali permette di osservare una

notevole varietà di modelli produttivi locali, alcuni dei quali presentano differenze

sostanziali rispetto ai distretti industriali propriamente intesi, e necessitano di

ulteriori denominazioni e specificazioni (ad esempio, le aree-sistema o i corporate

networks, che possono essere visti sia come un’evoluzione dei distretti, sia come

sistemi organizzativi alternativi). Da questo punto di vista, sarebbe più corretto fare

riferimento, anziché direttamente ai distretti industriali, a concetti più generali come

quello dei sistemi locali d’impresa.

243

In questo paragrafo si mettono in luce le questioni sufficientemente generali,

o paradigmatiche, circa il ruolo del territorio sulla nascita, lo sviluppo e la

competitività dei sistemi locali di piccola impresa. Il distretto industriale, per quanto

possa essere un caso particolare, può essere inteso, seguendo la terminologia di

Becattini, come una "unità di indagine", un termine di confronto comune.

7.2 Il distretto industriale

Quello di distretto industriale è un concetto dinamico. Si tratta, infatti, di un

sistema socio-produttivo che mantiene la sua unità nel continuo mutamento. Il

mutamento, a cui si fa riferimento, può essere di varia natura: dalla formazione di

nuovi settori produttivi che si sovrappongono o si sostituiscono ai vecchi,

all’introduzione continua di innovazioni tecnologiche più o meno marginali, alla

natività e mortalità delle imprese, alla specializzazione e flessibilità della forza-

lavoro locale, al ruolo delle istituzioni nel processo di riproduzione del sistema locale

di imprese e della sua competitività.

Il distretto industriale ha le caratteristiche di un'unità economica minima, ben

diversa dell'agente atomistico della teoria economica tradizionale. E' infatti un corpo

organico composto da imprese industriali in relazione fra loro e con una comunità di

persone territorialmente, storicamente e culturalmente determinata. Su questa

compenetrazione di comunità e imprese si costruisce l'identità del distretto

industriale, in cui "si sposano componenti oggettive di concomitanza di interessi e

componenti soggettive di tipo storico-culturale" tali da formare un comune "senso di

appartenenza" capace di conservarsi nel mutamento.

All'interno del distretto industriale le imprese, tipicamente di media e piccola

dimensione, competono e collaborano allo stesso tempo fra loro, e anche questo è un

elemento della loro dinamicità, in quanto alla coesistenza di competizione e

collaborazione è correlato il continuo ridefinirsi del sistema stesso, ovvero la

velocità con cui le imprese nascono, muoiono o si rinnovano. D'altro canto, il

distretto industriale, unitariamente inteso, è capace di competere con l'esterno,

sfruttando risorse locali di qualsiasi natura come propri fattori di successo. Si tenga

conto, infatti, che i distretti industriali italiani sono stati in grado di rendere

competitivi - a livello internazionale - settori comunemente considerati

tecnologicamente arretrati o non più trainanti dal punto di vista merceologico (tipico

è il caso del settore tessile).

244

7.2.1 Il territorio

Il ruolo essenziale del territorio emerge proprio quando si cerca di

individuare quali fattori o risorse determinano il successo competitivo di un distretto

industriale. Per risorse territoriali non si intendono le materie prime e neanche i

vantaggi dovuti alla vicinanza geografica, in termini di minori costi di trasporto. Il

territorio entra invece nell'analisi come un fattore di produzione sui generis.

Il grado di fiducia reciproca dei piccoli produttori che operano in una stessa

area geografica, la loro facilità di comunicazione, la diffusa professionalità, sono

esempi di risorse locali, spesso imponderabili, che determinano l'efficienza ed il

successo competitivo di un distretto industriale, compensando l'insufficienza dei

mezzi rispetto agli scopi. A questi fattori, territorialmente e culturalmente

determinati, sono connessi il grado di circolazione e diffusione dell'informazione ed

il conseguente livello d’integrazione produttiva del sistema locale.

Per quanto riguarda la circolazione e diffusione delle informazioni, si può

notare come un linguaggio e un'etica comuni, o più genericamente un comune

tessuto culturale, permettono il consolidarsi di una vera e propria rete informale, non

mediata dal mercato, che costituisce il veicolo della continua formazione e

trasmissione di conoscenze fra i componenti del distretto. Si tratta di conoscenza

informale, difficile da definire, di tipo sicuramente diverso dalla conoscenza

codificata istituzionalmente. La conoscenza scientifica cui è legata quella

tecnologica, essendo prodotta e diffusa all'interno di istituzioni nazionali e

internazionali, è in un certo senso di pubblico dominio, o quantomeno non ha una

specifica identità territoriale. All'interno del distretto e del territorio, invece, si

produce e trasmette un tipo di conoscenza non codificato, che è legato all'operare ed

al produrre, ed è dunque conoscenza pratica. Ma, come illustri teorici dell'economia

hanno sostenuto, anche da questo tipo di conoscenza possono nascere le innovazioni

tecnologiche (è celebre l'esempio di Adam Smith sulla fabbrica di spilli). La capacità

innovativa e lo spirito imprenditoriale dipendono dunque in gran parte da quanto è

ampia e creativa la comunicazione informale e la collaborazione interna al distretto.

Si tenga conto, comunque, che le conoscenze tecniche o tecnologiche non

sono l'unico risultato della circolazione delle informazioni, per quanto forse possono

essere considerate la punta più elevata. La diffusione informale permette infatti il

formarsi di conoscenze di qualsiasi tipo attinenti al mondo degli affari in cui il

distretto industriale si ritrova ad operare (informazioni sui mercati di sbocco, sulle

245

nuove tecniche commerciali e finanziarie, su nuove materie prime, componenti e

semilavorati utilizzabili nel processo produttivo, ecc.).

L'integrazione produttiva, insieme alla circolazione delle informazioni, è un

elemento essenziale del successo di un distretto industriale e della sua competitività.

Un distretto si può ritenere ben integrato produttivamente quando, almeno in gran

parte, è capace di provvedere autonomamente a tutte le fasi della catena produttiva

del settore merceologico in cui opera (o dei settori merceologici, visto che spesso

l'attività del distretto è diversificata in più settori). Quest’autonomia dipende anche

dalle possibilità tecnologiche in relazione alle dimensioni delle imprese. Sono infatti

escluse, dalle attività produttive di un distretto di piccole imprese, tutte le merci che

necessitano di grossi impianti per essere prodotte.

Come si vedrà, negli ultimi anni molti cambiamenti tecnologici hanno

favorito la parcellizzazione del sistema tecnologico-produttivo, così da consentire

una divisione del lavoro fra unità produttive diverse. I servizi alla produzione

(commerciali, formativi, creditizi-finanziari, ecc.) sono una componente spesso

cruciale dell'integrazione produttiva, non essendo tanto legati alle possibilità

tecnologiche, quanto alle capacità organizzative e imprenditoriali, o alla presenza di

vigili interventi istituzionali.

Dall'efficiente circolazione delle informazioni e dal grado d’integrazione

produttiva dipendono le cosiddette economie di agglomerazione. E' questo un

concetto che non trova un esatto corrispondente nella letteratura economica

tradizionale, se non in Marshall, in quanto anche le economie di agglomerazione

sono strettamente legate al ruolo del territorio. Con questo termine ci si riferisce ai

vantaggi economici del costituire un comune tessuto produttivo, capace di

provvedere in gran parte a se stesso e di riprodursi o allargarsi. Le economie di

agglomerazione sono quindi alla radice sia della competitività, sia della possibilità

per lo sviluppo locale di autosostenersi.

7.2.2 Il fattore lavoro

Le specificità locali sedimentate sul territorio non entrano nel processo

produttivo soltanto come fattore di produzione distinto e separato da quelli

tradizionalmente considerati (capitale e lavoro), ma piuttosto questi ultimi vengono

plasmati e resi a loro volta territorialmente determinati.

246

Si consideri il fattore lavoro. I lavoratori nel distretto industriale sono

solitamente specializzati e flessibili. Nel distretto industriale vi è un certo grado di

professionalità diffusa, consolidata spesso da specifiche scuole professionali

orientate ad addestrare la forza-lavoro secondo le esigenze produttive del sistema

locale. La flessibilità, invece, consiste sia in un elevato turnover dei lavoratori fra le

imprese del distretto, sia in un'abitudine a modificare le forme organizzative del

lavoro e i rapporti di produzione, ma anche nella disponibilità dei lavoratori a

lavorare un numero di ore variabile in funzione alle esigenze produttive.

Il livello di sindacalizzazione dei lavoratori del distretto è normalmente

inferiore rispetto alle aree tradizionalmente legate alla grande industria. Non solo, ma

nella stragrande maggioranza dei casi, la figura del lavoratore non coincide con

quella tradizionale dell’occupato nella grande impresa, essendo molto più vicina a

quella dell'imprenditore (e viceversa).

Il distretto industriale è spesso popolato di lavoratori autonomi o piccoli

imprenditori, figure intermedie fra percettori di profitti e salariati. Molto spesso

l'autonomia di questi lavoratori è soltanto giuridica, poiché essi rimangono

economicamente dipendenti dai loro committenti (lavoratori eterodiretti). Questa

fusione fra figure professionali, altrove ben distinte, impedisce, da un lato, una

soddisfacente azione sindacale diffusa, ed è, dall'altro lato, alla radice sia di un

elevato grado di consenso sociale interno al distretto, sia della presenza di

imprenditorialità diffusa.

7.2.3 Imprenditorialità e innovazione

Come si è precedentemente accennato, l'innovazione nel distretto industriale

non può essere della stessa natura delle grandi innovazioni tecnologiche che

determinano rivoluzioni nel modo di produrre e nelle caratteristiche delle merci

prodotte. Non è, in altre parole, legata a scoperte scientifiche ed alle attività di

Ricerca e Sviluppo. Si tratta di un tipo d’innovazione più simile all'idea del learning

by doing o learning by using. L'innovazione nel distretto industriale è pertanto un

fenomeno diffuso, costituito da "eventi innovativi singolarmente minori ma

cumulativamente non trascurabili".

Determinare i fattori che scatenano le innovazioni è peraltro impresa ardua,

in quanto i casi conosciuti sono difficilmente generalizzabili. Talvolta il meccanismo

delle innovazioni marginali a catena è incentivato semplicemente da eventi casuali e

247

soggettivi, come, ad esempio, il semplice ma concreto timore di un artigiano

(terzista) circa la possibilità che il suo unico committente trovi più conveniente

rivolgersi a qualcun’altro che provveda agli stessi servizi. Anche eventi puramente

casuali possono innestare effetti di trascinamento che migliorano la competitività del

distretto unitariamente inteso. A tale proposito si può osservare che, per quanto

casuali possano essere questi meccanismi, esistono certe condizioni che creano il

terreno adatto alla creatività imprenditoriale e soprattutto alla sua capillare

diffusione.

L'imprenditorialità diffusa è ragionevolmente correlata al tipo di attività

produttiva. Infatti, affinché vi sia un buon livello di imprenditorialità diffusa, è

necessario che le singole professioni permettano l'esercizio della discrezionalità,

senza la quale la creatività è fortemente disincentivata. La potenzialità innovativa di

un distretto industriale dipende da quanto le abilità e le conoscenze sono diffuse fra i

suoi componenti. Si ritorna qui al tema della diffusione delle informazioni e della

rete informale di relazioni lavorative.

Il fenomeno dell'imprenditorialità limitata, ma diffusa, si può studiare

tenendo d'occhio gli ostacoli all'innovazione forse più facili da individuare rispetto

alle cause scatenanti.

La specializzazione professionale può, da un lato, incentivare l'innovazione,

in quanto permette di concentrare con competenza l'attenzione su specifiche

mansioni, in modo da trovare - per semplice apprendimento dall'esperienza - il

sistema di fare meglio le stesse cose, o fare cose diverse con piccole modifiche dei

mezzi di produzione. D'altro canto, la stessa specializzazione, oltre un certo livello,

può disincentivare l'innovazione, in quanto rende il lavoratore simile all'automa di

una catena di montaggio, o comunque dotato di una visione troppo limitata

dell'orizzonte dei cambiamenti possibili.

Anche la concorrenza interna al distretto gioca un ruolo ambivalente. Infatti,

per quanto essa possa favorire la mobilitazione di energie individuali a favore

dell'atto creativo, un eccesso di competizione fra i membri del distretto industriale

può inibire la collaborazione innovativa, che verrebbe così rimpiazzata da calcoli

individuali opportunistici, scarsamente lungimiranti.

Un altro fattore di freno può essere lo scarso monitoraggio, da parte delle

istituzioni creditizie locali, delle opportunità creative del sistema locale. Al contrario,

un monitoraggio mirato e costante può essere un ottimo fattore d’incentivo. Si tenga

248

presente che la natura delle innovazioni qui considerate non richiede necessariamente

imponenti investimenti finanziari e spese di ricerca. Questo è sicuramente un

vantaggio a favore del distretto, ma non implica necessariamente che il credito giochi

un ruolo secondario.

Per concludere sul tema delle innovazioni, si può facilmente osservare come

gli stessi fattori possono essere sia d’ostacolo sia d'incentivo. I due esiti alternativi

dipenderanno da situazioni contingenti e da come nei singoli distretti industriali

queste condizioni interagiscono fra loro. La scarsa possibilità di generalizzazioni su

questo tema deriva anche dalla considerazione che gli incentivi all'innovazione sono

difficilmente misurabili in termini di fondi investiti, ma sono piuttosto legati, ancora

una volta, a elementi imponderabili, capillari e complessi, che ruotano tutti entro la

sfera dell'informalità.

7.2.4 Istituzioni locali

In ogni distretto industriale le istituzioni locali assumono un ruolo

fondamentale nel costruire e riprodurre i fattori di successo e le condizioni per lo

sviluppo e la competitività del sistema locale d’impresa.

Esempi di istituzioni locali sono l'agenzia di sviluppo locale, i centri

tecnologici e le agenzie di diffusione delle innovazioni, i centri di servizi reali, e

naturalmente le istituzioni pubbliche tradizionali quali la scuola, l'università, il

sindacato, l'amministrazione pubblica. Tali istituzioni sono legate all'intervento di

politica industriale, di cui si tratterà in seguito.

Per il momento è sufficiente mettere in rilievo, che il distretto industriale è

tipicamente un’unità economica, che sorge e si sviluppa in gran parte

indipendentemente dalla volontà e dall'intervento delle istituzioni. In certe aree,

soprattutto quelle di più antica tradizione industriale, le istituzioni sembrano essere

state più d’ostacolo che d’aiuto. Al contrario, nelle aree svincolate dal peso delle

lungaggini burocratiche (nella cosiddetta "terza Italia") i distretti sono sorti con più

facilità. Quanto detto non implica, tuttavia, che l'intervento istituzionale sia in

generale d’impedimento. Esso dovrebbe piuttosto essere opportunamente calibrato

alle necessità dei sistemi locali d’impresa, come è effettivamente avvenuto nei luoghi

dove i distretti sono diventati veri e propri casi di studio.

La difficoltà dell'intervento istituzionale è spesso legata all'estrema

mutevolezza, flessibilità e informalità del tessuto socio-produttivo locale, laddove

249

l’opportunità e l’utilità di un’azione dell’operatore pubblico sta nell’esigenza di

temperare o superare i limiti intrinseci a questa tipologia di relazioni, che almeno in

potenza, costituiscono fattori di crisi.

I sistemi di piccola impresa possono avere una scarsa percezione complessiva

degli orientamenti del mercato, oppure un basso livello di terziarizzazione rispetto

alle necessità del sistema produttivo. Inoltre, al loro interno, si possono verificare

incoerenze fra le politiche del credito, o le politiche delle Regioni e degli enti locali,

e le esigenze proprie del sistema locale. Infine, i sistemi di piccole imprese, laddove

non vi siano imprese leader (corporate network), corrono il rischio di un eccessiva

polverizzazione e una mancanza di coordinamento. Infatti, al fine di produrre

strategie di lungo periodo per conservare o incrementare il livello di competitività e

sviluppo del distretto, si rende talvolta necessario una sorta di "cervello direzionale"

che il sistema potrebbe non essere in grado di produrre spontaneamente.

7.3 Cause e origine storica dei sistemi locali d’impresa in Italia

A partire dagli anni '70 i distretti industriali sono sorti e cresciuti con una

velocità e una varietà tale da fare dell'Italia un caso d’interesse internazionale per chi

voglia occuparsi di tematiche legate al territorio ed ai sistemi di piccole imprese.

Sull'origine dei sistemi locali d’impresa si possono avanzare diverse

spiegazioni e punti di vista alternativi.

Il differente peso assegnato alle cause alternative si riflette sulla visione

teorica complessiva dello sviluppo dei sistemi locali d’impresa. Chi evidenzia il

rapporto di dipendenza gerarchica tra le grandi imprese ed i sistemi locali d’impresa

tende a sottolineare come l'origine dei distretti industriali italiani sia stata

prevalentemente guidata da cambiamenti strutturali del sistema economico

complessivo, e più specificamente, dalla ristrutturazione produttiva della grande

impresa. Chi, invece, intravede nei distretti un certo grado di autonomia, di capacità

di autosostenere il proprio sviluppo e di raggiungere elevati livelli di competitività,

ricerca cause di tipo endogeno, che mettono in luce la spontaneità con cui i sistemi

locali sono nati e cresciuti anche in ambienti economici per certi aspetti ostili.

250

7.3.1 Le trasformazioni nel sistema economico-produttivo

La nascita dei sistemi locali di piccola e media impresa coincide con una fase

di passaggio di natura secolare, da un modello di sviluppo fordista a uno a

specializzazione flessibile, o post-fordista.

Il primo è caratterizzato da un forte accentramento di capitale e lavoro intorno

alla grande fabbrica meccanizzata. Il lavoro prende la forma della catena di

montaggio dei grandi impianti: è dato osservare una netta divisione fra quadri e

operai, mentre la produzione ha per oggetto merci standardizzate destinate ad un

consumo di massa tendenzialmente indifferenziato.

Il sistema post-fordista, invece, sviluppatosi in Giappone (paradigmatico è il

caso della fabbrica automobilistica Toyota) apporta cambiamenti radicali

nell'organizzazione della grande fabbrica e di conseguenza sull'intera organizzazione

delle economie nazionali, tanto da svuotare di rilevanza persino il carattere

prevalentemente nazionale delle economie di epoca fordista. Il nuovo modello

produttivo a specializzazione flessibile è efficacemente riassunto dalle parole "just in

time": soddisfazione della domanda, grazie ad un prodotto differenziato, adeguato

alle eterogenee esigenze dei singoli consumatori e addirittura prodotto sotto

ordinazione. L’esatto opposto della produzione di massa. Questa rivoluzione

copernicana nel sistema produttivo ha comportato alcune trasformazioni

nell'organizzazione della fabbrica, che tanto peso hanno avuto in Italia nella

formazione dei sistemi locali d’impresa.

Anzitutto la grande fabbrica, abbandonata la catena di montaggio, si

organizza in "officine minime", ciascuna delle quali si specializza in una singola fase

del processo produttivo, dotandosi di una "tecnologia frugale" più a portata

dell'operatore con una maggiore capacità di adattamento e di miglioramento. Si

assiste quindi ad un crescente coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni

riguardanti la produzione e nel controllo del flusso produttivo (con la possibilità -

inesistente nella fabbrica fordista - di rallentare il ritmo della produzione per

correggerne i difetti). In terzo luogo, la fabbrica "taylorista" si adopra per garantirsi

un rapporto di fiducia reciproca con i propri lavoratori ed i fornitori. Infine, i

controlli sulla qualità di un prodotto iniziano a comparire all'interno di ogni singola

fase della produzione, non limitandosi al prodotto finale.

La spinta verso una ristrutturazione del sistema produttivo a livello

internazionale prende le mosse dalla crisi petrolifera e da quella del sistema di

251

regolazione internazionale sancito dagli accordi di Bretton-Woods. Questi fattori di

crisi si traducono concretamente, per le economie nazionali, in un elevato costo delle

materie prime e in una forte spinta inflazionistica in presenza di recessione

economica (stagflazione).

In Italia un ulteriore fattore di pressione è rappresentato dall’altissimo livello

di sindacalizzazione della forza lavoro, giudicato dai datori di lavoro insostenibile

per le possibilità del sistema produttivo fondato sulla grande impresa di tipo fordista.

Due sono i fattori di svolta che consentono alla grande impresa di uscire dalla

crisi: il decentramento produttivo (anni '70) e l'ammodernamento tecnologico (anni

'80). Il primo fattore crea le condizioni (o alcune delle condizioni) per lo sviluppo dei

sistemi locali d’impresa. Il secondo, a giudizio di alcuni commentatori, riconducendo

il rapporto fra piccola e grande impresa nei ranghi di un rapporto tendenzialmente

gerarchico, sancisce una netta divisione fra i moderni settori trainanti, dominati dalla

grande impresa, e i settori tradizionali, in cui operano i sistemi locali di piccola e

media impresa.

Tornando ai sistemi locali d’impresa, si può osservare che essi, in Italia, sono

figli del decentramento produttivo, che ha consentito di scorporare dalla grande

fabbrica quelle "officine minime" che potevano tecnicamente essere localizzate

all'esterno. Il vantaggio di questa operazione è legato ai requisiti di estrema

flessibilità delle aree non industrializzate e a bassa sindacalizzazione. Tali requisiti,

peraltro, non sono semplicemente riassumibili con la circostanza che i salari orari

sono più contenuti nelle zone a bassa industrializzazione, come all'inizio ci si

limitava ad osservare. Si può, infatti, facilmente constatare che i requisiti, appena

descritti, della fabbrica "toyotista", non sono tanto lontani dalle caratteristiche

proprie dei distretti industriali. Infatti, il grado elevato di fiducia e di collaborazione

dei lavoratori, l'organizzazione del lavoro intorno a singole e autonome parti del

processo produttivo (tipicamente di dimensioni ridotte, in cui la figura dell'operaio

automatizzato viene sostituita da un lavoratore con cognizione di causa e capacità di

intervento sul prodotto) sono tutte caratteristiche comuni sia della moderna fabbrica

sia del distretto industriale. E' questo, con tutta probabilità, uno dei maggiori

elementi di modernità (e di successo) dei distretti industriali italiani.

Al decentramento produttivo ha fatto seguito un'industrializzazione diffusa in

regioni diverse dal triangolo industriale (Torino-Milano-Genova), e in particolare

nell'Italia centrale e del Nord-Est (la cosiddetta "terza Italia", dove si trovano i casi

252

più studiati di distretti industriali). Esistono diversi casi di formazione di sistemi

locali d’imprese anche nelle aree non urbane delle regioni di maggiore e più antica

industrializzazione, specialmente Lombardia e Piemonte, così come nelle regioni del

Meridione d'Italia.

Lo sviluppo, di natura periferica, dei distretti industriali, prende nel frattempo

direzioni parzialmente autonome dalla grande impresa. I distretti industriali attingono

progressivamente alle risorse locali, si orientano verso la costruzione di una rete

plurale di clienti e di fornitori, riuscendo infine a competere sui mercati

internazionali. Sulla base, non solo di prezzi e costi di produzione contenuti, in

dipendenza di fattori congiunturali quali la politica valutaria nazionale, ma anche di

prodotti di qualità legati al marchio, al design e alla tecnologia.

Un'altra caratteristica dello sviluppo decentrato dei sistemi locali d’imprese è

la sua differenziazione, non tanto in termini merceologici, quanto in termini

organizzativi e di fasi produttive. A fronte di una divisione territoriale del lavoro

all'interno dello stesso settore, si verificano fenomeni di interregionalizzazione della

produzione in termini merceologici, per cui i settori tradizionali si diffondono in gran

parte delle aree sopra citate.

Lo sviluppo decentrato italiano risulta, in sintesi, estremamente articolato.

Tale circostanza induce a superare le visioni dualistiche e dicotomiche dello sviluppo

economico, venendo meno la possibilità di osservare e contrapporre nettamente

sviluppo e sottosviluppo, regioni arretrate e regioni avanzate.

7.3.2 I fattori endogeni

Gli eventi associati alle trasformazioni economiche, su scala sia nazionale sia

internazionale, possono essere considerati come le cause esogene della formazione

dei sistemi locali d’impresa. Essi sono: la ricerca di mercati del lavoro flessibili, di

mercati fondiari a prezzi bassi, di condizioni di flessibilità generale presenti nelle

aree periferiche; e, soprattutto, le nuove tecnologie in grado di scorporare parte del

ciclo produttivo originariamente accentrato nella grande dimensione.

Resta comunque da determinare in base a quali fattori in certe aree il

decentramento produttivo si sia potuto trasformare in industrializzazione diffusa,

favorendo la crescita dell'attività imprenditoriale e dell'organizzazione di tipo

reticolare tipica dei distretti industriali in modo tanto spontaneo da accompagnare la

253

crescita dei sistemi locali d’impresa. Sono stati individuati, a questo riguardo, i

seguenti fattori endogeni alle singole aree territoriali.

Anzitutto la piccola imprenditoria locale sembra legata all'esistenza di

tradizioni specifiche del lavoro, ed in particolare alle attività artigianali, diffuse nel

territorio ancor prima della sua industrializzazione grazie alla presenza di un elevato

numero di lavoratori indipendenti, un certo livello di professionalità, una struttura

sociale sufficientemente mobile.

L'imprenditorialità sembra attribuibile anche all'organizzazione

dell'agricoltura basata sulla piccola proprietà e la mezzadria che, a differenza del

latifondo, determina nei singoli individui un'abitudine al calcolo economico.

Secondo Paci (1980,1982) un fattore endogeno rilevante è la famiglia estesa -

tipica delle regioni agricole della terza Italia - una forma in embrione della futura

piccola impresa, in quanto propensa a garantire una non irrilevante accumulazione di

capitale, prestazioni lavorative organizzate con caratteristiche proto-imprenditoriali,

come il lavoro a domicilio oltre ad una base di protezione contro le congiunture

economiche sfavorevoli (una sorta di ammortizzatore sociale).

Secondo Brusco (1975,1982) un fattore endogeno è più semplicemente la

stessa piccola impresa, in grado, con l'avvento del decentramento produttivo, di

affrancarsi progressivamente dal controllo della grande impresa fino a raggiungere

un certo grado di autonomia, una volta attuate strategie di specializzazione flessibile

e produzioni in "serie corte".

Per Dematteis (1983) infine, un altro fattore esogeno va rintracciato nel forte

insediamento di piccoli centri urbani nelle aree a industrializzazione diffusa: un

capitale ambientale all’interno del quale imprese piccole e medie hanno potuto

nascere e svilupparsi con maggiore facilità, nonché esser maggiormente valorizzate.

7.4 Approcci alternativi nello studio dei sistemi locali di

impresa

I sistemi locali d’imprese sono stati studiati da diversi autori e diverse scuole.

La loro ricerca ha alternativamente evidenziato differenti aspetti, pur non

necessariamente (o meglio, quasi mai) incompatibili fra loro.

Il merito dei primi studi sull'argomento va indubbiamente attribuito ad autori

italiani, i quali durante gli anni '70 si resero conto che la "disubbidienza dei fatti" alla

254

teoria economica richiedeva un rovesciamento delle chiavi di lettura teoriche per

osservare il fenomeno dell'industrializzazione diffusa nella terza Italia, non essendo

più interpretabile come una semplice irregolarità o anomalia. In questo paragrafo

verranno esposti i contributi teorici che hanno anticipato e fatto seguito a questo

rovesciamento di prospettiva.

7.4.1 I precedenti teorici

Il lavoro teorico di Alfred Marshall è quello da cui Becattini (1987, b)

esplicitamente prende ispirazione nel formulare la sua lettura dei distretti industriali.

Marshall, pur essendo fra i fondatori della teoria economica neoclassica, in

parallelo, si occupò del fenomeno dei distretti industriali, di cui tuttavia non riuscì a

dare una spiegazione convincente nell’ambito della teoria che lui stesso contribuì ad

elaborare. Mentre nei Principles Marshall si occupa di equilibri parziali con imprese

rappresentative e curve di costo del prodotto, in Industry and Trade egli si libera di

questi "espedienti didascalici", analizzando più da vicino il mondo degli affari e

rilevando come esso sia costituito da gruppi industriali compatti, a metà strada fra

l'agente individuale ed il sistema complessivo, all'interno dei quali risulta

estremamente difficoltoso attribuire un costo di produzione di un bene ad un'unica

impresa.

Muovendo dal concetto di economie (diseconomie) esterne all’impresa, ma

interne all’industria, Marshall giunge a giustificare i rendimenti inizialmente

crescenti e successivamente decrescenti dell'impresa rappresentativa, utilizzando una

forma ad U per la curva del costo medio. Questa strada è stata successivamente

delegittimata, sotto il profilo del rigore analitico, dalla critica di Sraffa nel 1926. È

poi Becattini, a ritenere che in Industry and Trade tale concetto sia utilizzato, in

modo meno formale e più fecondo, per spiegare l'esistenza dei distretti industriali.

Secondo Marshall, in certi settori manifatturieri, è possibile ottenere gli stessi

vantaggi della produzione su larga scala, concentrando in una determinata area un

elevato numero di piccole unità produttive. Maggiore è la concentrazione della

produzione e della popolazione intorno in un unico territorio, maggiore è la

probabilità di concepire idee nuove. Economie e diseconomie esterne all'impresa e

interne all'industria non sono legate semplicemente ai costi tecnici di produzione, ma

piuttosto al collante, costituito da infrastrutture, densità di popolazione, risorse locali

in generale, che unisce imprese diverse in un unico distretto industriale. L'idea

255

marshalliana di economie esterne all'impresa e interne all'industria è all'origine del

concetto, oggi comunemente utilizzato, di economie di agglomerazione.

Successivi passi teorici sono stati compiuti dagli studi sulla segmentazione

del mercato del lavoro, che hanno contribuito a svecchiare una visione deterministica

della società e dell'economia. In particolare, si riconosce che l'offerta di lavoro è

articolata in una pluralità di gruppi, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, legate

al territorio e alla storia ed in grado di condizionare la stessa tecnologia produttiva

utilizzata.

Un altro spunto di riflessione è derivato da un filone della letteratura

economica e sociologica sulle imprese e sui mercati, che fa capo a Simon e

Williamson, dal lato degli economisti, e a Hirschman e Granovetter, dal lato dei

sociologi economici. Questi contributi, di diverso tipo ed origine, pongono l'accento

sulla teoria dell'impresa e del mercato, rilevando come le relazioni fra venditori e

compratori siano in realtà molto più complesse di quanto la teoria della concorrenza,

perfetta o imperfetta, sia in grado di descrivere. Si tratta di relazioni permanenti e

personali, che non possono essere sintetizzate né da un prezzo di equilibrio né da un

contratto esplicito e completo. Impresa e mercato risultano istituzioni complesse, in

cui entrano in gioco elementi tradizionalmente considerati extraeconomici.

Becattini e Bianchi (1987) osservano infine che è intervenuto un generale

cambiamento nel modo di intendere lo sviluppo economico. Alla distinzione

strettamente tecnologica fra settori trainanti e settori trainati si è progressivamente

sostituita una visione più complessa, secondo cui i settori dell'industria di tipo

fordista (siderurgia, petrolchimica, ecc.), comunemente considerati trainanti, mutano

localizzazione geografica e si insediano nei paesi in via di sviluppo, dove l'offerta di

lavoro è a basso costo e bassa qualificazione, mentre i settori comunemente

considerati tradizionali, cioè i settori "trainati" del tessile e dell'abbigliamento,

restano localizzati nelle aree economiche sviluppate e risultano tecnologicamente

rimodernati (e informatizzati).

7.4.2 I teorici del distretto industriale

Nella descrizione dei sistemi locali d’imprese si è adottata fino ad ora la linea

interpretativa dei primi studiosi italiani dei distretti industriali. Ad essi va

riconosciuto il merito di aver costruito una vera e propria chiave di lettura, che ha

assunto il carattere di un paradigma per chi si voglia occupare di sviluppo locale. Da

256

questo momento, però, è opportuno guardare al suddetto approccio come al

contributo di una particolare scuola, che presenta differenze anche rilevanti rispetto a

visioni alternative.

Il concetto di distretto industriale risulta oggi limitante, agli occhi dei suoi

stessi teorizzatori, in quanto eccessivamente specifico e pertanto affiancato da

termini più generali, quali "sistemi locali d’impresa", "sistemi produttivi territoriali",

"modelli locali di sviluppo".

La peculiarità dei teorici del distretto industriale si può forse identificare nella

volontà di fondere fenomeni economici e sociali, che nel distretto industriale

risultano indistinguibili. Questo ingresso di altri campi di studio nella materia

economica spinge gli autori a un costante confronto critico con la teoria economica

accademica o manualistica, da cui risulta una riformulazione e ridefinizione di

concetti quali l'impresa, il mercato, l'industria, la concorrenza, lo scambio, tutti

adattati alle nuove esigenze conoscitive, permeate di conoscenze interdisciplinari,

prevalentemente di tipo sociologico (valga come esempio l’analisi di Dei Ottati

(1987, 1995) sul mercato comunitario come luogo di cooperazione e competizione).

Un'altra caratteristica dell'approccio "distrettualista" è la componente

dinamica. Essa apre una serie di questioni su quanto flessibile sia il concetto di

distretto industriale, e quando in particolare ci si trovi di fronte ad un distretto

industriale propriamente detto, oppure ad un sistema locale di tipo diverso. Nel corso

degli anni '80 e '90, con la crisi del sistema fordista di organizzazione dell’economia

ed il conseguente svuotamento dello stato nazionale, quale luogo principale della

politica e dell'attività economica, è aumentata la consapevolezza dell’estrema varietà

delle realtà produttive locali, alla luce anche dell’intensificarsi del processo di

globalizzazione.

7.4.3 Il modello dell’impresa-rete (o corporate network)

Parzialmente intrecciato con l'approccio distrettualista è il punto di vista degli

economisti italiani d’impresa, che fanno capo alla rivista "Economia e Politica

industriale" diretta da Vaccà. Grande rilevanza è data da questi studiosi al concetto di

rete ed alla sua capacità di creare esternalità. La rete fra unità produttive si costituisce

per mezzo di un linguaggio specializzato, proprio soltanto dei soggetti che ne fanno

parte, ed attraverso di essa le imprese riescono a comunicare, condividere e

propagare le conoscenze.

257

La rete di interdipendenze fra imprese assume lo stesso ruolo chiave che i

distrettualisti assegnano al territorio. Essa può essere considerata anche un tipo di

produzione transnazionale, non risultando necessariamente legata al territorio e alla

cultura locale. Rullani (1989, p. 132) definisce la rete un sistema reversibile e

ubiquitario, in quanto consente la modifica delle scelte produttive e non è soggetto al

vincolo territoriale. Questi requisiti permettono di ridurre l'incertezza che altrimenti

potrebbe inibire la stessa attività produttiva della piccola e media impresa.

La rete, vista in quest'ottica, apre nuove strade nell'analisi del rapporto fra

economia globale ed economia locale. L'impresa, svincolata dal territorio di

appartenenza, è infatti un'impresa transnazionale, ma questa considerazione non

implica una perdita del ruolo del territorio. Il concetto di rete serve a mettere in

rilievo l'estrema varietà e diversità di forme che il sistema industriale può assumere;

è, in altri termini, assente un modello unificatore che confini le possibilità produttive

entro un preciso schema teorico. L'impresa è immersa nell'economia globale, la quale

a sua volta altro non è che un coacervo di economie locali, fra loro interdipendenti.

La globalizzazione, d’altro canto, va vista come un crescente sistema di

interdipendenze. In questa prospettiva, il territorio non risulta assolutamente svuotato

del suo ruolo strategico. Al contrario, l'impresa è immersa nell'ambiente e in un

contesto culturale e spaziale che determina la sua diversità ed il suo vantaggio

competitivo, per cui diventa di estrema rilevanza sapere riprodurre nel tempo le

risorse locali. Il radicamento sul territorio diventa un fattore strategico anche per la

grande impresa multinazionale, che quanto più sarà in grado di utilizzare le diverse

specificità locali in cui opera, tanto più renderà fruttuosi i vantaggi della sua mobilità

territoriale.

Ritornando al concetto centrale di rete, uno dei contributi specifici

dell'approccio in questione consiste nell'individuazione di due "dimensioni

cognitive" che nella rete si incontrano e producono le esternalità: i vantaggi

competitivi e le possibilità di innovazione delle unità produttive che ne fanno parte.

Esse sono la dimensione della conoscenza scientifica, codificata e prodotta dal

motore autopropulsivo e aterritoriale della scienza, e quella della conoscenza tacita o

contestuale, prodotta invece da specifici contesti territoriali. Nella rete, queste due

dimensioni si unificano e interagiscono, favorendo la coesistenza di globale e locale.

Il concetto di rete è pertanto alla base di un’impostazione teorica, che

racchiude al suo interno l'approccio distrettualista, senza negarlo o destituirlo di

258

valore conoscitivo, ma piuttosto cercando di integrarlo in una visione allargata

all'economia globale, alle imprese industriali di ogni dimensione. In questa logica il

ruolo del territorio ne risulterebbe addirittura rafforzato, poiché non è più visto come

un fattore strategico, esclusivo della piccola e media impresa.

Fra gli studiosi del modello di corporate network, ve ne sono però alcuni che

giungono a sottolineare le caratteristiche dell’impresa-rete, che rendono questo

schema ben diverso da quello che ruota intorno al concetto di distretto industriale.

L'enfasi del modello di corporate network è posta sul rapporto di gerarchia esistente

fra imprese. Ad esempio, le imprese Benetton, Stefanel e Carrera del settore tessile

abbigliamento del Veneto sono identificate come tipici casi studio. Si tratta di un

modello che rappresenta un possibile esito evolutivo negativo della dinamica dei

distretti industriali.

Secondo questi autori, l'impresa-rete è un network produttivo che collega una

consistente fascia di piccole imprese - artigiani o terzisti - intorno ad un'impresa

leader di maggiori dimensioni, attraverso un costante e complesso rapporto di

committenza, sub-fornitura, che poggia sulla segmentazione del processo produttivo.

Tuttavia, l'autonomia giuridica dei piccoli imprenditori non coincide con una reale

capacità di operare autonomamente. La figura del piccolo imprenditore pare molto

simile a quella dell'operaio della catena di montaggio, in quanto alle piccole imprese

vengono richieste lavorazioni semplici e di routine e non competenze specifiche. Il

lavoro viene spesso pagato a cottimo, causando intensi ritmi di produzione ed una

graduale selezione delle imprese coinvolte, anche in base a criteri di qualità del

prodotto.

Questo tipo di organizzazione fortemente gerarchizzata ha in comune con il

modello del distretto industriale, oltre alle piccole dimensioni delle imprese locali,

consenso sociale e rapporto quotidiano di scambi informativi e di fiducia reciproca

fra piccole imprese e impresa committente. In altri termini, il binomio cooperazione-

competizione, caratteristico dei distretti industriali, nell'impresa-rete si trasforma in

cooperazione-gerarchia.

La specificità del territorio è connessa ai buoni rapporti informali, che

addolciscono quelli gerarchici; sul piano dei rapporti di produzione effettivi la sola

differenza riscontrabile fra l'impresa-rete e la fabbrica tradizionale appare nel grado

di sindacalizzazione e di flessibilità della forza-lavoro.

259

Quest'ultima considerazione è particolarmente rilevante soprattutto nella

prospettiva di un’analisi del delicato equilibrio fra globale e locale. L'impresa-rete,

infatti, per quanto radicata in un determinato territorio, utilizza i bassi costi di

produzione per competere a livello globale. Ma fino a che punto, ci si può chiedere,

il collante costituito dal sistema della rete locale può disincentivare l'impresa leader a

trasferire la sua produzione nei paesi in via di sviluppo, dove il costo del lavoro è

decisamente più basso ? Il processo di delocalizzazione della produzione nei paesi in

via di sviluppo, che si è particolarmente intensificato nel corso degli anni '90, sembra

segnalare che i legami tra imprese - all’interno del corporate network - sono molto

più deboli che nel distretto industriale, con conseguenti danni per l'economia locale e

per l'occupazione.

7.4.4 Porter e il vantaggio competitivo delle nazioni

Nel 1989 Michael Porter pubblica The Competitive Advantage of Nations, che

diviene uno dei principali testi di riferimento per chi si occupa di tematiche legate al

territorio. Il libro è, da un lato, una trattazione sistematica, che si ripropone

esplicitamente di fondare un nuovo paradigma nell'analisi delle problematiche dello

sviluppo economico e della competizione internazionale fra i paesi industrializzati,

dall'altro, uno studio di casi specifici e illustrativi della trattazione teorica.

L'ambizione di fornire una trattazione sistematica e quasi manualistica i temi

affrontati è probabilmente alla base del successo di questo libro. L'analisi teorica del

territorio e delle specificità locali sembra, tuttavia, piuttosto limitata, più ampio

risulta lo studio di casi specifici (in particolare Porter analizza Italia e Germania).

Una caratteristica peculiare del contributo di Porter è il recupero della dimensione

nazionale, che costituisce l'unità spaziale privilegiata per analizzare i fenomeni

tipicamente legati al territorio.

Il presunto paradigma di Porter presenta sul piano teorico diverse analogie

con gli approcci descritti precedentemente, di dinamicità intrinseca dell'analisi dello

sviluppo industriale. Porter si pone in una prospettiva evoluzionista, in cui, mentre

l'osservazione delle potenzialità di un settore industriale gioca un ruolo rilevante, le

variabili direttamente osservabili o i successi già realizzati passano in secondo piano.

Nel quadro teorico costruito in questa prospettiva, quattro sono le grandezze

economiche dalla cui interazione dipende il vantaggio competitivo di una nazione: (i)

i fattori di produzione, ovvero i livelli di preparazione professionale, e le

260

infrastrutture, sul versante dell'offerta; (ii) la domanda interna del prodotto (o dei

servizi) da parte delle industrie nazionali; (iii) le interdipendenze industriali del

sistema produttivo nazionale con quello internazionale; (iv) le condizioni che in

ambito nazionale determinano la nascita, l'organizzazione e le strategie delle

imprese.

Porter pone l'enfasi della sua analisi sui settori industriali e identifica nelle

nazioni il territorio dove essi possono meglio svilupparsi. Ne risulta che la divisione

internazionale del lavoro è strettamente legata alla struttura settoriale dell'economia

globale. Nel sistema economico globale non sono le nazioni a competere

direttamente fra loro, bensì le imprese. Le nazioni invece competono indirettamente,

identificandosi con specifiche imprese e specifici settori.

L'importanza del territorio emerge quando si approfondiscono le ragioni, che

legano lo sviluppo di un comparto alle condizioni predisposte nell'ambito

dell'economia nazionale. In particolare, in Porter il vantaggio competitivo di un

settore industriale è determinato dalla sua concentrazione geografica. Infatti, soltanto

in un luogo geografico concentrato i quattro fattori sopra elencati interagiscono fra

loro in modo sistemico determinando, come risultante della loro azione combinata,

un ambiente favorevole al suo sviluppo.

Porter individua anche i rischi di un’eccessiva involuzione dei sistemi

nazionali. La liberalizzazione dei mercati, a suo giudizio, consente riduzioni di costo

e una maggiore circolazione delle informazioni e delle conoscenze. Di conseguenza,

le economie nazionali non devono erigersi a protezione delle imprese nazionali

contro la competizione globale, ma piuttosto devono dedicarsi alla costruzione

dell'ambiente favorevole che determini il vantaggio competitivo delle imprese. In

questa proposta di reinvenzione del ruolo della politica nazionale risiede forse il

maggiore contributo di Porter.

Naturalmente la decisione di allargare la scala dimensionale al livello

nazionale non è neutrale per i risultati dell'analisi. Le istituzioni "locali" sono

identificate con le istituzioni nazionali, che includono le strutture di governo e di

regolazione, le università, le grandi istituzioni bancarie e creditizie, i luoghi

dell'accumulazione del sapere scientifico. Sebbene sia innegabile che, in un'ottica

globale, queste specificità nazionali siano anch'esse riconoscibili come risorse locali

e sedimenti storici, pare concreta la prospettiva di smarrire la dimensione territoriale,

261

nell'accezione che essa assume negli approcci precedentemente esposti, in cui il

territorio è visto come fattore di produzione sui generis.

7.4.5 Il GREMI e il "milieu innovateur"

Con l'approccio del GREMI (Groupe de Reserche Européen sur les Milieux

Innovateur), l’attenzione è puntata sulla produzione di innovazioni e non sui

vantaggi competitivi e l'efficienza locale. Secondo gli studiosi di questa scuola, il

ruolo del territorio e del sistema locale (milieu) è caratterizzato dalla circolazione di

informazioni, codici, routine e strategie, che si sovrappongono alla determinazione di

prezzi e quantità da parte del mercato. Anche qui il territorio è visto come una realtà

multidimensionale, un luogo complesso in cui una comunità agisce e in cui sono

compresenti fattori sociali ed economici.

Nella visione del milieu innovateur, le innovazioni scaturiscono da un

continuo contatto fra il milieu e l'esterno. In aggiunta ad un’appropriata integrazione

del reticolo interno al milieu, emerge la necessità di una stabile connessione con il

mondo esterno al sistema locale. Si tratta dunque di tenere in vita due reti, una

territoriale, l'altra aterritoriale, dalla cui interazione si genera il meccanismo

dell'innovazione. La prossimità geografica da sola non è in grado di generare

rilevanti processi dinamici di creatività innovativa, così come non si può immaginare

un network sradicato dal territorio. Il punto di vista degli studiosi del milieu

innovateur si contrappone alle visioni che attribuiscono a fattori strettamente

endogeni la molla dello sviluppo e delle innovazioni nei sistemi locali. Lo sviluppo

"dal basso", se esiste, non è in grado di fare molta strada. Solidità e grado di

integrazione interna dei sistemi locali giocano un ruolo indispensabile.

Obiettivo dei teorici del GREMI è anche l'individuazione di dinamiche,

traiettorie, leggi di movimento dei milieux, prodotte dell'interazione fra reticolo

interno e reticolo esterno, in altre parole fra locale e globale (milieu-reseau). In

questi studi una particolare attenzione è rivolta all'esistenza eventuale o alla nascita e

all'evoluzione di forme di governance o coordinamento delle strategie collettive

interne al milieu.

262

7.4.6 L'approccio californiano

La dimensione spaziale entra anche nell'analisi degli studiosi californiani che,

a partire dagli anni '80, si occupano dei fenomeni di localizzazione industriale.

L'attenzione in questi lavori è posta, più che sul meccanismo dell'innovazione, sulla

tecnologia e i patterns di industrializzazione, con particolare riguardo alle

considerazioni sui processi di diffusione dell'innovazione tecnologica.

Storper (1995) sottolinea che la teoria economica tradizionale considera la

tecnologia come un dato esogeno. Dati i prezzi dei fattori in assenza di rigidità, il

libero gioco delle forze di mercato è in grado di far convergere le decisioni di ogni

singola impresa verso la tecnologia migliore, secondo un rigido criterio di efficienza.

A giudizio di Storper, invece, la realtà produttiva, in quanto immersa nell'incertezza,

è dominata da una pluralità di "mondi di produzione", retti da determinate

convenzioni o routines, per cui una tecnologia si impone sulle altre per ragioni più

complesse del semplice criterio di efficienza. L'incertezza viene concepita come

fattore propulsivo dell'innovazione. All'interno dei "mondi di produzione" vengono

creati i nuovi prodotti e la diversità appare il motore della produzione e della

domanda, e non il risultato di ostacoli o rigidità istituzionali. Le convenzioni e le

routines, essendo in grado di determinare la diversità prendono forma al di fuori dei

meccanismi di mercato, nonché costituendo delle untraded interdependencies

territorialmente determinate, sono alla base dell'interpretazione di Storper sul ruolo

del territorio.

Un altro contributo della scuola californiana riguarda lo studio dei patterns di

localizzazione industriale come processo di natura dinamica, in cui la divisione

(tecnica e sociale) del lavoro, insieme alla disintegrazione verticale del processo

produttivo, genera economie di agglomerazione ed effetti di tipo cumulativo (effetti

Verdoorn) di trasformazione strutturale dell'industria. È dato riscontrare due limiti. Il

primo riguarda il territorio che assume un ruolo passivo in quanto, trasformato in

funzione dei mutamenti tecnologici nei settori industriali, non sembra retroagire su

questi ultimi in nessun modo. Il secondo consiste nella sostanziale adesione ad una

visione deterministica delle dinamiche di sviluppo, descritte come un percorso a

stadi: localizzazione, agglomerazione, dispersione, rigenerazione traslata o

spostamento al centro (Storper e Walzer, 1989).

263

7.4.7 Krugman e la nuova geografia economica

Krugman (1991) ha analizzato più da vicino i problemi della localizzazione

nello spazio, nel tentativo di conciliare linguaggi e campi del sapere che hanno

apparentemente pochi punti di contatto. Il suo lavoro si è tradotto in una

modellizzazione delle decisioni localizzative, tramite l'introduzione di rendimenti

crescenti all'interno di uno schema teorico di matrice neoclassica. Secondo Krugman,

"il fenomeno della concentrazione geografica della produzione è una prova evidente

dell'onnipresente influenza di qualche genere di rendimenti crescenti"(Krugman,

1991; p. 16).

Krugman si ispira a Marshall riconoscegli il merito di avere individuato i

fattori che determinano le economie di agglomerazione a tutt'oggi studiate. Tali

fattori sono: un mercato di lavoratori specializzati, l'approvvigionamento di input

non scambiati sul mercato, gli spillover tecnologici fra le imprese appartenenti ad un

unico territorio. Tuttavia, la sua lettura di Marshall è sostanzialmente diversa da

quella che ha ispirato i teorici dei distretti industriali e forse è solo un riconoscimento

intellettuale. Le economie esterne all'impresa vengono trascurate da Krugman perché

troppo complesse da formalizzare, mentre tutta l'attenzione è rivolta alle economie di

scala interne all'impresa.

I fattori che entrano in gioco nella spiegazione di Krugman dei processi

dinamici di localizzazione sono i rendimenti crescenti, i costi di trasporto e i

movimenti migratori (a questi ultimi è legata la domanda del prodotto industriale). Si

tratta di grandezze quantificabili e utilizzabili in un modello formalizzato. Egli

afferma che da una circostanza sostanzialmente casuale prende l'avvio il processo

dinamico di localizzazione. Tale casualità è una condizione iniziale che si identifica

con un accidente storico. La storia, e quindi anche il territorio in quanto sedimento

storico, entra nell'analisi come condizione iniziale e accidentale.

Il territorio appare svuotato dei significati attribuiti dagli altri autori finora

menzionati, per cui la concentrazione geografica viene spiegata semplicemente in

termini di vantaggi derivanti dai minori costi di trasporto.

7.5 La politica industriale e il ruolo delle istituzioni

Si è visto precedentemente come i distretti industriali siano nati per lo più

spontaneamente, in assenza d’interventi istituzionali mirati a questo scopo.

264

Ciononostante è indubbio che le istituzioni siano in grado di condizionare il contesto

e pertanto le possibilità di successo di un sistema locale di imprese. Nel definire le

opportune misure di politica economica, l’operatore pubblico deve tenere presente la

notevole variabilità dell'assetto produttivo locale, cercando di coniugare le sue

esigenze con la rigidità del sistema burocratico. Peraltro l’estrema mutevolezza degli

assetti locali si accompagna ad una loro notevole diversificazione che non rende

agevole le generalizzazioni, anche a proposito delle proposte di politica industriale.

La politica industriale a livello europeo è una novità recente, tutt’ora in via di

definizione. Va altresì ricordato che fino agli anni più recenti la sede privilegiata di

elaborazione delle misure di politica economica è stata quella nazionale, e per la

politica industriale lo è ancora. Le istituzioni comunitarie attualmente si propongono

di incentivare e possibilmente coordinare le politiche nazionali, senza tuttavia avere

su queste alcun potere vincolante.

Lo strumento più efficace della politica industriale europea sono i Fondi

Strutturali, finanziamenti assegnati a specifici progetti di sviluppo, di carattere

prevalentemente regionale. Le risorse finanziarie a disposizione della CE per queste

misure sono ancora decisamente ridotte rispetto a quelle nazionali. Ciò nonostante,

sembra ormai irreversibile un processo di progressiva delega di autorità da parte

dell’autorità nazionale di politica economica a quella sovranazionale.

In Italia la politica industriale è stata spesso improntata al sostegno

dell’occupazione, ed in questa logica ha adottato misure orientate al sostegno delle

grandi imprese; le piccole hanno goduto solo dei vantaggi indiretti, provenienti dagli

stimoli alla domanda aggregata, soprattutto attraverso la svalutazione del tasso di

cambio, prima dell’ingresso nell’Unione Europea.

La politica fiscale è spesso percepita dalle piccole imprese come

particolarmente vessatoria. Il fenomeno dell'evasione fiscale, ad esempio, è il riflesso

e la causa, in un circolo vizioso difficile da rompere, di una pressione fiscale che la

piccola imprenditoria considera estremamente elevata. Resta tuttavia uno strumento

ancora disponibile a livello nazionale, benché si debba osservare che qualsiasi

misura di politica economica che agisca in modo indifferenziato sul territorio non

incide in modo adeguato sulle differenti problematiche locali, specie in un caso come

quello italiano in cui appaiono particolarmente diversificate.

265

Gli interventi di politica industriale a livello locale sono tendenzialmente

configurabili come "politiche dell'offerta", orientate ad accrescere la competitività

dei sistemi d’imprese agendo su fattori diversi dai costi di produzione.

Esistono diverse strade, percorribili anche congiuntamente, per potenziare la

competitività delle risorse locali: i consorzi per la fornitura di servizi reali alle

imprese, la consulenza finanziaria, la formazione professionale e qualificazione della

forza-lavoro, le scuole per la formazione di dirigenti e imprenditori, le politiche del

credito in favore di un ruolo attivo delle banche locali, le strutture di trasferimento

tecnologico per la diffusione di informazioni ed eventualmente per la promozione di

strategie locali di ricerca e sviluppo. In sintesi, l'accento delle politiche locali va

posto preferibilmente sulle potenzialità innovative di ogni singolo sistema locale e

sulla sua integrazione produttiva interna.

Quanto più le politiche sono in grado di intervenire sul processo di

apprendimento delle strutture produttive, tanto più i distretti industriali riusciranno a

dotarsi di una sufficiente autonomia e di una capacità crescente di autosostenere il

proprio sviluppo. Senza dubbio, tale processo di apprendimento dipende dalle risorse

tecnologiche e informative disponibili, ma anche e soprattutto dalle risorse umane.

La principale arma strategica a favore delle istituzioni locali è il contatto diretto con

gli individui che partecipano attivamente al sistema produttivo locale, il cui

coinvolgimento risulta indispensabile. Altrettanto indispensabile risulta la capacità di

individuare - da parte delle istituzioni locali - sia i punti di forza, sia dei fattori di

debolezza.

Le istituzioni, da un lato, fanno parte del reticolo di comunicazione interna al

sistema locale, dall'altro, consentono uno sguardo e una mediazione con l'esterno, a

livello regionale, nazionale ed internazionale. Alle istituzioni locali compete

generalmente un ruolo di pianificazione strategica e di collegamento fra attori,

problemi e politiche sia interni sia esterni al sistema locale. L’eccessiva

polverizzazione dei soggetti economici e dei decisori all'interno dei distretti

industriali – come già accennato – ha spesso impedito l’espressione di un leader.

I prossimi tre paragrafi sono un tentativo di ricostruzione delle politiche

economiche fino ad oggi progettate in favore delle PMI e dei distretti industriali, a

livello europeo, nazionale e regionale. Delle politiche europee verrà tracciato un

quadro generale, mettendo in rilievo gli aspetti che riguardano esclusivamente le

PMI (par. 5), dato che non esistono politiche europee in favore dei distretti

266

industriali. A livello nazionale, nel corso degli anni ’90, è stato invece concepito un

disegno di politica economica con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo dei distretti,

per cui nel paragrafo 6 si discutono gli incentivi alle PMI e ai distretti, accennando,

infine, nel paragrafo 7 alla normativa regionale ed, in particolare, a quella adottata

dalla Regione Piemonte, in attuazione della normativa nazionale sui distretti

industriali.

La ricostruzione delle iniziative in favore di PMI e distretti corre il rischio di

non essere pienamente esaustiva, per diverse ragioni. In ambito europeo, perché gli

incentivi sono dispersi e ramificati in una lunga catena di voci e sottovoci del

bilancio comunitario. In ambito nazionale, in quanto non esiste un vero e proprio

quadro complessivo di politiche, ma ci si deve orientare in mezzo ad un groviglio

normativo, con il rischio di perdere di vista qualche provvedimento di non secondaria

importanza.

Il fine ultimo di questo sforzo resta comunque quello di fornire una

descrizione sintetica degli orientamenti di fondo delle politiche esistenti,

evidenziando le eventuali interazioni politico-economiche esistenti a livello europeo,

nazionale e regionale.

7.6 La struttura della politica economica della CE con

particolare riferimento alle PMI

Le politiche europee di incentivo alle PMI non si limitano a quelle che

traggono origine da specifiche voci di spesa del bilancio comunitario, essendo

possibile identificare alcune fonti di incentivi indiretti allo sviluppo pur non essendo

sempre esplicitamente nominate.

Anzitutto occorre sottolineare come, nell’ambito delle politiche comunitarie,

non venga recepito né utilizzato il concetto di distretto industriale. Le politiche della

CE, infatti, si riferiscono solo alle PMI, rispetto alle quali, di norma, si punta al

finanziamento di programmi di sviluppo anziché di singoli progetti, non essendovi

peraltro alcuna preclusione a che questi programmi possano coinvolgere gruppi di

imprese territorialmente localizzati.

Nel presente paragrafo verrà delineato il quadro generale degli interventi di

politica economica della CE, cercando di dare maggior peso alle parti che

coinvolgono direttamente o indirettamente la Pmi per cui il sottoparagrafo 1 si

267

occuperà di descrivere le spese del bilancio comunitario; il 2 degli interventi della

CE in termini di normative con particolare riguardo al problema della definizione di

Pmi e il canale di incentivo alle Pmi attraverso gli Aiuti di Stato; nel sottoparagrafo 3

verranno delineate le prospettive di intervento futuro.

7.6.1 Le spese del bilancio comunitario

La struttura della spesa comunitaria si articola in numerose voci e sottovoci.

A parte le spese amministrative di funzionamento, che assorbono il 5 per cento del

bilancio, in ordine di importanza sul bilancio totale, è dato rilevare le spese per:

- la garanzia dei mercati agricoli (46,5 per cento);

- le politiche strutturali (33.1 per cento);

- le politiche interne (5.7 per cento);

- la cooperazione con i Paesi terzi (6.2 per cento).

Non tratteremo qui né della prima né dell’ultima categoria. Si noti soltanto

che l’incidenza della politica agricola, sebbene ancora oggi assorba quasi la metà

delle risorse comunitarie, risulta in progressiva flessione rispetto al 1988, anno in cui

si attestava al 58.4 per cento del bilancio. Le politiche strutturali mostrano invece

un’evoluzione opposta alla precedente, a fronte di un 1988 in cui rappresentavano

solo il 17,9 per cento delle spese.

Politiche strutturali e Fondi strutturali

Le politiche strutturali hanno come obiettivo generale la “coesione economica

e sociale” dei Paesi membri, ovvero la riduzione degli squilibri economici e sociali

esistenti, attraverso la solidarietà dei paesi più favoriti rispetto a quelli più deboli

all’interno della Comunità. La maggior parte di queste politiche sono finanziate

attraverso i Fondi strutturali (FESR, FSE, FEOGA, SFOP, Fondo di Coesione), il cui

intervento è disciplinato dai regolamenti comunitari, secondo logiche di carattere sia

geografico sia tematico.

Sono di carattere geografico i seguenti obiettivi:

- Obiettivo 1: sviluppo e adattamento strutturale delle regioni in ritardo di

sviluppo. Le regioni italiane coinvolte sono tutte quelle del Mezzogiorno.

Gli interventi prevedono il sostegno agli investimenti produttivi, la

268

creazione di infrastrutture e di servizi essenziali per lo sviluppo delle

regioni e delle Pmi.

- Obiettivo 2: riconversione economica della zone in declino industriale. Le

regioni italiane interessate sono: Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia,

Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Valle

d’Aosta, Veneto. Gli interventi previsti riguardano l’investimento in

nuove attività produttive, la costruzione di infrastrutture, la tutela

ambientale e la realizzazione di servizi alle Pmi, con particolare interesse

per la creazione di nuova occupazione.

- Obiettivo 5b: sviluppo e adattamento strutturale delle zone rurali. Le

regioni e province italiane coinvolte sono: Bolzano, Emilia-Romagna,

Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte,

Toscana, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto, Trento.

Sono di carattere tematico i seguenti obiettivi:

- Obiettivo 3: lotta alla disoccupazione di lunga durata. Gli incentivi sono

principalmente orientati all’inserimento professionale dei giovani e dei

disoccupati di lunga durata attraverso strutture di formazione e

collocamento.

- Obiettivo 4: formazione e riqualificazione professionale dei lavoratori

delle industrie in trasformazione.

- Obiettivo 5a: adeguamento delle strutture di trasformazione e

commercializzazione dei prodotti dell’agricoltura e della pesca alla

riforma della politica agricola comune.

Le Pmi sono esplicitamente coinvolte nei piani d’intervento per gli obiettivi

di carattere geografico, pur potendo essere interessate anche da quelli di carattere

tematico. Dalla terza conferenza europea dell’artigianato e delle piccole imprese,

tenutasi a Milano il 20 e 21 novembre 1997, si sta progressivamente affermando, in

ambito europeo, l’idea che le Pmi siano una risorsa o un canale decisivo per

fronteggiare il problema della disoccupazione.

Come già anticipato, raramente i Fondi strutturali finanziano singoli progetti;

avendo per lo più ad oggetto programmi di sviluppo, frutto di una concertazione fra

stati membri, regioni, parti sociali e Commissione. I programmi di sviluppo sono di

tre tipi:

269

1. Programmi di iniziativa nazionale (PIN), a loro volta suddivisi in Piani

regionali di sviluppo e Documenti unici di programmazione. Sono

elaborati, proposti e presentati dagli Stati membri e approvati dalla

Commissione dopo processi burocraticamente più o meno articolati di

rifinitura e perfezionamento;

2. Programmi di iniziativa comunitaria (PIC). Vengono elaborati a livello

di Commissione europea sulla base di analisi fornite dai Paesi membri

sui settori critici. Definiscono le aree, le priorità e le modalità tecniche

dell’intervento. Su otto iniziative di questo tipo, lanciate dalla CE per il

periodo 1994-99, una è esplicitamente rivolta a sostenere la

competitività internazionale delle Pmi delle regioni identificate dagli

obiettivi 1, 2, 5b;

3. Azioni innovatrici o Progetti pilota. Si tratta di singoli progetti di

carattere sperimentale finalizzati a preparare nuove politiche.

Politiche interne

Il peso delle politiche interne nel bilancio comunitario complessivo è

decisamente inferiore rispetto a quello dei Fondi strutturali, pur risultando gli

incentivi alle Pmi organizzati in modo più organico.

Le politiche interne sono divise in quattro settori principali: la ricerca, lo

sviluppo delle Pmi, l’ambiente e l’istruzione. Tutti questi interventi toccano, anche se

alcuni solo indirettamente, il mondo delle Pmi, tuttavia qui l’attenzione sarà puntata

su quello in cui le Pmi sono poste in primo piano.

Nel 1989 è stata istituita la Direzione generale XXIII per la “Politica delle

imprese, il commercio, il turismo e l’economia sociale”, deputata a coordinare le

iniziative di politica interna a favore delle Pmi. Il programma di interventi è diviso in

tre sezioni:

1. Sezione partenariato, volta a favorire la cooperazione fra imprese

attraverso sette iniziative:

- Bc-net: rete informatica a carattere commerciale in cui si incontrano

domande e offerte di cooperazione fra Pmi europee e non;

- Bre (Bureau de rapprochement des enterprises): sistema di raccolta di

offerte di collaborazione centralizzate a Bruxelles cui le imprese

hanno accesso diretto;

270

- Europartenariato: manifestazione che si svolge due volte l’anno in una

delle aree identificate dagli obiettivi geografici 1, 2, 5b, con lo scopo

di promuovere lo sviluppo della regione ospite;

- Interprise: finanziamento fino al 50 per cento delle iniziative orientate

a promuovere la cooperazione fra imprese;

- Subfornitura: azioni volte alla diffusione di informazioni, al

miglioramento della trasparenza dei mercati, alla promozione dei

rapporti fra committenti e imprese di subfornitura;

- GEIE (Gruppo europeo di interesse economico): associazione di

persone fisiche e giuridiche senza scopi di lucro, diretta a fornire

servizi vari ai propri membri.

2. Sezione informazione. Si occupa di aprire Eurosportelli in tutto il

territorio europeo, appoggiandosi a istituzioni e organismi locali (enti di

sviluppo regionale, organizzazioni socioprofessionali, camere di

commercio). Gli Eurosportelli (attualmente 214) forniscono informazioni

sulle opportunità offerte dalla CE.

3. Sezione finanze. Ha lo scopo di reperire capitali di rischio per le imprese

di nuova costituzione presso istituti finanziari specializzati, la cui

partecipazione al capitale delle imprese non può superare la soglia del 50

per cento. Vengono anche ammessi a questo finanziamento progetti

transnazionali ad alta tecnologia.

7.6.2 L’azione regolamentativa della Comunità Europea

Oltre che attraverso le spese del bilancio comunitario, la CE agisce

politicamente anche sul piano normativo. È possibile richiamare due tipi di

intervento: la disciplina degli Aiuti di Stato e la definizione di Pmi.

Aiuti di Stato

La disciplina sugli Aiuti di Stato è una tipologia di interventi molto limitata e

indiretta da parte della CE, in grado tuttavia di mantenere una sua influenza sulle

politiche nazionali. L’erogazione di incentivi finanziari avviene a carico dei singoli

stati membri, in base a leggi e normative che limitano la discrezionalità degli stati

membri ai sensi dell’articolo 92 del Trattato di Maastricht. Tale vincolo impedisce

271

l’erogazione di incentivi, fiscali o finanziari, incompatibili con il mercato comune, al

fine di evitare che si creino vantaggi specifici all’impresa o alle imprese interessate,

incidendo sugli scambi fra stati membri.

La disciplina degli Aiuti di Stato consente di inserire deroghe a questo

vincolo, permettendo in questo modo un più ampio margine di manovra rispetto a

quello ammesso dalla legislazione comunitaria.

Come si vedrà, la disciplina degli Aiuti di Stato ha consentito in Italia

l’approvazione di diversi aiuti statali alle imprese ed in particolare alle Pmi:

agevolazioni per il Mezzogiorno e le aree depresse, per la ricerca e lo sviluppo, per la

cooperazione fra imprese. Essa fa sì che la CE intervenga in presenza di vincoli di

bilancio al fine di favorire un certo coordinamento fra le diverse politiche nazionali,

pur in presenza di una considerevole - per quanto decrescente - eterogeneità di

obiettivi da parte dei singoli stati membri rispetto a quelli della CE, oltre che in

termini di strumenti di politica economica utilizzati.

Definizione di piccola e media impresa

Dall’inizio degli anni ’90 si è posta, in ambito europeo, l’esigenza di fissare

opportune convenzioni per la definizione di piccola e media impresa. Si tratta di

un’esigenza pratica di estremo rilievo e politicamente non neutrale, per la stessa

distribuzione dei finanziamenti. Essa risulta legata ad un obiettivo di armonizzazione

e coordinamento delle differenze fra gli stati membri che si riflettono anche sulle

diverse definizioni di Pmi esistenti.

I parametri per la definizione di Pmi sono stati stabiliti per la prima volta con

la Disciplina comunitaria del 20 maggio 1992. Con la Raccomandazione della

Commissione 3 aprile 1996 vengono modificate le modalità per la loro

determinazione e le soglie finanziarie applicate.

Sebbene la Raccomandazione non sia uno strumento giuridico vincolante per

i singoli stati membri con essa si attribuisce legittimità ai comportamenti ad essa

conformi. Con la Raccomandazione del 1996 si raggiunge una vera e propria

armonizzazione delle diverse definizioni esistenti e si allarga la sua applicazione

operativa a diversi ambiti, anziché alla sola disciplina degli Aiuti di Stato, per la

quale era invece esclusivamente concepita la disciplina del 1992. In tutti i nuovi

regimi di aiuto viene oggi applicata la definizione di Pmi della Raccomandazione del

1996, che utilizza i seguenti parametri:

272

1. numero dei dipendenti, misurato in “unità lavorative-anno” (ULA) e

comprendente anche i lavoratori a tempo parziale e stagionali:

piccola impresa: meno di 50,

media impresa: meno di 150;

2. fatturato netto:

piccola impresa: meno di 7 milioni di Ecu,

media impresa: meno di 40 milioni di Ecu;

3. attivo dello Stato patrimoniale:

piccola impresa: meno di 5 milioni di Ecu,

media impresa: meno di 27 milioni di Ecu;

4. partecipazione al capitale da parte di imprese di grandi dimensioni:

piccola impresa: massimo 24,99 per cento,

media impresa: massimo 24,99 per cento.

Le imprese sono considerate piccole o medie se rispettano i parametri 1, 4 e

almeno uno dei parametri 2 e 3.

Vi sono, peraltro, due limiti. In primo luogo, non viene definita la natura

dell’attività di impresa, per la quale si rinvia alle definizioni vigenti nelle singole

legislazioni nazionali, con la conseguenza che non esiste uniformità su ciò che si

intende per impresa, e se, per esempio, i prodotti dell’attività intellettuale vadano o

meno annoverati fra le possibili attività d’impresa.. In secondo luogo, le imprese

artigianali sono escluse dalla definizione, che resta delegata ai singoli stati membri.

7.6.3 Le prospettive future della politica economica

comunitaria

La politica economica comunitaria per il prossimo futuro è dominata da due

orientamenti, parzialmente conflittuali. Da un lato, si auspica e si organizza

l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est europeo, dall’altro lato, prevale una

generale riluttanza degli Stati membri verso nuove politiche comunitarie, che

prevedano la possibilità di ampliare il bilancio comunitario con l’introduzione di

nuove risorse finanziarie.

Il bilancio comunitario resterà, per i prossimi anni, fissato all’1,27 per cento

del Pil comunitario, di cui lo 0,46 per cento viene destinato ai Fondi strutturali; un

273

eventuale aumento delle risorse finanziarie disponibili è quindi legato alla crescita

del Pil comunitario.

Il nuovo periodo di programmazione dei Fondi strutturali va dal 2000 al 2006

ed il loro progetto di riforma è delineato nel documento “Agenda 2000”, presentato il

16 luglio 1997 dalla Commissione europea alla sessione plenaria del Parlamento. Gli

orientamenti della Commissione sulla riforma dei Fondi strutturali consistono in un

accorpamento degli obiettivi esistenti in tre soli obiettivi.

L’obiettivo 1 rimarrebbe tale e quale, mantenendo il suo ruolo prioritario.

Verrebbe tuttavia applicato con maggiore rigore, con qualche conseguenza per

alcune regioni del meridione italiano tra cui il Molise, la Sardegna e forse la Puglia,

escluse dall’obiettivo 1 in quanto il loro Pil supererebbe il 75 per cento della media

europea.

L’obiettivo 2 accorpando anche l’attuale obiettivo 5b, comprenderebbe una

nuova finalità, probabilmente la sola reale novità della riforma disegnata:

l’introduzione di finanziamenti per le aree urbane in condizioni di degrado sociale ed

economico.

Gli obiettivi occupazionali 3 e 4 verrebbero infine unificati in un terzo

obiettivo orizzontale o tematico.

Ai PIC verrà dedicata una quantità di risorse complessivamente inferiore (il 5

per cento dei Fondi anzichè il 9 per cento attuale), ma distribuita su un numero di

progetti inferiore all’attuale, che si ridurrebbero da quattordici a tre: (1) programmi

di cooperazione interregionale e transfrontaliera (Interreg, Regis); (2) programma per

lo sviluppo rurale (Leader); (3) programma per l’occupazione, le risorse umane e le

pari opportunità, con esclusione del progetto specifico di aiuto alle Pmi,

presumibilmente coinvolte nel programma complessivo di intervento per

l’occupazione.

Nel complesso, gli orientamenti di politica economica della CE sembrano

ancora caratterizzati da una linea poco interventista, perché molto attenta alle

esigenze di rigore finanziario sancite con il Trattato di Maastricht.

274

7.7 Lineamenti della politica economica italiana di incentivo

alle Pmi e ai distretti industriali

La politica economica italiana non sembra suscettibile di un’esposizione

schematica e ordinata come quella europea, in quanto è stata in passato oggetto di

diversi mutamenti di indirizzo. Peraltro, l’ambito nazionale è stato, finora, il luogo

primario dell’intervento pubblico in economia, nonostante, da un lato, la crescente

spesa pubblica per interessi negli anni ’80 e, dall’altro, l’opera di risanamento del

bilancio pubblico negli anni ’90 abbiano sicuramente ristretto i margini di manovra

per una politica di sussidio alle Pmi.

Il ruolo dell’Europa acquista rilevanza crescente sul piano del coordinamento

delle politiche e della compatibilità fra politiche nazionali e politiche europee, pur

non arrivando ad essere sufficientemente incisivo, per quanto riguarda i sussidi

finanziari alle Pmi, in quanto le possibilità di spesa della CE restano vincolate

all’1,27 per cento del Pil comunitario.

Nel presente paragrafo verranno delineate alcune caratteristiche della politica

di incentivo alla Pmi in Italia nell’ultimo ventennio (7.1), con particolare attenzione

agli interventi ed al quadro normativo predisposti in favore dei distretti industriali

(7.2).

7.7.1. Principali incentivi finanziari per le Pmi in Italia

La legislazione in favore delle Pmi durante gli anni 80 segue due linee

principali: gli incentivi per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione tecnologica, da un

lato, il credito all’esportazione e alla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo,

dall’altro. Entrambi questi orientamenti, e soprattutto il secondo, sembrano perdere

d’importanza nel corso degli anni 90. Nell’ultimo decennio, infatti, l’attenzione del

legislatore si concentra sul sostegno alle Pmi all’interno del paese ed, in particolare,

nelle aree depresse. Inoltre la legislazione degli anni 90 non si limita ad identificare

le Pmi con l’imprenditoria giovanile o con le cooperative, non ponendosi unicamente

il problema dell’innovazione tecnologica, ma anche quello della cooperazione fra

Pmi e quindi, almeno parzialmente, del loro rapporto col territorio. Gli interventi in

favore delle Pmi vengono, qui di seguito, raggruppati ed esposti per tipologia.

275

Ricerca e sviluppo

Le leggi sugli incentivi per la ricerca e lo sviluppo risalgono agli anni ’80

(leggi 46/82 e 346/88).

Con la legge 46/82 vengono stanziati 1700 miliardi di lire nel biennio 1982-

83 al “Fondo speciale per la ricerca applicata” i cui beneficiari sono imprese

industriali, consorzi fra imprese industriali, enti pubblici economici che svolgono

attività produttiva, società e centri di ricerca. Il Fondo finanzia progetti di ricerca

scientifica e tecnologica applicata di carattere sia privato sia pubblico. Viene

esplicitamente previsto, fra le iniziative finanziabili, il trasferimento alle Pmi “delle

conoscenze e delle innovazioni tecnologiche nazionali” (Art.3). Inoltre, è

contemplata la concessione di contributi alle Pmi da parte dell’IMI, “a fronte di spese

sostenute per lo svolgimento di ricerche di carattere applicativo” (Art.4). Viene

quindi istituito un “Fondo speciale rotativo per l’innovazione tecnologica” (Art.14).

Con la legge 346/88 viene previsto il finanziamento di programmi

internazionali e comunitari di ricerca applicata di importo superiore a dieci miliardi

di lire. La copertura ammessa (in termini di contributi in conto interessi su mutui

stipulati dall’IMI), può arrivare fino al 40 per cento del costo se i progetti sono

presentati da Pmi o da imprese operanti nel Mezzogiorno, ovvero nel caso in cui

presentino “particolare rilevanza tecnologica anche in materia ambientale ed elevato

rischio industriale”.

Provvedimenti speciali

Le cooperative e l’imprenditoria giovanile sono i destinatari dei

provvedimenti speciali predisposti negli anni ’80.

Con la legge 49/85 viene istituito il Foncoper, fondo per la promozione e lo

sviluppo delle cooperative, dotato di 90 miliardi, 20 dei quali da investire per

l’esercizio finanziario 1984. Le cooperative attingono inoltre ad un fondo speciale a

salvaguardia dei livelli di occupazione.

La legge 44/86 stabilisce misure straordinarie per l’incentivo

all’imprenditoria giovanile nel Mezzogiorno, con priorità: (i) ai progetti che

prevedano la valorizzazione delle “risorse locali”, comprovati da studi di fattibilità;

(ii) alle iniziative ubicate nelle zone a più alto livello di disoccupazione; (iii) alle

cooperative.

276

Negli anni ’90 questa linea di intervento in favore dell’imprenditoria

giovanile è mantenuta (v. Legge 95/95, recante disposizioni urgenti per la ripresa

delle attività imprenditoriali) ed i provvedimenti speciali di incentivo all’economia e

alle Pmi si fanno più articolati.

Ne sono un esempio la legge 317/91 per l’innovazione, lo sviluppo e la

cooperazione delle Pmi e dei distretti industriali; la legge 341/95 con cui si istituisce

la “Cabina di regia nazionale” per l’utilizzazione e il coordinamento dei Fondi

strutturali della CE mediante la promozione di iniziative, il monitoraggio, nonché il

controllo dell’attuazione degli interventi e dei risultati; la legge 598/94, varata al fine

di razionalizzare l’indebitamento delle società per azioni possedute dallo Stato, con

cui viene regolamentato il credito privilegiato alle Pmi, finalizzato a “operazioni di

consolidamento a medio e lungo termine di passività a breve nei confronti del

sistema bancario” e agli “investimenti per l’innovazione tecnologica e la tutela

ambientale” (Art.11); la legge 488/92, sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno,

in favore delle aree depresse del territorio nazionale ed infine la legge 313/93 in

favore delle aree siderurgiche in crisi.

Agevolazioni per il commercio con l’estero

Gli incentivi al commercio estero sono orientati genericamente verso i Paesi

in via di sviluppo negli anni ’80, mentre negli anni ’90 sono principalmente

indirizzati agli scambi con i Paesi dell’Est europeo.

Con la legge 394/81, l’ICE è autorizzato a stipulare convenzioni con aziende

agricole, Pmi, consorzi operanti in paesi al di fuori della CE. A questo fine, vengono

stanziati 50 miliardi per il triennio 1981-83, per finanziamenti a tasso agevolato.

I rapporti con i Paesi in via di sviluppo sono più organicamente disciplinati

dalla legge 49/87, in cui sono previsti anche crediti agevolati per la costituzione di

joint ventures nei paesi extra CE.

Le leggi 100/90 e 212/90 promuovono le joint ventures con i paesi

dell’Europa centrale e orientale. Viene istituita la SIMEST s.p.a. per il sostegno

“finanziario, tecnico-economico e organizzativo di specifiche attività di

investimento”, con preferenze per le Pmi, anche in forma cooperativa. Al comitato

interministeriale per la politica economica estera (CIPES) viene assegnato il compito

di coordinare le iniziative di collaborazione, approvando i relativi programmi

277

intergovernativi, bilaterali o multilaterali. Nella scelta fra progetti alternativi, viene

assegnata una priorità alle iniziative da realizzarsi nell’ambito del coordinamento

della CE e delle altre organizzazioni internazionali di cui l’Italia è parte.

7.7.2 Politiche in favore dei distretti industriali

Un’attenzione particolare va rivolta alla legge 317/91, che prende in

considerazione, come unità produttive di riferimento, i distretti industriali. Sebbene

nell’ambito degli interventi nazionali ed europei, questa legge costituisca un caso

isolato, nulla esclude che essa possa essere considerata un precedente per una futura

politica economica più organica in favore dei sistemi locali d’imprese, anche e

soprattutto in ambito europeo.

I distretti vengono definiti come “aree territoriali locali caratterizzate da

elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra

la presenza delle imprese e la popolazione residente, nonché alla specializzazione

produttiva dell’insieme delle imprese” (Art.36). Partendo da questa definizione,

puramente qualitativa, il legislatore si pone il problema di definire con esattezza che

cosa sia un distretto. La difficoltà consiste nel fatto che i sistemi locali d’imprese

assumono forme diverse fra loro, tanto da rendere inappropriato l’uso generalizzato

dello stesso termine “distretto industriale”, che ormai individua un caso particolare

fra i diversi possibili sistemi locali di imprese (aree di specializzazione produttiva,

distretti, aree sistema, reti di imprese, ecc.).

Il Decreto del Ministero dell’Industria del 21 aprile 1993 individua 5

parametri, che devono essere soddisfatti contemporaneamente, affinché un distretto

industriale sia legalmente riconosciuto, li elenchiamo di seguito:

1) indice di industrializzazione manifatturiera. La quota degli addetti

all’industria nell’area considerata deve essere superiore al 30 per cento

della media nazionale, oppure della media regionale nel caso in cui il

valore calcolato per la regione in questione è inferiore alla media

nazionale (è il caso delle regioni del Mezzogiorno, scarsamente

industrializzate);

2) indice di densità imprenditoriale. La quota di unità locali dell’industria

manifatturiera sulla popolazione totale dell’area deve essere superiore

alla media nazionale (con questo indice si intende garantire una

sufficiente numerosità di imprese nell’area geografica considerata);

278

3) indice di specializzazione produttiva. La quota di occupazione sul totale

degli addetti del settore manifatturiero deve superare il 30 per cento della

media nazionale. Per il calcolo di questo indice è previsto un certo

margine di discrezionalità delle regioni nel ricostruire la filiera

produttiva;

4) indice occupazionale del settore dominante. La quota degli occupati nel

settore dominante sull’occupazione manifatturiera locale deve essere

superiore al 30 per cento (con questo indice vengono favoriti i distretti

mono-settoriali);

5) indice di diffusione delle piccole imprese. La quota degli addetti nelle

piccole imprese sulla quota totale degli occupati nel distretto deve essere

superiore al 50 per cento (con questo indice vengono favoriti i distretti

caratterizzati da una diffusione di piccole imprese).

Questa parametrizzazione difficilmente può consentire di riprodurre in modo

opportuno la reale mappa dei distretti esistenti. A causa della forte disomogeneità dei

sistemi locali di imprese, molti potenziali distretti vengono esclusi per diversi motivi:

o perché includono al loro interno diverse specializzazioni, oppure perché sono

localizzati in centri urbani dove è alta la percentuale delle imprese terziarie, o ancora,

perché la dimensione delle imprese è maggiore di quella prescritta dal criterio legale.

Allo stesso modo, alcune aree che rispettano i parametri legali sono considerate

distretti anche se non ne presentano le caratteristiche tipiche, cioè le connessioni e il

rapporto collaborativo fra le imprese che vi appartengono.

Con la legge 266 del 2 agosto 1997 (legge Bersani) sono stati introdotti

elementi di flessibilità nella definizione di distretto industriale che consentono di

attenuare la rigida applicazione dei criteri basati esclusivamente sui parametri

statistici sopra esposti.

In generale, si può concludere che la rilevanza della legge 317/91 sui distretti

è legata alla novità concettuale introdotta in ambito legislativo. I distretti industriali

vengono riconosciuti per la prima volta come elementi unitari e attori dello sviluppo

locale. Il territorio assume rilevanza nell’intervento politico-economico rispetto al

settore produttivo o ai fattori di produzione, al punto che la natura e la prospettiva

dell’intervento stesso si ritrova modificato nel passaggio da un’ottica di incentivi alle

Pmi a quella degli incentivi ai distretti industriali.

279

Purtroppo sono stati realizzati soltanto pochi interventi concreti, a causa delle

lungaggini burocratiche, da un lato, e della scarsità di fondi, dall’altro.

7.8 La politica della regione Piemonte in favore dei distretti

industriali

La legge 317/91 concede alle regioni la possibilità di finanziare progetti

innovativi di più imprese, definiti sulla base di un contratto di programma fra la

regione in questione ed i consorzi di imprese. Assegna, quindi, alle regioni il compito

di individuare i distretti compatibili con i parametri già visti, defininendo l’oggetto

dei progetti. Il carattere innovativo degli investimenti è considerato prioritario

rispetto al semplice aumento quantitativo della produzione.

Fino ad oggi soltanto tre regioni hanno cercato di sostenere lo sviluppo dei

distretti industriali nel loro territorio. Si tratta di Lombardia, Toscana e Piemonte.

Poiché i provvedimenti legislativi regionali sono in realtà molto simili fra loro, ci

concentreremo su quelli della regione Piemonte. I destinatari delle agevolazioni

previste sono gruppi di imprese medie e piccole fra loro associate e consorziate.

Tre sono i possibili orientamenti dei progetti innovativi di sviluppo

finanziabili:

1) la valorizzazione delle risorse e delle conoscenze umane, tecniche e

produttive già esistenti o potenzialmente reperibili (servizi reali, agenzie,

consorzi);

2) lo sviluppo dell’imprenditoria locale e la qualificazione dei lavoratori, in

particolare di quelli impegnati in attività innovative;

3) la trasformazione e lo sviluppo del territorio, tramite processi di

diversificazione, riconversione delle strutture mature,

reindustrializzazione dei distretti in declino, ecc.

Specificamente, la legge regionale del Piemonte 24/97 prevede i seguenti tre

tipi di intervento:

1) predisposizione di programmi di sviluppo, documenti programmatici di

orientamento ed indirizzo in cui vengono evidenziati gli obiettivi e le

strategie di politica industriale locale da perseguire nel distretto in

considerazione (Art.2), redatti dai Comitati di distretto (cfr. sub 2) in

280

modo da rendere compatibili i progetti regionali con gli strumenti di

politica economica comunitaria e nazionale;

2) costituzione di Comitati di distretto, organismi con funzioni

organizzative e metadirezionali istituiti dalla Giunta Regionale su

iniziativa delle parti sociali e delle istituzioni locali. Il loro compito, oltre

alla redazione del programma di sviluppo, è di tipo consultivo: in

rappresentanza delle imprese del distretto industriale di riferimento,

infatti, il Comitato manifesta il proprio parere in merito ai progetti

innovativi avanzando proprie proposte di politica industriale alla Giunta

regionale;

3) finanziamento dei progetti innovativi di politica industriale concernenti

più imprese aventi ad oggetto, fra gli altri, la creazione di centri di servizi

alle imprese, la promozione di iniziative volte a penetrare i mercati esteri,

la creazione di sportelli informativi sulle normative regionali, nazionali e

comunitarie, il sostegno alla ricerca tecnologica e del design, la

formazione di sistemi di analisi, diagnosi e interventi di qualità e

certificazione dei prodotti, la predisposizione di reti telematiche e

strutture logistiche.

Attualmente non sembra possibile improvvisare alcuna valutazione sugli

effetti di questa legge regionale, in quanto i ritardi e la scarsità dei fondi erogati non

consentono di osservarne l’eventuale portata innovativa. In generale, sembra

ragionevole ritenere che l’effetto della legge in questione sui distretti industriali

piemontesi dipenderà in modo decisivo, oltre che dall’ammontare dei finanziamenti

disponibili, anche da come si configureranno le relazioni fra Giunta regionale e

Comitati di distretto, o fra questi ultimi e le istituzioni locali in senso lato.

Da ultimo merita di essere rilevato il fatto che il Piemonte, fra le regioni

italiane, è quella che presenta un numero di distretti “legali” (che rispettano i

parametri suaccennati) maggiore rispetto a quelli calcolati dal Ceris (25 contro 9).

Dei 25 distretti “legali”, divisi fra 499 comuni piemontesi, 14 sono stati classificati

nel settore tessile-abbigliamento, 8 nel settore meccanico, 2 nel settore alimentare e 1

nelle manifatture varie e oreficeria. Questa differenza fra il criterio legale-statistico e

la conformazione osservabile delle realtà produttive è dovuta sia a casi come quello

del distretto meccanico di Pianezza, che rispetta i parametri pur senza che si siano

instaurati legami di tipo distrettuale fra le imprese che vi fanno parte, sia a casi in cui

281

un unico distretto omogeneo dal punto di vista storico, produttivo e territoriale, come

quello tessile di Biella, viene suddiviso in tanti distretti separati, facenti capo a

diversi sistemi locali del lavoro.

7.9 Conclusione

Alla luce dei numerosi studi teorici sulle problematiche legate ai sistemi

locali di sviluppo, passati in rassegna nella prima parte di questo capitolo, si può

notare come il tentativo di ricostruire il quadro delle politiche economiche

s’interrompe necessariamente sul punto in cui l’interesse del presente lavoro

principalmente si concentra: i distretti industriali. Le politiche in favore dei sistemi

locali d’impresa rappresentano soltanto una minima parte degli interventi in favore

delle Pmi a livello nazionale in quanto vi è un consistente ritardo ed un’incerta

volontà operativa da parte delle istituzioni nel dare attuazione ai suggerimenti che

emergono dai numerosi studi degli ultimi trent’anni sui sistemi locali d’impresa.

Nelle politiche europee, invece, i distretti industriali, non essendo considerati

in modo specifico, beneficiano degli incentivi alle Pmi, che sono prevalentemente

inseriti in programmi d’intervento più ampi e coinvolgono una pluralità di soggetti.

Per questa ragione le politiche della CE sono compatibili con una logica d’incentivi

ai sistemi locali d’imprese, in quanto si prefiggono di raggiungere la cooperazione

fra una pluralità di attori economici e istituzionali.

Per quanto riguarda il coordinamento fra i diversi livelli d’intervento -

comunitario, nazionale e regionale - non si può certo ritenere che le politiche CE

siano oggi pienamente armonizzate con quelle nazionali. Tuttavia, in ambito

nazionale si osserva una crescente attenzione del legislatore verso la normativa

comunitaria, e soprattutto verso la compatibilità di quest’ultima con quella nazionale.

Si può ritenere che proprio quest’ultimo aspetto, ancor più della disciplina degli Aiuti

di Stato, determini il vero e proprio coordinamento fra gli orizzonti di politica

economica nazionale e comunitario.

Da questo quadro, tuttavia, le Pmi (o i distretti) non sembrano uscire

particolarmente avvantaggiate. I margini per una politica in loro favore sono ristretti,

a livello nazionale, da un vincolo prioritario di risanamento del bilancio pubblico e, a

livello comunitario, da un bilancio volutamente atrofico. Per quanto si riconosca che

le Pmi possano essere una considerevole risorsa anche per la lotta contro la

disoccupazione, gli orientamenti di politica economica diversi dall’obiettivo della

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stabilità dei prezzi e dal postulato del rigore finanziario restano, in Europa come in

Italia, di secondaria importanza.

Il contesto politico e normativo che risulta da questa rassegna mal si accorda

con i suggerimenti di politica economica proposti nell’ambito della letteratura sul

tema dei sistemi locali di sviluppo. Sarebbe auspicabile che le istituzioni locali si

dotassero innanzitutto di strumenti in grado di raggiungere una visione il più

aderente possibile all'assetto del territorio di competenza. Si pone a questo punto il

problema di definire opportunamente i confini di tale territorio, dato che quasi mai la

suddivisione amministrativa in comuni, province e regioni è in grado di aderire alla

suddivisione economica in distretti o aree-sistema. Si pone anche il problema della

ricerca di indicatori sia del capitale umano a disposizione, sia in generale dello stato

dei bisogni e delle possibilità dell'area considerata. Alcuni strumenti analitici sono

stati ideati o adattati all'analisi descrittiva territoriale. Bramanti e Maggioni (1997)

prendono in considerazione alcuni strumenti di analisi, quali i modelli input-output

per lo studio delle connessioni intersettoriali e interregionali; quelli di lock-in per

l'analisi dei vantaggi agglomerativi; i modelli di equilibrio economico generale con

esternalità produttive con riferimento alle esternalità non pecuniarie; quelli ecologici

e di autorganizzazione per lo studio delle relazioni fra dinamiche macroeconomiche e

territoriali; l'analisi reticolare per provvedere un quadro più rigoroso della struttura

reticolare locale col fine di progettare strutture di governo appropriate. Nessuno di

questi è tuttavia in grado di descrivere in maniera appropriata il sistema produttivo

locale.

Sembra allora opportuno puntare l'attenzione sulla forma e sul ruolo che le

istituzioni dovrebbero assumere a livello locale, basandosi in parte su quelle già

esistenti e in parte sulle necessità, ancora parzialmente inespresse, dei sistemi locali

d’impresa. Gli studi in tema di istituzioni e modelli locali di sviluppo sottolineano tre

tipologie di istituzioni: l'agenzia di sviluppo locale, col compito di individuare

strategie innovative per il sistema locale nel complesso e superare il gap fra le sue

potenzialità e le sue effettive realizzazioni; i centri tecnologici e le agenzie di

diffusione delle innovazioni, col fine di concentrare risorse finanziarie, umane e

tecniche per compiere salti tecnologici che le singole imprese non sarebbero in grado

di attuare; centri di servizi reali alle imprese di natura consulenziale, con l’obiettivo

di rendere esplicite le domande latenti di servizi alla produzione, e successivamente

di attuarli, per via diretta o tramite incentivi ai privati.

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Anche questi temi non sembrano essere tenuti in sufficiente considerazione

nel quadro normativo a tutt’oggi esistente. In generale, si può ritenere essenziale il

potenziamento di una "cultura di sistema", cioè una visione condivisa all'interno del

sistema produttivo locale, sull'identità e sulla progettazione delle direzioni di

sviluppo da intraprendere. Creare consenso sociale, coordinamento, coinvolgimento

e collaborazione all'interno del sistema produttivo locale appare in definitiva come

un requisito irrinunciabile per la sua stessa sopravvivenza.