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Divina Commedia 1 © 2011 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà – Letteratura+ D opo aver lanciato un’invettiva contro Firenze – il cui nome si spande in tutto l’inferno per la quantità di dannati che la rappresentano – Dante giunge nell’VIII bolgia, il cui fondo è rischiarato da tante fiammelle, parago- nate alle lucciole che brillano al crepuscolo. Sono le anime dei consiglieri fraudolenti, cioè coloro che in vita infiammarono gli animi alla lite e all’in- ganno, e adesso, per la legge del contrappasso, sono avvolte in lingue di fuoco. Incuriosito da una fiamma a due punte, Dante scopre da Virgilio che là dentro sono punite le anime dei due eroi greci Ulisse e Diomede, protagonisti della guerra di Troia e celebrati nei poemi omerici, e ottiene dal maestro il permesso di parlare con loro. Gli risponde Ulisse, che narra la grande avventura con cui si concluse la sua vita: lasciata l’isola di Circe, egli non ritornò in patria, ma con pochi compagni riprese la via del mare, animato dal desiderio di conoscere nuove genti e nuovi costumi. Canto XXVI CONTENUTI L’invettiva contro Firenze Il viaggio di Ulisse La figura di Ulisse allegoria dell’audacia umana Il fallimento della ragione non accompagna- ta dalla grazia divina PENA E CONTRAPPASSO I consiglieri fraudolenti, che in vita hanno ingannato e circuito in segreto, ora sono nascosti in una fiamma appuntita simile a una lingua; hanno tolto la serenità e la pace e ora vagano senza sosta. Basso inferno, VIII cerchio, VIII bolgia LUOGO PERSONAGGI E DANNATI Diomede Ulisse Scuola di Giotto, Dante e Virgilio incontrano Ulisse e Diomede, miniatura del XV secolo, Chantilly, Musée Condé.

Canto XXVI LUOGO CONTENUTI E DANNATI Ulisse consiglieri ...auladigitale.rizzolieducation.it/document_filter/6431/540/2216822/... · l’inferno per la quantità di dannati che la

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Divina Commedia

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© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà – Letteratura+

Dopo aver lanciato un’invettiva contro Firenze – il cui nome si spande in tutto l’inferno per la quantità di dannati che la

rappresentano – Dante giunge nell’VIII bolgia, il cui fondo è rischiarato da tante fiammelle, parago-nate alle lucciole che brillano al crepuscolo. Sono le anime dei consiglieri fraudolenti, cioè coloro che in vita infiammarono gli animi alla lite e all’in-ganno, e adesso, per la legge del contrappasso, sono avvolte in lingue di fuoco. Incuriosito da una

fiamma a due punte, Dante scopre da Virgilio che là dentro sono punite le anime dei due eroi greci Ulisse e Diomede, protagonisti della guerra di Troia e celebrati nei poemi omerici, e ottiene dal maestro il permesso di parlare con loro. Gli risponde Ulisse, che narra la grande avventura con cui si concluse la sua vita: lasciata l’isola di Circe, egli non ritornò in patria, ma con pochi compagni riprese la via del mare, animato dal desiderio di conoscere nuove genti e nuovi costumi.

Canto XXVI

CONTENUTI L’invettiva contro Firenze Il viaggio di Ulisse La figura di Ulisse allegoria dell’audacia umana

Il fallimento della ragione non accompagna-ta dalla grazia divina

PENA E CONTRAPPASSO

I consiglieri fraudolenti, che in vita hanno ingannato e circuito in segreto, ora sono nascosti in una fiamma appuntita simile a una lingua; hanno tolto la serenità e la pace e ora vagano senza sosta. B

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LUOGO

PERSONAGGI E DANNATI

Diomede Ulisse

Scuola di Giotto, Dante e Virgilio incontrano Ulisse e Diomede, miniatura del XV secolo, Chantilly, Musée Condé.

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Inferno Canto XXVI

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Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,che per mare e per terra batti l’ali1,

3 e per lo ’nferno tuo nome si spande2!

Tra li ladron trovai cinque cotalituoi cittadini onde mi ven vergogna3,

6 e tu in grande orranza non ne sali4.

Ma se presso al mattin del ver si sogna5,tu sentirai, di qua da picciol tempo6,

9 di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna7.

E se già fosse, non saria per tempo:così foss’ei, da che pur esser dee!

12 ché più mi graverà, com’ più m’attempo8.

Noi ci partimmo, e su per le scaleeche n’avean fatto i borni a scender pria9,

15 rimontò ’l duca mio e trasse mee10;

e proseguendo la solinga11 via,tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio

18 lo piè sanza la man non si spedia12.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio13

quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, 21 e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;sì che, se stella bona o miglior cosa

24 m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi14.

Quante il villan ch’al poggio si riposa,nel tempo che colui che ’l mondo schiara

27 la faccia sua a noi tien meno ascosa,

1. che per mare… l’ali: che voli («batti l’ali») per mare e per ter-ra, cioè diffondi la tua fama (che nella poesia classica era rappre-sentata come una divinità alata) in tutto il mondo. L’espressione «per mare e per terra» sembra riprendere un’iscrizione latina apposta nel 1255 a Firenze sul palazzo del Bargello, ancora oggi visibile: «(Firenze) che domini il mare, la terra e tutto il mondo»; qui è ironicamente completata nel verso successivo dal riferimento all’inferno.2. si spande: si diffonde; Dante ha infatti trovato fiorentini in quasi tutti i cerchi infernali visitati. 3. Tra li ladron… vergogna: nel-la bolgia precedente, quella dei ladri (vedi canto XXV), Dante ha incontrato cinque suoi concitta-dini tali («cotali»; regge la pro-posizione consecutiva introdotta da «onde») da farlo vergognare («onde mi ven vergogna», “per

cui mi viene vergogna”).4. e tu… sali: e per questo tu non acquisti grande onore («orranza», forma sincopata per “onoranza”), cioè ne ricavi un grande disonore; la frase è costruita negativamente con una litote. 5. Ma se… si sogna: Dante ri-porta una credenza antica, mol-to diffusa nel Medioevo, secon-do la quale i sogni che si fanno nelle prime ore del mattino sono gli unici veritieri; questo tema sarà ripreso, in forma più solen-ne, davanti alla porta del purga-torio, quando Dante sognerà di essere rapito da un’aquila che lo solleva fino alla sfera del fuoco (Purg. IX, 13-18).6. di qua… tempo: prima che pas-si un breve («picciol», “piccolo”) lasso di tempo. 7. di quel… agogna: (l’effetto) di quelle sventure («di quel») che Prato, e anche altre città («non ch’altri») ti augura («t’agogna»).

Il senso della frase è, che entro poco tempo, la condotta scellera-ta di Firenze la porterà alla rovina, come sperano Prato e le altre città della Toscana; il riferimento speci-fico a Prato non è del tutto chiaro, ma è probabile che Dante alluda alla ribellione lì avvenuta nel 1309 e conclusasi con la cacciata dei Neri.8. E se già… m’attempo: e se que-sta rovina di Firenze si fosse già verificata («se già fosse») sareb-be comunque tardi («non saria per tempo»): almeno accadesse subito («foss’ei» “fosse questo”), visto che deve accadere; perché quanto più invecchio («m’attem-po»), tanto più sarà per me dolo-roso («mi graverà»).9. su… pria: su quelle scale natu-rali («scalee») che le sporgenze della roccia («i borni») ci avevano fatto prima per scendere.10. mee: me; con epitesi tipica del toscano.

11. solinga: solitaria, cioè non per-corsa da nessuno.12. tra le schegge… spedia: tra gli spuntoni («schegge») e le rocce («rocchi») del ponte («scoglio») il piede non riusciva a procedere («non si spedia») senza l’aiuto della mano (cioè la salita era così impervia e ripida che era necessa-rio aiutarsi con le mani).13. Allor… mi ridoglio: mi addo-lorai allora e mi addoloro ancora adesso quando mi torna alla men-te ciò che vidi.14. e più lo’ ingegno… m’invidi: e tengo a freno («affreno») il mio ingegno più di quanto sono solito fare («ch’i non soglio»), perché non proceda liberamente («corra») senza essere guidato dalla virtù, in modo che se que-sto bene mi è stato dato dall’in-flusso benefico della mia stella («stella bona»; è la costellazione dei Gemelli, segno sotto il qua-le era nato Dante, invocata dal

L’invettiva contro Firenze (vv. 1-12)Godi, Firenze, poiché sei così grande che la tua fama vola per mare per terra, e il tuo nome si spande nell’inferno!

Tra i ladri trovai cinque tuoi cittadini tali da farmi vergognare, e tu non ne ricavi un grande onore.

Ma se i sogni che si fanno di prima mattina sono veritieri, entro poco tempo tu sperimenterai quei mali che Prato e altre città ti augurano.

E se fosse già accaduto, sarebbe sempre trop-po tardi: almeno ciò accadesse subito, visto che deve succedere, perché quanto più invecchio tan-to più mi sarà doloroso.

L’arrivo nell’ottava bolgia (13-48)Così ci allontanammo e il mio maestro risalì su quella sorta di scala naturale la cui discesa prima ci aveva fatto impallidire e trasse su anche me,

e proseguendo per quella via solitaria, tra gli spuntoni e le rocce del ponte, il piede non riusci-va a cavarsela senza l’aiuto della mano.

Mi addolorai allora, e mi addoloro anche adesso, quando ripenso a ciò che vidi, e tengo a freno l’ingegno più di quanto sia solito fare,

affinché non corra liberamente senza essere gui-dato dalla virtù; in modo che se il benevolo influs-so delle stelle o un qualcosa di superiore mi ha concesso questo bene, non me ne debba privare.

Quante lucciole vede il contadino che si riposa sulla collina durante l’estate, al crepuscolo

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Inferno Canto XXVI

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come la mosca cede a la zanzara,vede lucciole giù per la vallea,

30 forse colà dov’e’ vendemmia e ara;

di tante fiamme tutta risplendeal’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

33 tosto che fui là ’ve ’l fondo parea15.

E qual colui che si vengiò con li orsivide ’l carro d’Elia al dipartire,

36 quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,ch’el vedesse altro che la fiamma sola,

39 sì come nuvoletta, in sù salire;

tal si move ciascuna per la goladel fosso, ché nessuna mostra il furto,

42 e ogne fiamma un peccatore invola16.

Io stava sovra ’l ponte a veder surto17,sì che s’io non avessi un ronchion preso,

45 caduto sarei giù sanz’esser urto18.

E ’l duca, che mi vide tanto atteso19,disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;

48 catun si fascia di quel ch’elli è inceso20».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti21

son io più certo; ma già m’era avviso22

51 che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì divisodi sopra, che par surger de la pira

54 dov’Eteòcle col fratel fu miso?23»

poeta in Par. XXII, 112-114: «O gloriose stelle, o lume pregno [pieno] / di gran virtù, dal quale io riconosco / tutto, qual che si sia, (il mio ingegno») o da un qualco-sa di superiore («miglior cosa», cioè direttamente da Dio), non me ne privi («invidi»; latinismo da invidère, “togliere”) (usandolo nel modo sbagliato). Nell’attacco narrativo dell’VIII bolgia Dante istituisce di fatto un parallelismo con la figura chiave del canto, Ulisse, ricollegandosi esplicita-mente alla sua storia, simbolo dell’ingegno umano non guidato dalla virtù divina.15. Quante ’l villan… parea: con questa similitudine naturalistica le fiamme dell’ottava bolgia sono ac-costate alle lucciole visibili in esta-te; arrivato in un punto da cui può vedere il fondo della bolgia («là ’ve ’l fondo parea», “là dove il fondo era visibile”) Dante lo vede risplen-dere per le fiamme e le paragona

alle lucciole che il contadino («vil-lan») che in estate, il tempo in cui il sole («colui che ’l mondo schia-ra», “colui che illumina il mondo”) si mostra più a lungo («la faccia sua a noi tien meno ascosa», “tie-ne meno nascosta la sua faccia”; cioè “in cui le notti sono più bre-vi”), quando cala la notte («come la mosca cede a la zanzara»; è una perifrasi), dalla cima della collina («poggio») in cui abita («si ripo-sa», “va a dormire”) vede nella valle in cui lavora i campi («ara») e vendemmia.16. E qual colui… invola: la se-conda similitudine si ricollega invece a un noto episodio biblico (4 Reg. II, 11-12): Dante paragona le fiamme che si muovono nella bolgia («per la gola del fosso»), senza mostrare ciò che è al loro interno («nessuna mostra ’l furto»), anche se ogni fiamma contiene («invola», che ripren-de semanticamente il «furto»

del verso precedente) l’anima di un peccatore, al carro di fuoco che rapì al cielo il profeta Elia, nascondendolo alla vista del suo discepolo Eliseo («colui che si vengiò [vendicò] con li orsi»; è una perifrasi; nello stesso passo biblico si racconta come Eliseo, deriso da un gruppo di ragazzi per la sua calvizie, li maledisse nel nome del Signore, il quale inviò dal bosco due orsi che ne uccisero quarantadue): questi, mentre i cavalli che trainavano il carro salivano verso il cielo («al cielo erti levarsi»), tentava di se-guirlo con lo sguardo, senza però vedere nient’altro che la fiamma che avvolgeva il carro («la fiam-ma sola»), che saliva sempre più in alto come una nuvola.17. surto: dritto in piedi.18. sanz’esser urto: senza biso-gno di essere urtato.19. atteso: attento.20. catun… inceso: ciascuno

(«catun»; forma arcaica) è avvol-to («si fascia») dal fuoco da cui è bruciato («inceso», “acceso”).21. per udirti: dopo aver udito le tue parole.22. m’era avviso: mi ero reso conto.23. chi è… fu miso?: chi c’è dentro quella fiamma che avanza, divisa in due lingue («sì diviso di so-pra»), che sembra uscire dal rogo funebre su cui fu messo («miso»; è voce siciliana) Eteocle insieme al fratello? Eteocle e il fratello Po-linice erano i due figli di Edipo che combatterono una guerra per il possesso di Tebe (la storia è rac-contata nel poema epico latino Te-baide di Stazio), conclusasi con la morte di entrambi: secondo la leg-genda, quando i loro corpi furono messi su un’unica pira, la fiamma si divise in due, a simboleggiare che l’odio che li aveva divisi in vita non era cessato neppure dopo la morte.

quando le mosche lasciano il posto alle zanzare, giù nella valle, dove solitamente vendemmia e ara;

di altrettante fiamme di cui risplendeva l’ottava bolgia, come subito compresi quando arrivai in un punto da dove potevo vedere il fondo.

E come colui [il profeta Eliseo], che si vendicò attraverso gli orsi, vide il carro di fuoco che rapì in cielo Elia, al suo partire, quando i cavalli si im-pennarono spiccando il volo verso il cielo,

così in alto che, per quanto cercasse di seguirli con lo sguardo, riusciva a vedere solo la fiamma che saliva come una nuvola;

così nel fondo della bolgia si muove ciascuna fiammella, perché nessuna mostra ciò che na-sconde anche se ogni fiamma racchiude in sé un peccatore senza però mostrarlo.

Io stavo in piedi così sul ponte a guardare che, se non mi fossi aggrappato a una roccia sporgente, sarei caduto di sotto anche senza spinte.

E Virgilio, che mi vide così attento, mi disse: «Le anime sono dentro i fuochi; ciascuno è avvolto dalla fiamma che lo brucia».

Ulisse e Diomede (vv. 49-84)«Maestro», risposi io, «dopo averti ascoltato, sono ancora più sicuro; ma già mi era sembrato che fosse così, e volevo chiederti:

chi è racchiuso in quella fiamma che avanza con la cima divisa in due, che sembra nascere dal rogo su cui Eteocle fu bruciato con il fratello?».

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Inferno Canto XXVI

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© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà – Letteratura+

Rispuose a me: «Là dentro si martira24

Ulisse e Diomede, e così insieme 57 a la vendetta vanno come a l’ira25;

e dentro da la lor fiamma si gemel’agguato del caval che fe’ la porta

60 onde uscì de’ Romani il gentil seme26.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,Deidamìa ancor si duol d’Achille27,

63 e del Palladio pena vi si porta28».

«S’ei posson dentro da quelle favilleparlar» diss’io, «maestro, assai ten priego

66 e ripriego, che ’l priego vaglia mille29,

che non mi facci de l’attender niegofin che la fiamma cornuta qua vegna30:

69 vedi che del disio ver lei mi piego!»

Ed elli a me: «La tua preghiera è degnadi molta loda, e io però l’accetto;

72 ma fa che la tua lingua si sostegna31.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto32

ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, 75 perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto33».

24. si martira: sono puniti; nell’uso antico la forma riflessi-va può avere valore di passivo (come al v. 58 «si geme» e al v. 61 «Piangevisi»).25. e così… a l’ira: e così insieme vanno incontro alla punizione di-vina («a la vendetta»), come in-sieme andarono contro la collera divina («a l’ira»). 26. l’agguato… seme: l’inganno («l’agguato») del cavallo, che permise ai Greci di conquistare Troia aprendo la porta (il termi-ne ha qui un valore sia letterale, sia metaforico) dalla quale nac-que la nobile stirpe dei Romani. Secondo il racconto dell’Eneide virgiliana, i Romani erano i diret-ti discendenti di Enea e dei suoi compagni scampati all’eccidio di Troia e giunti poi in Italia.27. l’arte… Achille: l’astuzia («l’arte») a causa della quale Dei damia, anche da morta, an-cora piange per Achille. Dante si riferisce a un episodio raccon-tato nell’Achilleide di Stazio: per evitare ad Achille di partecipare alla guerra di Troia nella quale era destinato a morire, la madre

Teti lo aveva camuffato da donna e nascosto nella reggia di Sciro. Qui Achille si era innamorato di Deidamia (ricordata da Stazio in Purg. XXII, 114), ma Ulisse riuscì

a scoprire l’inganno e convinse l’eroe a partire, abbandonando la ragazza.28. del Palladio: all’inizio della guerra di Troia, Ulisse e Diome-

de avevano rubato la statua di Pallade Atena che proteggeva la città, scatenando per questo le ire della dea; l’episodio è narrato da Virgilio nel II libro dell’Eneide. 29. che ’l priego… mille: che la mia preghiera valga («vaglia») per mille.30. che non mi facci… vegna: che tu mi permetta («non mi facci… niego», “che tu non mi neghi”; è una litote) di aspettare l’arrivo («fin che… qua vegna») della fiamma con due punte («cornuta»).31. si sostegna: si trattenga (dal parlare).32. ho concetto: ho capito. 33. ch’ei… detto: perché loro, in quanto greci, forse non si degne-rebbero («sarebber schivi») di risponderti («del tuo detto»). Era opinione comune al tempo di Dante che i Greci fossero gente altera e superba: il senso della frase è che i due eroi non si degnereb-bero di parlare con lo sconosciuto Dante, mentre potrebbero invece rispondere a Virgilio, celebre poeta dell’antichità.34. tempo e loco: il momento e il luogo opportuni.

Mi rispose: «Là dentro sono puniti Ulisse e Dio-mede; e in questo modo subiscono insieme la punizione di Dio, come insieme provocarono la sua ira;

dentro la fiamma piangono per l’inganno del ca-vallo di legno, che originò la porta da cui discese la nobile stirpe dei Romani.

Là dentro piangono l’astuzia per cui, anche da morta, Deidamìa ancora si lamenta per essere stata abbandonata da Achille; e scontano la pena per il furto del Palladio».

Chiesi allora: «Maestro, se essi possono parlare da dentro le fiamme, ti prego assai e ti riprego, e la mia preghiera ne valga mille,

non mi proibire di aspettare che la fiamma a due punte arrivi qui; vedi che dal desidero già mi sto piegando verso di lei!».

Ed egli a me: «La tua richiesta è degna di grande lode, e perciò l’accolgo; ma trattieniti dal parlare.

Lascia che parli io, visto che ho già capito cosa vuoi sapere. Costoro forse sarebbero sdegnosi, da greci quali furono, di parlare con te».

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«Ulisse e Diomede»

Sono due dei più famosi eroi greci che parteciparono alla guerra di Troia, raccontata da Omero nell’Iliade. Ulisse, re di Itaca, era celebre per la sua astuzia e per la sua capacità oratoria; Diomede, figlio di Tideo (e per questo chiamato «Tidide»), per il suo coraggio e il suo valore in battaglia. Le imprese per le quali i due sono puniti in questa bolgia furono compiute durante gli anni della guerra contro i Troiani, anche se nessuna di queste deriva direttamente dal testo di Omero. L’idea di unirli nella pena deriva probabilmente da un verso dell’Eneide (II, 164) di Virgilio, in cui Enea li accusa del furto del Palladio (vedi nota 28), definendoli «l’empio Tidide e l’inventore di misfatti Ulisse»; è possibile che Dante abbia tenuto presente anche le Metamorfosi di Ovidio (I sec. a.C.), quando Ulisse, parlando davanti ai Greci per ottenere le armi di Achille, ricorda il suo legame privilegiato con il compagno: «Diomede invece mi fa partecipe delle sue imprese / mi apprezza e sempre confida nell’aiuto di Ulisse» (XII, 239-240). La parte finale del canto fa invece riferimento all’Odissea, altro poema attribuito a Omero, in cui si narrano le avventure di Ulisse (in greco Odisseo) durante il ritorno da Troia a Itaca.

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Poi che la fiamma fu venuta quividove parve al mio duca tempo e loco34,

78 in questa forma lui parlare audivi35:

«O voi che siete due dentro ad un foco,s’io meritai di voi36 mentre ch’io vissi,

81 s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi37 scrissi,non vi movete38; ma l’un di voi dica

84 dove, per lui, perduto a morir gissi39».

Lo maggior corno de la fiamma antica40

cominciò a crollarsi mormorando 87 pur come quella cui vento affatica41;

indi la cima qua e là menando42,come fosse la lingua che parlasse,

90 gittò voce di fuori, e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasseme più d’un anno là presso a Gaeta,

93 prima che sì Enea la nomasse43,

né dolcezza di figlio, né la piètadel vecchio padre, né ’l debito amore

96 lo qual dovea Penelopè far lieta,

35. audivi: udii; è un latinismo che serve a innalzare il tono dell’episodio.36. s’io meritai di voi: se ottenni dei meriti nei vostri confronti; si tratta di una costruzione ricalcata sull’uso latino.37. li alti versi: i versi del poema epico (in cui ho parlato di voi). L’aggettivo «alti» allude allo sti-le illustre dell’Eneide, chiamata anche in Inf. XX, 113: «l’alta mia tragedìa».38. non vi movete: non avanzate oltre, cioè fermatevi.39. dove… gissi: dove, quando fu perduto, andò a morire. Il verso è costruito con la forma passi-va: “dove da lui («per lui»; è un complemento d’agente) si andò («gissi») a morire”. In nessun poema antico si raccontava in modo chiaro quale fosse stata la fine di Ulisse, anche se molti autori accennavano a un suo probabile viaggio fino all’Ocea-no. Ma ciò che dà il senso a tutto l’episodio, non è tanto la doman-da sulla fine di Ulisse, quanto l’aggettivo «perduto», che da subito istituisce un parallelismo

tra l’eroe greco e Dante, «smar-rito» nella selva oscura: mentre il primo si trova qui nell’inferno per aver confidato solo nelle capaci-tà del suo ingegno, Dante potrà salvarsi grazie alla sua fiducia nell’aiuto divino.40. Lo maggior corno… antica: tra i due eroi omerici, Ulisse è quello al quale si attribuisco-no le imprese più celebri ed è per questo che la sua fiamma è «maggior» di quella di Diomede; l’aggettivo «antica» serve a dare al personaggio un’aria di remota grandezza, come era già accaduto con Caronte: «un vecchio bianco per antico pelo» (Inf. III, 83).41. cominciò… affatica: comin-ciò a muoversi («crollarsi») mandando un crepitìo («mor-morando») e scrollandosi co- me una fiamma agitata dal vento («cui vento affatica»); da notare, inoltre, che il verbo «af- fatica» (come al v. 90 «gittò») esprime tutto lo sforzo impie-gato dalla fiamma per riuscire a parlare.42. qua e là menando: ondeg-giando da una parte all’altra.

43. Quando… nomasse: quando mi allontanai («mi diparti’») da Circe, che mi trattenne («sot-trasse me») per più di un anno presso Gaeta, prima che Enea la

chiamasse («nomasse») in que-sto modo (secondo il racconto di Virgilio, Enea chiamò Gaeta il luogo in cui la sua nutrice Caieta morì e fu sepolta).

Dopo che la fiamma fu arrivata vicino a noi, quan-do il tempo e il luogo sembrarono opportuni alla mia guida, lo sentii parlare in questi termini:

«O voi che siete in due dentro a una fiamma, se ho acquistato dei meriti nei vostri confronti, pic-coli o grandi che siano,

quando da vivo composi il mio poema illustre, non proseguite oltre; ma uno di voi racconti dove, dopo essersi perduto, andò a morire».

Il viaggio di Ulisse (vv. 85-102) La punta più grande di quella fiamma antica co-minciò a muoversi crepitando, come una fiamma agitata dal vento;

poi dimenando in qua e in là la cima, come fa la lingua quando parla, emise una voce e disse: «Quando

mi allontanai da Circe, che mi aveva trattenuto per più di un anno vicino a Gaeta, prima che Enea la nominasse così,

né l’affetto per mio figlio, né la devozione per il mio vecchio padre, né l’amore dovuto che avreb-be dovuto rendere felice Penelope,

PAR

AFR

ASI

«Quando mi diparti’ da Circe…»

Nel X libro dell’Odissea si racconta che, dopo molti anni di peregrinazioni, Ulisse raggiunse le coste laziali, dove viveva Circe (da cui deriva il nome del promontorio Circeo), una maga di origini divine (era figlia del dio Sole), che era solita dare da bere agli ospiti un filtro magico che li trasformava in animali: Ulisse, unico a non cadere nell’inganno, obbligò Circe a ritrasformare in uomini i suoi compagni e divenne amante della maga, rimanendo suo ospite per più di un anno, prima di decidersi a ripartire. Dante non conosceva i poemi omerici (mentre poteva forse aver letto il Roman de Troie, scritto tra il 1160 e il 1170 dal francese Benôit de Sainte-Maure) e ignorava dunque del ritorno a Itaca di Ulisse. Il suo racconto prende l’avvio da un passo delle Metamorfosi di Ovidio (XIV, 241 sgg.) in cui Macareo, uno dei compagni dell’eroe, racconta come, dopo la sosta presso Circe, Ulisse avesse convinto i compagni a riprendere il mare, pur contro il parere della maga che lo aveva messo al corrente dei pericoli che avrebbe incontrato: ma Dante, appunto, non poteva sapere che la sua destinazione era Itaca e immaginò che Ulisse avesse deciso di intraprendere un nuovo viaggio verso l’ignoto.

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vincer potero dentro a me l’ardorech’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,

99 e de li vizi umani e del valore44;

ma misi me per l’alto mare apertosol con un legno e con quella compagna

102 picciola da la qual non fui diserto45.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

105 e l’altre che quel mare intorno bagna46.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi47

quando venimmo a quella foce stretta 108 dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta48:da la man destra mi lasciai Sibilia49,

111 da l’altra già m’avea lasciata Setta50.

“O frati”, dissi “che per cento miliaperigli siete giunti a l’Occidente,

114 a questa tanto picciola vigilia

de’ nostri sensi ch’è del rimanente,non vogliate negar l’esperienza,

117 di retro al sol, del mondo sanza gente51.

Considerate la vostra semenza52:fatti non foste a viver come bruti53,

120 ma per seguir virtute e canoscenza54”.

44. né dolcezza… valore: né l’affetto che mi legava al figlio Telemaco, né la venerazione («pièta») per il vecchio padre Laerte, né il dovuto («debito») amore (coniugale), che avrebbe dovuto rendere felice («far lie-ta») Penelope, poterono vincere in me il desiderio di fare espe-rienza («divenir… esperto»; sin-tatticamente il participio «esper-to» regge i tre complementi di specificazione successivi) del mondo, dei vizi e delle virtù («valore») umane. Nessuno dei nobili sentimenti sopra elencati poté vincere la sete di cono-scenza di Ulisse, caratteristica dell’eroe omerico amplificata dai poeti latini: in particolare, Dante avrà sicuramente ricordato due versi dell’Ars poetica di Orazio, in cui è tradotto l’esordio dell’Odis-sea: «Narrami, o Musa, l’eroe che vide i costumi e le città di molti uomini» (vv. 141-142).

45. ma misi me… diserto: ma mi imbarcai («ma misi me»; da notare l’allitterazione della lette-ra m) alla volta del mare aperto, soltanto con una nave («legno»; è una metonimia) e con quei pochi compagni («compagna picciola») dai quali non fui mai abbandonato («diserto»).46. L’un lito… bagna: vidi le coste dell’Europa («L’un lito») e quelle dell’Africa («l’altro»), fino alla Spagna e al Marocco («Morrocco»), (e vidi) la Sar-degna («l’isola d’i Sardi) e le altre isole bagnate dal Mediter-raneo («che quel mare intorno ba gna»).47. vecchi e tardi: la coppia di aggettivi viene ripresa dal racconto delle Metamorfosi di Ovidio (XIV, 436: «Eravamo stanchi e disabituati per il lun-go ozio»).48. quando venimmo… si metta: quando arrivammo allo stretto di

Gibilterra («foce stretta»), dove Ercole pose i limiti («riguardi», “segnali per incutere timore”) perché nessuno («l’uom»; ha valore di soggetto impersonale) si avventurasse oltre. Secondo la leggenda, Ercole aveva piantato due colonne ai lati dello stretto di Gibilterra, sulle quali aveva scritto Non plus ultra (“Non più oltre”).49. Sibilia: Siviglia, città della Spagna, posta sulla destra dello stretto di Gibilterra50. Setta: Ceuta, città sulla costa del Marocco, ubicata sul lato op-posto (e quindi a sinistra).51. O frati… sanza gente: fratelli, voi che attraverso innumerevoli («cento milia»; è un’iperbole) pericoli («perigli») siete giunti al confine occidentale del mondo conosciuto («a l’Occidente»), non vogliate negare la cono-scenza («l’esperienza») dell’al-tro emisfero ignoto («di retro

al sol», “che sta alle spalle del Sole”, cioè “oltre il limite dietro il quale il Sole tramonta; secondo un’altra interpretazione l’inci-so significherebbe invece “se-guendo il corso del Sole”, cioè “andando verso Occidente”) e disabitato («sanza gente») a questa breve («picciola») parte di vita («vigilia de’ nostri sensi») che ancora ci è rimasta («ch’è del rimanente»; costruzione mo-dellata sul latino quae de reliquo est, “che rimane”). Chiamandoli affettuosamente “fratelli”, Ulisse cerca di suscitare nell’animo dei compagni il desiderio di seguirlo in un viaggio verso l’ignoto: essi, «vecchi e tardi», hanno ancora pochi anni di vita e vale dunque la pena sacrificarsi pur di am-pliare la conoscenza acquisita in mille imprese. 52. la vostra semenza: la vostra origine.53. come bruti: come animali,

poterono fermare dentro di me il desiderio sem-pre più ardente di fare esperienza del mondo, dei vizi e delle virtù umane;

ma mi misi in mare aperto con una sola nave e con quei pochi compagni dai quali non fui mai abbandonato.

Vidi le coste dell’Europa e dell’Africa fino alla Spagna, al Marocco, e vidi l’isola di Sardegna, e le altre isole che quel mare tutt’attorno bagna.

Io e i miei compagni eravamo ormai vecchi e len-ti quando arrivammo a quello stretto dove Ercole pose i suoi confini

perché nessuno si avventurasse oltre: a destra avevo superato Siviglia, a sinistra avevo già oltre-passato Ceuta.

“Fratelli – dissi – che attraversando infiniti peri-coli siete giunti all’estremo confine occidentale [del mondo conosciuto], non vogliate ora negare, a questa così breve parte

della nostra vita che ancora ci rimane, l’esperien-za del mondo disabitato seguendo il corso del Sole.

Considerate la vostra natura: foste creati non per vivere come esseri privi di ragione ma per seguire la virtù e la conoscenza”.

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AFR

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Li miei compagni fec’io sì aguti,con questa orazion picciola, al cammino,

123 che a pena poscia li avrei ritenuti55;

e volta nostra poppa nel mattino,de’ remi facemmo ali al folle volo,

126 sempre acquistando dal lato mancino56.

Tutte le stelle già de l’altro polovedea la notte e ’l nostro tanto basso,

129 che non surgea fuor del marin suolo57.

Cinque volte racceso e tante cassolo lume era di sotto da la luna,

132 poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo58,

quando n’apparve una montagna, brunaper la distanza59, e parvemi alta tanto

135 quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;ché de la nova terra un turbo nacque,

138 e percosse del legno il primo canto60.

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:a la quarta levar la poppa in suso

141 e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso61».

privi della ragione e del libero arbitrio che contraddistinguono l’uomo.54. virtute e canoscenza: sono queste le due qualità che distin-guono l’uomo dai «bruti», e alle quali Ulisse fa appello per con-vincere i compagni.55. Li miei compagni… ritenuti: con questa breve («picciola») orazione resi i miei compagni così pieni di acuto desiderio di proseguire il viaggio («aguti… al cammino»), che, dopo, («po-scia»), a fatica li avrei potuti trat-tenere. 56. e volta… mancino: e girata la poppa (la parte posteriore della nave) verso Oriente («nel mattino», cioè “verso il lato da cui sorge il Sole”; la nave proce-deva dunque verso Occidente) i remi divennero ali per il nostro folle viaggio («volo» che ripren-de l’immagine metaforica delle «ali»), procedendo sempre verso

sinistra («dal lato mancino»; cioè verso sud-ovest e quindi entrando nell’emisfero australe dove, nella geografia della Com-media, sorge la montagna del purgatorio). Il viaggio di Ulisse è definito «folle» perché l’uomo non può superare i limiti imposti da Dio. Da notare come, al v. 125, l’accento ritmico e le allitterazio-ni della l e della m diano la sen-sazione che il battere dei remi sull’onda si trasformi nel movi-mento delle ali che sospingono il «folle volo». 57. Tutte le stelle… suolo: la notte (soggetto della terzina) già ci mostrava («vedea») le co-stellazioni dell’emisfero australe (le stelle «de l’altro polo»), e il cielo dell’emisfero boreale («’l nostro») era ormai tanto basso che non emergeva («non surgea fuor») dalla superficie del mare («marin suolo»). La terzina si-gnifica che, superato l’Equatore,

Ulisse e i compagni vedevano le stelle dell’emisfero australe mentre, all’orizzonte, non riu-scivano più a scorgere quelle dell’emisfero boreale.58. Cinque volte… passo: da quando avevamo intrapreso quel cammino rischioso («alto passo») la parte visibile («lo lume… di sotto», cioè la parte colpita dalla luce del Sole e ri-volta verso la Terra) della Luna si era illuminata («racceso») cinque volte e altrettante si era spenta («casso»). Ulisse parla delle fasi lunari di luna piena e luna nuova, per indicare che erano passati già cinque mesi (perifrasi).59. una montagna… distanza: una montagna, scura e indistin-ta («bruna») per la distanza; si tratta della montagna del purga-torio, sulla cui sommità è posto il Paradiso terrestre.60. Noi ci allegrammo… pianto:

noi ci rallegrammo (sperando di essere finalmente giunti a desti-nazione), ma subito («tosto») la nostra gioia si trasformò («tor-nò») in pianto, poiché da quella terra sconosciuta («nova») si formò un turbine di vento e colpì la prua («il primo canto») della nave. 61. Tre volte… piacque: (il tur-bine di vento) fece roteare tre volte la nave in un vortice d’ac-qua («con tutte l’acque»): alla quarta, (il vento) fece sollevare la poppa in alto («in suso», “in su”) e inabissare («ire in giù») la prua, come piacque a Dio, fino a che il mare non si richiuse sopra di noi. L’immagine che chiude il canto è evocata anche dalle molte vocali chiuse («sóvra nói richiùso»), che esprimono il si-lenzio del mare infinito, allegoria di una realtà non commisurabile all’uomo.

Con questo breve discorso resi i miei compagni così desiderosi di proseguire il viaggio, che a ma-lapena dopo avrei potuto trattenerli;

e, volta la poppa verso Oriente, ponemmo mano ai remi come ali per il volo folle, avanzando sem-pre a sinistra.

La notte già mostrava tutte le stelle del polo an-tartico mentre quelle del polo artico erano ormai così basse da non emergere dalla superficie del mare.

Cinque volte si era accesa e altrettante si era oscurata la parte visibile della Luna da quando ci eravamo avventurati nell’arduo viaggio,

allorché ci apparve una montagna, scura per la distanza e così alta quanto non ne avevo mai vi-ste.

Noi ne gioimmo, ma presto la gioia si trasfor-mò in dolore perché da quella terra sconosciuta nacque un turbine di vento che percosse la prua della nave.

Tre volte la fece girare in un vortice d’acqua; alla quarta fece sollevare la poppa e inabissare la prua, come piacque a Dio,

finché il mare si richiuse sopra di noi».

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PER LAVORARE SUL TESTO

Il XXVI canto si apre con un’invettiva contro Firenze, che si ricollega ai fatti narrati nella bolgia dei ladri (can-to XXV). Lì Dante aveva incontrato cinque concittadini e ora rimprovera alla sua città natale di diffondere il proprio nome in tutti i cerchi dell’inferno e le predice un futuro di sventura, come del resto ormai si augurano tutti i Comu-ni vicini. Ma dalle parole finali dell’apostrofe (vv. 10-12) emerge non tanto l’indignazione, quanto la rassegnata amarezza dell’esule, ancora profondamente attaccato alla sua città e consapevole del destino che la attende.

Prima di riprendere la narrazione del viaggio nell’VIII bolgia, Dante pone una riflessione personale (vv. 19-24) che rivela al lettore il senso più profondo dell’episodio che verrà presentato: il poeta afferma di voler tenere a fre-no il proprio ingegno, affinché esso non travalichi i limiti impostigli da Dio e non conduca lui stesso alla rovina.

L’VIII bolgia ospita i consiglieri fraudolenti racchiusi dentro fiamme accese, paragonate prima alle lucciole che il contadino vede durante le sere d’estate e poi, con un deciso innalzamento stilistico, al carro di fuoco che rapì in cielo il profeta Elia. Mentre si avvicina al fondo della bolgia, l’attenzione di Dante è catturata da una fiamma a due punte: Virgilio gli spiega che vi sono rinchiusi Ulisse e Diomede, due dei maggiori eroi dell’epica greca. Dante si mostra subito impaziente di poter parlare con loro e Virgi-lio lo accontenta, rivolgendosi alla fiamma e domandando a Ulisse in che modo terminò la sua vita.

Comincia a questo punto uno dei più celebri episo-di della Commedia. Dante ha fatto di Ulisse l’allegoria dell’audacia umana, dando al suo leggendario viaggio significati insieme umani (la celebrazione dell’ingegno) e divini (l’impossibilità per la sola ragione di giungere a Dio, se non accompagnata dalla grazia). L’Ulisse descritto nella Commedia riunisce in sé l’eroismo degli esploratori lanciati sulle vie dell’ignoto e l’anelito di tutti coloro che, insofferenti dei limiti imposti da Dio all’umana intelligen-za, accecati dall’orgoglio, cercano invano le vie della per-fezione.

Tormentato dalla sua inestinguibile sete di conoscenza, che lo consuma e gli impedisce di godere degli affetti più cari, Ulisse, dopo il ritorno a Itaca, riprende il mare: giunto in prossimità dello stretto di Gibilterra, limite del mondo conosciuto, egli convince i compagni ormai vecchi a intra-prendere un viaggio verso l’ignoto, con un discorso incen-trato sulla natura dell’uomo, destinato non a vivere come gli animali, ma per seguire la virtù e il desiderio di nuove esperienze. Dopo cinque mesi di navigazione, dalle distese oceaniche emerge un monte altissimo: Ulisse e i compagni si rallegrano, ma è una breve emozione che presto si dissol-ve, perché un turbine avvolge la nave e la inabissa. L’eroe era infatti arrivato in vista del monte del purgatorio, sulla cui vetta è posto il Paradiso terrestre, ma Dio ha impedito che un uomo, guidato solo dalla ragione, potesse accedervi.

Il desiderio di conoscenza di Ulisse, infatti, non è stato sorretto dalla luce della grazia; per questo la sua impre-sa è «folle» e destinata al fallimento. In questo senso si può dire che Ulisse è una controfigura di Dante (vedi il brano di critica pp. sgg.), come dimostra il fatto che il «folle volo» di Ulisse e la sua tragica fine sono richiamati all’inizio di tutte e tre le cantiche attraverso tre livelli di confronto (identificazione / superamento / distacco):•   identificazione: nel II canto dell’Inferno, quando Dante,

al momento di iniziare il suo cammino infernale aveva manifestato a Virgilio i suoi timori dicendo «Per che, se del venire io m’abbandono / temo che la venuta non sia folle» (vv. 33-34);

•   superamento: nel I canto del Purgatorio, quando, appena sbarcato sulla spiaggia dell’isola del purgatorio, Dante ricorda come mai nessuno, che sia poi riuscito a tornare indietro, abbia solcato quelle acque: «Venimmo poi in sul lito diserto / che mai non vide navicar sue acque / omo che di tornar sia poscia esperto» (vv. 130-132);

•   distacco: nel II canto del Paradiso, quando Dante pre-senta la sua impresa poetica e umana come una navi-gazione su acque mai solcate prima da nessun uomo, stabilendo così il suo completo distacco da Ulisse: «L’acqua ch’io prendo già mai non si corse» (v. 7).

COMPRENSIONE

L’invettiva contro Firenze

1. A quale episodio fa riferimento l’invettiva del poeta contro Firenze?

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. A Analisi di un testo poetico

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2. Che cosa predice il poeta alla sua città natale?

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Ulisse e Diomede

3. Perché Ulisse e Diomede sono destinati a una pena da scontare assieme?

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4. Per quale motivo Virgilio dice a Dante di tacere e si rivolge lui ai due eroi?

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Il viaggio di Ulisse

5. Da quale momento ha inizio il viaggio di Ulisse?

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6. Che luoghi videro Ulisse e i suoi compagni dopo aver ripreso il mare?

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Il «folle volo»

7. Che cosa rappresenta la «montagna bruna» che Ulisse e i suoi compagni vedono prima di naufragare?

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8. Quale evento causa la morte di Ulisse e dei suoi compagni? È un evento naturale o è provocato da qualcuno? Perché?

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Guida allo studio e alla scritturaANALISI

Individuare i concetti chiave

9. Per comprendere la forza persuasiva del discorso di Ulisse ai suoi compagni, nella seguente tabella riportiamo a sinistra i concetti chiave in base ai quali è articolato; inserisci a destra i versi in cui essi sono presenti, completando il lavoro avviato.

Concetti chiave Versi

Avete ancora poco da vivere vv. ...............

È giusto sfidare l’ignoto vv. ...............

Considerate la vostra origine vv. 118-120

Il lessico

10. Perché Ulisse si rivolge ai compagni chiamandoli “fratelli” («O frati», v. 112)?

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Guida allo studio e alla scrittura

Esaminare lo spazio e il tempo

11. Lo spazio in cui si svolge il viaggio di Ulisse, dal palazzo di Circe al naufragio, ha delle connotazioni geografiche e temporali molto precise. Quali? Trascrivile nella tabella indicando anche i versi e proseguendo il lavoro avviato.

Connotazioni geografiche Tempi

«L’un lito e l’altro» (v. 103) «eravam vecchi e tardi» (vv. 106)

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Le figure retoriche

12. Quali sono le perifrasi presenti al v. 26 e al v. 34?

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13. In quale altro verso compare la metonimia del v. 101?

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14. Assegna ai seguenti versi la figura retorica corrispondente:•   v. 100: «ma misi me per l’alto mare aperto»;  ..........................................................................................................................................................................................•    vv. 130-131: «Cinque volte racceso e tante casso / lo lume era di sotto della luna»;  ..........................................................................................•    vv. 112-113: «“O frati”, dissi “che per cento milia / perigli siete giunti all’Occidente».  ....................................................................................a) enjambement; b) allitterazione; c) iperbole.

La condanna di Ulisse

15. L’episodio di Ulisse è presentato come un tragico esempio di sconfitta della ragione umana nel caso in cui essa non sia contenuta nei limiti di una norma religiosa. Il poeta dunque non esalta Ulisse, ma presenta il suo esempio come un tragico monito. Individua nel testo i punti da cui puoi dedurre che quella di Dante non è una celebrazione dell’eroe greco.

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APPROFONDIMENTO

Confronto tra personaggi

16. Francesca, Farinata e Ulisse: tre figure che Dante fa grandeggiare nell’Inferno, ma che la sua severità di teologo condanna inesorabilmente per l’eternità. Metti a confronto le vicende di cui sono protagonisti evidenziando i motivi per cui Dante li considera con rispetto pur condannandone l’operato.

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L’interpretazione

17. La studiosa Maria Corti ha visto rispecchiati nella figura di Ulisse i «filosofi che separano la conoscenza scientifica da quella etica e religiosa». Condividi l’idea dantesca che i due tipi di conoscenza non possano essere separati, che cioè la ragione umana ha dei limiti i quali non dovrebbero essere varcati, poiché superarli è pura follia?

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La conquista dell’ignoto

18. L’uomo ha sempre desiderato conoscere i segreti della natura e svelare il mistero della vita e della morte. Spinto da questa sete di sapere, si è avventurato su mari ignoti, ha scalato montagne, è sceso negli abissi oceanici, è sbarcato sulla Luna. Ma sebbene altri misteri, altri ostacoli si frappongano all’audacia umana, l’uomo non si arresta e si spinge sempre più avanti sulla via della conoscenza. Ritieni che Ulisse possa considerarsi una metafora dell’umanità desiderosa di conoscere l’ignoto? Esponi la tua opinione al riguardo.

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VERSO L’ESAME 1a prova, tip. D Tema di ordine generale

Page 13: Canto XXVI LUOGO CONTENUTI E DANNATI Ulisse consiglieri ...auladigitale.rizzolieducation.it/document_filter/6431/540/2216822/... · l’inferno per la quantità di dannati che la

Inferno Canto XXVI

13

© 2011 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà – Letteratura+

LA C

RIT

ICA

La sete di conoscenza è il tratto nobile e distintivo della natura umana. Eppure Ulisse, che ne è il simbolo universale, è un dannato dell’Inferno dantesco. In questo brano, la studiosa Anna Maria Chiavacci Leonardi spiega quando, secondo il pensiero di Dante, il desiderio di conosce-re diventa peccato.

Come tutti gli altri grandi dell’Inferno, Ulisse è una

parte di sé che l’autore-vian-dante oltrepassa, […] distacca da sé, e giudica. Dante lascia in Ulisse qualcosa che è stato gran parte della sua vita, forse la passione che fu in lui più for-te: quell’ardore del conoscere, del sapere, segno distintivo della nobiltà dell’uomo, e che tuttavia l’uomo non può spin-gere fino a pretendere di rag-giungere, con le sue sole forze (la barca di Ulisse, i suoi impo-tenti remi), la realtà stessa di Dio. […]Che l’Ulisse di Dante sia co-sciente di violare un limite, è scritto nel suo stesso racconto: egli oltrepassa quello stretto dove la divinità aveva posto il suo segno «acciò che l’uom più oltre non si metta». Ed egli sa di correre un rischio estre-mo, come dimostra la breve ma drammatica allocuzione ai compagni. Se la sua fosse soltanto un’aspirazione inap-pagata di conoscenza, dovuta al naturale limite della ragio-ne umana, egli rientrerebbe, come Aristotele e Platone, tra i magnanimi del Limbo, i gran-di filosofi che hanno in sor-te, come eterna pena, il loro stesso desiderio («quel disio… ch’etternalmente è dato lor per lutto», Purg. III, 42). Ma noi troviamo Ulisse nel profondo dell’inferno. C’è in lui una pre-varicazione, una presunzione, che attiene alla facoltà più alta dell’uomo, la mente, «quella fine e preziosissima parte de

l’anima che è deitade [di natura divina]» (Conv. III, II, 19), e per questo è così grave. Si tratta di una passione travolgente, per cui si trascurano anche gli affetti più cari e sacri. La sete delle ultime realtà, dell’infinito (che l’aperto oceano figura), è posta da Dio stesso nell’animo umano; ma Dio ha riservato a sé di saziarla, per chi umilmen-te glielo chiede. Se l’uomo non accetta questo limite, questo aiuto, la sua stessa magnani-mità finirà col perderlo.È questa la scelta fatta da Dan-te, nella Commedia dove, dal primo canto all’ultimo, egli si fa condurre; ed è ciò che gli per-mette di arrivare al fine di tutt’i disii. Ma la scelta è drammatica, come sempre quando l’uomo rinuncia a se stesso. Il grande mito di Ulisse – una delle più alte pagine dell’umana poe-sia – ne resta testimonianza. E noi pensiamo che proprio la stretta identificazione tra il po-eta e il suo personaggio abbia portato alla preferenza data a un eroe mitico per coprire que-sto ruolo: un contemporaneo, o comunque qualcuno stori-camente determinato, avreb-be impedito alle due figure di sovrapporsi, come l’indeter-minata lontananza permette. [...] Egli è il più distaccato dal suo sfondo di tutti i grandi personaggi dell’Inferno, quasi racchiuso, come nella fiam-ma, nel suo grande racconto. Francesca, Farinata, Brunetto parlano della loro pena, e sono consapevoli della loro colpa;

per non dire di Ugolino, la cui vicenda terrena fa tutt’uno col suo gesto presente. La storia di Ulisse è come fuori campo. Egli ignora i suoi due interlocu-tori, la sua pena, la sua colpa. Attacca con il «Quando», l’ini-zio della sua tragica avventura, e finisce con il mare che lo ri-copre.

da A.M. Chiavacci Leonardi, in D. Alighieri, Commedia, Milano,

Mondadori, 1991

Per comprendere

1. Che cosa distingue l’ardore di conoscenza di Ulisse da quel-lo, per esempio, di Aristotele e Platone? Perché questi si trovano nel Limbo, mentre Ulisse si trova nell’inferno?

2. Chi unicamente, secondo il pensiero di Dante, può sa-ziare l’umano desiderio di conoscere?

3. Perché Dante proietta se stesso in un personaggio del mito?

Per approfondire

4. Ti sembra che Dante con-danni l’intelletto umano di per sé? Elabora in un testo di 2 o 3 paragrafi la visione del poeta, riportata in questo passo di critica, su come la «sete» di conoscenza può essere saziata ed esponi la tua opinione in proposito.

«fatti non foste a viver come bruti»