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Reportage I DANNATI DI MOGADISCIO Nella capitale della Somalia vivono più di 500 mila profughi. Scappati da guerra e siccità, speravano di avere la pace in città. Ma hanno trovato fame e bombe DI DANIELE BELLOCCHIO - FOTO DI MARCO GUALAZZINI La distruzione della cattedrale cattolica che si trova nella parte vecchia di Mogadiscio

I dannati di Mogadiscio - Daniele Bellocchio

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Primo Classificato Fogli di Viaggio 2012 Sezione B

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Page 1: I dannati di Mogadiscio - Daniele Bellocchio

Reportage

I DANNATI DI MOGADISCIONella capitale della Somalia vivono più di 500 milaprofughi. Scappati da guerra e siccità, speravano diavere la pace in città. Ma hanno trovato fame e bombeDI DANIELE BELLOCCHIO - FOTO DI MARCO GUALAZZINI

La distruzione della cattedrale cattolica che

si trova nella parte vecchia di Mogadiscio

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Reportage

Calcio e kalashnikovUna scuola coranica nel centro della città. Sotto: l’ufficio del

direttore del quotidiano “Xog-Ogaal”. A sinistra dall’alto: la

redazione di radio Shabelle che ha avuto otto giornalisti

uccisi dal 2007; l’ingresso dell’ospedale militare De

Martino; ragazzi che giocano a calcio per strada. A destra

dall’alto: un’immagine del quartiere Shangani; un avamposto

delle truppe governative a nord di Mogadiscio; un soldato

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e urla di paura siconfondono con

quelle di allarme, la gente fugge in ogni di-rezione formando una nuvola indistintamulticolore. L’auto-bomba è di fronte al-l’hotel Ambassador, al Km4, uno deiquartieri più transitati di Mogadiscio. So-lo la delazione di un combattente di AlShabab, l’organizzazione jihadista affilia-ta ad Al Qaeda, permette alle truppe del-l’Unione Africana di evacuare in tempo lazona ed evitare una strage. Nessun mor-to, nessun ferito, rara casualità per la ca-pitale della Somalia, dove il conflitto traAl Shabab e l’Amisom, il contingente dipeacekeeping dell’Unione Africana allea-to alle truppe governative, chiede ognigiorno il suo tributo di sangue.

La guerra e la carestia che la scorsa esta-te ha sconvolto il Corno d’Africa hannotrasformato Mogadiscio in una bolgiadantesca di dannati. Nei gironi più bassidell’inferno, gli oltre 500 mila profughiche affollano la città. Sono assiepati ovun-que, sui cigli delle strade, tra le rovine deipalazzi dell’epoca coloniale, ai piedi delvecchio Parlamento nel quartiere di Suqa-mallaiga, fino al nuovo porto navale, inquello di Hamar Jabjab. «Siamo scappa-ti di notte e siamo arrivati a Mogadiscioda soli 20 giorni», grida Aset Osman Mo-hamed, 28 anni, portavoce dell’ultimodrappello di 550 rifugiati giunti nella ca-pitale. Provengono dalla regione del Bas-so Shabelle. Donne, uomini, anziani ebambini con la paura negli occhi e la fa-me sul volto. «Ci siamo accampati nel pri-mo luogo in cui abbiamo trovato spazio»,spiega Aset, che racconta con un dito so-speso nell’aria, come se ripercorresse suuna carta geografica mentale le tappe del-l’esodo. «Ora però», continua, «non ab-biamo di che mangiare, non ci sono me-dicine e la poca acqua riusciamo ad at-

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Reportage

Se questi sono uominiL’immenso campo profughi di Al Hijra che si trova nell’area di Shangani a

Mogadiscio. Si calcola che siano almeno 500 mila i rifugiati nella capitale.

Sono scappati dalle campagne sia a causa della ormai ventennale guerra

sia a causa della spaventosa siccità dell’anno scorso

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tingerla solo dai pozzi di emergenza». In-tere famiglie costruiscono tra macerie esassi piccole capanne, le une attaccate al-le altre, nella più totale promiscuità. Gliuomini piegano i giunchi e le donne cer-cano tra i rifiuti stracci e sacchetti di pla-stica con cui ricoprirli. Al campo profughiHorio 1.550 famiglie stanno tra polvere,mosche e miserabili tende. Awil Moha-med Alì ha 42 anni, è arrivato da sei mesicon moglie e figli e proviene dal sud delPaese: «Conviviamo con malnutrizione,malaria e infezioni di ogni tipo». Attornoa lui uomini e donne alzano un coro che èun lamento, mentre un bambino gattonanudo in una montagna di rifiuti, davantia sguardi impassibili e indifferenti. «Per-ché siamo venuti a Mogadiscio? Pensava-mo di essere al sicuro dalla guerra», con-clude Awil Mohamed.

Dopo l’offensiva di agosto delle truppedell’Unione Africana che hanno costrettoalla ritirata le milizie di Al Shabab, sem-brava che nella capitale l’incubo fosse ces-sato. Il presidente Sheik Sharif Ahmedesultò ed insieme a lui la popolazione, checredeva di poter archiviare finalmentevent’anni di guerra: ma si è solo passatidalla guerra di posizione alla guerra delterrore. La vita, di giorno, cammina di pa-ri passo con l’incubo degli attentati, dinotte, invece, con quello dei colpi di mor-taio lanciati dalle postazioni di Al Shababverso Villa Somalia. Le roccaforti degliislamisti ora sono esterne alla città, nelleperiferie settentrionali. Bisogna attraver-sare tutta Mogadiscio per arrivare sino al-la prima linea. Gli ultimi avamposti delletruppe governative e di quelle Amisom so-no nei quartieri di Heliwa e Karan.L’Unione Africana pattuglia e combattecon blindati e carri armati, i governativiinvece in infradito e kalashnikov.

Una corte dei miracoli in divisa, l’eser-cito somalo. Ex membri di Al Shabab, ra-gazzi di 15 anni, studenti coranici im-provvisati difensori della patria. «Nonabbiamo equipaggiamento. Armi, muni-zioni e divise scarseggiano. Ogni settima-na siamo sottoposti agli attacchi di AlShabab», racconta Sid Omar, 28 anni, gliocchi velati dal khat, le foglie dagli effetti

psicotropi che alleviano la fame e la stan-chezza, l’Ak-47 a tracolla, a capo di unapattuglia. «Guadagniamo 100 dollari almese, ma la paga non è mai puntuale. Avolte bisogna anche aspettare sei mesi pri-ma di vedere i soldi. Se vinceremo? In-sciallah!». Sono piene invece di retoricamilitare le frasi di Mohamed MoahmudSaney, colonnello dell’esercito: «Al-Sha-bab è finita. Hanno perso. È il patriotti-smo che ci spinge a combattere, non i sol-di. Noi sappiamo di aver vinto e non ab-biamo paura». Mente il colonnello: men-tre pronuncia parole di vittoria deve ab-bandonare la postazione perché Al-Sha-bab ha incominciato ad attaccare e piovo-no colpi di mortaio.

È proprio l’incognita sul risultato delloscontro a far nascere interrogativi sull’esi-to del processo di pace che dovrebbe por-tare la Somalia alla creazione di uno Sta-to Federale. Nel Paese del Corno d’Africasi stanno svolgendo tutte le fasi previstedagli accordi di Garowe di febbraio ma,se è certo ormai che il presidente SharifSheik Ahmed e il primo ministro Abdiwe-li Mohamed cesseranno il proprio man-dato ad agosto, meno sicuro è il destinocollettivo. La bozza costituzionale è stataredatta, ora deve essere approvata l’As-semblea Costituente, poi va nominata laCamera bassa e infine formato il nuovoesecutivo. I dubbi sulla riuscita sono no-tevoli. Non tutta la società somala infattiè protagonista di questo processo. Uniciartefici della Road Map sono l’attualeGoverno Federale, il presidente del Pun-tland, quello del Galmudug e il gruppoSufi moderato di Al Sunna Wal Jamma.Le realtà geografiche e politiche esclusequindi sono molteplici e con la loro emar-ginazione si paventa il rischio della forma-

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zione di un governo di pochi. Inoltre, se leaspettative di un miglioramento dellacondizione di vita delle centinaia di mi-gliaia di profughi non venissero esaudite,c’è il timore che questo popolo del vento,in fuga dal presente e che non scorge il fu-turo, diventi il serbatoio da cui signori del-la guerra e Al-Shabab possano attingereuomini per le proprie milizie.

«Anche dopo agosto il numero di per-sone che vengono ricoverate perché coin-volte in esplosioni o sparatorie è di oltre20 a settimana», racconta Asha Omar, di-rettrice dell’Ospedale De Martino e insi-gnita del premio di Donna dell’anno nel2008 a Saint Vincent. Cammina tra i pa-diglioni dell’ospedale, 27 reparti, uno so-lo adibito a degenza per feriti d’arma dafuoco, tutti gli altri occupati da profughi.Mentre spiega la situazione, visita i pa-zienti dell’unica ala del nosocomio fun-zionante. Tra questi un ragazzo di 22 an-ni. Tre pallottole gli hanno tranciato levertebre. Saluta solo sbattendo le palpe-bre. «Il governo si preoccupa della guer-ra», prosegue Asha Omar, «ma dell’istru-zione e della sanità molto meno. Manca-no vaccini, manca il carburante e nonsempre c’è l’elettricità per far funzionarei pochi macchinari che abbiamo». Non èdiversa la situazione al Banadir Hospital,dove i letti non bastano e i pazienti sonoovunque. Chi nei sottoscala, chi in picco-le tende di stracci posizionate in cortile. Ei medici non sono sufficienti. Ogni madreè anche l’ostetrica della propria figlia, edè così che una giovane donna che non rie-sce a partorire, morde il chador per il do-lore, mentre l’anziana mamma la sorreg-ge e la conforta. «Lo Stato non ci passauno scellino», grida Abdirizak HassanAlì, direttore dell’ospedale. «Le attrezza-ture sono vecchie di 50 anni. Chi ci per-mette di fare qualcosa sono le ong che cisostengono con le loro donazioni».

Fra tanta disperazione, per cogliere unsegno di speranza bisogna andare al Lidodove i ragazzi si impegnano in infinite par-tite di calcio. Un muro sforacchiato usatocome porta e un ragazzino a tirare un cal-cio di rigore. Prende la rincorsa, tira e se-gna. Un piccolo attimo di felicità. ■

Reportage

Gli ultimi arrivatidalla campagnacon giunchi estracci tirano sumiserabili capanne.Dove convivono con malaria e ognigenere di malattie

Una stanza dell’ospedale Benadir, il più importante di Mogadiscio. A sinistra:

un gruppo di rifugiati. In alto: un avamposto dell’esercito nel nord della capitale

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: Luz

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