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L’Europa di cui abbiamo bisogno. Saggio sulla politica comunitaria.
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L’Europa di cui abbiamo bisogno
Il potere senza responsabilità
DI BARBARA SPINELLI
Quel che vorrei proporvi, per cominciare, è un gioco che a molti esperti
pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il
gioco della storia che si fa con i se: che ha dunque come oggetto non solo
il mondo com’è stato fatto –– come ci sta davanti – ma come avrebbe
potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa
un’altra. Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio
intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per
guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o
nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma
dalla persona che ciascuno di noi è.
Così per l’«Europa di cui abbiamo bisogno», che è il tema
affidatomi. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra,
affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica – il se – e
nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci
facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua
necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere?
E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta
suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca»-«per ottenere quel
che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto? Sia detto per inciso:
l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo
d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente – se qualcuno
non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e
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fuorviante dai più. Il metodo, oggi, consiste nel chiedersi come sarebbe il
mondo che viviamo, se la crisi che ha lambito l’Europa, cinque anni fa,
fosse stata affrontata in modo differente.
In genere, gli storici guardano con un certo disprezzo a questi
esercizi mentali: la storia, dicono, non essendoci contemporanea non si
fa con i se. Non esiste la storia virtuale. Non ne sono così sicura, e
d‘altronde l’idea di una storia virtuale, cioè caotica, costellata di bivi
insospettati, inizia a farsi strada. Niall Ferguson ha scritto assieme ad
alcuni autori un libro che ha proprio questo titolo: «Storia Virtuale».
Studiare i se della storia è utile, per capire qualcosa di fondamentale. È
esistito sempre (esiste sempre), un attimo, un punto di svolta e
d’incertezza, in cui l’alternativa era possibile, in cui gli eventi avrebbero
potuto prendere un’altra piega: perché la storia è fatta di pieghe, e le
pieghe ci interessano quasi più della cronologia, che ci presenta un
tessuto già stirato a puntino dai posteri o dai vincitori. Per coloro che
vissero quei momenti di ieri la storia era il presente, e capire come lo
traversarono, quali altre vie erano aperte a ogni loro passo, è di grande
aiuto per noi che stiamo vivendo la storia che sarà scritta domani.
Nella Germania prehitleriana si poteva fare una politica
antirecessiva, al posto dell’austerità applicata dal governo Brüning, e
forse Hitler non avrebbe ottenuto nel ’33 consensi così spettacolari (il
43,9 per cento. Nel 1928 aveva racimolato appena il 2,6. Nel 1930,
quando Brüning divenne cancelliere, aveva raggiunto il 18,3). Oppure:
gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la Mafia siciliana,
quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del
dopoguerra sarebbe stata diversa: forse non staremmo ancora a parlare
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di patti fra Stato e mafia. E via ipotizzando e usando i se, i forse, i
congiuntivi, i condizionali.
L’Europa com’è andata sviluppandosi dal 2008 in poi si presta
assai bene a quest’esercizio mentale. I modi in cui la crisi viene ormai da
anni gestita – dai governi in primis, e dalle autorità di Bruxelles che
tendono a esprimere le volontà non dell’intera area che rappresentano
ma dei paesi più forti – sono molto singolari: è come se non stessimo
facendo la storia, ma vivessimo conficcati dentro una storia
predeterminata, già stesi supini nel passato. È questo che rende così
insopportabile il mantra che sentiamo ripetere: «Non c’è alternativa». È
una locuzione adeguata agli eventi quando sono trascorsi, e scritti in un
certo modo. Quando si condensano in una narrazione teleologica,
finalistica, e tutti i «se» vengono scartati come futili o idealisti. È una
delle operazioni mentali più fraudolente che si possano immaginare,
quest’oggi sequestrato e traslocato nel mondo di ieri: usata per il tempo
presente, la formula è quantomeno incongrua. Nulla si può cambiare,
neanche lontanamente sono ipotizzabili alternative. E non a caso è così
in voga questa parola: Narrazione. La Narrazione è predefinita, l’autore
può magari tenerci con il fiato sospeso – per esempio quando scrive un
giallo – ma lui sa come andranno a finire le cose, chi è il colpevole e chi il
vincitore o l’innocente o l’eroe. Mentre noi no, queste cose non le
sappiamo: per nostra fortuna possiamo prenderci la libertà di
sbizzarrirci e questa virtualità è una nostra fortuna.
Così la Narrazione della nostra crisi: gli autori del giallo europeo
hanno iscritto nella scaletta le cure di austerità, la divisione fra centro
(Germania essenzialmente) e periferie sud, anche il disfarsi della
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democrazia e delle costituzioni nazionali, visto come ineluttabile danno
collaterale di una stabilità politica eretta a nuovo valore etico
incondizionato (questo significa a locuzione «valore assoluto»,
recentemente impiegata dal Presidente del Consiglio). La frode è questa
scaletta, che non solamente è inconfutabile ma ha la pretesa di
raggiungere una vetta (l’Europa politica padrona di sé) con mezzi
rigorosamente inadatti a scalarla. La frode è quest’hegeliana certezza che
il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale. La storia non
la stiamo fabbricando con le nostre mani, perché già è messa nero su
bianco. Viviamo nel passato, non nell’oggi dove tutto è ancora possibile
e nulla è fatale. D’altronde Hegel stesso è tutt’altro che perentorio: la
civetta di Minerva non si compiace della propria saggezza e della
propria razionalità di primo mattino, quando ancora le cose devono
farsi. Comincia il suo volo solo al crepuscolo.
***
Questo vero e proprio assassinio del possibile è la principale
caratteristica dell’Europa quale oggi esiste, e si può capire l’indignazione
che suscita, e anche la rabbia e il rigetto. Chi si arrabbia, chi perde la
pazienza e «non ci crede più» – gli euroscettici è il nome che hanno
avuto per un certo tempo, oggi si parla di populisti – sono i soggetti
della storia in cui forse c’è da sperare. Se non esistessero – se non
esistesse una crisi che si acuisce – non staremmo qui stasera a
interrogarci sul bisogno o non bisogno d’Europa. La rabbia dei cittadini
è un’opportunità che ci viene data, come è un’opportunità lo spread. La
rabbia stessa è spread, non finanziario ma umano: è scarto fra i cittadini
e l’idea di Europa, fra popoli e istituzioni democratiche, sia nazionali che
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europee. È reazione a un patto sociale violato, a un patrimonio negato.
Quando penso a questo tipo di spread, mi torna in mente l’Uomo senza
Qualità descritto da Musil alla luce crepuscolare di un’altra grande idea
che stava degenerando: quella dell’impero austro-ungarico. Ulrich,
l’Uomo senza Qualità, definisce se stesso un Möglichkeitsmensch, un
uomo della possibilità – un possibilitario – che non smette d’innervosirsi
davanti al cosiddetto senso della realtà, della «cose come sono». Vorrei
citare il passaggio in questione, perché nell’ordine dei verbi toglie il
monopolio all’indicativo, restituendo dignità ai condizionali, ai
congiuntivi, al controfattuale:
(Ecco il passo:) Chi è dotato del senso della possibilità non dice ad esempio:
«Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello», bensì: «Qui
potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento». E se, di una cosa qualsiasi, gli
si spiega che è come è, allora penserà: «Certo, ma potrebbe benissimo essere
diversa». Quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come la
capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, e di non ritenere ciò che è
più importante di ciò che non è (...). La vita di questi uomini della possibilità
è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo,
immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una
simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli
individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni.
Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti.
****
Ecco, la storia virtuale, fatta di bivi e crocicchi, apre uno spazio a
questi criticoni idealisti. Sono un’occasione da cogliere, i possibilitari, se
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non si vuole che l’Europa si spenga. Sono trattati anch’essi come
bambini, o sognatori, o matti, visto che non accettano le cose così come
sono. Abbiamo visto che sono anche chiamati populisti. (Chi contesta
grandi opere probabilmente inutili come la TAV riceve nomi ancora
peggiori). Vorrei parlare della loro rabbia verso l’Europa, del loro filato
fatto di immaginazione, fantasticherie e congiuntivi. E dei motivi per cui è
sorta questa rabbia. Sempre tenendo in mente che i se sono importanti,
che le scalette possono essere ricompilate, che i sentieri che possiamo
imboccare sono innumerevoli – non uno soltanto – e si biforcano di
continuo come nel racconto di Borges. C’è da augurarsi che lo spread –
quello economico, ma soprattutto quello umano – resti ben inquietante.
Che diventi il nostro nodo al fazzoletto: quello che facciamo quando
temiamo di dimenticare un appuntamento, una cosa da fare o un
pensiero.
****
La rabbia dunque. È un movimento vasto ormai, un vento che s’insinua
in tutti gli interstizi del continente: a nord, a sud, a est, a ovest. Dicono
che è a causa sua che l’Unione sta sbriciolandosi davanti ai nostri occhi,
giorno dopo giorno. Diciamoci piuttosto che è a causa della sicumera
deterministica con cui viene raccontata («è come è, non ci sono
alternative»), che l’Europa sta perdendo la sua stessa ragion d’essere, e
trasformandosi in un congegno impersonale, un dispositivo
tecnico, grazie al quale ventotto Stati simulano un’Unione che non ha
più nulla di un’unità, e soprattutto più nulla di una comunità.
Un’Europa che vive solo come locuzione verbale, come parola che altri
hanno detto, parecchio tempo fa, e che i nuovi venuti – gli homines novi
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che sono al comando negli attuali governi – impugnano come fosse
qualcosa che appartiene loro di diritto, che sta' lì e non può cadere
perché la retorica dei vertici e l’intorpidimento dei giornali la tengono in
piedi, anche se non in vita. Un morto vivente che i governi manipolano a
seconda delle loro personali convenienze, di cui possono
ininterrottamente compiacersi come se fossero stati loro a ideare l’unità
europea, e a farla ogni giorno, e a narrarcela fin dalle prime ore del
mattino, quando nessuna civetta di Minerva è in vista.
Il fatto è che non la stanno né facendo né tantomeno
perfezionando, e per questo gli arrabbiati colpiscono con tanta foga il
progetto stesso di unificazione: non fosse altro che per fare un po’ di
chiarezza, per smuovere un po’ l’aria. Per dire a se stessi che le civiltà
possono perire, e specialmente quella europea. «Ormai lo sappiamo, noi
civilizzazioni, che siamo mortali», Paul Valéry l’aveva intuito dopo la
prima guerra mondiale, ma quella consapevolezza non sfiora le menti
dei governanti. Indigna quasi più la menzogna – questa propensione a
vivere dentro una storia già scritta e contrabbandata per il migliore di
mondi possibili – delle politiche via via discusse, decise o rinviate a
Bruxelles. Mi soffermerei un po’ rapidamente su queste menzogne, visto
che lì sono i cancelli che tengono imprigionati i se e i congiuntivi. Sono
innumerevoli, e ne elencherò solo alcune: le cinque che mi paiono più
evidenti.
Prima menzogna, o se volete primo guai, come nell’Apocalisse:
L’Europa raccontata come unione democratica di popoli. La promessa è
palesemente tradita. Un culmine è stato toccato subito dopo le elezioni
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politiche in Italia, nel febbraio 2013, quando in una conferenza stampa a
Francoforte Mario Draghi si è presentato davanti a una platea di
giornalisti, e ha spiegato perché non c’era motivo di turbarsi: «I mercati
capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, e ognuno ha
almeno due tornate politiche elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34
votazioni nel giro di 3-4 anni (già l’enumerazione ha qualcosa di
diabolico, sembra un elenco di dannazioni, di flagelli)». Poi ha
proseguito: «Penso che questa sia democrazia, a tutti noi molto cara.
Quel che i mercati sanno, e per questo sono meno impressionati di voi
giornalisti (per ragioni che non mi sono chiare gli inviati e corrispondenti
ridono, in sala stampa) è che le misure di aggiustamento finanziario sono
già attive in Italia. E continueranno a operare con il pilota automatico».
Come non arrabbiarsi e non sbalordirsi, quando qualcuno alla
lavagna ti disegna un mondo che ai massimi vertici ha i mercati – il
problema è non perturbare loro, con mosse a sorpresa o rivoluzioni – e
te lo descrive come unico mondo reale, nessun altro mondo è
congetturabile perché quello che vien proiettato sugli schermi procede
indipendentemente dalla volontà dei popoli; la sua necessaria odissea è
determinata dal pilota automatico, quasi fosse l’astrale nave dei folli
lanciata nello spazio da Stanley Kubrick. Il mondo è come è, a dispetto
delle cogitazioni e dei dubbi dell’Uomo senza Qualità. Come quelle
persone che ti assestano una bastonata e poi si scusano: «Sai, sono fatto
così».
È strano e imprevedibile il vento dell’indignazione, perché non ha
un’unica direzione. Soffia da destra, da sinistra e parecchio anche dal
centro, dai cosiddetti moderati: l’estremismo del centro ha una lunga storia
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in Europa, ieri fu la stoffa del fascismo. Quale che sia la parte da cui
soffia, però, chiede invariabilmente una cosa: l’alternativa. E non
stupisce che il nuovo partito antieuropeo dei tedeschi si chiami proprio
così: Alternativa per la Germania. È vento di disillusione e anche di
rancorosa repulsione, assale gli animi di chi aveva enormemente creduto
nell’Europa ma poi s’è ritratto, ritenendola un giovanile peccato di
irrealismo; e anche le menti più fredde di chi aveva sempre detto che
l’unificazione degli europei era un imbroglio, una temibile trappola, e in
fondo non s’indigna sino in fondo perché dall’inizio aveva diffidato, e
ogni volta che nell’Unione si costruisce qualcosa di nuovo inorridisce.
C’è di tutto, nel cosiddetto euroscetticismo: la speranza in un’altra
Europa, unita sul serio e di conseguenza congegnata in altro modo, ma
anche l’illusione di riscovare nelle ceneri il tizzone defunto, e però
sbrilluccicante, dei vecchi Stati sovrani perduti o di chissà quale
monolitica identità dei singoli popoli: identità e popolo – dèmos – che
crudelmente mancherebbero all’Europa.
E ancora: c’è lo scetticismo filosofico autentico, quello antico, che
fa tesoro dell’attitudine a ragionare appoggiandosi sulla più scrupolosa
osservazione della realtà, e non apre alcun credito all’apparenza ma va
snidando i segreti del divenire storico (il vero scettico non è
pregiudizialmente avversario dell’unità europea: è avversario sottile di
uno Stato nazione che si finge sovrano e non lo è più). E in
contemporanea c’è lo scetticismo contraffatto, impigrito, blasé, di chi
sull’orlo del vulcano non danza ma – l’espressione è di Jürgen
Habermas, applicata alla Germania di Angela Merkel – si limita a
sonnecchiare, e neanche ha sentore del vulcano presso cui se ne sta
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appisolato, e solo ogni tanto si sveglia di soprassalto e urla il suo urlo.
C’è lo sdegno di una generazione cui era stata assicurata un’Unione
solidale, aperta alle diversità e al molteplice, e d’improvviso arriva un
governante e dice che «purtroppo esiste una generazione perduta». Che
al massimo «si possono limitare i danni» e sperare di «non crearne altre,
di generazioni perdute» (cito da un’intervista di Mario Monti a Sette-
magazine del 27 luglio 2012); e c’è la terribile, malmostosa nostalgia del
recinto che si chiude, della nazione etnica che in nome dell’identità
respinge il forestiero e se può non esita a ucciderlo nelle acque del
Mediterraneo. La crisi che traversiamo, la capiremo solo il giorno in cui
riusciremo a distinguere tra loro rabbie così differenti, e però
guarderemo in faccia, a occhi aperti, la domanda di alternativa che ha
fatto scoppiare sia le une che le altre.
Ormai sappiamo – perché tanti lo dicono, anche quelli che prima
non lo dicevano – che la crisi dell’ultimo quinquennio in Europa è
dovuta a un difetto di costruzione della moneta unica, quando fu
introdotta alla fine degli anni Novanta. La moneta doveva nascere in
parallelo con l’unione politica ed economica, ma poi non si volle quel
parallelismo. Per alcuni doveva essere lo strumento di una nuova Res
Publica postnazionale, e ha finito con l’incarnare Europa dei banchieri,
dei tecnici: un’Europa per forza di cose mutila, incapace di configurare
con efficacia una sovranità superiore a quella già gravemente
compromessa degli Stati nazione, pronta a intervenire lì dove gli Stati da
soli non riescono più a condurre politiche serie e a mantenere le
promesse che fanno. Infatti nessun potere monetario sovranazionale
come quello esercitato dalla Bce può costituirsi, e tantomeno traversare
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burrasche, se non ha di fronte a sé, come interlocutore cui deve
rispondere, un potere politico egualmente sovranazionale, che
armonizzi le proprie scelte economiche con quelle della Banca centrale, e
induca anche la Banca centrale a armonizzarsi con le scelte del potere
esecutivo. Né può costituirsi, in democrazia, se non è sorretto – quindi
controllato, giudicato – da un Parlamento che rappresenti non la
preponderanza di questo o quel paese, ma l’insieme dei popoli dotati
della moneta unica.
L’Europa viene descritta come unione democratica di popoli. Non
lo è ancora, e l’urgenza del momento è pensarla e reinventarla come tale.
Non può esserlo, fino a quando gli Stati si comportano come sovrani
assoluti (per questo restano avvinghiati al diritto di veto e all’unanimità
nelle principali decisioni, cosa che perfino la Chiesa ha abbandonato,
visto che dal 1.179 bastano due terzi dei grandi elettori perché lo Spirito
Santo «parli» e elegga i nuovi Papi). E vorrei aggiungere una cosa: non
può essere un’unione democratica, fintantoché le nostre Costituzioni
continuano a essere male interpretate, considerate nella sola dimensione
nazionale. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-
nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, il che vuol dire
che ciascuno di essi, avendo non una ma più identità, deve contare ai
vari livelli in cui il potere si esercita: comunale, nazionale, europeo, forse
domani mondiale. La democrazia nazionale è non meno gravemente
compromessa degli Stati-nazione, e per gli stessi motivi: il costo della
non-Europa è alto anche qui, oltre che nell’economia, e ha come
conseguenza la divisione tra Parlamenti che con le loro decisioni pesano,
e Parlamenti che non pesano. Per questo va ripensata e riorganizzata
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come democrazia postnazionale, cosmopolìta. È la ragione per cui le
elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come
quelle nazionali e al tempo stesso diverse da loro, checché dicano e
facciano i governi e soprattutto i partiti che faranno, c’è da scommetterci,
campagne esclusivamente nazionali.
Sono importanti proprio perché il Parlamento europeo non ha
ottenuto, nel Trattato di Lisbona, i poteri che dovrebbero spettargli.
Perché questi poteri dovrà conquistarseli lui, nessuno glieli regalerà.
Non si tratta solo di creare un’Europa che tenga conto delle domande e
delle rabbie dei cittadini: questa sarebbe democrazia octroyée, ottenuta
per gentile concessione del sovrano. I cittadini, arrabbiati e non, devono
darsi una nuova costituzione che permetta loro di legiferare in Europa,
di censurare i governi che sbagliano ricette, di scegliere il Presidente
della Commissione e i ministri-commissari che si occuperanno di
finanze o di energia, di emigrazione, di asilo o di diritti civili. Devono
anche poter dire la loro sulle troike, che controllano i conti dei paesi
deficitari. Altrimenti avere una moneta unica con un’unica Banca
centrale è come avere una Corte che vigili sulla carta costitutiva della
nazione, ma la nazione non c’è né lo Stato con cui la Corte entra in
dialettica.
***
La seconda menzogna (o secondo guai) è legata a quella che ho
chiamato narrazione fraudolenta della storia e dice in sostanza questo:
se le cose funzionano male, è perché troppi poteri sono concentrati a
Bruxelles, dove regnano maestà anonime e lontane dai bisogni dei
cittadini. Tali poteri vanno quindi rimpatriati: lo dice anche la
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Germania, congedandosi dall’europeismo che ha coltivato per decenni
dopo la guerra, e lo dicono raffinati esperti geopolitici secondo cui
l’ordine globale è fatto dagli Stati nazione, e questo è il mondo come è.
Non lo è in realtà; gli Stati nazione non sono affatto in grado di imporre
l’ordine con le proprie mani. Lo si è visto nella crisi siriana del settembre
scorso: gli Stati Uniti non impongono alcunché di edificante, se non
costruiscono una politica che abbia qualche coerenza assieme alla
Russia, la Cina o, nell’area critica del Medio Oriente, all’Iran. L’ordine
globale è allora sulle divine e crudeli ginocchia dei mercati o del pilota
automatico o della Storia? Nemmeno: l’idea delle divine ginocchia
permette alla politica e agli Stati di non assumersi le loro personali
responsabilità. E su chi scaricarle con maggior profitto, se non sulla
forza delle cose? Al banco degli imputati non andrà nessuno, e l’Europa
potrà continuare a vivacchiare frantumata in tanti staterelli, rinviando
l’ora in cui – unendosi – potrà contribuire da protagonista non
subalterna a un ordine mondiale conflittuale sì, ma non impazzito.
Abbiamo già constatato come non ci sia praticamente nessuno, ai
vertici dei 28 Stati o delle istituzioni europee, che non faccia la sua giusta
diagnosi sui vizi congeniti dell’euro. Ma la maggior parte di costoro usa
giri di frasi e si ferma a metà strada, pur di non dire che se manca
l’unione politica la colpa è stata ed è interamente loro: dei vertici politici
che denunciano la malattia come se essa non avesse nulla a che vedere
con quello che essi fanno o non fanno. Come se vizi e malattie
nascessero per colpa di fantomatiche burocrazie con sede a Bruxelles, di
un immaginario Superstato europeo che se non ci fosse, chissà come
voleremmo alti e liberi e arbitri del nostro destino.
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Eppure non erano mancate, fin dagli esordi, le voci profetiche:
«Questa moneta è senza Stato!», denunciò allarmato uno dei suoi
principali artefici, Tommaso Padoa-Schioppa, già nel 1998-99: «Per la
Bce la vera insidia non sarà la poca indipendenza, ma la troppa
solitudine, l’operare quasi nel vuoto». I governanti odierni fanno finta di
applaudire, ma quella denuncia viene edulcorata, dimenticata, fasciata
di nebbia. Nessuno pone la questione della necessaria statualità europea:
quella che in parte esiste già – per come sono costruite e per come
legiferano le sue istituzioni, per la competenza esclusiva che l’Unione
possiede in alcuni campi decisivi (moneta, concorrenza, commercio
estero) – ma che è da istituire ex novo e democratizzare, senza
aggiungervi qua e là una pezza, se si vuol evitare che le eruzioni del
vulcano ci sommergano.
Il dito va insomma puntato sui veri responsabili dei mali presenti,
e questo costa fatica grande e per questo fa così comodo prendersela con
i populisti troppo arrabbiati o impazienti, o anche con gli eurocrati
troppo poco «legati al territorio», come usa dire. Non sono i tecnici i
colpevoli della costruzione sbagliata dell’euro né i banchieri centrali,
così spesso sotto accusa. Non è colpevole nemmeno la troika, che con
tanta ottusità politica controlla i bilanci degli Stati deficitari – decidendo
al posto dei Parlamenti la natura dei tagli alla spesa pubblica, il
funzionamento del mercato del lavoro, la riduzione del Welfare State,
l’estensione dello spazio pubblico e addirittura (a Atene) la
sopravvivenza o meno della televisione pubblica o di grandi università –
ma che agisce per conto di altri.
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I veri colpevoli di ottusità sono i governi degli Stati membri, che
con tutte le loro energie mostrano di volere quest’Unione emiplegica,
questo venir meno della sua legittimazione democratica, questa crisi
europea infine, politica e solo in subordine finanziaria, che dal 2008
impoverisce e umilia i popoli appesantiti dal debito con terapie
dogmatiche non tanto rigorose, quanto nefaste, inique, e per di più
fallimentari. Terapie che gli Stati stessi hanno deciso, o attivamente o
subendole passivamente, mettendo l’unione politica alla fine del
percorso e rendendo il percorso infinitamente più costoso,
economicamente e umanamente. La troika è un loro manovale (ed
eventuale capro espiatorio).
All’erosione dell’Europa si è risposto e si risponde con più
erosione; alla divisione fra i suoi popoli con più divisione e meno
comunità. Ai difetti originari dell’Euro – la sopravvivenza dei
nazionalismi; la preservazione delle fasulle sovranità dei singoli Stati,
che il Trattato di Lisbona garantisce e rafforza; l’applicazione del liberum
veto (non dimentichiamo che nel ‘700 la Polonia morì – spartita fra le tre
Aquile Nere che erano Prussia, Russia e Austria – a causa di un
Parlamento bloccato in permanenza dal liberum veto): a tutti questi difetti
si è replicato intensificando ancor più gli stessi difetti e storture.
Chi andrebbe trascinato in giudizio, se ci fosse una corte che
separa i colpevoli autentici da quelli pretestuosi, sono gli Stati nazione,
che non vogliono ammettere la natura completamente illusoria del loro
potere. Sono i Consigli dei ministri, che in un’Unione degna di questo
nome dovrebbero pesare di meno, non di più. Secondo lo scrittore
austriaco Robert Menasse dovrebbero essere addirittura aboliti, viste le
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catastrofi che hanno provocato. A ciò si aggiunga l’inutile serie di vertici
di capi di Stato e di governo, che si riuniscono sempre più frequenti e
pomposi, sempre più inani, spacciando per oro l’Europa che essi stessi,
summit dopo summit, corrodono e riducono a vile metallo.
Sono loro a decidere chi sta nella troika, e come debba operare, e i
memorandum che essa presenta ai governi. Sono loro che le chiedono di
farsi portavoce ed esecutrice di quanto deciso nei Consigli ministeriali o
negli incontri fra gli Stati più importanti. È vero, la troika è composta di
organi sovranazionali o internazionali (oltre alla Commissione e alla
Banca centrale europea il Fondo Monetario, che in un’Europa dotata di
statualità compiuta non occuperebbe questo spazio esorbitante e forse
non sarebbe semplicemente presente). I triunviri sono responsabili verso
i Consigli dei ministri e i capi di Stato o di governo, cui è riservata
l’ultima e decisiva parola. I Parlamenti, nazionali o europei che siano,
non hanno in ogni caso voce in capitolo (fa eccezione il Parlamento della
potenza egemone – la Germania – così come la sua Corte costituzionale e
la sua Banca centrale. Ma è eccezione che conferma la regola, e
meriterebbe un ampio discorso a parte).
****
La terza menzogna la conosciamo bene, ed è conseguenza logica
dei primi due guai. È la cantilena che udiamo ogni giorno – «L’Europa lo
vuole», «L’Europa ce lo chiede» – e rimbambisce a tal punto che suscita
stizze sempre più estese. L’autorità divina che ossessivamente viene
invocata è pura invenzione, dietro la quale stanno rintanati Stati e
Staterelli che vogliono passare indenni attraverso la bufera, che
vogliono esercitare un potere senza responsabilità, e ben volentieri
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affidano quest’ultima agli organi dell’Unione, o peggio al pilota
automatico che agirebbe motu proprio, come una macchina celibe che non
ha bisogno di mischiarsi con le volontà umane per operare e incidere
sulle vite dei cittadini. Il modello Merkiavelli descritto da Ulrich Beck è
nato così: l’Europa sovranazionale che ancora esiste viene prima
denigrata (le si affibbiano nomi spregiativi come eurocrazia, Superstato,
etc.) poi depotenziata, infine aggirata da un moltiplicarsi di comitati
speciali designati dai Consigli dei ministri: è la cosiddetta comitologia,
escogitata per svuotare quella che Robert Menasse chiama
l’»amministrazione giuseppina» dell’Unione, non dissimile dalla buona
amministrazione multinazionale e tollerante che vide la luce nell’impero
austro-ungarico ai tempi di Giuseppe II d’Asburgo. Risultato di
quest’escamotage: ai comandi non c’è affatto l’eurocrazia, né una
volontà che possieda il titolo e la facoltà di sintetizzare le volontà di
ventotto nazioni e popoli. C’è lo Stato-nazione più poderoso
economicamente. Quando si dice «lo vuole l’Europa», è la Germania che
vuole: che senza ammetterlo pensa, parla, dispone al posto di ciascun
abitante europeo, separando i santi dai peccatori (la parola tedesca
Schuld significa ambedue le cose: debito e colpa. Economia, ortodossia
morale, legge di mercato (o meglio non-legge) sono mescolate
perversamente le une con le altre).
Anche il modello Merkiavelli è tuttavia finzione e vanità, se lo
guardiamo da vicino. L’idea di restituire il potere perduto agli Stati
sovrani si ammanta di pragmatismo, si pretende realista, pospone
continuamente la soluzione federale giudicandola troppo utopica. Non
lo sospetta, o finge di non sospettarlo, ma l’unica utopia è proprio questa
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restituzione di prerogative e di poteri agli Stati sovrani: è il secondo
trasloco che viene operato, dopo il trasloco del nostro vissuto dal tempo
presente a quello passato. Non si torna così facilmente al XVII secolo e
alla Pace di Westphalia – quando i capi delle nazioni europee opposero a
una guerra lunga trent’anni, e alla vecchia autorità sovranazionale della
Chiesa, il marchingegno degli Stati-nazione assolutamente sovrani in
casa propria. Col passare dei secoli quel marchingegno ha distrutto
l’Europa. Era fondato sull’equilibrio altamente instabile tra potenze
rivali (la cosiddetta balance of power: l’obiettivo era di evitare il
predominio di una singola potenza controbilanciandola con una o più
potenze alleate egualmente volitive e forti). L’equilibrio fra le potenze si
è infranto nella prima parte del XX secolo, nella guerra di trent’anni
iniziata nel 1914 e finita nel 1945 con l’esaurirsi della centralità storica
del vecchio continente.
***
Nell’agosto-settembre del 2013 abbiamo avuto l’ennesima
conferma di questo esaurirsi: in Medio Oriente come davanti alla
degenerazione delle primavere arabe, in Egitto come in Siria, contano le
potenze dotate di mezzi e stature sufficienti – Stati Uniti, Russia, Cina –
non l’ammasso confuso e spezzettato che si chiama Europa. La
menzogna di Westphalia (il quarto guai) è mortifera.
Anche queste potenze d’altronde contano fino a un certo punto,
come si è visto nella crisi siriana. In realtà sono Stati che ancora vivono
nell’illusione sovranista. Che neppure hanno tentato la via europea del
dopoguerra, né hanno il presentimento che le civilizzazioni periscono se
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si presumono onnipotenti. Resta il fatto che pur restando prigionieri del
dogma westphaliano dello Stato interamente sovrano, la loro ambizione
e la loro efficacia sono facilitate non poco dalla dimensione geografica e
demografica.
Le minuscole nazioni europee – tutte, Germania compresa – non
sono al loro confronto che pulviscolo insignificante, e impotente.
Potrebbero accampare la democrazia postnazionale e cosmopolìta che
seppero immaginare nel dopoguerra, ma è un’invenzione che
disconoscono o tengono in spregio. Il modello Merkiavelli è finzione e
vanità perché chi domina a tutti gli effetti l’Unione non è a ben vedere la
Germania, o la Francia. (Né tantomeno la Gran Bretagna: è menzogna
anche l’idea che l’Inghilterra sia il problema dell’unificazione. Il
problema sono la Germania e la Francia). Nelle grandi scelte strategiche
l’Europa è a rimorchio della potenza egemone dell’Occidente (gli Stati
Uniti), anche se potenza in declino e non più affidabile, costretta come
tutti noi a sottostare ai mercati o al pilota automatico, che di volta in volta
viene attivato nella funzione di unico anello di congiunzione tra mercati
e politica.
Non è una prospettiva tranquillizzante, quando gli Stati
dell’Unione fanno propria o subiscono della dottrina economica tedesca
(che ciascuno faccia con massima diligenza i propri «compiti a casa»:
solo dopo verranno – se verranno – la cooperazione, la solidarietà, gli
eurobond, l’aumento del bilancio comune, la statualità federale
compiuta) e dopo essersi accontentati o aver subito, contemplano stupiti
lo sconquasso che hanno provocato e si mettono a inveire contro gli
indignati, a gridare al flagello populista che incombe.
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I quattro guai che abbiamo elencato (falsa unione democratica dei
popoli; falsa promessa di rimpatriare i poteri sovranazionali europei;
irresponsabile potere degli Stati-nazione; menzogna di Westphalia)
sfociano nella quinta menzogna, tra le più insidiose: quella che
concerne la rabbia dei popoli europei, in prima linea di quelli immiseriti
dalla crisi in Grecia, Italia o Spagna ma anche di quelli impauriti all’idea
di pagare per gli altri come in Germania, Austria o Olanda. È una
menzogna che abbiamo già menzionato: consiste nell’inveire contro il
nemico designato che sarebbero i populismi antieuropei delusi o
disgustati dall’Unione. Vorrei qui ricordare, a titolo di esempio, quanto
disse Mario Monti nel settembre del 2012, in una riunione del workshop
Ambrosetti a Cernobbio, rendendo esplicito il turbamento che più
l’affliggeva: non l’impotenza dei singoli Stati o delle autorità di
Bruxelles, ma l’assalto di partiti e movimenti popolari contro le terapie
recessive imposte ai paesi debitori – dunque peccatori – dalle autorità di
Bruxelles e dalla Germania che su di esse fa leva. Citiamo testualmente
le parole che il Premier rivolse in quell’occasione al presidente del
Consiglio europeo Van Rompuy, perché mi sembrano emblematiche:
«C’è il rischio che mentre la costruzione europea si perfeziona, le
difficoltà dell’Eurozona facciano emergere grandi, crescenti e pericolosi
fenomeni di rigetto nelle opinioni pubbliche dei vari Paesi, con tendenze
all’antagonismo e a populismi che mirano alla disgregazione». E ha
proseguito: «La contrapposizione tra Paesi del Nord e del Sud
dell’Europa fa riemergere vecchi stereotipi e vecchie tensioni. È
paradossale e triste che mentre si sperava di completare l’integrazione
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europea si verifichi un pericoloso fenomeno opposto che mira alla
disintegrazione dell’Europa. E questo avviene in quasi tutti i Paesi».
La passione degli indignati è senza dubbio triste ma non
propriamente paradossale, se si considera che le cure di risanamento
hanno inflitto povertà e sofferenze in tanti paesi d’Europa, senza
neanche riuscire dopo fatiche sì immani a ridurre i debiti pubblici ma
perfino dilatandoli. Nell’estate 2013 si è cominciato a parlare di fine
della recessione – di luce in fondo al tunnel – ma la luce annunciata non
prelude a una redenzione e neppure a una comune suddivisione di
rischi presenti e futuri. Lo stato di bisogno resta, nonostante quel lucore
che s’intravvede nel tunnel. In Grecia e Italia il tenore di vita è franato,
con punte massime a Atene: le risalite son talmente più ardue delle
discese. La disoccupazione giovanile raggiunge e supera nel Sud Europa
il 50 percento, e la ripresa proclamata non sembra intaccarla. E aumenta
il numero di chi vive sotto il livello di sussistenza, dimenticato dalla
cassa integrazione e dall’assistenza pensionistica o medica. Nella stessa
Germania – i dati lo confermano – il benessere che ha fatto vincere
Angela Merkel è costruito sull’amplificazione abnorme del lavoro
precario (7 milioni di precari lavorano per salari oscillanti fra 5 e 8 euro
l’ora: meno del salario minimo in Spagna) e su diseguaglianze che sono
cresciute sempre più. Quanto alla trojka: è vero, in Italia fisicamente non
c’è. Ma è come se ci fosse.
Paradossale è piuttosto la reazione alla sfida degli arrabbiati,
convenientemente ammucchiati da chi severamente li mostra a dito
quasi fossero una falange compatta di antieuropei: la cosa giudicata più
urgente e utile – in quel settembre 2012 quando Monti fece la sua
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proposta, accolta entusiasticamente da Van Rompuy – fu un ennesimo
vertice europeo straordinario, da consacrare solennemente alla «lotta al
populismo».
In altre parole: il nemico cui vanno addossate le colpe più svariate
della malattia europea è il malato stesso o il morente. Su di esso si china –
in posizione di lotta – il medico che l’ha ridotto in queste condizioni
comatose. Il vertice anti-populismo fortunatamente non ha mai visto la
luce. Ma l’idea che lo ha sorretto resta, e s’aggira come utile spettro nelle
cancellerie e nei partiti dominanti: verrà ripescata, ogni volta che si farà
vivo l’incubo populista sotto forma di spirito antagonista, cioè di idee e
proposte che chiedono non solo cambi di governo ma autentiche
alternative alle malmesse democrazie nazionali, e ai dogmi professati
con immutato sussiego dai prìncipi che pretendono di rappresentarci, e
di proteggerci al tempo stesso dai mercati e dalla cosiddetta eurocrazia
di Bruxelles.
Cosa viene esattamente minacciato dallo spirito antagonista, presto
e disinvoltamente ribattezzato spirito disgregatore? Viene minacciata e
annientata, ripetono i sedicenti ingegneri dell’Unione, la «costruzione
europea che si sta perfezionando», la «speranza di completare
l’integrazione». Così il cerchio si chiude: tutto va verso il migliore dei
mondi possibili, la strada che si sta percorrendo è per definizione buona
e giusta (come potrebbe non esserlo, visto che è «senza alternative»), ma
purtroppo c’è chi paradossalmente e tristemente mostra di non credere
nell’edificante Divina Commedia, nella buona novella dell’Europa
veniente e ascendente. Da una parte s’accalcano i reprobi che «rigettano»
l’Europa, dal momento che rigettano i propri governanti e il dogma del
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«non-c’è-alternativa»: sono tutti coloro che invece di sperare negli
ingegneri dell’Unione hanno la faccia tosta di «far casino», disordinando
il bell’ordine esistente, le sue terrene gerarchie, le sue ferali
farmacologie. Sono relegati nell’Inferno, nel girone insolentemente
battezzato Periferia-Sud. Dall’altra parte veleggiano gli eletti, nell’alto dei
cieli: in continua ascesa, sicuri e benedetti da Dio, predestinati alla
ricompensa. Gli autori delle scalette.
Il terrore del casino è l’unica cosa veramente triste, anche se niente
affatto stupefacente o paradossale perché i padroni nazionali
dell’Unione europea difendono i loro posti e le loro regalie: è logico che
agiscano in questo modo. Si sono dimenticati, nel redigere la loro Divina
Commedia, la maestosa invenzione che fu nel XII secolo il Purgatorio, il
Refrigerium delle nostre memorie. Non c’è scala né via di mezzo –
nell’immaginario dei potenti d’Europa – tra il male e il bene. Il
Purgatorio è estromesso, perché potrebbe inopportunamente prefigurare
l’improvvido, incessantemente temuto sentiero che si biforca. Il sentiero
che andiamo cercando. Che vorremmo imboccare. Con le nostre gambe
e la nostra testa, senza le stampelle di piloti automatici.
***
Eppure c’è qualcuno, Papa Francesco ad esempio, che ha lo
sguardo un po’ più lungo dei prìncipi terreni. Non dovrebbe essere così,
perché il Papa «rugumar può» – ha il compito di interpretare le Sacre
Scritture, di fare il pastore – ma a differenza del prìncipe o
dell’imperatore «non ha l’unghie fesse», non distingue sempre tra quel
che è bene e che è male per la variegata, laica città politica. Ma come ai
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tempi di Dante, ci sono epoche in cui la benefica dualità impero-Chiesa
svanisce e non resta in campo che una voce soltanto. Si direbbe che
viviamo una di queste epoche. Ai potenti del mondo (comprese le alte
gerarchie della propria Chiesa), il Pontefice ha detto che l’età del sopire,
troncare e procrastinare ha fatto il suo tempo, che è l’ora di osare e
sperimentare, senza installarsi nelle comodità e chiudersi in se stessi. È
accaduto durante il viaggio in Brasile del luglio 2013: ha chiesto ai
giovani e fedeli di «far casino» – lìo è la parola spagnola, vuol dire anche
disordine, confusione, spread umano – e di uscire per strada e non aver
paura dell’aperto.
Gli architetti d’Europa subito s’avventerebbero contro uno che
parlasse così, uno che addirittura ringrazia chi fa casino ("Grazie per il
lìo che farete», ha detto il Papa). Lo bollerebbero come il peggiore dei
populisti, degli antagonisti. Riterrebbero i suoi discorsi paradossali e
tristi, e subito convocherebbero un vertice straordinario per rispondere,
severo, alla provocazione. Solo una civiltà dimentica della propria
mortalità ha questa spudorata sicurezza di sé, e chiama il disastro che ha
generato con l’epiteto, davvero singolare, di stabilità.
Tempo fa, dopo essersi chiamata per qualche anno Mercato
comune e prima di chiamarsi Unione, l’Europa aveva scelto di darsi il
nome di Comunità. Comunità è un concetto più solidale e amichevole di
Unione. Forse è il caso di restituirle questo bel nome che ha
abbandonato, se è vero che ogni liberazione avviene così:
impadronendosi del significato profondo delle parole, e volgendole
contro le menzogne che s’ostinano a raccontarci.