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BAGNOLI Una questione ancora aperta

Bagnoli - Una questione ancora aperta

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A più di vent’anni dalla dismissione del Centro Siderurgico e diciassette dall’emanazione della variante occidentale al Piano Regolatore nel 1998, continua ad esserci un vuoto nel tessuto urbano di Napoli, incastrato tra Bagnoli, Cavalleggeri e Posillipo e insieme grandi possibilità di sviluppo ancora irrealizzate. Di Stefano Santos, pubblicato su Terza-Pagina.it

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BAGNOLIUna questione ancora aperta

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immagini e testi diStefano Santos

Origini - Lo stato di corruzione e malgoverno nell’amministrazio-ne di Napoli scoperchiata dall’in-chiesta Saredo del 1901 ispirò un movimento politico e intellettuale secondo solo a quelli che aveva-no innescato il Risanamento e lo sventramento del centro antico. La necessità avvertita da tutti fu quel-la di dare una soluzione al stato di perdurante depressione economica e alta disoccupazione, principal-mente attraverso l’uso di misure pubbliche che potessero incenti-vare l’iniziativa privata. Un piccolo dibattito semmai verteva su quale settore ci si dovesse concentrare per far ripartire Napoli.

Una minoranza sosteneva di sfrut-tare le risorse culturali e paesaggi-stiche della città per uno sviluppo del settore terziario e in particolare del turismo. Esponente più famoso di questa ‘corrente’ fu il celebre ar-chitetto di origini scozzesi Lamont Young, che sin dagli anni ‘70 pro-poneva di trasformare l’area che va da Santa Lucia a Coroglio in un complesso residenziale a bas-sa densità abitativa che sfruttasse

le intrinseche bellezze naturali, chiamato Rione Venezia essendo il modellato sui canali della capitale della Serenissima e servito da un sistema di trasporti che ricalcava quello delle metropolitane di Parigi e Londra. Aggiunto a questo vi era la bonifica del cratere di Agnano - che migliorò la salubrità di tutta l’area - e la contemporanea risco-perta di sorgenti termali risalenti al periodo greco-romano dissemi-nate per tutti i Campi Flegrei. Le premesse sembravano solide per-ché Napoli si avviasse a diventare un importante centro turistico, ma semplicemente il mercato non era ancora sviluppato, ancora in una fase pionieristica perché potesse apparire una soluzione efficiente almeno nel breve periodo. Per questi motivi fu la soluzione ‘industriale’ guidata da Francesco Saverio Nitti e sostenuta dalla élite cittadina a prevalere, con la nomi-na nel 1902 della Regia Commissio-ne per l’incremento industriale di Napoli seguita dalla promulgazio-ne nel 1904 della cosiddetta legge Gianturco che raccolse i risultati

della Commissione. Mentre la di-scussione ferve a Napoli, a nord una serie di vicissitudini legate allo sfruttamento delle miniere di ferro dell’isola d’Elba tra gruppi imprenditoriali genovesi e tosca-ni porta alla fondazione della So-cietà Anonima “ILVA” (dal nome latino dell’isola d’Elba) nel 1905, che decide di realizzare il ciclo in-tegrale dell’acciaio a Napoli. Dopo una prima ipotesi di localizzare il complesso industriale nella zona est della città, fu deciso di costru-ire il futuro Centro Siderurgico in un terreno fra la Conca di Bagno-li e la spiaggia di Coroglio, per la sua vicinanza strategica al mare e alla “direttissima” Napoli-Roma, che permette un rapido trasporto delle materie prime e dei prodotti lavorati. Era il 1907. Tre anni dopo, il 19 giugno 1910 lo stabilimento è inaugurato solennemente alla pre-senza del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, con il Mattino che titola “Una grande festa del lavoro napo-letano”. Inizia così la storia del Centro Si-derurgico di Bagnoli, che seguirà le vicende di due Guerre Mondia-

A più di vent’anni dalla dismissione del Centro Siderurgico e diciassette dall’emanazione della variante occidentale al Piano Regolatore nel 1998, continua ad

esserci un vuoto nel tessuto urbano di Napoli, incastrato tra Bagnoli, Cavalleggeri e Posillipo e insieme

grandi possibilità di sviluppo ancora irrealizzate.

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li, la fase del dirigismo economico, dell’IRI e delle Partecipazioni Sta-tali, la fase traumatica delle priva-tizzazioni, la deindustrializzazio-ne e la delocalizzazione nei paesi emergenti. Esprimere un giudizio imparziale d’insieme dell’esperienza Bagnoli senza che interferiscano le proprie convinzioni di fondo è pressoché impossibile, soprattutto se si consi-dera il contesto in cui il “cantiere” ha operato, in un Sud che aveva e ha tuttora difficoltà a integrarsi con efficacia nel tessuto produttivo na-zionale.

L’espansione - Assumendo come orizzonte il dopoguerra fino ad oggi, cioè il periodo che più di tut-ti ha contributo a definire l’assetto esistente sia dal punto di vista loca-le che nazionale, si può concordare che la fase di espansione del diri-gismo statale, che vedeva il sogget-to pubblico entrare in gioco come

promotore dell’iniziativa economi-ca, abbia avuto successo nel mo-dernizzare l’economia italiana e a traghettarla negli anni del miracolo economico. Il Centro Siderurgico di Bagnoli, assieme a quelli di Cor-nigliano e Piombino ebbe un ruolo molto importante nell’ambito del Piano Sinigaglia, così chiamato dal presidente dell’IRI dal 1945. L’obiettivo del Piano era quello di aumentare di molto la capacità produttiva della siderurgia nazio-nale, attraverso la ricostruzione dello stabilimento genovese e del potenziamento di quelli di Bagnoli e Piombino, perché fossero in gra-do di produrre acciai lavorati e non più solo grezzi, accentrando così in sé quello che prima veniva lasciato alle industrie private.

Il clima post-bellico era partico-larmente propizio a questa nuova espansione. La distruzione porta-ta dalla guerra imponeva una ri-

costruzione che abbracciava ogni settore produttivo, creando così una domanda imponente per la modernizzazione delle infrastrut-ture, l’espansione edilizia e per la massificazione dell’industria au-tomobilistica. Nel caso particolare di Bagnoli, altre premesse vennero create dagli interventi che mirava-no a risolvere l’annosa questione meridionale, con l’istituzione il 10 agosto 1950 della Cassa per il Mez-zogiorno - per il finanziamento di progetti tesi a migliorare le in-frastrutture del Sud - e l’entrata in vigore della cosiddetta “Legge sul Quinto” che imponeva alle am-ministrazioni statali di riservare almeno un quinto delle loro com-missioni a industrie del Mezzo-giorno.

Il “modello italiano” della parte-cipazione pubblica nell’iniziativa economica privata, che non mira-va solo al conseguimento di pro-

L’acciaieria L.D. vista da via Cattolica.

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fitti ma anche di precisi obiettivi sociali (come del resto è previsto in Costituzione) fu osservato con attenzione da parte dei commen-tatori stranieri, con ammirazione e con qualche sospetto (legato alla vicinanza semantica di program-mazione con la pianificazione di matrice sovietica).

Segno dell’espansione di Bagnoli in quegli anni è l’inaugurazione nel 1964 dell’acciaieria L.D., il primo impianto del genere in Italia e ba-sato sul processo di soffiaggio di ossigeno puro sul miscuglio di ghi-sa e ferro che ha permesso un in-cremento della produttività dell’ac-ciaio di un fattore 1000 e ancora oggi lo standard obbligato per la conversione della ghisa in acciaio.L’avvicinarsi degli anni Settanta e della contestazione sociale coinci-dono con un periodo cruciale per il futuro dell’industria siderurgica, un periodo in cui le certezze del boom economico e la domanda legata alla ricostruzione sembra-no svanire: dall’espansione si passa alla contrazione.

Le testimonianze - Per analizzare una situazione di crisi, ancor più quando si è trattato di una crisi spalmata su almeno due decenni come all’Ilva-Italsider di Bagnoli, è necessario anche affidarsi alla testi-monianza di chi ha vissuto quegli anni. Grazie alla disponibilità del Circolo Ilva - associazione che ha raccolto l’eredità del CRAL dell’I-talsider - abbiamo avuto la possibi-lità di discutere con quattro lavora-tori in pensione dello stabilimento, i quali collettivamente coprono un periodo lavorativo che va dal 1948 alle battute conclusive dello sman-tellamento e la bonifica dell’area industriale. Attraverso le loro voci si può avere un’idea più compiuta

dei processi che hanno portato alla chiusura del Centro Siderurgico.

Il sig. Giuseppe Hoffmann, classe ‘33, è il veterano tra il gruppo, es-sendo entrato in fabbrica a 15 anni nel 1948, proveniente dalla scuola alberghiera. La sua esperienza la-vorativa non è stata interamente legata all’Ilva-Italsider di Bagnoli, contando anche diverse esperien-ze all’estero: “(...) Sono stato prima in Venezuela, poi in Zaire, poi per qualche mese in Iran quando c’era ancora lo Shah, nel ‘75, dove dove-vano costruire un grosso centro side-rurgico, aeroporto, lavori che avreb-bero coinvolto centinaia di migliaia di persone. Non se ne fece più nulla perché mandarono via lo Shah e venne Khomeini. Ritornai in Italia e rimasi per qualche anno all’accia-ieria. Poi quando il nostro impianto venne tolto da mezzo, e mi manda-rono a fare il capo del pontile-sud, dove chiusi la carriera nell’84.All’estero ho avuto molte soddisfa-zioni, come tecnico della laminazio-ne. Feci uno stage con una ventina di ragazzi dello Zaire da Kinshasa, con cui sono stato due anni in Italia seguendo il loro addestramento in giro per gli stabilimenti del paese, da Taranto, Genova, passando per Cor-nigliano, Piombino. E poi andammo a lavorare insieme. Facemmo una buona figura, perché i ragazzi fecero un tirocinio molto valido. (...)Noi di Bagnoli, siamo stati sempre visti come i migliori acciaieri, i mi-gliori laminatori – e in effetti era così. Hanno sempre creduto in noi, come lavoratori. Così come all’este-ro, come quando abbiamo mandato in produzione un reparto a Kinsha-sa, dove fecero un centro siderurgico senza altoforno ma con il forno elet-trico, dove colavano direttamente il ferro. Un ciclo completo, anche se piccolo molto valido e moderno.

I

zairesi non avevano esperienza, ma sono riusciti ad andare in pro-duzione proprio per merito nostro, napoletani a capo del reparto di la-minazione, di colata continua...ab-biamo fatto proprio una bella figura.” Essendo andato in pensione nel 1984 non ha vissuto in prima per-sona il processo di dismissione, che tuttavia “è stata vissuta male, perché non c’è stata continuità. Noi speravamo che potessimo avere continuità con i nostri figli. Prati-camente tutto il lavoro fatto non è servito a niente. Non si è vissuto bene, è stato un periodo molto tra-vagliato. Il processo di dismissione era già stato deciso a monte, c’era già lo scopo di mandarla via piano piano. Di fatti negli ultimi tempi si erano lasciati andare, non c’era più nello stabilimento quella severità, non c’era più controllo. Io che avevo

Ritratti di ex lavoratori del Centro Siderurgico, da sinistra a destra: il sig. Liborio Fusco, classe ‘47, assunto in fabbrica nel 1970; il sig. Vittorio Attanasio, classe ‘43, entrato in fabbrica nel 1970 e oggi presidente del Circolo Ilva; il sig. Salvatore Sannino, classe ‘43, assunto nel 1962, ritratto qui mentre mostra una fotografia della sua esperienza in India.

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Ritratti di ex lavoratori del Centro Siderurgico, da sinistra a destra: il sig. Liborio Fusco, classe ‘47, assunto in fabbrica nel 1970; il sig. Vittorio Attanasio, classe ‘43, entrato in fabbrica nel 1970 e oggi presidente del Circolo Ilva; il sig. Salvatore Sannino, classe ‘43, assunto nel 1962, ritratto qui mentre mostra una fotografia della sua esperienza in India.

l’esperienza dal ‘48, dove veramen-te si stava male. Non c’era severità, c’era poco movimento. Praticamente man mano è finito. (...)Per come stanno adesso le cose, il fu-turo non lo vedo troppo roseo, è tutto da vedere. Sono pessimista in questo senso. Anche perché questi giovani non li vedo lottare come abbiamo lottato noi, che abbiamo fatto con-quiste scendendo in piazza Anche perché non hanno una coscienza politica: noi andavamo in fabbrica e discutevamo di politica; andavamo a mensa, si parlava e avevamo mol-te possibilità di frequentarci e scam-biarci le idee, prepararci. (...) Mia figlia laureata per lavorare è dovuta andare ad Alessandria, in Piemon-te. Qua lavorava due tre mesi all’an-no quando c’era l’estate, alle terme d’Agnano.”

Lo stretto rapporto del territorio con il Centro Siderurgico viene ri-badito dal sig. Liborio Fusco, classe ‘47, entrato in fabbrica nel 1970, il quale chiarisce anche i processi che hanno portato alla chiusura della fabbrica: “questo territorio dal 1900 vive di questo lavoro. Per generazio-ne che si sussegue, nonno, papà, e fi-glio – io – mi sarebbe piaciuto che ci fosse stata una quarta generazione, ma questo non è stato possibile. An-che se noi pensavamo di aver messo le premesse per una continuità nel tempo, chiaramente con l’evoluzio-ne delle tecnologie. Quando entro (in fabbrica) intorno al ‘70 in quel periodo la classe operaia raggiunge risultati straordinari, oltre allo Sta-tuto dei lavoratori, il raggiungimen-to delle 40 ore settimanali, e quindi tutte le aziende immettono nel loro organico forze nuove perché ci vo-

gliono quattro squadre e tre turni. Quindi c’è un grosso accesso di forza lavoro giovanile. Siamo 1000 uni-tà che entrano nel ‘70, poi il grosso entra nel ‘72 e ‘73. (...) Il processo di produzione ha fatto sì che ci fos-se un organico a quei tempi abba-stanza spinto: noi eravamo 8026 nel ‘78-’80, però legati a tecnologie che non rispondevano più ai mercati e alla qualità dei prodotti. Tenendo presente che noi avevano acciaieria e altoforni ancora all’avanguardia, così come la cokeria, c’era però il grosso problema della laminazione e del collaggio, che erano ancora le-gati a un vecchio sistema. Questo ci mette in grossa difficoltà perché non riusciamo ad avere utili, a cospetto delle altre siderurgie europee ma non solo, delle siderurgie americana e giapponese. Quindi per un ragio-namento di sopravvivenza, o bevi o

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affoghi. Noi abbiamo preferito bere, ma a prezzo di lotte perché questo paese, e governo, facesse sì che la fabbrica si salvasse. Quindi grosse dispute per salvare Bagnoli. Siamo nel ‘78, entra in gioco la siderur-gia di Bagnoli in modo particola-re: questo ci permette di ottenere la progettualità e i finanziamenti per una riconversione industriale che ha inizio a fine ‘81 come realizza-zione di una nuova progettazione, la laminazione in particolare e poi la trasformazione diretta dall’ac-ciaio liquido a quello solido per la laminazione. Ripartiamo con que-sta tecnologia all’avanguardia (il 18 aprile 1984 viene inaugurato il Treno Nastri). In precedenza, per un impianto a colata continua in acciaieria ci era costata molto, in termini di scioperi, conflitti con il sistema, una ripartenza che non è paragonabile a quella dell’84. Come sistema di vita, sociale e professio-nale, c’era un continuo scambio di conoscenze. La curva di avviamen-

to era di 18 mesi; l’accellerazione è stata stupenda, il mix di produzio-ne è stato raggiunto dopo 35 gior-ni, grazie anche alla conoscenza di persone come Giuseppe Hoffmann (alla laminazione) e Vittorio Atta-nasio (alla cokeria). Anche stimo-late a dimostrare che lo sforzo fatto era premiabile per i risultati che poi abbiamo dato. Però, già dagli anni Settanta, gli imprenditori stavano pensando di trasferire la siderurgia alle bocche delle miniere e la side-rurgia di base nei paesi emergenti – India, Cina, a cui abbiamo ven-duto pezzi della nostra siderurgia, Indocina, e in misura minore Afri-ca e Golfo Persico – mentre quella ad alta tecnologia sarebbe rimasta dominio del Regno Unito, Giappo-ne, Stati Uniti e Russia. Per quanto riguarda noi, in virtù dei mercati e dei mercati alternativi all’acciaio, ha fatto sì che la siderurgia europea man mano, pure perché è stata com-pletata la ricostruzione post-bellica, andasse profondamente in crisi. E

quindi si stabilisce di incominciare a ridurre la produzione di acciaio. A noi ci riducono a 1 milione di ton-nellate all’anno, ai minimi termini, e alla fine arriva anche la chiusura secondo il ragionamento che viene definito “la razionalizzazione della siderurgia europea”. Il governo ita-liano stabilisce che il milione di ton-nellate va tolto da Bagnoli, e quindi c’è la chiusura della fabbrica. Viene votata nell’87 la legge sul riasset-to della siderurgia nazionale, a cui non davamo granché importanza perché pensavamo che questo baci-no industriale era la fonte di vita per una parte dell’economia della città. Anche in questa fase abbiamo scal-pitato, arrivando anche a Bruxelles per protestare, ma gli accordi vanno rispettati. E quindi inconsciamen-te, ma con la drammaticità dentro di noi, man mano che arriva la fine dell’89 ci si rende conto che chiudere questa attività produttiva significa-va la desertificazione del territorio.”Il signor Fusco fu tra le maestran-

Un capannone della Cementir, all’incrocio tra via Coroglio e via Cattolica.

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ze che parteciparono allo smantel-lamento del Centro Siderurgico. “Quando si progettò lo smantella-mento della fabbrica , eravamo 601 esuberi che entrano nel 1996. Già c’era un po’ di personale all’inter-no che dovevano vendere in Asia e Indocina. La cosa era organizzata in modo che l’80% delle commesse andassero su bandi di gare interna-zionali, mentre meno del 20% alle maestranze in esubero. Si è verifi-cato l’inverso. Le maestranze hanno fatto l’80%, mentre gli esterni meno del 20%: materiali inquinanti, oli cancerogeni, terminamento delle strutture. Le commesse andarono alle maestranze in virtù del bagaglio professionale che avevano accumu-lato. La fabbrica l’abbiamo messa a terra noi. La cosa più pericolosa di tutte le attività produttive sono i tassometri, perché ci vuole una cau-tela particolare. Questa cosa viene detta raramente. Tu senti che in quasi tutte le attività produttive ci sono morti e in questa fabbrica nes-

suno ne è uscito con i piedi avanti – solo un operaio cinese è morto per la trascuratezza delle imbracature dei carichi.”

Quello che traspare è il sentimento che tutti gli sforzi che sono stati fat-ti dalla fine degli anni Settanta per tutti gli anni Ottanta al fine di salva-re il Centro Siderurgico dalla chiu-sura siano stati vani, anche a fronte di uno spesso doloroso percorso di contestazione - non per man-tenere uno status quo refrattario ad ogni cambiamento, quanto per cercare di mantenere il passo con l’evolversi delle tecnologie e man-tenere la qualità dei prodotti, come mostrato dall’ingente investimento per dotare il complesso di un treno nastri all’avanguardia (fondamen-tale nel processo di laminazione, per trasformare l’acciaio grezzo in prodotto finito). Il sig. Salvatore Sannino, classe ‘43, entrato in fab-brica a 18 anni nel 1962, fece parte delle maestranze che installarono

il TNA 56: “E’ durato solo 6 anni quel treno, l’avanguardia della side-rurgia napoletana. E invece l’hanno buttato fuori. (...) Con questa chiu-sura della fabbrica, ho quattro figli emigrati al Nord, tutti a Bergamo. È una frattura molto grave, perché se questa fabbrica fosse stata man-tenuta bene, loro sarebbero rimasti qua, li avrei tenuti qua. Tutto quello che abbiamo fatto...quelli hanno fat-to una sorta di lavaggio del cervello sulla chiusura della fabbrica, senza ci fosse un urto. Man mano, ma non siamo stati sciocchi, sapevano della chiusura. Perché ogni anno diceva-no che i prodotti non erano all’altez-za, il costo dei minerali, e l’acciaio. Questo è stato l’urto. Per non ver-gognarmi, ho pianto quando è suc-cesso il fatto. Mi viene la pelle d’oca. (...) Sono entrato molto presto, che non avevo neanche diciotto anni, vedendo tutti quei nuovi giovani operai. All’epoca la tecnologia era molto indietro. Quando abbiamo messo il TNA io pensavo che quest’e-

L’Altiforno n.4, il carroponte Moxey e la ciminiera AGL, visti dai cancelli di Porta del Parco su via Bagnoli.

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sperienza mi avrebbe portato salu-te e denaro, mentre invece ho perso soltanto salute. Perché col treno era tutto manuale, con il treno nuovo bisognava premere un pulsantino. Non hanno mai pensato alla ricon-versione industriale. Io l’ho sempre detto: io non sono nato siderurgico, posso fare anche le bottiglie di pla-stica. Mica devo morire siderurgico? Se questo prodotto non va bene, se c’è concorrenza, i costi troppo alti: facciamo un altra cosa. Invece ci hanno buttato allo sbaraglio.”

Il sig. Vittorio Attanasio, classe ‘43, assunto nel 1970, impiegato alla cokeria, e oggi presidente del Cir-colo Ilva ricorda come “per la gente del posto, Bagnoli, Fuorigrotta, Poz-zuoli e dintorni (il Centro Siderur-gico) era l’aspirazione massima: il giovane si realizzava ancor prima che nella scuola con l’assunzione in questo ‘cantiere’ così come era chia-mato. (...) Poi c’è stata la rivoluzione lavorativa del ‘68 e lo Statuto dei La-voratori, in cui abbiamo iniziato ad alzare la voce anche e infatti ci sia-mo riusciti, ma è durata poco. Dal ‘70 in poi già si avvertiva questa cri-si della siderurgia. Di fatti venne De Michelis (ministro delle Partecipa-zioni che visitò il Centro Siderur-gico il 3 novembre 1981) che disse che lo stabilimento doveva chiude-re (annunciò infatti la fermata del complesso, la cassa integrazione e perplessità di un ritorno alla pro-duzione dovute al fatto che le cifre della siderurgia sono disastrose in tutto il mondo e la crisi, anche se in ritardo, è arrivata in Italia, per cui non si possono intravedere del-le soluzioni, neanche a scadenza media. Al Ministro, le maestranze, profondamente scosse per quanto appreso, indirizzano fischi e insul-ti. nda), L’hanno chiuso per ristrut-turarlo, hanno fatto un treno nuovo

e siamo diventati degli specialisti. Allora c’era la CECA che stabiliva le quote per ogni azienda e nello speci-fico dell’Italia hanno preso una Fer-rari e l’hanno costretta a marciare a 80 all’ora. Ma quella Ferrari, che marci a 80 o a 300 all’ora, comun-que ha bisogno del pilota di cambi alle gomme di ingegneri all’officina e quant’altro. Quindi noi tenevamo tutto questo ma la velocità era ri-dotta. Nella nostra stessa situazio-ne si è trovata Genova, che aveva ampliato il porto e aveva assunto 4600 persone, 3000 giovani lavora-tori dalla città e 1600 esuberi della siderurgia. A noi invece cos’hanno fatto? A me che avevo cinquant’anni mi hanno mandato a casa mentre il ragazzo di 35 anni l’hanno preso e l’hanno mandato o all’industria dei telefoni o nell’industria aeronauti-ca e sono andati a tagliare il posto a tuo figlio, a mio figlio, a suo figlio e a suo nipote. Poi abbiamo avuto un’altra sfortuna per quanto riguar-da la nostra città perché finché sia-mo stati amministrati da uomini di sinistra sia alla regione che al comu-ne, si è sentita la voce di Napoli. Poi con l’avvento di Berlusconi abbiamo perso la Regione e abbiamo perso il Comune e tutto quello che era stato fatto in prospettiva per dare lavoro ai giovani non c’è stato più. Oggi non c’è più niente. La chiusura del-la fabbrica è stata come se qualcu-no venisse a casa tua, si prende un pezzo della tua storia e se la porta perché quello non ha bussato nem-meno - perché se avesse bussato noi la porta non l’avremmo aperta. Hanno fatto come diceva Salvatore. Non è che noi la mattina siamo ve-nuti e abbiamo la porta chiusa, non si entra più è finita. Succedeva la rivoluzione. (...) Man mano hanno sfaldato questo fronte di forza che noi eravamo. Siamo stati capaci di controbattere le Brigate Rosse, du-

rante gli anni di piombo. Adesso ci è rimasta solamente la Storia.”

Oggi - Mentre i lavori per lo sman-tellamento e la bonifica dell’area di Bagnoli da parte della “Bagnoli s.p.a.” proseguono, viene approvato nel 1998 in Consiglio Comunale la Variante Occidentale al Piano Re-golatore Generale del 1972. La re-lazione allegata recita testualmen-te: “per l’ambito di Coroglio il piano mira alla costituzione di un insedia-mento a bassa densità dotato di for-ti qualità ambientali in cui gli spazi aperti, attrezzati e non, prevalgono nettamente su quelli coperti da co-struzioni. Le numerose consulta-zioni effettuate hanno confermato le scelte avanzate con la proposta di variante che sono: un grande parco pubblico, una rete di attività produttive, a partire da quelle con-nesse con la ricerca scientifica, un sistema congressuale e alberghiero con i relativi servizi: uno stock di alloggi privati e pubblici finalizzati a ridurre il disagio abitativo nell’a-rea e a realizzare una più misurata combinazione di funzioni e, ovvia-mente, un complesso di servizi de-stinato a soddisfare anche una parte del fabbisogno arretrato dei quar-tieri limitrofi.” Al fine di velocizzare i lavori finora andati a rilento da parte di “Bagnoli s.p.a”, il 27 di-cembre 2001 il comune di Napoli acquisisce le aree ex ILVA e Eternit, dalla “Cimi-montubi S.p.A.” e dalla “Mededil S.p.A.” che poi conferirà a “BagnoliFutura S.p.A”, Società di Trasformazione Urbana che avrà il compito di completare la boni-fica dell’area occidentale e avviare la riqualificazione produttiva del territori. Contemporaneamente i ‘caschi gialli’ prima impiegati a Ba-gnoli s.p.a. vengono riassorbiti nel-la nuova società.

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Da allora, a parte la riapertura del Pontile Nord a dicembre 2005, per la STU non vi sono che progetti, nella migliore delle ipotesi con un tenue riscontro con la realtà. Fa-cendo un confronto con la mappa alla pagina a fianco e la situazione attuale, si può sostenere che non sia stato fatto nulla nei dodici anni in cui la società è stata attiva. Se si esclude il caso di Città della Scien-za, che comunque è stata una cre-azione indipendente.

Questa situazione statica viene spiegata dal sig. Fusco così: “il tem-po passa, i soldi si spendono, i bilan-ci sono sempre negativi, non vendi

i suoli e non fai pareggio. La vendi-ta dei suoli non si è avuta perché è passato troppo tempo. Più persone hanno realizzato cooperative sul territorio per partecipare alla lot-tizzazione, per realizzare il piano urbanistico. Io, come molte perso-ne della fabbrica come me hanno partecipato a queste cooperative, pensando ai nostri figli, pensando che col tempo i primi lotti venissero messi al bando, iniziando una ri-nascita. Un lotto solo è stato messo al bando – 35000mq – ma nessuno si è avvicinato perché non c’era la certezza dell’edificazione. Perché se il ministero non certifica che si può edificare, il suolo non potrà essere

utilizzato.”Un esempio lampante di questo problema è l’Acquario tematico delle tartarughe marine, realizzato in mezzo alla ‘zona di esclusione’ dell’area dismessa e per questo è impossibile accedervi, non essen-do strade. Inoltre è inutilizzabile perché non è allacciato alla rete idrica e elettrica, oltre alla mancan-za di autorizzazioni ministeriali. La situazione si complica consideran-do che oltre ad essere un acquario, il complesso doveva fungere anche da ricovero per le Caretta-Caretta, dopo essere state curate presso la Stazione Zoologica alla Villa Co-munale. Per l’istituzione scientifica

I vari progetti accumulatisi nel tempo.

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doveva essere un supporto logisti-co fondamentale (ad oggi, il Turtle Point si trova a via Enrico Cocchia, poco lontano).

La Porta del Parco, pensata come ingresso monumentale al nuo-vo Parco Urbano, commissionata all’architetto Silvio D’Ascia e inau-gurata per ben due volte, nel 2010 e nel 2012 dagli ultimi due sinda-ci di Napoli, ha avuto un destino migliore del Turtle Point, essendo inserita nel contesto urbano circo-stante, ma non tanto migliore da divenire parte integrante della vita cittadina, chiusa da cancelli. All’altro capo dell’area, su via Cat-tolica, ai piedi della collina di Posil-lipo, marcisce il Parco dello Sport, che nelle intenzioni doveva dive-nire uno dei punti di riferimento nell’area per lo sport, con la sua

configurazione a crateri, a model-lo della configurazione dei Campi Flegrei, in cui trovano posto i più diversi generi di sport, una zona per il camping e la pista ciclabile di venti chilometri, designata come punto di partenza ideale del siste-ma introdotto da De Magistris. La realizzazione del complesso si è fermata nel 2010, con l’avviso di BagnoliFutura che lamentava l’in-terruzione dei finanziamenti da parte della Regione (decisa dalla Giunta Caldoro) a uno stadio tut-tavia in cui i campi sarebbero uti-lizzabili, ma che non sono ancora ‘rifiniti’.

Lasciate in questo stato, queste pri-me strutture realizzate non hanno subito solo un degrado dovuto agli agenti atmosferici: nel 2014, pur essendo tutta l’area sottoposta a se-questro nell’ambito delle indagini

per accertare il disastro ambientale operato nella bonifica di Bagno-li, sono stati registrati diversi raid vandalici, i quali sfruttando le de-bolezze nel sistema di sorveglianza e la vastità dell’area da controllare, hanno colpito l’acquario tematico e il Parco dello Sport, facendo razzia di rame e attrezzature, aggravando una situazione già di per sé preca-ria.

Precaria perché la stessa Bagnoli-Futura è stata lasciata operare su basi traballanti, sia dal punto di vi-sta amministrativo che quello poli-tico. Come la già citata interruzio-ne dei finanziamenti operato dalla Giunta Caldoro, che sentì il biso-gno all’inizio del suo mandato nel 2010 di annullare tutte le nomine e consulenze avviate negli ultimi giorni del governo Bassolino, re-vocando così la nomina Francesco

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Cellini come curatore del progetto del Parco Urbano e che di fatto fece arenare la costruzione del Parco dello Sport. Ma anche l’acquisto da parte dell’amministrazione Iervoli-no dei terreni dell’ex Centro Side-rurgico e Eternit. Le aziende coin-volte, la “Cimi-montubi S.p.A.” e la “Mededil S.p.A.”, confluirono nella Fintecna (il soggetto in cui confluì l’IRI in liquidazione nel 2002), che assunse così un credito nei confron-ti dell’amministrazione comunale, mai completamente soddisfatto e che per questo non fece che peg-giorare le condizioni di BagnoliFu-tura, travolta sia dalle inchieste del 2013 sulla bonifica dei terreni solo “virtualmente effettuata” che dalle tre fallite aste pubbliche di terreni bonificati, culminando nel 2014 nella dichiarazione di fallimento e la situazione di stallo che vediamo oggi, con l’incessante dibattito sul-

la nomina di un commissario che nelle intenzioni dovrebbe risolvere questa situazione.

A più di vent’anni dall’inizio dalla dismissione e l’inizio dei progetti di conversione, la piana di Coro-glio rimane una sorta di Ground Zero nel tessuto urbano cittadi-no. Oggi, camminando per quelle strade desolate, è difficile imma-ginare che oltre quelle mura, den-tro quegli scheletri di cemento ed acciaio, si fosse sviluppato in un arco di tempo che grossomodo ricalca quello del “Secolo Breve” teorizzato da Eric Hobsbawn un movimento di persone e idee che, pur nelle sue criticità, rispecchiava così fedelmente i valori espressi nel primo articolo della Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro. Un lavoro che nobilita l’uomo e lo rende libero di esprimere la pro-

pria personalità.

Una libertà che oggi non si può dire più conquista consolidata, per quelle persone che hanno vissuto con maggiore intensità la dismis-sione della fabbrica e il fallimento della sua riconversione. Creando forse le premesse per cui venne avvertita la necessità di costruire “o’ cantiere” in primo luogo, più di cento anni fa. ◆

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