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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO Anno LXIV n. 3 Luglio-Settembre 2018

Anno LXIV n. 3 Luglio-Settembre 2018 · PALAZZO FERRAJOLI di Antonio Ferrajoli Palazzo Ferrajoli era una torre di avvistamento. Nel 1471 fu trasformata in palazzo dagli an-tenati

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TRIMESTRALE DI ARTE, SCIENZA E CULTURA FONDATO DA SALVATORE LOSCHIAVO

Anno LXIV n. 3 Luglio-Settembre 2018

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IN QUESTO NUMERO:

Editoriale, Cultura “a costo zero” p. 3

Premio in casa-Rievocatore p. 4

E. Notarbartolo, Lucullo: papiri, pescie percoche p. 5

A. Ferrajoli, Palazzo Ferrajoli p. 6

A. La Gala, L’aeroporto che nacqueprima degli aerei p. 7

M. Piscopo, Pentamerone vomerese p. 10

Y. Carbonaro, Enzo Spada p. 11

G. Belmonte, La Chiesa napoletana nel XVIII secolo.1 p. 14

O. Dente Gattola, Il Conservatorio diSan Pietro a Maiella p. 18

P. Carzana, Leopardi, la luna e lestelle.2 p. 19

L. Alviggi, Attualità di Karl Marx p. 24

E. Barletta, Da Garibaldi al TeatroMargherita p. 28

S. Zazzera,La “Santa Gorizia” diVittorio Locchi p. 32

A. Grieco, Una luce nel buio p. 36

F. Ferrajoli, “Giustizia ed onore” peruna dolce creatura” p. 39

F. Lista, Edoardo Vittoria p. 41

C. Zazzera, Il bilancio di sostenibilità.1 p. 44

G. Mendozza, San Vincenzo Ferrer eSant’Antonio Abate p. 48

Papa Francesco, La Verità vi faràliberi (Gv. 8,32) p. 53

Libri & libri p. 57

La posta dei lettori p. 60

UN PO’ DI STORIA

Alla metà del ventesimo secolo Napoli anno-verava due periodici dedicati a temi di storiamunicipale: l’Archivio storico per le provincenapoletane, fondato nel 1876 dalla Deputa-zione (poi divenuta Società) napoletana distoria patria, e la Napoli nobilissima, fondatanel 1892 dal gruppo di studiosi che gravitavaintorno alla personalità di Benedetto Croce eripresa, una prima volta, nel 1920 da Giu-seppe Ceci e Aldo De Rinaldis e, una secondavolta, nel 1961 da Roberto Pane e, poi, daRaffaele Mormone.In entrambi i casi si trattava di riviste redatteda “addetti ai lavori”, per cui Salvatore Lo-schiavo, bibliotecario della Società napole-tana di storia patria, avvertì l’esigenza diquanti esercitavano il “mestiere”, piuttostoche la professione, di storico, di poter disporredi uno strumento di comunicazione dei risul-tati dei loro studi e delle loro ricerche. Nacquecosì Il Rievocatore, il cui primo numero dataal gennaio 1950, che godé nel tempo dellacollaborazione di figure di primo piano delpanorama culturale napoletano, fra le qualimons. Giovan Battista Alfano, Raimondo An-necchino, p. Antonio Bellucci d.O., GinoDoria, Ferdinando Ferrajoli, Amedeo Maiuri,Carlo Nazzaro, Alfredo Parente.Alla scomparsa di Loschiavo, la pubblica-zione è proseguita dal 1985 con la direzionedi Antonio Ferrajoli, coadiuvato dal com-pianto Andrea Arpaja, fino al 13 dicembre2013, quando, con una cerimonia svoltasi alCircolo Artistico Politecnico, la testata è statatrasmessa a Sergio Zazzera.

Ricordiamo ai nostri lettori che inumeri della serie online di que-sto periodico, finora pubblicati,possono essere consultati e scari-cati liberamente dall’archivio delsito: www.ilrievocatore.it.

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Editoriale

CULTURA “A COSTO ZERO”

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Nell’antichità classica, in Grecia come a Roma, il pubblico era ammesso ad assistereagli spettacoli teatrali, a quelli circensi e alle competizioni sportive, a titolo assolu-

tamente gratuito: di solito, a sostenere le spesenecessarie era qualche anfitrione, che se le sob-barcava per farsi propaganda, magari ancheprofessionale, ma principalmente politica.Come che fosse, in favore del popolo la culturaera diffusa “a costo zero”.Al giorno d’oggi, viceversa, la cultura ha un suocosto: che si tratti di libri, di periodici, di spet-tacoli, perfino di alcuni siti Internet, per po-tervi accedere è necessario porre mano alla tasca. Non così, però, per quanto ci riguarda.Diciamo questo, infatti, perché da più parti ci è stata posta la domanda circa le modalitàper stipulare l’abbonamento a Il Rievocatore. La risposta, che ciascuno degl’interrogantiha ricevuto in maniera individuale, la ripetiamo qui in maniera collettiva: è sufficiente in-viare il proprio indirizzo di posta elettronica al contatto della rivista ([email protected]), accessibile anche dal sito Internet. In occasione di ciascuna uscita (trimestrale),si riceverà un messaggio, contenente il link di accesso al numero corrente, senza spesaalcuna (quelli usciti finora sono presenti e consultabili nell’archivio del sito stesso). Ciascun lettore, poi, ci farà cosa particolarmente gradita, se farà circolare quel link tra ipropri amici: contribuirà, così, a una maggiore diffusione del periodico, ovvero all’am-pliamento della “famiglia” de Il Rievocatore. Del che non potremo, che essergli infinita-mente grati.

Il Rievocatore© Riproduzione riservata

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Teatro romano di Ostia

È meglio illuminare gli altri, chebrillare solo per sé stessi.

San Tommaso d’Aquino

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PREMIO IN CASA-RIEVOCATORE

Nel corso della serata conclusiva del“Procida Film Festival”, svoltasi aibordi della piscina dell’Hotel “LaSuite” il 23 giugno scorso e con-dotta da Patrizia del Vasco e Fran-cesco Bellofatto, il direttore di

questo periodico, SERGIO ZAZZERA, ha ricevuto il “PremioIsola di Procida 2018”, consistentein una “Graziella” modellata dagliartigiani napoletani di San GregorioArmeno, Giuseppe e Marco Ferri-gno. Il riconoscimento è stato con-segnato al direttore dall’assessorealla Cultura del Comune di Procida, prof. Nico Granito. Nella

motivazione si legge, fra l’altro:«Quale attento osservatore, attra-verso il suo appas-sionato lavoro diricercatore instanca-bile, scopre e tra-

manda nei suoi libri importanti episodi ineditidella vita marinara, contadina e religiosa pro-cidana, episodi che altrimenti sarebbero an-dati dispersi e perduti nell’oblio deltempo». La redazione de Il Rievocatore si complimenta con ilproprio direttore per il riconoscimento che gli è stato tributato.

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LUCULLO: PAPIRI, PESCI E PERCOCHE

di Elio Notarbartolo

Lucio Licinio Lucullo è fa-moso per i suoi banchetti,

che facevano morire di invidia isuoi contemporanei di 70 anniprima di Cristo.Noi lo vogliamo ricordare pertanti altri meriti: specialmenteper i libri che era andato racco-gliendo in Asia, in Grecia e aRoma e che aveva, poi, portato,a Napoli per aprirvi una ricchis-sima biblioteca di papiri, tantoda costringere i suoi contemporanei dell'ultimoperiodo repubblicano a riconoscere Napolicome Docta Parthenope.Questo merito gli è dovuto nel momento che,oggi, Napoli ha espresso la volontà di ridiven-tare una capitale del Libro, dopo il successo delSalone dedicato al libro e organizzato nel con-vento della chiesa di S. Domenico.E a Lucullo dobbiamo il fatto che Napoli fu ilpunto di Europa dove per prima fiorirono ci-liegi e percoche. Dove infatti attecchì la prae-cox, la percoca, se non nei magnifici giardinidi Pizzofalcone?Ancora oggi, la percoca è un monumento dellavita popolare a Napoli, dove, con solennità eallegria, ogni estate viene sposata al vinellofresco.Di lui, dell'importatore raffinato di frutta eso-tica, nessuno si ricorda più.Si ricordano di due cose: che fu un grande con-dottiero (e più di tutti, se ne ricorda il poveroMitridate re del Ponto) e che fu un formidabileimbanditore di banchetti ricchissimi e raffinati.Per Napoli, è stato di più: tra le altre cose,

anche un eccellente urbanista. Alui i Napoletani devono unaparte di via Chiaia; l’altra partela devono ai virulenti torrentiche scendevano dal Vomerodopo i temporali, attraversoquelli che, oggi, sono i gradonidi Chiaia e via S. Caterina daSiena, per riversare la loro acquanella zona portuale che, allora,era l'area dell'attuale palazzoreale e del Maschio Angioino.

Che fece il nostro concittadino? Tagliò la roc-cia di tufo e creò un canale che deviasse l’ac-qua dei torrenti e la collegasse al mare in mododa portare anche l’acqua marina fino alle pi-scine da lui scavate sotto quello che oggi co-nosciamo come Palazzo Cellammare.Qualcuno che legge, si ricorda del cinema Me-tropolitan? Che belle piscinae dovevano es-sere, al tempo dei Romani, quei localisotterranei. Quanti pesci, murene, saraghi eorate si allevarono comodamente lì dentro, conil ricambio di acqua marina che si poteva fa-cilmente fare ogni giorno.Lucullo si costruì due ville a Napoli: il Lucul-lano Maggiore sulla collina di Pizzofalcone, eil Lucullano Minore dove oggi è Castel del-l'Ovo.Docta Parthenope gridò per questo esimioconcittadino e per la sua biblioteca, l’interomondo greco e latino. Docta Parthenope ripe-tiamo noi dopo che i Napoletani hanno volutocelebrare la apertura di un nuovo Salone delLibro a Napoli.

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PALAZZO FERRAJOLI

di Antonio Ferrajoli

Palazzo Ferrajoliera una torre di

avvistamento. Nel1471 fu trasformatain palazzo dagli an-tenati Scotti diTommaso. Monsignore AngeloAntonio Scotti fuArcivescovo di Tes-salonica. Si può ve-dere il suo busto ingesso nell’androne.Il busto è una copiadel busto marmoreoche si trova nel Vescovado di Napoli, opera diTommaso Solari. Monsignor Scotti rese splen-dido il palazzo. Dal suo appartamento, sito alprimo piano, si accedeva alla cappella di fami-glia, ove si trova il Cristo Morto opera del Lan-triceni. Il Conte Benedetto Minichini (un ritratto delquale fu esposto nella mostra realizzata nel2017 nella Congrega dei Turchini) sposò la so-rella di Monsignor Angelo Antonio Scotti. Re-staurò la chiesa e il palazzo spendendo una“cifra blu”. Dopo, cedette la chiesa alla Con-grega dei Turchini per la simbolica cifra di unalira (le chiese per legge non si possono cedere),indi al dono aggiunse una grossa cifra e ancheil quadro di San Tommaso d’Aquino attribuitoal Santafede.Il palazzo chiamasi Ferrajoli perché la nipote

del Conte Benedetto Minichini, Filomena Mi-nichini, sposò l’archeologo Ferdinando Ferra-joli, ricordato dalla seguente epigrafe, dettatadallo storico Domenico Capecelatro di Mor-rone al sindaco Guido Cennamo e apposta sullafacciata dell’edificio:

PROCIDA A RICORDO DIFERDINANDO FERRAJOLIARCHEOLOGO SCRITTORE

CHE ELESSE QUESTA VERDE E FANTASTICA ISOLADAGLI ACCOGLIENTI INVITANTI

E IRRAGGIUNGIBILI PARADISIACI SOGNICOME EGLI AMÒ DEFINIRLAA SUO SOGGIORNO PREFERITOE A SUA SECONDA PATRIA

—.—IL COMUNE DI PROCIDAPOSE IL 9-X-1977.

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Busto di mons. Angelo Antonio Scotti(Procida, androne del Palazzo Ferrajoli)

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L’AEROPORTO CHE NACQUE PRIMA DEGLI AEREI

di Antonio La Gala

Un forestiero* che atterra all’aeroporto napo-letano di Capodichino scopre, con piacere, dipotersi trovare nella città senza dover affron-tare lunghe corse di taxi, di autobus o salire sutreni-navetta. Come mai, l’aeroporto di Capodichino sta inuna così insolita collocazione rispetto allacittà?Come mai l’aeroporto di Capodichino, inoltre,può vantare una storia molto più antica deglialtri scali aerei e, in uncerto senso, ha comin-ciato ad essere un “ae-roporto” quasi unsecolo prima che na-scessero gli aerei, ospi-tando “voli” già ainizio Ottocento?Per rispondere a questedomande è necessarioraccontare, seppure perrapidi cenni, la vicendastorica e urbanistica dell’area della collina diCapodichino su cui l’aeroporto insiste.Cominciamo con l’osservare la configurazioneorografica del territorio interessato.La collina di Capodichino, a cavallo fra i quar-tieri di S. Carlo all’Arena e Secondigliano, è laprosecuzione del sistema collinare pressochécontinuo che circonda Napoli nella sua partesettentrionale.Questa collina è incisa da un vallone, che cometutte le valli, rappresenta un naturale punto disuperamento della barriera di alture.Nel corso dei secoli questo vallone è stato il

passaggio naturale fra i centri a nord di Napolie la città di Napoli, in entrata e in uscita. In particolare, lo sbocco superiore del vallone,l’area dell’attuale piazza Capodichino, già apartire dall’epoca classica romana, è andato ac-quistando un sempre crescente ruolo di croce-via territoriale, da cui si sono diramate aventaglio i collegamenti di Napoli con i più im-portanti centri raggiungibili con i mezzi a di-sposizione nelle successive fasi storiche.

Una situazione del ge-nere nulla dovrebbeavere a che fare con laposizione di un aero-porto, perché, dicen-dolo banalmente, unacosa è muoversi pervia di terra e altra cosaè spostarsi per le viedei cieli. Nel caso diCapodichino la situa-zione favorevole ai

trasporti terrestri, invece, ha determinato la vi-cenda aeroportuale, perché lo scalo aereo na-poletano non è sorto ex novo specificamentecome aeroporto, ma è sorto come “trasforma-zione storica”, in loco, di una preesistente strut-tura, un “Campo di Marte”, un’area peraddestramento militare, che venne ubicato inquel sito, per beneficiare di una grande strada(la “strada del Campo”), costruita ad inizio Ot-tocento proprio per raggiungere Capodichino,considerato il ruolo strategico di quel luogo peri collegamenti per via di terra fra Napoli e ilsuo esterno.

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Esercitazioni militari al Campo di Marte

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Come già detto l’area di Capodichino la tro-viamo come area strategica per l’ingresso incittà già in epoca romana: i Romani vi veni-vano dalla via Appia, diramandosi lungo la ViaAtellana, la grande arteria interna campana cheuniva Capua (quindi Roma), a Napoli. La via s’immetteva nella collina di Capodi-chino nella zona allora ancora non urbanizzatadell’attuale piazza Capodichino e da lì iniziavail suo ultimo tratto, quello che entrava nellacittà, costituito da un’impervia scorciatoia ri-cavata in un vecchio alveo dalla stessa collinadi Capodichino, (la futura Calata Capodichinoche i Romani chiamarono clivus, in latino“pendio”), percorso progressivamente miglio-rato nei secoli, che sarà fino agli inizi dell’Ot-tocento la principale strada di accesso alla cittàda settentrione.La sommità della collina, dove per venire a Na-poli si cominciava a discendere per il clivus,veniva chiamata caput (cioè capo, inizio) dechio, o de clio, de clivo, de clivu, ed espressionisimili, che oggi, dopo una serie di corruzionilinguistiche, sono confluite in “Capodichino”.La costruzione nel 1752 di una nuova strada (ilcui inizio oggi corrisponde a via De Pinedo),per raggiungere la reggia di Caserta allora vo-luta da Carlo III, denominata, appunto, la“Strada Regia per Caserta”, confermò ancorpiù il ruolo di Capodichino come nodo di traf-fico, un punto strategico nel settore dei tra-sporti da e per Napoli.Nel decennio di governo francese (1806-1815)l’intera area della collina di Capodichino subìuna radicale trasformazione e venne a trovarsial centro di un ampio rinnovamento stradale. Infatti i Francesi, che già avevano miglioratola viabilità che partiva da Capodichino versoRoma, volevano conferire al passaggio di Ca-podichino il ruolo d’ingresso principale dellacittà. Per raggiungere più comodamente Capo-dichino, e così collegarsi ai nuovi percorsiverso Roma, Murat creò fra il 1811 e 1814un’alternativa alla tortuosa ed erta Calata, co-struendo un’importante e comoda via ex novo,la “strada del Campo” (la successione delle at-tuali via Don Bosco, via del Campo, vialeMaddalena).

La nuova strada era funzionale anche al suoprogramma di proiezione e crescita dell’asfit-tica città verso le periferie e apertura al territo-rio metropolitano circostante.Inoltre Murat individuò nel vasto terreno alloradel tutto periferico situato sul colle di Capodi-chino un’area da destinare a campo militare, il“Campo di Marte”. Il Campo di Marte, nei primissimi anni di vita,e mentre si stava ancora costruendo la “stradanuova” per raggiungerlo, fu teatro degli altret-tanti primissimi voli dell’uomo. Anzi, in questocaso, delle donne.Ciò avvenne con il primo mezzo con cui nel1783 l’uomo riuscì ad alzarsi nell’atmosfera,una mongolfiera, un aerostato, un pallone checontiene gas più leggero dell’aria, che può so-stenersi grazie alla spinta, che riceve dall’aria. Il 16 febbraio 1812 la francese Marie SophieBlanchard “decollò” dalla spianata del Campodi Marte di Capodichino, per una manifesta-zione con il suo pallone aerostatico, tra lo stu-pore di migliaia di persone. Questa ascesa lapossiamo considerare un volo “partito” antelitteram da Capodichino. La prima “donna pi-lota” decollava da Capodichino.Ed è probabilmente proprio per ricordare que-sto avvenimento che una delle strade dalle partidello scalo aereo, oggi si chiama via dellaMongolfiera.Andati via i Francesi, i Borbone lasciarono alCampo di Marte la stessa funzione, utilizzan-dolo per addestramenti e manifestazioni mili-tari, limitandosi a ribattezzalo in “Piazzad’Armi”. A cavallo fra Otto e Novecento, gli anni dellabelle époque, i Campi di Marte italiani offri-vano un’ampia spianata alle allora periferiedelle città, in zone all’epoca a scarsa densitàabitativa, spesso utilizzate per le manifesta-zioni sportive per la “bella gente”, fra cui legare ippiche e, all’apparire dei primi marchin-gegni per volare, a teatri di esibizioni dei primitentativi di volo. Agli inizi del Novecento i fratelli Wright inau-gurarono i “voli” umani con aeromobili, veli-voli più pesanti dell’aria. Le ampie spianate dei Campi di Marte, diven-

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nero aerodromi; esseerano il teatro ideale delle“spettacolari” esibizioniche accompagnavano itentativi di volo dei primitraballanti aerei, Lo divenne anche ilCampo di Capodichino,dove, dopo quasi un se-colo dall’apparizionedella mongolfiera diMarie Sophie Blanchard, cominciarono a svo-lacchiare i primi “aereoplani”.Lo scoppio della prima guerra mondiale posefine alle gare sportive e ad attività di aviazionecivile, facendo diventare per alcuni anni l’ae-roporto una base militare in cui si allenavano iprimi piloti dell’aeronautica.L’importanza dell’impiego del nuovo mezzodette una spinta decisiva alla rapida afferma-zione dell’aviazione. Fino al 1918, per come sisvolgevano allora le guerre, Napoli, Capodi-chino e il suo aerodromo, non vennero coin-volti direttamente nel conflitto, essendo ilteatro dei combattimenti geograficamente lontano. Tuttavia si pensò di utilizzare l’aerodromo perle nuove modalità belliche. Ad organizzarel’attività militare a Capodichino fu destinato ilpiemontese Cesare Bertoletti che realizzò dellerudimentali piste, dove si poteva cominciare avolare con velivoli più evoluti; sistemò hangar,officine, raccolse piloti e meccanici; adde-strava al volo piloti. In effetti trasformò l’im-pianto di Capodichino da aerodromo inaeroporto militare, poi potenziato negli ultimimesi del conflitto. L’armistizio provocò la smobilitazione degliapparati militari non più necessari. Sulla pistadi Capodichino, utilizzata sempre meno, co-minciò a ricrescere l’erba. Lo scalo fu retro-cesso ad aeroporto di 2a classe e non vi ebbepiù sede alcun reparto. Nel 1921 fu intitolatoal Sottotenente Ugo Niutta, medaglia d’Orodella prima guerra mondiale. In tutta Italia le infrastrutture d’aviazione vi-vacchiarono fino al 1923, quando, nel climagenerale di entusiasmo verso l’aviazione, fucostituita la Regia Aeronautica come forza ar-

mata autonoma, che tra il1924 e il 1925 prese inconsegna il Campo diMarte di Napoli, ormaidivenuto aeroporto. Nel 1925 fu deciso di co-struire l’Accademia Ae-ronautica nell’impiantodi Capodichino. Fra lemotivazioni della sceltagiocavano a favore della

città di Napoli le condizioni climatiche favo-revoli al volo per buona parte dell’anno e la vi-cinanza dell’Università da cui attingeredocenti. I lavori cominciarono nel 1925 e furono ulti-mati nel 1930, quando però l’Accademia Ae-ronautica si era già sistemata da quattro anninel palazzo reale di Caserta (dove resterà alungo), forse anche per rabbonire l’opinionepubblica casertana, amareggiata dall’allora recenteretrocessione della città da capoluogo di provincia.L’edificio costruito per l’Accademia fu trasfor-mato nella Scuola Sottufficiali, chiamataScuola Specialisti, che vi rimase fino alla se-conda guerra mondiale. Ciò che resta dell’edi-ficio dopo le distruzioni belliche fu risistematoa sede del Comando Aeroporto. Nel 1950 iniziarono i lavori per un ulterioreampliamento dell’aeroporto ai fini del trafficocivile, per rispondere alle esigenze sia deinuovi modelli di velivoli che a quelle del-l’apertura di nuove linee aeree commerciali in-ternazionali.Oggi l’aeroporto internazionale di Capodi-chino, progressivamente ampliato e moderna-mente attrezzato, è collegato con tutti iprincipali aeroporti d’Europa ed è base dellemaggiori compagnie aeree europee.______________

* Sulle vicende dell’Aeroporto di Capodichino non misembra ci sia una rilevante letteratura; perciò consideromeritoria la recentissima pubblicazione di un libro(Quando Napoli vola, edizioni Guida), che raccogliecontributi sull’argomento redatti da autorevoli persona-lità cittadine che a vario titolo si sono interessati o s’in-teressano dell’aeroporto, e la cui introduzione storica èstata affidata all’autore di questo articolo.

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Piazza Capodichino alla metà del ‘900

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PENTAMERONE VOMERESE

Mai come ai tempi nostri, ilVomero si allontana sem-

pre più, come spirale cosmica,da quello considerato, a ragionveduta, un isolato Eden lontanodal tumulto cittadino.A voler rovistare tra gli innume-revoli scritti, racconti, storie,fatti e personaggi, ci si perdenelle descrizioni, nei rimpiantidi questo paradiso perduto, portano in tempilontani, narrati alle attuali generazioni con i re-lativi rammarichi, appaiono colmi di delizie edi pace, ma ahimè, chissà se ciò può esser vero;il passato sembra migliore del vissuto pre-sente, come asserito, tra l’altro, in una obiettivadisamina, da un razionale studioso, i tiempebelle ‘e na vota, forse non erano poi così belli,per innumerevoli ragioni, la misera esistenzadei più, dagli stenti alle malattie quando iltempo pone la pietosa facoltà dell’oblio.Tuttavia, superando vari contesti storici, la col-lina appariva in idilliaca atmosfera di umori,tanto da impegnare pensieri e scritti di autore-voli studiosi del passato, con egloghe e rac-conti, dal Pontano al Summonte, e doveGiovan Battista Basile ha immortalato nei rac-conti, nel suo “Decamerone” napoletano, vi-cissitudini di coloriti personaggi, dove, spesso,la bonarietà villeresca lambiva l’ingenuità e ladabbenaggine carpita dai signorotti agli inge-nui malcapitati villici.Nel contesto generale del Pentamerone, overolo Cunto de li Cunte, trattenimento de li picce-rille, corposa opera, comprensiva di cinquantanovelle, il Basile narra, nel tempo di cinque

giornate, trasposizioni popolaridi fatti ed antefatti; e, insiemead altre numerose opere, egli hatrasmesso cunti e favole tra-mandati nel corso dei secoli, ar-gomenti di narrativa perfocolari umili e deschi principe-schi, dalla piacevole memoria,particolarmente per l’infanzia.Lo Cunto de li Cunti, scritto nel

1627 e reso pubblico nel 1637, con successiveristampe, durante il vicereame spagnolo, ha po-larizzato l’attenzione di corti e cattedre, specieper i sottintesi morali che ha significato.Fra tesi, fatti ed avvenimenti riguardanti i di-versi strati sociali dell’epoca, in stridenti con-trasti, sono comprese anche citazioni dellacollina vomerese e dei suoi bucolici abitanti,prevalentemente agricoli, dalle ubertose colti-vazioni.Il trattenimento di una di queste giornate, laterza, dal titolo Lo scarafone, lo sorice e logrillo, narra la semplicioneria dello sprovve-duto giovane, il cui padre, agiato agricoltoredel colle, lo incarica di alcuni acquisti in città,maldestramente scambiati con diversi tipi dimerci, nel susseguirsi di passaggi dalla ingenuacredulità, fino al nocciolo morale del raccontodall’immancabile lieto fine, grazie al regnanteche, dapprima scettico verso Nardiello, umilecontadino, si convince, infine, ad approvarneil matrimonio con sua figlia – il classico «vis-sero felici e contenti» –, nel magico solitarioVomero del tempo, col beneaugurante auspiciodi un sereno avvenire.

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di Mimmo Piscopo

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Enzo Spada è un anziano architetto di 86anni con alle spalle una lunga serie di

esperienze professionali di grande interesse so-prattutto nell’ambito della ricerca di traccedella storia. Ascoltare il racconto affascinantedi alcuni suoi avventurosi rinvenimenti signi-fica fare un balzo al-l’indietro in unpassato prossimo diquasi sessanta anni faall’epoca della indivi-duazione e quindi delritrovamento più sin-golare e importantedella sua vita: lasalma del filosofoGiambattista Vico.Spada, provenendoda una famiglia reli-giosa e con due ziigesuiti, ha compiuto gli studi superiori pressol’istituto Pontano. Per esigenze di carattereeconomico si è dedicato per un lungo periodoal lavoro ma verso i trent’anni è finalmente riu-scito ad iscriversi alla Facoltà di Architettura ea laurearsi con la tesi su Intervento urbanisticoai margini del Centro Antico: Piazza Dantecon i professori Roberto Pane e Roberto di Ste-fano. Appassionato di archeologia e speleolo-gia, compie numerose ricerche con il gruppodel Centro Speleologico Meridionale (CSM),con cui svolge molteplici esplorazioni nel sot-

tosuolo di Napoli.Il CSM, per un breve periodo, si appoggia inalcuni locali del Complesso dei Girolaminigrazie a suo fratello Francesco Spada, alloraPreposto del Convento. Dopo la morte, a Francesco Spada (1923-

2016), padre seco-lare, Priore dei PadriFilippini nel Com-plesso dei Girolaminidi Napoli per diversianni e poi missiona-rio in Libia e in Ma-dagascar (dove èsepolto), il direttoredel Centro Missiona-rio Diocesano, padreModestino Bravac-cino, ha dedicato unlibro, Una vita per i

poveri, composto di una raccolta di sue rifles-sioni e notizie della sua vita.Va ricordato anche che il nome “Girolamini”si riferisce agli Oratoriani o Filippini, ordinefondato da san Filippo Neri. Questo nome de-riva dalla chiesa di San Girolamo della Caritàa Roma da cui giunsero a Napoli nel 1586. Grazie dunque al fratello Priore filippino, il no-stro architetto, allora studente, ebbe la possibi-lità di eseguire numerose ed importantiricerche archeologiche nell’area del complessodei Girolamini da lui verbalizzate e comunicate

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ENZO SPADA:COME RITROVAI LA SALMA DI GIAMBATTISTA VICO

UNA VICENDA A PUNTATE

di Yvonne Carbonaro

Anno LXIV n. 3

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a chi di dovere.È a seguito della lettura di antiche miscellaneecustodite nella ricca biblioteca che è incomin-ciata la sua ricerca del corpo del filosofo chesi sapeva essere custodito tra quelle mura. Ab-biamo raccolto dalla sua viva voce e trascrittola memoria di quei fatti:«Negli anni sessanta all’epoca in cui eroiscritto alla Facoltà di Architettura di Napoli,mio fratello Francesco era Padre Superiore delConvento dei Padri Filippini ai Girolamini.Egli aveva fondato insieme a Padre Borrelli laCasa dello Scugnizzo e in quella sede cercavauno spazio, almeno provvisorio, per loro. Al-lora non c’era ancorala Casa che fu realiz-zata anni dopo. Amante della ricercae stimolato dallagrande quantità di re-perti e opere d’arte ditanti secoli custoditein quel luogo, conl’autorizzazione dimio fratello Priore,mi diedi a studiare e aricercare con pas-sione in quella mi-niera inesauribile diarcheologia, architet-tura, pittura, scultura… e ritrovai un trattodell’Acquedotto Claudio che ho esplorato e di-segnato insieme al gruppo del CSM che avevochiamato a mio sostegno e a cui mio fratelloassegnò una stanza di lavoro. Successivamente ho scoperto molte altre traccedi epoca romana tra cui l’ingresso di un tempio(così fu determinato dalla Sovrintendenza).Nella stratificazione successiva, scavando e ri-muovendo metri e metri cubi di terra, ho rin-venuto ruderi di antiche chiesette abbattute perfar posto alla grande chiesa poi lì edificata. Leho tutte fotografate, catalogate, registrate e hoconsegnato i risultati del mio lavoro alla So-vrintendenza.Il vecchio ex-Priore, Padre Bellucci, esimiostudioso Curatore della Biblioteca dei Girola-mini, era molto geloso dei luoghi in cui aveva

lavorato a lungo come esperto di archeologiasacra e non vedeva di buon occhio la presenzadi estranei in quello che considerava il suoregno e tantomeno tollerava che altri se ne oc-cupassero. Per rispetto a lui che protestava vi-vamente, mio fratello che era più giovane,sebbene fosse il Priore in carica, pensò oppor-tuno interrompere le ricerche. Ci dedicammo dunque a realizzare macchineda festa e strutture per le festività religiose ecosì allestii dei “Sepolcri” particolari, fra glialtri un baldacchino come quello del Bernini,presepi e tante altre cose funzionali alle variecerimonie. Ma, principalmente, fu ricostituito

l’“Oratorio Secolare”che coinvolse ilmondo artistico me-tropolitano con mo-stre, rassegne,conferenze, dibattiti.I Padri della Biblio-teca che mi eranoamici intanto mi rac-contavano notiziesulla storia e sui per-sonaggi che eranopassati per quel luogoe mi indicavano libriantichi da leggere.Così appresi che

Giambattista Vico nel 1668 era stato sepolto lì,ma poiché la tomba con tanto di lapide a lui de-dicata era vuota, seguendo le tracce delle mieletture, mi diedi alla ricerca delle “spoglie per-dute” per tutta la chiesa. Esplorai dovunque,mi calai nelle varie botole, finché in una diqueste, a circa tre metri di profondità trovai unasalma ricoperta da un saio francescano. Ne de-dussi che si trattava proprio del corpo di Vicodato che le cronache che avevo letto racconta-vano che egli aveva chiesto di essere sepoltovestito appunto di un saio.Vico negli ultimi anni della sua vita, trovandosiin difficoltà economiche e con una numerosafamiglia alle spalle, era stato molto aiutato daiPadri che gli erano legati e grati per aver loroconsigliato l’acquisto della preziosa CollezioneValletta a cui aveva donato le prime edizioni di

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La deposizione dei fiori nel chiostro

Anno LXIV n. 3

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tutte le sue opere. Al filosofo, che assidua-mente la frequentava, è dedicata oggi la sala“Giambattista Vico”.Negli ultimi tempi, infine, sofferente nello spi-rito e nella mente, sembra sia stato amorevol-mente ospitato addirittura all’interno delConvento condividendo quotidianamente lavita dei frati e partecipando alle funzioni comeuno di loro.In quanto alla mia scoperta, mio fratello, sem-pre in ossequio a Padre Bellucci, volle che peril momento non ne parlassi con nessuno. Nonessendoci all’epoca mezzi tecnologici di rapidouso come il cellulare per fotografare e filmare,io non potei allora realizzare alcuna documen-tazione concreta. Il progetto era quello di foto-grafare il tutto con calma successivamente. Poilui scelse di seguire la sua vocazione di mis-sionario, lasciò i Girolamini e se ne partì perl’Africa. La cosa si fermò lì nei miei ricordi».

* * *Ed ecco la seconda puntata della vicenda a di-stanza di cinquanta anni nel 2011.«Nel 2011 uno dei miei figli mi fece sapere chesecondo i giornali si stava cercando la tombadi Giambattista Vico. I Padri e dei tecnici spe-cializzati e dotati di moderne apparecchiaturedi ricerca stavano sondando invano la zona do-v’era la tomba vuota. Mi presentai all’alloraPadre Superiore Sandro Marsano come fratellodel già Priore Spada (da lui e da tutti molto co-nosciuto e stimato), dichiarando di essere ab-bastanza convinto di conoscere il luogo dellasepoltura di Vico avendola trovata cinquan-t’anni addietro. Fu organizzata dunque unaspedizione di ricerca per il giorno dopo. Il gior-nalista Barbuto che era presente cominciò adintervistarmi già davanti all’entrata lateraledella chiesa. Condussi dunque il gruppo allabotola coperta da una pesante lastra di marmo.Seguendo le mie istruzioni essi scesero lungoi 5-6 scalini (senza di me ormai già abbastanzaavanti negli anni: ne avevo già 80) e giunseroalla zona degli scolatoi. Evidentemente dopodi me nessuno vi era più entrato: trovarono ilcorpo con il saio esattamente là a destra dove

avevo indicato, steso su una specie di barella.Scattarono le foto e la notizia ebbe grande ri-sonanza sulla stampa.Da quel momento, per incarico di padre Mar-sano iniziarono le indagini scientifiche per ac-certare se si trattasse davvero delle spoglie diVico. La archeoantropologa Marielva Torinodell’Università “Suor Orsola Benincasa” iniziòa fare i primi rilievi e gli esami su DNA. Di taliesami non si è poi saputo niente. Durante unnostro colloquio (mi accompagnava mio figlio)con la dottoressa, durante il quale lei volle chele raccontassi tutta la vicenda per prendere ap-punti, fu dovutamente evasiva circa la mia in-tuizione e che non poteva fare dichiarazioniavendo lei ricevuto l’incarico da Padre Mar-sano. Con il celebre scandalo dei furti di libri,in cui furono inquisiti tanti, compreso PadreMarsano, la storia del ritrovamento si è nuova-mente interrotta».

* * *2018 - terza puntata: celebrazione del trecen-tocinquantesimo anniversario della morte diGiambattista Vico a cura dell’Assessorato allaCultura del Comune di Napoli. Le celebrazionisi svolgono nell’arco dell’intero mese del Mag-gio dei Monumenti 2018.L’Assessore Nino Daniele, al corrente dei fatti,in un incontro con Enzo Spada si fa raccontarenel dettaglio la vicenda che abbiamo qui ripor-tato e il 23 giugno, giorno della nascita di Vicodecide di deporre un fascio di fiori nel chiostrodei Girolamini (essendo la chiesa chiusa per re-stauri). La cerimonia, semplice ma sentita, haluogo alla presenza del nuovo direttore delcomplesso Vito De Nicola, del filosofo Raf-faele Mirelli, della sottoscritta e di un foltogruppo di ricercatori tedeschi in visita alla Bi-blioteca. Enzo Spada ha letto pubblicamentela sua Ode a Giovambattista Vico scritta in na-poletano.In attesa della quarta puntata nel corso dellaquale è sperabile che si possa fare finalmentechiarezza e avere una risposta definitiva sugliaccertamenti in merito alla salma di Giambat-tista Vico.

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LA CHIESA NAPOLETANA NEL XVIII SECOLO.1

di Guido Belmonte

1. La storia del Regno di Napoli del XVIII se-colo presenta tra i suoi aspetti particolarmentemeritevoli d’esser rievocati quelli riguardantil’azione multiforme della Chiesa cattolica,concretatasi in eventi che la no-stra storiografia ha letto preva-lentemente dall’angolo visualepiù ampio delle vicende politi-che occorse in quel regno: nelquale il vigente regime di “giu-risdizionalismo” assegnava alSovrano, in confronto dellaChiesa, un ampiopotere d’ingerenza.Subito dopo la fine del primoquarto di quel secolo, nel 1726,un Sinodo indetto dall’Arcive-scovo Francesco Pignatelliaveva sostanzialmente chiuso,come rileva Romeo De Maio1,un’epoca della storia ecclesia-stica napoletana, provocando quella vitale cor-rente di regalismo anticuriale, che andò, sia purimpercettibilmente, trasformandosi in vero eproprio laicismo anticlericale. Non si dimenti-chi (e lo si è ricordato recentemente nel ripro-porre la grande lezione di Alfonso Maria de’Liguori2) che il secolo XVIII viene pur sempreindicato come quello “dei Lumi”: simbolo delprimato d’una “ragione” che andava decisa-mente avviandosi a sottrarre alla fede religiosae che sue espressioni degli spazi sempre piùampi: fino a procurar l’evento di una rivolu-zione che alla fine arrivò a toccare sinistra-

mente un rappresentante dell’episcopato cam-pano. Per verità il Sinodo Pignatelli era valsoper più d’un aspetto ad assicurare, con la suanormativa, un riordinamento della cura pasto-

rale e della disciplina ecclesia-stica, particolarmente efficacecon riguardo al clero “secolare”,del quale veniva riconosciuta, adifferenza di quello “regolare”,una radicata saldezza morale.Ma evidente d’altra parte è che,a tentar di cogliere i tratti più si-gnificativi d’una realtà com-plessa quale fu quelladell’azione svolta nel XVIII se-colo dalla Chiesa nel Mezzo-giorno d’Italia (un territorio acarico del quale non potrebbe ta-cersi la rilevanza del peso graved’arretratezze e di malanni anti-

chi) giova rifarsi non tanto alla normativa d’unSinodo – l’ampiezza del cui ambito d’applica-bilità era peraltro contestata da eminenti stu-diosi che legarono al secolo la propria fama,come Pietro Giannone (1676 - 1748)3 – quantopiuttosto all’immagine che nel loro complessoi fedeli di quella Chiesa, destinatari dei suoi in-segnamenti, offrivano di sé. E’ ben dal noverodi quei fedeli che emersero nel secolo indimen-ticabili testimoni della fede, portatori di virtùcristiane praticate in grado eroico.La breve rievocazione che va a farsi esordiràpertanto con una riflessione su ciò che po-

Sant’Alfonso M. de’ Liguori

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tremmo chiamare la religiosità popolare. A talepremessa seguirà un ricordo puntuale di queiportatori di virtù cristiane praticate in gradoeroico che la Chiesa ha quasi tutti beatificati ocanonizzati. In un numero successivo l’atten-zione verrà rivolta invece ai vescovi che nel se-colo guidarono l’Arcidiocesi e agliecclesiastici (in particolare a colti e autorevolicomponenti del capitolo cattedrale) che esalta-rono l’opera di quella Chiesa. Un pensiero saràinfine riservato al vescovo Michele Natale, cherestò vittima, a Napoli, di un’ultima maleficatemperie di quel secolo dei Lumi.

2. Un discorso sulla religiosità popolare a Na-poli non può ignorare le pagine dedicatevi daBenedetto Croce4, il cui incipit lascerebbesconcertato un lettore che si fermasse alleprime parole. «Durante il 700 – scriveva Croce– nella generale opinione euro-pea, Napoli fu il paese tipicodella superstizione: …dove lepratiche sacre erano tanto piùfrequenti e vistose quanto menosi legavano a una realtà mo-rale». Ricordava Croce che «ilviaggio a Napoli …entrava al-lora nelle consuetudini dellabuona società europea…; e ipiù di quei viaggiatori e scrit-tori, inglesi, francesi, tedeschi,erano o protestanti o illuministie, spesso, le due cose insieme».E da costoro, «lungo tutto il se-colo, non s’intermise di commi-serare l’ignoranza, il sudiciume,la …ferocia della plebe di Napoli, e di descri-vere con beffarda ammirazione i parati sgar-gianti delle sue chiese, le macchine, gli altari,le nicchie, …i presepi, le processioni, i santie le sante coi loro attributi…; e, sopra ognialtra cosa il famoso miracolo del sangue di SanGennaro», che Croce ricordava essersi indi-cato, tra altri dall’Addison, come la più gros-solana gherminella ch’egli avesse mai vista.«Quel che c’era di vero – soggiungeva Croce– si riduceva alla persistenza in Napoli, comeo più che in talune parti d’Italia e di Europa, dipratiche che altrove l’ingentilirsi e razionaliz-

zarsi del costume aveva fatto sparire o assai di-minuire… Nel resto, si trattava al solito di ungiudicare partigiano e superficiale, nel quale,in primo luogo, l’intera nazione veniva confusacon la plebe… In secondo luogo anche nei ri-guardi del popolino si commetteva ingiustizia,…col non tener conto dei sentimenti morali ereligiosi che spiravano in quelle pratiche, che…rappresentavano pur tuttavia, in certa misuraun elevamento verso il divino, conforme allecondizioni in cui la plebe napoletana si tro-vava». E Croce concludeva affermando che,«come la religiosità popolare conviene, per in-tenderla, guardarla con quella benevolenza esimpatia che i protestanti e illuministi non usa-vano5; così anche l’opera della Chiesa, e deisuoi Ordini religiosi, … merita di non esseretrascurata, come si suole, nella storia civiledegli ultimi due secoli».

3.Un primo ricordo va dovero-samente riservato a chi dellanostra Chiesa incarnò i valorispirituali più alti, le virtù eroi-che che le “cause” canonichenon tardarono a rivelare. Ricor-reranno così i nomi di sant’Al-fonso Maria de’ Liguori(1696-1787), santa Maria Fran-cesca delle Cinque Piaghe(1715-1791), san FrancescoSaverio Maria Bianchi (1743-1815), il beato Gennaro MariaSarnelli (1702-1744), il beatoMariano Arciero, di Contursi(1707-1788), il beato Vincenzo

Romano, di Torre del Greco (1751-1831), ilvenerabile Giovanni Antonio Pellissier (Saint-Oyen, Aosta 1715-Napoli 1786), il venerabileGiovanni Battista Jossa (1767-1828).È opportuno notare, con riguardo a più d’unodi quei virtuosi di grado eroico, che la mirabileopera loro, per la massima parte ancorata al se-colo XVIII, manifestamente si rannodava aquella già svolta nel secolo precedente da santimeridionali della statura di un Francesco deGeronimo (Grottaglie 1642 - Napoli 1716) e diun Giovan Giuseppe della Croce (Ischia 1654- Napoli 1734), a loro volta formatisi sul retag-

Santa Maria Francescadelle Cinque Piaghe

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gio dell’alta spiritualità espressa nel secolo an-cora precedente da un Sant’Andrea Avellino(Castronuovo, Potenza 1521 - Napoli 1608).Così come quell’opera, parimenti ininterrotta,sarebbe proseguita nel secolo XIX, fino a in-contrare figure di eletti, dall’umile, giovanis-simo beato Nunzio Sulprizio (Pescosan-sonesco (Pescara) 1817 - Napoli 1836)6 al ve-nerabile cardinale Sisto Riario Sforza, il “Bor-romeo redivivo”.

4. Di sant’Alfonso M. de’ Liguori si è giàscritto in questa rivista7, soprattutto per ricor-dare la vicenda occorsagli nell’esercizio del-l’attività di avvocato, che probabilmente portòa improvvisa maturazione una pregressa suavocazione al sacerdozio. Ordinato nel 1723,dette inizio, con l’aiuto di com-pagni poi confluiti nella Congre-gazione da lui fondata deiRedentoristi, a un’opera assiduad’evangelizzazione, diffusa traun popolo semplice, la cui fedevenne da lui alimentata con uninsegnamento assai efficace, oraracchiuso nella Theologia mora-lis: trattato questo d’una profon-dità che era anche fruttodell’esperienza pastorale, nelquale s’avvertono i limiti postisapientemente dall’Autore ainaccettabili rigorismi d’unascuola del tempo non insensibileal giansenismo8. Quell’insegnamento meritò as. Alfonso la proclamazione, da ogni parte in-vocata, a dottore della Chiesa.

5. Napoletana dei Quartieri spagnoli, santaMaria Francesca delle Cinque Piaghe (al se-colo Anna Maria Rosa Nicoletta Gallo) era fi-glia d’un merciaio irascibile e avaro, che latrattava con sgradevole severità, costringen-dola a durissimi lavori. Sotto la guida dellamadre, che era invece dolce, devota, paziente,la piccola manifestò ben presto una grandefede, accettando con docilità i maltrattamentifattile in famiglia. Nel frequentare la chiesadegli alcantarini di S. Lucia al Monte, elessecome direttore spirituale Giovan Giuseppe

della Croce: che avrebbe predetto la santitàdella fanciulla, preannunciata pure da SanFrancesco De Geronimo. All’età di sedici anni,dopo aver manifestato al padre (che l’aveva giàpromessa a un giovane ricco) il desiderio di en-trare nel Terz’Ordine francescano alcantarinoed esserne stata in un primo tempo distolta daun suo impedimento, la giovane intraprese, conl’aiuto di Padre Teofilo frate minore france-scano, un’opera di persuasione del genitore,conclusasi felicemente con l’ingresso nell’Or-dine l’8 settembre 1731. Vestito l’abito reli-gioso, ella continuò a vivere, pur sempremaltrattata, nella casa paterna; e per qualchetempo restò affidata alla direzione spiritualed’un prete di tendenze gianseniste che, per sag-

giarne la santità, le imponevagravose (e pur da lei gioiosa-mente accettate) penitenze.All’età di 38 anni andò conun’altra terziaria a far da gover-nante nella casa del suo direttorespirituale padre Giovanni Pes-siri, ove rimase fino alla morte.Fu canonizzata il 29 giugno1867. In quella casa di Vico TreRe a Toledo è oggi il santuarioche conserva le reliquie dellasanta.

6. “Apostolo di Napoli” fu chia-mato san Francesco SaverioMaria Bianchi, barnabita, nato

ad Arpino il 2 dicembre 1743 e morto a Napoliil 31 gennaio 1815. Beatificato il 22 gennaio1893 da Leone XIII, la sua canonizzazione èseguita, a opera di Pio XII, il 31 gennaio 1951.Il santo ebbe un’infanzia e un’adolescenza vi-vaci, non esenti da qualche peccatuccio di golae qualcun altro meno lieve; e tuttavia l’approc-cio alle virtù apparve in lui il frutto d’una vo-lontà tenace, che s’andò rafforzando allorché,mandato a studiare nel Seminario di Nola, glifu provvidenziale la presenza in quella città,nel 1758, di s. Alfonso M. de’ Liguori recato-visi per una predicazione in Duomo9. Dopoaver frequentato a Napoli l’Università per lostudio del diritto e vinte le resistenze inizialidei genitori, gli riuscì d’esser ammesso all’Or-

San Francesco SaverioMaria Bianchi

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dine dei Barnabiti (fondato nel 1530 a Milanoda s. Antonio M. Zaccaria), professando i votinel noviziato di Zagarolo il 1763. Ordinato sa-cerdote quattro anni dopo insegnò per brevetempo ad Arpino, trasferendosi poi a Napoli,dove santamente visse fino alla morte. Alla suafama di elevata dottrina, che gli procurò, conla preposizione per dodici anni al Collegio diS. Maria in Cosmedin a Portanova, l’insegna-mento presso l’Università e la nomina a sociodi due accademie, s’accompagnò l’apostolatosvolto in città soprattutto tra gli umili; cosìcome all’aggravarsi delle sue sofferenze corri-sposero l’inasprimento delle penitenze e altempo stesso le manifestazioni d’una giocon-dità che venne paragonata a quella di s. FilippoNeri. Negli ultimi anni della vita mantenne re-lazioni spirituali con la venerabile Maria Clo-tilde di Borbone, l’infelice sorella di Luigi XVIdi Francia, e con suo marito Carlo EmanueleIV di Savoia: ambedue in esilio a Napoli10.

(1. Continua)

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1 R. De Maio, Dal Sinodo del 1726 alla prima restaura-zione borbonica, in Storia di Napoli, a c. di E. Pontieri,7, Napoli 1972, p.791.2 Cfr. G. Belmonte, Sant’Alfonso M. de’ Liguori avvo-cato, in Il Rievocatore, aprile-giugno 2018, p.21 ss.3 Nato a Ischitella, in Capitanata, nel 1676, la fama di P.Giannone è legata alla Istoria civile del Regno di Napoli,pubblicata nel 1723, nella quale lo scrittore affermavache la Chiesa, libera e autonoma nella sua attività spiri-tuale, dovesse invece come istituzione temporale restarassoggettata al potere dello Stato. L’opera procurò al-l’autore una scomunica, che lo costrinse a riparare aVienna presso l’imperatore Carlo VI. Trasferitosi a Gi-nevra e indotto con l’inganno a recarsi nel 1736 in Pie-monte, fu lì messo in carcere dai Savoia, che ve lomantennero fino alla morte, avvenuta a Torino nel 1748.Altre opere del Giannone sono il Triregno, iniziata aVienna e completata in Svizzera, e una Vita scritta dalui medesimo, composta durante la carcerazione.4 B. Croce, La vita religiosa a Napoli nel 700, I. Dallareligiosità popolare ai giansenisti, in Uomini e cosedella vecchia Italia, serie II, Bari 1927, p.113.5 Corsivo nostro.6 I suoi resti mortali sono conservati a Napoli nellaChiesa di S. Domenico Soriano, in Piazza Dante. Saràcanonizzato in quest’anno, probabilmente lo stessogiorno della canonizzazione di Vincenzo Romano.7 Cfr. supra, nt. 2.8 Il giansenismo fu un movimento religioso che si deno-

minò dall’ecclesiastico olandese Cornelio Jannsen (ita-lianizzato in Giansenio), vissuto dal 1585 al 1638. Do-cente nell’università di Lovanio, Giansenio ne divennerettore nel 1635, ottenendo altresì, l’anno successivo, ilvescovado d’Ypres. L’opera sua maggiore, Augustinus,segretamente pubblicata postuma nel 1640, venne con-siderata dai Gesuiti un libello scritto appositamente con-tro di loro, in cui Giansenio, accusato di ripetere glierrori di Calvino e di Baio, avrebbe negata – pur senzaaffermarlo esplicitamente – l’effettività del libero arbi-trio: col ritenere che Cristo fosse morto per salvare nontutti gli esseri umani ma soltanto quelli da Lui predesti-nati a esserlo. Portata a Roma la controversa questione,la bolla del 1642 di Urbano VIII, che sulla disputa im-poneva il silenzio, non valse a sopire i contrasti; così chesull’argomento intervenne nel 1643 Antonio Arnauld, lacui opera (De la fréquente Communion) prospettava ladottrina di Giansenio come un rigoroso metodo per pra-ticare la pietà cristiana in una maniera più autentica: nelsenso che alla facile assoluzione e alla comunione fre-quente, che avrebbero promosso i Gesuiti, si contrappo-nesse una concezione severa dell’Eucaristia, daimpartirsi solo quando, dopo la confessione, il penitenteavesse maturato un’effettiva conversione del cuore. Nel1643, tuttavia, Innocenzo X condannava cinque propo-sizioni attribuite a Giansenio. Invano l’Arnauld, con-vinto che tali proposizioni non appartenessero aGiansenio, tentò di eludere l’imperatività della condannacol sostenere che – fermo l’ossequio dovuto alla pronun-cia sulla natura ereticale in sé, di quelle proposizioni –legittimamente si potesse negarne, in punto di fatto, l’ap-partenenza al pensiero di Giansenio. Ma la sottigliezzanon salvò l’Arnauld dall’espulsione dalla Sorbona. S’ap-pellarono i giansenisti alla pubblica opinione, avvalen-dosi d’uno strumento efficace quale Le lettereprovinciali di Pascal. Il luogo fisico del perdurante con-trasto, espulso Arnauld dalla Sorbona, si spostò al Mo-nastero di Port Royal. Con la diffusione in Italiadell’opera di Pascal si cominciò a parlare di giansenistiitaliani. In effetti un’attenzione al pensiero di Gianseniofu riservata da insigni esponenti del clero napoletano. Siricorda per esempio che il dottissimo canonico GiuseppeSimioli, del quale si parlerà nel prossimo numero, fossein corrispondenza con l’agostiniano Giovanni LorenzoBerti (Serravezza 1696 - Pisa 1766), coinvolto nelle vi-cende del giansenismo italiano tanto da venir definito,in un sonetto del tempo, «il fratel carnale di Giansenio»(cfr. U. Dovere, Il buon governo del clero, Roma 2010,p.52 nt. 61).9 A Nola si tramanda la memoria che, nella notte di Na-tale del 1758, s. Alfonso fece per la prima volta cantarenel Duomo della città la sua “canzoncina”: Tu scendidalle stelle. 10 S’erano assai modestamente allogati prima nell’al-bergo delle Crocelle al Chiatamone e poi nella locandadell’Aquila Nera a S. Lucia.

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IL CONSERVATORIO DI SAN PIETRO A MAIELLA

di Orazio Dente Gattola

Il Conservatorio di S.Pietro a Maiella o Con-servatorio di Musica, unodei più illustri d’Italia,ebbe origine dalla fusione,avvenuta nel corso deglianni tra quattro istituti,tutti operanti a Napoli:quello di S. Maria di Lo-reto, della Pietà dei Turchini, di S. Onofrio aCapuana e quello dei Poveri di Gesù Cristo. Sitrattava di istituzioni sorte, per lo più, nei secoliXVI e XVII con finalità caritatevoli, consi-stenti nell’insegnare canto e catechismo ai fan-ciulli. poveri od abbandonati, che traevano imezzi per lo svolgimento della propria attivitàbenefica da elemosine o da lasciti di benefat-tori. Inariditesi con il corso degli anni tali fonti glialunni presero a tenere concerti in chiese o incase private. È così che l’aspetto dell’istru-zione musicale comincia a prendere il soprav-vento su quello strettamente caritativo. Il più antico, quello di S. Maria di Loreto, ri-saliva al 1537. La Pietà e S. Onofrio furono in-vece fondati nel ‘600, mentre il quarto, quellodei Poveri, vide la luce nel 1589. Fu nel 1808che i quattro conservatorî, che man mano sierano fusi tra loro, presero il nome di R. Con-servatorio di Musica. Tra i tanti nomi che illu-strarono la fama dei singoli complessi: quellidi Alessandro e Domenico Scarlatti, di France-sco Durante, di Giovanni Paisiello, DomenicoCimarosa. Finalmente nel 1826 il Conservato-rio si trasferì nella sede attuale, ove ebbe comedirettori, tra i tanti: Gaetano Donizetti, France-sco Saverio Mercadante, Francesco Cilea. Nel 1820 una parte del complesso di S. Seba-

stiano, ov’era la sede pre-cedente, venne occupatadalla segreteria del Parla-mento. In seguito, i localianziché essergli restituiti,furono dati ai Gesuiti e lascuola si trasferì nei localidel Monastero già appar-tenuto ai Padri Celestini.

Nell’Ottocento, mutati i gusti, il Conservatorioseppe tenere il passo con i tempi nuovi conser-vando una propria fisionomia culturale, dando,tra l’altro, al mondo della musica uno dei piùgrandi lirici: Vincenzo Bellini. Sempre nell’Ot-tocento uscì dal Conservatorio un sinfonistaquale Giuseppe Martucci che ne fu anche di-rettore. Altro nome di grande lustro, quello diFrancesco Cilea. Nel suggestivo, ma non troppo funzionale am-biente di chiostri settecenteschi, di celle mona-stiche adattate alle mutate esigenze, l’attività ècontinuata senza soste sino ai giorni nostri.Negli anni ’60 furono allievi del ConservatorioAccardo, Muti, Campanella, oltre al pianistaVitale. Negli anni ‘70 frequentarono, invece, ilConservatorio: Tramma, De Fusco, Luisa DeRobertis. Negli anni ‘90 il complesso è statodiretto da Filippo Zigante e da Roberto De Si-mone e gli allievi che frequentavano i corsi dipianoforte, violino, oboe, fagotto, percussione,ecc. erano circa 800. Alla vecchia sala da concerti intitolata al Mar-tucci era stata sostituita la più grande sala Scar-latti, andata però distrutta nel 1973 in unincendio che arrecò gravi danni anche al restodel complesso, e che fu successivamente re-staurata.

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LEOPARDI, LA LUNA, LE STELLE.2

di Paolo Carzana

Icritici leopardiani Ildebrando Della Gio-vanna (1857-1916), Nicola Zingarelli (1860-1935), compilatore del noto vocabolario dellalingua italiana, Mario Fubini (1900-1977) eCesare Galimberti (1928) sono concordi nel ri-tenere che Giacomo abbia preso lo spunto peril Dialogo della Terra e della Luna dal filosofocinico e scrittore satirico Menippo di Gadara(310-255 a.C.) il quale si sentì chiamare

«con voce donnesca dalla luna e ne udì varie lagnanzeintorno alla soverchia curiosità dei filosofi che non lelasciavano un’ora di libertà e indagavano insolente-mente tutti i fatti suoi».

Questo passo è riportato dallo stesso Leopardinel suo Saggio sopra gli errori popolari degliantichi, al capitolo 10°, intitolato “Degli Astri”.Italo Calvino (1923-1985) ebbe a dire, in unadelle sue Lezioni americane, che «Quandoparlava della luna, Leopardi sapeva esatta-mente di cosa parlava» e ancora «La luna e lestelle vanno lasciate tutte a Leopardi». Le Lezioni americane. Sei proposte per il pros-simo millennio è un libro basato su di una seriedi lezioni preparate da Italo Calvino nel 1985in vista di un ciclo di sei conferenze da tenersiall’Università di Harvard, nei pressi di Boston(U.S.A.). Il ciclo, previsto per l'autunno diquello stesso anno, non fu mai tenuto a causadella morte dello scrittore avvenuta il 19 set-tembre 1985.Se si fa un elenco degli aggettivi che nei Cantisi accompagnano o si riferiscono alla Luna sene possono notare la ricchezza, la varietà e, so-

prattutto, l’intensità espressiva: aurea, cadente,candida, cara, diletta, eterna, graziosa, im-mortal, intatta, pensosa, placida, queta, rugia-dosa, silenziosa, solinga, tacita, vergine.Mentre, invece, nella sua Storia dell’astrono-mia Leopardi cita le personificazioni mitologi-che attribuite al nostro satellite: Artemide,Cinzia, Delia, Diana, Dictinna, Ecate, Febe,Latona, Lucina, Mene, Proserpina, Selene, Tri-forme, Trivia. A proposito dell’aggettivo “intatta”, riferitoalla Luna, che compare nel Canto notturno diun pastore errante dell’Asia (v. 57), il poeta to-rinese Guido Ceronetti (1927 - 2018) animatoda una sorta di risentimento polemico control’esaltazione collettiva per l’impresa spazialedel 21 luglio 1969 che vide Neil Armstrong(1930 - 2012), primo essere umano, metterepiede sul nostro satellite, nel 1970 scrive:

«Intatta perché da nessun piede o miseria d’uomo toc-cata, intatta perché divinità virginale classica. Ma in-tatta anche perché, caduta sul prato delle illusionimorte, diventata un ferrovecchio di arido vero, un corpoabbandonato alla curiosità dei fisici, in profondo la suaverità segreta, la sua faccia impenetrata di puro sim-bolo, la sua realtà intellegibile, i pensieri della sua gio-vinezza, sono rimasti immutati. “Intatta” appare tantopiù forte quanto più gli si oppone oggi, dalla volgaritàin trionfo, il suo contrario “violata”»17.

La Luna e ancora la Luna.Il canto La sera del dí di festa, composto a Re-canati nel 1820, esordisce con un notturno lu-nare incantevole. Personalmente li ritengo, nella loro pura sem-

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plicità, fra i versi più belli, in assoluto, dellapoesia leopardiana:

«Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli ortiposa la luna, e di lontan rivelaserena ogni montagna».

Leopardi si era ispirato ad Omero (Iliade, VIII,vv.762-770) per la creazione di questa imma-gine poetica, comeEgli stesso ci riferiscenel suo Discorso di unitaliano intorno allapoesia romantica, in-tervenendo con questoscritto nel dibattito, al-lora assai acceso, cheverteva sulla dicoto-mia fra classicismo eromanticismo: fu com-posto fra il gennaio el’agosto del 1818 e rimase inedito fino al1906.Questi i versi del vate greco, che la tradizionevuole cieco18:

«Sì come quando graziosi in cieloRifulgon gli astri intorno della luna,E l’aere è senza vento, e si discopreOgni cima de’ monti ed ogni selvaEd ogni torre».

“L’infelicissimo”19 era rimasto colpito dallasuggestione di questi versi omerici sin da fan-ciullo, come testimonia nei suoi Ricordi d’in-fanzia e di adolescenza (1819): «vedutanotturna con la luna a ciel sereno dall’altodella mia casa tal quale alla similitudine diOmero».Ne La ginestra o il fiore del deserto le consi-derazioni astrali di Leopardi, in chiave poetica,si spingono molto al di là della Luna: il Poetadiscetta di stelle e di nebulose. Sarà il caso di ricordare che un essere umanodotato di buona vista può distinguere, ad oc-chio nudo, circa seimila stelle, tenendo contodi entrambi gli emisferi: ebbene, tutte questestelle sono contenute all’interno della nostragalassia ( comprese, quindi, le Vaghe stelle del-l’Orsa)20.

Al di fuori di essa, in condizioni meteorologi-che ottimali, si può distinguere un solo corpoceleste: la galassia a spirale di Andromeda(M31) che dista dalla Terra 2,5 milioni dianni/luce e, come già detto, in avvicinamentoalla nostra Via Lattea tanto che, ritengono gliastronomi, in un lontano futuro finiranno percollidere.Ai tempi di Leopardi questi accumuli di stelle

venivano ancora deno-minati “nebulose”:«Nodi quasi di stelle, /ch’a noi paion qualnebbia»21.La nebbia astrale allaquale fa riferimentoLeopardi in questiversi non è Andro-meda (il Poeta ebbesempre gravi problemiagli occhi nel corso

della sua breve vita) ma la Via Lattea.Voglio proporvi, dalla terza stanza de La gine-stra, i versi che vanno dal 158 al 185: forse ipiù “cosmici” del Grande Recanatese. Ricordo che la poesia fu composta nel 1836 aVilla Ferrigni, l’attuale Villa delle Ginestre:

«Sovente in queste rive,che, desolate, a brunoveste il flutto indurato, e par che ondeggi,seggo la notte; e sulla mesta landain purissimo azzurro veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,cui di lontan fa specchioil mare, e tutto di scintille in giroper lo vòto seren brillar il mondo.E poi che gli occhi a quelle luci appunto,ch'a lor sembrano un punto,e sono immense, in guisache un punto a petto a lor son terra e mareveracemente; a cuil'uomo non pur, ma questoglobo ove l'uomo è nulla,sconosciuto è del tutto; e quando miroquegli ancor più senz'alcun fin remotinodi quasi di stelle,ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomoe non la terra sol, ma tutte in uno,del numero infinite e della mole,con l'aureo sole insiem, le nostre stelleo sono ignote, o così paion comeessi alla terra, un punto

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di luce nebulosa; al pensier mioche sembri allora, o proledell'uomo?».

Il 163° verso, «fiammeggiar le stelle», è dichiara derivazione petrarchesca. Così, infatti, si esprime il poeta aretino in Aqualunque animale alberga in terra, 22° com-ponimento del Canzoniere (vv. 11-12), nelquale incolpa Laura della miseria del suo statoe dispera che la propria sorte muti: «pur quan-d’io veggio fiammeggiar le stelle, / vo lagri-mando e disiando il giorno».Rimanendo in ambito cosmico, ricordo cheanche il 135° verso del Cantonotturno di un pastore errantedell’Asia il quale recita «e nove-rar le stelle ad una ad una» è ri-preso, direi pari pari, dalCanzoniere di Francesco Pe-trarca (1304-1374), lirica n.127,il cui incipit è «In quella partedove Amor mi sprona». Al verso85 leggiamo: «Ad una ad unaannoverar le stelle».Leopardi rivolge lo sguardo aquelle luci che sembrano puntinima, in realtà, sono astri immensie quando osserva la Via Latteanon può non indugiare a riflettere sul destinodell’uomo e sul suo rapporto con l’Universosterminato:

«Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, sisente essere infinitesima parte di un globo che è mi-nima parte degli infiniti sistemi che compongono ilmondo, e in questa considerazione stupisce della suapiccolezza e profondamente sentendola e intensamenteriguardandola, si confonde quasi col nulla, e perdequasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose,e si trova come smarrito nella vastità incomprensibiledell’esistenza»22.

Nel Cantico del gallo silvestre23 Leopardi dice:

«Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmentealla morte, con sollecitudine e celerità ammirabile. Solol’universo medesimo apparisce immune dallo scadere elanguire…»:

e la “vergine” e “intatta” Luna sembrerebbesimbolo ed immagine di questa immunità.Ma la Luna è figlia della Natura, di quella

donna smisurata «di volto mezzo tra bello e ter-ribile, di occhi e di capelli nerissimi»24 il cuipotere oscuro opera contro gli uomini, con gla-ciale indifferenza.D’altra parte, per la stessa Natura non c’è spe-ranza:

«Tempo verrà, che esso universo, e la natura mede-sima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regnied imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furonofamosissimi in altre età, non resta oggi segno né famaalcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vi-cende e calamità delle cose create, non rimarrà pure unvestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima,empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mi-

rabile e spaventoso dell'esistenza uni-versale, innanzi di essere dichiarato néinteso, si dileguerà e perderassi»23.

Negli anni in cui Leopardi eraimpegnato nella stesura dellaStoria dell’astronomia era an-cora ben lontano dall’aver intra-preso il cammino che, in modolento ma inesorabile, lo avrebbeportato al più convinto ateismo:tale percorso avrebbe trovatocompimento e totale matura-zione nel 1824, con la composi-zione della maggior parte delleOperette Morali.

Nel 1813, dal punto di vista religioso, Giacomoviveva ancora sotto l’influsso dei rigorosi det-tami paterni, improntati al Cattolicesimo piùortodosso ed integralista; precetti che non as-surgevano a livelli di fanatismo, come nel casodella madre, ma che neanche se ne discosta-vano troppo.Vi sono alcune pagine dello Zibaldone, datate25 novembre 1820, in cui l’allora ventiduenneRecanatese fa un ritratto psicologico, o meglio,psicopatologico della genitrice Adelaide(1778-1857) assolutamente terrificante. Ve nepropongo alcuni stralci:

«Io ho conosciuto intimamente una madre di famigliache non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esat-tissima nella credenza cristiana, e negli esercizi dellareligione. Questa non solamente non compiangeva queigenitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invi-diava intimamente e sinceramente, perché questi eranvolati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i ge-nitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte

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in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, nonpregava Dio che li facesse morire, perché la religionenon lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendopiangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in sestessa, e provava un vero e sensibile dispetto».«Vedendo ne’ malati qualche segno di morte vicina, sen-tiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimularesolamente con quelli che la condannavano)».«Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e ve-dendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio,non per eroismo, ma di tutta voglia».«Le malattie, le morti le più compassionevoli de’ giova-netti estinti nel fior dell’età, fra le più belle speranze,col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. nonla toccavano in verun modo. Perché diceva che non im-porta l’età della morte, ma il modo: e perciò soleva sem-pre informarsi curiosamente se erano morti benesecondo la religione, o quando erano malati, se mostra-vano rassegnazione ec. E parlava di queste disgraziecon una freddezza marmorea.Questa donna aveva sortito dalla natura un caratteresensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola reli-gione».

Non dimentichiamo, inoltre, che Muccio(come lo chiamava la sorella Paolina) crebbeavendo come precettori tre sacerdoti: il messi-cano don Giuseppe Torres († 1806), che lo fuanche di Monaldo, don Sebastiano Sanchini(1763-1835) e don Vincenzo Diotallevi. Per-tanto non c’è da meravigliarsi se il giovinettovolle spendere molti paragrafi del suo saggioper tentar di dimostrare la compatibilità del-l’Universo copernicano con le Sacre Scritture:Dio, per il momento, non sarebbe sceso dal suotrono, anche se le traballanti fondamenta tole-maiche cominciavano a renderlo pericolosa-mente instabile.Già David, scrive Leopardi «prendeva dallestelle argomento di elevarsi a Dio», e quandopoi

«spuntarono i raggi dell’Evangelo, squarciarono le te-nebre pesanti del paganesimo; divenne il firmamento ungradino per ascendere al trono dell’Eterno; ammiròl’uomo nel sole la onnipotenza, conobbe nella luna enel sole la provvidenza del Creatore»25.

Sotto il profilo lessicale appare evidente l’in-fluenza dei Salmi, ove si afferma che «I cielinarrano la gloria di Dio, / e l’opera delle suemani annuncia il firmamento».Ma il piccolo Grande Recanatese, nel con-tempo, intuisce che la scoperta di Copernico

«implica lo sradicamento del pensiero scientifico daogni considerazione basata su concetti di valore, qualiperfezione, armonia, significato e scopo, ed infine lacompleta svalorizzazione dell’essere, il divorzio tra ilmondo dei valori e il mondo dei fatti»26.

Diciassette anni dopo aver portato a compi-mento la sua Storia dell’astronomia, pochigiorni prima di lasciare per sempre Recanati,Leopardi finiva di scrivere il Canto notturno diun pastore errante dell’Asia che già a France-sco De Sanctis (1817-1883) era sembrato «unpoema biblico, una pagina del Giobbe»27. Ma era questo un Leopardi affatto diverso dalpiccolo erudito di tanti anni prima. Per il grande Poeta, nell’aprile del 1830, lospettacolo dello spazio siderale sembrava testi-moniare soltanto una cosmica insensatezza;l’apparenza delle cose si separava dalla lorosostanza e nell’ordito immacolato dell’Uni-verso, sul quale gli antichi avevano potuto di-pingere immagini di consolazione e disperanza, si stagliavano ora vuote forme, larveprive di significato, indizi astrali del «solidonulla»28 e del silenzio di cui, per l’appunto, la«silenziosa luna»29, nella sua fredda imma-nenza, era la concreta immagine.Monaldo, nel memoriale che inviò ad AntonioRanieri (1806-1888) nel luglio del 1837, pochesettimane dopo la morte del figlio, così rac-conta il loro commiato:

«… ripartì per Bologna alli 30 di Aprile del 1830. Io loviddi, quasi di trafugo e senza abbracciarlo, la sera dei29, perché il cuore non mi reggeva alla partenza, e loviddi per l’ultima volta».

Quella sera, su Recanati, la Luna era crescente:

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Dicono che viaggiare sviluppa l’intelligenza, ma ci si di-mentica sempre di dire che l’intelligenza bisogna averlagià prima.

GILBERT KEITH CHESTERTON

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splendeva in cielo la falce del primo quarto30. (2.Fine)

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17 G. Ceronetti, In difesa della luna e altri argomenti dimiseria terrestre, Milano 1971, pag. 67.18 Dal Discorso per il centenario di G. Leopardi, in R.Bacchelli, Leopardi, Milano 1962: «…nel misero e fra-gile corpo (quello di Leopardi), assegnatogli come la ce-cità ad Omero, e a Dante la sventura e a Beethoven lasordità».19 V. supra, nt. 12.20 G. Leopardi, Le ricordanze, v. 1.21 G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 176-177.22 G. Leopardi, Zibaldone, p. 3171.

23 Dalle Operette morali: Cantico del gallo silvestre.Composto a Recanati tra il 10 e il 16 novembre 1824.24 Dalle Operette morali: Dialogo della Natura e di unIslandese. Composto a Recanati tra il 21 e 30 maggio1824.25 Dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. 26 A. Koyrè, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Mi-lano 1970, pag.11.27 F. De Sanctis, Leopardi, Torino 1938, pag. 378. IlGiobbe è uno dei Libri che compongono il Vecchio Te-stamento.28 Scriveva Leopardi il 18 luglio 1821 (Zibaldone, pag.1341): «…il principio delle cose e Dio stesso è il nulla».29 Dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v.2.30 Sito web: marcomenichelli.it / fasi lunari.asp.

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LA QUARTA EDIZIONE DELLA “GUIDA DI PROCIDA”DI FERDINANDO FERRAJOLI

Nel cortile della Villa Pagliara di Procida, sede dell’Associazione “Vi-vara”, il direttore di questo periodico, Sergio Zazzera, e il redattoreFranco Lista hanno presentato, il 24 luglio scorso, la quarta edizionedella Guida di Procida di Ferdinando Ferrajoli (Napoli, Gallina, 2018),della quale hanno posto in risalto l’importanza per laconoscenza della storia dell’isola. Per un’opera nondi narrativa edita a Napoli, il raggiungimento della

quarta edizione (la prima risale al 1955) costituisce un vero e proprioprimato; peraltro, è già in libreria la traduzione in lingua inglese, men-

tre fra breve sarà distribuita quella in linguafrancese. Le relazioni dei presentatori sono state precedute dalsaluto del sindaco di Procida, dr. Dino Ambrosino, e seguiteda un interessante intervento del collega Mimmo Ambrosino,direttore del periodico Procida oggi, che ha ricordato la scopertadella necropoli di Ciraccio da parte dell’autore. Alla manifesta-

zione, che ha visto la partecipazione di un folto pubblico, ha presenziato, insiemecon la propria famiglia, il dr. Antonio Ferrajoli, figlio dell’autore e past-director diquesta rivista (a sinistra nella foto qui sotto, con accanto il nipote, Antonio jr., e il figlio, Ferdinando jr.).

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Karl Marx nasce il 5 mag-gio 1818 a Treviri (oggi

Trier, in Germania), città nonlontana dal confine con ilLussemburgo. Come curio-sità diciamo che in questacittà nacque anche Sant’Am-brogio nel 337 d.C. Di fami-glia ebraica, il padre è unavvocato che lo avvia aglistudi classici e, in seguito,all’università di Bonn per stu-diare diritto. Passa poi aquella di Berlino dove avevainsegnato Hegel, che ne fuanche rettore, dal 1818 finoalla morte (1831). Dopo es-sersi cimentato persino in poesia, Karl inizia ainteressarsi della condizione sociale dei lavo-ratori entrando nella “sinistra hegeliana” deltempo. Si laurea in filosofia e si orienta subitoal giornalismo, ma i giornali ai quali collaborahanno vita breve. Nel 1843 sposa Jenny vonWestphalen, di famiglia aristocratica, inizial-mente avversata dai genitori mentre lui saràmolto ben accetto nella famiglia dei suoceri. Iconiugi partono per Parigi e qui Marx scrive iManoscritti parigini in cui inizia a prendereforma il concetto di alienazione legata al la-voro nell’industria. Per rendere più incisivo il

proprio agire aderisce alla“Lega dei Giusti”. Per questoe altro sarà espulso dallaFrancia e dovrà rifugiarsi aBruxelles. A Parigi ha cono-sciuto Friedrich Engels(1820-1895), tedesco an-ch’egli, che seguirà la stessasorte di espulsione, e nel1845 può dirsi già consoli-dato lo storico sodalizio. Nel 1847 si svolgerà il primocongresso della Lega dei Co-munisti, nata dalla Lega deiGiusti e, a seguire, vedrà laluce Il Manifesto del PartitoComunista (1848) che inizia

con la celebre frase «Uno spettro si aggira perl’Europa: lo spettro del comunismo»1 e si con-clude con il celeberrimo appello «Proletari ditutti i paesi, unitevi»2. Merito del Manifestosarà l’aver traghettato il precedente socialismoutopistico a una fase di realizzazione storicache si svilupperà in molte nazioni e in varieforme, specie nel XX secolo. Lo Statuto dellaLega dei Comunisti afferma nel suo primo ar-ticolo:

«Scopo della Lega è il rovesciamento della borghesia, ilregno del proletariato, la soppressione dell'antica societàborghese fondata sugli antagonismi di classe e l'instau-

ATTUALITA’ DI KARL MARXA DUE SECOLI DALLA NASCITA

di Luigi Alviggi

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razione di una nuova società senza classi e senza pro-prietà privata»3.

Anche il Belgio espellerà in seguito i due stu-diosi che dovranno perciò rientrare in patria.Qui fonderanno il giornale Neue RheinischeZeitung che appoggerà la rivoluzione pariginadel 1848, momento di svolta per la storia eu-ropea. Marx dovrà ancora fuggire a Londra coni familiari e qui soffrirà pesanti difficoltà eco-nomiche, pur aiutato da Engels, e gli moriràanche il piccolo Ed-gard. Solo con l’ere-dità delle madri, diJenny e sua, la fami-glia risolverà in partei gravi problemi. Nel1861 i coniugi supe-reranno entrambi ilvaiolo. Gli studi diKarl proseguono in-tensamente in varicampi e, nel 1867,vede la luce il primovolume de Il Capi-tale, sua opera mag-giore e testo chiave del marxismo. L’operatotale, postuma, verrà integrata e pubblicata intre volumi dal fido Engels: il secondo nel 1885e il terzo nel 1894. Nel 1871 Marx pubblicaGuerra civile in Francia sull’esperienza dellaComune di Parigi: la considera il primo espe-rimento di governo proletario e bandiera delcomunismo rivoluzionario.Nel 1881 Jenny muore e, pochi mesi dopo,anche la figlia primogenita, a 38 anni. Sonocolpi durissimi dai quali Marx non si ripren-derà. Egli scompare nel marzo 1883. Engels,nell’orazione funebre, termina con le parole:

«I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i bor-ghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprironoa gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, nonprestò loro alcuna attenzione, e non rispose se non incaso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rim-pianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari inEuropa e in America, dalle miniere siberiane sino allaCalifornia. E posso aggiungere, senza timore: potevaavere molti avversari, ma nessun nemico personale. Ilsuo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!»4.

Parole al momento sembrate assurde, ma distraordinario valoreprofetico!Già a Parigi Marx edEngels iniziano a svi-luppare i concetti del“materialismo sto-rico”: l’uomo, pur es-sendo un esserespirituale, è costrettodalle necessità di vitaa una concreta mate-rialità – nutrirsi, lavo-rare, guadagnare pervivere – che lo inducea progredire social-

mente e intellettualmente nel corso della vita.Il punto di partenza è una decisa critica a Hegelche, a loro avviso, interpreta il mondo alla ro-vescia. Lo scisma è di base ideologica: perHegel la realtà corrente deriva da necessità ra-zionali, e dunque egli legittima l’ordine esi-stente facendo divenire verità filosofica quelliche sono soltanto consolidati equilibri sociali.In tal modo, però, inverte soggetto e predicato:gli individui, soggetti reali, diventano predicatidella “sostanza universale” hegeliana. PerMarx, invece, non è la Costituzione che crea ilpopolo ma il popolo la Costituzione. I due

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Dal 31 agosto al 9 settembre, la celebre ce-ramista napoletana CLARA GARESIO haesposto una selezione di opere della suaoriginalissima produzione nella mostra per-sonale dal titolo Circle Time, alla RotondaRossi di Muky, in Faenza.

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Berlino, Monumento a K. Marx e F. Engels

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amici riconoscono un’unica scienza: la scienzadella storia. È il punto nodale del passaggiodall’idealismo hegeliano al materialismo mar-xista: la dialettica hegeliana si reggeva sullatesta, per Marx essa deve essere rimessa a reg-gersi sui piedi, trovando in tal modo una fisio-nomia più corretta e razionale. Nella realtàl’uomo (di allora e di oggi) non si realizzaumanizzando, insieme con i suoi simili, la na-tura nella direzione dei bisogni, dei concetti edei progetti dell’uomo stesso. Ciò che invecesi mostra sotto gli occhi di tutti sono uomini«alienati», cioè espropriati del valore di sin-golo individuo a causa dell’espropriazione ef-fettuata in loro danno del lavoro svolto,comandato da forze del tutto estranee e immo-dificabili da parte del soggetto in questione. L’«alienazione» è la condizione storica in cuil’uomo viene a trovarsi per effetto della pro-prietà privata dei mezzi di produzione. La pro-prietà privata, infatti, si fonda sullasuddivisione del lavoro tra i vari prestatorid’opera, in tal modo però il lavoro diviene co-strittivo per il singolo individuo, che in essonon ha alcuna libertà e diviene pura mercenelle mani del «capitale». L’«alienazione» con-siste appunto nel fatto che il lavoro è scissodall’operaio, non risponde ai suoi desideri e gliserve solo per soddisfare gli insopprimibili bi-sogni primari. Di conseguenza, esso non è af-fatto terreno di affermazione personale ma solodi negazione di tutti i suoi bisogni di livello su-periore. L’operaio riesce a essere se stesso solofuori dal lavoro mentre è fuori di sé nel lavoro!Si viene a creare, quindi, una proporzionalitàinversa tra il valore e i pregi di quanto il lavo-ratore riesce a produrre e il valore riflesso chesi configura nel suo animo in relazione aquanto prodotto. La proprietà privata vienefuori come risultato conseguente al lavoro alie-nato. Il valore di un prodotto è dato dal lavoro im-piegato per produrlo, cioè dalle ore di lavoroche esso richiede per essere finito. Il lavora-tore, dunque, dovrebbe ricevere come salariol’intero valore del prodotto, ma ciò non accade.L’imprenditore retribuisce il lavoro al di sottodel suo valore effettivo e intasca la differenza.

Il suo profitto è quello che Marx chiama «plu-svalore», da questa differenza nasce il capitaleche non è altro, dunque, che la somma di tuttele parti di lavoro non retribuite ai lavoratori.Questo pluslavoro non riconosciuto va a esclu-sivo beneficio dell’imprenditore e, per elimi-narlo, l’unica strada è abolire il sistema diproduzione capitalistico. Questa assoluta in-coerenza di fondo esistente alla base del pro-cesso produttivo porta alla «lotta di classe» tracapitalisti e proletari per gettare le basi di unaradicale trasformazione del processo socialenel quale essi sono parti antagoniste. L’aliena-zione economica propria della società borghesenega l’essenza dell’uomo, la «disalienazione»ricondurrebbe l’uomo a se stesso, facendolo di-venire un uomo sociale e, a un tempo, umanoin ogni sua parte e, oltre tutto, felice per la pro-pria completa realizzazione. Per Marx, dunque, ogni momento storico ge-nera al suo interno delle contraddizioni, e sonoproprio queste la spinta, cioè la molla chemuove al continuo sviluppo storico. La dialet-tica è la legge di sviluppo della realtà storicaed essa esprime e impone l’inevitabilità delpassaggio da una società capitalistica a quellacomunista, unica soluzione per debellare final-mente lo sfruttamento dell’uomo contro il suosimile e l’alienazione di ciascun individuo. Ci-tiamo Marx:

«Il modo di produzione della vita materiale condiziona,in generale, il processo sociale, politico e spirituale dellavita. Non è la coscienza degli uomini che determina illoro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale chedetermina la loro coscienza. A un dato punto del lorosviluppo, le forze produttive materiali della società en-trano in contraddizione con i rapporti di produzione esi-stenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sonosoltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forzeper l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme disviluppo delle forze produttive, si convertono in loro ca-tene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale»5.

Oppressori e oppressi sono i due termini neiquali Marx vede l’intero sviluppo umano nellatotalità della sua storia. E l’epoca della borghe-sia moderna ha soltanto semplificato i poli delproblema perché la società, a tutti gli effetti, siè scissa in due grandi blocchi contrapposti, dueschieramenti scissi e avversi: borghesia e pro-

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letariato. La lotta di classe contro il capitalismodeve portare come risultato finale alla societàcomunista, una soluzione – diciamo subito -alla quale la verifica della storia in epoche suc-cessive non pare davvero aver riservato moltosuccesso. Ma qui si innestano inoppugnabiliconsiderazioni di base sulla natura della psicheumana, e i raffronti tra marxismo e psicanalisinon sono stati scarsi negli anni a seguire. Ci-tiamo soltanto, p.e., l’importante saggio diErich Fromm, Marx e Freud, del 1962.Ne Il Capitale Marx, oltre ad approfondire iconcetti sopra espressi in sintesi, analizza la«merce»: essa ha un duplice valore, un «valoredi uso» e un «valore di scambio». Il primo sibasa sulla sua qualità, il secondo dà la possibi-lità di scambiare merci differenti, ma la so-stanza di ogni merce è «il tempo di lavoro inessa racchiuso». Per semplificare le cose, inepoca moderna, il valore di scambio è stato so-stituito dalla moneta. L’opera, molto estesa,sviscera nel dettaglio ogni aspetto delle rivo-luzionarie idee dei due grandi pensatori. Tra i libri di recente uscita su Marx segna-liamo: di Agnes Heller, Marx, un filosofoebreo-tedesco (2018); Antonio Carioti, KarlMarx vivo o morto? (il profeta del comunismoduecento anni dopo) (2018); David Harvey,Marx e la follia del capitale (2018). Il recente film Il giovane Karl Marx (2017) delregista Raoul Peck che vede nel ruolo del pro-tagonista l’attore August Diehl, è di mero in-trattenimento, e si limita al periodo giovaniledel filosofo – circa il decennio degli anni ’40 -sottolineando gli inizi della collaborazione efermandosi alla pubblicazione del Manifestoda parte dei due pensatori. Engels ha accantola moglie Mary Burns, già operaia nella fab-brica del padre a Manchester che, protestandoper l’infortunio sul lavoro di una compagna e

licenziata di conseguenza, si mette in evidenzaagli occhi dell’uomo fino a farlo innamorare epoi sposarla. E, alla fine del film, c’è la pro-vocatoria appendice delle immagini degli ope-ratori di Wall Street affranti per lo scoppiodella recente (e oggi terminata?) crisi econo-mica. L’importanza del marxismo è basilare per tuttala storia contemporanea a seguire, in concomi-tanza con lo sviluppo industriale di ciascunanazione. A inizio di questo secolo un sondag-gio della BBC ha individuato in Marx il filo-sofo più influente del precedente millennio (!),e forse il recente terremoto economico mon-diale del 2008 ha contribuito a rinforzare in mi-sura robusta le fondamenta della dottrinamarxista. Oggi il capitalismo è in crisi per di-versi motivi, i principali dei quali afferenti aitroppi espedienti economici sviluppati da ban-che, anche di posizione eminente nel propriopaese, per ricavare il massimo profitto dai ca-pitali depositati presso di loro. È una strada chesembra determinarsi senza lasciare alcuna al-ternativa. E ancora, l’uso massiccio di robot eautomazione, con il conseguente costante de-cremento numerico della forza lavoro impie-gata, non è un’ulteriore campanello d’allarmeper il “vessato proletariato”, da sempre boc-cheggiante nella ricerca di un sicuro posto dilavoro? __________1 K. Marx - F. Engels, Il Manifesto del Partito Comuni-sta, Roma 1967, p. 37.2 Ivi, p. 93.3 Dal sito: https://rivoluzionariofragile.wordpress.com/friedrich-engels/.4 dal sito: https://www.marxists.org/italiano/marx-en-gels/1883/.5 K. Marx, Introduzione alla critica dell'economia poli-tica, Roma 1954, p. 24.

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Ferdinando Ferrajoli, Busto del figlio Antonio, past-director diquesto periodico (1962; coll. priv.).

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Consigliato da Francesco Crispi di sbarcarein Sicilia e liberare l’Italia meridionale dai

Borboni, Giuseppe Garibaldi ne accettò la dit-tatura a patto che scoppiasse prima una rivoltanell’isola, verificatasi puntualmente a Palermo(4 aprile 1860), ma presto repressa del regime.Cominciò così da Quarto (5 maggio 1860)l’impresa dei Mille (1084 uomini), sui piro-scafi Piemonte e Lombardo della compagniaRubattino, destinazione Marsala. Ivi sbarcatisconfissero in tempi e luoghi successivi letruppe di Francesco II, crescendo sempre piùnumerosi ed armati. Dalla Sicilia, su per Cala-bria, Basilicata e Campania entrarono a Napoli(7 settembre 1860). Intanto – per non essere dameno – l’esercito piemontese inviato da Ca-vour, invase Marche, Umbria, Abruzzi e colseil fronte della guerra alle spalle. Quando Gari-baldi – vittorioso sull’esercito borbonico alVolturno (26 settembre - 2 ottobre 1860) – in-contrò Vittorio Emanuele II a Teano (26 otto-bre 1860) e depose la dittatura, nacque l’Italiaproclamata l’anno successivo (17 marzo 1861). La Napoli delle contraddizioni visse la situa-zione. Gioia di irredentisti, perplessità di me-ridionalisti, ostilità di filoborbonici e tante altredivergenze conversero nell’amara constata-zione di una metropoli internazionale, tra le piùpopolose d’Europa, capitale di uno Stato di as-

soluto prestigio, assillato – al pari di altre realtàurbane di allora – dai gravami di una plebe in-colta e di una malavita incipiente, che si ve-deva defraudare dei privilegi del grande regnoborbonico per essere ridimensionata a provin-cia del piccolo regno sabaudo assurto a neoStato italiano. Quando si dovette spostare da Torino la sededel governo (1864), erano candidate Firenze eNapoli, questa preferita dal ministro di graziae giustizia Giuseppe Pisanelli, ma non dal resabaudo, convinto che il ruolo europeo dellaex-capitale borbonica l’avrebbe consacrata persempre capitale dell’intera nazione, impedendoche lo diventasse Roma. I cinque generali pre-posti scelsero perciò Firenze, motivando cheNapoli non si sarebbe potuto difenderla con laflotta italiana, inferiore alla francese o all’in-glese. Con l'unificazione nazionale la città piombò inprofonda crisi. Strutture statali smantellate, at-tività industriali in rovina o trasferite al nord ofortemente ridimensionate: un esempio lam-pante il declassamento delle gloriose officinedi Pietrarsa a vantaggio delle Ansaldo di Sam-pierdarena. Il tesoro del Regno delle Due Sici-lie, in gran parte custodito nel Bancoomonimo, rinsanguò i bilanci fallimentari delRegno di Sardegna. Il sistema fiscale piemon-

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DA GARIBALDI AL TEATRO MARGHERITA

di Elio Barletta

Stelle, meteore, buchi neri: la galassia Napoli

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tese aggravò vertiginosamente le tasse dei na-poletani. Ci volle un'epidemia di colera (1886)per indurre il governo ad intervenire. Ma la ca-morra cominciava già ad esercitare quel con-trollo che lo Stato non garantiva più. La plebe,non tutelata da serie riforme, venne addiritturacelata ai visitatori europeigrazie alle schermature ar-chitettoniche dei vicoli mise-ramente lasciati inalteratinella profonda bonifica urba-nistica del Risanamento vo-luta dal sindaco NicolaAmore, con demolizione dimolti edifici vetusti e costru-zione dei corsi Garibaldi edUmberto I (Rettifilo), nonchédi via Duomo. Molte invece le iniziativeprivate. I Grandi MagazziniItaliani fondati (1889) daifratelli Alfonso ed EmiddioMele sul modello dei fran-cesi Lafayette e Le Bon Mar-ché, destarono entusiasmo, fama, prestigio, ma,con la scomparsa dei due fondatori (1918-1928) si avviarono alla chiusura (1932). Altrarealtà positiva – testimoni i manifesti storici alMuseo di Capodimonte – la sartoria maschileCilento, per abiti, accessori e cataloghi resa unatelier di riferimento dello stile napoletano nelmondo. Ancora un esempio, quello dell’im-prenditore svizzero Luigi Caflisch che, dopoLivorno e Roma, aprì a Napoli, in via SantaBrigida, la famosa pasticceria riprodottasianche altrove nel Sud e fondò a Capodimontela prima fabbrica di birra della città, durata fin-ché l'impianto finito alla Peroni (1929), fu poichiuso e demolito. Il più antico quotidiano post-unitario di Napolifu il Roma, fondato (22 agosto 1862) da Dio-dato Lioy (editore), Pietro Sterbini (primo di-rettore), Giovanni Brombeis e LorenzoCastrovilli, dotti repubblicani mazziniani chesi battevano affinché Roma – ancora delloStato Pontificio – diventasse capitale d'Italia.Acquistato dal Banco di Napoli (1930), il gior-nale si piegò al regime fascista per poi essere

chiuso e ripreso nel secondo dopoguerra dalladestra.La coppia Scarfoglio-Serao – proveniente daun'esperienza giornalistica romana – ebbemaggior fortuna nel fondare Il Mattino, ren-dendolo il foglio più diffuso dell'Italia meridio-

nale. Lui, Edoardo –complessa personalità per-vasa dal mito dannunzianodel “Superuomo” – semprepronto ad editoriali polemicicontro qualcuno, visse il so-dalizio, anche sentimentale,in modo spesso tormentatoper l’animosità e l’inventivacon cui lei, Matilde, si ci-mentava in inchieste di de-nuncia – notevole Il ventre diNapoli – rubriche mondane,novelle, romanzi, saggi diogni genere. Pur avanti per itempi, era di un conservato-rismo esasperato contrario aemancipazione femminile,

divorzio, diritto di voto alle donne, suffragette(che chiamava «zitellone»), acquisizione di di-ritti civili femminili. I suoi scritti furono peròsempre incentrati su sofferenze di donne cau-sate da uomini e dalla società patriarcale: bal-lerine prostituitesi senza un uomo che lesposasse, ex-suore sfrattate dai propri conventiin condizioni di miseria e inedia, mogli tradite,lavoratrici sfruttate. Separatasi dal maritofondò Il Giorno, quotidiano che diresse instan-cabilmente e in piena competizione con Il Mat-tino fino alla morte (1927). L'anno prima fucandidata al Nobel, vinto però da Grazia De-ledda (più gradita al governo fascista). La nobiltà – solo in parte privata degli antichiprivilegi – indulgente con il degrado di tantiambienti cittadini, viveva le sue mondanità. Asera, luce dei lampioni a gas e insegne dei ne-gozi illuminavano la scena. Note di colore: laduchessa Caffarelli a passeggio con due genti-luomini, il conte Perrone nella pasticceria Pin-tauro, le eleganti e seducenti demimondaines acaccia di uomini facoltosi, Alexandre Dumasche scriveva: «È l’ora della vita, è l’ora del ci-

Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao

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caleccio, è l’ora dell’amore, è l’ora in cui To-ledo offre il gran finale del suo meravigliosospettacolo».Il vocabolo Café – introdotto a Marsiglia(1650) per la nota bevanda – entrò nelle abitu-dini dell’alta società. L’armeno Pascal, nel suoristorante a Foire Saint-Germain la offrì a finepasto. In Rue des Fossés Saint-Germain, il si-gnor Procope aprì il primo bar d’Europa. Sem-pre a Parigi (1729), una Società Letteraria siinsediò in un Caveau presso il Palazzo reale,ampliato e rinominato Le Caveau Moderne(1806) per ospitare attrazioni varie. Nacquecosì il Café-Chantant (Caffè-Concerto) che nelsecondo Ottocentosegnò in tutta Eu-ropa la cosiddettaBelle Epoque. Artisticome Vincent VanGogh, George Bra-que, Paul Cezanne,Amedeo Modiglianipresero a decorare ilMoulin Rouge, LeChat Noir, Les Fo-lies Bergère. Vi siavvicendavano can-tanti e attori di ogni genere. Tra tavoli e tazzinesi ballavano il can-can ed il tango. Napoli – già in auge la canzone in vernacolo –prima ancora dei Caffè Florio a Torino, Grecoa Roma, della Scienza a Bologna, si aprì allanuova moda da Flora, Diodato, Veneziano, ICavalieri, cenacoli di artisti, letterati e ricchiborghesi. Esplose, tutta ombre e luci, la scian-tosa – storpiatura napoletana della francesechanteuse (cantante) – con cui si indicarono leragazze dei bassifondi di Vasto e Pallonettopronte a crearsi un proprio spazio nello spetta-colo gettandosi alle spalle convenzioni e tabù,per una scelta irta di pericoli e delusioni, maimposta dalla necessità di sopravvivere a mi-seria ed umiliazioni incalzanti, specie per ledonne. Proprio le donne, ricche d’istinto tea-trale, si resero protagoniste: quasi tutte italiane,nomi d’arte francesizzanti ed imbottiture sa-pienti per gli sguardi impertinenti. Nelle can-zoni si ironizzò volentieri su di loro e con loro:

la purosangue, mima e danzatrice Armand’Arynell’’A frangesa di Mario Costa (1894), la finesoprano ed attrice cinematografica Lina Cava-lieri in Lily Kangy di Salvatore Gambardella eGiovanni Capurro (1905), l’amatissimo can-tautore ed attore Gennaro Pasquariello en tra-vesti in Ninì Tirabusciò ancora di Gambardellae Aniello Califano (1911). Le sciantose acquistarono prestigio e profes-sionalità, tanto da attrarre uomini di cultura edi spettacolo e da spingere signore frequenta-trici dei Caffè ad imitarle nei gesti e nell’abbi-gliamento provocante. Emersero AmaliaFaraone, Olimpia Davigny, Rosa de Saxe, Joly

Fleur, Leda delCigno, Lucy Char-mante, specialmenteErsilia Sampieri, inarte Ersilia Amorosi,torinese napoleta-nizzata, orfana deigenitori, bellad’aspetto e di voce,fama, ricchezza main giro col piattinoper le offerte ai po-veri. Napoli, Parigi,

Londra, la «Sarah Bernhard del caffè-con-certo» secondo Scarfoglio, amante ed amataanche da personaggi orientali, sulla brecciafino ai 45 anni, si ridusse a fare la chiromantea Roma, quindi l’ospizio e la fine a 78 anni(1955). Suoi cavalli di battaglia: I’ te vurrìavasà, Voglio siscà e Donna Fifì. Intanto, grazie al sindaco Principe di Torella,fu reso fattibile il progetto che permise ai fra-telli Marino di aprire – a nobildonne e notabili– il Salone Margherita, sottostante alla GalleriaUmberto I ed inaugurarlo (15 novembre 1890)appena una settimana dopo l’apertura dellastessa. Rifacendosi in tutto al francese MoulinRouge – modello, lingua, cartelloni, contratti,menu, discorsi con gli spettatori – fu il cuorepulsante della mondanità cittadina. Nei suoisotterranei – soffitti altissimi, stucchi imbian-cati, dipinti vistosi, lampadari brillanti, riflessidi specchi, acustica perfetta, ottima visione daogni posto, abbellimenti di pareti e palchetti,

Il Salone Margherita

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antico foyer al civico 65 – un pubblico ecci-tato decretava il successo senza precedenti dicelebri vedettes internazionali, cantanti, danza-trici, attrici teatrali e cinematografiche, donneoggetto di desiderio anche di noti sovrani: laspagnola Agustina del Carmen Otero Iglesias(Belle Otero); la francese, figlia di baronessaaustriaca Cleopatre-Diane de Mérode (Cléo deMérode); la francese Lucy Nanon che unospettatore salvò in extremis dagli spari del ca-morrista Raffaele Di Pasquale, detto “’o butti-gliere”, al quale non si era concessa; la russaLydia Abramovic (Lydia Johnson); la prospe-rosa e briosa napoletana Elvira Donnaruma,preferita da Eleonora Duse; Amelia Falcone,altra napoletana che declinò l’invito privato diVittorio Emanuele per non disobbedire amammà; la celebre soubrette delle Folies Ber-gère Eugénie Fougère, prima interprete dellacanzone-duetto E llèvate 'a cammesella diLuigi Stellato e Francesco Melber; Maria An-nina Laganà Pappacena (Anna Fougez), ispi-rata alla Fougère; la napoletana Maria Borsa,che al teatro Partenope capì la genialità di on-deggiare le anche e il bacino al rullo dei tam-buri – la celebre mossa fonte di delirantieccessi, rissosi disordini e accuse di oscenità –felicemente appresa e riprodotta dalla romanaMaria Campi, ritenuta erroneamente l’inventrice. Ma non mancarono gli uomini, tutti celebri enapoletani: Armando Gill, pseudonimo di Mi-chele Testa, primo a firmare musica e testi e acantarli, in dialetto ed in lingua annunciando:«Versi di Armando, musica di Gill, cantati dasé medesimo»; Nicola Maldacea, esecutore diirresistibili “macchiette” tipo Il Conte Flick, 'Ojettatore, Il Superuomo, 'O Rusecatore, L'Ele-gante, musicate da Vincenzo Valente e Salva-tore Gambardella con autori Di Giacomo,

Trilussa, Rocco Galdieri; Ferdinando Russo,autore di rime acclamato e discusso, che fir-mava il primo fascicolo della Piedigrotta conla casa discografica Polyphon, per esportare lacanzone napoletana nel mondo; Raffaele Vi-viani, con Eduardo artefice massimo del teatrodialettale napoletano. Sorsero molti altri caffè-concerto: Strasburgo,Birreria Monaco, Vermouth di Torino, Eden,Rossini, Alambra, Eldorado, Partenope, SalaNapoli. Importanza storica ebbero il Gambri-nus (1890) con sale, marmi, stucchi, galleriad’arte, frequentato da grandi – Francesco PaoloTosti, Gabriele D’Annunzio, Francesco PaoloMichetti, Salvatore Di Giacomo, EduardoScarpetta, Libero Bovio, Ernesto Murolo, Be-nedetto Croce, Eduardo De Filippo, Enrico DeNicola – e del diretto concorrente il CaffèTurco (1885) in cui il proprietario, costume efez rosso in testa, gestiva gli intrattenimentimusicali. Nella Galleria Umberto I aprì anche il CaffèCalzona: serate di gala, luculliani banchetti uf-ficiali, ma solo tre soldi per un caffè seduti altavolino, ogni sera, a godersi l’intera serata: sulpiccolo palcoscenico volto verso via Santa Bri-gida tanti personaggi come la coppia Scarano-Moretti, padre e madre dell’indimenticabileTecla; spettacoli che la Serao poteva miraredalle finestre al primo piano de Il Giorno. Inquel locale – che pian piano andava spopolan-dosi a favore di Gambrinus e Salone Marghe-rita – a mezzanotte di una fine d’anno (31dicembre 1899), 12 bellissime girls salutaronoil secolo ‘900, quello che – a cominciare dallaprima grande guerra mondiale – avrebbe spaz-zato via ogni illusione di pace operosa e di vitaserena.

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Emiddio e Alfonso Mele

La Belle Otero

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LA “SANTA GORIZIA” DI VITTORIO LOCCHI

di Sergio Zazzera

All’esito di un’operazione militare comin-ciata negli ultimi giorni di luglio, il 9 ago-

sto 1916 l’esercito italiano entrò vittorioso inGorizia. Mentre la “storia immediata” di taleoperazione è affidata alle memorie del generaleCapello1, la sua epopea si ritrovacantata nei versi de La Sagra diSanta Gorizia di Vittorio Loc-chi2.Dimenticato, se non addiritturaignorato, dagli odierni storicidella letteratura, Locchi3, secon-dogenito di Vittorio e di MariaEsaltata Bianchi, nasce a FiglineValdarno, in provincia di Fi-renze, l’8 marzo 1889: il nome dibattesimo gli viene imposto inmemoria del genitore, morto neltentativo di pacificare i conten-denti di una rissa, appena tre mesi prima dellasua nascita. L’assenza della figura paterna avrebbe ri-schiato di farne uno sbandato: durante la fre-quenza delle scuole elementari, nel corso diuna lite con un compagno, scaglia contro co-stui un calamaio, facendosi redarguire severa-mente dal maestro. Per fortuna, la lavata dicapo produce l’effetto benefico di spingerlo astudiare, al punto ch’egli stesso chiede allamadre di essere inviato in collegio. Completacosì gli studi, conseguendo il diploma di ragio-niere, ma, più che verso i numeri e la contabi-

lità, il suo interesse è rivolto verso le lettere,cui viene indirizzato dal suo professore d’ita-liano, Diego Garoglio, ch’era stato allievo diGiosue Carducci. Vittorio comincia così la suacarriera di scrittore, dando vita al giornalino

scolastico L’Idea studentesca,connotato da una marcata im-pronta di patriottismo e di nazio-nalismo.Terminati gli studi, egli torna aFigline, dove dà vita a un“gruppo di lettura” ante litteram,nella cui denominazione – “Gliamici del Giacchio” – è presentel’assonanza tra il nome di unarete da pesca e l’immagine dellagiacca sventolante di uno deipartecipanti, che ha colpito la suafantasia. E dal gruppo verrà fuori

la sua prima raccolta di versi, Le Canzoni delGiacchio4, pubblicata nel 1914, che segna l’ini-zio del suo sodalizio con Ettore Cozzani, tito-lare dell’etichetta editoriale “L’Eroica”, la cuiconoscenza personale avverrà a La Spezial’anno successivo.Nel frattempo, il suo titolo di studio gli procuraun primo lavoro, come contabile in un’aziendadi Firenze, e, poi, nel 1910, quello d’impiegatodelle Poste a Venezia, dove egli si trasferisce ecompie la sua carriera, nell’arco di cinque anni,fino a raggiungere il grado d’ispettore. Con-temporaneamente, segue i corsi di lingue e let-

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terature straniere a Ca’ Foscari, fonda l’asso-ciazione culturale “La Tavolissima”, scrivetesti teatrali (La serenata, La notte di Natale,La tempesta) e collabora con la pagina dellacultura del giornale L’Adriatico5.Nella città che lo ospita manifesta, per la primavolta, la sua adesione al movimento interven-

tista e, il 25 maggio1915, parte per ilfronte dell’Isonzo,col grado di tenentedella 12a divisione difanteria e con l’inca-rico di organizzare iservizi postali, chesvolge in trincea, me-ritandosi la medagliaal valor militare, chegli sarà conferita alla

memoria. In questo contesto nascono i cinquesonetti de La sveglia, d’impronta patriottica eantiaustriaca, dedicati al generale Paolo Rug-geri Laderchi6.La partecipazione alle operazioni conclusesicon la presa di Gorizia, tra la fine di luglio e il9 agosto 1916, gli ispira il poemetto La Sagradi Santa Gorizia, in versi sciolti (ma costellatiqua e là di rime), composto su suggerimentodel generale Ruggeri Laderchi e pubblicato po-stumo, nel 1917, sotto il numero 2 della serie“I Gioielli del (sic) ‘L’Eroica’”, dal Cozzani, ilquale nella prefazione lo definisce «cavalierepoeta»7. E il colophon del volumetto, impressocon veste grafica elegante e impreziosito da xi-lografie Liberty in color arancio, reca, fra l’al-tro, la data del «V maggio dell’anno di VittoriaMCMXVII» e l’auspicio «Viva per semprel’Italia alunna della poesia e maestra dei po-poli»8. Peraltro, il poeta aveva già sottoposto

la sua opera alla valutazione di Ada Negri, laquale, però, non era riuscita a procurargli uneditore.Orbene, quando oggi il discorso cade sullapoesia della prima guerra mondiale, le citazionidi prammatica sono quelle che concernono laproduzione poetica, invero – e spiace doverlorilevare – lugubre, di Giuseppe Ungaretti9, o,tutt’al più, quella, retorica e rutilante, di Ga-briele D’Annunzio10; eppure la schietta fre-schezza dei versi di Vittorio Locchi, ignoratifinanche da docenti di letteratura italiana con-temporanea11 (per me fu una scoperta neglianni del liceo), avrebbe meritato ben altrasorte. Freschezza che si avverte fin dall’esor-dio:

E voliamo nel sole, anima mia!12

ma si coglie, ancora, qua e là, per tutto ilpoema, da:

Ma per cantarebisogna purificarsi,bagnarsi dentro l’Isonzo,asciugarsi al sole,dimenticareed essere tutto cuore,dalla fronte al tallone:tutto amore e tutto ardore13

a:

il gioire e il soffrireerano una ghirlandache le si dava in donoavanti di morire14

oppure a:

amore dolce, mi vedi?Amore dolce, mi senti?Quanti tormentiancora, quanti tormenti

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Si terrà dal 29 settembre al 3 ottobre 2018, presso il Conservatorio delle Orfanealla Terra Murata di Procida, sede della Scuola di Alta Formazione dell’Universitàdegli Studi di Napoli “L’Orientale”, la XIII edizione della Summer School “L’Im-presa culturale nel Mediterraneo”. “Novecento Mediterraneo” è il tema presceltoper i lavori di quest’anno che si focalizzeranno sugli anni Venti e Trenta del XXsecolo, a cavaliere tra le due guerre mondiali. Il programma offrirà una serie dilezioni sulla riflessione storica e antropologica, su alcuni scrittori del mondo arabo,di quello balcanico, della Spagna e della Francia, e ancora sulle sperimentazioni

artistiche e architettoniche e sui suoni del Novecento Mediterraneo. Il concerto per chitarra del po-meriggio inaugurale sarà dedicato alla memoria del compianto prof. Giuseppe Galasso.

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prima degli sponsali?Avevo un paio d’alid’aquilastro italiano,chi mi tarpò le pennee immerse nel pantano?15

o ancora:

E il grand’occhio celeste,il sorridente sereno,era davvero tornato.Era tutta un arcobalenola cupola d’aria del Carso.Brillavano le petraiecome ossami calcinati:lontano l’Alpi Giulieparevano domi incantati.Tutti i monti più alti,si levavano il mantello biancoe si scaldavano al sole16

fino al festoso epilogo:

La Città è apparsa,apparsa a tutti nel piano,dalle vette raggiunte;e tende le braccia,e chiama,lì, prossima,tutta rivelata,nuda e pura nel soledi ferragostoe libera! libera!sotto la cupola celestedel cielo d’Italia,sotto le Giulie,l’ultime torrismaglianti della Patria17.

Sono versi – com’è dato constatare – nei qualila retorica carducciana18 si fonde con una venalirica popolaresca che, tuttavia, non riesce asmorzarne i toni epici e che costituisce, in ognicaso, l’originale impronta ottimistica che di-stingue la composizione del Locchi da quelledegli altri autori. In proposito, anzi, sembrasoltanto marginale la vena di “misticismo

laico” che qualcuno mostra di ravvisarvi19.C’è chi ritiene possibile distinguere i “poeti chefanno i soldati” dai “soldati che fanno i poeti”20: ebbene, per quanto una siffatta dicotomia nonmi sembri convincente, credo che, anche a vo-lerla accettare, le due tipologie troverebbero inLocchi un perfetto bilanciamento, come dimo-strano la sua poetica e la sua vita, fino alla fine.La disponibilità manifestata dal poeta a parte-cipare ad altre operazioni belliche, dopo quelladi Gorizia, ne determina l’imbarco sul piro-scafo Minas, nave passeggeri requisita per esi-genze militari, che, però, il 15 febbraio 1917,subirà un duplice siluramento, al largo di Capo

Matapan, nell’Egeo, invista del porto di Salo-nicco: l’intero equipaggiorisulterà disperso e, coltrascorrere del tempo,ogni speranza di ritrovarevivi Locchi e i suoi com-militoni andrà persa. E,dopo la sua scomparsa,mentre il Comune di Go-rizia gli dedica una stelenel Parco della Rimem-branza21 (nella foto in que-sta pagina), il professorGaroglio, che gli era statomaestro, ne affida il ri-

cordo a questi semplici versi:

Uno rivedo coi luminosi occhisopra me fissi, dal suo banco a scuolalampeggianti a ogni fervida parola,ti riconosco mio Vittorio Locchi22.

____________1 Sull’intera operazione cfr. L. Capello, Note di guerra,1. Dall’inizio alla presa di Gorizia, Milano 1920, p. 273ss. Per il concetto di “storia immediata”, si v. J. Lacou-

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Con l’intervento di S. E. Crescenzio Sepe, arcivescovo di Na-poli, la comunità procidana ha festeggiato, il 1° luglio scorso,mons. MICHELE DEL PRETE, vicario curato perpetuo dell’Abba-zia di San Michele Arcangelo e parroco della SS. Annunziata,nel suo 50° anniversario di sacerdozio. Ai rallegramenti della

popolazione dell’isola Il Rievocatore intende associare i propri.

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ture, La storia immediata, in La nuova storia, a c. di J.Le Goff, tr. it., Milano 1980, p. 207 ss. 2 V. Locchi, La Sagra di Santa Gorizia, Milano 1917, p.17 ss.3 A Locchi dedica un’apprezzabile attenzione A. Cortel-lessa, Le notti chiare erano tutte un’alba2, Firenze-Mi-lano 2018, passim (in particolare, per la biografia, p.748, ma cfr. pure F. Brancaleoni, in Dizionario biogra-fico degli italiani, 65, Roma 2005, a.h.v.).4 V. Locchi, Le canzoni del Giacchio, Milano 1919.5 L’Adriatico. Gazzetta del Veneto, il cui primo numerodata al 16 ottobre 1876: cfr. l’Indirizzo Internet:http://biblioteche.comune.trieste.it/.6 V. Locchi, La sveglia. Il testamento, Milano 1918.7 Cfr. E. Cozzani, Prefazione a V. Locchi, La Sagra cit.,p. 7.8 Ivi, p. 64.9 Cfr. G. Ungaretti, Il porto sepolto, Udine 1916.10 Cfr. G. D’Annunzio, La canzone del Quarnaro, in Labeffa di Buccari con aggiunti La canzone del Quarnaro,Il catalogo dei trenta di Buccari, Il cartello manoscrittoe due carte marine, Milano 1918 («EIA, sbarre delQuarnaro! / Alalà!»).11 Se si eccettua il punto di vista di A. Cortellessa, o. c.,p. 196, il quale ravvisa in quei versi «un monstrum [nelsenso latino di prodigium, n.d.r.] difficilmente superabile– nel quale il sincretismo epico-erotico (sic)-religiosopotrebbe turbare forse qualcuno, oggi, come blasfemo».12 Ivi, p. 17.13 Ivi, p. 18.14 Ivi, p. 30.

15 Ivi, p. 32.16 Ivi, p. 34.17 Ivi, p. 55.18 A. Cortellessa, o. c., p. 202 s., ravvisa in quei versi «leforme del repertorio della poesia volgare del Quattro-cento» e ritiene la loro retorica «più facile da emulare»,nel raffronto con quella di D’Annunzio.19 Cfr. A. Cortellessa, o. c., p. 196 s., 201.20 Cfr. U. Saba, Di questo libro e di un altro mondo, orain Tutte le prose, Milano 2001, p. 908.21 Cfr. Touring Club Italiano, Gorizia e provincia…, Mi-lano 2003, p. 5322 Cfr. F. Manescalchi, La Toscana dei poeti (all’indi-rizzo Internet: http://www.francomanescalchi.it/criti-ca.html).

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MOSTRA DI MODELLISMO NAVALE A TELESE TERMELe Terme di Telese hanno ospitato, dal 9 ago-sto al 9 settembre, nella “Sala Goccioloni”, unamostra di modellismo navale, sotto il titolo“Storia della navigazione”: quasi una scom-messa, in una località tanto distante dal mare.L’organizzazione dell’esposizione è stata cu-rata dall’associazione culturale “Il Genio diLeonardo”, di Calcinaia (PI - www.ilgeniodileo-nardoexhibition.com), che già lo scorso annoaveva fatto allestire, nella stessa sede, una mo-

stra di macchine leonardesche. I modelli esposti hanno proposto al pubblico unapanoramica delle tipologie di scafi in uso nel tempo e nello spazio: accanto ai mo-delli delle caravelle di Cristoforo Colombo, infatti, erano presenti, fra i tanti, quellidel Cutty Sark, primatista nella “corsa del tè”, del vascello svedese Wasa, del SoleilRoyal di Luigi XIV, fino a quelli dell’Amerigo Vespucci e del Titanic. All’accoglienzadei visitatori hanno provveduto i ragazzi del liceo scientifico locale, ai quali l’as-sociazione organizzatrice – il cui motto è “La cultura entra nella scuola” – ha de-dicato una conferenza didattica.

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UNA LUCE NEL BUIOIL TEATRO DELLA LIBERTÀ DI ROBERTO BRACCOI temi innovativi del suo teatro nella poetica di Anna Maria Ortese e di Elena Ferrante

di Antonio Grieco

Drammaturgo, giornalista, novelliere, Ro-berto Bracco (1861-1943), napoletano, è

stato un protagonista assoluto del teatro ita-liano tra Otto e Novecento. In quella complessafase storica egli infatti fu l'autore italiano piùrappresentato all'estero e, negli anni venti delsecolo scorso, solo per le vergognose manovreinternazionali del fascismo non gli venne asse-gnato il Premio Nobel. La persecuzione del re-gime gli impedì di rappresentare i suoi lavori,emarginandolo dalla scena culturale, politica eteatrale italiana. Ma non si arrese e fu tra ipochi intellettuali italiani a non piegarsi alladittatura di Mussolini e ad affermare quei va-lori di umanesimo e di libertà che sono il segnodistintivo di tutti i suoi drammi: da L'infedele(1894) a Don Pietro Caruso (1895), da Il di-ritto di vivere (1900) a Sperduti nel buio(1901), sino a L'internazionale (1915), La pic-cola fonte (1905), Il piccolo santo (1912), au-tentici capolavori del teatro europeo delNovecento.La conseguenza dell''ostracismo fascista neisuoi confronti fu molto grave e, soprattuttodopo la violenta interruzione, nel 1929, dellarappresentazione de I pazzi (1922) ad opera diquella che Bracco definì «una falange di ener-gumini», su di lui cadde definitivamentel'oblio: un silenzio che non consentì una letturapiù attenta della sua drammaturgia, associata,in genere, sulla scia di Ibsen, al filone neoidea-

listico del teatro che si sviluppò in Europa trai due secoli in contrapposizione al verismo.L'indicazione idealista per il suo teatro – cheanticipa temi come la psicanalisi, l'antimilita-rismo, il femminismo – sembra però in qualchemodo riduttiva, perché nelle sue commedie af-fiora in ogni istante una relazione tra l'arte e lavita; un legame sempre indissolubilmente in-trecciato a un autentico sentimento della li-bertà. In Bracco, come per pochi altri autoricontemporanei, si può dire che ad ogni gestodi libertà nella vita corrisponda un gesto di li-bertà nell'arte. Una di queste azioni rivelatricidella sua libertaria visione del mondo è lafirma con Benedetto Croce, nel 1919, de LaDéclaration de l'Indépendance de l'Esprit, unappello pacifista contro la guerra redatto daRomain Rolland, cui aderirono alcuni dei mag-giori scrittori ed intellettuali europei, comeBertrand Russell, Albert Einstein, StefanZweig.Purtroppo il silenzio intorno alla sua operacontinuò anche dopo il crollo del regime conla nascita della Repubblica, forse, oltre che perl'incomprensibile disattenzione da parte dellacultura democratica del nostro paese, ancheperché – come osserva lo storico Francesco So-verina (Il “Caso Bracco”. Una ferita non sa-nata, Napoli 2017) – in fondo, negli anniCinquanta del Novecento, nei gangli fonda-mentali della società italiana «erano assisi co-

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loro che avevano fatto carriera durante il Fa-scismo».Negli ultimi anni l'interesse intorno a Bracco eal suo teatro – soprattutto per l'impulso datoalla sua conoscenza da sua nipote, Aurelia DelVecchio, che ha donato il suo Archivio perso-nale all'Istituto Campano per la Storia della Re-sistenza “Vera Lombardi” – è ripreso e sonoapparsi rilevanti studi sulla sua opera, di cui,in particolare, si segnalano: L'intellettuale in-transigente (Guida editore) di Pasquale Iaccio;L'alfiere della scena (Oèdipus) di Mario Pri-sco, che ha anche cu-rato la riedizione dellesue più importanticommedie per Edito-ria&Spettacolo; e, piùdi recente, come si èdetto, Il “CasoBracco” di Soverina;di notevole interesseanche il documenta-rio, realizzato nel2014 da Giuseppe Pesce, che racconta, attra-verso documenti e interviste, la tormentataesperienza artistica e umana del drammaturgonapoletano. Né va dimenticata, in anni recenti,la riproposizione teatrale di alcuni suoi testi,come L'internazionale – dramma antimilitari-sta del 1915, per l'attenta regia di GiovanniMeola, che anticipa di qualche decennio il tea-tro epico di Bertolt Brecth – e Lui lei lui(1886), messo in scena dal regista PasqualeNapolitano e dalla Compagnia “La Carrozzad'oro” che, meritoriamente, prosegue una ri-cerca intorno alla sua drammaturgia legandola– come nei laboratori su I Pazzi – alla più avan-zata sperimentazione teatrale europea.Va inoltre detto che per tutto il Novecento esino ai nostri giorni, pur in assenza, salvo rareeccezioni, di adeguate iniziative culturali chene ricordino il suo fondamentale contributoalla drammaturgia contemporanea, non sonomancate sorprendenti adesioni alla sua poetica,soprattutto da parte di alcune grandi scrittriciitaliane: vicinanze poetiche, sguardi incrociati,talvolta vere e proprie “affinità elettive” che te-stimoniano quanto il suo teatro sia ancora in-

credibilmente attuale e vivo. La prima scrittricead accorgersi dell'alto valore letterario e arti-stico dei suoi drammi è stata Anna Maria Or-tese che in una lettera del 1939, quando ilfascismo aveva costretto già da tempo l'autorenapoletano ad un terribile isolamento, lo inco-raggiò a continuare a scrivere – «perché unpoeta non invecchia, non è mai solo» – affer-mando che i suoi lavori erano capolavori asso-luti che avevano il pregio di mostrare i coloridi Napoli. L'autrice del Cardillo addolorato sisofferma, tra l'altro, su Sperduti del buio, una

delle commedie piùintensamente poetichedel teatro di Bracco. Ildramma racconta del-l'incontro tra Nunzio,suonatore cieco, e labella Paolina, figlianaturale del duca diVallenza. I due lavo-rano insieme in uncaffè di infimo ordine

oppressi da un padrone violento, Franz Car-dillo. A un certo punto decidono di fuggire persottrarsi a questa insopportabile schiavitù, matra i due chi “vede”, chi cioè ha un più chiaroprogetto di vita, è Nunzio, il suonatore cieco.Ortese – come ci è capitato altre volte di osser-vare – riprende la metafora bracchiana dellacecità «come seconda vista» in Un paio di oc-chiali, visionario racconto del suo Mare nonbagna Napoli. Sperduti nel buio, forse più dialtri lavori, ci ricorda l'acuta osservazione diAntonio Staüble, secondo cui – come sottoli-nea nel saggio Il Teatro di Roberto Bracco (To-rino 1959) di cui è autore – «i suoi personagginon sono mai astratti simboli di un'idea, ma fi-gure vive, scavate nell'umanità». E tra quelleinnocenti figure “scavate nell'umanità”, a noiviene immediatamente in mente la cocottinaMignon de L'internazionale, la quale – sospet-tata di essere una spia perché scrive missive aisuoi giovani amanti impegnati sul fronte diguerra – a un certo punto grida tutta la sua in-dignazione per le immani perdite di vite umanecausate dal conflitto mondiale al Cavaliere-Commissario con queste strazianti parole: «Da

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quando si è scatenato questo flagello io sonoin ansia, io sono in un'angoscia che non so dire.Erano tutti giovani, tutti gentili. Che vita chegioia in quegli occhi e in quelle bocche. E orapenso che sono tutti lì, a morire, penso chesono tutti lì ad uccidersi tra loro. È una cosamostruosa!». È del tutto evidente che qui èBracco che “parla”; una partecipazione al do-lore umano per quell'atroce e inutile massacrodi milioni di uomini e donne che ritroviamoanche nella didascalia: «Ella piange con la de-solazione innocente di una bambina».Il dramma, pacifista e antimilitarista, è del1915. Dello stesso anno, dopo quello del Futu-rismo del 1909, è il delirante Manifesto di Fi-lippo Tommaso Marinetti: Guerra sola igienedel mondo. Bracco sta da un'altra parte. In luietica ed estetica sono un tutt'uno. Ripudia laguerra. È con Gandhi per la non violenza e conchiunque lotti per la pace e la libertà dei popoli.Nessun autore italiano, nell'Italia interventistad'inizio Novecento, si era mai spinto a tanto.Da un'analisi più ravvicinata delle sue opere, èpoi facile constatare come il suo teatro e la suastessa visione del mondo non saranno maicompatibili col Fascismo né con qualsiasi altraforma di autoritarismo e di oppressione.È questa attenzione alla vita vera – e a quelprofondo sentimento di libertà che anima tuttii personaggi (soprattutto femminili) delle suecommedie – che crediamo abbia spinto ElenaFerrante, l'anonima scrittrice del romanzoL'amica geniale, a segnalare in qualche modola sua vicinanza alla sua drammaturgia. Ilsegno bracchiano nella sua scrittura è sotterra-neo, quasi nascosto, ma è elemento assoluta-

mente non trascurabile della narrazione. Loscopriamo in Storia della bambina perduta (p.221) – ultima parte del ciclo che presto diven-terà una serie televisiva – quando la protago-nista Lenù deve recarsi alla BibliotecaNazionale di Napoli per cercare un «vecchiovolume di Roberto Bracco che s'intitolava Nelmondo della donna»; una riflessione sull'uni-verso femminile in due parti: L'evoluzionedella donna, del 1905, e La donna napoletana,dello stesso periodo. È solo un caso o la Fer-rante con questa indicazione apparentementemarginale del lungo ciclo dedicato alla storiadi due bambine ha voluto dirci qualcosa di piùdel suo sguardo sull'universo femminile? Noipensiamo – soprattutto ricordando figure comeTeresa de La piccola fonte e Claudia di Mater-nità, due indimenticabili eroine bracchianesimboli dell'Essere che si oppone al vuoto ap-parire – che questa seconda ipotesi sia la piùattendibile, perché le commedie del dramma-turgo napoletano, non diversamente da parti si-gnificative del romanzo ferrantiano, hannoquasi sempre per oggetto il valore della donnain sé, la sua innocenza e sensibilità umana con-trapposte al cinismo, all'ipocrisia e alla bruta-lità dell'uomo. Ed è questo uno dei tanti motiviche oggi – in un drammatico passaggio d'epocasegnato da inaudite forme di violenze nei con-fronti delle donne e di tutti i diversi e i disere-dati del mondo – deve spingerci a tornare aBracco, guardando all'umanesimo della suaarte e del suo teatro come ad una luce nel buioche ci restituisce il senso più profondo dellanostra esistenza.

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Mimmo Piscopo, Funicolare di Chiaja

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UN MONUMENTO DA FARSI

«GIUSTIZIA ED ONOREPER UNA DOLCE CREATURA»

di Ferdinando Ferrajoli

Elevare a Procida un monumento per ricor-dare la bella e sfortunata fanciulla isolana,

protagonista della famosa storia d’amore di La-martine, è un’ottima idea. Facendo ciò, si ren-derà giustizia ed onore ad una dolce epassionale creatura, la quale diede tutto il suoprofondo amore ad un poeta, che, per il suoegoismo e per la sua elevata posizione sociale,non fu all’altezza di quell’amore così sublime.Infatti, nel momento della passione più forte etravolgente della bella Procidana, quegli, dopoaver corrisposto al suo amore, improvvisa-mente la abbandona al suo destino, facendo ri-torno nella sua lontana patria e dimenticandoper lungo tempo le ore felici trascorse con queldelicato fiore dei campi procidani.Solo verso la fine dei suoi anni, il vecchiopoeta, preso forse dal rimorso, si ricorderà dicolei che lo aveva follemente amato, scrivendoe tramandando ai posteri la infelice storia diquell’amore, che, difficilmente è ricostruibilenella sua realtà storica; ed immortalò così ilnome di colei che non seppe amare di eguale

ardore in gioventù. «Ahimè, non era il com-pleto amore, in me era soltanto l’ombra»… epiù oltre: «Credetti di adorarla come tanta in-nocenza, bellezza e amore, meritavano di es-sere adorati da un innamorato». Paginestupende descrivono la passione ardente dellabella Procidana per il suo straniero.La tempesta, che all’improvviso colse la fragilebarca del pescatore di Mergellina e di suo ni-pote Peppino con i due giovani stranieri nellostorico mare di Capo Miseno, e la loro affan-nosa ascesa delle diverse centinaia di scalini,scavati nell’alta roccia, per arrivare all’abita-zione del pescatore, sono descritte magistral-mente dalla penna dello scrittore.La “Terra Murata”, che, un tempo, accolsenelle sue mura il nobile signore dell’isola, Gio-vanni da Procida, accoglieva, in quella burra-scosa notte, il patrizio poeta entro la poveracasetta del pescatore di Mergellina, situata inalto, sulla roccia della costa, sotto gli spalti delturrito palazzo del Cardinale d’Aragona, AbateCommendatario di Procida.

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Pagine vive

È stata collocata di recente nei giardini del belvedere della chiesa procidana di Santa Marghe-rita Nuova la testa di Graziella, scultura in tufo realizzata dall’artista siciliano Lorenzo Reinanel 1995 e donata all’isola dal Consorzio flegreo per i beni culturali. L’evento costituisce l’oc-casione per ripubblicare quanto scriveva il Ferrajoli negli anni cinquanta del secolo scorso.

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Se è problematico rintrac-ciare la vecchia casa del pe-scatore di Mergellina,invece il palazzo cardinali-zio, che, un tempo, fu l’am-mirazione di principi e diregnanti, si eleva tuttoranella sua imponente mole,quasi come l’ideò l’archi-tetto Benvenuto Tortelli, nel1563, su commissione delCardinale d’Aragona. Solonel 1831 vi furono apportatealcune modifiche per adibirlo a “Bagno Pe-nale”, e tuttora ne esercita l’ingrata funzione.Con l’iniziativa di elevare nell’isola un monu-mento per ricordare la tormentata storiad’amore della bella Graziella, credo che L’Oradi Procida debba cogliere l’occasione per ini-ziare una campagna onde convincere le auto-rità interessate che l’isola di Procida non è illuogo adatto a redimere i galeotti.Si allontanerebbe così dalla nostra bella isola,sorella minore delle altre due perle del golfopartenopeo, il famoso Penitenziario. Così lamaggior parte dei cittadini degli altri paesi, siconvincerà che essa è l’isola dell’amore, del-l’oblio e del riposo; insomma, un luogo di sog-giorno preferito e non di pene!Nella prefazione del mio libro sull’isola Guidastorica ed artistica di Procida (Casa Zincoti-

pografica I.G.E.A., Napoli1951) dicevo fra l’altro:«Questo mio lavoro, innan-zitutto, ha lo scopo di con-vincere molta gente chel’isola di Procida non è unluogo di pene, opinione que-sta dovuta alla dimora delfamoso “Bagno Penale”»ecc.: fu proprio questa cat-tiva nomea che m’indusse ascrivere sulle bellezze pano-ramiche e sulla storia del-

l’isola. Credevo che le autorità localiintervenissero e si preoccupassero di quantoavevo accennato nel mio modesto lavoro, al-meno per far depennare da qualche cartolina il-lustrata la parola: “Penitenziario”. Invece, conmia somma delusione e meraviglia, nessuno hadato mai rilievo a ciò che avevo menzionato,anzi, debbo soggiungere che il mio lavoropassò inosservato.Eccellente l’idea del monumento che dovràsorgere in onore di Graziella; essa viene oppor-tuna per liberarci del sinistro luogo di pene dei“galeotti”, perché sarebbe inconcepibile vedereelevare un monumento a Graziella fragile fioredell’amore della purezza e della bellezza, al-l’ombra di un’opera architettonica come il Pe-nitenziario.

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RESTITUIAMO LA DOMENICA AGLI AFFETTIRestituiamo la domenica agli affetti. Precipitiamo sempre di più nel baratro del consumi-smo e non comprendiamo che solo negli alti valori della famiglia troviamo l’antidoto allo“sgarrupamento” generale!La smania di apparire, la rincorsa al denaro, la droga del consumismo non possono col-mare i vuoti del nostro animo. Non siamo nati per essere schiavi del materialismo, dellaparola urlata, della rissa in tv, del falso benessere. Non siamo nati per vivere in un mondorumoroso e fatuo. Ricominciamo dalle cose più semplici, dal gusto di stare insieme per-

lomeno la domenica e le feste comandate, goderci quel calore e quelle gioie che nessun supermercato o centrocommerciale avrà mai la possibilità di venderci. Ritroviamo la famiglia e annienteremo il male. Ritroviamo legiuste pause di riflessione, il gusto di saperci accontentare e di goderci le cose semplici e belle che la vita èancora pronta ad offrirci. Deve esserci un tempo per gli acquisti, un tempo per la famiglia, un tempo per il la-voro, un tempo per lo svago. Così avremo un punto certo da dove partire. Ridateci le festività con i negozichiusi. Ridateci la gioia di vivere queste giornate di riposo, di fede e di sereno ozio nell’armonioso calore dellafamiglia, più che mai, elemento rigeneratore. Ricominciamo a sognare con i nostri figli, i nostri nipoti, i nostricari. Ne guadagneremo tutti, di più.

Raffaele Pisani© Riproduzione riservata

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EDUARDO VITTORIA

di Franco Lista

AEduardo Vittoria, architetto e intellettualenapoletano, è stata dedicata nel luglio

scorso una giornata di approfonditi studi, nellaquale si è dato corso alla inaugurazione di unacorrelata mostra dei suoi molteplici progetti,scritti, ricerche; arric-chita da preziosi dise-gni autografi epresentata con un es-senziale allestimento aPalazzo Gravina, l’an-tica sede della Facoltàdi Architettura di Na-poli. Pietro Nunziante eMassimo Perriccioli,curatori della prege-vole iniziativa, insiemeagli altri relatori, tra cuiAldo Capasso e Augusto Vitale, hanno appro-fondito l’importanza della composita attivitàprogettuale e d’insegnamento di Eduardo Vit-toria, mettendone in risalto il notevole portatonel contesto dell’architettura italiana e il ruolofortemente innovativo condotto in diversi ate-nei, alcuni dei quali dallo stesso Vittoria fon-dati1. Eduardo Vittoria nasce a Napoli nel 1923 e quisi laurea in architettura, iniziando una collabo-razione con Luigi Piccinato e Luigi Cosenza. Isuoi interessi culturali e ideologici sono ampie con profonde radici, tali da costituire un rile-vante sostrato alla sua ricerca che si completa

nella assorbente esperienza olivettiana di Ivrea.È poi preso sia dal coinvolgente impegno po-litico, come assessore nella giunta comunale diMaurizio Valenzi a Napoli, sia dall’attività inambito universitario di docente, creatore di

nuove discipline d’in-segnamento e diparti-menti di architettura edesign.Una personalità dunquecomplessa e di affasci-nante caposcuola cheho avuto la fortuna diconoscere nel corsodegli anni ’70. Anni,peraltro, favorevoli allapartecipazione socialee sicuramente inclini anuove visioni proget-

tuali. Si pensi, per fare un solo esempio, al me-morabile “Progetto 80”, elaborato dalMinistero del Bilancio e della Programmazioneeconomica, proprio negli anni Settanta. Sono stato invitato, nella giornata di studi, arendere la mia diretta testimonianza del rap-porto che ho avuto con Eduardo Vittoria. Il ri-cordo, le immagini costruite per ricordarehanno avuto il significato di andare indietro neltempo; le sensazioni che ne ho ricevute sono,naturalmente, molto diverse da quelle che oggiviviamo: un tempo tutto chiuso, per non direrecluso, nel presente. E, a sua volta, un pre-sente enormemente dilatato, privo di rapporti

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col passato e per questo non in grado di espri-mere agevolmente congetture e progetti per ilfuturo.Sembra di vivere in una sorta di società sincro-nica che, indebolendo il filo diacronico dellastoria, vive solo il “qui e ora”.Nel 1973 a Eduardo Vittoria fu affidata la se-zione italiana della quindicesima Triennale diMilano2. Ci coinvolse tutti con quel suo temainnovativo: “Lo spazio vuoto dell’habitat”. Ro-salba La Creta ed io, per la interessante occa-sione prefigurata da Vittoria, progettammo un“giardino modulare” che riscosse molto inte-resse, tanto da essere pubblicato e finanche di-vulgato sulla popolare Domenica del Corrierecon un titolo sorprendente: Mi vende un giar-dino da cinquecentomila lire?3.Realizzammo il prototipo di questo giardino di500 mq in ungrande vivaio alleporte di Roma:un’unità modularecomponibile, arti-colata in due ver-sioni che siaprivano a ungioco alterno diconcavità, conuna piccola cavea,e convessità, conuna torretta-osservatorio, mentre la sagomacurvilinea del contorno ne assicurava la possi-bilità di realizzazione in piccoli spazi. Ap-punto, i piccoli spazi “vuoti dell’habitat” e conassoluta rapidità e minimo dispendio econo-mico.Il prototipo realizzato ben s’inseriva in quel-l’insieme sperimentale presentato nella sezionedella Triennale, la cui flessibilità e adattabilitàcostituivano il punto di forza della ricerca diEduardo Vittoria, in quegli anni. Una ricercaaffidata a una filosofia progettuale che compo-neva funzionalità, tecnologia e senso estetico.Infatti, il “modulo-giardino” accolse le crea-zioni di Franco Mazzucchelli e Nino Caruso,eccellenti artisti che aggiunsero un’ulteriorevalenza decorativa e funzionale alle attività lu-diche che il nostro giardino certamente poteva

stimolare non solo nei piccoli fruitori.Il senso innovativo di quel tema di studio fu,per me, una sorta di primo indicatore della per-sonalità creativa di Eduardo Vittoria che cispingeva a pensare e a dar vita a soluzioninuove, inedite. Una personalità che nettamente si differen-ziava dagli altri colleghi proprio per il suomodo di congetturare, certamente non con-forme, non omologato. Ebbi poi una successiva e forse più pungolanteconferma di tutto questo quando Eduardo Vit-toria, questa volta da assessore al centro storicodi Napoli, mi diede l’incarico di progettare ilParco delle Fontanelle. Si trattava di configu-rare un parco di attrezzature integrate (scuola,biblioteca, aree per il gioco e lo sport, tutte im-merse nel verde) sui 40mila mq. di proprietà

comunale nel val-lone delle Fonta-nelle verso cuidigradano le pen-dici dei ColliAminei ricopertida una fitta vege-tazione, mentre unbanco tufaceo, ta-gliato nel vivo, nerecinge un lato. Inun luogo ricco di

memorie, dal Cimitero delle Fontanelle (unaserie di cavità di tufo, un ossario, luogo di cultopopolare dei morti), alle Catacombe di SanGennaro, agli ipogei greci della Neapolis, finoalle sorprendenti e ardite scale a giorno dei varipalazzi settecenteschi opera di FerdinandoSanfelice. Un’area dunque naturalistica e allo stessotempo fortemente stratificata dalla storia. Ilvallone con le sue cavità tufacee, aveva unasorta di nascosta, singolare “acustica”; infatti,risuonava come tutte le cavità della Napoli sot-terranea. Bisognava tendere l’orecchio per ac-cedere all’arcano, al segreto del suo mistero,«alla mitologia del luogo che è iscritta nel pae-saggio – come ha, con rara efficacia, scritto peri territori del mondo classico Domenico Musti– e che al tempo stesso lo esprime».

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F. Lista, Progetto del Parco delle Fontanelle

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Eduardo Vittoria, quando gli mostrai gli inizialidisegni e le prime idee del progetto, era su que-sto stesso registro di sensibilità nel considerareil territorio. Le interiora terrae delle cavità, ilsuffragio ai defunti delCimitero delle Fonta-nelle, l’arrefrisco al-l’àneme ô Priatòriodoveva esternarsi sullagrande area a verde earrefriscà bambini e an-ziani all’ombra degli al-beri.Ecco, in Eduardo Vitto-ria non vi era solo ilforte impegno sociale,ideologico del buon as-sessore. Infatti, uno dei valori sociali di cui eraportatore era quello comunitario, di ascendenzaolivettiana: realizzare piccole comunità. E ilParco fu teatro di forte e convinta partecipa-zione con l’attiva presenza e l’intervento dellascuola “Lombardi”, del suo straordinario pre-side Nino Pino, degli insegnanti, dei partiti po-litici presenti nel rione Sanità4.Vi era in Eduardo Vittoria, assessore al Centrostorico, anche un modo di ricercare, di rinve-nire in quel luogo storico una sostanza al disotto delle apparenze. Non più la quantità mala qualità dello spazio. Questa era la natura dell’immaginazione del-l’architetto Vittoria; una libertà inventiva chesi sublimava poi nella matrice razionale del-l’architetto. Direi, la sua era una sorta di “on-tologia del centro storico” che era percepitocome se lì vi fosse la radice profonda, piena etotale, del modo in cui gli interventi e le modi-ficazioni, l’architettura e la forma del verde do-vessero poi configurarsi.Eravamo a ricercare quel senso certamente più

recondito, quello che non sfugge alla perce-zione sensibile. Quello che Arthur Danto, perl’opera d’arte, ha chiamato «incarnazione disenso» e che noi, per estensione, potremmo

chiamare “incarnazionedi senso del luogo”. Questo credo che siastato il tratto più fortedella sua personalitàcreativa: ricercare nelluogo urbano le più pro-fonde qualità, compren-derle a fondo pervalorizzarle in modoadeguato.La lezione è intensa perqualità e penetrazione e

questo non è da tutti, perché il maestro è sem-pre contraffatto dai suoi imitatori.Questo è il mio ricordo, questa è la mia testi-monianza in questa bella giornata di studi sullasua figura di maestro. Questa è il suo insegna-mento e l’impronta che ha lasciato. «Vivere èlasciar tracce» ha scritto il filosofo.Una lezione più che mai attuale nella nostracittà esposta storicamente a manomissioni,compromissioni, distruzioni (così com’è statopoi distrutto il Parco da me progettato), conge-stionata sia di problemi irrisolti, sia di do-mande senza risposte. ___________1 AA. VV., Eduardo Vittoria, Studi Ricerche Progetti,Napoli 2018.2 Quindicesima Triennale di Milano, Palazzo dell’arteal Parco, Milano 1973.3 Domenica del Corriere, 21 agosto 1973, p. 26.4 A. Pino, Un Parco di attrezzature integrate nel RioneSanità, in Campania Documenti, 1975, n. 3-4, pp. 5-15.

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R. La Creta - F. Lista, Progetto di giardino modulare

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Vesuvius by Franco Lista

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IL BILANCIO DI SOSTENIBILITÀ.1

di Carlo Zazzera

In un mondo in cui l’aspetto economico èsempre più centrale nelle dinamiche sociali,oltre che aziendali, la nascita del bilancio di so-stenibilità ha permesso ai soggetti economicidi differenziarsi evidenziando, oltre al rapportocosti-ricavi del bilancio classico, anche l’im-patto che le attività aziendali hanno sull’am-biente e sulla società. La definizione di bilancio di sostenibilità de-riva da un’evoluzione del concetto di bilanciosociale, in riferimento alla nozione introdottadal rapporto ONU redatto dalla CommissioneBruntland nel 1987, che fa riferimento alla so-stenibilità come «la capacità di soddisfare leesigenze delle generazioni attuali senza com-promettere la capacità delle generazioni futuredi soddisfare i propri bisogni» con un riferi-mento preciso, anche se non esclusivo, allaquestione ambientale. Difatti, successivamenteil concetto è stato ampliato alla triplice dimen-sione economica, ambientale e sociale1.

Nel settembre 2015 i governi dei 193 paesimembri dell’ONU hanno sottoscritto un pro-gramma di azione che promuove diciassetteObiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustai-nable Development Goals, SDGs)2, che sono iseguenti3:1. Porre fine ad ogni forma di povertà nelmondo.2. Porre fine alla fame, raggiungere la sicu-rezza alimentare, migliorare la nutrizione epromuovere un’agricoltura sostenibile.3. Assicurare la salute e il benessere per tutti eper tutte le età.4. Fornire un’educazione di qualità, equa ed in-clusiva, e opportunità di apprendimento pertutti.5. Raggiungere l’uguaglianza di genere edemancipare tutte le donne e le ragazze.6. Garantire a tutti la disponibilità e la gestionesostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie.

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IL CHIOSTROpiazza S. Eligio, 3, 80133 Napoli

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I’M MAGAZINEtf. 081.263508

[email protected]. resp. Ilaria Carloni

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TESTATE AMICHE

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7. Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di ener-gia economici, affidabili, sostenibili e moderni.8. Incentivare una crescita economica duratura,inclusiva e sostenibile, un’occupazione pienae produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti.9. Costruire un'infrastruttura resiliente e pro-muovere l'innovazione ed una industrializza-zione equa, responsabile e sostenibile.10. Ridurre l’ineguaglianza all'interno di e frale nazioni.11. Rendere le città e gli insediamenti umaniinclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili.12. Garantire modelli sostenibili di produzionee di consumo.13. Promuovereazioni, a tutti i livelli,per combattere ilcambiamento clima-tico (riconoscendoche la Convenzionedelle Nazioni Unitesui Cambiamenti Cli-matici è il principaleforum internazionalee intergovernativoper la negoziazionedella risposta globale al cambiamento clima-tico).14. Conservare e utilizzare in modo durevolegli oceani, i mari e le risorse marine per unosviluppo sostenibile.15. Proteggere, ripristinare e favorire un usosostenibile dell’ecosistema terrestre.16. Promuovere società pacifiche e inclusiveper uno sviluppo sostenibile.17. Rafforzare i mezzi di attuazione e rinno-vare il partenariato mondiale per lo svilupposostenibile.Le indicazioni per la redazione di un bilanciodi sostenibilità fanno riferimento alle Lineeguida per il reporting di sostenibilità4, manualerealizzato dalla Global Reporting Initiativeche, tra il 2000 e il 2011, ha istituzionalizzatoi criteri da seguire per la preparazione di un bi-lancio di sostenibilità, con un’attenzione parti-colare alla trasparenza5, considerata ilpresupposto per l’individuazione delle attivitàsostenibili dell’azienda da parte degli stakehol-

der6. L’importanza del bilancio di sostenibilità è par-ticolarmente forte in ambito pubblico, dovel’interesse economico è pur sempre subordi-nato all’impatto degli interventi sulla società.Ne è conferma la nascita in Italia delle lineeguida per la redazione del bilancio sociale nelsettore pubblico7, con un indirizzo specificoper gli attori di questo settore, individuati nelleamministrazioni pubbliche indicate dal decretolegislativo 165/20018. Da queste indicazioni si possono ricavare i cri-teri da seguire non solo per la redazione del do-

cumento, ma ancheper la sua compren-sione da parte deglistakeholder e dichiunque abbia inte-resse a studiarlo. Lo standard indivi-dua tre parti in cuideve essere compo-sto il bilancio so-ciale, che vieneredatto dagli organidi governo del-

l’azienda e approvato dagli stessi soggetti pre-posti all’approvazione del bilancio contabile:una prima in cui descrivere l’identità aziendale,con tutte le informazioni direttamente legatealla composizione e all’organizzazione; una se-conda con i dati contabili riorganizzati anchein funzione del calcolo del valore aggiunto; in-fine, una terza con la relazione sociale e il ri-ferimento agli effetti prodotti su tutti glistakeholder coinvolti. Va aggiunto che già dall’anno 2000 è nato ilnetwork LifeGate9 per supportare lo svilupposostenibile. Nel maggio del 2017 sul portale èstato pubblicato un decalogo10 per la redazionedi un bilancio di sostenibilità: 1. Scegliere le tematiche giuste su cui rendi-contare, cioè quelle davvero rilevanti perl’azienda e per tutti i suoi stakeholder di rife-rimento.2. Non limitarsi (come spesso accade) all’am-biente e all’energia, ma tenere conto degliaspetti ambientali, sociali e di governance

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(Esg).3. Essere sempre trasparenti, chiari e documen-tati, tanto sui successi quanto sui fallimenti.4. Non essere troppo autoreferenziali ma capirequal è il proprio ruolo nel territorio e nella so-cietà.5. Per ogni obiettivo, trovare e riportare degliindicatori numerici che misurino in modoobiettivo le performance ottenute nel tempo.6. Seguire linee guida di reporting internazio-nali, come quelle del GRI.7. Far certificare il proprio bilancio di sosteni-bilità da un ente terzo.8. Aggiornare periodicamente il proprio bilan-cio di sostenibilità, invece di limitarsi a pub-blicarlo una volta l’anno.9. Non pubblicare solo un elenco di parole ecifre, ma trasformare il report in uno strumentodi comunicazione comprensibile e accatti-vante.10. Coinvolgere attivamente tutti gli stakehol-der, spiegando cosa è stato fatto per loro, per-ché e con quali risultati.Vi possiamo individuare alcune interessanti ri-flessioni, in particolare il riferimento alla cer-tificazione del bilancio di sostenibilità da partedi un ente terzo, che conferisce ulteriore valorealle indicazioni riportate nel documento. Altro aspetto di rilievo è quello della comuni-cazione all’esterno. Se da una parte, però, siconsiglia di redigere il report in modo com-prensibile a tutti, non limitandosi all’elenca-zione di cifre e parole, dall’altra risulta didifficile realizzazione l’aggiornamento perio-dico, per due motivi: essendo il bilancio di so-stenibilità legato al bilancio contabile, i tempisono naturalmente collegati, inoltre l’impattodegli interventi realizzati sul piano della soste-nibilità spesso sono individuabili in lassi ditempo ampi e difficilmente li si potrebbe ripor-tare nel breve periodo. La grande difficoltà nella redazione del bilan-cio di sostenibilità è l’individuazione degli sta-keholder. Fondamentale in questo è il metododa adottare, come presupposto dello studio darealizzare in un secondo momento. L’analisi dimaterialità è lo strumento che permette di in-dividuare le figure a cui fare riferimento nella

redazione del bilancio, con un metodo che puòessere suddiviso in quattro fasi11. Il primo pas-saggio è quello che vede l’azienda impegnatanella pianificazione degli obiettivi, mentre inun secondo momento, definito di sviluppo,vengono coinvolte le unità interne per valutarel’importanza dei temi e il conseguente coinvol-gimento degli stakeholder dai quali otteneredei giudizi sull’attività svolta. In terza battuta,quindi, viene realizzato uno studio che verràanalizzato all’interno dell’azienda, prima dellaquarta e ultima fase, che prevede la revisionedei risultati sulla base degli impatti generati sulpiano della sostenibilità e del rischio d’im-presa. L’analisi viene effettuata con la realizzazionedi una matrice che tiene conto delle aree di in-tervento, nelle righe, e degli ambiti di riferi-mento degli stakeholder, nelle colonne,andando a creare uno schema, facilmente ri-portabile anche in forma grafica, al quale fareriferimento per l’individuazione dell’impattodei costi sul piano sociale e ambientale, oltreche economico.Un ruolo determinante nella valutazione del bi-lancio, anche nel caso di quello di sostenibilità,è il Valore Aggiunto, fondamentale soprattuttoin ambito pubblico, dove la scarsa redditivitàdi molti investimenti porta la valutazione delValore Aggiunto su un piano legato anche alladistribuzione e redistribuzione delle risorse peril raggiungimento degli obiettivi, essendo que-sti spesso legati anche a fattori etici e sociali,difficilmente rendicontabili con un bilanciocontabile, ma determinanti nella redazione delbilancio di sostenibilità. Fondamentale, infine, è la redazione della Re-lazione Sociale, documento esplicativo che ac-compagna il bilancio di sostenibilità e chepermette agli stakeholder di valutare l’impattodegli investimenti sul piano del benessere e sulterritorio di riferimento. Le linee guida per lapreparazione della Relazione Sociale sono leseguenti: vanno individuate le aree di inter-vento e i relativi stakeholder di riferimento,successivamente vanno indicati i risultati otte-nuti in seguito alle attività svolte, quindi va in-dicato come gli stakeholder sono stati coinvolti

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nella valutazione e nella programmazione so-ciale dell’ente. Risulta chiaro, quindi, che laRelazione Sociale sia strettamente collegataalle parti precedenti del bilancio di sostenibi-lità, soprattutto in relazione alla prima partenella quale si illustra la struttura dell’azienda ela conseguente mission, con l’individuazionedegli stakeholder, oltre che in riferimento aidati contabili. (1.Continua)____________1 Gruppo di studio per il Bilancio Sociale (GBS), Il bi-lancio sociale Standard 2013 - Principi di redazione delbilancio sociale, Milano 2013, pp. 12-13.2 L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un pro-gramma d’azione per le persone, il pianeta e la prospe-rità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193Paesi membri dell’ONU. Essa ingloba 17 Obiettivi perlo Sviluppo Sostenibile – Sustainable DevelopmentGoals, SDGs – in un grande programma d’azione per untotale di 169 target o traguardi. L’avvio ufficiale degliObiettivi per lo Sviluppo Sostenibile ha coinciso conl’inizio del 2016, guidando il mondo sulla strada da per-correre nell’arco dei prossimi 15 anni: i Paesi, infatti, sisono impegnati a raggiungerli entro il 2030. (Cfr. il sitoInternet http://www.unric.org/it/agenda-2030).3 Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, New York2015, p. 14.4 Linee guida per il reporting di sostenibilità, Amster-dam 2011.5 Ivi, p. 2.6 Lo stakeholder è un soggetto direttamente o indiretta-mente coinvolto in un progetto o nell'attività diun'azienda. Dall’inglese stake (quota di partecipazione)

e holder (titolare).7 Gruppo di studio per il Bilancio Sociale (GBS), Il bi-lancio sociale Standard - La rendicontazione sociale nelsettore pubblico, Milano 2005, p. 6.8 «Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte leamministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti escuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative,le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordina-mento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, leComunità montane, e loro consorzi e associazioni, leistituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popo-lari, le Camere di commercio, industria, artigianato eagricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici noneconomici nazionali, regionali e locali, le amministra-zioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazio-nale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale dellepubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cuial decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino allarevisione organica della disciplina di settore, le disposi-zioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsianche al CONI» (art. 1, 2° comma, d. lgs. 165\2001).9 Fondato da Marco Roveda, nel 2000 nasce il progettoLifeGate, centro di aggregazione e punto di riferimentoper diffondere consapevolezza e una nuova visione. Nel2006 nasce la divisione dedicata al supporto delle realtàaziendali interessate all’integrazione del modello PeoplePlanet Profit (Cfr. il sito internet https://www.lifegate.it/la-storia).10 V. Neri, Cos’è il bilancio di sostenibilità, a chi e acosa serve, 19 maggio 2017 (Cfr. il sito Internethttps://www.lifegate.it/persone/news/bilancio-di-soste-nibilita).11 M. Molteni - M. Pedrini - S. Bertolini (a c. di), L’ana-lisi di materialità - Implementazione, impatti e futuri svi-luppi, Milano 2015, p. 7.

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Achille Beltrame, Il dirigibile “Italia”, diretto alPolo Nord, sorvola Vienna (da La Domenica del Cor-riere, 29 aprile 1928)

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SAN VINCENZO FERRER E SANT'ANTONIO ABATEOVVERO:

“’O MUNACONE” E “SANT'ANTUONO”

di Giulio Mendozza

Dire che San Vincenzo Ferrer sia nato inSpagna e che Sant'Antonio Abate sia nato

in Egitto è verità storica. Ma con i napoletaniè meglio non insistere su questi dati: San Vi-cienzo e Sant'Antuono sono napoletani veracie basta! L'anagrafe originale non conta: San Vi-cienzo è nato nel Quartiere Sanità e Sant'An-tuono a Carlo III. Essi elargiscono grazie a tutticoloro che ricorrono a loro. Chi per un verso,chi per l'altro, i due Santi sono vicini, anzi fa-miliari al popolo che li idolatra.C'è una vasta letteratura che li immortala. Par-tiamo da San Vicienzo. Egli è il "guappo" dellaFede: col dito alzato indica il Cielo e il suolibro aperto sul braccio è perentorio: «TemeteDio e dateGlionore»! Non esi-stono mezzi ter-mini. Dainapoletani egli èdenominato 'OMunacone, pro-digo di grazie stre-pitose. Mi piaceriportare i versi fa-mosi del poeta deiCristallini RaffaeleChiurazzi: Cosce'argiento, dove ilSanto accontentaimmediatamente

una mamma che gli presenta il proprio bam-bino ciunco e….dietro la preghiera-minacciadi questa donna scapigliata, la accontenta. Male conseguenze sono una specie di cavallo diritorno. Leggiamo insieme:

COSCE 'ARGIENTO

Cosce 'argiento è tantillo:pare nu strummulillo. Nascette ciunco: 'a mammaiette a du San Bicienzo:sciure, cannéle, 'ngienzo,minacce e strille:-San Bicié, figliemo è ciunco!T'abbruscio 'o scaravattelosi nun me faie 'a grazia!

E, cumminfatte,pe' "vvuto" lle purtaie'e ccosce 'argientod' 'o piccerillo;e 'o piccerillo ascetteredenno 'a dint' 'a cchiesa e cammenaie.

Ma chello che cumbinastu "Cosce 'argiento"mo che ttene nov'anne,so' ccose ascì ampazzia.

Sta sempe mmiez' 'a via;corre, va, vene,mena ferbune,fa 'a petriata,sciacca 'e guagliune, saglie ncopp' 'e ccarrette,s'appenne arreto 'e tramme.

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arreto 'e biciclette:inzomma, scanza 'a mortecinche, se' vote 'o iuorno.

'A mamma ca se vedesempe mmiez' a na guerra,p' 'a foia che ttene 'o figlio,allucca e chiagne cu 'e ddenocchie 'nterra:– San Bicié, mo voglio 'a grazia!Ll'ê 'a fa' ciuncà! Ciuncà ncopp' 'o divano…e i' mo t' 'o porto 'argiento sano sano! –

La devozione verso questo Santo è così sentitache ogni anno la festa in suo onore è un tripu-dio di luci e di suoni. La statua del Santo passatra la folla che lo invoca e lo idolatra. Quel belPoeta nostro che fu Pasquale Ruocco ci pro-pone questi versi emblematici, dove per un po-polo devoto non esiste divieto, anche se delGoverno, perché la processione non si faccia.Il masto 'e festa che è Totonno d' 'e Bbalanzevuole affrontare a tu per tu lo stesso Presidentedel Governo in una sfida con la sfarziglia.Vi cito soltanto l'ultima parte di questa simpa-ticissima poesia:

E ca pirciò, mio caro Presirente,Totonno d' 'e Bbalanze t' 'o ccunziglia:invece 'e me fa' tanto 'o malamentei prego di ammolare la sfarziglia:giacché sta cosa è troppo dellicata,è meglio ch' 'a facimmo, sta zumpata!

Tu me vulive fa' na guapparia?E famme chesta, ca ll'annore impone!Ma i' tengo a San Vicienzo 'a parta miaca me prutegge e m'hadda dà raggione…Si' pronto?... E caccia ll'arma, paisà…A nomme 'e San Vicienzo 'a Sanità!

Questa poesia, per intero e a memoria, venivarecitata spesso da don Carlo Ponticelli, sacer-dote napoletano, anch'egli poeta e fine dicitore,con grande capacità di renderla viva e vivace.Io ricordo le luminarie ricche e fastose, cheerano vere opere d'arte. All'ingresso ai Vergini

da via Foria c'era ogni anno una maestosa e ar-tistica "porta" che riproduceva, volta per volta,monumenti famosi d'Italia. Festa di luci e co-lori, con bancarelle varie e gente felice.Anni fa scrissi dei versi che vi propongo:

FESTA 'E QUARTIERE

'O mese 'e luglio, festa 'e quartierecu arche 'e luce, vute e preghiere.O cuncertino sona 'e ccanzonee sott' 'o palco gente a muntone.'A gente è allera, che votta-votta,'e tavuline cu 'a carnacotta,'o semmentaro venne 'e nucelle,'o palluncino p' 'e criaturelle,'e fforme 'e ghiaccio, felle 'e mellune,'e purtpetielle cu 'e maccarune.Ne sforna pane stu panettieree régne 'addore tutt' 'o quartiere.'O callo 'e trippa cu 'a cientepelle,'o pere, 'o musso e 'e capuzzelle,sciurille, zeppule e 'o panzarottoe caccia 'e nummere 'o bancolotto.Terzigno e asprinio scacciapenziere:che spasa ha fatto 'stu canteniere.'A spicaiola ca sta ô puntonearrost' 'e spiche 'ncopp' 'o gravone.L'acquaiuolo cu ghiaccio e limonefa 'e granite e se sente 'e ccanzone.Passa quequero nu tarallarocu na voce can un ce sta a paro:"E chiagneva Mariuccia,vuleva 'o taralluccio".'O risponne cu voce a ciammiellonu baritono cu 'o pagnuttiello.E fila 'o zzuccaro e 'addore spanne:nu criaturiello nun sta 'int' 'e panne,s'azzecca 'o musso, s'azzecca 'e mmane,po' nun abbastano diece funtane…'A giostra gira p' 'e piccerillee so' felice 'sti strummulille…N'euro sulo e 'o pappavallotira 'a furtuna cu 'o becco giallo.For' a 'sti vasce famiglie sane,'e ttavulelle cu 'e parmiggiane,cu 'o ghiaccio 'nterra dint' a nu sicchionu fiasco 'e vino frisco 'e cavicchio.Mmiez' ammuina nu guardaporta

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Noi non giungiamo mai a dei pensieri. Sono loro chevengono a noi.

Martin Heidegger

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aumma aumma fa 'a mana morta.Dint' a na recchia na parulellae se cunzola na figliulella.'O giuvinotto se fa cchiù 'nzistoe chi 'o mantene chistu fuchisto…Essa fa finta 'e nun capìma fremme e è pronta a di' 'stu sì.

* * *

Fernuta è 'a festa, mo è mezanotte,'o masto 'e festa dà 'a bonanotte.Pe' chesta folla che nustalgiae comme è triste a fa' 'sta via…Dimane torna puntualmente'a vita solita 'e chesta gente,fatta 'e patenze, pacienza e fede:e 'o Pateterno vede e pruvvede!...

Sant'Antonio Abate, rispetto a San Vincenzo,è più tenero: è 'o Santo vicchiariello. Ma anchelui si prodiga per accontentare chi si rivolgealla sua protezione. E, per via del fuoco, peranalogia non può non essere guaritore daquella infame e dolorosa malattia che è l'herpeszoster, altrimenti detta 'o ffuoco 'e Sant'An-tuono.Il maiale lo accompagna. Anticamente, aitempi del Vice-reame, i maiali nel giorno dellafesta del Santo venivano lasciati liberi di scor-razzare per le strade. La gente lasciava scodelledi cibo sulla strada ed i maiali si beavano. Maun giorno, durante la solenne processione delSanto, questi animali si intrufolarono tra lafolla e tra i piedi dei dignitari, creando scom-piglio. Da allora fu proibita l'escursione dei po-veri maiali.I monaci che reggevano l'antico Convento di-stribuivano, per devozione, del lardo avvoltoin un'immagine del Santo ('o llardo 'int' âfjura). Veniva poggiato sulla parte malata permalattie di pelle o per la terribile herpes zoster.Nel giorno della festa del Santo si portavano (esi portano ancora) a benedire gli animali. Ilcomplesso che comprendeva la chiesa, il con-vento e il campanile era molto più ampio. C'eraun grande spazio antistante la chiesa, che ini-ziava dove ora c'è una stazione di lavaggioauto. Guardando in alto, si nota l'antica facciatacon la statua del Santo. Con l'avvento del Ri-sanamento fu aperta una strada che oggi è si-tuata davanti alla chiesa.

N e l l ' a m p i ospazio entra-vano i carricon i buoi, icavalli, gliasini, per la be-n e d i z i o n e .Oggi che i car-retti sono ri-dotti all'osso,si benediconocani, gatti e uc-cellini.Per tradizione,nel giornodella festa, si comprano collane di taralli chesi appendono al collo sia delle persone chedegli animali.Quand'ero ragazzo (nella prima metà del se-colo scorso, per intenderci) nel giorno dell'Epi-fania, intorno alle ore 14 dalla chiesa diSant’Antonio Abate partiva una carrozza sco-perta, messa a disposizione dall'Impresa dipompe funebri "Bellomunno", una di quelleche, durante i funerali, seguiva il carro con ilferetro, tirato da coppie di cavalli fino ad unmassimo di otto cavalli ('o tiro a otto), che ve-niva chiamata "carrozza di rispetto". Vi sedeval'Abate che, all'epoca, era mons. Gaspare Cin-que. Dopo di lui la chiesa non fu più abaziale.La carrozza si portava al Duomo e, previo pa-gamento di una cauzione alla Deputazione delTesoro di S.Gennaro, veniva prelevata la me-ravigliosa statua d'argento di Sant'AntonioAbate e condotta nella chiesa abaziale. Lì ri-maneva fino al pomeriggio del 2 febbraio, peressere riportata in Duomo attraversando il Cen-tro Antico, tra ali di folla e botti.Una curiosità; l'Abate che abitava un po' di-stante dalla chiesa, ad un quarto piano, ognisera faceva portare l'Imbusto a casa sua daquattro portantini, i quali al mattino successivolo riprendevano per ricondurlo in chiesa. Ciò...per motivi di sicurezza!! Altri tempi.Nel giorno della festa del Santo, cioè il 17 gen-naio, all'imbrunire nello spazio antistante lachiesa si accendeva (e si accende) un grossofalò, detto cippo. Così in altre parti della città.

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Ma quale è la simbologia? Il cippo è auguriodi rinnovamento. Infatti, si raccoglievano og-getti vecchi, come sedie, mobili, materassi evenivano bruciati attraverso il cippo con l'au-spicio che, mettendo via cose ormai logore einutili, potesse cambiare in meglio la vita diciascuno, sotto l'egida del Santo. Quando lefiamme si andavano estinguendo, le donne siportavano ai margini del cippo portando i bra-cieri che venivano riempiti appunto di brace.Ciò per devozione e…per riscaldamento nellecase.A conferma che il nostro Santo sia il protettoredi tutti coloro che hanno a che fare col fuoco,è naturale che Egli sia anche venerato dai for-nai e, segnatamente, dai pizzaioli. È notizia re-centissima che il 17 gennaio, festa del Santo,sarà proclamato "Giornata cittadina del pizza-iolo napoletano". Sin dall'inizio dello scorsosecolo e fino ad una cinquantina d'anni fa il 17gennaio le pizzerie erano chiuse per celebrareil Santo protettore, il Santo del fuoco. A queitempi tutti i pizzaioli avevano inserita sulla fac-ciata del forno a legna una marmetta con l'im-magine del Santo che ancora oggi è possibiletrovare presso alcune pizzerie storiche dellanostra città.Per ribadire che Sant'Antonio Abate sia ilSanto che rinnova in meglio, c'è da dire che ibambini, quando via via perdevano i dentinidecidui, li nascondevano in qualche buchino inattesa che spuntassero i nuovi ben più forti per-ché forniti di radici. I bambini, nel depositareil dentino caduto, così invocavano il Santo:«Sant'Antuono, Sant'Antuono, tècchete 'o viec-chio e dàmme 'o nuovo e damméllo forte forteca me ròseco nu viscuotto e damméllo accussìforte ca m'aggi' 'a rusecà nu stante 'e porta».Ho usato l'imperfetto perché oggi non mi pare

che nonni e genitori insegnino queste "sce-menze", che sarebbero utili almeno per conser-vare le tradizioni. O, almeno ai miei tempieravamo tutti sciemi. Dice un poeta: «Meglioa credere ê stròppole 'e na vota ca 'e verità cace credimmo mo’».C'è una bella canzone-filastrocca con testo emusica di Roberto De Simone, cantata dallagrande Concetta Barra, dal titolo: 'O cippo 'eSant'Antuono. Essa esprime in maniera forte ildesiderio di nuovo per il riscatto di Napoli. Fral'altro, dice: «Appicciammo dint' 'o ffuoco / tutt''o mmale 'e sta città».Anche il grande poeta napoletano PasqualeCinquegrana si è cimentato, da par suo, colcippo. Ecco i suoi versi appunto intitolati:

'O CIPPO 'E SANT'ANTUONO

Menate a Sant'Antuono…Menate rrobba assaie.Vulimmo fa' nu cippoca nun s'è visto maie.Menate mmiez' 'a via'a rrobba vecchia e rotta:scanzie, segge scassate…Guaglio', lèvete 'a sotta.Pàffete!...Ch'è caruto?-Hanno menato 'a coppaforze d' 'o quarto piano,nu matarazzo 'e stoppa.-Ih che devozzioneche tene Pascalotto!Che fede!...S'ha levato'o matarazzo 'a sotto.-Menate!...'A rrobba vecchianun serve chiù, nun giova.Levàteve 'a crerenzache 'o Santo v' 'a fa nova.C' 'a vita accussì cara,cu tutta 'sta cajenza,popolo bellu mio, c' 'a tiene a ffa' 'a crerenza?-Menate a Sant'Antuono…Menate, ca stasera

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Il 17 luglio scorso il Comune di Napoli ha conferito la Medaglia dellaCittà alle GALLERIE D’ITALIA di Napoli, museo della banca Intesa San-paolo, che ha sede in via Toledo, nel Palazzo Zevallos Stigliano, eospita oltre centoventi opere tra cui una selezione di sculture e di-segni di Vincenzo Gemito, dipinti della Scuola di Posillipo e il Mar-tirio di Sant’Orsola di Caravaggio, proponendosi così comeimportante istituzione culturale cittadina.

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vulimmo fa' nu cippoc'ha da purtà 'a bbannèra.'Nfi a ncopp' 'o quinto piano'e llampe hann' 'a saglì…Signò, menate 'a tavula…A che v'ha dda servì?Sculare e scularielle,'o sturio cchiù nun renne.Menate 'a copp'abbasciolibbre, quaterne e ppenne.D' 'o leggere e dd' 'o scriverelassate sta' 'o mestiere.Sentite a mme, facìtevechianchiere e ssalumiere.Nnanz' a 'stu bancariello,mastu Francì, che ffaje?..fatiche notte e ghiuorno,e sempe scàuzo vaie.Abbrucia tutte cose,ca 'o Santo nun s' 'o ttene.T'arape 'o magazzinoe avraje furtuna e bene.Legne, pampuglie e sproccoleha dato 'o mastorascia.Furnà, manne doje sàrcene…Pastà, manne na cascia.Jamme, ch'è tarde, jamme…'A rrobba gia ce abbasta.A gloria 'e Sant'Antuono,facimmo 'sta catasta.Scustàteve…,Allummamme…Guagliò, lèvete 'a lloco.

Menammo tutt' 'e riébbete,'e guaje dint' 'o ffuoco.Ebbiva Sant'Antuono!Ogne anno 'o Santo 'o bbo'.Sparate 'e trezziole…Vivóoo! Vivóoo!

Quanta amara ironia in questi versi apparente-mente allegri, ma che sottendono una tristezzadi fondo.

Conclusione.Nel giro di cinquant'anni quante cose sonocambiate. Ed è giusto che sia così. Ma la me-moria non è giusto cancellarla. Giorgio Pa-squali ci suggerisce: «Chi non ricorda nonvive», o, se volete: «Il ricordo è l'unico para-diso dal quale non possiamo venir cacciati».Così, sapientemente ci ammonisce Jean Paulnel suo Improptus.D'altronde, credo che la Storia si costruisce at-traverso la cronaca.Io ho voluto ricordare, innanzitutto a mestesso, fatti di costume i quali anche se non piùdi moda perché col tempo cambiano abitudinie tradizioni, è giusto non cancellare perchénon sia monca la nostra cultura.

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LA STAGIONE 2018-2019 DEL TEATRO SAN CARLO

Nel corso della conferenza stampa del 21 giugno scorso, è statopresentato il cartellone della stagione 2018-2019 del Teatro SanCarlo. Il programma della stagione lirica prevede la rappresentazione diCosì fan tutte di W. A. Mozart (per la direzione di Riccardo Muti),Kát’a Kabanová di L. Janáček, La Bohème di G. Puccini, Lady, begood! di G. e I. Gershwin, Un ballo in maschera di G. Verdi, Lescontes d’Hoffmann di J. Offenbach, Madama Butterfly di G. Puccini,

Die Walküre di R. Wagner, Cavalleria rusticana di P. Mascagni, La Traviata di G.Verdi, Ermione di G. Rossini, Pagliacci di R. Leoncavallo.Per la stagione di danza saranno rappresentati, fra gli altri, Rossini Cards, LoSchiaccianoci e Il Lago dei cigni di P. I. Tchaikovsky, Pulcinella di I. Strawinsky,Sogno di una notte di mezza estate di F. Mendelssohn-Bartholdy.La stagione sinfonica, infine, vedrà impegnati, fra gli altri, oltre al direttore stabileJuraj Valčuha – che dirigerà anche una Maratona Beethoven (esecuzione conse-cutiva delle nove sinfonie) –, il direttore Valery Gergiev, il pianista Michele Campa-nella, il soprano Mariella Devia e il mezzosoprano Cecilia Bartoli.

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Documenti

PAPA FRANCESCO

LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI (GV 8,32)FAKE NEWS E GIORNALISMO DI PACE

Cari fratelli e sorelle*,

nel progetto di Dio, la comunicazioneumana è una modalità essenziale pervivere la comunione. L’essereumano, immagine e somiglianza delCreatore, è capace di esprimere econdividere il vero, il buono, il bello.E’ capace di raccontare la propriaesperienza e il mondo, e di costruirecosì la memoria e la comprensionedegli eventi. Ma l’uomo, se segue ilproprio orgoglioso egoismo, può fareun uso distorto anche della facoltà di comunicare, come mostrano fin dall’inizio gli episodi biblici diCaino e Abele e della Torre di Babele (cfr Gen 4,1-16; 11,1-9). L’alterazione della verità è il sintomotipico di tale distorsione, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Al contrario, nella fedeltà allalogica di Dio la comunicazione diventa luogo per esprimere la propria responsabilità nella ricerca dellaverità e nella costruzione del bene. Oggi, in un contesto di comunicazione sempre più veloce e all’internodi un sistema digitale, assistiamo al fenomeno delle “notizie false”, le cosiddette fake news: esso ci invitaa riflettere e mi ha suggerito di dedicare questo messaggio al tema della verità, come già hanno fatto piùvolte i miei predecessori a partire da Paolo VI (cfr Messaggio 1972: Le comunicazioni sociali al serviziodella verità). Vorrei così offrire un contributo al comune impegno per prevenire la diffusione delle notiziefalse e per riscoprire il valore della professione giornalistica e la responsabilità personale di ciascunonella comunicazione della verità.

1. Che cosa c’è di falso nelle “notizie false”?Fake news è un termine discusso e oggetto di dibattito. Generalmente riguarda la disinformazione diffusaonline o nei media tradizionali. Con questa espressione ci si riferisce dunque a informazioni infondate,basate su dati inesistenti o distorti e mirate a ingannare e persino a manipolare il lettore. La loro diffusionepuò rispondere a obiettivi voluti, influenzare le scelte politiche e favorire ricavi economici. L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di ap-parire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sonoabili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno diun tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la

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rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network edelle logiche che ne garantiscono il funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento,guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne idanni. La difficoltà a svelare e a sradicare le fake news è dovuta anche al fatto che le persone interagisconospesso all’interno di ambienti digitali omogenei e impermeabili a prospettive e opinioni divergenti. L’esitodi questa logica della disinformazione è che, anziché avere un sano confronto con altre fonti di informa-zione, la qual cosa potrebbe mettere positivamente in discussione i pregiudizi e aprire a un dialogo co-struttivo, si rischia di diventare involontari attori nel diffondere opinioni faziose e infondate. Il drammadella disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una de-monizzazione che può fomentare conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti altempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di dilagare.A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità.

2. Come possiamo riconoscerle?Nessuno di noi può esonerarsi dalla responsabilità di contrastare queste falsità. Non è impresa facile,perché la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingan-nevoli, e si avvale talvolta di meccanismi raffinati. Sono perciò lodevoli le iniziative educative che per-mettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo, insegnando a non essere

divulgatori inconsapevoli di disinformazione, ma attori del suo svela-mento. Sono altrettanto lodevoli le iniziative istituzionali e giuridicheimpegnate nel definire normative volte ad arginare il fenomeno, comeanche quelle, intraprese dalle tech e media company, atte a definire nuovicriteri per la verifica delle identità personali che si nascondono dietro aimilioni di profili digitali.Ma la prevenzione e l’identificazione dei meccanismi della disinforma-zione richiedono anche un profondo e attento discernimento. Da sma-scherare c’è infatti quella che si potrebbe definire come “logica delserpente”, capace ovunque di camuffarsi e di mordere. Si tratta della stra-tegia utilizzata dal «serpente astuto», di cui parla il Libro della Genesi,il quale, ai primordi dell’umanità, si rese artefice della prima “fake news”(cfr Gen 3,1-15), che portò alle tragiche conseguenze del peccato, con-cretizzatesi poi nel primo fratricidio (cfr Gen 4) e in altre innumerevoliforme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato. La strategiadi questo abile «padre della menzogna» (Gv 8,44) è proprio la mimesi,una strisciante e pericolosa seduzione che si fa strada nel cuore dell’uomocon argomentazioni false e allettanti. Nel racconto del peccato originaleil tentatore, infatti, si avvicina alla donna facendo finta di esserle amico,di interessarsi al suo bene, e inizia il discorso con un’affermazione verama solo in parte: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare dialcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). Ciò che Dio aveva detto ad

Adamo non era in realtà di non mangiare di alcun albero, ma solo di un albero: «Dell’albero della co-noscenza del bene e del male non devi mangiare» (Gen 2,17). La donna, rispondendo, lo spiega al ser-

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Masaccio,La cacciata dal Paradiso(Firenze, Santa Maria del

Carmine - Cappella Brancacci)

Nel numero scorso della rivista abbiamo pubblicato uno scritto di Ferdinando Ferrajolisul convento di Sant’Arcangelo a Baiano. Riproponiamo qui la foto che lo illustrava, po-nendo in evidenza il fatto, segnalato dalla stampa quotidiana il 16 luglio scorso e benvisibile nell’immagine, che sulla facciata della chiesa sono stati realizzati un balcone euna finestra, senza che gli organismi competenti (Comune, Soprintendenza) siano in-tervenuti nell’ambito delle rispettive attribuzioni, nonostante le segnalazioni fatte per-venire loro dall’amministratore del condominio, alle cui proteste doverosamente ciassociamo.

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pente, ma si fa attrarre dalla sua provocazione: «Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dioha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (Gen 3,2). Questa rispostasa di legalistico e di pessimistico: avendo dato credibilità al falsario, lasciandosi attirare dalla sua impo-stazione dei fatti, la donna si fa sviare. Così, dapprima presta attenzione alla sua rassicurazione: «Nonmorirete affatto» (v. 4). Poi la decostruzione del tentatore assume una parvenza credibile : «Dio sa cheil giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene eil male» (v. 5). Infine, si giunge a screditare la raccomandazione paterna di Dio, che era volta al bene,per seguire l’allettamento seducente del nemico: «La donna vide che l’albero era buono da mangiare,gradevole agli occhi e desiderabile» (v. 6). Questo episodio biblico rivela dunque un fatto essenziale peril nostro discorso: nessuna disinformazione è innocua; anzi, fidarsi di ciò che è falso, produce conse-guenze nefaste. Anche una distorsione della verità in apparenza lieve può avere effetti pericolosi.In gioco, infatti, c’è la nostra bramosia. Le fake news diventano spesso virali, ovvero si diffondono inmodo veloce e difficilmente arginabile, non a causa della logica di condivisione che caratterizza i socialmedia, quanto piuttosto per la loro presa sulla bramosia insaziabile che facilmente si accende nell’essereumano. Le stesse motivazioni economiche e opportunistiche della disinformazione hanno la loro radicenella sete di potere, avere e godere, che in ultima analisi ci rende vittime di un imbroglio molto piùtragico di ogni sua singola manifestazione: quello del male, che si muove di falsità in falsità per rubarcila libertà del cuore. Ecco perché educare alla verità significa educare a discernere, a valutare e ponderarei desideri e le inclinazioni che si muovono dentro di noi, per non trovarci privi di bene “abboccando” adogni tentazione.

3. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32)La continua contaminazione con un linguaggio ingannevole finisce infatti per offuscare l’interiorità dellapersona. Dostoevskij scrisse qualcosa di notevole in tal senso: «Chi mente a sé stesso e ascolta le propriemenzogne arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e cosìcomincia a non avere più stima né di sé stesso, né degli altri. Poi, siccome non ha più stima di nessuno,cessa anche di amare, e allora, in mancanza di amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandonaalle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo derivadal continuo mentire, agli altri e a sé stesso» (I fratelli Karamazov, II, 2).Come dunque difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità.Nella visione cristiana la verità non è solo una realtà concettuale, che riguarda il giudizio sulle cose, de-finendole vere o false. La verità non è soltanto il portare alla luce cose oscure, “svelare la realtà”, comel’antico termine greco che la designa, aletheia (da a-lethès, “non nascosto”), porta a pensare. La veritàha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, comedà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci sipuò appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fi-ducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono laverità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fe-deltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione: ecco i due ingredienti che non possono mancare perchéle nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici, affidabili. Per discernere la verità occorre vagliareciò che asseconda la comunione e promuove il bene e ciò che, al contrario, tende a isolare, dividere econtrapporre. La verità, dunque, non si guadagna veramente quando è imposta come qualcosa di estrin-seco e impersonale; sgorga invece da relazioni libere tra le persone, nell’ascolto reciproco. Inoltre, nonsi smette mai di ricercare la verità, perché qualcosa di falso può sempre insinuarsi, anche nel dire cosevere. Un’argomentazione impeccabile può infatti poggiare su fatti innegabili, ma se è utilizzata per ferirel’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità. Daifrutti possiamo distinguere la verità degli enunciati: se suscitano polemica, fomentano divisioni, infon-dono rassegnazione o se, invece, conducono ad una riflessione consapevole e matura, al dialogo costrut-tivo, a un’operosità proficua.

4. La pace è la vera notiziaIl miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: persone che, libere dalla bramosia,sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone

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che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare delladisinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere respon-sabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, nonsvolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nelvortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impattosull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone. Per questol’accuratezza delle fonti e la custodia della comunicazione sono veri e propri processi di sviluppo delbene, che generano fiducia e aprono vie di comunione e di pace. Desidero perciò rivolgere un invito a promuovere un giornalismo di pace, non intendendo con questaespressione un giornalismo “buonista”, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati.Intendo, al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichia-razioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio atutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce; un gior-nalismo che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favo-rirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; ungiornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza ver-bale. Per questo, ispirandoci a una preghiera francescana, potremmo così rivolgerci alla Verità in persona:Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace.Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione. Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi. Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle. Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia;dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza; dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione;dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri;dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia;dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità. Amen.

Francesco(13 maggio 2018)___________

* Messaggio per la 52a Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali

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All’esito di un restauro durato nove anni, il 20 giugno scorso è statariaperta al culto la chiesa della Sacra Famiglia dei Cinesi, sita nelcomplesso del nosocomio napoletano “Elena d’Aosta”, in via Lucade Samuele Cagnazzi, nella quale sono custoditi i resti del missio-nario italiano Matteo Ripa, fondatore del “Collegio dei Cinesi”,primo nucleo dell’Università degli studi “L’Orientale”. Alla cerimo-nia inaugurale hanno partecipato il presidente della Regione Cam-pania, Vincenzo De Luca, il cardinale Crescenzio Sepe, il direttoregenerale della A.S.L. Napoli 1 Centro, dr. Mario Forlenza, e i proff.

Maria Luisa Cusati e Aldo Cianci dell’Università degli studi “L’Orientale”.

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LIBRI & LIBRI

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Annuario di storia, cultura e varia umanità 2017 (San Salvatore Telesino, Associa-zione Storica Valle Telesina, 2018), pp. 266, s.i.p.Contributi sulla interessante storia della Valle Telesina e dei suoi comuni, dal secolo IXai giorni nostri, sono raccolti nel corposo volume, pure riccamente illustrato, che la be-nemerita istituzione culturale locale edita, ormai, da alcuni anni. In maniera particolare,si segnalano gli scritti che trattano del pavimento della chiesa del SS. Corpo di Cristo diSolopaca (di L. Di Cosmo, p. 125 ss.), del brigante Fra’ Diavolo (di R. Di Lello, p. 129ss.), della “Banda del Matese” (di B. Tomasiello, p. 209 ss.), del diario della giovane

esule Oliva Cristoforetti (di D. Camilli e V.A. Maturo, p. 223 ss.) e del “Majo di San Michele” (di L.D’Amico, p. 243 ss.).

Procida scrigno di cultura e tradizioni, a c. degli alunni dell’I. S. “Francesco Ca-racciolo - Giovanni da Procida” (Roma, Nutrimenti, 2018), pp. 48, €. 8,00. Il volume, realizzato dagli studenti procidani nell’ambito di un percorso di alternanzascuola-lavoro, si fa apprezzare, al pari di ogni ricerca eseguita da giovani, per la suapotenzialità di affidamento del patrimonio culturale locale a questi ultimi, il che imponepure che siano perdonate le imprecisioni che vi sono contenute. Di particolare interesse,poi, è l’ampio corpus di testimonianze della presenza di viaggiatori nell’isola, che benpuò costituire il punto di partenza per l’approfondimento della differenziazione degl’in-

teressi dei medesimi nel tempo.

MENETTI & NANNI, Arte. La mente la vede, l’occhio la pensa (Bologna-Milano, Lu-petti, 2017), pp. 176, €. 15,00.Il proposito, benché inespresso, di porre rimedio ai guasti prodotti dall’estetica crociana sirivela rimedio peggiore del male: mediante il ricorso anche all’artificio del dialogo, infatti,e facendo leva sulla distinzione fra “poetica” ed “estetica”, si propone la tesi che la “cosa”possa essere resa “arte” dall’elemento spaziale nel quale è inserita. Il che, poi, si risolvenell’intento di accreditare la cosiddetta “arte concettuale” (si pensi, per tutti, a Duchamp)

come vera e propria forma artistica, il che è lungi dall’essere universalmente ammesso.

RAFFAELE BRACALE, Comme se penza a Nnapule (Napoli, Cultura nova, 2018),p. 460, €. 11,50.All’ampiezza della silloge (2500 modi di dire napoletani, secondo il sottotitolo) non semprecorrisponde un’attendibilità delle singole voci – talvolta anche duplicate – e pure la mor-fologia della lingua napoletana non è sempre (e già nel titolo) in linea con i canoni propostidalle migliori grammatiche. Sarebbe stato utile, inoltre, un ragguaglio di bibliografia, checonsentisse di conoscere le fonti alle quali l’autore si è rifatto, che, per quanto individuabili

dagli esperti, tuttavia, sono inconoscibili dalla maggioranza dei lettori.

CARLA PEPE, Vivara. Storia e insediamenti archeologici (Roma, Nutrimenti, 2018),pp. 80, €. 12,00.La funzione divulgativa, che dovrebbe caratterizzare il volume, è frustrata dal linguaggiostrettamente tecnico del testo, che risulta così comprensibile con difficoltà dai “non addettiai lavori”. Di ottima qualità, viceversa, sono le illustrazioni, che, pertanto, riescono a farcomprendere all’“uomo della strada” il passato dell’isoletta, meglio di quanto non

faccia lo scritto.

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GIOVANNI RUFFINO - ROBERTO SOTTILE, L’italiano, 5. La ricchezza dei dia-letti (Roma, GEDI, 2017), pp. 168, €. 5,90.Sponsorizzato dall’Accademia della Crusca, il volumetto, che fa parte di una serie disaggi sui vari aspetti della lingua italiana, si segnala qui per l’interesse che può rivestireper il pubblico napoletano che segue questo periodico; e ciò, a onta della concezione al-quanto marcatamente scientifica, rispetto al carattere divulgativo che il progetto avrebbeinteso conferire all’intera opera. Gli “esercizi di lingua”, che costituiscono il capitolo

VI, si rivelano abbastanza efficaci, nel suscitare la curiosità del lettore.

VITTORIO DEL TUFO, Napoli magica (Vicenza, Pozza, 2018), pp. 384, €. 13,50.Fra ritorni su temi già affrontati (da Virgilio a Maria la Rossa, da Carlo Gesualdo a Villa Hei-gelin, giusto per citare qualche esempio) e non poche banalizzazioni e inesattezze, il volume– che rielabora articoli pubblicati su Il Mattino – si presenta di qualità un tantino inferiore, ri-spetto al precedente Trentaremi (recensito in questa rivista, n. 2/2016, p. 49), benché non man-chino spunti apprezzabili in maniera positiva, come – e valga per tutti – l’individuazione del

corso del Sebeto.

LUCIA ANNICELLI, Il Codice Massonico di Ischia (Napoli, Stamperia del Valen-tino, 2018), pp. 188, €. 22,00.Il documento pubblicato e commentato nel volume, rinvenuto nella Biblioteca Antonianadi Ischia, contiene una sintesi della storia del fenomeno massonico nel Napoletano e ilcatechismo/rituale del massone, con tutte le peculiarità presenti nell’area trattata. Il tuttoconferma le acquisizioni precedenti in materia, senza gettarvi particolare nuova luce;semmai, quello che si fa maggiormente apprezzare è l’esauriente ragguaglio bibliogra-

fico che conclude il volume stesso.

PAOLA CARUSO, I Trattati di Agobardo da Lione contro le superstizioni (Napoli,Accademia Pontaniana, 2018), pp. 320, s. i. p.Agobardo, vescovo di Lione vissuto nel IX secolo, si adoperò per combattere ogni formadi superstizione, dedicando al tema alcuni trattati. Quattro di essi (De grandine et troni-truis, Adversus legem Gundobadi, De Iudaicis superstitionibus et erroribus, De quorun-dam inlusione signorum) sono esaminati nel volume, che ne presenta il testo latino, latraduzione in lingua italiana e un commento, preceduti dalla biobibliografia del

personaggio.

FRANCO ARMINIO e aa., Procida racconta, 4 (Roma, Nutrimenti, 2018), pp. 64, €.6,00.La quarta edizione della rassegna di narrazione di personaggi procidani vede im-pegnati gli scrittori Franco Arminio, Silvia Avallone, Valentina Farinaccio, GadLerner, Matteo Nucci e Rosella Postorino nel racconto delle vite di Romolo Tran-quilli, Giovanna Lauro, Nico Granito, Manuela Drora Stefanini, Chiara e Libera Di

Iorio e Michele Scotto Lavina. Attraverso il racconto delle loro storie, però, emerge in ma-niera originale il profilo dell’isola.

MARINELLA GARGIULO, Il diario di Antossia (Napoli, Guida, 2018), pp. 136, €.18,00.In questo “racconto della storia”, più che romanzo storico, l’autrice “immagina”un ipotetico diario della figlia di Mikhail Bakunin, ricostruendolo mediante la con-sultazione di fonti storiche, opportunamente segnalate nel ragguaglio di bibliogra-fia. E il maggior pregio della narrazione è quello di avere colto e di presentare in

maniera precisa i t ra t t i del carat tere del la protagonis ta e dei personaggi che la c i r -condano.

Anno LXIV n. 3 Luglio-Settembre 2018

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GIACOMO RETAGGIO, Procidani si nasce ed io lo nacqui (Napoli, Fioranna, 2018),pp. 128, €. 15,00.Sicuramente valida dev’essere considerata l’originale idea di narrare episodi, descriverepersonaggi, illustrare luoghi, inserendone l’esposizione in un percorso che attraversa lestrade dell’isola; e, in tal senso, il lavoro di Retaggio, medico-scrittore, costituisce un con-sistente contributo alla salvaguardia di una memoria destinata, altrimenti, alla dispersione.Viceversa – e purtroppo –, non risulta all’altezza della qualità del testo quella della veste

grafico-editoriale del volume (assenza di frontespizio, scelta dei caratteri, paginazione delle illustrazioni).

LUIGI NAPPA, Procida. Colori e pensieri (Napoli, Fioranna, 2018), pp. 144, €.20,00.L’arte – meglio, le arti – di Luigi Nappa, poliedrico cittadino del mondo, sono sintetiz-zate in questa antologia di suoi dipinti e opere grafiche, realizzati in uno stile, tra l’ico-nico e l’aniconico, che risulta impossibile classificare. A questi materiali sono associatisuoi versi e pensieri, cui si alternano scritti di suoi amici ed estimatori, nei quali sono

esternate le sensazioni che hanno trasmesso loro quelle stesse opere. Il suggerimento, per gustare meglioil volume, è quello di premettere l’osservazione di ciascuna immagine (pagine di destra) alla lettura deirelativi testi (pagine di sinistra).

ANDREA CORTELLESSA (a c.), Le notti chiare erano tutte un’alba2 (Firenze-Milano,Giunti-Bompiani, 2018), pp. 800, €. 22,00.La ricorrenza del centenario della “Grande guerra” ha costituito l’occasione per la riedi-zione di questa preziosa antologia della poesia italiana celebrativa di quel momento storico.La sua lettura consente, fra l’altro, di scoprire l’interesse manifestato per il drammaticoevento da poeti – come, a tacer d’altri, Dino Campana, Guido Gozzano, AdaNegri, Diego Valeri –, la cui vena lirica si sarebbe immaginata abbastanza di-

stante da esso.

S.Z.

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RESTAURATO A PROCIDAIL “CRISTO MORTO” DI CARMINE LANTRICENI

Il 7 settembre scorso, nella chiesa procidana di Santa Mariadelle Grazie, introdotte dal parroco don Marco Meglio, dadon Antonio Tammaro dell’Ufficio diocesano Confrater-nite, dal commissario arcivescovile dr. Salvatore Mazzaroe dal sindaco dr. Dino Ambrosino, le restauratrici Ilaria Im-prota, Monica Marrazzo e Sabrina Peluso hanno illustratoil restauro della scultura lignea del Cristo morto di CarmineLantriceni, al termine di un corteo che ha accompagnato

la statua dalla Congrega dei Turchini, che la custodisce. Il lavoro di restauro è consistitoin disinfestazione, risanamento strutturale, pulitura, stuccatura, integrazione pittorica eprotezione con vernice. In rappresentanza di questa testata sono stati presenti il direttore,Sergio Zazzera, e il redattore Franco Lista.

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LA POSTA DEI LETTORI

Caro Direttore, ringrazio sempre per i chiarimenti e le indicazioni chemi porge in relazione al mio contributo alla Sua pregiata rivista on-

line. Voglio però, a riguardo, esprimere una mia perplessità, nel risponderealla quale La prego di essere obiettivo e sincero al massimo grado.Constato che la stragrande maggioranza degli articoli in essa rivista ri-portati hanno, come base o come sfondo, la realtà napoletana di oggi e diieri. E questa è l’interpretazione maestra del titolo della pubblicazione,centrata su questa grande ma (ritengo, specie oggi) sfortunata città. Mi chiedo però, se hannoin questo panorama diritto di cittadinanza i miei contributi che – posso anticipare senza pro-blemi – saranno sempre centrati su anniversari nazionali o internazionali di un certo rilievo,cioè su fatti, luoghi e persone che, anche se hanno avuto riflessi su Napoli, non ne sono certoemblematici o rilevanti ai fini della storia locale. Ringraziando per l’attenzione, La saluto molto cordialmente. Buon lavoro sempre.Luigi Alviggi (e-mail)

Risponde il direttore:Caro Ingegnere, la risposta è semplice: “Rievocatore” è “colui che rievoca” – e, naturalmente,oggetto della sua rievocazione è tutto ciò che merita di essere rievocato, che sia di argomentonapoletano oppure no: del resto, per averne un’idea basta scorrere gl’indici, quanto meno, dellaserie da me diretta. Pubblico qui il Suo messaggio, insieme con questa risposta, anche a beneficiodi eventuali altri “perplessi”, i quali, magari, potrebbero essersi astenuti dal collaborare, proprioper tale perplessità. Grazie sempre della Sua partecipazione e cordiali saluti.

* * *

Ringraziamo i gentili lettori Filiberto Ajello, Renato Cammarota, Antonino Demarco, Grazia deMarinis, Marcella De Riggi, Adriana Dragoni, Vincenzo Esposito, Giuseppe Febbraro, AnnaGiordano, Paola Lista, Italo Pignatelli, Maria Sirago, Giulio Tarro, che hanno manifestato il lorogradimento nei confronti di questo periodico.

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Il 4 luglio scorso, al “Nabilah” di Bacoli, sono stati fe-steggiati i 10 anni di “BENINSIEME”, evento solidale or-ganizzato dalle associazioni DareFuturo Onlus, PHP eCol Cuore Disponibile, che hanno destinato il ricavatodella serata alla donazione di 14 piroghe, di cui 4 a mo-tore, per il trasporto degli studenti della laguna di Ganviè(Benin), e a una vacanza studio in Inghilterra per due

studenti meritevoli del Rione Sanità di Napoli. Premiati lo scienziato Andrea Ballabio,il fotografo Claudio Danisi e la presentatrice Serena Albano; madrina della serata èstata Fabiana Sera.

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CRITERI PER LA

COLLABORAZIONELa collaborazione a Il Rievocatore s’intende a titoloassolutamente gratuito; all’uopo, all’atto dell’inviodel contributo da pubblicare ciascun collaboratore ri-lascerà apposita liberatoria, sul modulo da scaricaredal sito e da consegnare o far pervenire all’ammini-strazione della testata in originale cartaceo comple-tamente compilato.Il contenuto dei contributi impegna in manieraprimaria e diretta la responsabilità dei rispettiviautori.Gli scritti, eventualmente corredati da illustrazioni,dovranno pervenire esclusivamente in formato di-gitale (mediante invio per e-mail o consegna su CD)alla redazione, la quale se ne riserva la valutazioneinsindacabile d’inserimento nella rivista e, in caso diaccettazione, la scelta del numero nel quale inserirli.Saranno restituiti all’autore soltanto i materiali deiquali sia stata rifiutata la pubblicazione, purché per-venuti mediante il servizio di posta elettronica.L’autore di un testo pubblicato dalla testata potrà farriprodurre lo stesso in altri volumi o riviste, anche secon modifiche, entro i tre anni successivi alla suapubblicazione, soltanto previa autorizzazionedella redazione; l’eventuale pubblicazione dovrà ri-portare gli estremi della fonte.La rivista non pubblica testi di narrativa, com-ponimenti poetici e scritti di critica d’arte riflet-tenti la produzione di un singolo artista vivente. Gliannunci di eventi saranno inseriti, sempre previa va-lutazione insindacabile da parte della redazione, sol-tanto se pervenuti con un anticipo di almeno settegiorni rispetto alla data dell’evento stesso. I volumi,cd e dvd da recensire dovranno pervenire alla reda-zione in duplice esemplare.È particolarmente gradito l’inserimento di note a pie’di pagina, all’interno delle quali le citazioni di biblio-grafia dovranno essere necessariamente strutturatenella maniera precisata nell’apposita sezione del sitoInternet (www.ilrievocatore.it/collabora.php).

Direttore responsabile: SERGIO ZAZZERARedattore capo: CARLO ZAZZERARedazione: GABRIELLADILIBERTO,ANTONIO LA GALA, FRANCOLISTA, ELIO NOTARBARTOLO,MIMMO PISCOPOPast-director: ANTONIO FERRAJOLI

Direzione, redazione, amministrazione:via G. Sagrera, 9 - 80129 Napoli- tf. 081.5566618 - e-mail: [email protected]

Registrazione:Tribunale diNapoli, n. 3458 del 16 ottobre 1985

Fascicolo chiuso il 14 settembre2018, pubblicato online ai sensidell’a. 3-bis l. 16 luglio 2012, n.103.

diffusione gratuita

In copertina:Gabriele Zambardino, Pulcinella

(terracotta; coll. priv.)

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Yo no estudio para sabermas, sino para ignorarmenos.Sor Juana Inés de la Cruz

(1648 - 1695)

Anno LXIV n. 3 Luglio-Settembre 2018

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