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Un Uomo e il Suo Sogno™ regole base per cambiare la propria vita Autore: Aldo Mauro Bottura Attenzione Questo è un libro che riesce ad ispirare i cuori. Leggilo con il massimo piacere e con la massima attenzione. Troverai diversi spunti interessanti per migliorare radicalmente la tua vita. Un consiglio: Stampa queste pagine, non leggere a video! La lettura a video è poco piacevole e impedisce una facile comprensione del libro, che è nato per essere letto in formato cartaceo. Ottieni il massimo da questa lettura e sarà un’esperienza fantastica! Buona lettura! Dott. Giulio Marsala Premessa Perché un uomo a un certo punto dovrebbe raccontare la storia della sua vita? Esistono miliardi di persone: ciascuna con la propria individualità, il proprio egocentrismo, i propri sentimenti e credenze, le proprie speranze e i propri obiettivi, perché dovremmo interessarci proprio alla storia di Aldo Mauro Bottura? Quando il Sig. Aldo mi confidò che stava scrivendo un libro sulla sua vita, subito con la mente ritornai alle infinite piacevolissime ore trascorse nel suo studio ad ascoltare i suoi aneddoti, i suoi insegnamenti, le sue esperienze, sempre forti, toccanti, affascinanti. È un uomo che si è fatto da solo, non si è lasciato vivere ma ha saputo guidare la propria vita, ha percorso con ostinazione e determinazione il cammino che voleva intraprendere lasciando sempre dietro sé importanti segni del suo passaggio. Questo libro, questo Uomo, attraverso la storia del suo vissuto e delle sue più diverse esperienze, dall’incontro con la figura del nonno, l’iniziazione al mondo spirituale fino alla conoscenza delle “energie sottili”, dai tristi ricordi di un’infanzia sofferta e negata alla determinazione di imprenditore di successo, parla a tutti noi di ciò che di più caro abbiamo: NOI STESSI, come conoscerci, come capirci, come volerci bene e soprattutto come agire per ottenere la nostra soddisfazione, come raggiungere i nostri sogni. Ciascuno di noi ha un “messaggio” da consegnare, quale e a chi è l’interrogativo principale della nostra vita; il messaggio di Aldo Mauro Bottura è per tutti noi; è il messaggio che ci fa interpretare, capire e vivere i nostri messaggi interiori trasformando i sogni nella nostra realtà quotidiana. Un libro da leggere e da vivere, pagina dopo pagina, cogliendo riga per riga il senso ultimo dell’esistenza di ogni uomo.

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Un Uomo e il Suo Sogno™ regole base per cambiare la propria vita

Autore: Aldo Mauro Bottura

Attenzione Questo è un libro che riesce ad ispirare i cuori. Leggilo con il massimo piacere e con la massima attenzione. Troverai diversi spunti interessanti per migliorare radicalmente la tua vita. Un consiglio: Stampa queste pagine, non leggere a video! La lettura a video è poco piacevole e impedisce una facile comprensione del libro, che è nato per essere letto in formato cartaceo. Ottieni il massimo da questa lettura e sarà un’esperienza fantastica! Buona lettura! Dott. Giulio Marsala

Premessa

Perché un uomo a un certo punto dovrebbe raccontare la storia della sua vita? Esistono miliardi di persone: ciascuna con la propria individualità, il proprio egocentrismo, i propri sentimenti e credenze, le proprie speranze e i propri obiettivi, perché dovremmo interessarci proprio alla storia di Aldo Mauro Bottura? Quando il Sig. Aldo mi confidò che stava scrivendo un libro sulla sua vita, subito con la mente ritornai alle infinite piacevolissime ore trascorse nel suo studio ad ascoltare i suoi aneddoti, i suoi insegnamenti, le sue esperienze, sempre forti, toccanti, affascinanti. È un uomo che si è fatto da solo, non si è lasciato vivere ma ha saputo guidare la propria vita, ha percorso con ostinazione e determinazione il cammino che voleva intraprendere lasciando sempre dietro sé importanti segni del suo passaggio. Questo libro, questo Uomo, attraverso la storia del suo vissuto e delle sue più diverse esperienze, dall’incontro con la figura del nonno, l’iniziazione al mondo spirituale fino alla conoscenza delle “energie sottili”, dai tristi ricordi di un’infanzia sofferta e negata alla determinazione di imprenditore di successo, parla a tutti noi di ciò che di più caro abbiamo: NOI STESSI, come conoscerci, come capirci, come volerci bene e soprattutto come agire per ottenere la nostra soddisfazione, come raggiungere i nostri sogni. Ciascuno di noi ha un “messaggio” da consegnare, quale e a chi è l’interrogativo principale della nostra vita; il messaggio di Aldo Mauro Bottura è per tutti noi; è il messaggio che ci fa interpretare, capire e vivere i nostri messaggi interiori trasformando i sogni nella nostra realtà quotidiana. Un libro da leggere e da vivere, pagina dopo pagina, cogliendo riga per riga il senso ultimo dell’esistenza di ogni uomo.

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Introduzione

Sono apparsa sulla “scena” della sua vita quando aveva 24 anni. Quest’età per i ragazzi di oggi è giovanile, spesso irresponsabile, piena di spensieratezza e voglia di divertirsi. L’autore del libro che state per leggere era già molto maturo, pieno di voglia di lavorare, freneticamente intraprendente, instancabile costruttore di cose e di “persone”. Vivergli accanto era spesso affascinante, ma tanto attraente quanto perturbante. Un uomo senza età, che alternava il suo essere bambino al vecchio saggio che viveva in lui e che ancora non conoscevo. Viveva le sue giornate cominciando all’alba a volte con fare misterioso e concludeva a notte fonda motivato dalla voglia di scoprire e di realizzarsi. Mi sono spesso chiesta dove volesse arrivare. Era già un uomo di grande successo per la sua giovane età. Ponendo a lui questo mio quesito, mi ha sempre risposto: «Ho una meta da raggiungere e un sogno da realizzare!». Per anni ho creduto che volesse arrivare là dove aveva visto essere le persone che lui ammirava, ma col trascorrere del tempo mi sono resa conto che non erano questi i suoi obiettivi o perlomeno non solo questi, esisteva dell’altro a me incomprensibile. Uomo dotato di una fortissima personalità “magnetica”, intrigante quanto camaleontica. Era sempre presente in lui anche nei momenti di apparente euforia una sottile vena di malinconia, anche quando sorrideva il suo sorriso non era mai spensierato ma aveva qualcosa di triste. Durante i primi anni del nostro matrimonio ho saputo da sua madre degli anni terribili della sua infanzia, delle sofferenze e delle umiliazioni che hanno subito tutti i membri della sua famiglia da parte di suo padre e ho avuto la prova vivente di ciò che affermano gli psicologi: i primi anni della nostra vita sono quelli che formano il carattere e che sono decisivi per l’impostazione della nostra personalità. Di fronte a certe situazioni o si reagisce o si soccombe! Sua madre e suoi fratelli soccombevano in un triste silenzio. Aldo ha reagito imparando la dura legge della giungla. Ha imparato a lottare affrontando impavido ogni tipo di difficoltà ottenendo successi, spesso là dove tutti avrebbero rinunciato. Vivendogli accanto mi sono resa conto che pulsava in lui qualcos’altro di immateriale, di intangibile, sottile, impalpabile, la sensazione che ci fosse dell’altro che valeva ancor più. Questo di più è ciò che lui ritiene la “nostra vita interiore”, la cui essenza è il “Sogno”! Il sogno è esso stesso la realtà della nostra vita e possiamo plasmarlo a nostro piacere. Possiamo ideare come vivere, con chi, dove e immaginarci nelle situazioni che più ci piacciono. Questo ci dà la forza e l’istinto per compiere le azioni necessarie e piano piano ci troviamo a vivere ciò che sogniamo. Viviamo un po’ sospesi tra sogno e realtà del sogno ed è uno stato di grazia che ci protegge dalla depressione, dalla tristezza e dalla negatività. Sognando superiamo lo spazio e il tempo, tutto ci è presente, l’inizio dell’universo e tutte le vite che si sono susseguite fino a noi, possiamo andare ovunque e visitare chiunque, siamo consapevoli della nostra eternità e di quanto possiamo fare sulla terra. Devo ammettere che ho impiegato 35 anni di latenti resistenze e saltuarie perplessità prima di comprendere che ciò che normalmente noi viviamo nel sogno lui lo vive costantemente, sorprendentemente anche da desto. Lui è “l’Uomo dei Sogni”, sempre! Non è stato sempre così facile per me, soprattutto quando la mia razionalità sprofondava nella sua immensità percettiva nel “vedere” o percepire soluzioni o eventi che puntualmente si avveravano sia nei modi che nei tempi. A volte mi opponevo all’evidenza per poi capitolare in silenzio. Non è stato sempre facile.

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Leggendo questo libro che 35 anni fa mi disse avrebbe pubblicato nel 2006, alcuni di voi capiranno quante e quali siano state in passato le mie perplessità solo oggi parzialmente superate. Sono stati lunghi i tempi necessari per acquisire questa consapevolezza, ma come per il progresso umano, i primi passi sono i più lenti, poi via via si va sempre più veloci. L’avventura meravigliosa di questa vita non è ancora finita per lui, né per me. Sognando stiamo scoprendo i misteri di sempre, le leggi ferree dell’universo nella parola “Amore” e cerchiamo di fare partecipi altri perché si riapproprino della valenza del Sé e tornino a fluttuare leggeri come le nuvole, liberi, senza più barriere. Conoscenza, Coscienza e Consapevolezza, le porte magiche da transitare verso l’infinito, verso il tutto, verso la pace interiore. Sua moglie

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La partenza e il lungo viaggio E venne il giorno! Partimmo all’alba con la corriera da Sermide per Mantova, faceva freddo, il paesaggio era tetro, nebbie e bruma rendevano difficile identificare i pochi passanti che frettolosamente si recavano alle loro attività. Giunti a Mantova ci recammo alla stazione ferroviaria in attesa del treno che ci avrebbe portato a Genova, città nella quale ci saremmo imbarcati sul prestigioso Conte Biancamano, la nave che ci avrebbe portato in Brasile. Il viaggio da Mantova a Genova mi sembrò interminabile. Forse perché era il mio primo viaggio in treno. Attraversammo pianure, poi colline e infine vidi il mare. Non avevo mai visto tanta acqua, era il mare. L’ammirai stupefatto, non avevo paura dell’acqua, d’altronde sono nato sopra l’acqua, anche se mi ha costretto a scappare già due volte. Sono nato nell’acqua, sono cresciuto attorniato dall’acqua, raccoglievo la “papaverina” vicino l’acqua fin da piccolo, a volte l’acqua mi tranquillizza, concedendomi un sublime benessere anche se nella sua duplicità di vita e di morte. Guardavo il mare, illuminato dai raggi del sole al tramonto, che spettacolo, che colori, quanta bellezza indescrivibile. Le sue radiazioni arrivavano dritte al cuore, attraverso la pelle, riscaldandola, attraverso la mente, illuminandola, scatenando pensieri e sentimenti difficilmente imbrigliabili sia da poeti che da pittori. Credo che il più bel poema o il miglior quadro sul tema sia quello che ognuno di noi registra all’interno del proprio IO. Una collezione invendibile e impagabile, quella che crea il patrimonio “personale” che a volte ci dimentichiamo di possedere per rincorrere materialismi di cui un giorno comprenderemo l’inutilità. Forse sognavo? Forse... A riportarmi alla realtà una sosta in una delle tante stazioni. La gente saliva, altri scendevano, e più ci avvicinavamo a Genova e più mi andavo domandando: ma tutte queste persone verranno in Brasile con noi? Dove vanno, se non con noi? Forse il grande fiume ha portato via anche la loro casa? Non sapevo, non capivo, non parlavo, nessuno parlava! Mio fratello Roberto mi teneva la mano, sentivo il pulsare rapido del suo cuore silenzioso e generoso. Appoggiare le mani a un Diesel da 5000cc non mi avrebbe dato la stessa sensazione. Una volta ho vissuto un’esperienza simile toccando, in campagna, il motore di un trattore Landini, la vibrazione era simile ma quella di mio fratello arrivava dal cuore: ineguagliabile. Riprendemmo il lungo viaggio e in tarda serata raggiungemmo Genova. Il “Capo” (mio padre) impartì tutte le disposizioni sul da farsi e raggiungemmo le vicinanze del piroscafo. Rimasi stupito, si trattava di una città galleggiante, incredibile. Pensavo a quelle navi dei pescatori che vedevo transitare sul Po, a volte avevo contato anche 4 o 5 persone, pensavo a qualcosa di più grande ma non a una città galleggiante. Naso all’insù, bocca aperta e fantasia a tremila, fantastico. Se in quel momento la mia mente avesse immagazzinato i ricordi e le riflessioni sarebbe servito un magazzino di grandezza cosmica. Seguì quella che per me fu un’avventura indimenticabile; salire a bordo, passare i controlli, seguire le disposizioni, spostarsi da un salone all’altro, ritirare biglietti e riconsegnarne altri, tutti in silenzio, un popolo di ubbidienti, chi capiva eseguiva, chi non capiva seguiva gli altri per non fare brutta figura. Nonostante fossimo agli ordini del nostro Capo (mio padre), anche noi seguimmo gli altri! Mi sembrava di percepire che la maggior parte dei passeggeri fossero alla loro prima esperienza (per molti fu anche l’unica): un viaggio di sola andata destinato a incrementare

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la colonia degli italiani all’estero. Ci ritrovammo dopo camminate interminabili in quella che doveva essere la “casa” del nostro viaggio, una cabina con quattro posti letto con bagno in camera. Anche se io ero piccolo, altrettanto piccola mi sembrò la nostra casa temporanea. Il viaggio verso “il nuovo mondo” dove ci aspettavano salute, felicità e benessere (cose mancanti nella nostra vita fino ad allora) sarebbe durato 35 giorni. Mi sembrava impossibile che tutto ciò stesse accadendo. Partenza da Genova, sosta a Napoli poi a Barcellona, Gibilterra, Costa d’Avorio e poi la traversata fino a Rio de Janeiro, 35 giorni di navigazione. Dopo il trambusto e la rapida sistemazione delle poche cose portate in cabina, sobbalzai udendo una voce metallica che invitava tutti i passeggeri a recarsi nel salone ristorante per la cena. Mi guardai intorno, non vidi nessuno, un altro sobbalzo quando “la voce del Padrone”, mio padre, ci ordinò di far presto, insegnandoci che se fossimo arrivati in ritardo non avremmo trovato che i resti di chi era arrivato prima di noi. Altro sobbalzo quando la voce metallica ripeté l’invito. Questa volta capii che proveniva da un altoparlante inserito nella parete della cabina. Nei giorni successivi mi informai e capii. Capii anche che se gli avessi risposto lui non avrebbe potuto sentirmi. Scoprii anche che non era vero che chi arrivava per primo si mangiava tutto, c’era cibo per tutti e in abbondanza, anzi un gentilissimo signore napoletano, tutto vestito di bianco con un farfallino nero ci serviva a tavola, sempre sorridente, ripetendo ogni volta «Signori ne desiderate ancora»? La fame era così grande che per parecchi giorni tutti risposero, «SI!». La mamma era la più brava cuoca del mondo, ma imparai che esistevano altri cibi oltre a quelli da me conosciuti fino a quel momento e che a differenza di casa nostra, in questa nuova casa tutti i giorni si mangiavano frutta e dolci, sì dolci, dolci a volontà... Stanchi, con la pancia che stava per scoppiare per aver mangiato come non mai, ripercorremmo corridoi infiniti tutti in coda, come pinguini dietro al capo che ci stava riportando nella nostra cabina. Camminammo molto. Nei giorni successivi capii che la sua memoria sul percorso da fare non era ottima e così decidemmo di provare percorsi diversi. I primi a sedersi a tavola eravamo io e Roberto e ci sbellicavamo dalle risate, subito interrotte al suo apparire. Lui ci raccontava che si era fermato qui e là per... questo e quello... ovviamente non era così, ma noi restavamo zitti per non urtare la sua fragilità e non suscitare la sua ira. Ogni istante di navigazione era per me fonte di infinite scoperte. Una tra le tante fu quella di sapere che il signore che ci serviva si chiamava Gaetano, sì come lo zio di Sermide, il maresciallo, fantastico! Sbocciò una simpatia infinita e una complicità nel ricevere “montagne di dolci” ogni giorno; addirittura ogni giorno Gaetano mi portava in cabina una gigantesca mela cotta ricolma di zucchero: un sogno a occhi aperti. Scoprii anche che tra il personale di bordo esistevano i gradi, come in caserma, e che tutti erano ubbidienti e gentilmente disponibili. Si distingueva dagl’altri un elegantissimo signore, alto, con la barba, portava sempre una giacca blu e pantaloni bianchi, la giacca aveva bottoni d’oro e tutti lo chiamavano “Comandante”. Un giorno lo fermai, mi presentai, simpatizzammo, la mia vita a bordo cambiò. Dividevo la mia giornata in due parti, una con lo zio Gaetano per mangiare e l’altra con il Comandante per imparare. Credo di aver imparato più cose da lui in 30 giorni che in tanti anni di scuola, era una miniera di sapere... infinita. A ogni mia domanda forniva un’amorevole risposta arricchita da esempi, foto, disegni; era fantastico e io ero felice. Mio fratello studiava e i miei genitori “litigavano”, quando e quanto? Sempre e ovunque.

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Chiesi al Comandante come mai il mare fosse così “liscio”, mi rispose che era apparentemente calmo perché navigavamo ancora nel Mar Mediterraneo, ma quando avremmo attraversato l’oceano il mare si sarebbe presentato a volte o anche per giorni “mosso” e avrei potuto osservare grandi onde. Non avevo paura del mare, sono nato in acqua e vissuto sull’acqua, ma la rispettavo perché essa aveva anche distrutto due delle nostre case e quindi chiesi se queste onde avrebbero potuto allagare la nave. Il Comandante mi abbracciò e tranquillizzò, rispondendomi che non sarebbe successo nulla di tutto ciò. La nave era sicura e ci avrebbe portato a destinazione asciutti. Mi tranquillizzai e continuai imperterrito a porre altre domande. Con il trascorrere dei giorni notai che tra i tanti passeggeri si erano formati dei gruppi: bambini con altri bambini, anziani con anziani apparentemente tristi e spesso silenziosi. Gli adulti confabulavano più di altri, chiedendosi dove sarebbero andati, presso chi, a fare cosa, alcuni si scambiavano indirizzi, ecc... altri si mostravano ottimisti ed entusiasti dell’avventura che li attendeva. Alcune donne anziane lavoravano a maglia, altre erano silenziose e tristi, solitarie, immobili quasi in atteggiamento catartico, tutte le altre chiacchierone! Parlavano, parlavano, parlavano... il gruppetto si scioglieva se uno dei loro mariti si avvicinava, per poi ricompattarsi un attimo dopo e ricominciare a parlare. A volte, quando le giornate erano calde e splendenti, mi sdraiavo al sole e osservavo il mare, il cielo, i gabbiani e i pesci che ci seguivano dal giorno della nostra partenza in turbinii e volteggi meravigliosi. Volavano e cantavano felici. Un giorno mi domandai, «Saranno così felici perché anche loro vanno in un nuovo paese?» «Ma non dormono mai?» «Forse dormono un pochino appoggiandosi sull’acqua e poi devono volare molto veloci per riprenderci, e se si perdessero?» Eravamo in pieno oceano. E i pesci? Non avevano la loro casa?... Forse la loro casa era l’oceano, una “grande casa”, sì ma gli uccelli hanno una “casa” più grande! Quanto è meraviglioso il mondo che ci circonda! Il sole era caldo, ci stavamo avvicinando all’equatore, «Se i bambini dei pesci nascono nell’acqua, i bambini degli uccelli come fanno a nascere in volo?» «Non importa chiederò al Comandante, lui sa tutto». Fui improvvisamente attratto da un vociare femminile, non si trattava della solita conversazione ma di un alterco e le frasi cominciarono così; «Stai zitta tu, cosa ne vuoi sapere, tu non puoi parlare perché... tu non capisci niente...» ... la discussione si animò ulteriormente e volarono parole brutte. Io non capivo, ma dal volare con gli uccelli e ammirare i pesci, il sole, il mare, i profumi dell’universo e molte altre cose belle, ritornai bruscamente alla realtà. Non capivo perché gli umani si comportano così, mi arrabbiai e guardando il cielo chiesi se potevo diventare pesce o uccello: «Potevo?» C’era qualcuno che era riuscito a trasformarsi? Io lo desideravo, poi pensai che forse era solo un sogno, ma non ho mai abbandonato l’idea, mai! A chi asserisce che la curiosità è femmina io rispondo che si sbaglia. Io sono maschio e sono pieno di curiosità, bambino sì, non femmina. Oggi vivo in un corpo da anziano ma sempre con la mia superdose di curiosità, anzi essa è aumentata con il passare degli anni;

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forse sarà per questo motivo che alcuni a volte mi rispondono intercalando così; «Mi sembri un bambino», io non capisco, ma sono per questo felicissimo. Iniziai con maggior assiduità, quando mi era possibile, a osservare cose e persone con un atteggiamento diverso, quello di iniziare a guardare... oltre. Mi si spalancò una “nuova porta” la quale mi avrebbe nel tempo offerto molte opportunità ma anche molte “sofferenze”. Guardare oltre! Cercare di capire perché le cose accadevano e scoprire che non erano mai frutto del caso o di coincidenze, come a volte diceva la gente, ma sempre all’interno di un disegno karmico già prestabilito CHE LA NOSTRA INDOLENZA O PRESUNZIONE NULLA HA FATTO PER MODIFICARE! Alla gente accade sempre ciò che le sue azioni determinano, rendendo gli avvenimenti atti INARRESTABILI. Solo quando si acquisisce la consapevolezza dei perché, probabilmente si può modificare il corso degli EVENTI. Malattie e guarigioni, sfortune o fortune, buone o cattive idee, il Bene e il Male nascono sempre dalla nostra mente e dal nostro cuore. NOI SIAMO, IN OGNI ISTANTE, LA SOMMA ALGEBRICA DEI NOSTRI PENSIERI. GUARDARE OLTRE! A sconvolgere queste nuove scoperte fu l’apertura del regalo di Gaetano ricevuto prima della nostra partenza, un piccolo pacchetto di dieci centimetri. Con cautela lo scartai e all’interno di una scatolina molto colorata “un’aquila di cristallo”! Fantasticaaaaaaaa! Rimasi a osservarla ore, giorni.... Perché Gaetano mi aveva fatto questo regalo? Non capivo, ma ero felicissimo e mi venne la febbre. Rimasi a letto tre giorni, riso in bianco, latte e mele cotte con la mia aquila tra le mani. A volte la posavo pensando che la mia troppo alta temperatura potesse bruciarle le ali. Guardare oltre! Guardare oltre consiste nell’ascoltare le persone o osservarle con estrema attenzione, vi accorgerete se riuscirete a rimanere staccati dalle emozioni dirette o dai condizionamenti di base, che dentro il significato del loro dire c’è un’altra verità, diversa da quella che vogliono far apparire, altrettanto accadrà se osservate i loro movimenti e il loro corpo. Il corpo e la voce non mentono MAI! Ma NOI non sappiamo ascoltarli! Siamo talmente presi a vendere una falsa immagine di noi stessi che tradiamo la parte più bella: noi stessi e offuschiamo il nostro splendore spirituale. Mi domandavo e mi domando dopo 55 anni: « Perché?» Non capisco, ma continuo a studiare e cercare e cercando me ne dolgo, ma forse c’è una ragione in forza del fatto che nulla accade per “CASO”! Nulla. Iniziai ad ascoltare sempre più e comprendevo ciò che le parole non dicevano, iniziai a guardare sempre più e incominciai a vedere ciò che la gente non aveva il coraggio di affermare, anzi... donne che volgarmente tradivano, uomini che inspiegabilmente mentivano. Riflettevo e non capivo... a dire il vero non capisco neppure oggi. Fui tentato un giorno di porre tali quesiti al Comandante, poi ebbi un’esitazione... tornai in cabina, presi la mia aquila e a lei affidai il quesito. L’esortazione a ottenere una risposta fu ricevuta e credo che lei mi abbia riportato molte volte le giuste risposte.

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Vive da quel giorno sempre al mio fianco, ha avuto figli ed ecco perché nella mia casa e nel mio studio è facile vedere molte aquile. Un segno? Un simbolo? Uno strumento? Può essere... loro non mi hanno mai mentito! Sono diventate compagne di vita e di lavoro. Spesso affido a loro quesiti complessi e nei giorni seguenti ricevo semplici risposte. Parlo agli uccelli? Sì, anche... Voglio rinascere aquila! Da quel giorno ho passeggiato per il ponte della nave con la mia aquila tra le mani, ascoltavo, guardavo e parlavo con lei. La gente diceva “quel bambino deve avere dei problemi”, forse era vero, volevo capire ma non capivo e spesso mi portavo i quesiti a letto. Questo esercizio finì per essermi utile, dal momento che alcune volte, destandomi e guardando la mia aquila essa mi donava le risposte che mi ero posto il giorno prima. Non ho mai smesso di porle quesiti e lei, nonostante l’età, continua puntualmente a rispondermi. Lei è ormai una vecchia aquila ma anch’io non scherzo... forse un giorno voleremo via insieme, me lo auguro, d’altronde se alcuni cani trapassano con il proprio padrone non vedo perché non possa accadere questo evento fortunato anche a me, ma forse è un pensiero egoistico... accadrà ciò che è giusto che accada e poi lei è di cristallo, forse mi porterò solo la memoria di lei, sarebbe già fantastico. Attraversammo l’equatore, il caldo era quasi insopportabile, iniziai ad andare in piscina e presto imparai a nuotare, era facile. Trascinai mio fratello Roberto con uno stratagemma sul bordo della piscina e poi lo spinsi dentro e... imparò anche lui. Dopo aver imparato a nuotare, mi ringraziò per quella spinta. Stavamo meno tempo in cucina e più in piscina all’insaputa del “Capo” il quale aveva sentenziato che per i bambini era pericoloso stare in acqua. Non condividevo, ma non importava, ci divertivamo come pazzi e la mamma ci offriva sempre una delicata copertura. Eravamo bambini abbronzati, ingrassati e in ottima salute come mai prima d’allora! Peccato, a giorni saremmo arrivati al porto.

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L’arrivo e il trasferimento

I preparativi per l’arrivo furono completamente diversi da quelli per la partenza. Quasi tutti gli emigranti sembravano vecchi marinai, tutti sapevano tutto di tutti, all’infuori di me e di una ristrettissima cerchia di altre persone. Eravamo partiti in pieno inverno e siamo arrivati in piena estate, ecco perché la gente diceva che in questo paese si stava meglio, pensai. I colori erano diversi, così pure i profumi, i visi, gli abiti, bene, era quasi tutto diverso... Guardando oltre, pensai al paradiso! Quale pittore divino aveva creato tutto ciò e dove aveva comprato la “magia” di quei colori? Era fantastico, indescrivibile, paralizzante... se fosse stato a pagamento, il suo prezzo sarebbe stato la vita. L’attimo del commiato da Gaetano fu accompagnato da un pacco di dolci (lui diceva che mi avrebbero accompagnato nel lungo viaggio che ancora mi rimaneva da compiere), ma si sbagliò perché dopo un’ora i dolci erano già finiti e il viaggio ancora da cominciare. Diversa fu la separazione dal Comandante, ricevetti un abbraccio silenzioso da padre. Grazie a lui avevo imparato più cose che negli anni precedenti, avevo ricevuto affetto, attenzioni e amore, non solo informazioni o gentili risposte, amore. Un sentimento che fino a quel momento avevo ricevuto solo da mia madre. Ma lui non era, purtroppo, mio padre, non capivo, ero emozionato, piangevo e lo stringevo fortissimo in un disperato tentativo d’imprimere nelle mie piccole membra la sua generosa impronta. Lo guardai e i suoi occhi mi dissero «Vai e sii felice»; i suoi occhi erano umidi ma sorridenti, era un angelo. Dovetti lasciarlo, ma a metà della scaletta di sbarco, ritornai da lui, desiderando che accarezzasse la mia aquila perché anche in lei rimanesse la sua mitica impronta. Questa volta fu lui a non capire, ma non lo diede a vedere, oppure aveva capito tutto ed ero sempre io a non capire. Le operazioni di sbarco, soprattutto quella dei bagagli, furono lunghissime. Mentre il “Capo” cercava un furgoncino a noleggio, a noi fu ordinato di rimanere fermi in una determinata zona e così facemmo. Il luogo che dovevamo raggiungere si chiamava Itapetininga, un paesino al limite della foresta Mato Grosso, distante circa 180 miglia da dove ci trovavamo. Non realizzai la distanza, ma capii che doveva essere assai lontano. La mamma era emozionatissima e ovviamente trasmetteva anche a noi parte delle sue emozioni. Se era vero che lei avrebbe rivisto i suoi era altrettanto vero che noi li avremmo conosciuti solo ora. Da uno zio cuoco e uno carabiniere a 8 zii veri, più due nonni fantastici, più un mondo nuovo da scoprire, più... eravamo veramente molto emozionati. Arrivò il mezzo di trasporto. Si trattava di un vecchio furgone aperto, sul retro del quale furono caricati i nostri bagagli, operazione non semplice e in parte complicata dalla difficoltà della lingua. Nessuno aveva parlato della lingua come problema, anzi alcuni sostenevano che sarebbe stato semplice perché là parlavano un po’ come i genovesi. In effetti, tale mi sembrò la cadenza, ma tra cadenza e comprensione c’era un percorso da compiere. Mentre “il Capo” discuteva, noi rimanemmo religiosamente zitti.

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Mentre la discussione proseguiva, guardai all’interno del furgone e mi resi conto che a malapena oltre all’autista potevano prendere posto altre due persone, ma noi eravamo quattro. Sopraggiunse una terza persona che parlava sia la nostra lingua che quella dell’autista, il quale ascoltò le ragioni motivate dell’autista e le opinioni contrastanti del nostro Capo. La discussione sembrava accendersi sempre più, peggiorò, quando il gentile intermediario (un italiano) iniziò a dire a mio padre che l’autista, visto il lungo e disagevole viaggio che ci attendeva non aveva tutti i torti a opporsi, non ultimo il problema legato al pericolo di essere multato per il trasporto di persone sul retro del furgone (soluzione obbligata). Non avesse mai contraddetto il “Capo”! Sentii brutte parole e insulti rivolti al povero intermediario il quale, dopo aver tentato pazientemente per più di un’ora di cercare una soluzione possibile, si allontanò consigliando a mio padre di trattare gli altri con maggiore rispetto, altrimenti in quel paese non ci sarebbe rimasto a lungo. Fu un cattivo presagio! Le ore passavano e la gente sbarcata con noi aveva quasi completamente lasciato il porto. La mamma si fece coraggio e timidamente disse: «Chiamo uno dei miei fratelli, loro hanno molti automezzi e in poco tempo potrebbero venirci a prendere». Non l’avesse mai detto! Il “Capo” da verde divenne nero, scagliandosi contro di lei, affermando che le aveva già detto di no prima di partire e che lui non aveva bisogno di nessuno e che era perfettamente in grado di risolvere il problema. Povera mamma. Io non capivo, ma soffrivo e con me anche mio fratello e mia madre. Finì che uscimmo dal porto io e Roberto sul furgoncino, sul cui funzionamento avevo alcuni dubbi visto l’età e il pessimo stato di mantenimento e i miei genitori a piedi. Rimasi perplesso, guardai Roberto in cerca di un segnale, ma lui si era già rinchiuso nel suo guscio silenzioso. Dopo poche centinaia di metri, l’autista si fermò. Bene, pensai io, troveremo un’altra soluzione, non fu così. Pochi attimi dopo il “Capo” con mamma raggiunsero il furgoncino, salirono sulla parte posteriore e dissero all’autista che tutto andava bene e di partire! Lasciammo rapidamente la zona portuale, sempre più lontana l’immagine gigantesca del Conte Biancamano. Le strade erano affollate da automezzi mai visti, alcuni con forme buffe, piene di gente e di tanti piccoli negozi con merce esposta in strada e tanti bambini, tanti bambini. Cosa dire dei colori e profumi che avvolgevano meravigliando gli uni e inebriando gli altri? Lì nessuno andava di fretta, la gente sorrideva e tutti salutavano incrociandosi con gli altri, forse erano parenti? Non so, ma era bello. Usciti dalla città, trovammo il verde infinito, poche case e strade che si rimpicciolivano sempre più. Con il passare dei chilometri la velocità del furgoncino diminuì forzatamente, causa il restringimento della carreggiata e di alcune tortuosità da circuito automobilistico. Emozionanti erano i sorpassi dei mezzi agricoli o trainati da animali e gli incroci con camion e corriere. Con Roberto scommettevamo chi tra i due mezzi sarebbe uscito di strada. A volte chiudevamo gli occhi, trattenevamo il respiro e... passavamo oltre, «Bene» dicevamo «anche questa volta è andata bene», il segno della croce era un rito ripetuto. Dopo due ore avevamo percorso circa 45 miglia e l’autista pensò bene di fare una sosta. Questo posto si chiamava “mesa”, altro non era che una baracca di legno coloratissima con tavoli esterni e lunghe panche di legno. Tutti mangiavano carne e bevevano birra a fiumi.

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Il “Capo” scese dal furgoncino e dietro di lui la mamma. La mamma aveva gli occhi arrossati, positivamente pensai fossero stati aria e sole ma dopo pochi attimi capii che la ragione era diversa, ossia il solito arrogante e violento “sermone del Capo”. Dispiaciuto, presi la mano di Roberto e ci mettemmo in fila. L’autista gentile indicò un tavolo per sei verso il quale ci dirigemmo, ma lui andò a mangiare da solo all’interno della “mesa”. Venne il proprietario e dopo molte spiegazioni recitate nella nostra lingua il “Capo” decise: ci portarono due di quelle che loro chiamavano bistecche di vitellone, una birra e tre coca cola, quattro piatti e una montagna di patatine con salse, sale e altre cose che non conoscevo. Non avevo mai visto tanta carne in vita mia, ecco perché il “Capo” ne aveva ordinate solo due. Lui fece le parti e le distribuì. Mangiammo in assoluto silenzio quando tutti gli altri intorno a noi chiacchieravano ad alta voce, ridevano, bevevano e si scambiavano delle gran pacche tra loro. Mi domandai se ridevano tanto perché avevano bevuto o bevevano per ridere tanto, in ogni caso anche senza capire una parola era bello star loro vicino, infondevano allegria e voglia di vivere e noi ne eravamo tanto bisognosi. La mamma ci accompagnò sul retro in cerca di un bagno, era un bussolotto di legno a cielo aperto, non ci formalizzammo e dopo aver fatto ciò che dovevamo, ritornammo a sederci. Poco dopo ci portarono un cesto di frutta gigantesco. Mangiammo a volontà e ripartimmo. Avanzai richiesta di sedermi sul retro con Roberto e grazia fu. Ci sedemmo tra un baule e l’altro, ci prendemmo le mani, sorridemmo, ci baciammo e speravamo in un futuro migliore. Tra un sobbalzo e l’altro riguadagnammo la “carretera” e via come il vento, velocità media 25 miglia. Due erano i pensieri nella mia mente in quel momento. Uno: cosa sarebbe stato della nostra vita con gli zii, con i nonni, cosa avrebbero fatto il “Capo” e la mamma? Pregavo per una vita migliore. L’altro: registrare mentalmente le meravigliose immagini che incessantemente scorrevano davanti ai miei occhi stupefatti. Sognavo a occhi aperti, sognavo una vita serena, sognavo una vita piena d’amore, sognavo. Poteva accadere, doveva accadere, perché no? Fin a quel momento la nostra vita non era stata una buona vita e sognavo che fosse arrivato il momento del cambiamento. Ogni due ore circa una piccola sosta, cambio di posti a sedere e via, verso la meta. Era pomeriggio inoltrato quando l’autista ci informò che a breve saremmo arrivati. Le pulsazioni cardiache salirono a mille, accompagnate da desideri di felicità. Tutto intorno, praterie, mucche e piantagioni di canna da zucchero o di caffè, poche case, quelle poche piccole e modeste e tanti bambini vicino a ognuna di esse. Le donne lavavano e stendevano, tutte vestite con abiti coloratissimi. Arrivammo a Itapetininga, l’autista chiese la via e pochi minuti dopo ci trovammo di fronte a una fortezza quadrangolare molto grande con un immenso portone d’accesso arcuato. La proprietà era illuminata a giorno e fili interminabili di lampadine arricchivano gli aspetti architettonici più significativi, credevo ci fosse in corso una sagra paesana, lo scopo era quello di arricchire il momento del “benvenuto”.

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L’arrivo

Il rumore provocato dal furgoncino mise in subbuglio frenetico tutti gli abitanti di quell’enorme palazzo, scoprii più tardi che erano tutti nostri parenti, «Quanti!», esclamai, e fu festa. Perché la gente quando dice di essere molto felice, piange? Piansi anch’io, piangevano tutti, tranne il “Capo”. Solo per le presentazioni e gli abbracci trascorse circa un’ora. Io e Roberto scoprimmo, che oltre a tanti zii e zie avevamo anche un piccolo esercito di cugini, alcuni con la pelle più scura della nostra e capelli arricciati; quanto erano belli e parlavano tutti la nostra lingua! Fantastico! Forse il mio “SOGNO” stava per avverarsi, felici in una grande famiglia, bellissimo. Venne a prenderci per mano la mamma in lacrime dicendo che ci portava dai nonni. «I miei nonni» esclamai. «Sì, vieni», volavo dalla gioia. Arrivato al loro cospetto sbarrai gli occhi e spalancai le mie piccole braccia che nella migliore delle ipotesi potevano solo cingere un quinto della periferia infinita della pancia della nonna. La nonna Nerina tentò di abbassarsi un po’ e io di alzarmi in punta di piedi ma qualcuno mi alzò per poterla baciare. Posso dire che avevo una Grande Nonna, in tutti i sensi. Era immensa, piacevolmente infinita, ovunque, dalla testa ai piedi, grande, no più grande, cioè grandissima. Era doppia della “mami” nel film “Via col Vento”. Poi, dopo la nonna, il nonno Giovanni. Fui ancor più disorientato, gli buttai le braccia al collo, gridando «Nonno, nonno, sono felice...». Lui mi baciò e mi toccò dappertutto. Passò ripetutamente le sue delicatissime mani sul mio volto, ripetutamente e dettagliatamente anche per il resto del corpo. Mi disse: «Aldo sei bellissimo ma anche un po’ magro, vieni, dammi la mano e accompagnami in casa». Gli presi la mano e sentii un’emozione indescrivibile, una scarica elettrica da 10.000 volt non è nulla in confronto a ciò che provai. Camminava lentamente, parlava dolcemente, vestiva elegantemente, profumava d’amore... era cieco! Quando me lo dissero, stentai a credervi. Camminava e si comportava normalmente, incredibile la sua certezza, mai un’esitazione, mai una sbavatura, mai un errore. Ebbi modo d’imparare da lui cose che non avrei mai potuto studiare su nessun testo scolastico. Imparai a guardare oltre, utilizzando le orecchie. Imparai ad ascoltare tramite la pelle. Imparai a conosce gli altri tramite “il tocco”. Imparai a distinguere gli stati emotivi tramite la percezione del corpo. Imparai a sentire la vita e il suo fluire, toccando le cose. Imparai a capire il significato di vibrazione, quindi di salute o malattia, il bene e il male, il chiaro dallo scuro; non quello che vedono gli altri, ma ciò che è... e fu solo l’inizio. Imparai ad amare e la mia vita interiore cambiò! Grazie nonno, grazie per l’eternità. Capii perché la gente diceva che i ciechi sviluppano un sesto senso... Capii anche che i motivi del sesto senso non erano motivati dalle dicerie...

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Capii che ognuno di noi possiede il sesto senso... non solo... di più... Capii grazie al nonno Giovanni, i segreti per VEDERE oltre... è facile... Capii che lui aveva capito di me... fu la svolta della mia vita, lui il mio MAESTRO! Nel frattempo qualcuno aveva scaricato i bagagli e l’autista se ne era andato. Entrando in casa mi resi conto che era molto più grande di quanto avessi potuto immaginare. Sobriamente arredata, splendida, curata nei minimi dettagli, era una grande ricca casa. Ci ritrovammo in quella che chiamavano sala da pranzo, era infinita, un rettangolo di sedici metri per otto, con un unico tavolo e tante sedie, ai lati delle credenze stracolme di piatti, posate e tovagliame vario. Sulle credenze, candelabri giganteschi; alle pareti, arazzi raffiguranti paesaggi, fiumi e uccelli. Uno spettacolo di serena armonia. Capii più tardi che quella era la sala da pranzo riservata “solo” agli uomini. Un’altra sala più piccola era “solo” per le donne e un’altra solo per i bambini. Venne l’ora della cena, e il mio mitico nonno con fare regale si recò a capo tavola e si sedette chiamandomi e invitandomi a sedere alla sua destra e Roberto alla sua sinistra. Poi si sedettero tutti gli altri. Le donne e i miei cugini sparirono in un secondo, anche la nonna andò con le zie. Apparvero più tardi a servire in tavola delle persone che non avevo fin a quel momento ancor visto. Seppi più tardi che erano cuochi e camerieri. Entrò poi un cameriere più anziano e cicciotello, simpaticamente serio e mi fece l’occhiolino. Si avvicinò al nonno con una zuppiera gigantesca, tolse il coperchio e servì, così pure per tutti gli altri. Nessuno toccò una posata ad “eccezione del Capo” il quale dopo essersi messo per primo un cucchiaio in bocca forse capì di averla fatta grossa o forse non capì, ma riposò immediatamente la posata. Il nonno congiunse le mani, abbassò il capo, ringraziò e si fece il segno della croce augurando a tutti “buon appetito” e solo allora tutti iniziarono a mangiare. Altra lezione di vita, grazie nonno, grazie... Che dire della cena, interminabile, squisita, raffinata e... vennero i dolci «Fantastico» gridai. Terminati i dolci il nonno mi disse che io e Roberto potevamo raggiungere i nostri cugini. Ci alzammo, lo ringraziammo e gli augurammo la buona notte. Non eravamo ancora usciti che sigari e sigarette iniziarono a profumare la sala, era la regola. Sigaro e liquorino. Nelle altre stanze, le donne chiacchieravano e i bambini facevano... sì proprio quello che avete pensato, forse di più, eravamo tanti e vivaci, ma durò poco. Vennero concessi altri dieci minuti dopo di che tutti a letto. Ma dove avremmo dormito? Con chi? Scoprii tutto più tardi. Desideravo abbracciare la mamma prima di andare a letto e anche la nonna. Iniziai a cercarle, di stanza in stanza, ma erano tante e non volevo perdermi, allora chiesi a una delle tante zie, che mi rispose dandomi l’indicazione di dove potevano essere e si raccomandò che bussassi prima di entrare (buona e giusta regola della casa). Bussai, a stento sentii un “avanti”. La nonna era seduta in una poltrona rossa gigantesca, ai suoi piedi la mia mamma piangente. Mi avvicinai in punta di piedi e mi sedetti ai piedi di mia madre abbracciandola e piansi! Perché quando la gente è molto felice piange? Perché?...

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Dopo un momento infinito, mi accarezzò e mi invitò ad andare a dormire e di dare un bacio anche a Roberto. «Grazie mamma, sei la mia vita, buona notte» e me ne andai retrocedendo, forse non volevo staccarmi dall’immagine di loro, oppure volevo imprimerla nella memoria una volta di più. Fuori dalla camera della nonna incontrai una zia, una delle tante, bellissima, forse non era italiana, ma indipendentemente da questa riflessione mi disse «Vieni caro Aldo ti accompagno alla tua camera». Camminammo talmente tanto che persi l’orientamento. Prima su, poi un lungo corridoio a destra e poi giù, un altro corridoio a destra e poi a sinistra. Si fermò e guardandomi con uno sfavillante sorriso, mi disse, indicandomi una grande porta, «Vedi Aldo, è la stanza dove farete colazione al mattino». Guardai un attimo, era una immensa cucina, tutta realizzata in ceramica, anche il lungo tavolo centrale era rivestito in ceramica con tantissimi sgabelli in legno. Non era una cucina, ma un ristorante, pensai. Ciò che mi stupì oltre alla grandezza, alle ceramiche, ai grandi spazi, fu che non si vedeva una pentola, un piatto, niente di niente, solo ordine, pulizia e uno strano piacevole profumo. «Bene», mi disse la zia,«da domani in poi è qui che farai colazione, andiamo si è fatto tardi». Camminammo ancora un po’ e arrivammo a quella che sarebbe stata la mia cameretta. Entrando, vidi Roberto e altri due cugini già spogliati e pronti per la notte. Fui felice. Inutile dire che la stanza era grandissima e predisposta per sei posti letto. Ebbi l’opportunità di scegliere tra i tre letti ancora liberi, scelsi quello vicino alla finestra. Essendo aperta, risentii quel piacevole profumo già avvertito in cucina, veniva dall’esterno e l’indomani avrei fatto delle nuove scoperte. Facemmo un po’ “ad ciacari” (chiacchiere), ma la stanchezza provocata sia dagli eventi che dal lungo viaggio finì per avere il sopravvento. Augurandoci la buona notte ci addormentammo. Prima di dormire profondamente, a occhi chiusi visualizzai tre immagini: una era la nonna sorridente (occupava tutta una stanza), poi il nonno, cieco, povero! A differenza della nonna era piccolo, magrissimo, elegantissimo, raffinatissimo, era un Mago la mia guida. Poi vidi la mia aquila, che avevo poggiato sul davanzale della finestra, certo che non sarebbe volata via senza di me. Ci fosse un nesso tra la mia aquila e la mia guida? Non ero più solo ed ero felice, arrivò Morfeo e...

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Il primo giorno di una nuova vita

Mi svegliai di sobbalzo, e vidi in camera un nuovo ospite. Era il sole! Irradiava ogni cosa ed era già tiepido, erano le 6.30. Il risveglio improvviso non fu causato da lui, ma da un rumore o “musica” assordante come migliaia di orchestrali non avrebbero saputo suonare. La musica permeava l’ambiente, faceva vibrare i mobili, le tende, ogni cosa, anche il mio cuore. Ero emozionato e desideravo conoscerne la fonte. Solo un attimo dopo, mi arrivò alle narici anche il profumo: forte, inebriante, penetrante, persistente, eccitante ma anche contemporaneamente estasiante. Dovevo scoprire queste fonti divine. Dando precedenza alla “musica” e notando che gli altri dormivano profondamente, mi alzai in punta di piedi sul mio letto e guardai oltre... agguantai la mia aquila istintivamente con entrambi le mani... e... guardai oltre... che spettacoloooooooooooooooooooooo! Gli orchestrali erano “pappagalli”! No, no, non pappagalli come pensate voi, no! Il più piccolo era delle dimensioni di una gallina, altri ancora più grandi. Erano migliaia di migliaia, e popolavano tutti gli alberi secolari che circondavano la casa. Che spettacolo... meravigliosa natura. Cantavano al nuovo giorno, cantavano alla vita, cantavano per la vita! Bellissimo. Poi improvvisamente si ammutolirono e si alzarono quasi tutti in volo. Volavano in gruppo, probabilmente al seguito di un Capo che “faceva la rotta”. Erano enormi, erano tanti, anzi tantissimi, forse di più. Dopo questo spettacolo ne seguì uno ancora più grande, i colori. Un arcobaleno volava davanti ai miei occhi creando geometrie magiche. Sembrava di assistere a una dimostrazione aerea acrobatica. Impennate pazzesche, picchiate indescrivibili, volo radente e cerchi non di morte ma di vita. Terminato il carburante di bordo tornavano improvvisamente a popolare gli alberi e... chiacchiere a non finire. Probabilmente si scambiavano opinioni sul volo. Poi ripartivano e lo spettacolo proseguiva... in mancanza di una definizione migliore, direi che era fantastico. Si svegliarono anche gli altri, chiamai Roberto e lo invitai a guardare questo spettacolo mai visto prima, mentre per i nostri cugini era la norma, loro erano nati sentendo i pappagalli. Ci lavammo, ci vestimmo e seguimmo i nostri cugini in cucina per la colazione. La casa, di giorno, sembrava ancora più grande. Camminando, cercavo di memorizzare i percorsi e ci impiegai giorni per orizzontarmi con agio. Entrammo in cucina incontrando alcune zie, la mamma serena e nessun uomo adulto. La colazione era in realtà un pranzo nuziale a piacere, c’era di tutto, latte delle nostre mucche, caffè, biscotti, decine di marmellate diverse (fatte dalle zie), frittate, dominante la frutta. Mai avevo visto tanta frutta e tra essa frutti che non conoscevo. Nessuno che diceva devi mangiare questo o quello, ognuno seguiva i propri desideri. Anche questo fu nuovo per me. Pensai che avessero imbandito generosamente per il nostro arrivo. Mi sbagliavo, nella casa del nonno questa era la regola. Uscii dalla cucina con mamma e Roberto. Nei vari corridoi incrociavamo le zie che mi davano pizzicotti sulle guance e sorridenti dicevano “bel putin”, che non è una parolaccia ma significa bel bambino. Roberto era sereno, parlava poco, a me parlavano i suoi occhi.

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«Mamma dove sono gli zii? Dove sono i nonni? E tutte le zie?» solo dopo mi accorsi di non aver chiesto di mio padre. La mamma mi spiegò che gli zii si alzavano alle cinque e dopo aver fatto colazione, una ricca colazione, ognuno di loro aveva compiti e mansioni dentro e fuori dalla fattoria. Alcuni sarebbero ritornati per il pranzo, altri nel tardo pomeriggio. Le zie si alzavano prima degli zii per preparare la colazione, abiti da indossare per la giornata e il pranzo da portare per quelli che non tornavano. Dopo le colazioni, molte di loro si occupavano, nonostante la servitù, delle faccende domestiche e altre collaboravano esternamente a seconda della necessità. Altre ancora trasformavano cibi e alimenti per le stagioni a venire, quindi tutte avevano un gran da fare. E poi c’erano i bambini, cioè noi, da curare, una ciurma variegata e spumeggiante... La nonna, si alzava più tardi, le portavano la colazione in camera, e tra alzarsi, lavarla, vestirla, pettinarla... passavano ore. Scendeva poi lentamente dalle scale come una regina sorretta o accompagnata da una meravigliosa mulatta giovanissima, sempre sorridente. Sorridevano tutti, sempre, ogni cosa cominciava con un sorriso. Che bella era la vita! Credo di aver visto più sorrisi in un giorno che nei precedenti cinque anni della mia vita. «Mamma e il nonno?» Avevamo nel frattempo guadagnato il patio centrale della casa, era una piazza, al centro una grande fontana e tutt’attorno fiori, erano quelli a profumare l’aria. «Eccolo» esclamò la mamma! Ella lo baciò sulla guancia e lui le accarezzò i capelli, dicendo a bassa voce, «Cara Bice». Avevamo lasciato Roberto con alcuni cugini più grandi, avevano già da fare. Non era un nonno colui che avevo davanti, era una visione. Nella piena luce del giorno lui brillava! Era piccolo, rispetto alla nonna e ai suoi figli. Anche il nonno, mi spiegarono, si alzava prestissimo, ma i suoi riti del mattino richiedevano tempo. Innanzi tutto un bagno caldo, poi massaggi corporali, rigorosissimamente si tagliava barba e capelli tutti i giorni, e poi il rito della vestizione. Veniva aiutato da un’altra giovane mulatta, sempre sorridente e ancor più carina della precedente. Il tutto richiedeva circa due ore, colazione compresa, che consumava nel suo studio privato. Quando usciva, sembrava fosse uscito da una sartoria dopo essere stato in un salone di bellezza. Era perfetto. Usava spille come fermacravatta e fazzolettino di seta bianco, sempre. Ho creduto per mesi che si mettesse scarpe nuove ogni giorno; non era così, ma era come se lo fossero. Avanzava con incedere regale, senza esitazione alcuna, aiutandosi con un elegantissimo bastone intarsiato con pomolo d’argento. Mitico nonno! Guardò il cielo, annusò l’aria, guardò in giro, con le orecchie, era cieco, quando improvvisamente mi fissò e disse: «Vieni mia piccola aquila». Corsi da lui, lo abbracciai, piansi e... non capivo. Poi mi disse: «È ora che noi due parliamo un po’ e poi lavoreremo», «Certo nonno». «Per prima cosa devi conoscere le nostre proprietà, le case, le stalle, le cantine e tutto il resto. Secondo, devi sapere cosa facciamo e come lo facciamo e chi ne è responsabile. Terzo, ti parlerò del futuro, del nostro futuro, dei Ferrari e di te. Quarto, ti parlerò della vita, non della mia, ma della tua vita. Quinto, ti insegnerò a guardare dentro ma soprattutto OLTRE!

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E l’aquila che è in te sarà libera di volare». Bruciavo, anzi ardevo dal desiderio... dissi ad alta voce un determinato, «Sì, nonno. Grazie nonno, eternamente grazie». Per un attimo pensai che tra le tante persone disponibili perché a illustrami il tutto proprio il nonno CIECO? Poi mi tirai un cazzotto in testa da solo, e capii che quello che lui voleva era iniziare subito la prima lezione, dimostrarmi il significato di guardare oltre. Aveva ascoltato i miei pensieri, aveva capito tutto e sorrideva, mitico nonno. Iniziammo dalla casa e poi, giorno dopo giorno, il resto. Impiegammo due settimane per dare un’occhiata alle cose più importanti. Di sera, nella nostra camera da letto, raccontavo tutto a Roberto. Lui pazientemente mi ascoltava, annuiva, era in uno stato di serena beatitudine come non l’avevo visto prima, lo abbracciavo, dopo aver augurato la buona notte a tutti, parlavo un po’ con la mia aquila e poi dormivo, ben felice del nuovo giorno che sarebbe arrivato, carico di nuove esperienze e conoscenze. Scoprii che mi avevano “appioppato” due nomignoli, uno era conosciuto... “il bambino che parla agli uccelli”, e mi stava bene, era vero! Il secondo, “cocco di nonno”! Dicevano che per trovare me, bastava chiedere dove fosse il nonno, oppure, chiedere dove fossi io per trovare lui. Loro non sapevano che io stavo frequentando un Corso. Nessuno sapeva. A meravigliarmi, oltre il suo sapere, era la sorprendente capacità descrittiva dei particolari di ogni ambiente, colori, forme, contenuti, disposizione delle cose, come faceva? Non avrebbe potuto esserne all’altezza un vedente, come faceva? UN CIECO... arrivai alla conclusione che possedesse una memoria infinita, oppure, che sapesse guardare oltre. Dio, com’è possibile? Voglio imparare anch’io! Guardare i pappagalli in volo e sapere quando avrebbero virato verso il sole. Dio, com’è possibile? Mi vien da piangere dalla gioia! Dio come sono felice. Mi parlò di tante cose e di ognuna mi diede spiegazioni semplici, un metodo per l’apprendimento veloce. Tutto sembrava collegato da un filo d’oro. Tutto era una conseguenza naturale e logica. Tutto era SEMPLICE! Perché le persone si complicano la vita quando complicata non è? Ero a volte confuso, da una vecchia vita a un nuovo Mondo, il mondo della mia guida.

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Un pomeriggio diverso Ogni istante era diverso dal mio “vecchio mondo”, ma quel pomeriggio rimase indelebile più di altri. Prima di andare a pranzo, nonno mi disse che ci saremmo visti alle 16,00 alle stalle. Avevo imparato come arrivarci e giunsi in anticipo, rispetto all’appuntamento. Pochi attimi prima delle 16,00, impeccabile come sempre, lui attraversava il patio, poi notai che consultava un orologio estratto dal suo gilet. Come guardava l’ora un cieco? Arrivò puntualissimo e chiese allo stalliere di preparargli il calesse. Lo stalliere aprì la porta di un recinto e una maestosa cavalla si mostrò in tutta la sua bellezza. Mosso solo qualche passo nel corridoio della stalla, il nonno la chiamò. «Vieni Susanna», e lei andò da lui, mite, quasi riverente. Il nonno le accarezzò il muso e lei ne fu felice, si capiva, e come se si capiva. Un calesse bellissimo fu imbragato a Susanna. Il calesse era nero con ricami in oro e Susanna era rossa con una criniera bionda. Il nonno in completo panna e un grande cappello panama, io in maglietta e pantaloncini. Non ho mai capito perché il nonno portasse sempre un paio di piccoli occhiali d’oro, forse per non far capire che era cieco! Mi disse che doveva andare a vedere un lavoro in corso. Chiesi al nonno se dovevo guidare il calesse (che non avevo mai guidato) ma lui flemmaticamente rispose: «No caro Aldo, Susanna sa guidarsi da sola». Non capivo, ma lui disse dove dovevamo andare e lei si mosse. Attraversammo il paese, ci dirigemmo alla periferia e, dopo un percorso non semplice, ci trovammo in una prateria dove uno zio, lo zio Mario, ci venne incontro salutandoci con gioia infinita, aiutò il nonno a scendere e dialogarono un po’. Molte altre persone erano febbrilmente al lavoro, erano quasi tutti del posto, stavano costruendo un villaggio di 24 ville. Scoprii una delle tante attività dei Ferrari, anche costruttori. Lo zio Mario ci accompagnò a un tavolo situato sotto un grande albero e ci offrì una bevanda dissetante. Mentre io mi guardavo attorno, sentivo lo zio informare il nonno di certe cose e chiedergli consigli. Il nonno ascoltò, rifletté e gli rispose sul da farsi. Lo zio ringraziò. Eravamo ai bordi di un oceano di prateria verde, le chiamavano “fazende”. Il nonno, appoggiando il suo braccio sulle mie spalle, mi indicò un gruppo di cavalli selvaggi e mi disse che là passava un fiume e che la nostra proprietà andava oltre. Poi mi chiese se vedevo una grande casa sullo sfondo, io guardai, la casa mi sembrava piccolissima e lui, ascoltando i miei pensieri, continuò: «Caro Aldo forse la vedi piccola solo perché è molto lontana, le nostre terre vanno molto oltre. Su queste terre abbiamo deciso di costruire un piccolo paese. Così fu fatto nel corso di molti anni, con un concetto di base, un ettaro di case, venti di verde. Oggi conosciuto come il “Il Verde Villaggio Ferrari”». Il nonno chiamò Susanna, salimmo sul calesse e ritornammo a casa per cena. Come poteva un cavallo, anzi una cavalla, camminare per chilometri, attraversare strade, paesi, girare e rigirare senza esitazioni né errori e tornare a casa? Non capivo... Tornato a casa lo raccontai a tutti e tutti sorrisero. Alle mie domande ebbi risposte più strane, tipo: “lei non può sbagliare altrimenti lui la sgriderebbe”, oppure, “il nonno dice a lei quando e dove girare”, ancora, “lei è nata qui, basta che il nonno le chieda dove vuol essere portato e lei ubbidisce accontentandolo”, “tutti vogliamo bene al nonno”. Capite che risposte mi davano? Rinunciai a porne altre.

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Cenammo, subito dopo andai nella nostra camera da letto, parlai un po’ con la mia aquila e sognai verdi e sterminate praterie e cavalli, tanti cavalli selvaggi. Sapevo che per un sogno che stava tramontando uno nuovo sarebbe sorto di lì a poco. Da quel giorno in poi, spesso “andavo al lavoro” con il nonno. O di mattina all’alba, oppure nel tardo pomeriggio. Roberto era affiatatissimo con alcuni altri cugini un po’ più grandi di lui, avevano sempre un gran da fare, qualche volta chiesi se potevo partecipare anch’io, ma mi risposero che erano cose da grandi. Pazienza, pensai, e poi io avevo il mio Corso, che non era per grandi ma per pochi! Anche la mamma aveva un gran da fare con le zie e quando poteva stava giustamente con “Big Mami”, la nonna. Ma mio padre che fine aveva fatto? Cosa faceva durante il giorno? Se è vero che io raramente chiedevo di lui, lui mai ha chiesto di me. Chiesi di lui e mi diedero delle vaghe risposte. Scoprii che i sigari con liquorino del dopo cena, altro non erano che riunioni atte a prendere decisioni per il giorno dopo o per i giorni a venire. Oggi le chiamano “Master Mind” oppure, “meeting”, il cui capo indiscusso era il Nonno. La saggezza, la forza, l’illuminazione, l’uomo che... sapeva guardare oltre! Era trascorso circa un mese dal nostro arrivo in quel paradiso terrestre, e cominciavo a percepire qualcosa di strano nell’aria. Chiesi in giro, non ebbi nessuna risposta, ma sentivo che qualcosa stava per accadere. Cosa, mi domandai? Chiesi anche alla mia aquila, niente. Quando, pochi giorni dopo, camminando per i corridoi della zona notte, sentii una zia piangere e dire a mia madre: «Enrico è proprio un uomo cattivo!». Enrico era mio padre. Come e cosa poteva essere accaduto per creare dolore in quella famiglia paradisiaca? Indeciso tra il continuare ad ascoltare (cosa da non farsi, mi aveva insegnato mia madre) e fuggire, fuggii fuori dalla casa. Andai nel bosco di fronte a casa dove vivevano i pappagalli e mi sedetti ai piedi di un albero gigantesco. Purtroppo percepii che l’uomo “che non andava d’accordo con nessuno”, aveva colpito ancora. Come poteva essere accaduto? Ancora una volta? Con i suoi parenti? Non capivo e piansi. Tornai prima di cena, vedendo il nonno che rientrava con il calesse, corsi da lui, lo guardai, lo strinsi, avrei voluto gridare, chiedere spiegazioni, sapere, capire... lui mi carezzò dolcemente il capo, e prima che riuscissi a pronunciar parola, mi rispose« Non ti preoccupare caro Aldo, chi ti ama ti starà sempre vicino e io ti AMO, sarò sempre al tuo fianco, sempre, per tanto tempo ancora». Roberto ne sapeva di più, ma impossibile sapere qualcosa da lui e così pure dalla mamma. Parlavano per dire cose belle e positive, le altre le ingoiavano, così facendo si facevano del male due volte. Nei giorni successivi venni a sapere che mio padre aveva litigato con alcuni zii e mancato di rispetto al nonno. Impossibile! Poi, pensandoci un attimo, dovetti ricredermi a ammettere che era possibile. Il suo carattere, collerico e violento, mescolato a una presunzione ingiustificata, una serie infinita di fallimenti, nel lavoro, nella famiglia, nei rapporti sociali, con i parenti, ecc... avevano fatto di lui un essere insopportabile, per tutta la vita, purtroppo. Dalle stalle alle stelle, non aveva resistito neppure un mese. Mi ero posto il quesito prima della nostra partenza. Se non andava d’accordo con loro in Italia, come avrebbe potuto in Brasile? Evitai il problema per giorni, notando un disagio crescente nella mamma e anche in Roberto. Nessuno ne parlava o nessuno ne parlava con me.

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Il mio corso superintensivo continuava, lezione dopo lezione, giorno dopo giorno. La mia guida splendida era lì, sempre pronta, “una luce senza fine”. Da quella luce attingevo motivo di vita. Il nonno una sera m’informò che il giorno successivo dovevamo andare a lavorare lontano da casa. Cenai e andai subito a letto. Chiesi alla mia aquila se poteva dirmi dove saremmo andati il giorno successivo, ma anche lei come gli altri, zitta! Alle sette, il calesse oltrepassò il cancello della proprietà. Susanna camminava dolcemente, quasi non volesse fare udire il rumore dei suoi zoccoli. Arrivammo dallo zio Mario, al Ferrari Green Village, molta gente lavorava, le case crescevano, sembrava di essere all’interno di un gigantesco formicaio, vice direttore lo zio Mario, Direttore Generale il Nonno, la mia guida. Io scesi dal calesse e andai a bere un succo di frutta, lo zio salì al posto mio e il calesse andò a fermarsi sotto l’albero gigantesco. Vedendo che parlavano, pensai bene di bermi un altro succo di frutta. Tutti mi salutavano con grandi sorrisi, ma io non li conoscevo, salutai tutti anch’io. Qualcuno mi disse: «Holà cico», e io risposi «Fantastico», lui sorrise e io anche. Lo zio mi fece cenno di tornare, mi abbracciò, baciò e con le sue manone mi fece volare sul calesse, augurandomi una buona giornata. Il nonno pronunciò un nome che non conoscevo “Gutierrez”. Susanna, guardò il nonno, il quale vedendo i suoi occhi interrogativi sorrise e le rispose, «Sì, andiamo da Gutierrez». Lei si mise in cammino verso la nuova destinazione. Mi grattai in testa, guardai Susanna, guardai il nonno, loro guardarono me, e scoppiammo tutti a ridere. Come ride una cavalla intelligente? Facile, trovatela e capirete da soli. Incominciavo a capire, merito della mia guida. Dopo mezz’ora circa, iniziai a intravedere una piccola casa in lontananza. «Fantastico», gridai», «nonno quella è la casa del Signor Gutierrez», indicandogli la direzione. «Sì, Aldo», poi gli chiesi, «Andiamo da lui?» «Anche», fu la sua risposta affermativa. Un po’ per l’emozione, un po’ per il caldo iniziai a sudare; dopo essermi asciugato la fronte con il fazzoletto, il nonno mi disse: «Hai caldo vero?» «Sì nonno», lui continuò dicendomi: «Hai bevuto troppo succo di frutta!». Secondo voi avrei dovuto stupirmi? No, non più! E le lezioni continuavano indipendentemente dall’ora e dal luogo. Tutti noi vediamo solo davanti a noi, lui, cieco, vedeva oltre. Grande nonno, mitico, eterno sentimento del mio cuore. Susanna camminava silenziosa da tempo, dopo la risata si era ricomposta. Io riflettevo, incominciai a pensare: per quale motivo andavamo dal Signor Gutierrez? E poi, se io sudavo, come faceva il nonno a tollerare la calura, con camicia, giacca e cravatta? Quel giorno portava dei gemelli d’oro, bellissimi, semplici ma con una “F” incisa, forse era la F di Ferrari o di Fantastico! Guardai il nonno, anche lui mi guardò e sorrise. Susanna nitrì, non l’avevo mai sentita, ma aveva una bella voce, un nitrito da signora. Alzai gli occhi e vidi uno sterminato branco di cavalli selvaggi, ecco perché Susanna aveva nitrito, forse era il suo modo per salutare. Arrivammo alla casa di Gutierrez, sembrava che ci stesse aspettando. Salutò con un inchino riverente il nonno e rivolse lo stesso inchino in saluto anche a me. Sapeva il mio nome, sapeva chi ero, sapeva da dove venivo, sapeva tutto. Aiutò il nonno a scendere, porgendogli il braccio. Uscì dalla capanna di legno una bellissima signora, la sua bellezza era sconvolgente, pronunciò parole che non capivo, ma

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dagli inchini compresi che erano parole di benvenuto. Se lei era folgorante, subito dopo, dietro di lei, tre bambini, uno più bello dell’altro. Il nonno disse a Gutierrez di prendere una scatola collocata sul retro del calesse ed egli si precipitò a prenderla. Questa venne prima posata su di un tavolo situato all’esterno della casa, all’ombra di un albero, non alto come quelli davanti a casa nostra, ma molto largo, e poi aperta. Dalla scatola uscì di tutto, regali per tutta la famiglia, anche dei giocattoli per i bimbi. Furono tutti felici e io con loro. Mentre il nonno parlava con il signor Gutierrez e i bimbi erano intenti a scartare i loro nuovi giocattoli, io giravo intorno alla casa e osservavo a tutto tondo quello spettacolo maestoso che la natura generosamente mi offriva. Erano verdi e sterminate praterie, branchi di cavalli selvaggi che galoppavano felici, un ruscello che scorreva sinuoso a pochi passi dalla casa, l’acqua limpida e trasparente emetteva una melodia rilassante. Tutto intorno fiori di mille colori. Il luogo ideale per vivere e “sognare”. Venne presto l’ora del pranzo, lo capii vedendo la signora apparecchiare la tavola sotto l’immenso albero. Ci chiamarono e, dopo pochi attimi, mangiavamo cibi squisiti e preparati diversamente da casa nostra. Avevano altri profumi, i profumi della prateria. Il pranzo non durò moltissimo. Il nonno dialogava con loro in quella lingua che ancora non conoscevo. Terminato il pranzo e la conversazione di lavoro, il nonno mi invitò per una passeggiata. Non aspettavo altro, pensando alla lezione quotidiana. Ci dirigemmo verso il fiume, più a valle. Vicino a una grande ansa, il solito grande albero con tavolo e sedie, eravamo diretti là. Accadde ciò che non avevo mai visto prima, raggiunto il luogo, il nonno si tolse la giacca. Mi invitò a sedere vicino a lui, passò il suo braccio intorno alle mie spalle e mi strinse. Mi fece domande di tutti i tipi, su come vivevo questa nuova esperienza, come stavo con i cuginetti, zii, zie, con la nonna, con i suoi dipendenti, sul cibo, ecc.. la mia risposta non poteva che essere positiva o molto positiva, stavo vivendo... un sogno. Lui mi disse che era entusiasta di me! Che si sarebbe occupato personalmente della mia crescita e che presto avrei imparato a parlare con gli “uccelli”, a Vedere Oltre, ma non solo questo, mi avrebbe trasmesso molto di più perché mi aspettava un “cammino diverso”. Nonno perché io? ...seguì un lungo silenzio infinito, poi disse: «Caro Aldo, tu sei predisposto per continuare un lavoro... “un Sogno” che un giorno comprenderai meglio» non capivo, ma avevo fiducia e attesi... Mi spiegò perché certe cose si attirano per poi respingersi, mi spiegò perché certe cose si uniscono per poi dividersi, mi spiegò perché alcune unioni servono a ricreare per poi morire, mi spiegò perché mio padre avesse lasciato casa nostra. «Quando questo accadrà», chiesi io «Sta accadendo ora!». La gita fuori casa non era occasionale, tutto faceva parte di un disegno di cui io non conoscevo i contorni, ma per rendermi meno sofferente agli accadimenti e meno coinvolto, fu deciso di fare una gita, sì, meglio così. Rivolsi lo sguardo al cielo, mi guardai intorno, osservai l’osservabile, inspirai aria pulita a pieni polmoni, guardai “madre terra” che stava ai miei piedi, guardai il nonno e poi ancora il puledro nero corvino, capo del branco dei cavalli selvaggi. NO, NON CAPIVO! Soffrivo e piangevo a dirotto, non capivo il perché. «Nonno cosa devo fare?» «Stai vicino a tua madre e amala, come non mai». «Nonno io la amo più di ogni cosa al mondo, come posso di più?» «Tu puoi, figlio mio».

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Non pensai a mio padre ma pensai a mia madre e a mio fratello. Rimanemmo entrambi silenziosi per un tempo infinito, poi ci alzammo, ci prendemmo per mano e ritornammo lentamente verso il calesse. Gutierrez, sorridente come non mai, ci venne incontro offrendoci bevande calde alla menta, accettammo e ripartimmo. Susanna camminava lenta e con la testa bassa. Lei aveva capito che era successo qualcosa, non parlava, non rideva, camminava trascinando le nostre angosce verso casa. Non poteva fare di più! Arrivammo a casa, insolitamente tardi. Scesi dal calesse, andammo direttamente nel salone per la cena, c’erano tutti e tutti silenziosamente tristi. Tutti sapevano tutto! Ora lo sapevo anch’io! Cenammo, mai cena fu così frugale, nessuno disse nemmeno una parola, nemmeno chi serviva a tavola pose domande, tutti esternavano il loro dolore silenziosamente, cosa che provocava un’eco maggiore. Ci ritirammo, credo tutti, nelle nostre camere, io passai l’intera notte a guardare nel vuoto. Guardavo in realtà nella mia vita passata e subito dopo nella mia vita futura. Cosa sarebbe stato di me? Come sarebbe cambiata la nostra e la mia vita? Sarei cresciuto senza padre? E mia madre? Mio fratello? Avremmo sempre vissuto nel castello dei Sogni del nonno? NO, non capivo e soffrii ancor più del solito! Passarono giorni silenziosi e tristi, il tutto non faceva più rumore, era come se tutti fossimo stati anestetizzati... strano, ma fu così! La mamma era improvvisamente invecchiata. Mi domandai, perché? La risposta fu... il dolore! Passarono settimane, poi mesi, stagioni, la vita continuava... ma una ferita era sempre presente. Doveva essere teoricamente una liberazione, ma non fu così, tutti volevano l’unità, nessuno le separazioni. Le mie lezioni quotidiane con il nonno continuarono, progredivo, diceva lui. Ma quando alla sera mi ritiravo nella nostra camera, interpellavo la mia aquila per sapere dove fosse finito mio padre, e non ottenevo risposta. Mio fratello Roberto sembrava indifferente, anzi, quasi felice.

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E la nonna Nerina volò in cielo Quella mattina, io e la mia guida eravamo nelle stalle, la lezione riguardava i cavalli e altri animali. Temi: nutrizione, cure, attenzioni, la loro pulizia, il parto e molte altre cose. La lezione era affascinante, come tutte le lezioni di nonno Giovanni. Uno stalliere stava pulendo Susanna, poi sarebbe stato il turno di Drago, un cavallo nero corvino, ancora semi-selvaggio, un regalo di Gutierrez al nonno. Stava addomesticandolo lo zio Mario il quale se ne era innamorato quando accadde qualcosa. Una delle tante ragazze che lavorava presso di noi come badante della nonna, corse verso di noi, tenendosi il grembiule sulla bocca, aveva gli occhi lucidi. Arrivata vicino al nonno, il quale tramite le “sue antenne” aveva già capito che lo cercavano, rallentò e con una strana voce lo invitò a entrare in casa perché la nonna non si sentiva bene. Il nonno si aggiustò il nodo della cravatta anche se era impeccabile come sempre, mi chiese di accompagnarlo tendendomi la mano. Avvicinandoci alla casa, il nonno disse: «Perché sono tutti agitati questa mattina?» In effetti anch’io notavo un insolito andirivieni “agitato”, perché? Sembrava che il “vento” avesse diffuso una notizia e tutti stavano rientrando a casa. Giunti all’interno, il nonno si diresse verso la sua camera; nella immediata vicinanza rallentò il suo passo, vedevo fuori dalla porta zii, zie, collaboratori, operai del nonno, tutti piangevano. Ero l’unico bambino presente. Ero indeciso se fermarmi o meno, il nonno sentì questo mio dubbio e mi rispose con una stretta di mano e mi disse: «Caro Aldo, accompagnami a salutare la nonna...» (lui già sapeva), entrammo e, vedendola sdraiata sopra il letto, vestita di nero e con un rosario in mano, ci rendemmo conto che era già trapassata. Nonno fece un cenno con la mano e tutti uscirono. Rimanemmo soli noi tre, io, lui e la nonna. La accarezzammo, la baciammo e recitammo ad alta voce “il padre nostro”. Nonno mi strinse la mano, forte forte, poi disse: «Aldo non devi piangere, lei ha finito di soffrire nella sua vita terrena e ora è felice nel regno dei cieli». Poi si rivolse a lei e le disse: «Cara, vado un attimo con Aldo a terminare un compito e torno da te». L’emozione era infinita, non avevo mai visto morire nessuno prima. Guardando la nonna mentre uscivo, per un attimo, ho avuto la sensazione di percepire un suo sorriso di consenso... era ancora lì?... aspettava il nonno?... non capivo. Uscimmo, mano nella mano, notai una moltitudine di persone mai viste prima; raggiunto il patio, il nonno espresse il desiderio di uscire dalla proprietà e di recarsi verso la foresta che stava davanti a casa, nel regno dei pappagalli. Ai piedi di questi alberi secolari, il nonno aveva fatto realizzare dei grandi tavoli in legno con panche, per giocare, mangiare all’aperto, per studiare o per conversare piacevolmente. Ci sedemmo e lui mi parlò della vita e dei suoi misteri, di come parlare al “vento” e al “sole”, di come trasmettere “energia” all’acqua e alle altre sostanze, del giorno e della notte, del bianco, del nero, il perché tutto fosse complementare e utile a coloro che avrebbero saputo guardare oltre. Capii che tutte le contrapposizioni sono segnali utili da usare per progredire. Mi consigliò di ascoltare molto e di parlare poco.

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Di amare tutti. Di aiutare il prossimo. Di vivere con degli obiettivi. Elencò tutti i principi morali possibili. Mi parlò di “alchimia” e dei suoi poteri. Mi svelò cose che avrebbero cambiato il corso della mia vita. «Nonno perché insegni tutte queste cose solo a me?» Lui rispose: «Tu hai un compito e una missione da svolgere, un giorno troverai da solo la risposta e quello sarà un gran giorno, sarà un giorno fantastico e io ti sarò sempre vicino». L’abbracciai amorevolmente grato, eternamente grato. Poi di scatto si alzò e mi disse: «Bene ora che tu sai cosa devi fare, torniamo a casa, ho un altro compito da risolvere». Rientrammo ed era quasi ora di pranzo. Le domestiche avevano già preparato e lui volle che quel giorno tornassi a pranzare nel salone riservato agli uomini adulti. C’erano tutti, e tutti erano in piedi. A uno a uno, abbracciò tutti, poi mi disse: «Aldo, tieni il mio posto a tavola “in caldo”» indicandomi che avrei dovuto sedermi momentaneamente al suo posto. Ubbidii. Poi disse che sentiva la necessità di cambiarsi la camicia e che gli venissero concessi pochi attimi. Uscì e si diresse in camera. Gli zii parlavano su come e quando organizzare i funerali, chi si sarebbe occupato dei fiori e altre necessità. Chi avrebbe dovuto servire a tavola si affacciò ripetutamente nel salone e gli veniva risposto che “ovviamente”, come d’abitudine, si aspettava il nonno. Passò del tempo, molto tempo e qualcuno iniziò a preoccuparsi. Poi furono indecisi se andarlo a disturbare o aspettare. Decisero che fosse più rispettoso aspettare. Dopo un’ora, gli indugi furono rotti pensando a un malore. Andarono a chiamarlo lo zio Mario e lo zio Aimo, uno dei due tornò in disperate lacrime. Cos’era successo al nonno Giovanni? Vidi tutti uscire e mi accodai, passando davanti al salone delle zie le quali stavano già mangiando. Si fermarono tutte e ci seguirono pure loro, tranne i bambini e i ragazzi piccoli. Entrando in camera da letto vedemmo il nonno completamente vestito di nuovo, sdraiato accanto alla nonna, la quale non aveva più le braccia conserte, come al mattino ma, si tenevano mano nella mano. Sul comodino un foglio e poche parole: “SCUSATE NON POSSO LASCIARLA SOLA... ci siamo tanto amati e ho deciso di continuare la nostra vita insieme”. E vivono eternamente insieme, anche nel mondo dei cieli. Quella mattina il nonno si era allontanato, momentaneamente da lei, per impartirmi l’ultima lezione terrena e quell’atto rappresentò per me il sigillo finale. Mitico nonno, unico nonno, vivrò con i tuoi insegnamenti nel cuore per sempre. Eseguirono i funerali il pomeriggio successivo. Partecipò l’intera città, autorità e gente che veniva dalle favelas, tanta gente, era molto amato e si vedeva... A stenti la vita riprese. Da quel giorno, lo zio Nedo avrebbe amministrato la “Famiglia Ferrari” e tutti i suoi affari che erano in una esplosiva espansione. Lo zio Nedo non era il più anziano dei fratelli ma, da piccolo, a seguito di una caduta da un trattore che lo aveva travolto, era rimasto semiparalizzato. Fu questo dramma che lo portò a dedicarsi quasi unicamente allo studio. Si laureò in Economia e Commercio a pieni voti in giovanissima età e divenne il consigliere personale del nonno.

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Mi comunicarono che da quel giorno in poi avrei occupato il posto del nonno a tavola, ricordandomi che le sue ultime parole furono proprio: «Aldo, tieni il mio posto a tavola in “caldo”». Occupare il posto del mio maestro e guida, era il più grande “onore” che avessi potuto ricevere. Ho sentito spesso che quando una persona cara viene a mancare, lascia un vuoto. Nonno aveva lasciato una voragine incolmabile. Seguirono molte riunioni serali, molti dialoghi tra fratelli e parenti, furono prese molte decisioni, tutti collaboravano. La vita continuò, consapevoli che lo spirito amorevole dei nonni era sempre in noi e intorno a noi tutti. A volte la sua presenza energetica e spirituale era “ancora più forte”.

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Il rapimento Giocavo tranqiullamente con i miei cugini nel cortile dell’immensa casa. Salivamo, per poi rotolarci, su una montagna di sabbia posta vicino a un lato del muro di cinta della proprietà. La sabbia serviva per costruire nuove stalle e restaurare alcune zone dell’immensa casa. Era un pomeriggio dei primi giorni di febbraio, piena estate, faceva caldo, molto caldo. Salendo e scendendo da quella montagna di sabbia, faceva ancora più caldo. Mi trovavo in cima, quando sentii che qualcuno mi chiamava: «Aldo, Aldo mio». Guardando al di là del muro vidi mio padre, in sella al suo destriero, il motorino Motom. Rimasi sorpreso, sconcertato, emozionato (era sempre mio padre), brandiva tra le mani un gigantesco gelato. Fu la mia rovina. Mi disse: «Vieni, mangiamo un gelato insieme?» Fui attratto dal gelato, scesi, lo raggiunsi, mangiai il gelato in un minuto e lui mi propose di andare a mangiarne un altro. Accettai, salii sul retro del motorino e partimmo per una destinazione rimasta per me sconosciuta a tutt’oggi. Molto lontano da quella che era casa nostra. Iniziai a gridare, picchiare i miei piccoli pugni sulla sua schiena, inutilmente. Pensai a buttarmi, ma la velocità di guida era sostenuta. Sperai in uno stop o semaforo, ma il percorso da lui scelto non prevedeva soste e se soste c’erano le evitava tirando diritto. Percorremmo molti chilometri, impossibile riconoscere in quale direzione. Arrivati davanti a una villetta isolata, si intrufolò in un cancello aperto che si affrettò a chiudere a chiave appena oltrepassato. Era la mia “prigione”. Cosa dissi, cosa cercai di fare, lascio a voi immaginare. Il muro di cinta, alto e non facilmente scavalcabile, il cancello, rigorosamente chiuso a chiave. Cosa fare? Non sapevo. Mi portò in casa, mi offrì ogni cosa, mi parlò di milioni di storie che non volevo ascoltare. Pensavo a Roberto, alla mamma, al nonno, a tutti gli zii, immaginando che a momenti venissero a liberarmi, ma non accadde nulla di tutto ciò. Rimasi prigioniero in una casa di cui non conoscevo l’ubicazione. Venne la notte e sfinito mi addormentai su un lettino in una stanzetta angusta. Fu la prima di tante notti di sofferenza. Mi svegliai più tardi del solito, non sentivo i pappagalli, dove erano andati? Guardai sulla finestra, la mia aquila non c’era. Dov’ero? La finestra aveva delle grate di ferro, oltre le quali il muro di cinta, grigio. La stanza era vuota, solo il lettino e niente più. Mi scappava la pipì, uscii timidamente e vidi la porta di un bagno aperta... c’era solo un lavandino, ma la feci lo stesso... Mentre facevo pipì, sentii un rumore, e “lui” che mi chiamava per fare colazione insieme. Finito di lavarmi il viso, rimasi indeciso se uscire oppure rimanere... alla fine uscii. Lui era lì, recitava la parte del padre felice e sembrava che la situazione nella quale ci trovavamo fosse la più naturale del mondo. Come se tutto fosse sempre stato così! Pazzesco... incredibile, ma che fare? Mi accompagnò in cucina, la tavola era imbandita per venti persone, lui disse: «Aldo questo è tutto per te». Guardai la tavola, poi guardai oltre e uscii immediatamente. Era un sabato mattina, uscii in cortile, vidi il suo motorino, un piccolo sgabuzzino chiuso da una catena e un’altra porta. L’aprii e vidi un “cesso” alla turca. Così sapevo chiamarsi quel tipo di bagno.

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Finita la rapida ispezione di quell’angusto e ristretto spazio, altro non potevo fare. Rimasi all’aperto a riflettere sul da farsi. Ma cosa avrei potuto fare? Vidi che lui di tanto in tanto scostava le tendine di una finestra per osservarmi, ma nulla più. Il tempo sembrava non trascorrere o forse questa era l’impressione che io avvertivo. Giravo con le mani in tasca per il piccolo cortile, in cerca di un’idea, di una soluzione, di una possibilità, di una via d’uscita. Venne l’ora di pranzo, mi chiamò, l’ultima cosa a cui pensavo era il cibo. Il pomeriggio trascorse nel sentire storie che non volevo ascoltare e tanto meno capire, tutto era rivolto a critiche e condanne verso tutti. Lui parlava, io non ascoltavo e si fece sera. Preparò la cena, mangiai poco e andai in camera rinchiudendomi a chiave. Non l’avevo mai fatto in vita mia, non c’era nessuna necessità, ma ora, solo al pensiero che lui avrebbe potuto continuare con i suoi racconti raccapriccianti, chiusi a chiave. Pensando a come ritrovare una libertà perduta, l’unica cosa a cui potevo dare libertà erano i miei pensieri. Il buio, sopraggiunto alla stanchezza di una tensione infinita, mi aveva indotto a dormire. Pensavo che dormendo non avrei sofferto. Non fu così, mi risvegliavo ripetutamente, i sogni erano terribili, desideravo urlare, gridare, piangere e tentai di riaddormentarmi. Ridivenne giorno, fu tutto come il giorno prima, insulti, condanne, colpe che il mondo aveva commesso contro di lui. E ancora un nuovo giorno. Era appena sorto il sole quando suonarono alla porta, chi poteva essere? Forse la mamma, sperai... o gli zii, oppure il nonno. No! Nessuna delle mie ipotesi. Vidi entrare un gigantesco uomo di colore, cioè nero, molto nero. L’unica cosa bianca che aveva erano i denti, bianchissimi, e gli occhi. Mio padre andò ad aprirgli ma subito richiuse a chiave. Confabularono una buona mezz’ora e avvertivo in lui disapprovazione per quello che mio padre gli diceva. Venni a sapere nei giorni successivi che quell’uomo non approvava ciò che stava succedendo. Una frase fra le tante, rivolte a mio padre fu, “il bambino deve stare con sua madre”... io approvai. Ma ne seguirono molte altre, tutte di disapprovazione e quel tipo mi divenne subito molto simpatico. Mi si spalancava un’opportunità. Passarono giornate buie. Pur cercando di girare in largo, lo spazio era così limitato che ogni minuto mi ritrovavo sotto le finestre di casa. Di tanto in tanto arrivavano dei piccoli camion frigo, scaricavano, caricavano, ma cosa facevano mio padre e Ramon? In una stanza della casa, in cui non ero mai entrato fino ad allora, tagliavano dei pezzi di carne, li mescolavano con altri, tritavano, impastavano, condivano e poi rimpastavano. Sul tavolo, con piano di marmo, si accatastavano montagne di carne tritata o spezzettata, poi, mentre mio padre continuava nelle sue mansioni di preparazione delle carni, Ramon si portava a un altro tavolo e insaccava queste carni, mediante una macchina che finiva a imbuto, in un budello. Facevano salami, salsicce, cotechini e salamelle, tipicamente mantovane. Venni a sapere che ai brasiliani, ma soprattutto agli italiani lì residenti, questi prodotti piacevano moltissimo. Producevano e vendevano in continuazione. Finalmente aveva trovato la sua giusta attività! Ramon era di poche parole, eseguiva gli ordini e lavorava duro. Iniziavano alle sette del mattino fino a mezzogiorno, pausa un’ora, per poi proseguire fino alle otto di sera, minimo. Ramon non veniva la domenica.

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Piano piano, stanco di passare in solitudine le mie giornate a camminare in tondo dentro il recinto, entravo in casa. Mio padre fumava e lavorava, vedendomi, iniziava a magnificare il suo lavoro, il futuro che ci attendeva, le sue abilità dicendo che avrebbe ben presto raggiunto il successo, avrebbe costruito un salumificio italiano e saremmo diventati ricchi. Io mi avvicinavo a Ramon e a volte scambiavo con lui poche parole. Finii per cominciare a girare una manovella, quella dell’insaccatrice, mi accorsi che il giorno successivo al tavolo venne applicata un’altra insaccatrice. Non mi costrinse, ma fece un’altra cosa peggiore, quella di promettermi che, “se avessi fatto bene il mio lavoro”, a fine mese saremmo andati a trovare Roberto e la mamma. Quelle parole fusero in un istante il mio cervello e il mio cuore. Non capivo perchè Ramon dondolasse il suo testone. Mi misi a girare quella manovella come se gli fosse stato applicato un motore. Per migliorare la produzione, mio padre mi mise una cassetta sotto i piedi, potevo così applicare maggior forza. Ero pur sempre un bambino di cinque anni. Giravo la manopola e guardavo il calendario, mancavano 18 giorni alla fine del mese. 18 giorni mi separavano dal Sogno di riabbracciare i miei cari, solo 18 giorni. Dalle sette di mattina alle otto di sera, giravo la manopola e sognavo, cenavo, dormivo e sognavo. La domenica, riposo. La mattina, lui lavava e stirava, ma nel tardo pomeriggio, arrivava una giovane signora, con molti capelli ricci in testa e di color “cioccolatino”. Vedendomi si lasciava scappare un sorriso, mi faceva un furtivo ciao con la manina e si appartava con mio padre per ore. Faceva molto caldo e forse anche per questa ragione la vedevo poi con pochi abiti indosso, che diminuivano, con il passare delle settimane. Era bella e ben fatta come sono la maggioranza delle giovani brasiliane. Sarà per il contrasto della pelle o dei capelli ma risaltavano nel suo volto occhi e denti talmente bianchi che pensavo fossero finti. Qualche volta cenava con noi, riservandomi premurose attenzioni, non parlava ma sorrideva sempre. A sera inoltrata se ne andava. La fine del mese si stava avvicinando, le mie ingenue speranze stavano aumentando quando una notte, dopo una sudorazione abbondante, mi svegliai di soprassalto, con l’ansia di aver visto in sogno il nonno e la mamma che in calesse stavano arrivando da me. Ero felice, sorpreso, ma fiducioso, che fosse un segno? Speravo di si! La mattina successiva, arrivò della posta che mise mio padre in stato di agitazione. Girava per il cortile con lettere tra le mani e brontolava. Leggeva e rileggeva e... brontolava. Diede disposizioni sia a me che a Ramon, invitandomi con fare minaccioso a non uscire da casa. Non capivo, ma non importava. Iniziammo il nostro solito lavoro, io giravo la manopola e Ramon faceva altro. L’atmosfera era a dir poco elettrica. Cosa stava succedendo? Aveva a che fare con il mio sogno? Perché era così agitato? Passarono giorni strani, agitati direi. Qual era la ragione? Non trapelava parola. Venerdì sera, Ramon andò a casa due ore prima, mangiammo prima del previsto e subito dopo mio padre mi disse: «Questa sera usciamo un po’». La cosa mi sorprese perché non ero mai uscito dalla “mia prigione”.

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Messo in moto il suo Motom e ben chiuso casa, mi fece sedere sul sellino posteriore e partimmo. Si era fatto la barba e profumava come se avesse usato in una sola volta l’intera bottiglia di profumo. Uscimmo dal paese e ci indirizzammo verso la foresta mentre stava imbrunendo, accese il fanale e proseguimmo. Non ero affatto tranquillo, dove stavamo andando? Da chi a quell’ora? A fare cosa? La foresta diventava sempre più fitta e più nera, anche se era visibile una strada non asfaltata ma ben tracciata. Incontrammo qualche locale in bicicletta e alcuni a piedi, pensai quindi che ci fosse qualche piccolo insediamento di povera gente. Erano i braccianti del tempo. Dopo un’ora circa, iniziai a vedere in lontananza dei fuochi. Stavamo andando in quella direzione e dopo pochi minuti arrivammo. Non avevo paura di quella gente. Primo, perché tutti quelli che avevo conosciuto erano buonissimi, gentilissimi e affabili, e anche generosi nella loro infinita povertà. Secondo, perché in una delle tante lezioni, il nonno mi aveva a lungo parlato di loro e mi aveva spiegato che moltissima gente viveva ancora in un precario isolamento di povertà all’interno della foresta. Questi piccoli gruppi di indigeni erano formati prevalentemente da donne, bambini, tanti bambini e vecchi. Una signora anziana ci venne incontro, sembrava ci stesse aspettando. Salutò mio padre come fosse stato un fratello, baci, abbracci, sorrisi, pacche sulle spalle. Strano, pensai. Guardandomi intorno, i fuochi illuminavano quello che doveva essere un piccolo insediamento. Avrò contato circa una ventina di case. Più che case, erano baracche di fortuna, costruite in parte in legno, ma anche in lamiere, cartoni e altri materiali di recupero. Povera gente! Come e di cosa sopravviveva? Erano quasi tutti scalzi, vestiti di niente, magrissimi, su alcuni volti i segni della sofferenza. Alcune bambine mi si avvicinarono, indicavano le mie scarpe, ridevano e si mettevano le dita in bocca. Una, forse la più audace, si inchinò timidamente, mi toccò la scarpa, anzi, la accarezzò, poi saltò indietro e rise, rise molto, battendosi le braccine sul petto. Erano passati pochi minuti e la piccola piazzetta si era popolata di molte persone. Notai che alcuni anziani stavano ravvivando il fuoco che stava al centro della piazzetta e che tutt’intorno era tracciato un cerchio di pietre bianche. A due metri circa un altro cerchio, ma le pietre erano nere. Strano, ma forse aveva un senso. Scoprii subito dopo lo scopo, quando posizionarono delle sedute molto basse di legno dove presero posto solo uomini anziani o molto anziani, fecero sedere anche mio padre e io accanto. Pensai a una festa. Buttarono altra legna sul fuoco tanto che divenne un falò. Mi chiedevo se non fosse pericoloso essendo in mezzo a una foresta e molte cose combustibili erano nelle immediate vicinanze a partire dalle loro casette o capanne. Ma poi pensai che, se lo facevano a loro rischio, forse rischio non c’era. In un attimo, bambini e giovanetti, scomparvero come per magia. Alcune donne iniziarono a portare dei grandi piatti di legno stracolmi di cibi misti e notai anche che la distribuzione non era casuale. Iniziarono dalla persona più anziana, poi chi stava accanto a lui, poi agli altri, infine mio padre e io.

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Guardai il contenuto del piatto, c’era di tutto. La base era riso, poi pollo, verdure, maiale, pinoli, cetrioli, melone e un’erba amara. Quello che oggi noi chiamiamo “piatto unico”. Noi avevamo già mangiato qualche cosa a casa, ma tutti mangiavano, con le mani s’intende, quindi mangiammo anche noi. La cena era innaffiata da generosissime caraffe di vino rosso. Ne avevo assaggiato una lacrima da Gutierrez, ero diventato di fuoco e Gutierrez rideva come un pazzo, io meno. Il cibo nei piatti calava e le caraffe si riempivano di nuovo, tutti bevevano abbondantemente. Quando le caraffe erano mezze vuote, una signora faceva il giro e tornava a riempirle. Alla fine del pasto “Agua ardiente”, praticamente benzina a 99 ottani. Se fosse stata messa nel motorino al posto della miscela, saremmo tornati volando. Fumo e liquorino, erano le usanze anche di casa nostra. Cambiava solamente qualità e quantità, ma questo non c’entra, erano le loro abitudini, pensai. Ma noi che c’entravamo? Perché eravamo lì? A fare cosa? Forse mio padre vendeva loro le salsicce? Oppure comprava da loro i maiali? Non capivo, ma ero agitato. Era buio, anzi notte fonda, desideravo essere altrove, anzi a casa del nonno con Roberto e mamma. Quando improvvisamente... Tutt’intorno al secondo cerchio di pietre nere, presero posto uomini con tamburi e altri strumenti musicali a percussione di cui non conoscevo il nome... Iniziarono a suonare, il suono era ritmico e crescente, incessante, ossessionante... Di stupore in stupore, apparvero delle danzatrici, tatuate, colorate, parzialmente vestite con abiti sgargianti, alcune seminude ma con grandi veli colorati. Buttarono sul fuoco liquidi infiammabili con lo scopo di energizzare la fiamma e contemporaneamente olii e incensi perturbanti. Nell’aria circostante aleggiavano profumi e vibrazioni strane, i suoni, i tamburi, le danze, a cosa dovevano servire? Cos’era? Cosa stava accadendo? Non sapevo, non capivo, cosa facevamo in quel posto? Volevo andarmene, volevo scappare, volevo volare via, volevo tornare dalla mia mamma. Rimanemmo pochi, incollati a quel cerchio (maledetto), ove tutto cresceva; il fuoco, i colori, le musiche, le bevande, i sensuali balletti compiuti da giovani ragazze ormai quasi completamente nude, inno alla sessualità o alla perversione, al peccato, alla trasgressione, all’illecito, contro tutto e contro tutti. Cosa stava accadendo? Non capivo. I ritmi incredibilmente aumentarono, i suoni anche, le ballerine pure, poi apparve “lei” la ragazza della “domenica” pomeriggio. Pensai ingenuamente che lei fosse il motivo della “festa”. Iniziò a danzare, anche intorno a noi, più velocemente delle altre che l’avevano preceduta, poi lentamente e quasi volutamente si strappava quelle grandi sottane con le quali era apparsa e per un attimo mi fece dubitare di conoscerla. Dopo poco tempo, le parti scoperte e più appetibili del suo corpo danzavano freneticamente davanti a noi, beveva, cantava canzoni o recitava parole a me sconosciute,

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beveva, fumava, inebriava, sconvolgeva, satanicamente coinvolta in quello che di naturale non aveva nulla. Ma chi era in realtà, cosa stava facendo, perché stavamo lì? Perché non ce ne andavamo? Se era una festa, era durata fin troppo... poi stava accadendo altro... non mi piaceva. Feci per alzarmi, ma fui trattenuto. Ritentai e fui trattenuto una seconda volta. Gli uomini bevevano, i musici erano riusciti a incrementare ritmi e volumi. Poi, ho avuto la sensazione che qualcuno avesse impartito un ordine. L’attenzione dei più si concentrò su di me. Il braccio di un vecchio si alzò e tutto ebbe inizio. Sconvolgente e difficilmente raccontabile ma terribile a chi capita.

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Una esperienza unica Tutto quello che era successo fino ad allora, anche se folle, niente fu, a paragone di quello che accadde di seguito. Musiche, balli, fuoco, canti, bevande afrodisiache, danze, riti aumentarono all’infinito, ma a sconvolgermi ancor più fu altro... Coordinatrice del tutto, “LEI”, la ragazza della domenica. Entrò nel cerchio delle danze una giovanissima ragazza, vestita di un velo bianco praticamente inesistente, la fecero sdraiare su di un trespolo rapidamente approntato tra noi e l’anziano del villaggio, le scoprirono il ventre e depositarono su di esso una ciotola di ceramica coloratissima. Poi apparve un giovane, calzoni bianchi, fascia rossa intorno alla vita, scalzo e nudo per la restante parte, con un pollo tra le mani. Fu sgozzato e versato il sangue nella ciotola depositata sul ventre della giovane. La cosa si ripetè tre volte. Poi fu aggiunto altro... che non conoscevo. I tre ragazzi, ballarono freneticamente intorno sia a “LEI” che alla ragazza, cantavano, urlavano, ripetevano ossessionantemente determinate frasi in preda a una follia che contagiava quasi tutti. Il tutto continuò per lungo tempo, tutto ondulava, sussultava, girava intorno a noi. Avevo l’impressione che da un momento all’altro avrei perso i sensi, ma cercai di rimanere cosciente. La bevanda, quasi tutto sangue, contenuta nella ciotola, fu in parte bevuta da “lei” poi passata a mio padre, il quale inaspettatamente bevve, poi fu intrisa di sangue una piuma di un gallinaceo, penso, e venni da “LEI” schizzato o “marchiato”, con una profusione di invettive e profezie incomprensibili. Il tutto, ma soprattutto la parte finale, accadde in un baleno, impedendo qualsiasi reazione o fuga, anche perché ero trattenuto da lui. Volevo morire, volevo sparire, volevo la mia mamma! Svenni! Mi risvegliai all’alba, ero steso su di un pagliericcio di foglie, guardai la mia camicia ed era sporca di sangue. Corsi all’esterno di quella capanna e tutte le tracce della mia memoria sembravano quasi del tutto scomparse. Avevo sognato? Perché la mia camicia era macchiata di sangue? I carboni al centro del villaggio ardevano ancora? Era un’illusione? Cosa era successo e perché? Dove era andato mio padre? E “LEI”? Cosa sarebbe accaduto? Era notte fonda. I quesiti nella mia mente continuavano a riprodursi incessantemente. Saranno state le nove del mattino, il sole era già alto, non era ancora molto caldo, ma molto umido. Tutt’intorno, sembrava che la vita quotidiana avesse ripreso il suo ritmo naturale. Donne e vecchi svolgevano piccoli lavori quotidiani, i bambini giocavano, gli animali da cortile girottolavano, adulti nessuno. E mio padre, dov’era?

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Apparve verso mezzogiorno circa, il volto stravolto evidenziava una parte delle follie della notte, che forse per lui era finita da poco. Cercavo “LEI” con lo sguardo, ma nessuna traccia. Una vecchietta carina mi porse una ciotola con latte di cocco, bevvi avidamente. Lui avanzò verso di me, impettito e spavaldo. Raggiungendomi disse: «Bene adesso è tutto a posto possiamo tornare». «Tutto a posto cosa?» chiesi risoluto... lui con un mezzo sorriso ripetè, «Tutto a posto, vedrai che le cose cambieranno da ora in poi». Capivo ancor meno del solito... Terminato di bere, la nonnina me ne offrì altro, la ringraziai e le restituii la sua ciotola. Lui sbucò da dietro una capanna a cavallo del suo Motom, come fosse un cavaliere sul suo destriero, si avvicinò e disse: «Sali». Salii e partimmo verso la sua casa. Andava adagio, dava la sensazione del “gatto soddisfatto” dopo aver “mangiato il suo topo”. Arrivammo a casa, andò a dormire e si svegliò per cena. Cenammo, poche cose imbandivano la tavola, ma dopo l’esperienza appena vissuta anche niente andava bene. Andai a dormire, ero stanco, insolitamente stanco. I primi raggi del sole illuminarono la mia piccola “prigione”, sobbalzai dal letto senza un apparente motivo, uno stato di agitazione emozionale scuoteva il mio corpo, erano gli effetti della giornata precedente? Forse. Mi lavai il viso, mi cambiai, cercai di rasserenarmi, inutilmente. Contattai telepaticamente il nonno e la mia aquila, chiedendo loro cosa stesse accadendo. Nessuna risposta, oppure la risposta fu una scossa terribile al mio sistema nervoso. Tremavo come una foglia nella bufera. Forse era quella la risposta. Dai rumori della stanza accanto capii che anche lui si stava alzando. Sentivo che qualcosa stava per accadere. Sensibilità, presentimento, avvertimento karmico, non vorrei osare tanto ma stava per accadere “algo”... Suonarono alla porta, lui si precipitò a vedere chi fosse. Poi, ritornò immediatamente verso la casa e chiuse a chiave. Mi rinchiuse dentro. Uscì di nuovo, avvicinandosi al portone, chiese chi era... non capii la risposta, ma lui si insospettì. Guardò attraverso un minuscolo spioncino e sobbalzò, confabulò, si adirò e si mise a camminare in tondo nel piccolo cortile antistante la sua casa. Ramon non c’era, come mai? Strano. Mio padre ritornò verso il cancello e riprese a discutere con chi stava fuori. La discussione si accese, a notare sia dal suo interloquire che dai suoi atteggiamenti. Alla fine sembrava quasi raggiunto un accordo o un patto, questo dicevano i movimenti del suo corpo. Io cercavo di vedere con le orecchie. Cercavo di guardare oltre! Corse in casa, mi disse che dovevo andare in bagno. Ma io non dovevo andare al bagno, non avvertivo nessuna necessità corporea, anzi, l’ansia per quello che stava per accadere mi avrebbe fatto dimenticare anche le necessità primarie. Ma lui insistette, dicendo: «Hai bisogno di andare al bagno e se non avessi bisogno vai ugualmente e ti verrà la necessità». Ovviamente non si trattava di un consiglio ma di una imposizione, quindi andai nel bagno in cortile. Ci rimasi quattro giorni e tre notti, nutrendomi

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esclusivamente dell’acqua dello sciacquone. Sì, tiravo l’acqua e bevevo. Quando le forze venivano a mancare mi rannicchiavo in dimensioni 1,20 cm per 85 cm (dimensioni del cesso) e dormivo! La porta era massiccia e chiusa dall’esterno, questo bagno era sul retro e non c’era nessuno in casa, nemmeno Ramon. Qualsiasi tentativo disperato si dimostrò inutile. Cosa accadde ve lo spiegherò più avanti. Venni a conoscenza dell’accaduto di quelle 112 ore circa un anno dopo. Riaprirono la porta, era lui. Il suo viso tradiva emozioni dovute ad accadimenti sconvolgenti. Probabilmente anche il mio trasudava emozioni e sofferenze difficilmente comprensibili e descrivibili. Riconquistata una parziale libertà, fui ferito da un raggio di sole che da giorni non vedevo, mi ferì anche il suo silenzio e tutto ciò che avevo rimuginato per ore e ore, per giorni e giorni, venne dimenticato. Rientrai in casa, vidi un insolito disordine, ovunque disordine. Cosa era accaduto? Aveva litigato anche con “LEI”? Ciò che accadde era la conseguenza delle “follie” antecedenti? I “riti” non erano stati propizi? Cosa stava accadendo? Non capivo, ma soffrivo in silenzio. Venne presto sera, e vennero anche alcune persone a ritirare merce e prodotti, comprese alcune macchine da lui utilizzate. Quando vidi caricare le due insaccatrici, pensai, finalmente, da domani farò altro che girare una manovella. In poche ore, la piccola casa si svuotò e, durante il pomeriggio, non credendo ai miei occhi, vidi per la terza volta smontare il motorino Motom. Presagio di un nuovo spostamento? E venne sera, mangiammo in cagnesco due cucchiai di minestrina, una frittata di uova e un po’ di verdura e via nella mia piccola “prigione”. La mattina successiva mi svegliai di buon’ora come sempre. Lui era già in “moto” e, dopo aver fatto colazione, mi riportò in camera con una scusa, quella di risistemare, cosa che non capii, anche perché tutte le mie cose erano poca cosa. Quando fui all’interno della stanza lui uscì e mi rinchiuse a chiave. Sentii il motorino accendersi, lasciare il cortile e nulla più. Mi chiedevo che fine avesse fatto Ramon. Iniziai una ginnastica abituale, quella di chiedermi il perché delle cose senza trovare giustificate risposte. Sistemai le mie cose, ma impiegai tre minuti, poi il nulla per ore e ore. Tornò sette ore dopo. Rividi nei suoi occhi la stessa espressione del “gatto soddisfatto”. Non un commento, non una parola, nulla. Nell’aria odore di sorprese. Nel frigorifero più nulla. Era rimasto mezzo litro di latte, due uova e un mezzo casco di banane. Finimmo il latte e le uova. Lui si rinchiuse nella sua camera e avvertii la sensazione che stesse impacchettando qualcosa. Il motorino era nel baule in cortile. Venne la notte e con la notte un improvviso acquazzone tropicale. Erano terrificanti, duravano poco, ma durante quel poco tempo si aveva l’impressione che il mondo dovesse finire da lì a poco. Quando accadevano di giorno, dopo un’ora la polvere tornava a riempire le strade, quando accadevano di sera, la gente si chiudeva in casa.

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L’intemperia era così violenta che si interruppe persino l’erogazione dell’energia elettrica. Lui prese un bicchiere, lo capovolse e ci posò una candela. In quella luce fioca e in un silenzio indefinibile, iniziammo a mangiare banane. Quelle locali, sono di piccole dimensioni, molto dolci e quelle che stavamo mangiando erano particolarmente mature. Incredibile, le mangiammo tutte. Avvicinatosi al lavandino, ove era collocato il bicchiere con la candela che si stava esaurendo, per sciacquarsi le mani, avvertii improvvisamente un’esplosione. Il bicchiere infrangibile, surriscaldato dalla candela colpito da qualche goccia di acqua esplose, spargendo milioni di frammenti per tutta la cucina. Dopo le solite imprecazioni, apparve una nuova candela. Ramazza e paletta servirono per raccogliere i pezzi più grossi, ma le schegge erano ovunque. Mentre le pulizie continuavano, mi rivolse con strana gentilezza (non era sua abitudine), l’invito ad andare a riposare, ribadendomi che di riposo avevo proprio bisogno. Strano, pensai. Accolsi l’invito piacevolmente, anche perché la sua compagnia non era certo edificante né gradevole. Steso sul mio lettino, ascoltavo la fine del temporale. Pensai alla mia aquila, chissà se Roberto l’accudiva. Il nonno e la mamma? Gli zii e zie, e tutti gli altri che ci conoscevano? Come mai nessuno interveniva? Con questi pensieri, mi addormentai disteso su di una goccia d’acqua, nella speranza di evaporare il giorno successivo e di poter volare a casa nostra, tra le persone che mi amavano. Nel cuore della notte, un trambusto mi svegliò di soprassalto. Era tornata la luce e una lampadina si accese in camera. Lui apparve, vestito di tutto punto, l’ordine fu: «Vestiti svelto!». Mi alzai, mi vestii, uscii. Vidi nella notte un furgoncino che conoscevo, era un signore che di tanto in tanto veniva a prendere i salami. Quella notte venne a prendere noi. Bagagli e baule con motorino erano già stati caricati. Chiuse tutto e diede la chiave all’autista che partì senza esitazioni. Guidava velocemente per quelle stradine, troppo velocemente. Il traffico era praticamente inesistente, solo di tanto in tanto incontravano un camion. Mi resi conto che stavamo ripercorrendo una strada già percorsa. Direzione “porto”. Questo furgoncino era nuovo, moderno e veloce, anche il suo guidatore era giovane, spavaldo e sicuro di sé. Fu necessario un terzo del tempo impiegato all’arrivo. Tutto si svolgeva frettolosamente e silenziosamente, era ancora notte fonda, lui non pronunciava parola e io, dopo aver chiesto due volte dove stavamo andando, ricevevo come risposta: «Tutto bene vedrai, da ora in poi avrai delle sorprese tutte positive, tutto tornerà meglio di prima». «Così mi è stato anche confermato l’altra notte, “ricordi”»? Se ciò che stavamo facendo, era la conseguenza di quel “rito satanico di ubriaconi e sgozzagalline”, la cosa non mi tranquillizzava affatto. Dalle poche parole che iniziavo a comprendere in lingua brasiliana, percepii che stavano parlando di piroscafi, giorni di viaggio, orari di partenza, ecc… Non ebbi più dubbi: stavamo recandoci al porto per partire. Mi rintanai ancor più nell’angolo posteriore del furgoncino e iniziai un lungo tormento di pensieri nel ponderare possibili soluzioni, quali scappare appena arrivati in porto, chiamare qualcuno della polizia, oppormi al salire a bordo con ogni mezzo, ecc... Ero immerso in tali pensieri, quando, in vista del porto lui “sorprendendomi” mi disse che Roberto e la mamma erano già a bordo e che saremmo ritornati tutti insieme in Italia.

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Avrebbe aperto una fabbrica di salumi e salsicce e la nostra vita sarebbe diventata meravigliosa. Diceva anche che l’America era in Italia, che a casa nostra saremmo stati benissimo, che io e mio fratello ci saremmo laureati e che la mamma avrebbe finalmente fatto la signora. Continuò con altre mille magnificenze, non ascoltavo più. Sentivo puzza di bruciato, ma che fare?... Mi lanciò un altro segnale, dovevo stare zitto e non intralciare le operazioni d’imbarco, altrimenti avremmo perso la nave e la successiva era dopo quaranta giorni. Chiesi come mai la mamma e Roberto non erano con noi e lui mi rispose che erano già a bordo con due zii che rientravano anche loro in Italia. Erano partiti il giorno prima per scegliere i posti migliori anche per noi. Dopo essere partiti li avremmo trovati e tutto sarebbe andato benissimo. Ero confuso e la cosa mi puzzava d’imbroglio. Ma che fare? I tempi erano ristrettissimi, infatti scaricati i bagagli, gli stessi furono immediatamente issati a bordo e la stragrande maggioranza dei passeggeri era sul ponte con fazzoletti in mano, agitandoli in gesto di saluto verso chi stava a terra. Notai che i fazzoletti servivano per salutare, ma anche per asciugare le lacrime sia di chi partiva che di quelli che rimanevano. Perché quando le persone sono felici piangono? Perché quel subdolo avvertimento al silenzio prima della partenza? Non capivo, ma non ero tranquillo. E se la mamma fosse stata veramente a bordo con Roberto e gli zii? Forse per amore della famiglia e fiduciosa di un futuro diverso cercava un ricongiungimento anche con me? Forse un sacrificio verso i figli? Era il “cuore di mamma” che sacrificava l’amore per i figli al benessere personale? La responsabilità era grande. Pur sentendo puzza di bruciato, il dubbio che potevo anche sbagliare s’impadronì di me e volli credergli. Risolte velocemente le operazioni d’imbarco, eravamo gli ultimi e terribilmente in ritardo, salimmo a bordo, si sciolsero le cime, i motori erano già da tempo in moto, la nave dopo pochi minuti lasciò il porto. Nome della nave, Anna Costa, previsti 28 giorni di navigazione per giungere a Genova.. Rimasi anch’io sul ponte a osservare sia lo spettacolo di quel porto che stavamo lasciando, sia le persone che emozionate e in lacrime salutavano parenti o amici. Poi un pensiero mi assali la mente. Come mai, con tanti parenti nessuno era presente? Riascoltando le parole di mio padre, che “la mamma e Roberto” erano già saliti a bordo il giorno prima, forse si erano già salutati e non gradivano rivedere lui, pensai ingenuamente. Durante la mattinata vennero svolte le operazioni di controllo e venne assegnata la cabina per il viaggio. Mi aveva ordinato di stargli molto vicino per non perderci e ci mettemmo pazientemente in coda. La mia testa, per quanto la visuale mi consentisse, ruotava come un periscopio in cerca di mia madre e mio fratello, senza esito. Faceva molto caldo ed essendo in vicinanza di un distributore di bibite chiesi a mio padre di poter acquistare una bibita. Lui mi diede gli spiccioli necessari e mi disse di rimanere accanto al distributore per non perdermi. Feci compagnia ad altri ragazzi della mia età, ascoltai alcune loro storie, quando un ragazzo più grande di me, elegantemente vestito, nel raccontarmi la sua storia mi offrì una seconda bibita che accettai. Il tempo passò velocemente, la mia mente per quel tempo seguì le storie degli altri e quando mi voltai per assicurarmi che lui fosse sempre in coda e ben visibile, non lo vidi

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più. Come ritrovarlo? Il primo istinto fu di andarlo a cercare, poi mi vennero in mente le sue parole, “stai fermo vicino al distributore, per non perderti”, così feci. Dal mio elegante orologio, regalo del nonno, compresi che erano già trascorse due ore. Mio padre riapparve poco dopo, il tempo era trascorso in fretta in compagnia dei simpatici coetanei. Mi prese per mano, dicendomi che si era interessato per sapere in quale cabina fossero mamma, Roberto e gli zii, ma non li avevano ancora individuati e che le ricerche sarebbero ulteriormente proseguite durante il pomeriggio. Mi sembrò strano, ma considerando la vastità della nave e la moltitudine di persone a bordo, altro non potevo che rimandare le mie aspettative di riabbracciare tutti con amore a più tardi.

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Il viaggio di ritorno Mangiammo nel salone a noi attribuito, ponte quinto, passeggeri seconda classe. Invece di mangiare, il mio “telescopio” cercava tracce di mamma, Roberto e zii. Purtroppo senza esito. Ingenuamente ma positivamente pensai che forse loro viaggiavano in prima classe. Più tardi cercai tracce di loro, senza risultato. Lui mi aveva parcheggiato per tutto il pomeriggio in sala giochi, in compagnia di altri ragazzi della mia stessa età. La scusa era quella che si sarebbe dato da fare per cercare mamma e Roberto. Ci ritrovammo in tarda serata, la nave era ormai in mezzo all’oceano, i motori al massimo e anche la disperazione di molti cuori. Lo rividi, apparentemente rattristato, e mi comunicò che forse non erano a bordo. «Come non sono a bordo?» gridai ad alta voce, attirando l’attenzione dei vicini. Lui rispose: «Sembra di no, ma continuerò a cercarli». La sera ci ritrovammo al solito tavolo, quello a noi riservato per il viaggio. Mangiai una scodella di mele cotte e un budino. Non entrava altro, anzi... Si presentava un altro spettro, tipo, dove avrei dormito e con chi? Sognavo sul ponte, dal quale avrei potuto osservare i gabbiani che ci seguivano nel viaggio di ritorno. Purtroppo non fu così! Infatti dopo aver girovagato su e giù, da un salone all’altro, mi chiese se volevo andare a dormire. In effetti ero stanco, molto stanco, dissi di sì. Estrasse da una tasca la chiave della cabina e un depliant con il tracciato da seguire. Camminammo molto, scendendo di piano in piano, si udiva sempre di più il fastidioso rumore dei motori. Alla fine arrivammo. Mancava l’aria, mancava la luce, quella dell’anima! Mancavano i miei cari! Perché? Entrammo in una cabina, i letti erano due! Capii e piansi tutta la notte. Cosa sarebbe stato di me? Preso da sfinimento fisico, mi addormentai. La cabina non aveva oblò, essendo locata in zona corridoio, la peggiore e la più economica. Forse fu la mancanza di luce naturale che mi indusse a svegliarmi dopo le sette di mattina, contrariamente alle buone abitudini. Tra di noi non una parola (meglio), mi alzai, gli dissi che sarei andato a fare colazione, mi rispose: «Mmm...». Uscito dalla cabina memorizzai il numero e i vari percorsi. Da solo feci una ricchissima colazione. Non vidi nessun bambino di quelli incontrati il giorno precedente, forse dormivano ancora. Girai per la nave con due scopi: il principale era quello d’incontrare mia madre, anche se le speranze erano esigue ormai, il secondo era quella di prendere conoscenza del territorio. Un esercizio che mi aveva insegnato il nonno. Le sue parole... «Devi memorizzare le immagini, tanto da poterle ripercorre a occhi chiusi, come un CIECO!». Ci sono anche esercizi di filosofie orientali che insegnano tecniche simili. Imparare a guardare Oltre. Imparare a esaltare “tutti” i nostri sensi. Si può imparare a guardare anche con la lingua, provate. Dopo aver girato in lungo e in largo tutta la nave, venne l’ora del pranzo. Scesi nel salone e lo vidi che stava piacevolmente intrattenendosi e pavoneggiandosi con due signore. Le signore mutarono il loro atteggiamento lascivo, costatando che mi stavo avvicinando e pure lui riprese “apparentemente” un comportamento da padre.

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Avvicinandomi, lo informai che sarei andato a pranzo. Lui si alzò, disse qualcosa alle signore o signorine e mi seguì. Mangiammo in silenzio; quando con poche speranze gli chiesi notizie di mia madre, mi rispose che stava indagando. Non commentai. Purtroppo i miei sospetti si andavano concretizzando e avevo deciso che durante il pomeriggio avrei agito. Terminai il pranzo, durante il quale avevo rivisto alcuni dei ragazzi conosciuti il giorno precedente che mi salutarono entusiasticamente e a cui io risposi con altrettanto piacere, lasciai il salone ristorante per recarmi sul ponte di comando. Avevo un’idea in testa, forse azzardata ma precisa. Quella di sapere la verità. Andai dal Comandante e feci amicizia, non fu difficile anche perché gli adulti di solito si dimostrano accondiscendenti con i bambini educati. Dopo aver posto alcune domande di carattere generale e avere ulteriormente simpatizzato, gli posi la domanda alla quale tenevo tanto: «Comandante lei conosce tutti i passeggeri che trasporta la sua nave?» Lui rispose: «Non personalmente, ma ho l’elenco di tutti nomi e cognomi». «Fantastico», gridai io. Poi aggiunsi, «Voglio metterla alla prova, ci sta?». Lui la prese come un gioco, esattamente come io volevo e mi rispose: «Certo!» «Se io le dico un nome e cognome lei quanto impiega per dirmi se c’è o non c’è?» Lui rispose: «Due minuti». Sembrava avessimo organizzato un gioco a premi. «Bene» disse lui, «sono pronto». «Bottura Enrico», chiesi io, guardandolo dritto negli occhi ma con fare giocoso. Lui alzò un ricevitore telefonico, ripeté il nome e controllandomi con la coda dell’occhio, il suo faccione si illuminò e mi rispose quasi immediatamente, «Sì! è a bordo... e sorrise felice». Non aveva vinto nessun premio, ma si divertì, forse per aver superato la prova. A botta calda gli chiesi: «E... Aldo Bottura?» Lui rifece l’operazione di prima e, dopo dieci secondi, scoppiò a ridere, a ridere fragorosamente, tanto che si tratteneva la pancia, poi divenne serio, riagganciò il ricevitore e assunse un atteggiamento serioso. Fece una pausa e poi disse: «Forse è un bambino, di anni cinque, simpatico, divertente bravo e giocherellone che alloggia nella cabina xxx con suo padre». E scoppiò a ridere, dicendomi, «Giusto Aldo?». Mi abbracciò e sorrise ancora, lui credeva fosse un gioco e gli piaceva moltissimo. «Bravo» dissi io «Vogliamo provare una terza volta?» Lui rispose, «Quante volte vuoi tu», e si fregò le mani come fosse un atto preparativo per un’ulteriore prova di abilità. «Dimmi», mi chiese mettendosi in posa. Presi fiato e pronunciai «Ferrari Bice e Roberto Bottura, sono a bordo?» Lui seguì la solita procedura, ripeté due volte il nome di mamma, e sorridendo mi curava con la coda dell’occhio. Io fremevo, anzi tremavo, l’ansia e l’emozione erano difficilmente contenibili, attesi... e poi attesi ancora, poi lo udii ripetere per la terza volta il nome e cognome di mamma con tono serio e imperativo. Poi, sempre tramite l’apparecchio telefonico, con tono interrogativo verso l’interpellato, esclamò «Sei sicuro? Proprio sicuro?».

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Si irrigidì, si rabbuiò, s’interrogò dentro, capì che non era più un gioco... anch’io avevo già “ascoltato” la risposta, che più tardi mi avrebbe dato a voce. È stato il suo sguardo a rispondermi, prima della voce... forse perché la luce viaggia più veloce del suono, forse... Quell’attimo ci unì, come parte di un tutto. Mi prese per mano, qualcuno lo interpellò e lui rispose:«Dopo». Uscimmo e mentre camminavamo, mano nella mano, mi trasmetteva o ci trasmettevamo le nostre reciproche emozioni. Credo che lui avesse capito tutto, purtroppo, e forse la mia triste storia non era una storia nuova per chi trasportava all’andata sogni e speranze e al ritorno separazioni e delusioni. Camminammo, camminammo e camminammo ancora... Stanchi di camminare, ci sedemmo in due grandi poltrone, all’orizzonte il tramonto, il suo robusto braccio mi cingeva le spalle e con quel tramonto tramontarono le mie ultime speranze, la stretta affettuosa aumentò, la sue parole cariche d’angoscia furono: «Caro Aldo, NON SONO A BORDO». Una lacrima silenziosa solcava il mio visino. Mi aggrappai a lui, e per un attimo mi sentii disperso nell’oceano... Il Comandante dovette a malincuore lasciarmi, aveva una città da dirigere e coordinare. Io continuai a camminare sul ponte, il mio sguardo correva nella direzione ipotetica di dove potessero essere in quel momento i miei cari, poi guardai i pesci e poi i gabbiani e poi la palla infuocata di un sole rosso e in parte giallo che stava facendo capolino all’orizzonte. Un brivido mi percorse da capo a piedi, comminai da prua a poppa e raggiunto l’ultimo punto possibile, spalancai le braccia al cielo e gridai: «VOI SIETE LIBERI! LIBERI! e come il sole ritorna, anch’io penso che un giorno ritornerò, vi voglio bene, tanto bene». Alcune coppie che mi erano vicine, mi guardarono insospettite e si allontanarono frettolosamente. Rimasi solo, con le braccine protese verso una direzione che io e il mio cuore conoscevamo benissimo per un tempo infinito. Per non cenare con “lui”, mi recai al ristorante un’ora prima del solito. Eravamo io e otto vecchietti. Mangiai cose calde e lasciai il ristorante poco dopo, non volevo correre il rischio d’incontrarlo. Camminai ancora molto e nel mio girare su e giù, incontrai di nuovo il Comandante. «Caro Aldo, dov’è tuo padre?» gli risposi che non lo sapevo e che poco mi interessava dove fosse. Lui mi chiese se mi andava di stare in sua compagnia per un po’, e io accettai con gioia. Raggiungemmo un ambiente elegantissimo, tutto rivestito in legno pregiato, tappeti ed eleganti poltrone, era una delle salette riservate ai passeggeri di prima classe. In un angolo, un piccolo bar, con tre camerieri anch’essi elegantissimi e servizievoli. Uno di loro si avvicinò immediatamente e disse: «Comandante desidera?» Lui rispose: «Per me il solito e per questo passeggero speciale, da oggi in poi, quello che desidera è mio ospite». Mi sembrò un ordine! Io chiesi un frappè di banane e fragole. Dopo pochi minuti, mi chiese se mi andava di raccontargli la mia storia. E io, dopo qualche attimo d’esitazione, gli raccontai tutto. Lui non pronunciò parola, alla fine esclamò soltanto: «Incredibile...!». Si rattristò, mi strinse le mani e m’invitò a rivolgermi a lui per qualsiasi necessità. Mi spiegò anche che lui sarebbe potuto intervenire solo se mio padre mi avesse molestato durante la navigazione. Altro non poteva fare che essermi vicino e d’aiuto per qualsiasi cosa avessi avuto bisogno.

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Parlammo d’altro, anche del futuro a cui io non avevo ancora pensato. Mi vendette l’idea che un giorno le cose si sarebbero sistemate, che dovevo studiare, avere fiducia, pregare e molte altre cose. Parlava da buon padre, mentre le mie ferite sanguinavano. Era simpatico, affabile, gioviale e fortemente positivo e ottimista. Fu chiamato ai suoi impegni, mi salutò raccomandandomi di rivolgermi a lui per qualsiasi necessità e al barista di offrirmi qualsiasi cosa avessi desiderato. Se ne andò dopo un abbraccio affettuoso. Si era fatto tardi, molto tardi. Torna mestamente verso la cabina, sperando di non vedere, di non incontrarlo, di non sentire mai più la sua voce e le sue falsità! Purtroppo non fu così. Oltrepassata la piccola porta, lo vidi disteso sul letto, in mutande. Stava consultando carte e documenti. Il fatto che fossi stato assente per tutta la giornata non lo turbò minimamente, forte del fatto che non potevo certo scendere a terra... e che presto o tardi sarei ritornato in quella sgradevole cabina. Non disse nulla. Capì che avevo saputo la verità! Continuò silenzioso nelle sue letture e dopo circa un’ora, esordì dicendo: «Caro Aldo, sei troppo piccolo per capire, ma un giorno ti spiegherò tutto», lo fermai dal pronunciare altre parole, le quali avrebbero aggiunto altro dolore, rispondendogli: «Per favore basta!». Poco dopo spense la luce e cinque minuti dopo russava beatamente. Come poteva? Cosa frullava nella sua mente? Quali erano i suoi veri progetti? I sentimenti avevano valore per lui? E fra altre mille domande, probabilmente a tarda notte, mi addormentai. Da quel giorno in poi capitò raramente che ci parlassimo. Mi ero aggregato per il pranzo e la cena a un tavolo di ragazzi simpaticissimi, mentre facevo colazione all’alba, primo tra i pochi. Passavo alcuni momenti della giornata con loro e la restante parte nella mia triste solitudine, a volte interrotta da piacevoli incontri con il Capitano. Lui si era aggregato alle signorine con le quali si pavoneggiava fin dalla partenza. Mi infastidiva, soprattutto quando durante i pasti, guardando nella mia direzione, a volte sghignazzavano. E parlavano, parlavano e sorridevano, sempre... alcune volte mi sono posto il quesito “Cosa avranno da dirsi e da ridere?” Quanto strana è la vita... e quante cose incomprensibili (apparentemente) ti offre. Distolsi da quella scena la mia attenzione, inutile aggiungere male a ciò che già doleva. Passarono amaramente tutti i giorni di navigazione, quando il Comandante mi disse: «Caro Aldo, domani mattina arriviamo a Genova, tu dove andrai?». Lo guardai, non sapendo rispondere, alzai le spallucce e, con il magone in gola risposi un titubante «NON SO»... e me ne andai... silenziosamente. Il rumoroso calo delle ancore fu la conferma che eravamo in porto. Era una bella giornata di primavera, eravamo a Genova. Lasciammo la cabina e LUI mi invitò a seguirlo. Sul ponte centinaia di parenti sventolavano fazzoletti in segno di benvenuto e anche per farsi meglio identificare. Alcuni erano soli e tristi, forse non c’era nessuno ad aspettarli. Pensai a me. Dove saremmo andati a vivere, sul Po? A Sermide? Dai suoi? Altri zii, altri nonni? Altre liti?

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Pur cercando di essere positivo e di guardare oltre, in quel momento mi sentivo solo al mondo. Le operazioni di sbarco furono lunghe, e solo dopo diverse ore ci trovammo sulla banchina. Non avevo potuto salutare il Comandante e mi dispiaceva. Tolsi allora il mio fazzoletto da tasca e lo sventolai, ringraziando tutti, sicuro che il vento avrebbe portato il mio messaggio a chi di dovere. Quanti messaggi affidati al vento... un intermediario universale. Mio padre brontolò con alcune persone (come sua abitudine), poi prese due valige a mano e mi ordinò di seguirlo. Eseguii. Dopo una lunga camminata, ci trovammo alla stazione ferroviaria, mi affidò la cura delle valige, consigliandomi di sedermici sopra per evitare che venissero rubate e mi ordinò di non muovermi per nessuna ragione. Dopo 15 minuti circa riapparve, munito di biglietti, e brontolando disse di seguirlo. Raggiunto quello che presumevo fosse il giusto marciapiede, posò le valige e attendemmo l’arrivo del treno. Tra di noi nessuna parola. Nell’attesa mi guardavo intorno, notai tra le altre cose che un cartellone indicava come destinazione Milano. Andavamo forse a Milano? O forse era una stazione di transito per altra destinazione? Non volevo chiedere e non chiesi. Il treno arrivò circa venti minuti dopo, salimmo e dopo pochi minuti ripartì. C’erano pochi passeggeri a bordo cosicché potemmo accomodarci facilmente in una carrozza quasi completamente vuota. Sistemate le valige, estrasse dalla tasca lettere e documenti e si mise a consultarli. Io andai nel corridoio e ci rimasi fino a Milano ad osservare un bellissimo paesaggio che non conoscevo. Vidi fiumi, colline, pianure e piccoli paesini qua e là. Bellissimo. Arrivammo a Milano Centrale, una stazione ancora più grande di quella di Genova, anzi grandissima. Mi domandai come facevano le moltissime persone presenti a orientarsi in quella confusione di gente che si muoveva in tutte le direzioni. Probabilmente conoscevano il posto e sapevano dove andare. Uscimmo dalla stazione e salimmo su di un treno più piccolo che si chiamava “tram”, e raggiungemmo Piazza Castello. Per la prima volta in vita mia vidi un “castello vero”, era immenso e illuminato tutto intorno. Alcuni entravano, altri uscivano, le mura esterne erano quasi come la casa del nonno in Brasile. E il mio pensiero tornò ai miei cari. Arrivammo a una stazione di autobus e come al solito mi disse: «Curale valige e non muoverti, torno subito». «Va bene Capo», gli risposi. Tornò con dei biglietti e aspettammo in silenzio. Poi arrivò un signore con divisa color avio che ci avvertì che l’autobus sarebbe partito entro dieci minuti, e che potevamo quindi prendere posto. Salimmo immediatamente e aspettammo. Dopo nove minuti l’autobus partì, attraversò la città e prese una autostrada direzione Venezia. Guardavo i cartelli segnaletici e mi domandavo: «Venezia?». A malapena ne conoscevo l’esistenza. Dopo meno di un’ora, l’autobus effettuò un’ennesima fermata. Capii dalla spinta ricevuta da mio padre che dovevamo scendere. Scendemmo e con noi un signore che ci consegnò le valige depositate all’interno del vano bagagli dell’autobus. L’automezzo ripartì e noi rimanemmo soli su quella piazzola di sosta. Stava imbrunendo e il sole, dopo aver corso per l’intera giornata cercando di illuminarci, aveva iniziato la sua discesa verso un meritato riposo, o forse,

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verso l’illuminare altri percorsi di gente che dall’altro capo del globo stava per ricominciare una nuova giornata, una nuova vita. Con il calar del sole era diminuita anche la temperatura, dai nonni a quest’ora faceva molto caldo, qui iniziava a fare freddo. Il mio abbigliamento leggero mi provocava brividi che, forse, erano accentuati dalla sorte incerta che mi attendeva. Non mi meravigliai del fatto che nessuno fosse stato ad aspettarci al porto di Genova, nessuno alla stazione di Milano Centrale, e che non ci fosse nessuno alla fermata dell’autobus. Forse nessuno ci stava aspettando. La sensazione che neanche il “Capo” sapesse dove eravamo diretti, poiché chiese informazioni ad altri riguardo un certo indirizzo, confermava i miei sospetti. Dopo aver ricevuto delle sommarie informazioni, mio padre prese possesso delle valige e mi ordinò: «Seguimi!». Io ubbidii. Camminammo, si stava facendo sera, mi sembrò che ci stessimo avvicinando a un piccolo agglomerato urbano, il cartello recitava “Agrate Brianza”. Chiese a un altro passante alcune informazioni e cambiammo direzione, continuando a camminare. Poi, dopo un lungo percorso verso una zona periferica, cambiammo di nuovo direzione, avanzando verso una zona boschiva. Attraversammo una cascina, con le valige in mano. Chiese nuovamente informazioni a una persona che sostava nel cortile, che gli indicò di andare diritto. Dopo la cascina, una piccola strada sterrata continuava la sua corsa verso la campagna. Più che una strada era un sentiero carrabile, che portava evidenti i solchi di un carro, tutt’intorno boscaglia. Era ormai buio pesto, la stradina, la boscaglia, tutto assumeva un aspetto inquietante. Io, ignaro, lo seguivo.

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Gli altri nonni Dopo circa 500 metri, giungemmo in vista di un’altra cascina, eravamo ormai in piena campagna e avvolti da un buio assoluto. Avvicinandoci alla cascina, un fievole lume ci apparve all’interno della casa. Arrivammo finalmente. Dopo aver ripetutamente bussato, sentimmo dall’interno un altisonante: «Chi è?» Lui rispose con un timido: «Sono IO, Enrico». Dal rumore del chiavistello, mi sembrava dovesse aprirsi il portone del castello visto nel pomeriggio. Finalmente la porta si aprì, dietro di essa, un gigante e una nana. Il gigante era nonno Vittorio (suo padre) e la nana, nonna Teresa, sua madre. L’accoglienza non fu un gran che. Anzi fu molto fredda, quasi segnata dal dispiacere. Fu solo dopo mezz’ora di fitto interrogatorio, svoltosi in forma dialettale (forse l’unica lingua conosciuta da questi nonni), non del tutto gradito, né gradevole, che la nonna si accorse anche della mia presenza. Guardandomi con stupore mi disse: «Vegn chi, mi son la tu nona. At ghè fam?» (Vieni, io sono la tua nonna, hai fame?), risposi: «SI!». E lei si diede un gran da fare per preparare la cena. Iniziarono a parlare, alcuni momenti ad alta voce, altri gridando e inveendo. Non desideravo né sentire né capire, certo che non si trattasse di un benvenuto. Dopo avermi preparato una buona minestra, la nonna mi chiese se desideravo andare a dormire, e io risposi di sì, ero veramente stanco e la serata si presentava non certo piacevole. Uscimmo con una lanterna in mano e ci arrampicammo al piano superiore mediante una scala esterna. Al termine della scala, la nonna mi indicò uno sgabuzzino e mi disse: «Questo è il bagno se hai bisogno». Poi cercando tra un mazzo di chiavi quella giusta, aprì una porta e mi trovai all’interno di un immenso stanzone con diversi letti. Uno matrimoniale e tre singoli. Non ebbi dubbi, scelsi quello a nord accanto alla finestra, così da poter vedere facilmente il sorgere del sole, ed era anche il più lontano da quello matrimoniale che “Lui” avrebbe probabilmente scelto. Mentre la nonna stava per salutarmi, dicendomi: «A domani» le chiesi dove e come poter accendere una luce. Lei mi guardò, come se avessi chiesto la luna e, mi rispose: «In questa casa non c’è la luce». Poi, come se avesse vinto all’enalotto, mi disse: «Se proprio hai bisogno forse c’è una candela nel comodino». Aprii prontamente il cassetto e notai un residuo di candela con pochi fiammiferi. Sorrisi alla nonna e dissi: «Benissimo, a domani». Lei se ne andò con la sua lanterna. Non un abbraccio, non una carezza, non un bacio, non la buonanotte, niente... in compenso le attenzioni del nonno furono meno di niente. Lui era intento a litigare con suo figlio, eravamo appena arrivati... dal Brasile, non dalla porta accanto. Dove ero finito? Cosa mi attendeva, se questo era il benvenuto? Come possono essere diversi i nonni? Ma quelli erano davvero i miei nonni? Mi aspettavo altre cose, forse perché avevo avuto altre esperienze. Avrei voluto essere un gabbiano, di quelli che seguono le navi, per poter ritornare da dove ero venuto.

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Accesi quel mozzicone di candela, tanto da rendermi conto delle poche cose presenti in quella povera stanza, per memorizzare le immagini, per poter camminare nel buio, avendo imparato a camminare con le orecchie. Insegnamenti della mia Guida. «Grazie nonno, eternamente grazie». Andare al bagno, all’esterno, sul ballatoio al buio, neanche parlarne. Mi tolsi le poche cose di cui ero vestito, ripiegandole su di una sedia che avevo avvicinato al letto e mi infilai sotto le coperte, deluso, amareggiato, stupito e triste. Soffiai sulla candela, la luce si spense. Improvvisamente s’illuminò la mia mente, e tutti i ricordi positivi occuparono quella grande stanza fredda e buia. Come diceva la mia Guida: «Pensa positivo». Rividi cose belle, mi lasciai andare al loro pensiero e mi abbandonai in un SOGNO profondo. L’alba non mi sorprese, ero già sveglio, anzi, la stavo aspettando guardando fuori dalla finestra, vicino al mio letto. Vidi anche il corpo assopito di “Lui”, forse era venuto a letto a tarda ora. Dal piano terra sentii dei rumori e delle persone chiacchierare, mi sembravano le voci dei nonni. Approfittai per alzarmi silenziosamente, vestirmi e scivolare fuori da quella camera. Raggiunto il piano terra, infreddolito, incontrai la nonna la quale telegraficamente mi disse: «Buongiorno. Hai fame?». E io risposi di sì con il capo. Avevo freddo, forse lei lo capì e mi fece sedere in cucina vicino a una stufa forse rimasta accesa dal giorno prima. Scodella gigante di latte appena munto, tre cucchiai di zucchero, tre fette di polenta abbrustolita sulla piastra della stufa. Mangiai tutto rapidamente. Lei mi guardò e commentò: «Ma se mangi così tanto come fai a essere così magro?». Non sapevo cosa risponderle perciò rimasi zitto. «Cosa ti ha raccontato, “quello là?», mi chiese riferendosi chiaramente a suo figlio, che era anche “purtroppo” mio padre. «Niente», risposi, poi prendendo coraggio, continuai affermando che mi aveva raccontato un sacco di bugie. Lei non sembrava sorpresa, anzi, ciondolando la testa in segno negativo, continuò dicendo: «Purtroppo è una brutta bestia e non cambierà mai!». Tale affermazione, fatta dalla di “Lui” madre, mi spiazzò. Rimasi folgorato, senza parole, senza saper cosa pensare. Per un attimo si commosse anche lei... Poi mi mise una delle sue gigantesche mani sulle spalle, e mi disse affettuosamente: «Caro Aldo, da oggi in poi io mi occuperò di te». Tutti volevano occuparsi di Aldo, ma io ero solo! E le sole persone che si erano veramente occupate di me portavano un cognome diverso, si chiamavano Ferrari. La sua apparente umanità mi lasciò dubbioso e speranzoso. Le chiesi del nonno e lei mi rispose che era nelle stalle a mungere le mucche. Essendo arrivati con il buio, non sapevo nulla, né della proprietà né di cosa e come vivessero i nonni. Lei mi disse di raggiungerlo, mi disse anche che gli avrebbe fatto molto piacere conoscermi. Non feci considerazioni, ma dopo aver chiesto dove fossero le stalle e capito che erano attigue alla casa, uscii ed entrai nella stalla. Avevo contato dodici mucche prima di vederlo seduto a mungerne una. Mi guardò con viso serio e al buongiorno sostituì un «Passami quel secchio». Porgergli il secchio vuoto fu facile, meno facile fu togliere quello pieno.

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La sera precedente non mi ero reso conto della sua immensa statura, era una montagna, atletico, asciutto, robustissimo, era tanto... tanto di più. Rimasi imbambolato a guardarlo. Quando finalmente si alzò, feci tre passi indietro, per un attimo pensai fosse un’onda d’urto a spingermi. No, era la sua stazza. Metri 2,08 di altezza, Carnera sarebbe apparso piccolo al suo confronto. Lento nei movimenti, duro nell’aspetto esteriore, forte e infaticabile, con l’aiuto della nonna portava avanti la sua azienda agricola composta da vari ettari di terra coltivata, una dozzina di mucche, tanti maialoni e tutti gli animali da cortile possibili, alcuni in gabbia altri liberi. C’era veramente un gran da fare per due persone già avanti con l’età. Notai immediatamente nel nonno una sottile disponibilità, anzi, oserei dire una simpatia epidermica nei miei confronti. Uomo di poche parole, iniziò dicendomi: «Stai vicino a me e chiedi a me qualsiasi cosa». Non capii immediatamente se era un ordine, oppure un consiglio. Il sole era già alto quando “Lui” apparve sull’aia, non salutò nessuno, non disse una parola, fumava e si guardò intorno. Il nonno lo vide e scosse la testa in segno di disapprovazione. Io seguii il nonno nei campi, pian piano iniziò a parlarmi, dandomi spiegazioni su cosa stavamo facendo e perché. Iniziai così ad apprendere tutto quello che dal nonno era possibile, e fu un’esperienza infinita e impagabile. Se dopo qualche anno mi fossi presentato per conseguire un diploma di perito agrario, non avrei avuto difficoltà ad ottenerlo. L’aspetto sorprendente delle spiegazioni di nonno Vittorio era il costante rapporto uomo-natura, uomo-terra, uomo e vita. Mi spiegava, tramite vari esempi, il perché delle cose, del loro mutare, dell’intervento benefico o malefico dell’uomo verso la natura e le relative conseguenze. Fu una scuola preziosa, che mi serve ancora oggi. Se a tale scuola si aggiunge la capacità di guardare oltre, i vantaggi sono infiniti. La nonna ci raggiunse più tardi, e ci portò una ricca colazione mattutina. Pane fatto in casa, formaggio, salame, una bottiglia di vino e due mele. Mi sorprese. «Mangiate» disse «dovete diventare forti!». Girandomi verso il nonno, trovai un indice puntato verso di me, capendo che la battuta doveva essere al singolare. Il nonno era paurosamente forte, e non aveva certo bisogno di merenda, pensai. Capii nelle settimane successive l’importanza delle colazioni e delle merende. Fu il nonno a spiegarmela, tramite gli esempi. Mentre noi facevamo colazione, la nonna continuò a lavorare la terra. Era piccola, tozza, con due mani spaventosamente grandi (da uomo),robustissime e devastate dall’artrite reumatoide. Continuò silenziosa il suo lavoro, fino a quando il nonno, togliendosi il cappello, asciugandosi il sudore con la manica della camicia, alzò gli occhi al sole e disse ad alta voce: «L’è ora!» «Ora di che?», pensai io, ma la vidi posare la zappa e dirigersi verso casa. Era l’ora di andare a preparare il pranzo. Noi continuammo imperterriti, poi udii una scampanellata che proveniva dalla casa. Il nonno posò gli attrezzi, si asciugò la fronte e mi disse: «Andem». Fui contento di camminare al suo fianco. Avvicinandoci alla casa, notai che il nonno si toglieva le scarpe per mettersi degli enormi zoccoli di legno; io avrei voluto imitarlo, lui capì e mi indicò gli zoccoli della nonna. Per un attimo mi sembrò di cogliere sul suo viso un sorriso celato.

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Lui era un duro. Non l’ ho mai visto piangere, ma nemmeno ridere! Mentre ci toglievamo le scarpe si udiva all’interno un’animata discussione ad alta voce. Quando il nonno aprì la porta, si zittirono immediatamente. Improvvisamente sembrò che non volasse nemmeno una mosca. Pranzammo in un religioso silenzio, dopo di che mio padre chiese timidamente (era la prima volta che lo vedevo assumere tale atteggiamento), se gli poteva prestare la bicicletta, per andare in paese a sbrigare delle pratiche e fare delle telefonate. Il nonno non lo degnò nemmeno di uno sguardo, gli rispose con un cenno della mano. Tornò il silenzio assoluto. La cucina della nonna, tipicamente mantovana, era molto buona, genuina e generosa. Ad ogni portata lei mi apostrofava con un «Mangia che devi crescere». A volte mi domandavo se fosse merito suo la grande abbondanza del nonno. Ma poi, vedendo che anche lei mangiava generosamente, mi chiedevo perché lei fosse tanto piccola. Domande da ragazzi. Terminato il pranzo, il nonno estrasse un orologio a cipolla, dal taschino e disse: «Andiamo a riposarci, ci vediamo alle tre». Lui uscì e io fui la sua ombra. Lui andò nella sua camera, io nella mia. Mi distesi e mi rilassai, forse dormii. Forse non dormivo profondamente quando udii il rumore degli “zoccoli” del nonno che scendeva le scale. Mi alzai rapidamente e lo seguii. «Vieni», mi disse il nonno. Scoprii che aveva un somarello, piccolo ma molto carino. Lo imbragò a un carro (tutto sembrava piccolo vicino al nonno), mi fece salire e andammo in campagna a caricare dell’erba che probabilmente aveva tagliato il giorno precedente. Lui caricò l’erba, io avevo il compito di tenere le briglie. Ma il piccolo somaro era talmente docile che non aveva bisogno di essere trattenuto. Approfittai per fare amicizia con lui, accarezzandolo pensai a Susanna e m’intristii per un attimo. Tornammo con il carico d’erba alle cinque circa, scaricammo, il nonno mi disse di riportare “Mario” nella stalla (Mario era il somarello), anche se lui intelligentemente ci stava già andando da solo, dopo essersi fermato un attimo all’abbeveratoio che si trovava nel cortile. «Molto intelligente», pensai. Ne divenni amico, difensore e compagno di giochi. Il nonno, scaricata l’erba e consultata la sua cipolla, si precipitò nella stalla. Era l’ora della mungitura. Si lavò le mani tre volte con attenzione chirurgica e si mise a mungere e io accanto a lui per porgergli i secchi vuoti e togliere quelli pieni. Di tanto in tanto il nonno si metteva in bocca qualcosa che non vedevo e non capivo cosa fosse, pensai fossero caramelle. Mi posi il seguente quesito: «Come mai lui mangia tante caramelle e non ne offre una al suo nipote?». Non capivo, e rimasi con questo quesito insoluto per due giorni. Stanco di questo dilemma, chiesi: «Nonno, perché non ne dai una anche a me?» Lui mi guardò ed esclamò. «No, tu sei troppo piccolo per mangiare toscani». Tra me e me pensai: «Cosa c’entrano le caramelle toscane con i piccoli? Che i toscani facciano caramelle solo per gli adulti? Non credo». Posi alla sera il mio dilemma alla nonna, la quale si mise a ridere come non avevo visto mai. «Dai nonnina rispondimi...», lei rideva e quando le ripetei «Dai nonnina rispondimi...» per ridere quasi le vennero le convulsioni. Mi prese poi per le braccine (credevo che me le staccasse), mi mise a sedere su di uno sgabello altissimo e mi rispose: «Caro Aldo, non sono caramelle, ma sigari toscani, quelli che mangia il nonno! Quelli che altri fumano». «Nooooo», dissi io. Avevo visto molti zii in Brasile fumare sigari, ma mangiarli, mai!

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Morale: la nonna rideva come mai prima, il nonno sogghignava come mai prima. E io avevo imparato che i sigari si possono sia fumare che mangiare, purché siano “toscani” doc. Avevo partecipato a una giornata da vero contadino, avevo fame, avevo imparato moltissime cose, con il nonno ero stato benissimo e gli ero grato e non avevo mai visto in un sol giorno tante persone sorridere così felicemente per un nonnulla. Forse anche Mario, nella sua casetta sorrideva per il nostro incontro. Unica eccezione, mio padre. Non partecipava alla gioia collettiva, del resto non vi aveva mai partecipato, mai. Mangiò e andò fuori a fumare le sue sigarette. Noi finimmo la nostra ottima cena, aiutai la nonna a sparecchiare, dopo di che lei mi invitò a raggiungere il nonno vicino al camino, promettendomi che ci avrebbe raggiunto appena finito di lavare i piatti, e così fu. Il nonno iniziò a raccontarmi una storia sulla realtà della quale non avevo dubbi. La storia durò cinque mesi e ciò che mi insegnò alla fine fu una grande morale, il cui valore rimarrà eternamente valido nella vita degli uomini: fai del bene e del bene riceverai! La nonna lavorava a maglia. Come facesse non ho mai capito. Le sue dita erano talmente deformi che sembrava impossibile potessero reggere i ferri. Lavorava in silenzio, sembrava assente, a volte non guardava ciò che faceva per decine di minuti, e raramente tornava sul punto. Nascevano così sciarpe, guanti, cappelli e maglioni per tutti, anche per me. Usava colori vivaci, quasi brasiliani, erano belle le cose che faceva la nonna. Oggi le definirei di stile peruviano, belle e calde. Il calore era intriso della sua passione nel fare quelle cose. La osservavo da molte sere, vicino al camino. Sferruzzava e masticava. «Noooooooo» mi dissi. «Mastica anche lei toscani? Noooooo, non può essere». La osservavo, ma quando se ne accorgeva, smetteva di masticare e rimaneva impassibile. E io la osservavo, senza capire che cosa masticasse. Ma insistevo, sera dopo sera. E lei mi fregava sempre! Confesso di aver trascorso giornate intere attendendo di scoprire cosa masticasse mi sentivo quasi un “detective”. Non volevo svelare un crimine, ma semplicemente dare una risposta alle mie giovanili curiosità. E non la beccavo, mai. Stanco di questi lunghi “pedinamenti”, chiesi al nonno, se anche la nonna masticasse... In quell’occasione vidi il nonno Vittorio, per la prima volta, scoppiare in una fragorosa risata... «Chi, tua nonna Teresa? Noooo, lei mangia le cotiche di formaggio, le croste, di cui vado pazzo anch’io». Mi spiegò che la nonna aveva pochi denti, ed era per questa ragione che si metteva in bocca croste di formaggio che non masticava, ma che succhiava. Ecco perché duravano serate intere... scoperto il mistero, ci provai anch’io e mi piacque (le mangio tutt’ora). La mattina successiva ci fu una novità. Arrivò un camion, che riportò il baule imbarcato sulla nave. Mio padre sembrava un bambino sotto l’albero di Natale tra mille giocattoli. Io e il nonno andammo in campagna, la nonna in cucina, probabilmente “Lui” doveva rimontarsi per l’ennesima volta il suo Motom. Tornammo come da consuetudine all’ora di pranzo. Pranzammo, riposammo e andammo nuovamente in campagna, lui rimontava il suo motorino. Terminò la sua opera il giorno successivo. Iniziò così a uscire al mattino e ritornare a sera, spesso tardi.

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Familiarizzai con i nuovi nonni. Erano persone di poche parole, semplici, ma sincere. Tentai di rivolgere loro alcuni quesiti, ma capii che non erano sinceramente in grado di darmi risposte. Mal giudicavano il loro stesso figlio e lo condannavano per le sue iniziative che troppo spesso si erano dimostrate rovinose. Nelle settimane che seguirono si verificarono due eventi che modificarono quella tranquilla vita di campagna. Per prima cosa, “Lui” disse di aver trovato lavoro presso una ditta... troppo conosciuta per menzionarne il nome. Secondo, conobbi alcuni dei suoi fratelli e sorelle. Brava gente, colta, rispettosa, il loro carattere e il loro temperamento, non li facevano sembrare suoi fratelli, e tutti erano unanimi nel condannare i suoi comportamenti e le sue scelte. Se si incontravano, l’occasione diventava uno scontro. Io me ne andavo in campagna con un’amica di cui non vi ho ancora parlato. Si chiamava Lilly, una bastardina bianco-nera piccolissima, simile a una volpina. Il luogo comune che recita a proposito degli animali “gli manca solo la parola”, nel suo caso era davvero appropriato. Capiva tutto! Sconvolgente era il fatto che percepiva le emozioni mentre le cose stavano accadendo e le condivideva con te. Incredibili storie di cani. Iniziò così una nuova vita. Lui usciva al mattino alle 5,30, tornava alla sera alle 22,30, diceva che andava al lavoro. Qualche volta il sabato pomeriggio era a casa ed era baruffa, così pure la domenica. Con chi? Con tutti! Io andavo in campagna con il nonno, Mario e Lilly e imparavo sempre cose nuove. Di tanto in tanto appariva la nonna e dagli sbuffi che faceva sembrava una locomotiva a vapore. Quando nonno le chiedeva «Cosa c’è?», lei rispondeva: «Non ne posso più!». Tutti capivamo la sua sofferenza. Anche Mario dondolava affermativamente la testa e Lilly abbaiava. In quei momenti, più di altri, pensavo alla mia mamma e a Roberto, ai mitici nonni e zii nel lontano Brasile. Mi mancava il bene più prezioso. Ma cosa fare? Speravo che qualcosa accadesse, ma non sapevo cosa. Tutte le sere prima di dormire recitavo preghiere perché tutto si risolvesse e speravo fiducioso. Recitavo queste preghiere ad alta voce, sperando nella complicità del vento, a volte le recitavo anche di giorno, quando mi trovavo in campagna da solo e se c’era Lilly con me, al termine dei miei lamenti verso l’universo, lei abbaiava. Credo lo facesse per solidarietà. Trascorsero così due stagioni, poi essendo ormai giunto in età scolare mi informarono che a settembre sarei andato a scuola. Rividi subito Roberto, quando bello come il sole, tutte le mattine si metteva il suo bel grembiulino azzurro, lavato pettinato e profumato e la mamma lo accompagnava alla scuola, che distava solo poche centinaia di metri da casa. Per ora la cosa mi entusiasmava, pensavo alle nuove conoscenze, amicizie, a tutto ciò che avrei imparato, al “Maestro o Maestra”, ai libri; per ora non vedevo aria di preparativi, ma aspettai fiducioso. Passò l’estate e venne settembre. Una sera, avvicinandomi al mio solito posto per cena, notai un pacchetto. Mi guardai in giro con aria sospetta. Nonna Teresa era rivolta alla stufa, nonno Vittorio stava togliendosi una maglia di troppo, non era una ricorrenza, mio padre non c’era.

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Feci l’indifferente e girai al largo, ma questa situazione durò poco. Lui mi guardò e con il suo vocione disse, indicando con la mano il pacco: «Aprilo, è il tuo nuovo vestito, ti serve per domani». Sudai, credo... e aprii il pacchetto, conteneva un bellissimo grembiule blu con fiocco bianco. Una violenta emozione si impadronì di me.

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Il nipote del Gigante Abbracciai il nonno, pur essendo difficile anche quando stava seduto, dato che era quasi irraggiungibile, mentre arrivare alla nonna era facile. Nel pacco c’erano anche un paio di scarpe nuove, un quaderno bianco e una matita con gomma incorporata. «Fantastico!», gridai di gioia. Notando una piccola perplessità nello sguardo della nonna, la guardai meglio e lei mi chiese di provare il grembiule nuovo. Le risposi: «Certo nonna, non vedo l’ora d’indossarlo». Non fu facilissimo e poi stentavo a capire perché si abbottonasse dietro. Indossato il grembiule nuovo, intravedevo alle mie spalle strani gesti che la nonna indirizzava nei riguardi del nonno. Sembravano quasi gesti di disapprovazione. Ma io ero felicissimo di andare a scuola e lo comunicai in tutti i modi possibili. Un attimo dopo capii il motivo del disappunto della nonna. Il grembiule mi arrivava ai piedi e le maniche erano mezzo metro più lunghe. Evidentemente la commessa aveva dato al nonno un grembiule proporzionato alla sua stazza. Non mi sembrava una cosa gravissima, anche perché la nonna minimizzò dicendo che per il mattino successivo sarebbe stato perfetto. Approvai comunque la buona intenzione del nonno. Accingendomi ad andare a letto, posi una domanda ad alta voce: «Ma dov’è la scuola?» Il nonno rispose: «Domani mattina ti ci porto io, così imparerai la strada una volta per tutte». L’indomani alle sette già fremevo. Scesi in cucina per infilarmi il grembiule, chiedendo alla nonna di abbottonarmelo dietro (perché mettono i bottoni dietro?). C’erano pieghe e risvolti cuciti un po’ ovunque, ma stavo bene, ero allegro, felice del mio primo giorno di scuola e non vedevo l’ora di entrare in classe. Tanta era la gioia che la nonna dovette richiamarmi più volte per la colazione. Il nonno stava finendo di mungere e di dar da mangiare agli animali. Sapevo che il paese era lontano e presumevo che il nonno mi avrebbe accompagnato in bicicletta, ma non fu così. Vidi da dietro le finestre Mario e supposi che saremmo andati con un piccolo carro. Il nonno chiamò ad alta voce: «Aldo!». Un secondo dopo ero a cassetta. Sapevo che uscendo dalla fattoria e girando a sinistra c’era una stradina che portava in paese. Era una stradina che non avevo mai percorso, perché piena di rovi e per nulla transitata. Il nonno mi disse: «Fai questa perché è più corta. Imparala bene perché io non posso portarti tutte le mattine, tu sai cosa devo fare e sono solo». E io lanciai il mio solito: «Fantastico nonno, grazie per oggi!». Prima sorpresa, tra le tante di quella giornata, fu che saliti sul piccolo carro il nonno senza prendere le redini in mano disse a Mario: «Hoo, andem», e Mario prese il viottolo tortuoso che mi avrebbe portato a scuola. Immediato e folgorante fu il ricordo di Susanna. Chi crede che “somaro” sia sinonimo d’ignoranza, sappia che Mario e Susanna sono stati esempi del contrario. Anzi... forse avevano studiato tanto in una loro vita precedente. Mentre eravamo per strada, il nonno elargiva consigli su cosa fare, come, cosa non fare, per terminare con: «Non litigare con gli altri, rispetta tutti e impara».

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Mi sembrò saggio. Usciti dal bosco che separava la nostra cascina dalla scuola, nell’immediata vicinanza dello stabile, il nonno disse a Mario di fermarsi e lo legò con un comando: «Tu stai fermo qui». Mario si paralizzò. Percorremmo a piedi i cento metri mancanti, quando vidi una moltitudine di bambini tutti accompagnati dalle loro mamme. Più ci avvicinavamo e più attiravamo la loro attenzione. Le mamme si spostarono e alcuni bambini alla vista del nonno si misero a piangere e alcuni a urlare dalla paura. Nessuno aveva mai visto una “montagna” umana. Mi accorsi che stavo camminando impettito e orgoglioso e, dopo aver oltrepassato il cancello, incontrammo quello che poi seppi essere il bidello, al quale mio nonno mi affidò; capii di aver acquisito un vantaggio psicologico infinito sui miei compagni di scuola. Il bidello era alto quanto il nonno, ma solo perché stava sopra quattro gradini di scala. Il nonno gli rivolse uno sguardo magnetico, quasi paralizzante, chiedendogli: «Ci pensi tu da ora in poi?». L’altro tartagliò un timido «Sì, sì, sì non si preoccupi». Poi si rivolse a me, e guardandomi in viso come solo lui poteva e sapeva fare, pronunciò un «Mi raccomando». Io scossi il capo in segno d’assenso. Lui sembrava contento, stava per andarsene quando mi guardò una seconda volta e alzando il suo braccio destro, paurosamente forte e robusto, mi disse: «La tua casa è là, quando esci torna subito, ti aspetto». Annuii. Credo che nella mente di molti bambini e non solo bambini, quell’immagine sia rimasta impressa nella memoria per il resto della loro vita. Il bidello mi accompagnò in quella che doveva essere la mia classe. Lasciandomi, ripeté sei volte la stessa frase: «Se hai bisogno di qualsiasi cosa chiedi a me. Tuo nonno è... una brava persona». «Certo» risposi. I vantaggi che derivarono dal fatto che il nonno mi accompagnò a quel primo giorno di scuola, si protrassero negli anni. Ancora oggi incontrando persone della mia età, la domanda che mi rivolgono per riconoscermi è: «Aldo chi? Aaaaaaaaaaaaaa, quello che aveva quel nonno così grande?» «Sì», rispondo io. «Aaaaaa, adesso ricordo, sì, sì Aldo» e io sorrido. Presi posto nel primo banco della fila centrale, e vidi che alcuni litigarono per potersi sedere accanto a me; io non capivo, non conoscevo nessuno. Poi, uno si sedette e si presentò: si chiamava Specchiulli Giuseppe. Era straordinariamente bravo. Diventammo amici e poi le nostre strade si divisero. Oggi lo ricordo con affetto e con lui anche Antonio, industriale, mio fornitore e mio ex compagno di classe. Poi venne il Sig. Direttore, un signore anziano e molto distinto, il quale ci presentò la nostra maestra. Applaudimmo dalla gioia (non tutti). La signora Maestra ci parlò di quello che dovevamo e non dovevamo fare e ci diede consigli. Ci disse che chi ben comincia... sarà poi facilitato, ecc, ecc. Alle dieci suonò una campanella che colse tutti di sorpresa, era l’intervallo. 15 minuti per svagarci, durante i quali potevamo anche alzarci e andare in giardino per la merenda. La merenda? Sì, pausa con merenda, come facevamo nei campi quando più o meno a quell’ora arrivava la nonna. Tutti corsero fuori, tra gli ultimi io e alcune bambine. Fu allora che notai che quasi tutti avevano una cartella, dalla quale estrassero la loro merenda. Chi l’aveva di plastica

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colorata, chi di pelle, io avevo portato tutto ciò che mi era stato regalato quale equipaggiamento scolastico in una busta di solida carta munita di manici, riportante la scritta “Consorzio Agricolo di Vimercate”, ma non avevo la merenda. Uscii, segui gli altri e in cortile trovai Giuseppe, sorridente e allegro. Era il compagno ideale. Lui aveva tra le mani una focaccia pugliese grandissima, farcita di mortadella; vedendo che io non mangiavo, non mi fece alcuna domanda ma spezzò la sua focaccia in due e con un grandissimo sorriso me ne porse una metà, dicendo: «Se vuoi diventare come tuo nonno, mangia, anzi andiamo la in fondo al giardino e mangiamo insieme». Nacque fra noi un’alleanza. Il giorno successivo ero attrezzato anch’io. Rientrammo al suono di un’altra campanella. La restante parte della mattinata passò in un baleno. Un’altra campanella trillò e capimmo che le lezioni erano finite, quando la maestra ci salutò dicendoci: «A domani, ragazzi». Uscimmo, e vidi oltre alle mamme dei tanti bambini anche alcuni padri. Salutai Giuseppe e puntai dritto a casa. Giuseppe contraccambiando il mio saluto, mi chiese: «Aldo, dove sono i tuoi genitori?» Non sapevo cosa rispondere, e una ingenua bugia mi indusse a dire: «Sono qui, più avanti che mi aspettano». Lui disse: «Va bene, a domani» e io ripresi il cammino per il ritorno. Dopo pochi minuti, entravo nella stradina sterrata che attraverso i boschi mi avrebbe portato a casa. Mi si arrossarono gli occhi, poi divennero lucidi, poi piansi. Dov’erano mia mamma e mio fratello Roberto? Perché gli altri bambini avevano la loro mamma e io no? Sarebbe stato così anche domani? E per quanti giorni ancora? E poi: «La rivedrò? Li rivedrò? Quando? Cosa sarà di me? Perché o Buon Dio? Perché? Aiutami tu!». Poi vidi un leprotto saltellare davanti a me, mi guardai intorno e vidi fiori, verde e ancora fiori diversi, alcuni tipicamente da bosco. Mi misi in ricezione, sentivo la musica della natura tutta intorno a me. Quei suoni e colori rapirono la mia nostalgia, smisi di piangere, allungai il passo e dopo circa trenta minuti cominciai a sentire odore di casa. Il nonno e la nonna erano sull’aia e mi accolsero con un sorriso soddisfatto. Eravamo rimasti separati solo per quattro ore. La nonna mi chiese immediatamente: «Com’è andata?» e io le risposi: «Benissimo! Non vedo l’ora che torni domani». Entrammo in cucina e pranzammo. Il nonno mi chiese all’improvviso perché avevo pianto, e io risposi per la seconda volta nella stessa giornata con un’altra bugia: «Mi sono punto nel bosco». Lui bevve una caraffa di buon vino, ma neanche una goccia della mia risposta. A conclusione del lauto pasto, il nonno mi disse: «Bene, andiamo a riposare e poi facciamo i compiti». «Nonno, non ci hanno dato compiti da fare a casa». Lui mi guardò e rispose: «Ma la vita sì». Capii, andammo insieme a riposare, insieme in campagna, insieme nelle stalle... insieme ci lavammo le mani, insieme stanchi, ma felici, andammo a cena e subito dopo a letto. Mi attendeva il secondo giorno di scuola e, a lui, la sua solita dura vita. Mi addormentai profondamente.

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L’indomani di buon’ora ero in cucina con la nonna. Oltre alla solita ricca colazione, vedevo di fronte a me una montagna di frittelle. Le frittelle della nonna erano buonissime. Quando le guardai, lei mi disse: «Prendine quante ne vuoi, sono per la tua merenda delle dieci. Ieri me ne sono dimenticata». Mi spiazzò. Primo perché mi disse che se ne era sinceramente dimenticata, secondo perché mi invitò a prenderne quante ne volevo. Io le chiesi di farmi un sacchetto e lei ne inserì il doppio di quante io ne potessi desiderare. Durante l’intervallo, mangiai frittelle e ne distribuii a mezza classe. Prima a Giuseppe, poi alle bambine carine, poi a tutti gli altri. Le frittelle di mele della nonna del nipote del GIGANTE divennero famose in tutto il paese, e io con loro. Fantastico. Tentai di offrirne una anche alla signora maestra, ma lei mi rispose con un: «Grazie, ma fanno ingrassare». Non capii, anche perché era secca come un chiodo. Mangiammo una frittella in più. Quel secondo giorno fu all’insegna di aste e vocali. «Aste e vocali, facile!» pensai. Campanella, merenda, frittella, compitini per il giorno dopo, aste e vocali! Tornai a casa volando. Era una bella giornata. Salutai Giuseppe e gambe in spalla. Impiegai meno di quaranta minuti. Durante il pranzo raccontai della mia mattinata e feci il riposino; poi andai in campagna tra gli animali insieme al mio nonno. Mentre stavamo andando in stalla per la mungitura, il nonno mi chiese: «Ma non ti danno compiti da fare a casa?». «Sì», dissi al nonno, «ma son cosa da cinque minuti, pensavo di farli dopo cena». Lui rispose che dopo cena si dormiva e che i compiti andavano fatti prima. E mi ordinò benevolmente di andare a farli subito. Andai, ma dopo dieci minuti ero di nuovo nella stalla. Lui mi guardò severamente e ripeté che dovevo andare a fare i compiti. «Fatti nonno», dissi io. «Mmmm... sicuro?» «Sì nonno», ma non mi sembrava molto convinto. Incontravo sempre più raramente mio padre, ma non se ne sentiva la mancanza, ben altre erano le vere mancanze. Le cose cambiarono un po’ con il passare dei mesi. Le giornate si accorciarono, diventarono sempre più brevi e fredde. A scuola andava tutto benissimo, con i compagni mi trovavo molto bene. Avevamo fondato un club, il club del “Gigante”, e io ovviamente ne ero presidente, forse era un presagio del mio futuro. Vice-presidente era Giuseppe, coordinatore straordinario e fantasista imbattibile. Avevamo un mare di simpatizzanti e qualcuno che era geloso di noi, ovviamente. Ai gelosi non davamo alcuna soddisfazione. La vita con i nonni era buona, fatta di cose semplici, sane e genuine. Nonno era il mio “tutor”, per ogni domanda aveva una risposta! Una risposta, due esempi, impossibile non capire. Questo metodo delle risposte, seguite da esempi, entrò profondamente e radicalmente dentro di me. Oggi mi capita di rispondere alle domande con un esempio. Si tratta forse di reminescenze d’infanzia? Sì! Può essere... a molti piace e quasi tutti capiscono le mie risposte.

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Se intravedo delle incertezze, propongo un altro esempio, e mi diverto. Stavano per arrivare le feste natalizie. Tutti i bambini erano in fermento. Tutti parlavano di... tutto. Tutti dicevano «I miei genitori... i miei genitori... i miei parenti...». Quelli erano i momenti della mia disperazione! L’apice fu raggiunto qualche giorno dopo. La maestra ci diede un compito in classe: «Fate un disegno che rappresenti voi e i vostri genitori intorno all’albero». Vidi tutti immediatamente impegnati, con matite e pastelli. Io guardavo gli altri e non sapevo da dove cominciare. La signora maestra mi notò e mi disse: «Su Aldo, tu sei bravissimo in disegno». È vero, ero bravissimo. Avevo disegnato fiumi in piena che nessuno aveva mai visto prima. Avevo disegnato inondazioni che nessuno aveva mai visto prima. Avevo disegnato navi, foreste, cavalli selvaggi, praterie, serpenti, gufi, aquile, pappagalli brasiliani, comandanti, cani, somari, albe e tramonti, fiumi, Susanna e Mario, il cielo e la terra, avevo disegnato delfini, mari e oceani, gabbiani, uomini bianchi, neri e brasiliani, avevo disegnato gli angeli e tante altre cose. Ora non sapevo come risolvere un problema così semplice. La maestra, sbagliandosi, mi accusò di indolenza e mi incitò... non aveva capito, forse non poteva capire cosa stava accadendo dentro di me. Suonò la campanella, uscii lentamente, vidi quasi tutti scendere in sala mensa ove, essendo giunto l’inverno, ci si recava per la merenda. Io uscii, piovigginava, andai a ripararmi sotto un pino in fondo al giardino della scuola in attesa che la campanella risuonasse e rientrai. Tutti si rimisero a terminare il loro fantastico disegno o quello che rappresentava il loro sogno. Sbirciando, vidi alberi di Natale e pacchi dono con papà e mamma mano nella mano e tanti altri temi che rappresentavano famiglie felici. Mancava poco al ritiro dei compiti e la maestra continuava a sollecitarmi. Il mio foglio era ancora bianco. Poi lanciò un ultimo avvertimento, era indirizzato solo a me e diceva: «Chi non ha fatto il compito non riceverà regali. Tra due minuti passerò a ritirare». Mentre si stava alzando dalla cattedra, presi il mio foglio bianco, feci il mio disegno e finii prima che lei giungesse al mio banco. Avrei ricevuto il regalo richiesto? Con indifferenza ritirò tutti i disegni, mise il mio sopra gli altri e tornò alla sua cattedra. Guardò il mio disegno con attenzione, sembrava alla ricerca di una spiegazione che non trovava, poi tutti gli altri e poi ancora il mio. Mi guardò, non disse una parola. La campanella sciolse un imbarazzante silenzio. Lei prese tutti i disegni e li mise in una cartellina che ripose nella sua borsa e ci salutò affettuosamente. Il mio disegno, eseguito in dieci secondi, era una rappresentazione complessa: un cuore, due stelle, due nomi, MAMMA & ROBERTO! Salutai frettolosamente Giuseppe, andai nel sottoscala a prendere una busta di plastica che usavo da quando era sopraggiunto l’inverno. Essa conteneva stivali di gomma e calzini pesanti. Dovendo andare a piedi attraverso un sentiero fangoso, al mattino partivo con stivali e calzettoni che nel sottoscala cambiavo con calzini e scarpe pulite. Altrettanto facevo per il ritorno. Non avevo due paia di scarpe per la scuola. Essendo anche le scarpe di due numeri più grandi del mio piede (così come il grembiule) dovevo provvedere a una perfetta conservazione.

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Ma queste erano cose senza importanza per me. Un po’ per il fango un po’ per la pioggerellina battente, quel giorno impiegai più tempo del solito per tornare a casa, anzi, mi fermai a circa metà strada per ripararmi sotto un casotto, di proprietà di un nostro simpatico vicino, utilizzato per il ricovero di alcuni attrezzi agricoli. Ero un po’ triste quel giorno. Mi chiesi che disegno avesse fatto mio fratello e se anche lui avesse disegnato un cuore. Anche le mamme fanno i disegni da mettere sotto gli alberi? Perché la gente è cattiva? Perché non ci amiamo gli uni con gli altri? Perché ci facciamo del male con le nostre mani? Non capivo... niente fa male all’Uomo sulla terra come l’Uomo sa fare contro se stesso. Ora pioveva più forte! Anzi, fuori forte e dentro di me a dirotto. Mi tolsi con molta difficoltà il grembiule e lo ripiegai nella busta, perché non si bagnasse e non si sciupasse. Nella capanna rimediai un sacco di plastica vuoto, ne feci un cappuccio, mi feci coraggio e tornai lentissimamente verso casa. La pioggia battente aveva in quel momento un effetto calmante. Entrando in casa tutto bagnato, la nonna mi corse incontro con asciugamani bollenti, mi disse: «Puarin al me putin (povero il mio bambino). Asciugati subito e vieni vicino alla stufa». Mi asciugai e mi cambiai tutto. Pranzammo con tortellini di carne in brodo e poi stufato con polenta, tanta polenta. Un pranzo da principe. Riposino e poi? Ora pioveva a dirotto anche fuori. Vidi il nonno andare nella stalla. Essendo il luogo più caldo, lo seguii ed ebbi modo d’imparare altro. Munito di roncola, lavorava il legno come se fosse burro. Faceva di tutto. Mestoli, ciotole, sedie, manici per i suoi strumenti da lavoro, matterelli, riparava cose vecchie, ecc. Non aveva bisogno di tavoli da lavoro, una mano funzionava da morsa e con l’altra agiva. Guardarlo mentre lavorava, era meraviglioso. L’inverno che trascorremmo in parte nella stalla fu per me più significativo che frequentare un “college”, anche perché i corsi giornalieri erano un misto di teoria e molta pratica. Arrivava frettolosamente l’ora della mungitura, pulizia e cena per tutti gli animali, poi la stessa cosa anche per noi. Pulizia, cena e tutti a letto. Raramente il nonno iniziava discorsi dopo cena. Sosteneva che le parole dopo cena toglievano una parte importante al nostro riposo e ai nostri sogni. Se avevi una domanda da fare, lui ti rispondeva così: «Inizia a pensarci e forse troverai da solo la risposta e, se non la trovi, trovi me domani mattina alle 5,30». Oppure: «Osserva la natura, non vedi che quasi tutto “dorme di notte”, anche il sole continua a splendere di giorno, solo perché dorme di notte. Oppure un categorico: «L’uomo è un animale diurno! Buona notte». Raramente veniva qualche zio o zia a trovarci, eppure erano tanti. Quando arrivava qualcuno di loro, sapeva che se c’era a casa mio padre, spesso si finiva in discussioni sgradevoli. Io e il nonno avevamo sempre un gran da fare.

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Quando rientravamo, la nonna ci aggiornava. E il nonno e io rispondevamo, facendoci l’occhiolino: «Va bene, va bene, sì, sì, va bene!». Qualche volta la nonna si mostrava irritata e ci chiedeva: «Ma non vi sarete mica messi d’accordo voi due?» «Nooooo», rispondevamo in coro. Lei concludeva con: «Allora va bene», e senza farci vedere noi sorridevamo. Arrivò il Santo Natale, freddo, solo, nudo, povero... mi portò tanto dolore! L’ancora di salvataggio fu nonno Vittorio! Dalle sei di mattina alle otto di sera di ogni giorno avevamo talmente tante cose da fare che era quasi impossibile pensare ad altro. Ogni giorno una scoperta. Ogni giorno cose da imparare. Ogni giorno qualcosa di diverso. Ogni giorno un’opportunità di fare del bene. Durante le feste di Natale imparai a impagliare le sedie, bellissimo e facile. E arrivò il giorno in cui si doveva tornare a scuola. Durante l’intervallo, la maestra mi chiese come avevo trascorso le mie vacanze natalizie. Io risposi: «Bene, tra un bue e un asinello!». Non credo che la risposta l’abbia soddisfatta. Al termine della lezione mi affidò una busta da consegnare ai miei genitori. Risposi: «Va bene». La portai a casa e la misi sul comodino di mio padre. La settimana passò come al solito, imparando cose nuove e bellissime, soprattutto dal nonno. Venne sabato pomeriggio, quando mio padre mi chiamò e mi sottopose a un vero e proprio interrogatorio. «Cosa sei andato a raccontare a scuola?» «Nulla» risposi. «Devi dirmi tutto», gridava lui, «Tutto cosa?» chiedevo io. Rivolgendosi poi ai suoi genitori, disse: «Cosa gli avete messo in testa a questo mio figlio?» I nonni iniziarono a rispondergli vivacemente, e io me ne andai... era iniziato un film che ormai conoscevo benissimo. Corsi nelle stalle finché non venne il nonno a riprendermi, accarezzandomi il capo. La vita riprese il solito corso. A scuola andava tutto bene, stavamo procedendo e progredivo rapidamente. Un giorno, la maestra mi accompagnò dal Direttore, dicendomi che mi voleva parlare. Ovviamente acconsentii. Nel suo grande ufficio mi fece accomodare in una grandissima e comodissima poltrona; le prime domande furono di convenienza: “come stai”, “come ti trovi nella scuola, con i tuoi compagni, a casa”? Tutte domande alle quali risposi positivamente. Poi, dolcemente, mi chiese della mia storia personale e della mia situazione familiare. Per sommi capi gli raccontai quasi tutto, evitando le “macumbe” e altrettante cose brutte. Lui prendeva note. Riempì fogli di note. Poi chiese se a casa mangiavo, dormivo e se mio padre mi picchiava. Al termine della lunga chiacchierata, anche lui come molti altri si profuse in gentilezze. Passarono due settimane normali, quando una sera sentii da una discussione ad alta voce tra mio padre e il nonno, che mio padre il giorno successivo avrebbe dovuto presentarsi sia al Direttore che ai Carabinieri. Io cercai di addormentarmi, non fu facile ma ci provai. Quando a tarda notte lui salì, mi svegliò per dirmi che con le mie scemenze gli avrei fatto perdere un giorno di lavoro. Non capivo cosa intendesse, né compresi i miei errori.

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Il giorno successivo, tentai di chiedere spiegazioni ai nonni, ma entrambi mi risposero di lasciar perdere. Venne la primavera e le mie lezioni, mai interrotte, ripresero con maggior entusiasmo. A scuola la mattina, all’università della vita di pomeriggio fino alle otto di sera. Avevo imparato a leggere e divoravo libri. Quando non leggevo, disegnavo. Ero bravo a disegnare. Disegnai e raccolsi in un album tutti gli oggetti creati manualmente dal nonno con solo l’uso della matita e di un carboncino. Mi capitò di iniziare a disegnare una “faraona”, ne avevamo tantissime intorno a casa allo stato libero o semilibero, e terminare il disegno con un pappagallo brasiliano; simili per dimensioni, ma completamente diversi nel piumaggio e soprattutto nei colori. Contemplando il disegno, inevitabilmente, la mia mente si trasferì laggiù, in Brasile. Emozioni, ricordi, sentimenti incontenibili si riappropriarono di me. Mi avventurai tramite una scala di legno nel soffitto del fienile, vidi da vicino decine di casette abitate dai piccioni. Anche se mi avvicinai lentamente, improvvisamente uscirono dalle loro case e presero quasi tutti il volo. Mi sedetti in contemplazione, guardandoli, mi accorsi che “vedevo gabbiani”. L’alchimia della mente si era messa in moto. Molte erano le cose che la mia mente elaborava in un silenzioso accordo con il mio subconscio. I miei occhi vedevano ciò che i miei sentimenti desideravano vedere. Parlavo agli uccelli. Parlavo agli animali, tutti. Parlavo a piante e fiori. Parlavo alla luna di sera. Parlavo al papà sole di giorno. Parlavo al vento, perché trasportasse i miei sentimenti e le mie emozioni. Gridai al vento: «Mamma dove sei?... Mamma torna... Fammi venire da te...». Uscii dal “mio Sogno”, scesi le scale e ritornai sulla terra. Da alcuni giorni, il nonno mi aveva prima insegnato e poi autorizzato a cavalcare Mario. Arrivai in un momento di particolare entusiasmo a chiedergli se potevo andarci a scuola. Lui mi guardò severo, cercò la risposta giusta nella sua mente e disse: «A scuola ci si deve andare a piedi e con tanta volontà d’imparare, proprio per non diventare come Mario». Mario era un bambino che non è stato promosso a scuola. Questa volta avevo capito. Giocare con Mario era un premio dopo lo svolgimento delle mie mansioni e la soluzione dei miei compiti. Riflettei e condivisi. Tra le tante mie riflessioni, pensai anche che essere somari ti fa rimanere “piccolo” tutta la vita. Sentendo dire qualche volta “sei un grande somaro”, obiettavo. Avete mai visto un somaro grande come un grande cavallo? No! Somari vuol dire anche, piccolo dentro... aiutiamoli, senza inveire contro di loro, poveri somari... anche i somari ci insegnano... Tornati alla solita vita, verso la fine di giugno, percepivo strane sensazioni senza individuarne l’origine. Discorsi interrotti, strani sguardi tra il nonno e la nonna, agitazione latente, andirivieni di persone mai viste, apparizioni saltuarie di alcuni zii che abitavano in paese, strane cose, discussioni celate, silenzi inspiegabili. Qualcosa bolliva in pentola.

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La strana sensazione aumentò con il passare delle settimane. Sembrava che tutti sapessero cose che io non comprendevo. Il non capire sollecitava la mia curiosità e la mia ansia. Un giorno sognai che forse mi avrebbero spedito in Brasile. Gridai «Fantastico!» e mi svegliai, era solo un sogno. In ogni caso un’atmosfera strana gravava nell’aria. La scuola era finita, e io fui promosso! Raddoppiarono i “corsi speciali” del nonno. Anzi duravano sempre dall’alba al tramonto, con mia grande soddisfazione e gratitudine verso il mio “prof.” personale. Il suo sapere mi sembrava “infinito”. E il suo metodo d’insegnamento tramite gli esempi mi rendeva ogni cosa facile da comprendere e da memorizzare. Le parole si potevano anche in parte dimenticare, ma l’esempio no. Era bello vivere in campagna, tra animali e natura, un’altra opportunità di apprendimento infinita. Una scuola che non chiude mai e aperta a tutti coloro che vogliono saperne di più. La natura, non solo si lascia interrogare, ma ti risponde sempre.

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Una gioia amara

Era il martedì pomeriggio del 13 luglio 1954. Io, il nonno e Mario eravamo nei campi, quando la nostra attenzione fu attirata da un polverone, sollevato dall’arrivo di una macchina. Ci guardammo in volto con fare interrogativo, chi poteva mai essere? Raramente un’autovettura era giunta da noi, le eccezioni erano state il dottore, uno zio, il veterinario e un signore del Consorzio Agrario di Vimercate. Chi poteva essere? Io guardai il nonno, lui mi guardò, poi commentò: «Se hanno bisogno di noi ci chiameranno!». Emessa la sentenza riprendemmo il nostro lavoro. Passarono pochi minuti e, insolitamente per quell’ora, udimmo l’inconfondibile rumore del Motom. Alzammo lo sguardo contemporaneamente e constatammo che era proprio “LUI”. Coma mai? Come mai a quest’ora? È successo qualcosa? La prima a prendere velocemente la via di casa fu Lilly. Essendo noi sul lato opposto all’ingresso di casa non potevamo vedere chi o cosa stesse accadendo. Ci guardammo di nuovo, e il nonno riprese il lavoro che stavamo facendo. Lilly abbaiava come non mai. Poi ritornò da noi abbaiando, il nonno la sgridò, ma lei imperterrita continuò. Temetti per la sua incolumità. Ma cosa aveva da abbaiare tanto? Fummo attratti dalle grida della nonna che, da una finestra del primo piano, sventolando un asciugamani bianco, ci chiamava a squarcia gola: «Correte, correte, subito...». Non avevo mai visto correre il nonno, e non accade nemmeno quella volta. Caricammo gli attrezzi sul carro e Mario ci riportò a casa, mentre vedevamo la macchina giunta pochi minuti prima ripartire lentamente. Arrivati sull’aia, scesi dal carro, e vidi la Madonna... ...Mamma e Roberto erano tornati! Morii di gioia... Come descrivere la più grande gioia della mia vita? La mamma mi chiese venti volte come stavo, mi toccava dappertutto, per rendersi conto della mia integrità. «Mamma sto bene, sono sempre stato bene, adesso starò ancora meglio». Poi la mamma mi chiese da quanti giorni ero uscito dall’ospedale.

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«Dall’ospedale», chiesi io? «Non sono mai stato all’ospedale». «Ma che cosa hai avuto di così grave?» «Niente mamma, non ho mai avuto nessun malessere fisico, sono sempre stato bene e ora starò meglio». La tensione saliva, non riuscivo a capire. Mi sentivo sotto interrogatorio, riguardo malesseri o malattie che non avevo mai avuto, come se volessi nascondere non so che. L’interrogatorio finì. La nonna sbuffava, il nonno scuoteva la testa, Roberto non pronunciava parola. Ci abbracciammo, ci baciammo e piangemmo. Perché la gente piange quando è felice? Poi loro tornarono dentro e io presi mio fratello per mano, accompagnandolo intorno a casa con la volontà di spiegargli tutto e con il desiderio di chiedere a lui tutto. Appena dietro la casa, anche Roberto mi chiese se stavo bene. «Roberto» dissi io, «ma perché tante domande insistenti sul mio stato di salute, non vedi come sto? Sto benissimo!». Le cose da dirci erano tante, ma venne subito sera. Vidi la mamma contenta, più bella e serena. Portava vestiti invernali, anche Roberto era vestito con abiti pesanti. “Lui” era intento a portare bauli e valige al piano di sopra. Io e Roberto raggiungemmo il nonno per la mungitura e mio fratello mi aiutò nelle varie fasi. Gli presentai Lilly, che era contenta come non mai, e Mario che si lasciò accarezzare. La mamma ci chiamò per la cena. Mi ero abituato a pranzare e cenare in tre, trovarci in sei doveva essere motivo di allegria e felicità. Ma non fu proprio così. La nonna era seria e di poche parole, il nonno guardava tutti con aria sospettosa e cenava silenziosamente, più del solito, “Lui” era imbarazzato, io e Roberto ci scambiavamo cenni di intesa, rinviando al giorno successivo le nostre manifestazioni di gioia. Dopo cena, constatato che la tensione nell’aria era fortissima, le mie perplessità riguardo a possibili turbamenti si fecero strada. Vedendo che la mamma stava aiutando la nonna a sparecchiare pensai bene, essendo ancora pieno giorno, di uscire sull’aia con Roberto, lasciando “Lui” e il nonno seduti a tavola. Forse avevano cose da dirsi. Appena usciti da casa, centinaia di faraone richiuse in una apposita grande voliera, situata di fronte all’aia, si alzarono in un inutile tentativo di fuga. Roberto, non abituato a tali animali e al loro schiamazzo, mi pose domande su di loro e io, grazie agli insegnamenti del nonno, feci sfoggio di sapere. Volevamo intraprendere mille discorsi, poi rinviammo il tutto al giorno successivo. Rientrammo in casa, salutammo la mamma e la nonna che stavano parlottando in cucina, salutai “Lui” e, insieme a Roberto, baciammo il nonno.

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Feci strada e arrivati in camera trovammo una sorpresa, qualcuno aveva teso un filo, e sopra di esso posto delle lenzuola per dividere in due l’enorme stanza. Roberto scelse il letto vicino al mio, ci spogliammo e dopo poche parole ci addormentammo. Io mi svegliai alla solita ora, Roberto dormiva e lo lasciai riposare, “Lui” era partito per il suo lavoro e la mamma era in cucina con la nonna. È bello svegliarti e vedere la tua mamma, il primo “angelo” della tua giornata. Baci, abbracci, carezze, emozioni, gioia infinita. «Mamma sei tornata per sempre?» chiesi io. «Certo non potevo starti tanto lontano, poi quando ho saputo che tu...» e si fermò. «Mamma, è da ieri che sia tu che Roberto, mi chiedete della mia salute, perché?» Lei mi porse la solita scodella grande di latte appena munto, e quando vidi che era scuro, esultai chiedendo: «C’è il cacao del nonno dentro?» «Sì» mi rispose accarezzandomi. «Fai colazione e poi ti spiegherò tante cose». «Certo, mamma». Stavo terminando quando entrò Roberto; anche con lui ci scambiammo baci, abbracci e gioia di ritrovarci accanto. Gli rimasi vicino per il tempo della colazione, pizzicando i biscotti della nonna appena sfornati, cercando di evitare le cucchiaiate che dava a entrambi, perché stavamo esagerando. In effetti alla fine della colazione i biscotti erano sensibilmente calati. Roberto raggiunse il nonno e io e la mamma uscimmo sull’aia. Una bellissima calda giornata d’estate ci stava aspettando e il sole non perse tempo a riscaldarci. Lei avrebbe voluto prendermi per mano, ma io le saltellavo intorno in attesa di risposte. Ci avviammo per una delle stradine che si dipartivano dall’aia, accompagnati da Lilly che scodinzolava. Le rivelazioni sconvolgenti ebbero inizio. La mamma mi chiese cosa desiderassi sapere prima. Io le risposi che volevo sapere tutto. «Caro Aldo, dal giorno che “Lui” ti rapì, con la storia del gelato» (lo abbiamo saputo dal racconto dei tuoi cugini che stavano giocando con te sul mucchio di sabbia in cortile), gli zii si attivarono per scoprire dove ti avesse portato. Si rivolsero al Consolato, alla polizia e ad altri conoscenti importanti del nonno e tutti promisero che si sarebbero dati da fare. Ci dissero che sarebbe stata una questione di giorni e che tutto si sarebbe risolto. Ma così non fu. Noi tutti eravamo disperati. Le ricerche continuarono in ogni direzione, senza esito, per settimane. Grazie alle amicizie del nonno la notizia si era estesa ovunque. I risultati erano scarsi, false segnalazioni della tua possibile presenza condussero gli zii in molti paesini e frazioni e sempre ritornavano delusi, quando un giorno, mentre stavamo pranzando, venne da noi un povero indio, il quale comunicò di sapere dove tu fossi. Tutti esultammo e gli chiedemmo da chi avesse avuto l’informazione; lui rispose da un suo cugino di nome Ramon, che lavorava per un italiano in una casetta a 40 miglia da noi. Tutti lo ringraziammo e disponemmo che venisse generosamente gratificato. Lui rifiutò i doni e chiese lavoro. Il lavoro garantiva una decorosa sopravvivenza per tutta la sua povera famiglia. Gli zii non esitarono un secondo, disposero che venisse assunto e gli fossero assegnati alloggi per la sua famiglia in una delle nostre proprietà. Sai, avevamo sempre bisogno di gente onesta. L’indio si chinò ripetutamente in segno di ringraziamento e uscì felice come non mai. Indicemmo subito una riunione e organizzammo il modo per venirti a riprendere. Partimmo immediatamente con una macchina, io, lo zio Mario, Nedo e Aimo. Arrivati sul luogo, vedemmo che la casa era completante disabitata». «Eravamo appena partiti», dissi. «Partiti?» mi chiese la mamma. «Sì, mamma. Ma è una storia che ti racconterò più tardi, ora dimmi cosa accadde dopo».

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Gli zii, informandosi presso i vicini, seppero che “Lui” era partito con te, a bordo del motorino, alcune ore prima. Fummo indecisi se aspettare a oltranza o ritornare la mattina successiva. Decidemmo di ritornare il giorno dopo. Tornati di buon’ora, sbirciando dal cancello, vedemmo il motorino. Bussammo e suonammo ripetutamente prima che “Lui” si affacciasse». Mentre la mamma mi descriveva ciò che accadde, io rivivevo il momento (fu quando venni rinchiuso nel cesso in cortile dietro la casa). La mamma continuò il suo racconto: «Volevamo entrare e “Lui” ce lo impediva, volevo vederti, ma lui ci rispose che il giorno prima ti aveva portato a casa di certe persone, le quali erano adatte a prendersi cura di te, avendo lui molto lavoro. Quando gli abbiamo chiesto dove ti avesse portato, si è messo a ridere. Si era già preparato per una nostra eventuale visita. Tuo padre ci propose una soluzione». «Quale?» chiesi, ansioso di sapere. «Voleva un incontro con lo zio Nedo, per fargli delle proposte. Confidando nelle straordinarie capacità dello zio, accettammo, pensando che sarebbero giunti a una soluzione buona per noi. Ripartimmo in macchina verso casa, mentre lui ci seguiva con il motorino. Arrivati a casa, l’incontro ebbe luogo nell’ufficio del nonno. Rimasero soli per ore e ore, tanto che lo zio chiese che venisse servito il pranzo per loro due nello studio per non interrompere le trattative. Nel tardo pomeriggio lui se ne andò. Tutti noi ci precipitammo nell’ufficio per sapere di te. Lo zio non appariva soddisfatto anzi, sembrava perplesso. «Per favore», chiedemmo noi tutti, «informaci». Lo zio guardava verso il soffitto del suo studio e disse: «Mi ha promesso un frutto che forse diventerà maturo tardivamente. Dobbiamo aspettare 72 ore». Si alzò, andò nella sua camera e si cambiò. Scese, fece preparare Susanna e uscì. Tornò per cena senza proferir parola. La cena avvenne in un silenzio totale». Mentre rivivevo quei momenti, pensavo che noi eravamo in viaggio verso il porto. Quindi aveva recitato una parte solo con lo scopo di guadagnare tempo e coprire una fuga che aveva già organizzato? Sì! Così è stato e così avvenne, purtroppo. La mamma proseguì: «Trascorse le 72 ore e non avendo ricevuta notizie, ci recammo all’abitazione e costatammo che di voi non c’erano più tracce, il solito vicino ci disse che qualcuno era partito durante la notte. Iniziammo ulteriori ricerche e scoprimmo che si erano imbarcate per l’Italia due persone a nome Butteri (cambiò nome per deviare le ricerche). I sospetti aumentarono per divenire successivamente una triste realtà. Passarono settimane di enormi indecisioni. Contatti presi con il paese d’origine ci dicevano che suo padre, tuo nonno, aveva venduto i terreni e si era trasferito al nord. Passarono mesi e ci vollero molte telefonate e lettere con le varie autorità. Arrivare a questo indirizzo non fu facile. Iniziammo a scriverci e “Lui” cominciò a proporre ricatti economici alla Famiglia Ferrari, la quale voleva certezze che lui non era disposto a concedere. La questione durò mesi, apparentemente senza esiti. Poi un giorno la tragica notizia. Arrivò a casa nostra la polizia locale recapitando un fonogramma proveniente dalla stazione dei Carabinieri di Vimercate. Testo: “Aldo morente Ospedale di Vimercate!”. Presi tuo fratello e partii, eccomi... capisci ora, perché ti chiedevamo come stavi?». «Mamma cara, non ho parole... Come farai a condividere giorno dopo giorno la vita con un uomo che ha fatto tutto quello che ha fatto?»

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«Caro Aldo, prima di tutto io sono una “madre” e fare la madre è il mio compito primario. Voi siete la ragione principale della mia vita, qualsiasi sia il prezzo da pagare». L’abbracciai, la baciai e le dissi: «Mamma ti voglio bene, tanto bene». Come avrei potuto, per il resto della mia vita, guardare in viso mio padre? Come avrei potuto salutarlo? Come chiamarlo ancora padre? Come condividere la stessa casa? Cosa rispondere, quando mi avrebbe rivolto la parola, se avevo rappresentato per lui motivo di baratto prima e ricatto dopo? Non è stato facile... anzi. Rientrammo mestamente e silenziosamente verso casa, mano nella mano, Lilly giocosa correva intorno a noi. Lei non sapeva e mostrava tutta la sua gioia di vivere. Se il mondo intero mi fosse crollato addosso, forse non mi avrebbe fatto così male. Era il giorno delle “grandi domande” e non persi l’opportunità di farmi del male, chiedendo: «Mamma, perchè lo hai sposato?» «Caro Aldo, la spiegazione non è semplice, ne riparleremo un giorno quando sarai più grande, ma in sintesi andò così. Lo incontrai un giorno vestito da militare in compagnia di alcuni suoi compagni, mi corteggiò, come non aveva mai fatto nessuno. Vedi, la tua mamma non è bella», così dicendo si toccò il viso. Si riferiva al naso deforme, causato da una caduta da un carro agricolo durante l’infanzia. «Non sono robusta, quindi non sono adatta ai duri lavori dei campi. La caduta mi ha provocato lesioni alla spina dorsale e non solo... Poi, sono piccola. Non ho studiato. Non ho un bel corpo. Lui era stato rifiutato dalla sua famiglia per il pessimo carattere... pensai che tra due disgraziati potesse nascere un affetto sincero e duraturo. Quel pomeriggio lui abusò di me e io lasciai fare, nacque Roberto. Ci sposammo, immediatamente e frettolosamente contro il parere di tutti. Avevo fiducia in una nuova vita ma fu fin dal primo giorno dura e difficile. Più difficile fu la sera nella quale mi confessò che quello che aveva fatto l’aveva fatto per vincere una scommessa tra commilitoni. Speravo, come molte donne fanno, che il tempo migliorasse le cose, ma fu un peccato di presunzione che ho pagato a caro prezzo. Poi arrivasti tu e riaccendesti la mia voglia di vivere, poi l’acqua e acqua ancora... quella delle inondazioni... il resto lo conosci. Perché continuare a vivere se non con voi e per voi? A lui ci penserà Dio». Se fossi stato un toro ferito nell’arena da mille “banderillas”, queste verità sarebbero bastate a farmi stramazzare al suolo per sempre. Apprezzai la sincerità e il coraggio di mia madre e l’AMAI da quel giorno e, per il resto della sua tormentata vita, sempre di PIÙ! Immensamente... Non avevo mai simpatizzato per “Lui” anzi, avevo sempre percepito una latente ostilità. Da quel giorno provai “pietà” per lui. Forse avrebbe pagato alla vita i suoi misfatti. Fu uno dei più lunghi e sofferti pomeriggi della mia vita. Arrivammo vicino a casa quasi a ora di cena. Le lacrime si erano esaurite, le domande no. «Mamma posso farti un’altra domanda?» «Sì, certo, tutte quelle che vuoi tesoro». «Roberto sa quello che oggi hai raccontato a me?».

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«No, Roberto è diverso da te ed è bene che non sappia più di tanto». «Perché io sì? Mamma perché io?» Seguì un silenzio infinito, poi disse: «Caro Aldo, tu sei predisposto per continuare un lavoro... “un Sogno” che un giorno comprenderai meglio!». Non capivo, ma avevo fiducia in lei... poi un ricordo riaffiorò, mi sembrarono per un attimo parole già udite e non capite... Forse troppe cose si stavano accavallando nella mia testa in così poco tempo. Il sole stava andando a riposare, era gigantesco, rosso cupo, il cielo terso, la natura pulsava tutt’intorno e mi sembrò di udire un grido infinito, “TIENI DURO”! Chi era che urlava così forte? Forse un messaggio? Forse un Sogno? Rientrammo in casa, stranamente nessuno ci chiese dove avessimo trascorso l’intero pomeriggio. Roberto, che aveva sempre parlato pochissimo, stava conversando con la nonna. Cenammo e con l’animo in subbuglio andai a letto. Roberto mi raggiunse pochi minuti dopo e mi chiese cosa ci fossimo detti durante tutto il pomeriggio. Per non addentrarmi in cose che la mamma non voleva che Roberto sapesse, mi tenni sul generale e gli risposi con un vago “un po’ di tutto”. Ci augurammo la buonanotte, ripromettendoci per il domani una giornata fantastica. Così fu. Facemmo colazione con il nonno, lavori di stalla e poi nei campi. A metà mattinata apparve la mamma con un cesto di vimini, era la merenda mattutina. Ci sedemmo in una zona ombreggiata e mangiammo pane, salame e una frittata con cipolle. Poi sorprendendo Roberto e la mamma, la quale si era seduta con noi, bevvi un sorso di buon vino rosso dal fiasco del nonno. «Ma Aldo» chiesero entrambi «bevi vino?» «Sì! Il nonno mi ha insegnato che, in piccole dosi quando si mangia, fa meglio di una medicina. Anzi è la giusta medicina per restare in ottima salute». Entrambi guardarono il nonno, il quale scuoteva il capo in segno affermativo. Finimmo la merenda e riprendemmo il nostro lavoro. Arrivò l’ora della campanella che segnalava che il pranzo sarebbe stato pronto in 15 minuti. Rientrammo tutti in allegria, con noi anche Lilly. Pranzammo, riposammo e poi riprendemmo la solita vita. Con Roberto, arrivarono anche momenti di svago e di gioco. Corse con Mario, piccole gite intorno a casa con le bici, pallone e altri giochi. Qualche volta di domenica veniva Giuseppe, il mio compagno di banco, e facevamo una gran festa. La proprietà del nonno Vittorio terminava sul lato est con un piccolo fiume, nel quale io andavo a fare i tuffi, avendo imparato a nuotare. Roberto entrò in acqua solo dopo quattro settimane. Io non avevo paura dell’acqua, ero nato sull’acqua, anche se essa aveva distrutto due delle nostre dimore. Avevo attraversato due volte l’oceano e avevo compreso che con le dovute attenzioni e il massimo rispetto delle correnti era piacevole rinfrescarsi in esse. La mamma era contraria. Fu per questo motivo e per non preoccuparla che seppe raramente dei nostri bagni al fiume. Con la presenza di Roberto, le mie lezioni con il nonno si ridussero un po’. Aumentai l’impegno nello svolgimento dei compiti per le vacanze, anche con i validi suggerimenti di mio fratello. Scrivevo ormai bene e leggevo con entusiasmo. Mi ero ulteriormente documentato sui programmi del secondo anno scolastico e alla fine dell’estate ne avevo ben preso coscienza e conoscenza. Questo ottimo progresso mi indusse, un giorno a pranzo, a chiedere alla mamma e a Roberto se fosse possibile passare direttamente al terzo anno scolastico. Mi risposero di no e che in ogni caso era meglio progredire lentamente. Non ero del tutto d’accordo, ma... terminate le vacanze, iniziammo io la seconda classe e Roberto la quinta.

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L’estate trascorse con momenti di estrema tensione, causati come sempre da atteggiamenti aggressivi e litigi provocati da “Lui” nei riguardi di tutti noi. L’apice di tali manifestazioni negative avveniva la domenica, giorno nel quale non si recava al lavoro. La nonna brontolava, la mamma piangeva, il nonno saltuariamente imprecava per poi ritornare nei suoi campi, carico di tensioni, noi subivamo... Con la fine dell’estate, il filo con lenzuola che divideva la nostra stanza da letto, venne spostato al piano terra, letti compresi. Fu così che io e Roberto finimmo per dormire in una parte del salone da pranzo. Questo consentì a “Lui” infinite discussioni e litigi notturni. Ci domandavamo cosa fare. «Nonno, nonna, cosa possiamo fare?» «Mamma, perché non torniamo noi tre dai nonni in Brasile?» La mamma si coprì con le mani il volto e una sofferenza infinita la scosse. La vita continuava, peggiorando gradualmente. Spesso ci portavamo a scuola le nostre angosce e le nostre tensioni e questo non favoriva né l’attenzione né l’apprendimento, ciò nonostante riportavamo dei buoni voti. E venne Natale. La cosa bella fu che scrivemmo delle bellissime lettere correlate da disegni della nostra campagna, degli animali e di Mario, a tutti gli zii. La cosa brutta, tutto il resto. Non trascorreva giorno che non ci fosse motivo di lite o di disgusto. Non vedevamo l’ora di riprendere la scuola.

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I mattoni nel fiume

I mesi passavano e le cose peggioravano. La mamma e la nonna fecero tantissimi dolci per noi, ma non furono sufficienti ad affogare l’amarezza dell’atmosfera tetra e litigiosa che “Lui” provocava. Ripresero le scuole e noi la solita vita. I rapporti degeneravano, giorno dopo giorno, quando il nonno prese la decisione di cedere un pezzo di terra a “Lui”, perché si facesse una sua casa e se ne andasse dalla loro. Tale proposta lo galvanizzò. Sembrava un bambino che avesse ricevuto un giocattolo nuovo. A tavola sentenziò che sarebbe stata dura ma ce l’avremmo fatta! Divenne improvvisamente capomastro, direttore e coordinatore dei grandi lavori. Qualche volta tornava di pomeriggio e mobilitava tutti, chi gli doveva portare i metri, chi vanghe, chi altro... eravamo diventati tutti piccoli soldatini, anzi reclute. Incaricò un geometra della progettazione, contemporaneamente stava trattando con vari muratori per individuare chi fosse disponibile a effettuare i lavori in economia durante i sabati e le domeniche. Li trovò! annunciato, ancora più dura. Devo ammettere che in quel duro periodo (durò tre anni), la litigiosità si ridusse. L’eccitazione degli eventi aveva modificato i suoi comportamenti, che da rustici e autoritari divennero richieste di collaborazione. I miei corsi educativi con il nonno cessarono forzatamente. I nostri nuovi compiti pomeridiani, oltre al sabato e alla domenica, erano:

iniziare lo scavo per le fondamenta portare al fiume il materiale rimosso riportare dal fiume sassi estratti dalle acque togliere le erbacce.

Avevamo in dotazione due picconi, due pale, una cariola da muratori, il carro e Mario. I compiti li facevamo dopo cena. “Lui” controllava giornalmente il nostro operato e ci incitava a fare di più indipendentemente da quanto avevamo già fatto. La mamma, di sovente, anzi quasi sempre, nonostante le sue due ernie del disco e altri acciacchi, ci aiutava, sia durante la settimana che durante i fine settimana. Le sue sofferenze erano evidenti, il suo viso ne era il primo testimone. Procedemmo anche a realizzare lo scavo perimetrale dell’area per poi gettare le fondamenta del muro di confine. Ad aumentare le difficoltà e la fatica, fu il sopraggiungere del primo inverno. Pioggia, neve, freddo e ghiaccio non fermavano le nostre quotidiane attività. Quando i muratori arrivarono (di sabato e domenica), le nostre mansioni cambiarono e divennero quelle di preparare in continuazione gli impasti di sabbia e cemento. Preparato il tutto, portavamo il materiale sul luogo ove veniva impiegato e loro provvedevano a metterlo in opera. Un lavoro duro, forse per dei bambini ancor di più! Cercavamo, durante la settimana, di evitare che la mamma si affaticasse, distraendola con piccoli compiti, ma lei voleva starci vicino, arrivavamo anche a scherzare e a sorridere a volte. Se vedere sorridere la mamma era motivo di gioia, vedere Roberto sorridere era da annotare sul quaderno delle eccezioni.

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Passavano i mesi e i lavori, anche se a rilento, proseguivano. Durante l’inverno “Lui” fece installare quattro potenti proiettori, tali da consentire il protrarsi dei lavori fino a tarda serata. I nuovi impegni, la stanchezza fisica, i progetti che stavano prendendo forma, attenuarono ulteriormente il suo stato perpetuo di belligeranza. Era un aspetto positivo, che in cuor nostro speravamo diventasse permanente. Si stava avvicinando la necessità di comprare o trovare i mattoni. Nei nostri andirivieni dal fiume, notammo che molte imprese edili scaricavano in esso detriti di vecchie case demolite. Ci venne un’idea. Perché non estrarre dal fiume la maggior parte dei mattoni interi? Dirlo a tavola ed entusiasmare “Lui”, fu un secondo. Mi rispose: «Bravo Aldo, da domani mattoni!». Seguirono le disposizioni di come, dove, quali, quanti, ecc. Ci fu l’opposizione di mamma, perché la cosa rappresentava anche un pericolo. Gli disse: «Mandi dei bambini in mezzo a un fiume?». «Sì, sì», disse lui, «Non c’è pericolo e poi Aldo sa nuotare, non c’è pericolo». L’operazione consisteva nello scendere nel ripido argine del fiume, munito di una piccola piccozza, individuare i mattoni singoli o rompere dei pezzi di muro interi, estrarli dall’acqua, portarli a riva, ripulirli dai vecchi calcinacci, portarli sull’argine, caricarli sul carro e, grazie all’aiuto di Mario, riportarli a casa e scaricarli secondo le disposizioni del “Capo”. A volte quando dovevo spingermi più al largo, mi legavo una corda intorno ai fianchi e affidavo l’altro capo della fune a Roberto. Ricordo che una volta per gioco Roberto mi mollò e io riuscii ad uscire solo un chilometro a valle. Quando uscii dal fiume mio fratello piangeva e io ridevo come un pazzo. Quel giorno portammo a casa pochi mattoni. Svolgere quel compito aveva un aspetto piacevole per i mesi di giugno, luglio e in parte agosto, ma da settembre in poi l’acqua divenne fredda e i rischi aumentavano per il ridursi graduale delle ore disponibili. Quando eravamo a corto di mattoni, non andavamo a scuola. In ogni caso i lavori proseguivano, la litigiosità diminuiva, anche per lo sfinimento fisico. Dopo due anni e otto mesi la casettina era quasi ultimata. Recuperammo porte e finestre da una scuola materna demolita e altre cose idonee ad arredala. Fu tinteggiata da noi, sia internamente che esternamente. Nonno Vittorio ci regalò alcuni mobili e i letti. E venne il giorno del trasloco. Iniziammo all’alba e poiché la nuova casa distava circa cinquecento metri da quella del nonno e le masserizie da trasferire erano relativamente poche, andando ripetutamente avanti e indietro, finimmo entro la sera. Mario era distrutto, ma essendo un somaro non poteva ribellarsi a quel superlavoro. Mentre io e Roberto, coordinati e aiutati da “Lui”, terminavamo di montare letti e armadio, mamma preparava la cena. Fu stranamente la prima cena senza litigi. Cenammo, conversammo sulle infinite cose che noi avremmo dovuto fare nella settimana e poi, stanchi ma anche un po’ speranzosi, andammo a riposare. La mamma durante il periodo di costruzione della nuova casa si era ripetutamente ammalata. L’aggravarsi era in parte dovuto agli sforzi che si ostinava a compiere e che io e Roberto cercavamo di limitare, visto che era impossibile dissuaderla. Passarono poche settimane in quella quiete che era solo apparente.

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Alle lettere che di tanto in tanto noi spedivamo agli zii in Brasile stranamente non ricevemmo mai risposte. Ci siamo spesso interrogati sui motivi, altrettanto su possibili azioni da intraprendere, senza mai individuare delle soluzioni valide. Solo dopo molti anni venimmo a scoprire che “Lui” aveva provveduto a far bloccare la corrispondenza presso gli uffici postali e che la ritirava a suo piacimento. La mamma non poteva nemmeno fare delle telefonate, che a quei tempi, richiedevano prenotazioni di ore. I genitori, fratelli e sorelle, conoscenti e altri erano contrari ai comportamenti del nostro “Capo”, ma mai nessuno mosse un dito a nostro favore, se non rivolgendoci una commiserazione verbale in coincidenza di situazioni estremamente difficili. Roberto viveva in silenzio e come un automa la sua triste esistenza. Il suo volto era la raffigurazione della tristezza, malinconia e sofferenza che gli maceravano il cuore. Peggio ancora per mamma, la quale somatizzava le disperazioni di Roberto, in aggiunta alle sue e a quella di avere tutti i suoi famigliari lontano eccetto una sorella, la zia Alma (che tutt’oggi vive in un casolare vicino all’argine del fiume Po), all’indifferenza della famiglia di “Lui” e alle sue sofferenze fisiche. Io, reagivo, resistevo, combattevo le mie piccole battaglie. Ero tornato a riflettere, a chiedermi perché. Ero tornato a esercitarmi, per guardare oltre... Ero tornato ai miei corsi con nonno Vittorio. Ero tornato a tentar di vedere con le orecchie. Ero tornato agli insegnamenti di nonno Giovanni. Ero tornato! Terminati i lavori principali intorno a casa, mi trovai un lavoro per il pomeriggio. Avevo otto anni, ma ero cresciuto e fisicamente irrobustito, tanto da apparire di tre o quattro anni più grande. Il mio primo lavoro fu nella bottega di un tappezziere. L’orario era dalle due alle sette e al sabato si doveva provvedere a tutte le pulizie della bottega. In aggiunta bisognava pulire le gabbie di polli e conigli che il tappezziere aveva sul retrobottega, cosa che a nessuno piaceva fare. Mia madre si opponeva, mentre “Lui” era favorevole, anzi, diceva che mi avrebbe fatto bene, così avrei imparato il significato sia del lavoro che dei soldi. Io accettai il lavoro. Lunedì alle ore 14,50 mi presentai al mio primo datore di lavoro dopo mio padre. Apprezzò la mia puntualità e simpatizzammo; anche la signora mi dimostrò simpatia, soprattutto da quando venne a sapere che da quella settimana in poi sarei stato io a pulire le gabbie degli animali, cosa che a lei risultava particolarmente sgradita. Il tappezziere, da me soprannominato “orecchia mozza”, perché gli era stata asportata da un morso di cane in giovane età, era un taciturno, introverso, ma a volte anche simpatico. Aveva tre dipendenti, anche loro un po’ ombrosi. Pensai che ciò fosse dovuto al carattere del titolare, ma con il tempo le cose si misero al meglio. Il mio carattere aperto, sorridente, espansivo, ilare e giocoso modificò l’ambiente. Ero diventato il giocattolo di tutti. L’attività era prevalentemente fondata sulla produzione di materassi o sul loro rifacimento, sulle imbottiture di divani, poltrone di ogni tipo e sedie. Saltuariamente si eseguiva anche il restauro di pezzi antichi. Inevitabilmente, agli inizi mi toccò il lavoro meno gradito agli altri, quello di cardare la lana. Con il passare dei mesi imparai progressivamente molte altre straordinarie cose. I dubbi o le perplessità li risolvevo chiedendo al nonno. Ero contento di ciò che stavo apprendendo. Forse la gente comune non immagina quante difficoltà nasconda un lavoro che non si conosce e che apparentemente sembra semplice.

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Ad esempio: quanti chiodi servono per tappezzare una poltrona? E un cassone con molle matrimoniale o francese? Sembra semplice ma non lo è. E venne il sabato, giorno indimenticabile. Il mio primo salario settimanale. Prima della paga, “orecchia mozza” venne a controllare l’esecuzione delle pulizie nelle gabbie (forse non erano state pulite da settimane); quando vide che le gabbie erano tornate come nuove rimase sorpreso, così pure gli animali, i quali anziché camminare, saltavano (dalla gioia, io credo). Si complimentò, poi chiamò la sua signora e le disse: «Vedi come ha pulito Aldo?» Anche lei mi ringraziò per l’ottimo lavoro. Rientrando “orecchia mozza” aggiunse: «Sei un bravo ragazzo e t’insegnerò tutti i miei segreti». Poi, preso il portafoglio, mi diede £ 470 per la paga settimanale + £ 30 di mancia. Trenta ore di lavoro = £ 500, il mio primo stipendio settimanale. Dopo aver ringraziato misi i soldi all’interno del fazzoletto per paura di perderli e corsi a casa. Percorsi la distanza di circa 1.300 metri in pochi minuti. Giunto a casa, misi orgogliosamente il mio guadagno sul tavolo da cucina, alla presenza di tutti, gridando un «Fantastico, ho guadagnato anch’io!». Mamma si commosse e anche Roberto mi disse “Bravo”, “Lui” commentò così: «È un po’ poco, ma per cominciare va bene». Prese i soldi e li fece sparire nel suo portafoglio. Mangiai e andai a dormire; il giorno successivo era domenica e avevamo lavori di muratura da portare avanti. Tanta era la contentezza del mio nuovo lavoro, quanto il dispiacere di non stare più con Roberto, con il quale dividevamo la strada al mattino e poi ci rivedevamo la sera. Non avendo il tempo per tornare a casa per il pranzo mi portavo un fagottello con cose da mangiare per strada e andavo direttamente da “orecchia mozza”. Dopo tre mesi il mio stipendio settimanale era salito a £ 700. A scuola le cose andavano benissimo, al lavoro pure, anche i lavori intorno alla casa proseguivano positivamente. “Lui” si lamentava sempre, ma ormai era tanta l’abitudine che nessuno rimaneva sorpreso. Anzi ci sorprendevamo quando si lamentava poco. Passarono altri mesi e la salute della mamma manifestava peggioramenti. Venimmo a sapere che doveva recarsi in una clinica specialistica di Bologna per dei controlli accurati. “Lui” e la mamma partirono all’alba e tornarono a sera inoltrata. Solo alcuni giorni dopo dalla mamma venimmo a scoprire che le era stata diagnosticata un’“ernia discale” suscettibile di intervento chirurgico. Passarono mesi tristi e scelsero di ingessare la mamma dal collo all’utero. Un giorno feci una scoperta scioccante. Accarezzandola, passai la mano sul gesso e mi accorsi che sulla pancia il gesso non era presente. Avevano creato un “buco” di circa 35 centimetri di diametro. Sorpreso le chiesi spiegazioni e lei mi rispose che aspettava un “fratellino”. La cosa mi sconvolse, prima per il piacere di avere un altro fratellino, secondo pensando alle aggravanti della sua situazione fisica già precaria. La pancia sarebbe cresciuta grazie al “buco” creato nel gesso. Così fu! Portò a compimento una difficilissima gravidanza. E nacque Marco. Designata ad assistere il parto anche questa volta fu un’altra sorella di mio padre, anch’essa levatrice. Non ci furono impedimenti alluvionali né di altra natura e tutto si svolse nel più naturale dei modi, gesso a parte. La nascita di Marco comportò tutte le varianti che in una famiglia sorgono in seguito a tale evento. Notti insonni, modifiche di abitudini, un bambolotto da assistere con amore.

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Mentre tale evento cambiò la nostra vita, sembrava che non avesse cambiato affatto la sua, quella di “Lui”. Esercitava costantemente e indifferentemente la sua arroganza e le sue lamentele su ogni cosa. Terminata la casa e coltivato l’orto circostante, gli venne in mente di costruire un ripostiglio per poter allevare galline, anatre e conigli per uso domestico. Ricominciammo ciò che avevamo appena terminato, ormai eravamo pratici sul da farsi. Scavi, mattoni dal fiume, muratori di sabato e domenica fino all’ultimazione del ripostiglio. La costruzione durò mesi. Quando venne terminata si istallarono le gabbie per gli animali. E chi doveva loro provvedere? Noi naturalmente! Forte dell’esperienza accumulata da “orecchia mozza” mi occupai anche di questo. Iniziava a scarseggiare il tempo utile. Al mattino la scuola. Al pomeriggio il lavoro. Di sera o di domenica bisognava provvedere agli animali sia per le pulizie che per procurare l’erba ai conigli che doveva essere raccolta o nei prati circostanti oppure nei fossi delle strade vicine. All’inizio avevo preso la cosa come se fosse un gioco e non mi pesava, poi venne l’autunno e l’inverno e l’impegno divenne meno giocoso e meno piacevole, ma ero obbligato a svolgerlo. E passò un altro anno, più pesante del solito. Vedevo raramente il nonno Vittorio e non ho mai ricevuto notizie dai parenti in Brasile. I fratelli di “Lui” si tenevano a debita distanza e se incidentalmente qualcuno appariva di domenica, sapevamo già come sarebbe andata a finire. Purtroppo male. Ma se i nonni paterni e i suoi parenti diretti mantenevano comprensibilmente le debite distanze, quello che non capivo era il totale silenzio di parenti materni. Il suo divieto impartito all’ufficio postale di recapitarci ogni tipo di corrispondenza era tutt’ora in vigore. Marco cresceva a vista d’occhio. Bellissimo, sano e giulivo. Beato lui. Spesso pensandolo, sognavo che qualcosa potesse cambiare prima della sua crescita. Il mio settimanale era cresciuto fino a £ 1.000 e poi a £ 1.500. Avevo imparato molto sia a scuola sia al lavoro. Ciò che non avevo ancora capito era il motivo della nostra vita amara. Le discussioni sterili e cattive erano riprese incessantemente per qualsivoglia motivo. La mamma subiva e se di tanto in tanto accennava a timidi tentativi di contrarietà, altro non otteneva che il peggioramento dello status quo. Un giorno iniziammo a ribellarci congiuntamente. “Lui”, sorpreso di questa novità, manifestò una certa esitazione. Forse aveva preventivato che il suo arrogante e autoritario sistema un giorno avrebbe vacillato. Probabilmente non si attendeva che ciò potesse accadere così presto. Il fatto che manifestassimo apertamente il nostro disappunto lo disorientò e da quel giorno qualcosa cambiò. Le oppressioni diminuirono, così pure l’arroganza e i maltrattamenti. Aveva traslocato le sue pessime manifestazioni in camera da letto, di notte. Dovevamo alzarci, io e Roberto, e affacciarci in camera cercando di imporre la fine delle discussioni. A volte avevamo successo. A volte continuava a “brontolare” per ore a bassa voce, fino all’esaurimento fisico. Uscendo alle 5,30 di ogni mattina doveva anche “Lui” dormire qualche ora.

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Il potere della determinazione

Erano già trascorsi quasi cinque anni dal nostro rientro dal Brasile, erano accadute tantissime cose, poche belle e tutte le altre pessime. Improvvisamente, nel mio corpo si verificò un’esplosione ormonale sconvolgente, accompagnata da stati febbrili “da cavallo”, sudorazioni, palpitazione e una crescita fisica anomala. Apparvero inspiegabilmente escrescenze più o meno piccole ma estese tutto il corpo. Fui sottoposto a ripetute visite, prelievi e altro... ma ottennero pochi risultati. Finii per essere ricoverato in una clinica di Milano dove rimasi per mesi. Trasfusioni di sangue giornaliere, poi asportazioni chirurgiche quasi quotidiane, bombardamenti di radiazioni di cui non ho mai né saputo né voluto sapere. Per mesi un’alimentazione prevalentemente costituita da carne di cavallo quasi cruda e poco altro. Gli interventi di asportazione avvenivano quasi sempre di pomeriggio, cicatrizzante nitrato d’argento. Per lenire il bruciore costante passavo la sera e parte della notte nudo, all’aria aperta, nei giardini della clinica in cerca di un disperato refrigerante naturale, il freddo della notte, in attesa del pomeriggio successivo, ben consapevole che avrei dovuto affrontare un’altra sofferenza. Non fu facile. Avendo capito che volente o nolente avrei dovuto soggiacere, iniziai a mettere in atto una tecnica che il nonno Giovanni mi aveva accennato: quella di aumentare la resistenza fisica al dolore mediante la forza di volontà. Facile a dirsi, garantisco che non è altrettanto facile ad attuarsi. Il segreto? Non c’è. In poche parole consiste nell’autoconvinzione che il male non fa male. Che tu sei più forte del male. Che puoi benissimo resistere. Che non fa male. Che non fa male. Non fa male. Come tutti gli esercizi mentali straordinariamente utili, bisogna partire da un presupposto imprescindibile, “CREDERCI”! QUESTO ESERCIZIO CHE ADOTTAI FORZATAMENTE, FU L’INIZIO DEL CAMBIAMENTO DELLA MIA VITA. VOLERE, CREDERCI, VINCERE! Nei giorni successivi mi sottoposi stoicamente alle mie torture quotidiane sorprendendo tutti, dalle infermiere al medico chirurgo, anche me stesso. Funzionava! Il ripetermi ininterrottamente “non fa male, non fa male, non fa male...” iniziando a volte un’ora prima dell’intervento e continuando fino a un’ora dopo, aveva quasi un effetto narcotizzante. Gli interventi al viso erano i più dolorosi, per questi avevo adottato un’altra strategia. Entravo in ambulatorio con il nonno, la mia guida, il mio maestro. Con lui vicino non potevo sentire dolore, guardavo oltre il dolore, guardavo verso la guarigione. Mangiavo carne cruda, bevevo sangue, e quello che avevo in vena a volte “lo pulivano”, così mi dicevano. Radiazioni, trasfusioni, asportazioni, durarono sei mesi circa, ma mi sembrò un’eternità. Durante i mesi del mio ricovero a volte vedevo mia madre, la domenica. Per giungere fino alla clinica doveva fare ore di corriera e cambiare più mezzi e non essendo pratica la cosa era per lei complicata. “Lui” non venne mai a trovarmi, aveva da fare a casa, così diceva.

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Vedevo la mamma al di là di un vetro perché ero in un reparto isolato per malattie infettive. Se mi guardavo allo specchio mi facevo paura da solo, così compresi perché la mamma piangeva vedendomi. Credo che i vetri fossero infrangibili, altrimenti sarebbero scoppiati dall’amore e dai baci che lei mi inviava e che io contraccambiavo. Ci parlavamo attraverso un microfono. Per parlare a bassa voce stavamo appiccicati al vetro, tanto da sentire il battito reciproco dei nostri cuori. Tenni duro, dovevo farcela, non faceva male, le mie sofferenze non dovevano trapelare... sorridevo alla mia mamma e le facevo dei grandi gesti che volevano farle credere che tutto andava bene. Non le ho mai chiesto se lei ci avesse creduto. Un giorno uscii da quell’inferno, era passato tanto tempo. Avevo subito una trasformazione fisica di crescita improvvisa e inaspettata. In meno di un anno ero cresciuto di 60 centimetri. Ero un ragazzo con un corpo da adulto, atleticamente strutturato e altezza di 1,84 metri. Ciò mi offriva vantaggi e svantaggi, ma ignorando i secondi. Rimanevano solo i vantaggi che esaltavo, traendone enormi benefici. Dovetti fare dei salti mortali per non perdere l’anno scolastico e per potere rientrare in quello successivo, quinto e ultimo delle scuole elementari. Ce la feci e fui brillantemente promosso. Contemporaneamente Roberto terminava la terza media e fu mandato immediatamente a lavorare. Iniziò le sue esperienze lavorative in un’officina meccanica. Per andare al lavoro utilizzava una vecchia bicicletta dotata di portapacchi che “orecchia mozza” mi aveva regalato in occasione di lavori particolari che avevo eseguito per lui. Mio fratello partiva ogni mattina con una borsa contenente primo, secondo e un frutto, il tutto chiuso in contenitori di alluminio. Sul posto di lavoro era amato e stimato. Infaticabile lavoratore, disponibile, generoso e muto. Rara era l’occasione di sentire la sua voce, rispondeva a gesti e ti baciava con gli occhi. La mamma gli prestava particolari attenzioni e il giorno che le chiesi spiegazioni, lei mi rispose accarezzandomi: «Vedi Aldo tuo fratello è più debole e fragile rispetto a te, dobbiamo aiutarlo». Le attenzioni raddoppiarono, aveva ragione la mamma. Ciò che io avevo iniziato a combattere e respingere, mi riferisco alle imposizioni, discussioni e folli atteggiamenti di “Lui”, Roberto li subiva e ciò gli provocava dolore che somatizzava e si rinchiudeva sofferente in un ermetico mutismo. Il suo giovane volto era già una maschera di sofferenza. Dovetti scegliere il mio nuovo indirizzo scolastico e scelsi le scuole di avviamento professionale; ero stato informato che in questo istituto si praticavano esperienze in laboratori di lavoro. La cosa mi attirò e aderii. Mia madre mi disse: «Aldo scegli tu»; “Lui” invece non disse nulla, probabilmente gl’interessava poco. Persi il lavoro da “orecchia mozza”, in virtù del fatto che la scuola era a tempo pieno e le lezioni terminavano alle 17 circa quasi tutti i giorni. La scuola era a circa 1,5 chilometri da casa nostra, quindi dovevo fare una bella camminata al mattino e altrettanto la sera, gradevole nei mesi primaverili ed estivi, meno d’autunno e ancor meno d’inverno. Rispolverai gl’insegnamenti alchemici della mia guida, uno tra i tanti era: «Caro Aldo ricordati che in ogni difficoltà c’è il seme di un’opportunità, basta guardare oltre». Infatti trasformavo il tempo necessario per recarmi a scuola, in opportunità di riflessioni, memorizzazioni, analisi di problematiche da affrontare, e molte altre cose ottenendo così enormi vantaggi....

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IMPARARE E NON DIMENTICARE... mantenendo costantemente la mente allenata, un muscolo dalle straordinarie capacità, a volte mal utilizzato. Io studiavo, Roberto lavorava, Marco cresceva a vista d’occhio, camminava ormai da tempo. I litigi famigliari erano in un costante crescendo. La mamma disperatamente cercava di smussare ogni angolo possibile, inutilmente. La mia intolleranza ai comportamenti “assurdi” di mio padre era al limite e venne il giorno che lo presi per il bavero della giacca e gli dissi:«Adesso basta!». Da leone a coniglio, mise la coda tra le gambe e andò a brontolare fuori casa. Questa mia presa di posizione categorica lasciò sorpresi e stupiti sia Roberto che la mamma. Nessuno disse una parola, ma i loro sguardi erano esultanti di gioia. Da quel giorno e per il resto della nostra vita la mia presenza ha fatto la differenza. Riflettei molto su questo aspetto e mi domandavo infiniti perché... Perché ero il più robusto della famiglia? Perché ero il più alto della famiglia? Perché ero il più forte della famiglia? «La vera ragione», mi risposi un giorno «è perché sono DETERMINATO!». CAPII CHE LA DETERMINAZIONE CONFERISCE UN POTERE SOTTILE. Il potere dei pochi determinati in una foresta infinita di INDETERMINATI. La nostra vita famigliare subì un radicale cambiamento: meno liti, meno discussioni, meno tensioni, soprattutto in mia presenza. “Lui” brontolava di notte oppure durante le mie assenze. La domenica andavo a portare le sacche da golf in spalla a seguito dei “Signori” giocatori, rimediavo più mance che paghe. Il ricavato lo versavo in casa, come feci quando ricevetti il mio primo stipendio settimanale. I contanti sul tavolo di fronte al suo posto. Lui non commentava, intascava e brontolando diceva che aveva tante spese da affrontare e che anche questi miei guadagni extra erano utili. Non ho mai ricevuto una mancia da mio padre, mai! Mi confortava il pensiero che i miei guadagni potevano essere utili alla famiglia. Passavano i mesi, passavano situazioni scabrose, passavano sofferenze ripetute, passavano momenti d’angoscia, passava la vita. In quel periodo “lui” aveva intrapreso a recitare durante i pranzi ma soprattutto a cena, la poesia sull’importanza di trovarmi un posto di lavoro fisso che garantisse un guadagno sicuro, che nelle fabbriche c’era anche la mensa, quindi un pasto certo, la mutua, le marchette per la vecchiaia, e che se fossi stato molto intraprendente e un bravo lavoratore forse verso i 45/50 anni avrei potuto aspirare a divenire un capo reparto o vice capo reparto, ecc. ecc. Discorsi miranti a raggiungere la sicurezza tramite il lavoro dipendente e la sudditanza verso gli altri se questi erano persone colte o ricche. Tutte queste cose e altre simili per repertorio, venivano ripetute alla nausea. Fu la mia salvezza!

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Il giorno del grande cambiamento

Un pomeriggio mentre andavo per fossi a raccogliere l’erba medica, la preferita dei nostri conigli, mi colse una folgorazione, come se un fulmine avesse attraversato il mio corpo dalla testa ai piedi, procurandomi una vera e propria scossa. Mi guardai attorno. Era una bellissima giornata, cosa fosse stato non so. Guardai il sacco che mi trascinavo appresso ed era quasi pieno, era prestissimo per tornare a casa. Mi sedetti e decisi di prendermi una pausa, ero anche sudato, avevo bisogno di una sosta. Iniziai a guardarmi intorno, ero seduto in un fosso accanto a una strada provinciale a grande scorrimento. Iniziai a scrutare il cielo, era terso, limpido, pulito e infinito. Poi la natura circostante, una distesa infinita di campi e piante di un verde vivace, fiori sparsi un po’ ovunque trasformarono ciò che vedevo in un dipinto celestiale; poi il mio sguardo si posò sugli animali: vidi cavalli, mucche, cani, gatti, uccelli, farfalle e formiche, solo per citarne alcuni. Erano tutti indaffarati, alcuni sotto costrizione, ma i più erano liberi. Era bellissimo. Pensai alla mia aquila, ai pappagalli, al fiume, al mare, alla foresta, stavo sognando? Sulla strada stavano transitando molti automezzi, dalle bici ai motorini ai camion, autobus e auto. Un rombo di motore che conoscevo riattivò la mia attenzione cosciente, stava per sopraggiungere una Ferrari. Rossa sfavillante, fece un sorpasso da brivido sul rettilineo, al suo interno un elegantissimo signore e al suo fianco una ragazza meravigliosa. Poi vidi molti operai con la loro tuta da lavoro, visi mogi e tristi. Gli agricoltori instancabilmente svolgevano il loro duro lavoro come il nonno Vittorio. Non so quanto tempo passò, ma rividi la Ferrari davanti ai miei occhi, la “bellissima” non era più a bordo. Sapevate che queste macchine profumano? Sì! Profumano sfacciatamente... di Ferrari, un profumo inconfondibile. Iniziai a “guardare oltre” e mi chiesi: perché mio padre non fa l’agricoltore e cerca di condizionarmi a diventare per il resto della mia vita una “tuta blu”? Perché? Cosa e chi induce le persone alle loro scelte di vita? Ma le persone scelgono veramente ciò che vogliono? Se scelgono volontariamente, perché quasi tutti si lamentano di ciò che fanno? E ancora: se non sono contenti, perché non cambiano? Cambiare, spesso significa migliorare. Mario non può decidere che soma portare e dove portarla, ma le persone non sono come Mario,vero? Mi ponevo tutte queste domande ad alta voce. Nonno Giovanni diceva: «Pensa intensamente a ciò che più desideri e si avvererà!». Ma le persone sanno cosa vogliono? Forse non lottano per conquistare i loro desideri? Forse non sanno cosa vogliono? Forse non sono determinati? Forse non sono perseveranti? Forse non hanno progetti? Forse non hanno fiducia nelle loro capacità? Forse non hanno fiducia in loro stessi? Forse non sono disposti a pagare il prezzo necessario? Forse rinunciano e si conformano...

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Forse hanno smesso di “SOGNARE”? Forse, peccato... Mi riapparve il nonno, la mia guida. Lui sosteneva che tutto dipende dai nostri pensieri. Che i pensieri sono vibrazioni, che le vibrazioni si associano in modo universale e trasformano la loro potente energia in cose reali. Quindi noi diventiamo ciò che pensiamo? Sì! Fantastico! Fantastico! Fantastico! Quindi anche noi siamo energia? Sì! Quindi possiamo utilizzare la nostra energia per trasformare le situazioni? Sì! Quindi possiamo trasformare le cose? Sì! Quindi possiamo realizzare i nostri desideri? Sì! Quindi noi possiamo... Sì, caro Aldo, sì! Quindi... IO SONO, IO POSSO! Sì! Stavo “guardando oltre”, stavo guardando al mio “nuovo” futuro. «Nonno grazie, eternamente grazie...». Non so quanto rimasi seduto in quel fosso, ma il sole stava scendendo e decisi che era ora di ritornare dai conigli e offrire loro un pasto generoso. Sentivo che qualcosa di nuovo brillava prepotentemente dentro di me, pensavo di essere diventato fosforescente o verde o blu. Corsi in casa e andai a guardarmi allo specchio e vidi un bagliore! Mi pizzicai, mi lavai il viso, poi andai dalla mamma e chiesi: «Mamma guardami e dimmi se vedi qualcosa di nuovo in me». Lei mi osservò dalla testa ai piedi e mi rispose: «Sì, sei splendidamente felice». Credevo d’impazzire. Uscii da casa e mi diressi di corsa dal nonno Vittorio, volavo. Arrivato alla fattoria incontrai la nonna, l’abbracciai e la baciai, era solo apparentemente burbera e questi gesti d’affetto ai quali non era abituata la mettevano in imbarazzo. Trovai il nonno nella stalla, sorpreso ma felice mi guardò, domandandomi quasi preoccupato: «Cosa succede?» «Nonno, nonno, guardami bene e dimmi cosa vedi». Lui si tolse il cappello e si asciugò la fronte, si alzò. Ora con il mio metro e 84 centimetri gli sfioravo la spalla. Tolse dal suo gilet coltello e toscano, ne recise una terza parte che si mise subito in bocca, ripose l’uno e l’altro in tasca e masticando si avvicinò guardandomi dritto negli occhi, poi mise una delle sue spropositate e gigantesche mani sulla mia spalla e finalmente disse (tradotto dall’emiliano): «Vedo un ragazzo che andrà lontano!». CREDEVO D’ IMPAZZIRE... Dalla gioia gli tirai un micidiale cazzotto nello stomaco, mi feci male e lui sorrise. Che avesse capito? Nonno Vittorio era sì un contadino ma anche lui “vedeva” lontano. Uscii dalla stalla e il nonno mi seguì. Saltavo, danzavo, alzavo le mani al cielo e gridavo: «FANTASTICO, sì, FANTASTICO!». Entrambi i nonni mi chiesero cosa mai fosse successo. Non risposi e ripresi la corsa verso casa. La mamma stava dando da mangiare a Marco. Un profumo tutto emiliano invadeva la casa ed era il preludio di una cena coi fiocchi. Arrivò Roberto e, vedendomi sovraeccitato, si incuriosì e chiese alla mamma cosa mi fosse accaduto. Poi iniziai a scherzare con lui, a giocare, a dirgli cose, fiumi di cose e probabilmente nessuna era collegata all’altra, continuai senza fine... a lui faceva particolarmente piacere e sorrideva dolcemente. Com’era bello mio fratello, quando sorrideva sembrava un angelo. Come sorridono gli angeli? Come Roberto!

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Mamma ci chiamò per cena. “Lui” tornava alle 22,30 e quindi non lo incrociavamo quasi mai, anche perché andavamo a letto prima. Il mio entusiasmo era illimitato e contagioso, quindi anche loro iniziarono a sorridere e scherzare, forse non era mai accaduta prima una cosa simile. Inebriati dall’entusiasmo collettivo, vidi mia mamma sorridere, come non accadeva dai tempi del Brasile; ci dicemmo cose mai dette prima, si spalancarono i cuori, le emozioni, i desideri, e in una euforia e gioiosa incontrollata, la mamma portandosi le mani sul grembo ci disse: «Ragazzi sta arrivando un altro fratellino». Esultammo dalla gioia, non avevamo bevuto, eravamo solo felici, semplicemente felici. Io e Roberto ci alzammo e l’abbracciammo, le gridammo che le volevamo bene e lei scoppiò a piangere Marco, che stava nella stanza accanto, si fece sentire... terminammo una delle cene più belle della nostra vita con un budino fatto in casa e della torta di mele. Mentre ci stavamo preparando per la notte, la mamma cancellava le tracce della nostra gioia per evitare ciò che per altre ragioni poi avvenne, la solita discussione. Ma quella sera durò due minuti, il tempo di alzarmi e tirare un cazzotto sul muro seguito da un imperativo: “BASTA”. Quel repentino “suggerimento” ebbe effetti terapeutici per quindici giorni circa. Accarezzai Roberto e gli augurai la buonanotte e lui contraccambiò. Dopo pochi minuti russava, sì, purtroppo russava, ne attribuivano la causa alle adenoidi o altro e a volte era difficile addormentasi, quindi o finiva a cuscinate o bisognava addormentarsi prima di lui. Quella sera non tirai cuscini e passai molte ore a dare VITA al mio SOGNO! Sì, il sogno di una nuova vita. Il giorno successivo era domenica. Di solito mi recavo di buon ora al Golf Club, nel parco di Monza, per svolgere il mio lavoro “di facchino” che mi consentiva a volte di guadagnare bene. Quella domenica andai al parco, non per lavorare, ma per riflettere sulla mia vita. Andai a posizionarmi tra alberi secolari in un punto da cui avevo una perfetta visione del viale d’ingresso al Club. Mi attrezzai con un tavolo, quattro sedie, un quaderno bianco, tre biro e un golfino rosso sulle spalle. Quasi tutti i miliardari portano sempre un golfino rosso sulle spalle. Cominciai a guardare attentamente i primi che arrivavano e iniziai a prendere nota, poi i secondi e poi così via. Alle 14 circa il parcheggio era quasi completo. Alcuni, dopo aver giocato le loro 18 buche e pranzato al Club, ripartivano, altri arrivavano nel pomeriggio alla spicciolata. Altri erano giunti all’ora di pranzo per stare con gli amici. Anch’io avevo pranzato nel parco. Mi ero portato da casa un panino gigante e due arance. Fu nel primo pomeriggio che iniziai a trarre delle conclusioni sulle note prese durante quelle ore. Avevo costatato che:

erano arrivati di buon’ora, sia giocatori anziani che giovanissimi e mamme con bambini piccoli;

tutti erano elegantemente curati e ben vestiti; tutti gli ultra-venticinquenni avevano un titolo universitario: dottore, ingegnere,

avvocato, giudice, professore, ecc... alcuni avevano anche un titolo nobiliare; tutti avevano una tra le più belle autovetture del mondo; la mia passione era la

Ferrari, ma c’erano anche molte altre marche prestigiose; alcuni arrivavano accompagnati dall’autista personale. Ne ho beccati due che si

mangiavano, come me, panini all’ombra delle autovetture, quello che non ho mai capito era l’atteggiamento furtivo, quasi sospettoso di farsi sorprendere, quasi fosse una colpa. Terminato il “panino”, si ricomponevano la giacca, un’aggiustata al cappello e si rimettevano i guanti bianchi, opportunamente tolti per mangiare;

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erano quasi tutti molto sorridenti e reciprocamente affettuosi. Strette di mano, abbracci, baci a tutti, pacche sulle spalle, segnali di gioia e benessere;

sembrava di vivere in un altro mondo; quasi tutti avevano proprietà industriali, cliniche, cattedre, catene di negozi, alcuni

erano costruttori, alcuni nullafacenti perché benestanti, ma in realtà il loro lavoro era di controllare il proprio patrimonio consolidato, quindi anche loro avevano un compito da svolgere;

tutti conversavano amabilmente, nessuno alzava la voce se non in momenti di euforia per un buon risultato ottenuto, e sorridevano quando le loro aspettative non si attuavano, rinviando una rivincita ad altro momento. I perdenti terminavano apostrofando: «Oggi ho perso, ma domani sicuramente vincerò!». Mi piacevano;

erano tutti ricchi, alcuni ricchissimi, sembrava di vivere in un altro mondo. Lo scopo della riflessione era quello di cercare cosa avessero in comune tutte queste e altre migliaia di persone come loro. Dall’osservazione risultò:

avevano un ottimo atteggiamento verso la vita avevano cultura erano fiduciosi sicuri di sé rispettosi del prossimo avevano progetti da raggiungere sapevano dove sarebbero andati avevano un potere interno gioia di vivere carisma e molte altre caratteristiche, ma queste erano le più evidenti e comuni a tutti loro.

Poi, girai pagina e compilai un altro elenco, quello delle persone che avevo frequentato o conosciuto, quelle insoddisfatte, e risultò che:

avevano un atteggiamento negativo non erano colti avevano sfiducia in se stessi e negli altri erano insicuri erano perennemente indecisi trattavano spesso in malomodo gli altri non avevano progetti per il futuro erano insoddisfatti del lavoro che facevano vestivano male abitavano in case in affitto spesso troppo piccole, inadatte non avevano mezzi di trasporto propri, alcuni avevano la bici, i fortunati una moto

più o meno piccola e pochissimi una piccola auto comprata a rate avevano scarsa educazione difficili rapporti sociali manifestavano le loro lagnanze solo in gruppo (scioperi) erano pecore se presi singolarmente, leoni in gruppo λ erano spesso malati lamentarsi era la loro abitudine andavano raramente in vacanza vivevano male un sentimento di eterno scontento albergava nelle loro menti ... anche in questo caso, molte altre pessime abitudini erano a loro comuni.

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AVENDO DECISO DI CAMBIARE VITA NON AVEVO PIÙ DUBBI SUL DA FARSI. Divenni cosciente che dovevo tracciare un percorso a tappe. Tracciai su di un foglio bianco una scala. Alla base scrissi ciò che ero e in cima ciò che avevo deciso di diventare! I gradini intermedi rappresentavo il progresso del mio cambiamento, tra ciò che ero e ciò che avevo deciso di divenire. Sapevo anche che, come gli scalatori tracciano il percorso e stabiliscono dove pianteranno il loro campo base entro sera prima di partire, anch’io dovevo tracciare percorsi e stabilire date. Sapevo che questo era il metodo usato da tutti coloro che avevano raggiunto obiettivi ritenuti dai più irraggiungibili in ogni campo. Ovviamente non tardai a identificare l’obiettivo di ogni gradino e scrivere su di esso la data entro la quale avrei piantato la mia bandierina per gridare al mondo: «Ce l’ho fatta!». Decisi di definire il raggiungimento di ogni obiettivo un SUCCESSO. Quindi il Grande Successo finale altro non era che vivere per “LA PROGRESSIVA REALIZZAZIONE DI VALIDI IDEALI ”, quelli da me decisi. Fantastico! IO SONO, IO POSSO... Tornai lentamente verso casa, ero fiero ed entusiasta delle mie considerazioni e delle mie decisioni. Confidai a mamma e Roberto le mie riflessioni, forse devo aver ecceduto in entusiasmo, poiché iniziarono entrambi a rispondermi: «Va bene Aldo, va bene, fa come credi meglio». C’era nelle loro risposte un alone d’incredulità, d’incomprensione, come se parlassi una lingua diversa, era come se parlassi di “UN SOGNO” che loro credevano irrealizzabile. Benevolmente si sbagliavano.

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La settimana della svolta

Iniziai la settimana migliorando il mio atteggiamento verso tutti. Ho scoperto che l’atteggiamento positivo è catalizzante, contagioso e produce effetti benefici. Appassionato di elettrotecnica, trovai due soluzioni per migliorare il mio livello culturale:

uno dei miei professori di laboratorio era ingegnere in elettronica; quando lo informai riguardo alla mia passione, mi prese sotto la “sua ala” con enorme simpatia e iniziai un percorso formativo extrascolastico. Ero felicissimo, la materia mi appassionava ed ero sempre più coinvolto;

per meglio perseguire il mio obiettivo, trovai presso una ditta locata tra scuola e casa, un’opportunità di lavoro part-time. Il titolare, un famosissimo ingegnere in elettronica, compreso il mio desiderio di apprendere lavorando, mi prese a benvolere come nessuno mai prima. La ditta produceva cablaggi e micromotori per le calcolatrici. Con due maestri così, avanzavo alla velocità della luce. Teoria, pratica, lezioni e poi ancora pratica e teoria.

Passai così tutti i sabati e domeniche a casa o nei laboratori dei miei straordinari maestri. Dopo due anni, terminai le scuole dell’obbligo con ottimi risultati. Obiettivo raggiunto. La preparazione acquisita, le buone conoscenze e l’intermediazione dei miei due maestri mi consentirono, mediante un semplicissimo esame integrativo (fuori dalla norma, mi dissero) di accedere direttamente al quarto anno serale di un prestigioso Istituto per Periti in Elettrotecnica. L’ammissione non fu solo dovuta all’intervento degli ingegneri, ma sostenuta da una preparazione tangibile. Tale preparazione era il frutto di una totale abnegazione, impegno, forza di volontà, determinazione e un desiderio bruciante di raggiungere gli OBIETTIVI, prima dei tempi stabiliti. Ero raggiante di gioia. Cenavo spesso a casa dei miei istruttori, trasformando così un rapporto da insegnante ad allievo in un rapporto amichevole, di reciproca stima. I risultati ottenuti incrementavano questo tipo di rapporto Le sere che trascorrevo a casa erano entusiasmanti, perché occupate a comunicare a mamma e a Roberto le informazioni riguardanti i miei progressi. Ascoltare le loro opinioni favorevoli e spesso incredule mi riempiva di felicità. Spesso quando “Lui” rientrava, io ero intento a risolvere i problemi e i compiti che mi erano stati affidati. Cenava brontolando per poi trasferire il seguito dei suoi “rodimenti” in camera da letto. Pur preso dai miei impegni scolastici, non potevo “non sentire”. A volte intervenivo per porre fine al tormento perpetuo, a volte tolleravo sperando che durasse poco. Dire che era esasperante è dir niente. Una domenica mattina, eccezionalmente, i professori mi avevano concesso una giornata libera. Mi alzai di buon’ora come sempre, accingendomi a svolgere i tanti compiti che mi rimanevano. Ma fu una domenica diversa dal solito. Fu forse un segno del destino? Non so. “Lui” si alzò furioso e iniziò inveendo con tutti e contro tutti. Si arrabbiò con la mamma per insignificanti e futili motivi, poi entrò in camera da letto ove trovò Roberto che dormiva. Erano solo le sei e trenta di una domenica uggiosa. Lanciò fisicamente mio fratello fuori dalla camera, assegnandogli non so quali compiti e mansioni. Poi incontrò me nell’altra stanza. Mi aggredì con parole di fuoco, e io prudentemente non reagii. Poi proseguì esprimendo disprezzo per ciò che stavo facendo, dicendomi che perdevo il mio tempo a studiare e che avrei fatto cosa migliore ad andare al lavoro, che gli

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studi servivano solo a “riempire la testa di cose inutili” e che era lo sport dei “perditempo”, che bisognava guadagnarsi il pasto con il lavoro e non con le idee. Secondo lui i laureati altro non erano che il braccio attraverso il quale sfruttare i lavoratori dipendenti. Disse che non era giusto che lui non avesse quando altri avevano più di lui. Che bisognava togliere a chi aveva molto per distribuirlo a chi aveva meno. Poi, potere operaio, i padroni... e la storia continuò, come sempre, in un fervido livore contro le istituzioni, lo stato, la legge, i dottori... non si salvò nessuno all’infuori di chi era più disgraziato di lui, che pure condannava, perché stupido. Vedendo che non gli prestavo alcuna attenzione, si infuriò maggiormente e oltrepassò il limite quando, rientrando nella stanza, prese alcuni miei libri e li stappò. La mamma intervenne e così pure Roberto. Roberto fu cacciato fuori e la mamma, che era in stato interessante, fu buttata a terra. Aveva superato ogni limite e reagii... Non voglio volutamente parlare della mia reazione, anche perché fu dura, determinata e non facile da comprendere, se non analizzata profondamente in tutti i suoi aspetti psicologici. Ma feci ciò che in quel momento il mio cuore mi disse essere giusto fare. Andai in camera da letto, estrassi una vecchia valigia di cartone dell’epoca, riposi in essa tutti i miei libri e poi la riempii con qualche indumento intimo di prima necessità. Per mantenerla chiusa la legai con una vecchia cintura di cuoio del nonno Vittorio. “Lui” era impossibilitato a muoversi e a parlare. Per la mamma, che capì in un istante ciò che stavo per fare, fu un tuffo al cuore Roberto capì qualche minuto dopo. Seguivano i miei rapidi movimenti con stupore, ma nessuno dei due pronunciò una parola, se non un timido e supplichevole: «Aldo... Aldo caro». Tre minuti dopo ero pronto con la valigia in mano sull’uscio di casa. Ci scambiammo un lungo abbraccio. Seguirono poche parole indimenticabili, mamma disse: «Vai figlio mio, vivi la tua vita almeno tu, curati, studia e fammi sapere di te, se vuoi». Poi corse in casa per uscire un secondo dopo e mettermi in tasca poche monete, che teneva segretamente nascoste in chissà quale buco. A lei era vietato maneggiare danaro. Poi ci fu l’abbraccio di Roberto. Per un attimo pensai che fossimo diventati gemelli siamesi tale fu l’intensità. Poi mi allontanò e, guardandomi fisso negli occhi, con il suo strano sorriso carico di malinconia, disse: «Aldo, ti ammiro, tu hai il coraggio di fare ciò che io sogno da anni e non ho saputo fare. Grande fratello, fammi sapere dei tuoi successi e spero un giorno di poterti raggiungere. Evidentemente il tuo destino è diverso dal mio».

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La nostra realtà sono i sogni

Mi incamminai verso il casello autostradale a mezz’ora da casa. Ero a tre quarti del percorso quando sentii sopraggiungere un inconfondibile rumore di un motorino Motom; mi voltai e vidi “Lui”. Piovviginava, in quel pomeriggio domenicale di tanti anni fa. Si avvicinò e pronunciò una delle sue frasi catastrofiche: «Ti perdono se torni a casa!». Costatando che non gli davo alcuna risposta, insistette, aggiungendo una seconda frase, migliore della precedente, il cui contenuto fu: «Comodo adesso andartene, dopo che ti ho allevato grande e grosso». La terza fu: «Adesso che avresti dovuto lavorare per la famiglia mi abbandoni». La quarta: «Lo sai che ho dei debiti da pagare? E li ho fatti anche per mantenere te...». La quinta e definitiva, costatato che non riceveva risposta, fu: «Vai e impiccati!». Presi l’autostradale in direzione Milano. Capolinea piazza Castello. I miei ricordi mi riportarono indietro di anni quando, rientrando in fuga dal Brasile, arrivammo in quella piazza provenienti da Genova. Dove andare? A casa di chi? Come avrei vissuto? Poi misi la mano in tasca ed estrassi ciò che la mamma frettolosamente mi aveva donato, erano diciotto fogli da mille. Una piccola fortuna. Non avevo pagato l’autobus e mi trovavo in una città di cui avevo solo sentito parlare; stava facendo buio e pensai a Roberto e mamma e a quello che probabilmente stava accadendo... passò del tempo e si fece sera. Non avevo mangiato nulla dalla sera precedente, i negozi erano chiusi e finii in una pizzeria. Non ero mai stato in una pizzeria. Al giovane ragazzo che mi portò da mangiare, chiesi dove avrei potuto dormire a poco prezzo e lui mi diede l’informazione. Mangiai avidamente una “quattro stagioni” e uscii. Dovevo, secondo le indicazioni, prendere il tram numero otto e scendere dopo alcune fermate. Seguii fedelmente le indicazioni del pizzaiolo che mi portarono a una pensione con una bella stella sulla targa che ne evidenziava il nome. Non ebbi esitazioni, entrai e chiesi una singola, estraendo i soldi dalla tasca. Il proprietario vedendo che avevo una valigia, mi chiese: «Per quanti giorni?». Io risposi che mi mandava Gennaro e che forse mi sarei fermato tre giorni, ma preferivo pagare giorno per giorno. Scoprii che Gennaro era il figlio e che lui era il portiere di quella modesta pensione. Felice di sapere che ero stato indirizzato dal figlio, non mi chiese nient’altro, mi porse una chiave, mi disse che la camera era al primo piano e che mi avrebbe anche fatto lo sconto. Ringraziai e salii. Camera numero nove, letto singolo, armadio singolo, una sedia e un piccolo tavolino, bagno in fondo al corridoio. Misi la valigia sul letto, guardai fuori, pioveva. Sotto le finestre passava un tram ogni cinque minuti e anche diverse macchine. Poi guardai meglio e vidi gente, tanta gente che camminava frettolosamente munita di ombrello. Pensai: «Vita da città». Essendo cresciuto in campagna non ero abituato a tanto rumore. Chiusi i battenti interni e il rumore diminuì un po’. Mi guardai intorno, lo squallore di ciò che vedevo e l’esplosione di tutte le emozioni vissute fino a quel momento mi fecero portare le mani al volto e piansi Sì! Piansi a dirotto.

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Poi il fremito si fermò, mi sciacquai il viso con acqua fresca, bevvi abbondantemente, mi guardai allo specchio e vidi “IL MIO SOGNO”. Vedevo ciò che avevo “DECISO” di diventare, ed ero pronto a pagarne il prezzo. Nacque così un ulteriore pilastro delle mie convinzioni sulla realizzazione dei sogni o dei desideri; essi si realizzano solamente quando eleggi un desiderio per volta, ne identifichi il valore, stabilisci la data entro la quale hai deciso di realizzarlo e SEI PRONTO A PAGARNE IL PREZZO. Erano insegnamenti della mia guida. «SOLO ALLORA IL TUO SOGNO DIVENTERÀ RELTÀ!». IO SONO, IO POSSO... Ora il terzo obiettivo era trovare casa e lavoro. Il quarto era il diploma entro due anni. Difficile? No, se sei munito di determinazione e forza di volontà. Dovevo passare all’azione. Avevo deciso che dovevo risolvere i primi due problemi in un tempo massimo di settantadue ore. Scesi e cercai di familiarizzare con il papà di Gennaro. Gli chiesi se conosceva qualcuno che mi poteva offrire lavoro, lui si mise a sorridere e disse: «Se cerchi lavoro, domani fai un giro qui intorno e vedrai che ogni due porte c’è un cartello con offerta di lavoro avrai l’imbarazzo della scelta. Mi sentivo già assunto ed esclamai: «Fantastico!». Mentre lo stavo ringraziando e salutando, lui continuò dicendomi: «Prendi quel giornale e leggilo, è stracolmo d’offerte di lavoro». Stavo tornando nella mia stanzetta, quando mi raggiunse con un ulteriore suggerimento, dicendomi: «Se guardi le inserzioni quando dicono zona Bovisa è qua intorno, oppure tutti i numeri telefonici che iniziano per...» e mi si accese una luce in mente. Chiesi se potevo accomodarmi in un salottino attiguo per leggere subito qualche annuncio e lui mi rispose: «Certo! Se hai bisogno d’altro chiedi, io sono qui». Mi accomodai un attimo, ma subito dopo corsi in camera, aprii la mia valigia, estrassi un libercolo tipo agenda nella quale avevo molte annotazioni. Tra le tante, l’indirizzo di un fratello “colto” di mio padre con il suo numero di telefono. Questo zio lo avevo conosciuto a casa del nonno Vittorio, in quelle domeniche in cui la visita dei parenti comportava inevitabilmente liti e discordia. Con questo zio avevo avuto dei buoni rapporti e si era più volte dichiarato disponibile a ospitarmi. Lui desiderava che io studiassi e che seguissi percorsi diversi da quelli suggeriti da mio padre. Infatti gli rimproverava di non mandarci a studiare ma a lavorare. Concludeva quasi sempre dicendogli: «Non vorrai farli crescere ignoranti come te? Loro sono bravi e devono studiare». Mio padre rispondeva a suo fratello che aveva bisogno di soldi e che avremmo avuto più tardi l’opportunità di studiare. Finivano sempre con parole irripetibili. Per lo zio la conoscenza non aveva prezzo, per nostro padre i soldi erano tutto! Era l’uomo giusto da chiamare subito! Zio Wainer! Probabilmente è la soluzione ai miei problemi. «Lo chiamo... non lo chiamo, lo chiamo! Ma se lo chiamo e poi mi riporta a casa?» Non pioveva più, uscii e raggiunsi una grande piazza, era il capolinea dei tram. Guardai il nome della piazza e lo memorizzai, Piazza Bausan. Bevvi abbondantemente a una fontana collocata davanti a una pizzeria, bevvi di nuovo e girai intorno alla piazza non so per quanto tempo. Riflettevo sulla decisione da prendere, telefonare o non telefonare? Con il passare del tempo la piazza lentamente si svuotò, il traffico si ridusse sensibilmente e a riportami alla realtà fu quel classico suono o rumore che non saprei definire ma che tutti i tram usano per le segnalazioni acustiche di pericolo, per la sosta o per annunciare la partenza. Essendo in un capolinea questo accadeva ripetutamente.

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Fu mentre fissavo l’acqua della fontanella che la mia guida apparve... e con essa gli insegnamenti indelebili. Decisi di chiamare. Sarebbe stata certamente una buona cosa. Tornai alla pensione e chiesi di poter telefonare. Il portiere mi indicò la cabina telefonica. Entrai, composi il numero trattenendo il respiro, squillava... al terzo squillo mi rispose la zia Italia, una robusta e simpaticissima napoletana. Sorpresa di sentirmi, mi chiese subito se fosse accaduto qualcosa di grave a casa. La tranquillizzai e chiesi dello zio o di mio cugino Vittorio, lei rispose che erano andati a teatro e che sarebbero tornati molto tardi. La zia, scaltra, sospettava che qualcosa non andasse e mi chiese il motivo del mio desiderio di parlare con zio. Riflettei rapidamente e le risposi che cercavo da lui consigli relativi allo studio e a prospettive di lavoro. «Certo» mi rispose «lo sai che lo zio ti vuole bene. Se lo vuoi sentire o incontrare domani mattina telefona a questo numero... oppure, raggiungili dove lavora con tuo cugino Vittorio, segnati l’indirizzo». Ero preparato con carta e penna; scrissi l’indirizzo della ditta, poi sobbalzai quando lei mi specificò che la ditta stava in zona Bovisa. Gridai: «Fantastico, conosco la zona». Mi specificò l’ora, come dovevo fare per giungere alla Bovisa, mi chiese di mamma e molte altre cose... concluse dicendo che il giorno dopo mi aspettava a pranzo. Ringraziai ripetutamente e volai fuori dalla cabina telefonica. Uscii nuovamente in strada per condividere con le stelle e il cielo infinito l’immensità della mia gioia. Guardando verso il cielo, socchiusi gli occhi e dissi ad alta voce: «Grazie nonno, eternamente grazie, seguirò i tuoi insegnamenti, sempre». Rientrai e chiesi un bicchiere di latte caldo e una pasta. Il papà di Gennaro, che si chiamava Antonio, aveva notato il mio entusiasmo e dopo un po’ di titubanza sorridendo mi chiese: «Hai rimorchiato?» «Sì, sì» gli risposi. Lui si irrigidì un attimo, poi disse: «Non potresti portarla qui, bla, bla, bla...». Io lo interruppi, dicendogli: «Guarda che non porto qui nessuno, ma vado io da lei domani mattina». Mi chiese dove stava la fortunata. Io guardai il foglio degli appunti e gli dissi la via e lui esclamò: «Sta qui, dietro l’angolo». Poi sornione e ammiccante continuò con un... «Aaaaaaaa, i suoi non lo sanno, vero?» «Per ora no, ma vedremo». «Ho capito, ho capito tutto, ne ho viste tante di storie come questa, ma fate le cose ben fatte eh!» disse assumendo quasi un atteggiamento paterno. «Bene le auguro la buonanotte e vado a riposare». Il sig. Antonio mi apostrofò con qualche battuta spiritosa quando io ero già per le scale. Ero felice, emozionato e avrei desiderato fosse già mattina. Mi spogliai e mi distesi sul letto immaginando l’incontro del mattino successivo iniziai a studiare le parole da utilizzare. Ma dopo una buona mezz’ora, cancellai ogni riflessione e mi dissi: «Aldo, racconta con sincerità la situazione, i tuoi desideri e “sogni”, e lo zio ti aiuterà». Ritenevo che questo atteggiamento di onestà e sincerità fosse vincente e così decisi di fare. Mi abbandonai e i miei pensieri corsero a casa, alla mamma, a Roberto, a Marco... poi, fisicamente provato, mi addormentai. Abituato a svegliarmi di buon’ora, quel mattino ebbi un sobbalzo nel sentire i tram correre su e giù, avendo la sensazione che transitassero per la mia cameretta, ma in effetti passavano solo sotto le finestre. Guardai fuori dalla finestra e, pur essendo solo le sei del mattino, notai autobus, macchine, gente a piedi, motorini sfreccianti, tanta gente che andava frettolosamente da qualche parte, forse al lavoro. Il rumore era assordante, o forse lo sembrava a me data le mia vita in campagna.

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A casa sentivo il vento, il fruscio degli alberi, il canto degli uccelli e qualche animale da cortile che gridava il suo “buongiorno”. Lavato, pettinato e vestito di ciò che avevo, ero due ore in anticipo sull’appuntamento. Scesi e feci colazione; non essendoci il latte caldo da mungitura e torta di mele fatta da mamma, consumai il mio primo cappuccino con un piccolo dolce. Era una bellissima giornata, il cielo terso e anche il sole si era già alzato. Anche Antonio si era già alzato e vedendomi mi salutò con cenni di allegra simpatia. Poi si strofinò le mani e mi disse sorridente: «Oggi va bene, eh!». «Certo» risposi io «anzi, andrà benissimo». Lui continuò rispondendo con un melanconico: «Fate bene, io purtroppo non ho più l’età, ma voi fate bene, bravo Aldo». Poi: «Ti fermi anche questa sera?» «Non so» risposi io, «dipende...» Lui mi interruppe dicendo: «Fai come credi meglio, tanto in pensione c’è posto, peccato che tu non la possa portare qui, mi dispiace». Io non capivo a cosa lui stesse pensando e lo salutai con un «Arrivederci a presto» e lui «Va bene, va bene, fai del tuo meglio». Mi sembrò un buon augurio e certamente avrei fatto del mio meglio. Uscii dalla pensione e, memore degli insegnamenti ricevuti, iniziai a pensare che lo zio mi avrebbe certamente aiutato a risolvere la situazione. Tanto ci pensai che esplose l’autoconvinzione positiva, sicuramente si risolverà! La via nella quale mi dovevo recare era proprio dietro l’angolo. Il grande portone d’accesso alla ditta era già spalancato e notai che diversi operai giungevano con mezzi diversi ed entravano. Una mezz’ora dopo arrivarono persone che, per il diverso abbigliamento, pensai fossero impiegati. Poi finalmente vidi giungere una grande macchina. Era una Lancia Fulvia, con lo zio e mio cugino a bordo, elegantemente vestiti. Avrei voluto corrergli incontro, ma poi pensai bene che forse era più opportuno attendere e presentarmi all’ora indicatami dalla zia. Si trattava di aspettare ancora venti minuti. Aspettai. Alle ore 8,59 entrai negli uffici e chiesi di mio zio. Lo trovai piacevolmente sorpreso e allegro. Mi abbracciò e chiamando suo figlio Vittorio mi informò che era ora di andare a fare colazione al bar dell’angolo. Vittorio aveva cinque anni più di me, ma data la mia insolita crescita io ero più grande e grosso di lui, tanto che sembravamo coetanei. Poco dopo eravamo al bar e lo zio ordinò cappuccini e paste per tutti e tre. Mi invitò a sedere e mi chiese il motivo di quella gradita sorpresa. Anticipando qualsiasi mio discorso disse: «Sarà mica successo qualcosa di peggio del solito con tuo padre?» «Sì zio». E gli raccontai gli ultimi accadimenti. Lui si arrabbiò e pronunciò frasi di accusa e disapprovazione contro suo fratello e una serie di altre cose già sentite ogni qualvolta si incontravano di domenica a casa del nonno. Dispiaciuto e amareggiato concluse con una domanda: «Cosa vuoi fare ora?» «Zio io ho un “sogno” da realizzare. Una delle fasi intermedie è quella di diplomarmi entro due anni e non ci sarà padre che tenga a impedirmelo, ma da oggi in poi devo anche imparare a mantenermi, quindi cerco casa e lavoro». Lo zio era un uomo ponderato e saggio, che pesava le parole che pronunciava. Colsi l’attimo in cui rifletteva aggiungendo: «Tu sei d’accordo che io studi, vero?» E lui rispose immediatamente: «Sì, certamente, la cultura innanzi a tutto». «Fantastico!» esclamai soddisfatto. Vittorio, che fino ad allora non aveva pronunciato parola, intervenne sorprendendo il padre, e dicendo: «Per il lavoro può venire da noi e anche per dormire almeno momentaneamente». Lo zio ci guardò entrambi e annuì. Poi disse: «Finite la colazione e torniamo al lavoro».

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Tornati in ditta parlottarono tra loro per decidere quale mansione affidarmi e decisero che la mansione ideale era fare di giorno in giorno ciò che più serviva, qualcuno direbbe il “tappa buchi”, e io ne fui felicissimo. Il mio atteggiamento positivo mi faceva intravedere la variabilità delle mansioni e quindi la possibilità d’imparare più cose e di non avere giornate monotone e ripetitive, e così fu. Trasformai in pratica un altro insegnamento della mia guida, che recitava così: «In ogni difficoltà c’è il seme dell’opportunità, sappilo riconoscere e fatto tuo la vita diventerà fantastica». Alchimia della vita? Sì! Non è facile ai primi tentativi, ma se avrete costanza e perseveranza, con una dose di positivo entusiasmo e la volontà di riuscire avendo fiducia in voi stessi, ce la farete, FUNZIONA, provare per credere. La vita ce lo insegna:

pensate a quanti capitomboli... prima di camminare da soli pensate a quante pipì addosso, prima d’imparare a farla in bagno pensate a quante cadute dalla bici, prima d’imparare... pensate a quante aste e ripetute lettere dell’alfabeto prima di scrivere pensate a quanto in alto saltavate per cogliere quel frutto che desideravate

mangiare... Poi si diventa grandi e colti e tutta la volontà che avevamo da piccoli, a volte, per alcune persone scompare. Sapete perché? Perché alcuni smettono di SOGNARE! Smettono di fare tutte quelle cose irrazionali che facevano da piccoli, forse condizionati dai grandi o dalla società che investe molto nel dirci COSA NON POSSIAMO FARE! Considero questo un delitto sociale. Tarpereste le ali a un aquilotto nel nido? Togliereste la ruota anteriore della vostra bici? Vi tagliereste la lingua con le vostre mani? Potrei continuare con miliardi di domande di questo tipo alle quali rispondereste tutti, inevitabilmente, «CERTAMENTE NO!». Allora perché AVETE SMESSO DI SOGNARE? Tutta la vita è un sogno e forse il sogno ci porta alla vera realtà. Sognare è vivere veramente quella dimensione che ci appartiene, è proiettarci già in quello da cui siamo venuti e a cui torneremo, che si aggrega e sfuma come le immagini che ci appaiono e spariscono fluttuando prima di addormentarci. Da soli o con l’aiuto degli altri avete spento la parte più importante della vita umana. Riappropriatevene al più presto e la vostra vita cambierà. Se avete indotto altri a spegnere la luce della speranza illimitata, riaccendetela. Ritornate piccoli e ossigenate i vostri sogni consentendo loro di elevarsi verso il cielo e volare. RITORNATE A SOGNARE. Nulla di grande o piccolo esiste nella vita che prima non sia stato un sogno. Anzi, tutte le grandi scoperte sono il frutto di sogni che i più ritenevano irrealizzabili, ma non la mente di colui che li viveva. Guardatevi intorno, tutto conferma questi miei pensieri. Non soffocate nella culla i vostri sogni. Qualcuno disse: «Tutto ciò che la mente umana riesce a concepire, può essere realizzato». La mia guida aggiungerebbe: «È già energeticamente realizzato ciò che avete avuto il coraggio di pensare ed è il vostro pensiero che trasforma l’energia in cose».

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A questo proposito posso ricordare un’altra lezione ricevuta sotto l’ombra degli alberi dei pappagalli che recitava così: «In ogni istante della nostra vita noi siamo la somma algebrica dei nostri pensieri». Riconoscendo questa verità, nessuno al mondo avrebbe motivo di lamentarsi. Noi siamo ciò che vogliamo essere. E diventiamo ciò che decidiamo di divenire. La magica alchimia della nostra mente ha poteri illimitati. Questa magia è rinchiusa in una stanza della nostra mente di cui noi abbiamo la chiave. Ci viene regalata alla nascita e a volte ce ne ricordiamo solo prima della morte fisica. Usiamo quella chiave. Quel giorno trovai casa e lavoro! Stando in ufficio scoprii che chi aveva mansioni di coordinatore della ditta era il mio giovane cugino e che suo padre, mio zio, era il suo primo collaboratore. Insieme stabilirono che momentaneamente il mio compito era quello del “jolly”, cioè fare quello di cui c’era bisogno di volta in volta. A me andava benissimo. Poi stabilirono che il mio salario iniziale fosse di..., ma poteva aumentare secondo i meriti, e anche questo per me andava benissimo. La ditta trattava viti e bulloni, ed era allora una tra le più importanti del settore. Alle ore 9,35 mi fu assegnato il mio primo compito: fare le pulizie. Alle ore 12,00, suonò una sirena e i miei parenti mi chiamarono per andare a pranzo. Salii sulla loro lussuosa macchina e dopo dieci minuti arrivammo a casa loro. La zia mi coprì di coccole e conobbi anche la sorella di Vittorio, cioè mia cugina Gabriella. Una graziosissima ragazza. La zia aveva preparato spaghetti ai frutti di mare e un oceano di lattarini in carpione con insalata mista. Feci una delle più brutte figure della mia vita a tavola. Mangiai senza ritegno, non per fame come pensavano loro, ma per la straordinaria bontà dei cibi, che forse solo i napoletani veraci sanno cucinare in quel modo. Mi fecero molte domande, ma lo zio mi fu di aiuto nel rispondere a quasi tutte le domande poste. Poi, mentre la zia preparava “il rito del caffè”, napoletano s’intende, mi fecero visitare la loro casa e mi resi conto che era piccolissima e che per ospitarmi mi offrivano un divano letto. Accettai, per alcuni giorni, ma mi resi conto che ero ingombrante. Antonio fu sorpreso quando passai nel pomeriggio a ritirare la mia valigia. Mentre pagavo e salutava mi chiese: «Vai a stare da lei?». E rideva, io gli dissi di sì e lui battendomi una mano sulla spalla concluse che così andava bene. Chissà cosa aveva in testa... Tornai da lui il giorno successivo, rivedendomi mi chiese se avessi già litigato, gli risposi di no e a scapito dell’equivoco nato nella sua mente, gli spiegai parte di ciò che era accaduto. Considerando che a giorni avrei dovuto iniziare la scuola serale, avevo bisogno di un mio spazio, anche se piccolo. Antonio doveva essere un ottimista, poiché appena saputo il problema mi disse: «Ho la soluzione che fa per te. Si tratta di una professoressa francese che abita qui accanto e affitta a studenti». Mi diede l’indirizzo, il numero di telefono e alcune dritte su come trattarla, dato che aveva, a dir suo, un certo caratterino. Avendo ancora tempo, essendo in pausa pranzo, mi precipitai. Era un’anziana professoressa. Fui accolto oltre che da lei anche da un bellissimo cane boxer che iniziò a farmi un sacco di feste. Lei mi squadrò da testa a piedi e poi guardò il suo cane e disse: «Strano, di solito abbaia a tutti ferocemente». Io le risposi che ero amico degli animali e che loro capiscono a volte prima degli uomini. Tale battuta mi fece ottenere l’affitto a condizioni agevolate.

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Ottenni una bella cameretta tutta per me con bagno attiguo e l’uso discreto della cucina per la colazione. Quando seppe che sarei andato a lavorare di mattina alle sei e che alla sera studiavo, la sua simpatia per me aumentò, anche se concluse: «Stiamo a vedere come ti comporti». Fiducia sì, ma con riserva. Tornai di corsa al lavoro e appena possibile informai mio cugino della soluzione. Lo zio sembrava dispiaciuto, ma quando esposi le mie ragioni di necessità di un minimo di spazio e che necessariamente sarei tornato ogni sera verso mezzanotte, capì e disse: «Aldo, se va bene a te, va bene anche a me, anche se potrai sempre contare su di noi». «Perfetto» risposi ringraziando. Pattuii anche orari di lavoro diversi, poiché dovendo essere in aula alle 18 avevo la necessità di smettere alle 17. Quando proposi la mia disponibilità dalle sei del mattino alle diciassette con un’ora di pausa, cioè 10 ore al giorno, loro furono felicissimi e mi sembrò che fossi io a fare un piacere a loro e non il contrario. Dalle sei alle otto e trenta dovevo pulire la palazzina degli uffici, poi fare ciò che serviva per il resto della giornata. Mi affidarono le chiavi per l’ingresso e mi spiegarono come funzionavano gli impianti d’allarme. Ma quel giorno sarebbe finito ancora meglio. Terminato il lavoro, tornammo a prendere la valigia che avevo a casa loro e mi portarono in macchina dalla professoressa. Si presentarono e chiesero quanto avrei dovuto pagare d’affitto. Lo zio estrasse un generoso portafogli e pagò tre mesi anticipati. La professoressa fu molto contenta, ma dato che il boxer abbaiava un po’ pensai bene di abbreviare la visita e li accompagnai al piano terra. Li ringraziai infinitamente e mentre abbracciavo Vittorio, lo zio mi mise una manciata di banconote in tasca dicendomi che erano un acconto per il mio buon lavoro. Ringraziai emozionato. Anche loro sembravano emozionati. Ritornato, la signora mi diede le chiavi di casa, del cancello e della mia camera... ero pieno di chiavi. Ero al secondo piano, ma al settimo cielo dalla felicità. La professoressa mi invitò a pranzo e io accettai. Dopo la mangiata a casa della zia, non avevo molto appetito, ma la cucina francese era un’altra cosa. Iniziammo a raccontarci la nostra vita, nacque una simpatia reciproca. Anche se rimasi da lei per circa tre anni, non riuscimmo a raccontarci tutto. La simpatia, con il tempo, si trasformò in affetto reciproco. Lei si alzava tardi al mattino e andava a letto presto la sera. Fu così che ci incrociavamo casualmente a volte il sabato o alla domenica. La zia mi mandava molti abiti che Vittorio non indossava più. Erano bellissimi e nuovissimi, forse portati solo qualche volta. A volte i miei compagni di scuola mi chiedevano quanto ricco fosse mio padre e come mai essendo figlio di ricchi frequentassi le scuole serali. Accaddero talmente tante cose nelle prime due settimane che definirle intense sarebbe inesatto. Quasi tutto era novità per me:

una nuova città un nuovo lavoro nuove mansioni e compiti un nuovo anno scolastico nuovi conoscenti nuove emozioni nuove esperienze una nuova cascata fantascientifica a cui abbeverarsi, apprendere, stupirsi,

meravigliarsi e imparare. Capire che ero come una “particella d’acqua in un fiume infinito”, il fiume della vita infinita.

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Fu da quella età che iniziai a dormire quattro ore circa per notte. Lavoravo, studiavo. Ma come erano lunghe a volte quelle quattro ore... quando con gli occhi al cielo, ciò che vedevo erano Marco, Roberto, la mamma... Come erano lunghe quelle quattro ore... quando pensavo ai nonni, al Brasile, ai pappagalli, alla mia aquila, a Ramon, a Gutierrez, al fiume che lento scorre verso il mare in un ciclo completo e perpetuo. Come erano lunghe a volte quelle quattro ore. Nei momenti difficili appariva la mia guida e mi gridava all’orecchio: «TIENI DURO, TIENI DURO, HAI UN SOGNO DA RAGGIUNGERE E CE LA FARAI! Devi solo pagarne il prezzo e la ricompensa sarà grande» e io tenevo duro. Un lunedì mattina mi chiamò lo zio Wainer, informandomi che il giorno prima era andato a casa nostra. Mi portò un pacchetto da parte di mia madre, conteneva due magliette, due mutandine, due paia di calzini e mezza “sbrisolona”, un dolce tipico che lei faceva e che io gradivo moltissimo. Lei non sapeva che la zia Italia mi aveva regalato di tutto, anzi non sapevo più dove mettere ciò che mi veniva donato. Insieme al pacchetto, mi raccontò brevemente il litigio avuto con “lui”, sul fatto che mio padre voleva denunciarmi per essere scappato da casa e di come lo zio, prendendo le mie difese, lo avesse dissuaso dal farlo. Mi disse che si era calmato quando gli aveva dichiarato che vivevo a casa sua. La forte personalità dello zio ebbe il sopravvento (momentaneo). Mi tranquillizzò e mi incitò a perseguire i miei buoni propositi che condivideva anzi, iniziò a portarmi come esempio ad altre persone. Lo faceva con orgoglio. Dopo tre mesi la mia paga era raddoppiata rispetto alla proposta iniziale, vuoi per le ore di straordinario, vuoi per tanti piccoli lavori che eseguivo sempre allegramente. Iniziai, dopo aver reso ciò che mi era stato prestato, a risparmiare. Colazione a casa. Per il pranzo mi approvvigionavo di panini con mortadella alternati con formaggio e la sera pizza o altro di economico, saltuariamente il sabato o la domenica mangiavo alla “francese” insieme alla professoressa continuando i racconti delle nostre vite. Tramite lo zio, venni a sapere che la mamma stava per partorire.

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Uno stratagemma

Io sono nato il 22 ottobre e mio fratello Bruno Eugenio è nato il 23 ottobre. Desideravo andare a trovare sia lui che la mamma e tutti gli altri. Ma come fare a superare la barriera di “Lui” che avrebbe approfittato della mia visita per dare vita a uno scontro? Meditai e trovai la soluzione. “Lui” si occupava da un po’ di tempo di intermediazioni di case e terreni; con la complicità dello zio, si montò la storia di un inesistente cliente che era interessato a un grande appezzamento di terra per trasferire una fabbrica da Milano in provincia. Si trattava, gli disse lo zio, di un grossissimo affare, che se fosse andato in porto avrebbe portato lauti guadagni. “Lui” si sciolse come neve al sole. Iniziò frenetiche ricerche e tramite il telefono di un bar del paese, telefonava ogni giorno a suo fratello per aggiornarlo sulle varie disponibilità idonee per il cliente. Lo zio lo tenne sulla corda per una decina di giorni e poi gli disse che il cliente sarebbe stato disponibile di domenica. «Benissimo» rispose “Lui” «ci troviamo alle ore 9 in questo paese e andremo a vedere la prima di cinque opportunità che ritengo valide per le necessità del tuo cliente». Lo zio accettò e ci organizzammo. Mi lasciò a poche centinaia di metri da casa e mi diede appuntamento per le quattro del pomeriggio, nello stesso posto. Per quelle sette ore ero coperto. Partimmo io, lo zio e un suo carissimo amico il quale avrebbe recitato la parte del cliente interessato. Certo che dall’aspetto sembrava veramente un ricchissimo industriale. In effetti lo era. Scoprii dopo che era il titolare della ditta nella quale io, lo zio e Vittorio lavoravamo. Mi ero preoccupato di raccogliere, grazie alla generosità di gente che mi conosceva, molti capi d’abbigliamento che potevano essere utili ai miei fratelli, e ne avevo riempito una grande valigia. Percorsi quelle poche centinaia di metri con il “cuore in gola”. Arrivato nelle vicinanze di casa, il primo a scorgermi fu Roberto, il quale iniziò a gridare: «C’è Aldo, sta arrivando Aldo, venite, venite!». Erano tutti sul cancello di casa, faceva freddo, ma scoppiavamo tutti di gioia. Baci, abbracci, pianti, subito dopo entrammo in casa. Perché la gente piange quando è felice? Mi toccavano increduli, ero molto ben vestito e ricevetti complimenti da tutti. Poi aprii la valigia e fu gioia grande. Mentre loro si provavano cose, io e mamma andammo subito a vedere Bruno. Sembrava “un angelo”, bellissimo. Stava dormendo e lo sfiorai con un bacio per non svegliarlo. Ritornando in sala presi tra le braccia Roberto... ci stringemmo forte, forte, forte. Anche Marco cresceva e con lui i suoi bellissimi capelli neri corvini. Prima di pranzo andai a visitare i nonni che furono felicissimi di rivedermi. La mamma non mancò di farmi migliaia di domande. Avendo mangiato la foglia, architettata per allontanare “Lui”, mi chiese fino a quando sarei potuto restare? Risposi che potevo restare fino alle 15,45, poi dovevo andare all’appuntamento con lo zio. Lei guardò il suo orologio e iniziò il conto alla rovescia. Le raccontai, in sintesi, dove e con chi vivevo, dandole l’indirizzo. Le parlai degli studi, del lavoro e delle mie nuove ottime conoscenze. Anch’io le feci tante domande, ma tutte le sue risposte furono un laconico: «Tutto come sempre...». Poi le promisi di scriverle indirizzando le lettere a uno zio paterno, zio Lido, che la sosteneva e aiutava nei momenti più difficili.

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Il tempo volò e fu subito ora di pranzo. Vidi Bruno sveglio, era ancora più carino, sorrideva sempre. Il sorriso degli innocenti, pensai, e nel mio cuore gli augurai ogni bene. Mangiammo tagliatelle fatte in casa e coniglio con patate, poi la sbrisolona. Venne l’ora di salutarci. Baciai Bruno nella culla, Marco mi sorrise, non sapeva nulla, Roberto era muto, poi tristemente si fece forza e mi chiese: «Dove prendi tanto coraggio?» «Caro Roberto, dal cuore e dalla mente! Coltiva i tuoi desideri e quando uno di essi diventerà “bruciante”, anche tu troverai la tua strada». Gli spiegai in due parole qual era la mia visione di desiderio bruciante. «Il “desiderio bruciante” è quell’obiettivo per il cui raggiungimento sei disposto a pagare con la vita. Quando VIVE nella mente di una persona, quella persona non ha più ostacoli insuperabili e realizza ciò che ha deciso con la forza di volontà, l’impegno totale, senza mai RINUNCIARE. Camminerai con la piena fiducia in te stesso e con la consapevolezza di essere sulla via della realizzazione personale». Roberto mi guardò ed esclamò: «Aldo, non è facile!». Gli risposi di cancellare il “non” e probabilmente qualcosa sarebbe cambiato e poi aggiunsi: «Vedi che la mia vita sta cambiando?» «Sì,sì, ma non è facile». «Roberto, diventerà facile il giorno in cui deciderai anche tu di modificare la tua vita». Mamma aveva seguito il discorso e mi abbracciò. Riguardando l’orologio mi disse a malincuore che era ora di andare. La baciai e corsi via con la valigia vuota di cose e piena di sentimenti. Lo zio arrivò trenta minuti dopo. Mi chiese se era andato tutto bene e gli risposi felicemente di sì. L’ingner Ettore, inaspettatamente, mi fece una carezza e poi aggiunse: «Da oggi in poi conta su di me per qualsiasi cosa». Rimasi senza parole, ringraziai e, mentre loro ripresero discorsi di lavoro, io mi tuffai nei freschi ricordi di quelle sette indimenticabili ore. Ripresi a studiare e lavorare con impegno, a guadagnare e a risparmiare. Stavo visualizzando che spesso il danaro è il compenso di buone idee applicate a realizzazioni pratiche. Facile convenire che più conoscenza e più impegno portano alla realizzazione di cose straordinarie e quindi a compensi proporzionati. Tutto ha sempre origine dalla nostra mente... NOI SIAMO I NOSTRI PENSIERI! Si stavano avvicinando le feste del Santo Natale. Iniziai per tempo a scrivere agli zii in Brasile riassumendo gli eventi. Fu una bella idea, iniziammo infatti una fitta corrispondenza che durò degli anni. Poi, decisi che a Natale sarei ritornato a casa senza stratagemmi e trovai il modo, tramite lo zio Lido, d’informare la mamma. Accumulai una moltitudine di regali per tutti e approfittando di un collega di lavoro che quella mattina doveva recarsi a Bergamo in visita a parenti, gli chiesi il favore di accompagnarmi. Essendo di strada accettò. Arrivato vicino a casa, vidi parcheggiata la piccola autovettura dello zio e di un’altra sua sorella. Arrivai e mi fecero tutti un sacco di feste. Poi “Lui” uscì e mi disse di andarmene perché quella non era più casa mia. Intervennero i suoi fratelli e lo condussero nell’orto sul retro della casa e iniziò la solita lite che durò fino a mezzogiorno. Volarono parole grosse, gli insulti si sprecarono e poi, improvvisamente, udimmo il Motom mettersi in moto. “Lui” se ne andò. Data l’ora, dopo avermi salutato e rivolto complimenti sui miei progressi sia lavorativi che di studio, mi augurarono Buon Natale e buon appetito, tranquillizzandomi sul fatto che “Lui” sarebbe andato a casa loro. Ringraziai ed entrammo tutti in cucina. Tra pranzo e regali fummo tutti felicissimi.

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Verso le quattro del pomeriggio ci scambiammo i soliti abbracci e qualche lacrima. Con le valige e le borse vuote, mi incamminai alla fermata dell’autostrada, per tornare a Milano. Il tragitto era sempre il solito, Agrate–Milano, piazza Castello, tram numero 8, piazza Bausan (capolinea), casa. A casa mi aspettava la professoressa, con cena alla francese e racconti delle nostre vite. Fu quel giorno che scoprii che aveva una figlia e un figlio. Un’altra storia drammatica. La mattina successiva la dedicai allo studio, a pranzo ero invitato dalla professoressa la quale mi sorprese porgendomi un regalo. Era un cofanetto stracolmo di prodotti per il bagno e di profumi francesi buonissimi. Li accettai con gioia, ma capii anche che erano destinati ad altra persona, a quel figlio che da anni non vedeva più ma continuava ad aspettare ogni Natale, così come aspettava sua figlia. Le apparizioni saltuarie di pochi minuti, negli anni precedenti, avevanosolo lo scopo di estorcerle danaro in cambio di promesse mai mantenute. Povera professoressa! Soffriva per la scarsa salute dei figli e per la vita dissennata che conducevano in giro per il mondo. Io e Drago, il suo cane boxer, cercavamo di starle vicino durante i suoi tristi ricordi. Un giorno mi arrivò dal Brasile un pacco. Conteneva lettere, foto di tutti, ricordi particolari, e la mia aquila. Era tornata finalmente a casa! Trascorsi tutta la domenica chiuso nella mia stanzetta a parlare con lei. Quante domande, quanti ricordi. Con lei vicino vedevo ora i “miei Sogni” in Panavision. Fantastico! Nei sei mesi successivi continuai ad apprendere sia sul lavoro che negli studi. Avevo iniziato a svolgere, per qualche ora al giorno, anche piccoli lavori d’ufficio. Di tanto in tanto organizzavo visite strategicamente preparate a casa sempre carico di decine di pacchetti regalo per tutti. Eravamo felici in quei giorni, anche se si trattava solo di poche ore rubate. Vederli e abbracciarli era una gioia infinita, il nutrimento essenziale della vita. L’anno scolastico terminò e ottenni risultati lusinghieri. Aumentai le mie ore lavorative e incrementai i miei guadagni mensili aggiungendo ripetizioni a compagni di studio che erano stati rimandati a settembre. Guadagnavo e risparmiavo. Per il mese d’agosto feci delle buone scelte. In ditta avevano bisogno di un inventario generale e altri lavori d’ufficio, mi proposi e mi offrirono un compenso che non avrei mai avuto il coraggio di chiedere. Loro erano convinti che non avrei potuto portare a termine tutto da solo e se l’avessi fatto mi avrebbero premiato ulteriormente. Accettai con entusiasmo. Avevo già un piano segreto in mente. Spargendo la voce che durante il mese d’agosto ero disponibile per delle ripetizioni, trovai diversi interessati. Tutti i colleghi partirono per le vacanze il 1° di agosto e quel giorno iniziavano anche le mie ripetizioni che tenevo presso gli uffici della ditta a ragazzi che avevano 3 o anche 4 anni più di me. Erano tutti moto muniti, qualcuno veniva accompagnato da un genitore. Il mio piano consisteva nel chiedere il loro “aiuto” per fare l’inventario. Quasi tutti accettarono, prendendo la cosa come un gioco, perché per loro era una novità. Io in cambio non badavo al tempo delle ripetizioni. Per due settimane ebbi l’aiuto anche di due genitori ragionieri che accompagnavano i figli e non sapevano come investire il tempo dell’attesa. Chiesi loro di darmi una mano per i compiti d’ufficio che mi avevano assegnato e la loro risposta fu favorevole. Venivano preferibilmente di mattina, poiché nel pomeriggio portavano moglie e figli in piscina. Il mio piano funzionò a meraviglia. Dopo soli 10 giorni, il lavoro d’ufficio era stato

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perfettamente ultimato, e ricevetti da loro consigli contabili e organizzativi idonei a migliorare la funzionalità dell’ufficio. Fantastico! L’inventario terminò il 14 agosto, così continuai solo le ripetizioni andando anch’io in piscina o il mattino o il pomeriggio. La ditta riaprì il 28 agosto ed io, pavoneggiandomi un po’, presentai achi di dovere la soluzione di tutti i compiti affidatomi. Dire che si stupironoè poca cosa. Fui chiamato dal Sig. Ettore (il titolare) oltre che per ricevere complimenti, anche per spiegare gli aspetti migliorativi da adottare. Avevo ulteriormente riflettuto anche su aspetti produttivi e di immagazzinamento, creando tabelle e schemi rappresentativi. Furono molto apprezzati, forse ancor più del dovuto perché proposti da un “ragazzo”. Incassai un sacco di soldi e divenni il pupillo di tutti oltre all’orgoglio di mio cugino e di mio zio. Il mio salario aumentò e da settembre presero altri per le pulizie. Venni trasferito alla palazzina degli uffici. Capitò anche che il Sig. Ettore a volte mi invitasse a pranzo. Ero stimato, ero orgoglioso dei miei pensieri e delle mie azioni. Quando lo zio Wainer disse a mio padre ciò che di straordinario avevo fatto, si sentì rispondere così: «Sono tutte balle cittadine e poi se è così bravo digli di tornare a casa che dopo avergli dato damangiare per anni sarebbe ora che lavorasse per me e non per se stesso». Litigarono ma era la norma. La mamma e i miei fratelli facevano salti di gioia. Il secondo anno fu, più o meno, la fotocopia del primo. Arrivò la settimana degli esami finali, ero preparatissimo e fui promosso a pieni voti. Ricevetti molte proposte di lavoro da diverse aziende, ma la mia condizione economica era già di gran lunga superiore alle offerte. Anche il compenso sia per gli incarichi di responsabilità che per i compiti specifici che mi venivano richiesti era ottimale. Non potendo iscrivermi immediatamente a corsi universitari solo per motivi economici, decisi di proseguire la mia vita nell’azienda e di prendermi una “boccata d’ossigeno”. La passione crescente verso i motori mi coinvolse in molte avventure. Moto, go-cart e auto da competizione occuparono una parte importante del mio tempo libero. Nonostante l’età guidavo da diversi anni e a dire degli esperti abbastanza bene. Avevo diciassette anni quando con mio cugino Vittorio e un cugino napoletano di nome Gennaro, investii tutti i miei risparmi per creare una ditta di viterie e bullonerie a Bosco Tre Case. L’idea di diventare un piccolo imprenditore mi allettava, il settore era buono e riversavo fiducia in questi miei cugini. L’azienda nacque ma lentamente morì. Da più di mezzo secolo attendo che mi venga restituita la mia quota. Ma per un concetto già precedentemente esposto, non passai il resto della vita a strapparmi i capelli, anche se perdere tutto quello che avevo risparmiato con tante privazioni, mi turbò moltissimo. Consultai la mia aquila e la mia guida, ed esse mi risposero: «In ogni difficoltà c’è il seme di una grande opportunità». Ed era vero. Tornai a casa e preso un foglio bianco tracciai la mia meta successiva. Decisi di diventare un imprenditore entro 1000 giorni. IL MIO NUOVO SOGNO! La rivincita dopo una prima sconfitta.

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Presi a frequentare saltuariamente la casa di un mio prozio, alto ufficiale medico e specialista in criminologia. Fu un corso accelerato di buone maniere, stile, comportamenti e moltissime altre cose che non conoscevo. Iniziai a frequentare tramite lui la “Milano Bene”, salotti, alta borghesia, feste e, di conseguenza, ragazze e signore altolocate. Imparai a sciare sia sulla neve che in acqua, a guidare motoscafi e macchine di grossa cilindrata (anche se ancora non avevo la patente). Andando con lo zio dovetti necessariamente essere vestito secondo le circostanze con abiti adeguati e lui provvedeva generosamente e con molto buon gusto. Facevo il povero di giorno e il ricco, apparente, di notte. Avventure a non finire. Pur divertendomi molto, avevo ripreso a risparmiare. Svolgevo anche compiti e servizi per lo zio che mi gratificava lautamente. La mia vita sempre molto movimentata non aveva spazi liberi, tra lavoro, belle donne e motori. A volte venivo accompagnato a casa in macchina da una delle mie conoscenti o dai loro autisti. Venni a sapere dalla mamma che Roberto aveva la fidanzata e stava maturando l’idea di sposarsi; ovviamente “Lui” era contrario. Quell’atteggiamento di repulsione alle idee, alle scelte e alle decisioni di mio fratello, lo ferivano e lo facevano soffrire. Già aveva sofferto tanto, ma lui infieriva, anche perché Roberto subiva passivamente tutto ciò che “Lui” diceva. Sempre tramite mamma venni a sapere che mio fratello si era trovato un lavoro nel quale faceva i turni e un secondo lavoro per arrotondare, così da potersi costituire una piccola dote per fare il grande passo. Conobbi la “bambolina” di mio fratello, una bellissima ragazza calabrese dagli occhi di fuoco. Sembravano innamoratissimi e ovviamente auguravamo loro ogni bene. Un sabato mattina mi trovavo a casa con la mamma, quando passò Roberto con un furgoncino, suonò e ci affacciammo, lui ci disse: «Vado un attimo a Usmate, devo fare l’ultima consegna e ho finito» sorridendo aggiunse, «Butta la pasta» e partì. Il tempo di giungere sulla provinciale e udimmo un gran botto. Non so perché, ma mi misi a correre e quando arrivai vidi uno spettacolo spaventoso. Il furgoncino guidato da mio fratello era letteralmente muso contro muso con un immenso camion che trasportava tondini d’acciaio per l’edilizia. Nell’impatto, l’autista del grosso camion era rimasto gravemente ferito e venne trasportato immediatamente all’ospedale, mio fratello venne trafitto da 12 tondini d’acciaio. Una moltitudine di persone si accostò curiosa. Dopo cinque minuti si era creato il caos. Tutti dicevano cose, chi gridava, chi piangeva, chi diceva cosa si doveva fare. La polizia arrivò dopo pochi minuti. Estrassi dalle lamiere il corpo di Roberto. Lo presi tra le braccia e mi avviai verso casa. Non vedevo e non sentivo più nessuno. La sua esistenza terrena era finita tragicamente. Cosa dire, quando mamma lo vide tra le mie braccia? Entrai in casa e lo depositai per l’ultima volta nel suo letto. Una pozza di sangue si formò rapidamente, era ciò che rimaneva di lui. Poi arrivò “Lui” e alla presenza di suo figlio morto disse: «Gli ho sempre detto che non sapeva guidare». Temendo di commettere un gesto inconsulto uscii e tornai in strada. Mi sedetti nel fosso e guardai gli automezzi, la gente vedendomi intriso di sangue pensava che fossi un ferito, ma altri che mi avevano visto spiegavano come erano andate le cose. Tra curiosi, polizia, ambulanza (che non doveva più trasportare nessuno), vigili urbani, intervenne anche una gru gigantesca per spostare gli automezzi. Vidi arrivare il prete e svoltare verso casa. Passarono ore prima che la circolazione riprendesse normalmente.

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Credo che qualcuno, non ricordo chi, mi abbia rivolto la parola, ma non udivo nulla in quel momento. Stavo chiedendo all’universo, perché? Perché nonno? Perché Dio mio?

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La Porta estrema

Guardavo fisso quel punto dal quale lui ci aveva lasciati per salire in cielo. Cercavo spiegazioni negli insegnamenti del nonno, ma non trovavo la risposta. Mi chiesi se quello fosse il suo destino. Siamo complici del nostro destino? Possiamo modificarlo? Perché?... Perché?... Perché lui? Era alla ricerca della sua libertà! Così alto il suo prezzo? Non capivo! Non trovai la risposta, ma la sua anima era dentro i cuori di chi l’aveva amato. Dopo molte ore mi accorsi che ero seduto nello stesso posto, metro più, metro meno, in cui era nato il mio sogno. Mi vennero i brividi pensando a questa coincidenza! Stesso luogo, stesso giorno, anni dopo. Un destino? Un segno? Un messaggio? Fu solo a notte fonda che tornai a casa. Era stracolma di gente. Parenti mai visti, c’erano gli zii di Milano e altri che abitavano in paesi limitrofi, cugini che non sapevo di avere o di cui non avevo mai fatto conoscenza e tanta altra gente. C’erano anche tutti i suoi amici; mi accorsi che aveva molti amici, era amato, stimato e benvoluto da tantissima gente, disprezzato solo da suo padre. Pur cercando di comprendere, non ho mai accettato l’idea che tra parenti ci si debba frequentare solo nei cimiteri o nelle sale da pranzo in occasioni di matrimoni. Se poi si registrasse ciò che la gente diceva in entrambe le occasioni sarebbe orribile. Personalmente evito sia gli uni che gli altri momenti. Il funerale venne celebrato domenica pomeriggio. Dopo la funzione salutai i miei fratelli, la mamma e ripartii. Se io soffrii come mai avevo sofferto prima, portandomi ancora il ricordo dei due nonni morti a distanza di ore, chissà come soffriva la mamma. Che prezzo stava pagando... Mi tuffai nel lavoro più di prima. Lo sforzo fisico in parte mi distraeva, ma solo in parte. Cosa potevo fare per i miei e per mia madre? Decisi che la cosa migliore era quella di “raggiungere i miei sogni” entro date prestabilite. Realizzando ciò, avrei potuto offrire prospettive diverse sia ai miei fratelli che alla mamma. La morsa del “Capo” su mia madre si allentò un pochino dopo la morte di Roberto. Trovammo il modo di sentirci due volte alla settimana dandoci appuntamento telefonico presso la cabina del telefono pubblico del paese. Funzionò e ci facevamo delle belle chiacchierate. La mamma mi informava degli eventi, ma in sintesi nulla era cambiato. I piccoli Marco e Bruno erano le nuove prede di mio padre. Il suo carattere arrogante e impositivo troneggiava liberamente. Ripresi anche la mia passione per i motori. A volte con un gruppo di amici andavamo a Monza a girare in pista con macchine adeguatamente preparate per le competizioni. Erano giornate indimenticabili. Il mio progredire, frequentando lo zio colonnello, era sorprendentemente veloce. Un po’ rigido nei suoi insegnamenti benevoli, ma essendo un militare e con un carattere fortissimo non poteva che essere così. Cento giorni dopo la dipartita di Roberto, stavo tornando a casa accompagnato da un conoscente. Pioveva da ore e la strada era sdrucciolevole.

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Giunti in una curva a gomito l’autovettura che ci precedeva, per evitare una grande pozza d’acqua, sbandò improvvisamente causando incidenti a catena con le macchine che le erano intorno. Il mio accompagnatore, per evitare lo scontro, sbandò sul lato della pozza d’acqua e perse il controllo. La macchia andò a sbattere prima sul grande cordolo che separava le due corsie per poi fermarsi dopo alcuni cappottamenti contro il muro di cemento separatore di corsie posto al centro della curva. Uscii dal coma dopo 4 mesi, 21 giorni e 11 ore. Rimasi nel reparto neurotraumatologia dell’ospedale Cà Granda di Milano. Oltre al trauma cranico, presentavo fratture multiple su tutto il lato sinistro del corpo. La mia degenza durò 13 mesi e 23 giorni. Se qualcuno di voi ha sentito parlare delle esperienze premorte, del tunnel, della luce e di chi sta aspettando e di come questo avviene, è tutto straordinariamente vero. Se non ne sapete nulla, la spiegazione di ciò che accade richiede la stesura di un libro, sul cui argomento molti scritti sono già in circolazione. Se sono ancora qui a scrivere un sunto brevissimo di queste mie esperienze, vuol semplicemente dire che alla fine fui rinviato nel mio corpo fisico. Qualcuno decise che non era ancora giunta la mia ora. Io ringrazio, eternamente. Come raccontare o far capire cosa prova una persona che ha vissuto il coma? I medici pensavano che io fossi in coma e non avessi coscienza di ciò che avveniva. In realtà ho miliardi di ricordi e visioni di quel periodo che potrei descrivere nei minimi dettagli. Non solo immagini, ma anche registrazioni di suoni e di parole, ad oggi ancora indelebili. Forse ho dimenticato cosa ho mangiato ieri, ma il mio passato è lì, chiaro, trasparente, prepotentemente evidente. Ecco alcune frasi terribili che ricordo: – «Poverino, così giovane!». – «Povero, lo sapete che 100 giorni fa ha perso un fratello in un incidente stradale?» – «Povero, non viene mai a trovarlo nessuno». – «Povero, un così bel ragazzo» (così dicevano) – «Povero, chissà se il buon Dio lo riporterà tra noi». – «Povero, cosa sarà di lui?». E mille altre simili... Non ero “povero”! Non ero solo! Non dovevo tornare, ero ancora lì! Qualcuno, molto più in alto di noi piccoli omuncoli, aveva già deciso! Avrei dovuto lottare ancora, avevo un compito da portare a termine e quindi dovevo tenere duro. Sì! Resistere e fortemente volere, desiderare la vita, pregare e “sognare in grande”. Sì!... DOVEVO ANCORA REALIZZARE IL MIO SOGNO... Frasi da infermieri... – «Poverino, come farà a sopravvivere?» – «Povero, quanti farmaci gli stiamo dando, ma cosa possono mai fargli in queste condizioni?» – «Povero, lo trattano come se fosse una cavia, sarà giusto?» – «Povero, se anche sopravvivesse, potrebbe rimanere un vegetale...» - «Povero, vederlo in questo stato... forse sarebbe meglio che...» La mia mente URLAVA! Ma che state dicendo! IO SONO E IO POSSO! TORNERÒ COME PRIMA, MEGLIO DI PRIMA...» I medici – «Proviamo ad aumentare le dosi. Sì proviamo, tanto...»

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– «Proviamo questo nuovo farmaco, sì proviamo, ormai in questo stato...» – «Proviamo, non si sa mai che... peggiorare non può... » «... ma quale proviamo, cosa proviamo, io sto guarendo, sto tornando... nonno, diglielo tu!... sei tu che mi hai riportato indietro, nonno, illumina queste menti...» La mamma veniva ogni sette giorni, la domenica, in bicicletta. Da Agrate a Milano, con la schiena nelle sue condizioni era follia, NO, ERA AMORE! Si sedeva in punta di sedia e mi teneva amorevolmente la mano destra. Io sentivo tutta la sua energia d’amore entrare in me. Poi mi accarezzava e baciava il viso e pensando che non la sentissi, diceva: – «Non lasciarmi» – «Non andare via» – «Non posso perdere anche te» – «Ti amo, torna da me» «... SÌ MAMMA CARA, TORNERÒ DA TE! ... CONTACI E ABBI FEDE... SAI CHE HO VISTO IL NONNO?» Vennero lo zio Lido e lo zio Wainer, diverse volte, nessun altro, ma non importa... La mamma arrivava gelata d’inverno e, quando mi teneva la mano, ero felice perché potevo scaldarla. D’estate mi passava fazzoletti freschi sul viso. Come funziona la mente di una persona in stato di coma permanente? A mille, ma chi gli sta vicino non sa. Qualche volta la mamma non veniva, probabilmente per motivi di salute. Pensavate che mi fossi dimenticato di “Lui”, il Grande Capo? NO! Lui non venne mai.

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Il risveglio

E venne il giorno in cui diedi il primo cenno muovendo tre dita della mano sinistra; se ne accorse il mio vicino, il quale chiamò infermieri e medici, chiamò il mondo intero. Era talmente eccitato e contento che mi sembrava fosse lui a risvegliarsi dal coma e non io. Vennero tutti, anche il primario del reparto e mi trasferirono subito in un’altra sala. Visite, prelievi, esultanza, c’erano tutti, anche quelli che avevano detto: “povero”, “poverino”, “proviamo”. Tutti esultavano e tutti si accreditavano i meriti del mio ritorno. «Visto?» gridò la mia mente «Increduli... uomini di poca fede...». Poi scherzosamente dissi al nonno (la mia guida): «Prendi nome e cognome di questi signori, forse un giorno dovremmo spiegare loro quanto è fantastica la vita...». Ci furono medici che si pavoneggiavano, infermieri che dicevano “lo dicevo io, che...”. Una suora invitava tutti i malati a pregare e gli altri: – «Ma sì, lo dicevo io che ce l’avrebbe fatta» – «Ma sì, non vedi che è forte come un toro?» – «Ma sì, ha i muscoli come un cavallo da corsa». La verità era che volevo vivere, lottare, costruire e raggiungere i miei sogni... …e qualcuno sapendo tutto questo mi stava aiutando. Riacquistai lentamente la sensibilità sul lato sinistro. Quando la mamma mi vide, pianse di gioia e felicità. Nonostante fossi in quello stato penoso le sue speranze si erano rinvigorite. Di tanto in tanto, vicino al mio letto, passava una persona. Era una donna ed era su una carrozzina a rotelle. Si avvicinava, mi accarezzava e se ne andava. Forse sapeva che stavo tornando in me. Oltre alle visite durante il giorno era sempre presente negli orari di visita per i parenti, a eccezione di quando c’era la mamma. Pensai fosse una benefattrice. Devo ammettere che dopo quelle della mamma, le sue carezze e le sue mani che stringevano le mie mi infondevano un benessere e una sempre rinnovata voglia di vivere. Energia pura. Accumulavo piccoli miglioramenti giornalieri. Aumentava anche il mio desiderio di riprendere il controllo del mio corpo. Gli insegnamenti del nonno furono preziosissimi come sempre. Iniziai a concentrare la mia attenzione mentale su un muscolo e pretendevo che mi ubbidisse, volevo, fortemente volevo. La determinazione e l’instancabile fiducia di farcela mi premiavano. Pagavo così il prezzo di ciò che desideravo ardentemente! E la vita mi premiava, giorno dopo giorno. Progredivo e dopo poche settimane avevo parzialmente recuperato la vista e in parte gli arti superiori. Rimaneva soltanto da rimettere in moto il bacino, gli arti inferiori e la parola. Tutti i giorni mi venivano a prendere degli infermieri per farmi diverse terapie. Queste terapie mi costringevano a un’immobilità totale, perché affermavano che muovermi fuori dal loro controllo avrebbe potuto essermi fatale. Conobbi la mia visitatrice misteriosa. Era una mia coetanea, bellissima. Era ricoverata al piano terra per una malattia rara che le stava riducendo progressivamente la massa ossea. La decalcificazione progressiva aveva già creato danni al bacino e agli arti inferiori. Viveva in un bellissimo appartamento sito al piano terra, era la figlia del Primario. Mi spiegò che veniva a trovarmi perché non vedeva mai nessunointorno al mio letto e avendo saputo di me tramite il padre, considerava cosa buona starmi vicino. Il suo sorriso e le sue carezze erano la testimonianza di una “simpatia” per ora non espressa.

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Decisi che dovevo recuperare le gambe. Architettai un piano che avrebbe dovuto accelerare i progressi della mia atrofia muscolare. In quegli anni, abitualmente, dopo l’ispezione notturna delle ore 22, gli infermieri spegnevano le luci lasciando accese solo quelle notturne. Contattai la mia “guida”, chiesi conforto e aiuto alla realizzazione del mio progetto e percepii un via d’uscita. Decisi dunque che quella notte l’avrei messo in pratica. Attesi le ore 23,00, quando le luci erano spente e la maggior parte dei ricoverati dormiva. Scivolai fuori dal letto a testa in giù potendo contare solo sulle braccia per qualsiasi movimento o spostamento del corpo. Purtroppo il problema sorse quando dovetti portare a terra bacino e gambe. Fu un tonfo terribilmente doloroso. Ma al dolore risposi con un entusiastico «Sì! Ce l’ho fatta! E non fa male». Il dolore era superato dal successo iniziale della missione. Iniziai, guardingo, a trascinarmi sul pavimento della stanza in direzione del corridoio. Avanzavo con le braccia, e tutto il resto mi seguiva. Continuavo a ripetermi: «Non fa male, vai avanti, non fa male, anzi ti fa bene, vai avanti». Percorsi carponi mezzo corridoio, quando vidi una stanzettina illuminata. Avvicinandomi riconobbi la voce di due infermiere. Mi fermai per non essere scoperto e dopo un attimo mi trascinai fino alla soglia della porta. Dalla mia posizione privilegiata vidi quattro gambe meravigliose. Sorrisi dentro di me e pensai che se la mia mente riusciva a distinguere le cose belle ero già sulla via di guarigione. Belle e formose, disinvolte bergamasche, stavano passando il loro turno di notte raccontandosi le loro reciproche avventure erotiche. Mi sembrava di assistere a un film a luci rosse. Di tanto in tanto l’una elargiva all’altra consigli basati sui successi ottenuti impiegando strategie amorose. Lo spettacolo era piacevole, così pure i commenti piccanti, ma dopo un po’ prosegui, passando inosservato davanti alla loro porta. Arrivato in fondo al corridoio ero sudato e affaticato. Tentai di mettermi seduto, inutilmente. Ritentai e ritentai ancora senza risultato. Decisi di riposarmi un po’. Dopo mezz’ora una delle due uscì per infilarsi nel bagno che stava proprio di fronte alla loro saletta. Trattenni il respiro, la vidi entrare chiacchierando, uscì chiacchierando, non si accorse di me. Il tema era: «Lo sai quel porco di Luigi cosa mi ha fatto la settimana scorsa?». L’altra rispose di no e la conversazione proseguì... (simpatizzai con Luigi) e ripresi la via del ritorno. Impiegai il doppio del tempo rispetto all’andata. Lo sforzo fisico era enorme e le mie forze molto deboli. Raggiunsi il mio letto e costatai chel’orologio segnava le 4 e 45 minuti. Tentai di riportare il mio corpo sul letto ma non ce la feci. Mi riposai un attimo e riprovai, non ci riuscii. Al terzo tentativo commisi l’errore di aggrapparmi al comodino, ma ricaddi con il comodino e tutto quello che vi era posato sopra. Il rumore che attirò le infermiere fu forte ma ancor più forte fu il dolore da me avvertito. Si riaccesero le luci, entrarono gli infermieri del primo turno e mi trovarono per terra. Mi rimisero sul letto tra mille domande. Quando più tardi passarono i medici, qualcuno li aveva già informati. Furono saette e fulmini per tutti. Io non parlavo... mi andò bene. Il professore sentenziò che dovevo essere maggiormente controllato. Ma quella sera stessa ripresi i miei programmi di allenamenti notturni. Alle 4,30, ritornato al mio letto, ottenni la complicità dei miei vicini, i quali mi rimisero sul letto. Mi stavo progressivamente riprendendo. Dopo 10 giorni mi ero costruito una rete di complici e tutto filava per il meglio. Dopo un mese mi misi in testa di compiere una grande avventura.

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Scendere al piano terra da lei. Mi premunii di un bastone, necessario a premere i pulsanti dell’ascensore. Vennero le 11 e partii per la mia missione. Feci fatica ma raggiunsi l’obiettivo. La cosa più difficile fu entrare nella sua stanza. Ma quando lei capì che stava per accadere qualcosa di diverso venne alla porta e nel vedermi là fuori per poco non svenne. Passammo la notte in bianco... La cosa si ripeté quasi ogni sera, in pratica vivevamo di notte e dormivamo parzialmente di giorno. Era una piacevole crescente amicizia. Ricominciai a pronunciare delle parole, all’inizio con difficoltà e senza riuscire a fare delle connessioni, ma con pazienza arrivai a farmi capire. La pazienza era soprattutto degli altri. La mamma era apparentemente felice dei miei progressi, però scorgevo sempre una lacrima sul suo viso quando mi lasciava. Le parlai di Lei e una domenica la conobbe. E la mamma la ringraziò. Passai alle stampelle, tutto era straordinariamente più facile. Andavo ovunque e sembrava che tutto l’ospedale sapesse di me. La gente mi salutava, chiedeva dei miei progressi, mi rivolgeva auguri, e i medici mi dicevano che non dovevo uscire dalla stanza nella quale mi trovavo. Io annuivo e seguivo il MIO programma terapeutico. Nessuno mi mosse più né prediche né rimproveri. Tutti sapevano ma nessuno parlava e io ero più contento. Dopo mesi con due stampelle, decisi di camminare con una sola stampella; caddi una, dieci e più volte, ma la forza di volontà ebbe il sopravvento e superai gli ostacoli. Ero sottoposto a terapie dall’alba al tramonto. Nelle ore libere non ero rintracciabile, anche perché nessuno osava oltrepassare la porta dell’appartamento del professore. Accadde una sola volta che, per un’iniezione non prevista, rimasi 10 minuti nascosto nel bagno. Mi domandai cosa avesse pensato l’infermiera quando aveva visto la mia stampella sul letto. Ma anche lei sapeva, lo sapevano tutti tranne il Professore e tutti tacevano. Fantastico. Fu proprio suo padre che, durante una visita mattutina, mi disse: «Complimenti Aldo, faremo alcuni nuovi esami e se tutto va bene fra 15 giorni probabilmente tornerai a casa». Camminavo a stento, ma senza stampelle. Da quel giorno, galvanizzato dalla notizia inattesa, cambiai i miei programmi di allenamento passando 14 ore nel parco retrostante il reparto. Funzionava il cocktail di esercizio fisico, buoni pensieri, automotivazione, meditazione, determinazione. Dopo quattordici giorni venni chiamato nello studio privato del Professore, sito all’ultimo piano. Avevo visto nei film, che il direttore del carcere fa la romanzina finale al detenuto in procinto di essere messo in libertà, ma sinceramente non credevo che ciò avvenisse anche ai dimissionari di un ospedale. Il professore che simpaticamente mi chiamava «Caro Aldo», iniziò con eloquenza medica a elencarmi i danni subiti dal mio corpo a seguito del trauma. La terminologia medica utilizzata mi disorientò, talvolta annuivo ma non capivo. Poi, con una premessa lunghissima, trovò il modo di elencarmi ciò che avrei potuto fare, e ciò che non avrei potuto fare, tipo: – non puoi fumare – non puoi guidare – non puoi lavorare – non puoi fare sforzi fisici – non puoi subire stress mentali – non puoi viaggiare da solo – non puoi fare sport

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– non puoi avere rapporti sessuali – non puoi... L’elenco mi turbò molto, ma i divieti continuarono... non lo seguivo più. Avrebbe fatto prima a dirmi cosa potevo fare. Vedendomi smarrito cercò di darmi spiegazioni mediche che non capivo.Vedevo imbarazzati anche i suoi assistenti medici. Poi parlò il neurologo e aggiunse benzina all’incendio che già divampava nella mia mente. Nel tentativo di rompere la tensione che si era creata mi offrirono da bere. Accettai ma la tensione aumentò. Ma il dolce non era ancora stato servito. Il professore continuò dicendo: «Vedi, caro Aldo, i tuoi valori critici e asintomatici potrebbero ripresentare ulteriori traumi futuri inaspettati e imprevedibili se tu non rispetterai i consigli dati. Devi essere molto cauto e prudente, se lo sarai, le aspettative di vita possono essere anche di altri 15 anni». Ero seduto. Cercavo di “guardare oltre”. In un secondo riavvolsi il triste film della mia vita vissuta fino a quel momento. Avevo già infranto, in pochi attimi, molti dei “non puoi”. Cercai la “mia guida”, la invocai mentalmente: «Nonno rispondimi». Poi gridai ad alta voce: «NONNOOOOO!». La risposta arrivò e fu: «VIVI IL TUO SOGNO!». Il mio urlo preoccupò i medici, e forse anche l’espressione che avevo in quel momento non era del tutto tranquillizzante. Di fatto nessuno pronunciò più parola. Mi versai da bere dalla caraffa d’aranciata disponibile, ma prima di portare il bicchiere alla bocca, fermai la mia mano tremula e, guardando dritto negli occhi il Professore chiesi con tono pacato e cortese: «Professore, posso bere?». Lui rispose frettolosamente: «Sì, sì certo... prego». Bevevo lentamente l’aranciata e riflettevo alla velocità della luce, forse di più. Poi mi alzai, tra miliardi di pensieri, fermai il mio nastro personale su di un “non puoi” e rivolsi un quesito al professore: «Scusi, poco fa tra i tanti “non posso”, lei mi consigliava di non vivere stress mentali, vero? Cioè non devo vivere emozioni, non devo provare forti emozioni, vero?» Lui ebbe un attimo d’esitazione e poi mi diede una lunga spiegazione medica e scientifica sulle possibili ripercussioni di un eccesso emotivo sul cervello. Cercò persino consenso nel collega neurologo. Più rimanevo in silenzio più loro cercavano di darmi spiegazioni. Io decisi che stavano sbagliando entrambi e li interruppi. Feci una pausa di dieci secondi, passeggiando lentamente in quel grande ufficio poi, rivolgendomi a tutti e tre i medici presenti, posi il seguente quesito: «Cari dottori, mi avete appena detto che se voglio sperare di sopravvivere qualche anno devo da ora in poi vegetare? Mi avete appena detto che la mia vita è a rischio istante dopo istante? Mi avete spiegato con eloquenza medica i rischi che da ora in poi dovrò affrontare? Rischi di sopravvivenza costanti e permanenti e che se mi comporto bene, “FORSE” posso anche sperare di sopravvivere altri 5.000 giorni? Cioè se va bene mi rimangono 120.000 ore di vita? 7.200.000 minuti d’attesa? Se va bene? E se va male? NON CAPISCO SE È UN CONSIGLIO MEDICO, OPPURE, “UNA SENTENZA DI MORTE”, non capisco, non voglio capire, è assurdo! Ma non mi avete appena consigliato di non vivere forti emozioni e un attimo dopo spiegate a un ragazzo di 18 anni che forse gli rimangono... no, professore, NO! Lei si è sbagliato! Ora le spiego il perché del suo errore: se a 18 anni, dopo aver subito ciò che ho subito, dovessi

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uscire da questa stanza con uno solo dei suoi infiniti “non puoi”, probabilmente non arriverei a casa, allora sarebbe meglio salutarla buttandomi dalla finestra ora. Cinque piani a testa in giù sono una certezza. No Professore. Lei si è certamente sbagliato! Non sta guardando un redivivo, lei sta guardando “LA VITA”. Ringraziandola per tutto ciò che ha fatto per me tornerò a casa con un preciso obiettivo... VIVERE I MIEI SOGNI PIÙ INTENSAMENTE». Pronunciai le ultime frasi ad alta voce, e mi venne il sospetto che il mio discorso di commiato fosse stato udito anche al piano terra. Ero tornato in perfetta forma e in possesso di tutta la mia determinazione. I dottori avevano già un colorito “bianco medico”, ma dopo le mie osservazioni sulla “sentenza rifiutata” assunsero un tono ancora più pallido. Si agitarono molto quando frettolosamente mi avvicinai alla finestra. Guardai sotto e mi voltai sorridendo, sarebbe stato un bel volo! Ritornarono “bianco medico”. Poi strinsi generosamente la mano a tutti e tre e sorridendo li salutai. Promisi di parlar di loro alla mia “guida” e uno dei medici mi ringraziò. Promisi anche che avrei fatto parlar di me. Promisi che a trentatré anni avrei celebrato un “miracolo” al quale loro non sarebbero stati invitati per non essere messi in difficoltà medica e scientifica. Promisi loro di vivere intensamente e pericolosamente. Promisi loro che avrei dedicato una parte della mia lunga vita terrena ad aiutare gli incerti a divenire più certi. A pensare positivo. A sognare.

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Vivo di nuovo

Sono passati da quell’ardua sentenza 40 anni e continuo a vivere intensamente per raggiungere un mio nuovo GRANDE SOGNO. Lasciato il quinto piano, con il desiderio di recuperare velocemente il perduto, scesi al piano terra per salutare la mia amica e compagna di sventure. Non era nell’appartamento ma la vidi in corridoio con un carrellino bagagli. Ci stupimmo entrambi e costatato che eravamo entrambi dimissionari ci abbracciammo con gioia. Lei mi chiese dove andavo e io risposi: «A casa, ovviamente». «Ma che fretta hai?» replicò lei, «Perchè non passiamo una settimana insieme a casa mia?». Riflettei un attimo, il conflitto non era stare con lei ma andare a vivere una settimana a casa del mio giustiziere. La presi come una piacevole sfida e dissi di sì! Dopo pochi attimi, una grossa Mercedes con autista si presentò all’ingresso. Caricarono i bagagli e partimmo per casa sua. Era una grandissima villa, in territorio italiano, e per pochi metri vicina al confine svizzero. Giardini lussureggianti, servitù di prim’ordine. Conobbi sua sorella maggiore di due anni, bellissima pure lei e poi, quella che io credevo fosse un’altra sorella ma che altro non era che la mamma. Straordinaria signora. Simpatizzare con lei fu facile, in quella casa ho avuto la sensazione che anche i cani sapessero a memoria la mia storia. Ero un esempio! Lusso e buon gusto ovunque, non una piuma fuori posto. Mi assegnarono una delle tante camere riservate agli ospiti e, regalo della mamma, una valigia di abiti su misura per me. Passammo le ore che ci separavano dal pranzo a visitare parte della la casa e parte degli immensi giardini. Era tutto straordinariamente bello. Uno dei camerieri di casa, ci avvisò che il pranzo sarebbe stato servito dopo 10 minuti. Lei mi accompagnò in sala da pranzo, e mi fece accomodare accanto alla mamma. Arrivò anche sua sorella e, dopo un brevissimo scampanellio, venne servito il pranzo. Mi ero dimenticato dei pranzi regali e delle buone abitudini dell’alta borghesia. Mancava il professore, lui pranzava in clinica. Dopo il pranzo, la mamma ci consigliò di andare a riposare un’oretta, in fin dei conti eravamo ancora parzialmente convalescenti. Pensai che sarebbe stato bello andare a riposare insieme, ma non azzardai almeno per quel giorno... Trascorse il pomeriggio tra tè, passeggiata nel parco, “interrogatorio” in salotto da parte della mamma, e tanti sorrisi. La mia euforia e allegria riempirono quella casa, tanto da credere che fossero le uniche cose mancanti, tra tanto sfarzo ed eleganza. Mancavano allegria e gioia di vivere, mancava la vita! Lasciarmi trasportare ed esagerare fu facilissimo, e tramite loro tre percepii che “l’aria insolita” era molto gradita. Venne la sera e, in procinto della cena, mi invitarono a cambiarmi d’abito. Tutte si cambiarono d’abito. Il maggiordomo ci informò che la cena sarebbe stata servita dopo 10 minuti. A tavola vidi il professore. Rimasi sorpreso del suo stupore nel vedermi. Le sue donne gli avevano fatto una sorpresa, lui non era al corrente della mia presenza in casa sua e fu costretto a far buon viso a cattivo gioco. Le ragazze si sbellicavano dalle risate e, dato che il riso è contagioso, dopo qualche attimo anch’io mi misi a sorridere tanto che, alla fine, sorrise pure lui. Fumammo il calumet della pace e la settimana trascorse allegramente. Alla mia presenza, non una parola che riguardasse la mia salute o altro, ma solo allegria. Nelle successive 48 ore avevo ripetutamente violato i divieti. Tutti i “non posso” erano stati praticati. Stavo splendidamente bene.

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Con la scusa che la sorella minore doveva riguardarsi, quella maggiore, un po’ birichina, mi trascinò un po’ ovunque e io accettai. Quello che non mi aspettavo, fu che anche la mamma, a partire dal quarto giorno iniziò con regali e complimenti eccessivi. Io ero giovane e a digiuno da 14 mesi... non capivo, ma al settimo giorno ripresi la mia libertà. Tornai a casa, accompagnato dal loro autista con due valige in più, tra abiti e regali. Salendo le scale di casa, Drago dette l’allarme, si aprirono oltre che la mia porta anche quelle dei vicini e fu una gran festa di bentornato. Ero molto benvoluto e tutti mi posero domande sul mio ritrovato stato di salute, altri gridarono al miracolo, altri mi abbracciarono. Anche la professoressa, di solito poco incline alle manifestazioni d’allegria, si lasciò andare a baci e carezze. E a chi non avesse capito, lei ricordava che il suo Aldo era tornato. Mi salvò dall’assedio dei vicini, prendendomi per un braccio e trascinandomi in casa. Non era mai venuta all’ospedale, e tutto quello che sapeva erano scarsi comunicati telefonici trasmessi da mio zio Wainer. L’interrogatorio estenuante durò settimane, ma ero preparato. Aprì la porta della mia stanza e tutto era perfettamente al suo posto, come l’avevo lasciata. Quella sera cenammo in tre: io, lei e Drago. Drago dava segni di squilibrio mentale, ma era solo per la gioia di rivedermi. Quella sera dopo cena le chiesi di portare Drago a fare due passi. Lei mi rispose che da quel giorno in poi potevo fare e disporre come credevo giusto. Mi meravigliò, la ringraziai e uscii. Feci un giro intorno a piazza Bausan e nelle zone limitrofe. Tornai a sentire i tintinnii dei tram, l’odore della pizzeria e, girato l’angolo, il portone che avrei riattraversato il giorno successivo per tornare al mio lavoro. Rientrai, Drago andò a dormire vicino al letto della professoressa e io nella mia stanza. Scoprii che sulla mia piccola scrivania si era accumulata una montagna di posta. Avevo già telefonato agli zii di Agrate, chiedendo loro di avvisare gentilmente la mamma che sarei tornato la domenica successiva a trovarla. Ero stanco, mi spogliai e, sdraiato sul letto, rivolsi i miei pensieri a tutti i miei cari e mi addormentai. La mattina successiva, alla solita ora tornai in ufficio. Notai dei cambiamenti nell’arredo, quasi ovunque mobili nuovi e una migliore disposizione degli spazi. Arrivarono poi lo zio e mio cugino e fu un nuovo interrogatorio; arrivarono anche impiegati e operai, i quali vedendomi non mancarono di far domande; poi arrivò il titolare, il quale mi prese per un braccio, mi portò nel suo ufficio e mi disse: «Ora mi racconti tutto dall’inizio alla fine!». Credevo quasi di essere diventato un fenomeno da circo, mi sembravano esagerati. Spiegai, risposi alle domande, raccontai dei particolari e venne sera. Il fenomeno del “ri-nato” si ripeteva ogni qualvolta incontravo vecchie conoscenze. In ditta mi affidarono nuovi compiti, mi aumentarono stipendio, compensi e responsabilità. La professoressa non mi chiese affitto per il periodo della mia assenza e lo zio Colonnello mi riabbracciò con una gioia mai dimostrata prima. La definii una gioia da “borghese” e non da militare. La domenica tornai a casa.

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Mancavano soltanto gli striscioni e la banda. La mamma aveva preparato un pranzo principesco composto dalle migliori ricette tradizionali mantovane e... “sbrisolona”. L’abbraccio amorevolmente eterno. Marco era cresciuto e anche Bruno, l’uno moro e l’altro quasi biondo. Entrambi bellissimi! La mamma aveva fatto bene a non raccontare loro nulla di me, se non cose buone. A pranzo tornò “Lui”, e il suo commento di bentornato fu: «Hai visto cosa vuol dire fare il cretino in giro per Milano?». Pranzammo quasi in silenzio, poi io e la mamma uscimmo e, passo dopo passo, arrivammo in paese. Andammo a salutare Roberto e ritornammo continuando i nostri racconti. Nel tardo pomeriggio, come da consuetudine, ripresi l’autostrada per tornare a Milano. Dopo circa un mese, sentii il desiderio di una maggiore intimità e decisi di trovare un monolocale in affitto. Ne trovai subito uno, a pochi passi da piazza Bausan, dotato di camera, cucina, bagno e un grande ripostiglio con armadio a muro. Era più di quanto mi aspettassi e costava meno di quel che credevo, firmai il contratto subito. Per arredarlo impiegai una settimana, dovendo far costruire dei mobili su misura. Finalmente avevo una casa! Un altro obiettivo raggiunto, in anticipo sulla scadenza da me fissata. Il passo successivo fu quello della patente. Mi ero preparato anticipando i tempi degli esami e fu così che sei giorni dopo il mio diciottesimo compleanno ero già munito di patente. Mi mancava la macchina. Guardando la lista dei miei desideri era in scadenza entro i 20 anni, cioè quando sarei diventato imprenditore. Bene, avevo ancora due anni di tempo. Misi in giro la voce che cercavo un’autovettura d’occasione e ricevetti un sacco di proposte. Poi un giorno mi fermò il Sig. Ettore (il titolare della ditta nella quale lavoravo) e mi chiese, come altre volte in passato, se volevo andare a pranzare con lui e se mi andava di “guidare il suo bolide”. «Certamente», gli risposi. Lui sapeva della mia passione per i motori e aveva cieca fiducia in me. Mi aveva più volte chiesto di portargli le sue auto di grossa cilindrata a fare tagliandi e pensai che volesse mettermi alla prova dopo l’accaduto. Ma io ero talmente sicuro di me che non ebbi esitazioni. A mezzogiorno mi chiamò e mi chiese di andare a prendere l’auto. Quel giorno aveva un’Alfa Romeo spider, 2000 cc, preparata meccanicamente da Conrero di Torino (il miglior elaboratore di motori esistente in Italia), ossia una macchina quasi da competizione. Solo il metterla in moto faceva ribollire il sangue nelle vene anche a un non appassionato, figuratevi a coloro che amano le auto. Rossa fiammante, cappottina nera. Arrivato davanti alla palazzina, lui si sedette accanto a me e mi disse: «Direzione Como». Misi la prima marcia e uscii lentamente, dirigendomi verso l’autostrada. Stavo procedendo con prudenza a media velocità, quando, tra uno scherzo e l’altro mi disse, imboccando l’autostrada, che forse era il caso di accelerare un po’, altrimenti saremmo ritornati a sera. Lo guardai sospettoso e gli risposi: «Sig. Ettore, ho appena preso la patente...» e lui: «Sì, sì, vai,vai, vai che ho fame». Accelerai, ma lui aggiunse: «Vai, vai, non avere timori, non siamo neanche arrivati a 200». Pochissime macchine, a quei tempi, giungevano a tali velocità, ma l’elaborazione apportata a quel motore era impressionante. Lui guardava la lancetta del contachilometri salire e sorrideva: «Ti piace Aldo?» «Certo Sig. Ettore, mi sembra un sogno». «Bene, bene» disse lui, «usciamo al prossimo casello e siamo quasi arrivati». Uscii dal casello e lui mi provocò ulteriormente, dicendomi: «Sai dov’è il Golf Club di Monza?». Io risposi di sì. «No, ti guido io, così facciamo un po’ di misto» «Fantastico», risposi.

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Inizio il mio rally con il Sig. Ettore: «Vai accelera, 2 a destra, terza marcia, accelera, accelera, 4, 5, frena, 4, 3, 2, tutta a sinistra in accelerazione, 3, 4, frena, scala due marce a destra, primo cancello a destra. Siamo arrivati! Bravo, Aldo». Qualcosa bolliva in pentola. Entrammo al Club, mancavano dieci minuti all’una, non c’era quasi nessuno all’infuori di decine di camerieri che alla vista del Sig. Ettore si profusero in inchini e «Prego ingegnere, dove vuole. Desidera il suo solito tavolo?» Lui rispose con un sì perentorio. Il direttore si avvicinò con i menù, ma lui lo anticipò chiedendo “il solito”; poi il direttore guardò me e anch’io risposi “il solito”. Il Sig. Ettore mi diede una pacca sulla spalla e ridendo come un pazzo disse: «Bravo Aldo». Mi misi a sorridere anch’io, ma solo per induzione. Ci portarono una bistecca alla “Fiorentina”, in piatti così grandi mai visti prima. Lo stupore non era motivato dal grande piatto, ma dalla bistecca che ne ricopriva l’intera superficie. Una montagna di carne, alla quale faceva compagnia un’altra montagna di insalata mista. Poi si avvicinò un altro cameriere con strani gradi sulle spalline e una grandissima catena al collo che terminava con un piccolo contenitore. Il Sig. Ettore, alzando una delle sue mani gigantesche, lo “paralizzò a distanza”, e impartì un ordine: «Il solito!». Arrivò una bottiglia di “Spanna” d’annata, da far risorgere le pietre. Il pranzo fu accompagnato da una vista sul parco indimenticabile e da un sottofondo musicale di un discreto pianista invisibile. Battute, scherzi, qualche barzelletta, resero quel pranzo diverso. Ma qualcosa bolliva in pentola. Infatti con il dolce, arrivò l’inaspettata sorpresa. L’ingegnere mise una mano sulla mia e guardandomi dritto negli occhi, chiese: «Caro Aldo, cosa vuoi fare da grande?» Invertii la sovrapposizione delle mani e, senza esitazione alcuna, affermai: «Caro ingegnere, entro due anni sarò un imprenditore! Questa è la mia prossima meta. Una tappa intermedia per il progressivo raggiungimento del MIO SOGNO!». Il signor Ettore, sorridendo, mi diede delle gran pacche sulle spalle e mi disse: «Bravo, ho fiducia in te e sono sicuro che ce la farai e, se avessi bisogno vieni sempre da me, sarei orgoglioso di esserti utile. Emani odore di buono, di buone idee e buoni propositi». Poi guardò il suo orologio d’oro massiccio, erano le 14,00. Ci alzammo e uscimmo tra mille inchini e ringraziamenti, dirigendoci all’autovettura. Io gli porsi le chiavi e lui mi invitò a guidare, lanciandomi una sfida. «Caro Aldo, abbiamo fatto tardi al ristorante e mi sono dimenticato di un appuntamento, fissato in ufficio tra 40 minuti, tu pensi che potremmo essere puntuali all’appuntamento?». Non finì di lanciarmi la sfida che avevo già messo in moto e risposto «Certamente sì!». Lui commentò: «Sarà difficile... Ma se arriviamo puntuali ti darò un premio». Non avevo bisogno di ulteriori stimoli per far “ruggire il mostro”. Sul percorso misto, notai l’ingegnere aggrappasi alle maniglie di sicurezza, si mise occhiali scuri, irrigidì le gambe e non pronunciò parola se non nel cortile dei suoi uffici. Percorso netto, 31 minuti! Scese, si tolse gli occhiali, si diede un’aggiustata a giacca e cravatta, poi appoggiò entrambe le mani alla cappottina nera e sorridendo mi disse, «MATTO!». Rideva lui, risi anch’io. Allora mi abbracciò e ricordando che mi era debitore di un premio, mi disse che era quella macchina! Non ci credevo, nemmeno se l’avesse ripetuto, ma in quel momento uscì sul cortile mio cugino Vittorio al quale disse di provvedere a volturare la

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macchina a mio nome. Il tono era serio, iniziai a sospettare. Poi Vittorio gli chiese se me l’avesse venduta e a quanto. Il Sig. Ettore gli rispose di no, che l’aveva persa in una scommessa con me. Ne divenni il “nuovo” proprietario. Ero maggiorenne da una settimana. Guardò di nuovo l’orologio e, sempre sorridente, mi disse: «Dai, ora andiamo a lavorare». Stavo sognando? Avevamo bevuto troppo? Cosa stava accadendo? Quella sera, guardai sotto il cofano del bolide, prima di richiuderlo e portare la vettura all’interno di uno dei capannoni. Con quella visione tornai a casa correndo di gioia. Stavo forse sognando? Non fu così perché lo zio Wainer il giorno dopo mi fece firmare dei documenti da presentare all’agenzia automobilistica accanto ai nostri uffici. Non era un sogno, ma la realtà. La sera, prima di tornare nella mia casa, a volte passavo a salutare la professoressa e Drago; sentivo la loro gioia, ed ero felice di donare loro ciò che potevo. Altre volte andavo da zio Sandro, il “Colonnello”; cenavamo a casa sua per poi uscire. Mi aveva presentato moltissime persone, tutte snob, altolocate, grandi professionisti in rami diversi, in altre parole il mondo dei ricchi. Gli amici che avevamo frequentato in una di quelle occasioni, ci invitarono a una festa che si sarebbe tenuta il venerdì successivo nel palazzo di un marchese marchigiano e lo zio accettò. «Mi raccomando porta anche Aldo», disse il marchese. Lo zio durante la settimana mi portò da Galtrucco e mi fece confezionare vestiti e camicie di seta su misura. Guardandomi allo specchio devo ammettere che stavo veramente bene. Comprai anche scarpe e altro. Avevo ora un guardaroba perfetto per tutte le occasioni. Venne venerdì, e non potevo immaginare che quella sera la mia vita sarebbe cambiata. Ci recammo alla festa alle ore 22, come da invito. Avevo già visitato case lussuose nel centro di Milano, ma quella aveva un tocco di personalità eccezionale. Sembrava di essere all’interno di un castello fatato. Nulla era lasciato al caso, l’arredo era sobrio ma importante, quadri e arazzi tappezzavano parte dei muri, candelieri diffondevano una romantica luce ottocentesca, l’argenteria era ricercatissima sia nelle forme che nelle dimensioni, c’erano fiori, giochi d’acqua e profumi esotici. In un salone alcuni ballavano lentamente, la musica era dolce e romantica. In un altro salone si erano formati capannelli sia di uomini che di donne, i quali conversavano talmente sottovoce che mi indussero a pensare che stessero svelandosi chissà quali segreti. Invece erano solo “buone maniere”. Camminando accanto allo zio, venivo presentato agli ospiti e strinsi e baciai tante mani cariche di oggetti preziosi. Lo zio gongolava per i complimenti che molti gli facevano riguardo la mia persona, tipo: «Colonnello, ma che bel ragazzo, dove l’ha tenuto nascosto finora? Colonnello venga a pranzo da noi la prossima domenica, con suo nipote». Poi un famoso regista gli disse: «Colonnello, ma suo nipote deve fare cinema, con il fisico e la personalità che madre natura gli ha donato, lo mandi da me e ne farò un divo». Quanta gente, ricca, famosa, benestante, erano tantissimi, probabilmente più di cento. Prima di conoscerli tutti venne mezzanotte. Il padrone di casa attirò l’attenzione su di sé, brandendo una bottiglia di champagne invitò tutti a brindare al diciottesimo compleanno di una contessina lì presente. Fu festa grande. La ragazza uno splendore e capii perché tutti la corteggiassero. Intorno a lei c’erano altre ragazze nobili, sue coetanee.

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La mia attenzione si posò su una signora elegante e discreta. Iniziai a osservarla e notai la sua diversità. Di tanto in tanto, un’altra nobildonna le presentava delle persone, che lei salutava. Aveva le mani occupate, una con un calice dal quale raramente beveva e l’altra dalla sigaretta che fumava voluttuosamente. Non ci volle molto a capire che era a rimorchio della contessa, che era sua sorella, una diva del cinema, ma che le due non si assomigliavano neanche lontanamente. Due contesse, due vite, due mondi contrapposti. Qualcuno notò il mio sguardo insistente (che la nobiltà non ammette), e mi disse: «Caro Aldo, non le è stato presentato l’oggetto delle sue attenzioni?» «No», risposi. «Venga», disse, prendendomi per mano. Mentre mi avvicinavo, non staccai il mio sguardo da quello della ragazza nemmeno per un istante. Arrivati al suo cospetto, il mio presentatore disse: «Scusi contessa Franca, sono onorato di presentarle il nipote del Colonnello, il signor Aldo». Le feci un baciamano e iniziammo una piacevolissima conversazione. Il nostro presentatore si era dileguato. Passammo di salone in salone, lei mi teneva il braccio e io ero fiero della sua presenza al mio fianco. Udii anche commenti favorevoli, esternati dalle più attempate nobildonne presenti, tipo: «Che bella coppia, che donna fortunata la Franca, ma lui chi è?». Improvvisamente partì un valzer e la invitai a ballare. Ballavamo un valzer figurato, difficile se non c’è un affiatamento quasi simbiotico. Dopo cinque minuti facemmo il vuoto intorno a noi. Le altre coppie si erano fermate e tutti ci osservavano. Terminò la musica e scrosciarono applausi, subito dopo suonarono un tango e fu passione, sembrava che fossimo una vecchia coppia di ballerini affiatati, ricevemmo altri applausi e complimenti da molte persone. L’avevo vista per un attimo sorridere, era “bellissima”. Mi prese il braccio e mi chiese di accompagnarla a bere qualcosa. Era felice in quel momento. Eravamo diventati la coppia della serata e se ne sarebbe parlato per anni, anzi per decenni. Passammo altre due ore insieme, e percepii che ci sentivamo entrambi come pesci fuor d’acqua in quell’ambiente. Poi guardò l’orologio e mi disse che si era fatto tardissimo, doveva rientrare. Anche se ero con lo zio, mi proposi di accompagnarla, ma lei rispose che abitava a Biella e quindi sarebbe tornata da sola con la sua macchina. Io le chiesi di sua sorella, ma lei mi rispose: «No, lei abita sulla “luna”, non con me, probabilmente si fermerà a Milano o da amici, vedi queste persone sono quasi tutti amici suoi». Prima di lasciarla le chiesi come poterla contattare e sul portone di quella casa lei mi diede un biglietto da visita e io un bacio. Si allontanò, correndo come una gazzella. Rimasi sul quel portone per parecchio tempo, guardavo nel buio della notte e cercavo di memorizzare tutto di lei. Mi era piaciuta molto. Poi sopraggiunsero le domande alle quali non avevo risposte: Chi è veramente Franca? Cosa fa nella vita Franca? Sarà sposata? Perché avevo percepito uno stato di sofferenza in lei? Aperta nella conversazione, ma ermetica per la sua vita privata. L’avrei rivista? Tornai tra la folla di quella festa e sembrava che tutti volessero parlare o ballare con me. La contessina festeggiata arrivò a dirmi: «Ora che la tua lei se ne è andata, potresti farmi almeno ballare?». Io le risposi di no. Ricevetti inviti da tutti, ma in realtà non conoscevo nessuno. Dopo un’ora circa, io e lo zio lasciammo la festa. Elegante e discreto, lo zio fece il suo commento: «Bella ragazza!». Gli chiesi se era possibile sapere qualcosa di lei. Lo zio rispose:

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«Certamente. Cosa vuoi sapere di lei?». Io gli dissi: «Tutto!» «Va bene Aldo, dammi qualche giorno e saprai». Mi accompagnò a casa e si complimentò per il mio comportamento alla festa. «Sono veramente orgoglioso di te». «Grazie, zio e buonanotte». Passai le poche ore che mancavano prima di andare al lavoro pensando a lei. C’era qualcosa che mi attraeva in modo particolare. Dormii due ore e poi gambe in spalla e via. Quella domenica non andai dalla mamma, dovevo fare le pulizie settimanali e altri piccoli compiti che chi vive da solo deve sbrigare. Dovevo rivedere lo zio, martedì sera, e la Paolina (la sua governate personale) mi aveva promesso risotto alla parmigiana, il migliore che io abbia mai mangiato in vita mia. Alle 19,59 eravamo a tavola e dopo le preghiere ci gustammo una cena deliziosa. Terminata la cena, lo zio beveva abitualmente un buon Cognac, sprofondato nella sua poltrona e, tra una sigaretta e l’altra, quella sera sospese le lezioni abituali e mi parlò di Franca. Mi raccontò la sua vita, dalla nascita alla sera del nostro incontro. «Bel soggetto» concluse, «una bella persona». Detto dallo zio, quel “bel” valeva almeno il doppio! Come poteva aver raccolto tanti dettagli? Forse negli archivi centrali della polizia, pensai. Lui era Colonnello medico, ed esercitava in Sant’Ambrogio… Oppure aveva chiesto un favore al Comandante Nardone, Prefetto di Milano? Oppure aveva contattato uno dei suoi tanti amici. Il racconto mi lasciò esterrefatto, soprattutto per certi particolari. La ragazza aveva dieci anni più di me ma ne dimostrava molti meno, e io dimostravo fisicamente 10 anni in più di quelli che avevo, quindi insieme sembravamo coetanei. Scoprii i motivi della sua parziale introversione e gli aspetti delle sue sofferenze interiori. Venni anche a sapere che era la direttrice commerciale di una delle più importanti aziende del settore tessile biellese. Era divorziata e non aveva figli. Il suo matrimonio era durato sette giorni. Frequentava pochissime persone al di fuori del suo lavoro, al quale dedicava tutta se stessa. Amata, colta, stimata per le sue qualità sia morali che intellettuali, era corteggiata dal bel mondo e richiesta dai più grandi industriali tessili per le sue capacità e conoscenze tecniche del settore. Mora, fisicamente ben fatta, aveva alcuni tratti orientaleggianti, così pure alcuni suoi modi di fare e di pensare, dolci, delicati, rispettosi, prudenti, non invasivi. Si prodigava per bambini e anziani, dedicava parte del suo tempo per i bisognosi e ascoltava tutti. Prodiga, disponibile, generosa, molto generosa. Se la dovessi paragonare a un fiore, sarebbe stata una sterlizia di giorno e un fiore di loto la sera. La mattina successiva le inviai dei fiori e un bigliettino nel quale la ringraziavo per la bella serata trascorsa insieme. Durante la settimana la chiamai e ci facemmo confidenze. Poi, un giorno, mi rispose la sua segretaria, che aveva imparato a riconoscere la mia voce e che al telefono mi trasmetteva simpatia, tanto da diventare mia complice nel darmi alcuni suggerimenti. Quel giorno mi disse: «Sig. Aldo, la contessa è negli Stati Uniti per lavoro e tornerà tra quattro giorni, cosa devo riferire?» «Riferisca della mia chiamata, grazie». La contessina Franca non avrebbe mai potuto contattarmi, non avendo a lei lasciato alcuna traccia di me. Attesi sei giorni, dopo i quali la richiamai. Mi rispose la solita segretaria e quasi mi rimproverò per non aver chiamato prima, dicendomi: «Ma sig. Aldo, le avevo detta quattro giorni, non sei». Io risposi: «Va bene, va bene, ma ora posso parlare con lei?» «Sì, sì, certo, mi scusi, subito, ma mi raccomando

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richiami ancora, anche perché la signora non sa come contattarla». La Franca aveva una complice, la sua segretaria. Finalmente la sentii e fu piacevole. Al termine della nostra chiacchierata la invitai a pranzo per la domenica successiva. Accettò. L’appuntamento era in piazza Diaz, andammo a messa in Duomo, facemmo quattro passi in galleria, e poi andammo a pranzo. Il pomeriggio volò e riuscii anche a farla sorridere. Poi, verso sera, lei mi disse che doveva rientrare a casa, era già nei patti e non trovai carino muovere alcuna obiezione. L’accompagnai alla macchina, doveva tornare da sola a Biella e stava per imbrunire. Quando la vidi estrarre dalla borsetta delle chiavi, iniziai a guardarmi in giro per individuare quale potesse essere la sua macchina, ma non avrei mai indovinato. Era una modestissima 500 Fiat beige, con tettuccio apribile, che lei chiamava “topo gigio”. La baciai e salutandola scambiammo la promessa di sentirci in settimana. Salii sul mio bolide, che chiamavo “aquila”, perché pensavo che avrebbe anche potuto volare, pigiando l’acceleratore un po’ più del solito, e feci un salto ad Agrate. La mamma si stupì, tutti si stupirono e ancor più quando raccontai come l’avevo ottenuta. Feci fare un giro prudente a tutti. Tornati, vidi “Lui” che stava pulendo dietro casa il suo Motom e quando Marco gli disse: «Papà, vieni a vedere che bella macchina ha Aldo», lui rispose: «La sua macchina? Non è possibile, l’avrà rubata, meglio andare a denunciarlo ai Carabinieri!». Salutai la mamma e i fratelli e tornai lentamente a casa. Non le avevo ancora detto nulla della casa che avevo affittato. Pensai di diluire le notizie. Per la loro mentalità, troppe cose in così poco tempo erano incomprensibili. Comprai una pizza in piazza Bausan e tornai a casa. Accesi la TV e cenai, pensando a lei. Trasmettevano un bel film quella sera, lo guardai e poi andai a letto presto. Durante la notte sognai il nonno e non solo. Quello che ricordavo al risveglio era una sterminata prateria di un verde lussureggiante, mi sembrava simile alla proprietà del nonno ove viveva il Sig. Gutierrez, il fiume, tanti cavalli selvaggi, il nonno tutto di bianco vestito e una grandissima strada bianca che, serpeggiando, arrivava fino in cima alle alte montagne, allargandosi sempre più. Di quella immagine ciò che era anomalo era la strada. Di solito le immagini viste in prospettiva tendono a restringere o a rimpicciolire le cose lontane, in questa immagine invece la strada bianca si allargava. Che fosse un segnale? Aveva a che fare con IL MIO SOGNO? Messo i piedi per terra, corsi al lavoro, e la settimana fu entusiasmante. Durante la settimana ci sentimmo ripetutamente e lei mi invitò a pranzo per il sabato al ristorante “Il Castello”, a Candelo alle 12,30. Mi organizzai sul lavoro per essere in anticipo. Visitai quel piccolo borgo piemontese e mi piacque molto. Poi sentii il rumore della sua macchina e la vidi arrivare, bella, sorridente, raffinatamente elegante; ci baciammo e andammo a pranzo. Un tavolo era per noi riservato nell’angolo più bello del ristorante. Un vaso di cristallo a stelo, alto e sottilissimo, posto al centro del tavolo conteneva una sterlizia. Sorrisi... Iniziai a conoscere i piatti tipici del Piemonte e i vini, gli odori e gli aromi che non conoscevo. Terminato il pranzo, andammo al Santuario della Madonna Nera di Oropa. Fu uno spettacolo bellissimo sotto tutti i punti di vista. La catena montuosa si stagliava nel cielo, con una parte illuminata che brillava, l’altra in ombra che creava una macchia nera di contrasto. L’aria tersa, fresca, quasi pungente ci

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accarezzava i volti. Franca, naturalista e romantica, mi illustrava e spiegava il territorio. Camminammo molto. Alle 16 andammo alla messa, e poi ci dirigemmo lentamente verso il centro della città. Con la sua “topo gigio”, girammo su e giù per le strette vie cittadine, e Franca di tanto in tanto mi indicava le cose e i luoghi più significativi. Sembravamo due studentelli di scuola elementare, camminando per il centro mano nella mano. Arrivammo da “Ferrua”, il bar centrale dei super vip, difficilmente frequentato dal ceto medio. Entrammo baldanzosi, il proprietario si inchinò alla sua presenza e, dopo un signorile baciamano, le chiese se desiderava il suo solito tavolo. Lei annuì con un cenno del capo. Prendemmo posto, il tavolo era sistemato in una zona discreta, fuori dalla visuale della porta d’ingresso, ordinammo e fummo immediatamente serviti, ma non ci fu spazio per conversazione alcuna, anche perché ogni 30 secondi qualcuno le si avvicinava per porgerle saluti o ringraziamenti. Vidi che ero ignorato da tutti come se io fossi una cosa fuori posto. Lei lo capì e uscimmo. Mi riportò in Piazza Castello, a Candelo, ci scambiammo affettuosità e ci salutammo ripromettendoci di rincontrarci presto. Fu una bella giornata. Messa in moto la mia “aquila”, tornai a Milano, lentamente, molto lentamente. La domenica mattina, con il baule della macchina pieno di pacchettini accumulati durante la settimana, andai da mamma e dai miei fratelli. Giocai con loro e poi parlai a mamma del mio appartamento. Fu contenta, poi mi accennò alla situazione che non cambiava, anzi a volte peggiorava, e colsi tutta la sua infelicità. Io le dissi di farsi forza, che forse un giorno le cose sarebbero cambiate. Pranzammo, “Lui” trovò il modo per creare la solita disgustosa situazione, dicendo: «Anziché portare stracci e regali sarebbe meglio che portassi soldi, visto che ti ho mantenuto per tanti anni». Mi alzai, baciai i miei cari e ripartii. Passarono alcune settimane felici, io e Franca ci vedevamo la domenica, a volte a Milano a volte a Biella, e un po’ alla volta ci raccontammo la triste storia della nostra vita. Poi le parlai dei miei sogni, e ci svelammo la nostra vera età. Ma si sa che, quando esistono dei sentimenti affettivi, il caleidoscopio con il quale si guarda la vita ti offre sempre una versione diversa dalla realtà altrui. Durante la settimana che seguì, le dissi del mio appartamento di Milano e la invitai per un fine settimana, lei accettò. Arrivò un sabato mattina di buon’ora, salì e facemmo colazione, poi uscimmo per fare compere. Comprammo i prodotti alimentari che mancavano e fiori per decorare la casa. Eravamo felici, un’emozione nuova stava coinvolgendoci. Acquistammo anche una cassetta musicale e sei bottiglie di champagne. Sembravamo due fidanzatini. Rientrati in casa, passammo due giorni fantastici e gettammo le basi del nostro futuro rapporto. Quando la sera dopo lei partì, molte cose erano accadute. Si avvicinavano le feste Natalizie e ci accordammo su come e dove trascorrerle.

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Nasce un industriale

Trascorremmo il Natale ognuno con i propri familiari e le successive feste insieme. Fu proprio tra Natale e Capodanno che iniziammo a considerare l’idea di vivere insieme, la cosa entusiasmava entrambi. L’intesa tra noi era indescrivibile. E venne l’anno nuovo, avrebbe portato buone cose. Un sabato mattina arrivai all’appuntamento con Franca con un’ora di anticipo. Sostavo in attesa di lei, al solito bar, quando, un signore confidandosi con il proprietario disse a voce alta: «Sono veramente stanco di lavorare e, se oggi incontrassi un compratore venderei la mia ditta per metà del suo reale valore». Quella frase detta per scherzo rimbombò nella mia mente come un segnale. Osservai quel signore e dedussi che in parte per l’età avanzata e in parte per i risultati già ottenuti, una probabilità che fosse stanco di fare ciò che faceva era possibile. Avevo ancora 55 minuti da attendere, perché non investirli in una provocazione positiva? Mi alzai e mi avvicinai al bancone, presentandomi dissi: «Mi scusi Sig. Barbirato, ho inavvertitamente sentito la sua disponibilità a vendere. Io sarei seriamente interessato». Lui capì che non ero del luogo e m’invitò a prendere un altro caffè. Accettai. Il caffè nascondeva il desiderio di saperne di più su di me, ma quando gli dissi che stavo aspettando la contessa Franca... cambiò atteggiamento e divenne persino riverente nei miei confronti. Guardò il proprietario del bar, che annuiva in cenno di tacita conferma, avendo più volte assistito ai nostri incontri. Il Sig. Barbirato iniziò a spiegarmi di cosa si trattava, della composizione della sua attività, tessendo le lodi sia della clientela acquisita, sia dei suoi macchinari recentissimi, sia del personale estremamente affidabile e della redditività dell’impresa. Consultato l’orologio, gli chiesi se era possibile avere una rapida visione del tutto. Lui sorpreso chiese: «Ora?» «Sì, ora!». Gli feci notare che era stato lui a manifestare la sua disponibilità immediata. Sette minuti dopo eravamo nel parcheggio della sua ditta. Entrammo e mi spiegò alcuni passaggi di lavorazione iniziando a decantarne i vantaggi... lo interruppi e gli chiesi a bruciapelo il valore dell’attività e la proposta che intendeva farmi. Preso di sorpresa, pronunciò delle cifre. Risposi che il mio tempo a disposizione era finito e che ne avremmo parlato il giorno successivo. «A che ora la posso trovare?» Lui rispose che le operaie iniziavano alle sei e quindi lui sarebbe stato presente anche prima. «Bene» dissi, stringendogli la mano. «Ci vediamo domani mattina». Ritornai al bar dell’appuntamento, io e Franca arrivammo insieme e parcheggiammo uno accanto all’altra. Trascorremmo una bellissima serata e andai a dormire per la prima volta a casa sua. Fu inevitabile accennarle dell’incontro con il Sig. Barbirato. Scoprii che di quella famiglia lei sapeva tutto, e me ne raccontò la storia. Parlammo della sua richiesta e, visto che Franca conosceva il mercato, le chiesi se riteneva quell’investimento un buon investimento. Mi fece domande tecniche alle quali non potevo rispondere, però in linea di principio pensava che potesse essere un ottimo investimento, ma preferiva documentarsi meglio prima di darmi risposte precise. «Quando lo devi vedere?», mi chiese e io le risposi: «Domani alle 5,45». Mi diede consigli su cosa chiedere e, dovendo anche lei recarsi in ufficio, fissammo un appuntamento al “Castello” per il pranzo. La ditta del Sig. Barbirato era proprio a poche centinaia di metri dal ristorante. La casa di Franca era sobria, ben arredata, con pochi mobili ma di pregio. Fiori, lampade discrete e un delicato profumo orientale. Tornammo a sera inoltrata, lei viveva con la

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mamma e mi sembrava condivisibile che il primo incontro avvenisse di giorno e non nel cuore della notte. Rinviammo dunque le presentazioni al pomeriggio successivo. Quando lei si addormentò, rimasi ancora sveglio una buona mezz’ora. Cercai di capire cosa stava accadendo, avevo incontrato un uomo in un bar, aveva lanciato una provocazione e io tra poche ore sarei andato ad ascoltare la sua proposta. Cosa stava accadendo? Del mondo tessile io non sapevo nulla. Di macchinari tessili meno ancora. Poi pensai al nonno... E se fosse stata l’opportunità della mia vita? Poi pensai che “avevo un sogno”, diventare un imprenditore, quindi? Perché NO! Alle 5,45, parcheggiavo davanti alla ditta Barbirato & C. Il proprietario si meravigliò molto nel vedermi a quell’ora e mi manifestò la sua simpatia. Arrivarono dopo pochi minuti tutti i dipendenti e mi accorsi che erano tutte donne più o meno giovani e alcune giovanissime. Si avviarono i macchinari, l’ambiente era adeguatamente riscaldato e dopo circa mezz’ora, durante la quale lui aveva impartito ad alcune di loro le disposizioni su cosa fare, mi invitò a fare colazione al bar ristorante che si trovava accanto alla ditta. Lo seguii. Ci accomodammo in una parte tranquilla del bar, dopo aver ordinato cappuccini e brioche. Quando arrivò il proprietario, il Sig. Barbirato mi presentò, dicendo: «Vedi, questo signore è la persona alla quale venderò la mia azienda». L’altro gli rispose: «Fai bene a vendere, cosa aspetti? Vendi tutto e goditela!». Sorrisero. Terminata la colazione, io estrassi dalla mia borsa un block notes e due biro. Questa fu la seconda cosa che feci e lui rimase stupito. Lo incalzai dicendo: «Mi dica, Sig. Barbirato». Io prendevo appunti e non lo interruppi mai, e lui parlò per circa tre ore. Raccolsi dati sul tipo, l’età e la quantità dei macchinari; nomi e cognomi dei clienti che l’azienda serviva; produzione giornaliera, costi e ricavi e mille altre informazioni idonee a effettuare un’attenta valutazione aziendale. Non avevo notato uffici all’interno dei capannoni, se non un angolo riservato con un armadio a quattro ante e una vecchia scrivania, la stessa dalla quale ancora oggi sto scrivendo. Quando gli chiesi se aveva impiegati, lui rispose che non servivano impiegati fissi, ma un ragioniere esterno che si occupava di paghe e contributi. Continuò spiegandomi che, essendo una ditta che lavorava per conto terzi, ogni partita ultimata veniva consegnata con fattura e regolarmente saldata entro sette giorni e che solo due clienti pagavano a fine mese. Mi sembrò fantastico. Sottolineò ulteriormente il suo buon nome, la sua buona reputazione, quanto la sua ditta fosse importante e richiesta nella settore e non solo, e aggiunse anche altri aspetti positivi. Alla fine venne il momento della richiesta economica. Lui prese coraggio e pronunciò un cifra. Io presi più coraggio di lui e non svenni. Non battei ciglio alla sua richiesta e rimasi assolutamente in silenzio per un tempo che sembrava interminabile; fu lui a parlare di nuovo dicendo: «Questo è quanto dovrei chiedere per il valore dell’attività, ma... potremmo parlarne, sa... dipende da come paga, in quanto tempo, quali garanzie lei mi offrirà, eccetera». Andò avanti a svendersi per un buon quarto d’ora, e io restai in silenzio. Notai che il mio atteggiamento lo metteva quasi a disagio e che consultava ripetutamente l’orologio. Poi finalmente disse: «Mi scusi Sig. Aldo, dovrei andare un attimo a casa per prendere delle medicine e poi passare un attimo in banca». «Quanto fa la somma algebrica degli attimi?», chiesi io. Lo spiazzai e mi chiese spiegazioni... quando capì si mise a sorridere e rispose: «Circa mezz’ora».

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«Bene, ci rivediamo tra un’ora, ha documentazione di ciò che mi ha prospettato?». «Certo» rispose lui, «tutto a casa». «Bene, se me ne porterà copia le sarò grato». Mi assicurò che ci saremmo rivisti dopo un’ora con tutti i documenti. Lui partì in quarta per i suoi impegni e io chiamai Franca in ufficio. Mi rispose una centralinista che non conoscevo, la quale mi disse che la contessa non era in ufficio di sabato e mi invitava a richiamare lunedì mattina dopo le nove. Le dissi chi ero e mi passò subito la comunicazione. Le chiesi se poteva staccare dieci minuti. Lei mi rispose: «Aldo, per te tutta la vita». Non desideravo andare nei suoi uffici e le diedi appuntamento al “Calipso”, un bar che stava a mezza strada tra Candelo e Biella. “Topo gigio” arrivò con la lingua di fuori dopo 10 minuti, Franca scese di corsa ma con eleganza, era raggiante. Avevo già ordinato caffè per due e li stavano servendo. Le riassunsi la storia, ma sorprendendomi, lei mi interruppe, raccontandomi telegraficamente ciò che stavo per dirle, ma non avevo ancora cominciato a raccontare. Durante le ore che avevo trascorso con il Sig. Barbirato, lei aveva raccolto molte più informazioni dettagliate di quante non avessi potuto raccoglierne io. La ditta del Sig. Barbirato lavorava per le aziende più famose del settore tessile. I titolari di queste aziende erano suoi conoscenti o amici. Rimasi silenzioso ad ascoltare il referto tecnico commerciale. «Ditta?» «Sanissima». «Clientela?» «La migliore in assoluto». «Situazione economica?» «Creditizia». «Valutazione commerciale?» «£..., più di quanto richiesto dal Sig. Barbirato». «Avviamento?» «Elevato, perché potrebbe produrre molto di più». «Nei?» «Nessuno». «Perché vuole vendere?» «È una storia lunghissima, ma te la riassumo. La misera condizione economica della famiglia, indusse Arnaldo a espatriare in Argentina e per anni ha fatto l’emigrante. Ebbe successo e fece studiare e laureare tutti i suoi fratelli, poi rientrò in Italia con ingenti capitali che furono dai fratelli investiti nell’industria tessile di ultima generazione con strepitosi successi. Oggi hanno interessi in decine d’aziende e in molti paesi esteri. Suo fratello è uno dei cinque industriali più ricchi e potenti nel suo settore. Arnaldo è rimasto un uomo semplice, non è laureato, ama la campagna e le galline, non gode di buona salute e desidera ritirarsi a una vita modesta, nella modesta casa in cui ha continuato a vivere nonostante le ricchezze donate e centuplicate dai fratelli». «Franca quanto tempo mi serve per prendere competenza sull’attività?». «Caro Aldo, dalle viti e bulloni al tessile... almeno un anno insieme a lui». «Ma se lui sta per scoppiare, chiedergli un anno... forse è troppo». «Preparati prima allora». «Franca, oggi è l’occasione...». «Mi licenzio se vuoi, e il problema è già risolto». «NO! Mai!». «Caro Aldo, oltre alla competenza, come risolvi il problema economico?». «Franca, “quando la mente è pronta i soldi non sono un problema”! Mai!». «Ci sono io se vuoi». «NO! Non è il “TUO SOGNO”, MA IL MIO GRANDE SOGNO!». «Cosa posso fare per te? Sono disposta a tutto, pur di aiutarti... se vuoi...». «Se trovo la soluzione è un buon affare?». «Sì! Buonissimo, ma ricordati che ti dovrai impegnare molto... e imparare...». Ordinai altri due caffè, poi la ringraziai, la baciai e salutai.

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Ritornai all’appuntamento, il Sig. Arnaldo tardava ad arrivare e il proprietario del bar ristorante mi rivolse alcune domande discrete. Iniziò dicendo: «Così lei diventerà il nuovo proprietario?» «Probabilmente», risposi io. «Guardi che è veramente una buona attività. Il sig. Arnaldo ha ottimi clienti, la crema dei clienti, e ottime dipendenti, brave e lavorative. Pensi che a volte lui viene al mattino alle 5,30 per aprire e poi ritorna la sera alle 22,00 per chiudere, e tutto fila molto bene. Certo che se rimanesse qui tutto il giorno, come faceva agli inizi, sarebbe un’altra cosa, sa “l’occhio del padrone, ingrassa... ”, ma 16 ore al giorno ammazzerebbero anche un toro». Non sapevo che la ditta lavorasse con due cicli giornalieri. Era un dettaglio interessante. Il Sig. Arnaldo telefonò al bar per avvisarmi che avrebbe ritardato, ma che mi avrebbe portato tutti i documenti che io gli avevo richiesto, avendone alcuni a casa e altri presso il suo ragioniere. Il ritardo consentì al ristoratore di continuare la sua esposizione sui vantaggi che rappresentava l’attività e altri aspetti, tutti favorevoli. Poi si avvicinò e, quasi sussurrando, mi disse: «Guardi che lui non ha bisogno di soldi, quindi potrebbe anche prospettargli un pagamento lungo, così che la ditta si pagherebbe da sola, mi capisce?» «Grazie», risposi. «Se non avessi questo locale, la comprerei io, la ditta di Arnaldo. È veramente un’opportunità!». Tutto sembrava convergere favorevolmente. Pensai alle mie disponibilità finanziarie, non erano un gran che, dopo le perdite subite nella VBN (viterie e bullonerie napoletane); mi rimanevano £ 1.850.000 e un po’ di spiccioli per la vita quotidiana, ma non era il danaro a farmi riflettere. Quando arrivò il Sig. Barbirato, avevo un piano in testa. Lui portò diverse cartelline contenenti contabilità, fatture, elenco clienti e più di quanto servisse per fare una radiografia dell’attività; non era solo ma in compagnia del Dott. Schellino, direttore della banca sotto casa della quale lui si serviva. Fu un piacere conoscerlo e sentirmi offrire tutta la sua disponibilità, se necessario. Bevemmo un aperitivo e poi il Dott. Schellino ci lasciò soli. Il Sig. Arnaldo mi pose una domanda inattesa: «Mi scusi Sig. Aldo, ho saputo che lei è fidanzato con la contessa Franca...» «Che c’entra questo con i nostri affari?» risposi. Lui si imbarazzò e si scusò della domanda inopportuna, d’altronde non era certo un diplomatico. Riuscì a smussare l’errore, dicendomi «Sa, lei potrebbe chiedere alla signora Franca la validità della mia attività. Conosciuta la sua esperienza, chi meglio di lei le potrebbe dare un parere? Anzi le lascio tutti questi documenti, in piena fiducia, consultateli e poi restituitemeli». Trovai nel gesto e nella disponibilità una testimonianza d’insolita trasparenza. Ringraziai della sua disponibilità e ritornai all’aspetto economico, dicendo: «La cifra da lei richiesta è ancora da scontare del 50% come da lei pronunciato al bar ieri, vero? “Se trovassi una... sarei disposto a vendere anche alla metà!” fu sua la proposta». «Be’ la mia affermazione di ieri era un modo di dire... certo possiamo parlare di sconto, ma non la metà di quanto le ho chiesto». Guardai l’orologio e chiesi tempo per fare una telefonata. Chiamai Franca e le chiesi come eravamo organizzati per il pranzo. Lei mi disse che, considerando ciò che stavo facendo, sarebbe stato più opportuno presentarmi alla mamma il giorno dopo. Pertanto decidemmo di trovarci presso la ditta del Sig. Arnaldo e andare a pranzo nelle vicinanze. Ritornando dal Sig. Arnaldo, gli dissi che la contessa sarebbe giunta tra poco. Lui si illuminò e disse: «Finalmente potrò stringerle la mano». Quella si dimostrò una mossa strategica e a me favorevole per il proseguimento delle trattative. Poco dopo arrivò Franca, mentre noi, nonostante il freddo, aspettavamo all’esterno della ditta.

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Quando lui la vide, iniziò con inchini e riverenti complimenti, interminabili. Franca aveva una mantella di astrakan favolosa, ma dopo le presentazioni, poiché soffriva il freddo, chiese, se potevamo recarci all’interno. Lui iniziò a scodinzolarle intorno, magnificando macchinari e quant’altro mi aveva già detto. Lei annuiva in silenzio con impercettibili cenni del capo. La sua nobiltà nel comportamento aveva mietuto un’altra vittima. Dopo aver preso visione del tutto, pensai bene di rinviare la trattativa a lunedì, lui accettò e fissammo l’appuntamento alle ore 9.00. Lo salutammo e uscimmo dalla ditta con tutte le cartelline dei documenti che mi aveva fornito. All’uscita, Franca mi fece l’occhiolino e sorrise. Io sorrisi dentro di me e rimasi impassibile. Pensando che dovevo ponderare e decidere la strategia da adottare lunedì, le proposi di tornarcene a Milano nella nostra “tana”. «Come desideri, Aldo. Dovrei passare un attimo da casa, per prendere le nostre cose e per disporre diversamente, avevo dato un giorno libero a Giovanni per domani, devo risistemare i programmi». Giovanni era il suo maggiordomo, oltre che curare la casa si prendeva cura anche della mamma, anziana e non autosufficiente. «Va bene» dissi. Tornammo sotto casa, lei mise la sua autovettura in garage e mi chiese di attenderla dieci minuti. Nell’attesa iniziai a guardare un po’ le cartelline contenenti dati a me sconosciuti. Richiusi le cartelline e pensai che sarebbe stato meglio rinviare quell’analisi a più tardi. Nove minuti più tardi uscì, salì “sull’aquila” e partimmo per Milano. Un’ora dopo eravamo sotto casa, mangiammo in pizzeria, facemmo la spesa per alcuni giorni e salimmo. Un piccolo brindisi e ci tuffammo nell’analisi dei documenti di Arnaldo. Tre ore dopo ci prendemmo una pausa. Ricominciammo dopo un’ora. Ogni tipo d’indagine rafforzava sia la convinzione che si trattasse di un buon affare, sia che i dati forniti fossero perfettamente confacenti e reali. Proposi un’altra pausa, uscimmo e prendemmo il tram numero 8 e scendemmo alla fermata Duomo, attraversammo la piazza e ci recammo al “Campari” per un aperitivo, dove per caso incontrammo alcuni conoscenti comuni, coi quali scambiammo quattro chiacchiere inutili. Dopo pochi minuti tutta Milano venne a sapere che noi stavamo insieme. Riprendemmo il tram numero 8 e tornammo a casa. Di che cosa avevamo parlato sia all’andata che al ritorno? Del sogno! Del mio sogno! Rientrati a casa, lei mi invitò a prendere carta e penna, cosa che feci in un secondo e iniziai una full immersion: - La storia del tessile dal 3000 a.C. a oggi. - L’evoluzione. - La nascita e l’evoluzione della lavorazione della seta. - Marco Polo. - I Greci, gli Egizi, i Romani fino a noi. - I telai e il loro funzionamento. - Il Medioevo. - L’Ottocento. - L’era moderna. - I processi di lavorazione dei filati, dalla pecora alla maglia finita. - Cos’è il titolo di un filato. - Qual è la differenza tra titolo e denari (altra misura tessile). - La nascita dei filati tesaurizzati. - Il loro utilizzo e gli sviluppi previsti. - La classificazione, l’identificazione, la commercializzazione, le aste. - L’importanza del marchio I.W.S e le sue origini. - La nascita e lo sviluppo dei filati sintetici e i danni nell’utilizzo umano.

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- I filati pregiati. - Animali, provenienza, classificazione, età del pelo, la sua rintracciabilità. - L’importanza e la diversa valutazione in funzione del micronaggio. - Strategie di mescole e trattamenti. - Importazioni e quotazioni dei mercati. - Lobbies dedite al controllo dei mercati. - Strategie di lavorazione delle varie fibre. - Come disorientare i mercati. - Pianificare e condizionare i consumi tramite una pubblicità coatta. - Trattamenti di tintoria, filatura, ritorcitura, abbinamento. - Dipanatura, paraffinatura, lubrificante per tesaurizzati. - Roccatura. - Filatura. - Rifinitura ecc. Alle due di notte, chiesi una pausa. Non ricordo cosa facemmo, ma alle sette del mattino successivo, una tazza di caffè bollente, tre uova con bacon, una caraffa di spremuta di arance e il profumo di tabacco della sua sigaretta mi svegliarono piacevolmente. Era lì, davanti a me, avvolta da una meravigliosa vestaglia di seta nera, decorata a mano in oro zecchino. I disegni erano chiaramente orientali, il simbolo riportato sulla schiena un “TAO” gigantesco! Sorrideva, come una geisha! Sembrava una geisha! Congiunse le mani, s’inchinò delicatamente e disse: «Mio signore... la colazione...». Il gesto della sua mano indicava la cucina. Lei aveva già mangiato semi di non so cosa e bevuto tisane, alle quali io preferivo del buon vino. Cercai di capire l’aroma che impregnava la casa, era piacevolissimo, forse bergamotto, forse Jasmines... C’era anche una musica di sottofondo i cui autori, fra cui Glenn Miller, Duke Ellington, Benny Gudman, Perez Prado, Gillespie, Nico Fidenco e Fred Bongusto, si alternavano dolcemente e una canzone come I’m getting sentimental over you, non poteva che essere la cosa migliore per un piacevole risveglio. Ma la festa durò poco, anche perché mi preannunciò, durante la colazione, che al termine avrei dovuto rispondere alle sue domande su ciò che mi aveva spiegato. Era una sorta d’esame. Lo presi come un gioco costruttivo e necessario, quindi mi sottoposi immediatamente, sia all’interrogazione che alle ripetizioni, per le parti più importanti di cui avvertivo maggiori e ulteriori approfondimenti. Dopo tre ore senza interruzione cominciai a desiderare di avere Drago in casa, per avere la buona scusa di doverlo portare fuori. Nello stesso istante lei mi propose una pausa, «Fantastico» gridai e mi fece un caffè. Con il caffè giunsero anche molti complimenti per la rapidità di acquisizione di nuove informazioni. La cosa mi entusiasmò e mi diedi un po’ del “bravo ragazzo”. Lei continuò esagerando, aggiunse che, constatato le mie caratteristiche che non conosceva, probabilmente sarebbe bastato anche qualche mese, se avessi progredito studiando a ritmi elevati. Al piacere aggiunsi piacere. Continuammo a studiare fino alle tredici, pausa pranzo e dalle quattordici alle diciassette. Piccola pausa e poi interrogazioni! I risultati erano ottimi. Ero entusiasta. Mi piaceva l’odore del suo tabacco, io non fumavo allora... Poi riprese, lezione e interrogazione, lezione e interrogazione, continuammo fino alle venti. Pausa per la cena. Si congratulò di nuovo per i miei progressi, io sorrisi e ringraziai (però pensai anche agli zuccherini che i domatori danno agli animali al termine degli esercizi ben eseguiti). Passammo la sera in relax, decidendo di rientrare a Biella la mattina successiva. Avvisai lo zio Wainer che stavo concludendo delle trattative e quindi sarei stato assente per qualche giorno. Lui mi suggerì di essere cauto, ma determinato.

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L’idea di cimentarmi nel settore tessile iniziava a piacermi. Franca mi offrì tutta la sua disponibilità. Le avevo chiaramente detto che da lei non avrei mai accettato né danaro né lavoro. Mi offrì allora supporto tecnico e suggerimenti utili a districarmi e io li accettai. Avevo due problemi da risolvere: l’ingente somma di danaro necessaria e la decisione di trasferirmi a Biella. Mi misi silenziosamente a riflettere, mentre lei silenziosamente mi accarezzava. Trascorse così circa un’ora. Cercavo la soluzione, pensai alla Ferrari dei miei ricordi, al Brasile, al nonno, al Sig. Ettore, al sole, ai miei fratelli, alla mamma e alla sentenza del professore quando mi dimisero dall’ospedale. Quello che stavo considerando andava diametralmente nella direzione opposta a tutti i consigli ricevuti. Stavo già vivendo intensamente come non mai. La mia salute era ottima! Ritornai alla domanda che avevo posto circa dodici anni prima al nonno: «Perché IO?». «Perché “TU HAI UNA MISSIONE DA COMPIERE”». «QUALE?». «Verrà il giorno in cui capirai...». Era forse giunto quel giorno? Era quella la sfida che il nonno mi aveva preannunciato? Era quella la montagna che dovevo scalare? L’essere uscito da un coma, non era già una grande prova superata? Che fosse stato un allenamento per rafforzare la mia forza di volontà? Cosa avevo da perdere? Cosa da guadagnare? AVEVO UN SOGNO E DOVEVO REALIZZARLO, A QUALSIASI PREZZO! DECISI PER IL SÌ! Stappammo una bottiglia di champagne e vidi Franca felice. Le comunicai che avevo deciso di comprare la ditta e che avremmo vissuto insieme. Parlava pochissimo, ma mi abbracciò e mi baciò teneramente. Osò un timido «Come farai?». «Lo farò e poi te lo spiegherò!» (non avevo ancora un piano, per il momento avevo solo deciso). La giornata era stata durissima e meritavamo un premio... poi arrivò “Morfeo” e ci addormentammo. Alle 6,30 eravamo in autostrada, direzione Biella. Alle 7,30 eravamo sotto casa sua. Scese, le augurai una buona giornata e le diedi appuntamento per mezzogiorno, al solito ristorante. Lei mi disse: «Ce la farai, Aldo!». Appena la vidi oltrepassare la porta di casa, la mia “aquila” ruggì e volò a Candelo. Essendo in anticipo, mi fermai al Calipso per un cappuccino e per raccogliere le idee. Alle ore 9.00 entrai in ditta, salutai il Sig. Arnaldo e gli resi le sue cartelline. Stava terminando un lavoro di carico, approfittai per guardarmi in giro. Quello che vedevo stava per diventare mio! Alcune partite di filato erano distinte per codici e titolo del filato, oggi sapevo cosa rappresentava, era già un piccolo passo avanti. Terminato il carico, il Sig. Arnaldo mi chiamò e mi disse: «Vede, quando parte la merce si deve immediatamente registrare la bolla e fare fattura. Venga Sig. Aldo, la facciamo insieme». Dalla magica scrivania dotata di 11 grandi cassetti, estrasse un librone ove

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registrava tutto: ditta destinataria del prodotto, peso in entrata, peso in uscita, nome e titolo del filato, tipo di lavorazione eseguita, note se necessario, ecc. Non era difficile. Poi prese il blocco per fatture, già predisposto, scrisse il nome del committente e relativi dati, poi tipologia di lavorazione, qualità e titolo del filato, peso, prezzo al chilogrammo per la lavorazione, totale più IVA. Finito. Mise la fattura in una busta e mi disse: «Vede, se la consegno oggi, sabato mattina mi danno l’assegno. Spesso consegno all’autista la fattura unitamente alla bolla». Mi sembrò facile, nulla che io non potessi ripetere già da subito. Questo mi di permise di porre altre domande. Tipi di lavorazioni possibili? Tariffe applicate titolo per titolo? Spese complessive per dipendenti? Spese generali e amministrative? Possibili insolvenze? Le domande furono immediatamente soddisfatte sia a parole che con documenti a riprova di ciò che il Sig. Arnaldo affermava. Nella magica scrivania aveva conservato perfettamente, cartellina per cartellina, ogni tipo di documento necessario a rispondere a ogni quesito. Sembrava “un sogno perfetto”. Poi guardandosi in giro vide una sua dipendente cercare qualcosa, mi chiese di pazientare un attimo e si recò a grandi falcate dalla signora. Parlottarono due minuti e lui le indicò la sequenza delle partite da mettere in lavorazione, la signora annuì, mi guardò sott’occhi e tornò alle sue macchine. Era arrivata l’ora del suo secondo cappuccino. Uscimmo, attraversammo la strada ed entrammo al bar, ci mise dieci minuti a salutare tutti i presenti, amabilmente e scherzosamente. Rivolgendosi a me, disse: «Vede? Tutti amici». Il barista non chiese cosa desideravamo, ma dopo pochi attimi ci portò “il solito”. Iniziammo con una conversazione mista di fatti e cose. Lui notò in me un cambiamento, ma non si dava spiegazioni di come ciò fosse accaduto in sole 48 ore. Poi iniziammo la vera battaglia finanziaria. Lui argomentava, decantando tutti i vantaggi che quella operazione avrebbe rappresentato per me. Io gli rispondevo che il suo successo era in gran parte dovuto alle sue amicizie e che non vi era certezza che tali buoni rapporti sarebbero continuati anche dopo la sua cessazione. Lui garantiva la continuità e io sottolineavo l’incertezza. Lui esponeva sicurezze e io facevo domande, quali: «Se un macchinario si dovesse guastare, quanto costerebbe la sua riparazione?» «Se ci fosse un calo della richiesta?» «Se i prezzi delle lavorazioni si fossero ridotti?» «Quanto tempo mi avrebbe concesso per il passaggio di competenze?» «Lei è esperto, io inesperto, potrei commettere errori?». Cose che non pensavo, ma ritenevo valide per smantellare tutte le sue sicurezze. «E poi», ribadii «lei aveva pubblicamente detto: vendo tutto a metà prezzo!». «Non abbiamo ancora considerato il tipo di pagamento, Sig. Barbirato». Lui sorrideva, iniziò anche a darmi delle manate di simpatia sulle spalle, ma io stavo per cambiare il corso della mia vita. Sorridevo anch’io, ma mi mantenevo fermo sul punto del 50% di sconto. Fu allora che lui dette cenni di cedimento, proponendo un 25% in meno rispetto alla sua richiesta. Era sempre una grossa cifra per me.

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Mi propose inoltre un 30% al rogito e il saldo effettivo a cinque anni, asserendo che di più non poteva fare. Io scuotevo la testa e dicevo «No, no è troppo». Passava nelle vicinanze il proprietario del ristorante, ci salutò e ci portò altri due caffè e, rivolgendosi ad Arnaldo gli disse sorridendo: «Ma vendi a questo bravo ragazzo e non fare il pignolo con i soldi, con tutti quelli che hai che te ne fai, aiuta chi vuole crescere e ci guadagnerai in riconoscenza». La parte finale di questa frase mi giovò immensamente. Il Sig. Arnaldo era un sentimentale, una brava persona e anche molto generoso. Aveva speso tutta la sua vita per poi donare il ricavato ai fratelli, oggi miliardari. Lui desiderava rimanere nella sua modesta casa, non avere più impegni e coltivare, quando gli faceva piacere, il suo orticello, che stava proprio al di là della strada. Gli chiesi di vedere il suo orto, decisi di giocare “fuori casa”. Lui, felice come un bimbo di mostrare il suo giocattolo, mi disse subito di sì. Entrando nell’orto colsi la sua felicità e mi misi ad ascoltare tutto ciò che mi diceva. Mentre mi spiegava, gioiva sempre più. Passammo così più di un’ora. Poi il freddo ci consigliò di rientrare, ma prima di lasciare l’orto gli dissi: «Sig. Barbirato, lei ha ancora voglia di barattare la sua libertà per qualche soldo in più, che non le serve? IO rimarrò chiuso nella ditta giorno e notte per i prossimi anni. Preferisce LA SUA LIBERTÀ O I SOLDI?». Mi guardò, poi mi mise una mano sulla spalla e mi disse: «Sì! Hai ragione tu e poi mi piaci, sei un uomo che andrà lontano». Lo abbracciai. Rientrammo e ordinammo una cioccolata. Seduti al solito posto, mi chiese cosa proponevo. Io gli proposi il 50% della richiesta iniziale, con pagamento in contanti, domani davanti al notaio. Bevendo la cioccolata, dopo 12 minuti di silenzio, mi disse: «SÌ! SÌ! Va bene, ma verrà un giorno che mi ringrazierai». «Arnaldo, comincio subito e ti dico GRAZIE!». Andò al telefono nella cabina del ristorante, chiamò il notaio e fissò per le ore nove del giorno successivo. Nel pomeriggio avrebbe portato i documenti necessari. Lui era terribilmente emozionato, io pure. Luigi, il proprietario del ristorante, capì che l’accordo era stato raggiunto. Portò di sua iniziativa un piatto misto di affettati, formaggi piemontesi e una bottiglia di Barbaresco da mille e una notte. Appoggiando i piatti sul tavolo aggiunse: «Mangiate e bevete, offre la ditta! Avete fatto un buon affare entrambi». Lo guardammo e poi sorridemmo. Ci stringemmo la mano e fissammo l’appuntamento per le 8,45 sotto i portici, davanti allo studio del notaio. Erano le 12,10, telefonai a Franca e le dissi di prendersi il pomeriggio libero e di raggiungermi entro 18 minuti presso il Calipso. Lei rispose che sarebbe arrivata subito. Sedici minuti dopo “topo gigio”, sempre con la lingua a penzoloni, si arrestò sul piazzale. Ci abbracciammo e prima che pronunciasse parola le dissi di salire sulla mia macchina. Capì che avevo preso direzione Milano all’ingresso dell’autostrada. Mi guardava raggiante e non parlava. È sempre stata una donna di poche parole. Arrivai vicino a casa ed entrai in banca, ci rimasi 15 minuti circa e uscii. Poi andai da un fioraio e comprai un mazzo di fiori di cui le feci omaggio. Ripresi l’autostrada, direzione Agrate, mi fermai in una pasticceria e feci un carico di dolci e ci recammo a casa. La mamma vedendomi fece balzi di gioia. Poi, vedendo che ero con una signora, si riprese un attimo e le presentai Franca. Entrambe imbarazzate si ripeterono: «Piacere, piacere, piacere...».

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Scaricai i doni ed entrammo in casa, salutai i miei fratelli e dissi alla mamma che le cose stavano per cambiare. La mamma chiese a Franca cosa stava accadendo, lei le rispose che non sapeva nulla. Mangiammo qualche dolce e poi li salutai, con un fantastico “arrivederci a presto, con buone notizie”. Risalimmo in macchina e via di corsa verso Milano. Mi fermai sotto casa, entrai in una rosticceria e comprai la cena. Salimmo a casa, mi spogliai e mi buttai sul letto, la mia geisha era accanto a me. Mi sentivo come uno scalatore a due metri dalla vetta. Avevo bisogno di ossigenare la mente, e lo feci. Cenammo, ed eravamo meravigliosamente soddisfatti. Mentre lavava i piatti, Franca mi chiese: «Quando torniamo a Biella?» «Perché, torniamo?» risposi io. Lei mi guardò con una espressione non traducibile e disse: «Come decidi tu, caro». Ci guardammo un film e andammo a letto. Non chiese nulla più. La mattina successiva, alla solita ora eravamo in autostrada direzione Biella. Lei scese sotto casa sua alle 7,30. La baciai e le dissi: «Ci vediamo al “Castello” alle 12,30». Non entrò nemmeno in casa, ma prese “topo gigio” e si recò direttamente in ufficio. Quando arrivò davanti al portone dell’ufficio e vide la mia macchina, parcheggiò e un po’ preoccupata, si avvicinò chiedendomi cosa stava accadendo; io le risposi con un categorico “sali!” E lei salì di corsa, ovviamente. Misi in moto e presi la via per Biella centro. Mi fermai davanti a “Ferrua”, il bar dei VIP, la guardai e le dissi: «La colazione?». Sorrise, entrammo, facemmo colazione e la baciai davanti a tutti e facemmo scandalo nella Biella “bene”. Qualcuno si scandalizzò, ma noi ridevamo di loro, eravamo contenti e tra poco avrei avuto il mondo tra le mani. La riaccompagnai in ufficio, era un giorno particolare. Ritornai sotto i portici e attesi l’ora dell’appuntamento. Il Sig. Arnaldo arrivò puntualissimo, salimmo nell’ufficio del notaio e fummo immediatamente ricevuti. Data lettura di cessione dell’attività e non essendoci correzioni da apportare, il notaio rivolse verso di noi gli atti per la firma. Arnaldo e il notaio rimasero sconvolti quando vennero a conoscenza, solo in quel momento, della mia giovane età. Ero maggiorenne da solo sei settimane. Quanti e quali pensieri transitarono nella mente del Sig. Arnaldo non seppi mai. Firmammo entrambi. Era consuetudine dei notai, a quel punto, d’invitare i clienti a regolare le somme pattuite. L’atto recitava che avrei versato la somma pattuita in contanti. Il notaio attendeva e con lui anche il Sig. Arnaldo, ma io non avevo i soldi! Per un attimo, che sembrò durare un’eternità, sembravamo tutti e tre “mummificati”. Ruppe il silenzio l’anziano notaio, dicendomi: «Prego Sig. Aldo, dovrebbe regolare». E venne il momento della scelta! Estrassi dal mio doppiopetto, firmato Galtrucco, un fazzoletto di seta bianco nel quale erano conservati i contanti. Li porsi al notaio e lui iniziò a contare, quel gesto scongelò per un attimo le tensioni. Terminata l’operazione, il notaio disse: «Sono £ 1.850.000», «Sì, certo» risposi (li avevo prelevati chiudendo il conto proprio il giorno prima), poi il notaio continuò dicendo: «E il saldo?». Mi alzai e mi rivolsi, diritto e fiero, al Sig. Arnaldo, confessando la mia VERITÀ! «Vorrei dirle alcune cose, ma innanzitutto, le chiedo scusa, e poi la invito ad ascoltarmi prima di prendere la decisione finale». È vero, ho solo 18 anni, è vero, ho solo £ 1.850.000, ma io ho UN SOGNO che lei mi aiuterà a realizzare. Sono 10 anni che lavoro e risparmio, sono 10 anni che aiuto i miei fratelli a non vivere di stenti, sono uscito da un coma perché

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motivato dalla volontà di realizzare i miei sogni, le ho dato TUTTO CIÒ CHE AVEVO e per finire, guardi queste mani (mostrai i palmi aperti), sono forti, e più forte del fisico è la volontà e l’impegno che dedicherò al lavoro, per adempiere agli accordi che lei UOMO GENEROSO, oggi mi accorderà. Sig. Arnaldo, se la ditta che mi sta cedendo dovesse rendere solo un quarto di ciò che lei mi ha dimostrato che può rendere, io salderò il mio debito entro DUE anni da oggi. Pertanto se è stato sincero nel prospettarmi le possibilità di lavoro e di guadagno, sia una volta ancora GENEROSO E FIDUCIOSO nell’aiutare un ragazzo ONESTO e pieno di una forte e determinata volontà. NON UCCIDA UN SOGNO CHE MERITA DI VIVERE, MA NE DIVENTI COMPLICE! Guardi queste mani, sono mani forti, mani ONESTE». Il Sig. Arnaldo si alzò in piedi, i suoi occhi erano lucidi dall’emozione suscitata dalle mie sentite richieste, anche il notaio si alzò e aveva gli occhi lucidi dall’emozione di quel momento, poi mi scappò una lacrima sincera, la quale attraversando le mie gote toccò l’animo del Sig. Arnaldo e gli face prendere la sua decisione. Mi abbracciò con forza e affetto, e pronunciò un enfatico, «VA BENE!». In quel momento piangemmo tutti e tre. Il notaio modificò l’atto, il Sig. Arnaldo mi restituì £ 350.000, e la cifra restante venne suddivisa in 24 rate. Firmai per la prima volta, nella mia vita, 24 cambiali! “Ore 11 e 16 minuti, IL SOGNO SI È REALIZZATO”! Avrei preso possesso del tutto il lunedì successivo, con la disponibilità di sei mesi di assistenza da parte del Sig. Arnaldo. Fantastico, avevo ottenuto di più di quanto auspicato. Nacque la “FERRARI” di Aldo Mauro Bottura. Guardai in cielo e il nonno mi sorrise e si congratulò con me. «Grazie a te nonno, eternamente». Telefonai a Franca per comunicarle che sarei passato a prenderla a mezzogiorno. Andammo a pranzo a Pian Cavallo. Quando le dissi che avevo concluso, rimase prima meravigliata e poi desiderosa di sapere. Le spiegai tutto durante un lungo pranzo. Eravamo molto felici. Verso la fine del pranzo, le dissi che avrei dovuto trovarmi un appartamento in zona. Le si illuminarono gli occhi e, con un filo di voce, sussurrò: «Perché non vieni da me?». Giusto, perché non dovevo, era la mia compagna. ACCETTAI e ci organizzammo. Tornando, mi propose di passare da casa sua per presentarmi sua madre. «Bene», dissi. Salendo, mi avvisò che oltre a essere malata, la mamma era anche un po’ sorda. Entrammo, ricevuti da Giovanni, il maggiordomo, il quale si prese subito cura della mia giacca e della pelliccia di Franca. Franca, rivolgendosi a Giovanni, lo informò dicendogli: «Da oggi il Sig. Aldo vivrà in questa casa ed è il mio compagno». Lui con un inchino riverente, rispose: «Contessa, farò del mio meglio come sempre». Poi entrammo nel salone e vidi la “nonna”. Elegantemente vestita e pettinata, occupava una gigantesca poltrona, che dopo il letto rappresentava la sua seconda casa. Franca dovette avvicinarsi e scuoterla per attirare la sua attenzione. Faticò per farle capire che non era sola e, quando mi guardò, Franca le disse: «È Aldo, da oggi vivrà con noi». Lei mi guardò una seconda volta e poi commentò: «È un bel signore e anche giovane, era ora che arrivasse un po’ d’aria fresca in questa casa!». Così sentenziò! Sembrava in procinto di rientrare nel suo letargo, quando riprese fiato e aggiunse: «Me la tratti bene la mia bambina, perché è veramente una brava ragazza». Mi diede la sua benedizione.

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Franca esultò, e più tardi mi confessò il difficile carattere della mamma, tendenzialmente negativo e critico. Mi disse anche che raramente aveva avuto ospiti per pranzi o cene in casa e che trattandosi di anziani industriali o vecchi professori la mamma non gradiva persone della sua stessa età, ma quelle erano le sue conoscenze. Sorridendo di gioia mi assicurò che, conoscendo sua madre, avevo veramente fatto colpo, «Non mi sarei aspettata tanto» concluse. Giovanni ci servì tè al limone e biscotti. Uscendo, gli disse anche di predisporre armadi e quanto necessario alla mia dimora. «Sarà fatto signora». Uscimmo più felici. Franca mi disse ancora: «Non solo hai fatto colpo con mamma, ma anche con quello scorbutico di Giovanni. Da come scodinzolava, gli devi essere piaciuto molto, la finirà adesso di ripetermi che devo trovarmi un compagno». Mi baciò, era al culmine di una felicità forse tanto attesa. Io avevo realizzato il mio sogno in anticipo sulla tabella dei sogni progressivi. Non potevamo che gioire entrambi. Dissi a Franca che sarei tornato a Milano per “chiudere la mia vecchia vita” e appena fatto sarei tornato per sempre. Non mancò un lampo di piccolo dispiacere per quel distacco proprio quel giorno, ma prima andavo e prima sarei tornato. Mi diede gli ultimi consigli, «Vai adagio, fai le cose per bene, passa dai tuoi e, ti aspetto... torna appena puoi, come farò a stare senza di te da oggi in poi?» «Va bene», risposi, ingranai la marcia e 50 minuti dopo ero a Milano. In macchina, pensai alle parole del professore “non puoi vivere forti emozioni...” le emozioni e gli accadimenti di quella giornata avrebbero stroncato le gambe a un gigante, ma contrariamente alle previsioni mediche, mi avevano procurato FORZA più di quanto ne avessi avuta mai. Pensavo di sistemare tutte le mie cose entro sabato e ritornare domenica, ma evidentemente non doveva andare così. Cominciai dalla ditta. Entrai, salutai Vittorio e lo zio Wainer e contemporaneamente vidi il Sig. Ettore, al quale chiesi udienza. La sua risposta fu «Accomodati caro Aldo, cosa succede?». «Sig. Ettore, circa cento giorno fa, Lei mi pose una domanda, se la ricorda?». «Sì certo, ti chiesi cosa avesti voluto fare da grande e tu mi rispondesti che avevi deciso di diventare un imprenditore entro il tuo ventesimo compleanno». «Bene», dissi io «sono venuto a informarla che ho anticipato i miei programmi e che questa mattina ho rilevato una azienda con 38 dipendenti!». Sorrise felicissimo, poi si alzò e volle abbracciarmi e congratularsi, terminò con un «Bravo, bravo, Aldo! Ma come hai fatto?» «Con la “forza di volontà”, il “desiderio” e “una cieca fiducia in me stesso”, questo per cominciare... Sig. Ettore, lei sa che quando una persona vuole ardentemente una cosa, la cosa si realizza, vero?» «Sì, è proprio come dici tu Aldo, peccato che la maggior parte delle persone passi la vita a lamentarsi e pochi sono disposti a pensare e fare ciò che tu stai dimostrando possibile, peccato». «Sig. Ettore, volevo ringraziarla per tutto ciò che ha fatto per me, e provo un po’ di malinconia a lasciarla, lascio anche i miei parenti e mi allontano dalla mia famiglia, ma come le avevo preannunciato ho degli obiettivi e devo perseguirli». «Come posso aiutarti Aldo?» Sfacciatamente gli risposi: «Con una generosa liquidazione». «Va bene, sarà fatto, ma gradirei mantenere dei buoni rapporti con te. Dov’è l’azienda?» «A Biella», risposi. «E tratti viterie?» «No, filati pregiati». «Posso venirti a trovare?» «Ma sarà un onore Sig. Ettore e poi a Biella si mangia e si beve molto bene». Chiamò il ragioniere e gli ordinò di preparare al volo la mia liquidazione. Mi chiese di aspettare una mezz’ora, durante la quale tutto sarebbe stato sistemato. Uscii con il Sig. Ettore che mi teneva sottobraccio e lui disse a tutti i presenti: «Guardate questo ragazzo di

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cui sono fiero e orgoglioso; è un ragazzo di successo e credo anche uno tra i più giovani imprenditori d’Italia». Gli altri applaudirono. Mi lasciò alle domande dello zio e di mio cugino. Riassunsi per loro una breve versione dei fatti. Anche loro si commossero e si congratularono. Quando dissi a Vittorio che dovevo lasciare il mio appartamento, mi rispose: «Aldo, serve a Dino, un mio amico e anche uno dei migliori venditori della ditta. Anzi è qui in riunione, gli faresti un regalo infinito». Mentre diceva così, arrivavano i venditori dalla pausa caffè. Informato dell’opportunità, mi chiese di poterlo visionare e ci recammo immediatamente a casa, nell’attesa della liquidazione. Entrò in casa mia e rimase scioccato nel costatare la grazia dell’arredamento e la cura dei particolari. Mi chiese quanto pagavo d’affitto e quanto volevo per l’arredo. Per l’affitto avevo ben patteggiato ed era molto più conveniente che altri della zona, per i mobili raddoppiai il prezzo d’acquisto e a lui sembrò molto conveniente. Mi chiese quanti mesi doveva aspettare, e io gli dissi che dovevo solo traslocare i miei effetti personali, ma mi serviva un furgoncino. Lui mi interruppe e si propose di effettuare personalmente il trasloco la mattina successiva. Aveva tempo e furgone. Ci stringemmo la mano e incassai il pattuito. Tornammo in ufficio, dove trovai il ragioniere con una busta chiusa contenente la mia liquidazione; mi chiese una firma che io feci con cieca fiducia. Non controllai il contenuto, ma salutai tutti e, augurando ogni bene, lasciai la ditta che fino a qualche giorno prima mi aveva generosamente ospitato. Andai successivamente dalla professoressa, Drago pensava che io fossi ritornato per restare, ma si sbagliava. Spiegai ciò che stava accadendo, la professoressa pianse a dirotto e mi augurò un mare di felicità, quello che a lei era più mancato. Mi invitò a mantenere i contatti, anche se saltuari, e di passare da lei ogni qualvolta transitavo da Milano. Poi mi giurò, inutilmente, che quella camera sarebbe rimasta mia per tutta la vita. Anche con lei ci scambiammo ringraziamenti infiniti e saluti cordiali, anzi affettuosi. Era giunta quasi la sera di una giornata nella quale era accaduto di tutto. Ma avevo ancora energie, anzi di più, i frenetici accadimenti avevano avuto su di me un effetto “dopante”. Qualcuno direbbe “i segreti della mente umana”. No! Era solo forza di volontà! Presi la direzione Agrate e andai a salutare i miei cari. Era buio pesto quando arrivai. La mamma, sentendomi, mise un piatto in più a tavola. Per fortuna “Lui” sarebbe arrivato alle 22,30, perciò ebbi il tempo di raccontare in breve ciò che stava per accadere e ciò che era già accaduto. Ebbi l’impressione che la mamma stesse guardando un film di alieni. Come spiegare a lei, in pochi minuti, ciò che pochissimi avrebbero forse potuto capire con molto tempo e fatica? L’abbracciai, le misi in tasca un po’ di danaro e la salutai baciando i miei fratelli. Tornai a Milano, parcheggiai l’auto e andai a piedi in piazza Bausan alla solita pizzeria dove cenai, pensando al tempo passato. Quante sere a quel tavolo, quante angosce, quanti pensieri, quanti sogni. Finalmente tutto si era magicamente risolto in maniera favorevole. Per pagare il conto aprii la busta della liquidazione, estrassi il foglio dei dettagli e poi guardai l’assegno. Il Sig. Ettore era stato inaspettatamente generoso, mi aveva regalato un anno di stipendio. Tornai a casa, sarebbe stata l’ultima volta. Preparai il tutto per l’indomani, l’appuntamento con Dino era per le otto. Terminati i preparativi, scesi e telefonai a Franca che stava già dormendo. Le dissi solo due parole, la feci felice e tornai in casa, finalmente mi sdraiai e meditai. Feci un lungo viaggio...

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La prima grande realizzazione

Dino si presentò alle otto precise in compagnia di suo fratello, fece apprezzamenti positivi relativi all’ambiente e caricammo ciò che era già stato preparato. Partimmo in direzione Biella dopo aver predisposto e informato chi di dovere del suo subentro. Giungemmo alle 11,00, scaricarono le mie cose nel garage di Franca e se ne ritornarono a casa. Mentre ci salutavamo, Giovanni era già all’opera per sistemare ciò che andava sistemato. Pranzai in quella che era diventata la mia nuova dimora. Modificai le mie abitudini alimentari, adattandomi con piacere a piatti tipicamente piemontesi e al bere rigorosamente champagne o Recioto. Giovanni, lo scoprii con il tempo, era un appassionato di vini e teneva la nostra cantina con il rigore con cui un prelato conserva l’altare, cioè religiosamente ben custodita. Dopo pranzo, io a Candelo, Franca in ufficio, avevamo appuntamento in ditta quando lei sarebbe uscita. Il Sig. Arnaldo fu felice di vedermi, e io d’iniziare a imparare. Egli mi disse che sarebbe stata cosa giusta presentarmi alle maestranze, io condivisi. Chi faceva il turno dalle 14,00 alle 22,00, alle 18 faceva una sosta. Fu proprio in quella occasione che il Sig. Arnaldo riunì i dipendenti e mi presentò. Chiese loro continuità nell’abnegazione e nell’impegno lavorativo e che la loro posizione lavorativa a seguito della mia guida e sostegno sarebbe stata migliorata. Mi rivolsero un applauso di benvenuto e la più anziana, capo sindacalista delle dipendenti, disse con tono scherzoso: «Sig. Aldo, non sarà che ci farà lavorare di più?». Risposi con un sorriso. Nel mentre entrò Franca e il Sig. Arnaldo la ricevette con inchini ripetuti di benvenuto, poi spontaneamente disse: «Signore, la contessa Franca... la moglie del Sig. Aldo». Tutte applaudirono con generosità e tutto il mondo, seppe... La cosa venne ripetuta il giorno successivo durante la pausa delle 10, ma già tutte sapevano. Si crearono da subito tre schieramenti. Il primo, composto dalla maggioranza di giovani e meno giovani dipendenti, favorevoli. Il secondo, poche unità, indifferenti. Il terzo, le sindacaliste, le quali dissero: «Ora stiamo a vedere». L’atteggiamento, accompagnato da molto menefreghismo riguardo a dati di rendimento, produzione pro-capite e altri aspetti, era negli ultimi tempi lasciato molto al caso da parte del Sig. Barbirato. Senza nulla togliere all’onestà lavorativa, aveva innescato dei latenti stati di diritto fuori luogo. Non c’era più “l’occhio del padrone”. Quella sera, decisi di tornare a casa per le venti, fu una delle ultime volte che cenavo e rimanevo in casa. Salutammo sia le dipendenti che il Sig. Arnaldo, dandoci appuntamento per la mattina successiva. Tornati a casa, la cena venne immediatamente servita. La mamma mangiava alle 18,30 e alle 20 era già a letto. Servita la cena, il Sig. Giovanni chiedeva licenza e tornava a casa sua. Generalmente prestava servizio, tranne eccezioni, dalle 9,00 alle 21,00. Scoprii da subito, forse per istruzioni di Franca, che come ultima cosa preparava delle colazioni generose per me. Mi faceva piacere e nacque una simpatia reciproca che crebbe con il tempo. Con discrezione, furono moltissime le occasioni nelle quali si schierò a mio favore. Terminata la cena, passammo la sera a raccontarci cose e poi a nanna. La mattina successiva, sveglia alle 5,15, bagno, colazione e via... Fu così per i successivi 40 anni, ovviamente, sabati e domeniche comprese. E pensare che il professore mi aveva detto: «Non puoi fare sforzi, non puoi, non puoi...».

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Le operaie del turno mattutino erano, prevalentemente, più giovani di quelle del turno pomeridiano. Non fu necessario spiegare loro nulla, sapevano già tutto, forse più di quanto sapessi io. Tutte ebbero nei miei confronti un atteggiamento favorevole. Tutte entrando mi salutarono con un piacevolissimo: «Buongiorno Sig. Aldo». Alle 6,00 tutti i macchinari si misero in funzione. Iniziò il mio corso d’addestramento. Era facile apprendere dal Sig. Barbirato, utilizzava il suo modo semplice di essere e lo trasmetteva. Fu facile. Con lui due ore di lavoro, mezz’ora di bar, ma avrebbe volentieri invertito i parametri. Mi parlò dei vari tipi di filati che ogni azienda prevalentemente trattava, titoli dei filati, quantità, tipo di trattamento, ecc. In altre parole, comportamenti e virtù dei clienti e i nomi delle persone di riferimento. Si stupì che sapessi dei filati tante cose e della mia facilità di apprendimento. La pausa-bar serviva in parte da esame per quello che mi aveva trasmesso fino a quel momento. Giustificava l’esame con l’esempio, dicendo: «Sai, non possiamo costruire un altro muro se prima non verifichiamo che quello costruito sia ben fatto». Condividevo e procedevamo. La seconda parte della mattinata era dedicata alla conoscenza dei vari processi di lavorazione, in relazione ai tipi di prodotti da trattare o trasformare. Prendevo nota, ma era semplice, pensavo che con una buona memorizzazione, oltre agli appunti che man mano prendevo, non avrei avuto problemi. Ci scambiammo gli orari del pranzo per consentire che uno di noi due fosse sempre presente. Franca tornava all’una, allora scelsi anch’io quell’ora, così potevamo mangiare insieme. La nonna mangiava alle 11,30 e Giovanni preparava per noi per le ore 13,00. Franca era ansiosa di sapere, sempre. Pranzavamo e mentre io bevevo un bicchiere in più lei si fumava aromatiche sigarette. Mi piaceva vederla fumare, e poi a lei piaceva molto. Poi uscivamo insieme per ritrovarci o a cena oppure quando lei mi raggiungeva in ditta. Arnaldo si fermava fino alle 19 e poi ritornava il mattino successivo, quindi quando andavo a casa dovevo tornare prima che il turno finisse per controllare il lavoro e alle 22,00 chiudere e preparare par il turno della mattina successiva. Potrebbe sembrare uno sforzo enorme, ma solo per chi non ha l’abitudine di applicarsi totalmente, e io quell’abitudine l’avevo fin da piccolo. La parte più affascinate per me era la meccanica dei funzionamenti dei macchinari. Capii che il Sig. Arnaldo ne sapeva moltissimo e quando lo sollecitai a spiegarmi anche quello, fu per lui un piacere e per me un’immensa soddisfazione. L’apparente complessità è data solo dalla momentanea non conoscenza. Poi impari e tutto ti sembra facile. Fu così. Tre giorni dopo potevo smontare, riparare e sostituire ogni pezzo eventualmente danneggiato in breve tempo, ero contento e lui si congratulava delle mie capacità e duttilità anzi, ne era orgoglioso. Poi ci recammo a visitare i clienti. I clienti sapevano già tutto, e quindi andare nelle varie aziende fu semplicemente un contatto fisico di presentazione. Quello che non avevo preventivato erano due cose:

la prima, che la mia giovane età e il mio dinamismo furono accolti favorevolmente dagli industriali

la seconda, che tutti mi invitavano a riportare saluti di stima e di affetto a Franca. Tutti mi dimostrarono disponibilità, amabilità, desiderio di fare insieme grandi cose: fu veramente una bella giornata. Conobbi quel giorno la “crème” dell’industria tessile, uomini raramente avvicinabili, se non nei loro Club, chiusi e riservatissimi. Dopo 15 giorni, la presenza attiva del Sig. Arnaldo si era ridotta a visite sporadiche mattutine e pomeridiane. Mi aveva lasciato nella condizione di raggiungerlo telefonicamente in caso di necessità. Ma non avevo bisogno di telefonargli anche perché la sua seconda casa era il bar di fronte o l’orto al di là della strada. Avevo sempre Franca come interlocutrice, prima di chiedere ad altri.

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I sei mesi di assistenza si ridussero a 1 mese... ero già INDIPENDENTE! L’eccitazione venne quando a fine mese dovetti fare il primo bilancio. Venne il ragioniere che seguiva i conti per il Sig. Arnaldo, fece le buste paga per i dipendenti, i versamenti d’obbligo e tutto ciò che era necessario. Poi, accantonata la rata mensile dovuta, mi accorsi che rimaneva un cospicuo utile. Il Sig. Arnaldo era stato onestissimo nel dirmi che mi stava cedendo una grande opportunità e anche Franca ebbe la stessa certezza. Ero felicissimo. Il Dott. Schellino, direttore di banca, vide crescere i miei depositi mese dopo mese. La mia vita cambiava, migliorando giorno dopo giorno, sia a casa con Franca, che in ditta. Avevo familiarizzato con tutte le mie dipendenti, attirando simpatie inaspettate. La mia onnipresenza migliorò molto la produzione, risolvendo problematiche che il Sig. Arnaldo aveva lasciato da risolvere alle dipendenti. Facilitavo i compiti evitando loro fatiche, carichi, scarichi, riparazioni, pulizie e tante altre cose che le distoglievano dal produrre. Così funzionava meglio. In caso d’urgenze, lavoravo con loro in mezzo a loro, imparando. Tutte apprezzavano ciò contraccambiando con simpatia e abnegazione. Si aprirono con me, divenni oltre che il loro titolare, anche amico, confidente, colui al quale potevano chiedere qualsiasi cosa, sapendo di essere ascoltate. Risolvere i loro problemi divenne un’abitudine. E tutte mi erano grate. Trasformai la ditta in un luogo piacevole ove ognuno veniva volentieri ad assolvere il proprio compito. Alcuni mi chiedevano quale fosse il filtro magico e io rispondevo: «L’amore e il rispetto», ma non capivano! Peccato, era così semplice. Piccole modifiche e l’assunzione di due nuove ragazze raddoppiarono i miei utili nel secondo mese, e le cose continuavano a migliorare. In pochi mesi modificai altre piccole cose e acquisii due importantissimi clienti. I loro filati erano destinati all’esportazione, arrivavano da me sempre con un cronometro al collo, la necessità di tempi brevissimi di lavorazione. Assunsi altre due dipendenti e potei offrire altri servizi graditi ai miei clienti, quali tempi certi di riconsegna e cali di lavorazione contenuti. In cambio, modificai i prezzi delle lavorazioni. Divenni “il Sig. 50 lire in più”, una nomea che fece della Ferrari una ditta dalla quale era sempre vantaggioso servirsi. Rimisi in funzione altri macchinari che il Sig. Arnaldo non utilizzava. Aumentai la produzione e conseguentemente anche gli introiti. Sei mesi mi consentirono cambiamenti straordinari. Ero confidente delle mie dipendenti, elargivo loro dei regali extra a seconda delle difficoltà famigliari, a volte in danaro. Loro erano felici e io pure. Distribuivo anche suggerimenti di vita, la mia filosofia era d’esempio. Portai in ditta la mia aquila e, con essa, lo spirito della mia guida. Notai che molte delle mie attitudini erano contagiose. L’atteggiamento, migliorò i rapporti. L’impegno, nell’assunzione delle proprie responsabilità, portò prosperità. Il desiderio, nel senso più ampio, eccitò le giovani e risvegliò le altre. L’obiettivo, il sale della vita, componente essenziale per darle un “sapore”. Il premio, una gratitudine dovuta di cui essere orgogliosi. Divulgare i messaggi della mia guida era un piacere. Le più giovani iniziarono a chiamarmi “papà Aldo” e, dopo qualche settimana, anche la più anziana mi chiamò “papà Aldo” e finì che tutti mi chiamarono così, ovunque. Non solo anziani industriali, ma anche Franca iniziò a chiamarmi “papà Aldo”.

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Questo fu solo l’inizio. Dopo alcuni mesi, invitai le mamme del turno pomeridiano a portare i loro bambini a ripetizione. Il mio ufficio, si era trasformato in un doposcuola. Per i più grandi, venivano il ragioniere o il Dott. Schellino, che di stare chiuso in banca non aveva certo più voglia. Trovare una buona ragione per tornare dalla moglie solo all’ora di cena lo entusiasmava, e riduceva la loro litigiosità. E i bambini ne traevano profitto, le mamme erano contente e i padri tornavano a riprenderli quando avevano terminato il loro turno di lavoro. Fantastico, fantastico, veramente fantastico. La mezz’ora di pausa, alle 18, era una festa e anche un po’ di gioiosa confusione. Finii per organizzare una stanza, destinandola a “compitini” e giochi. Il proprietario del bar-ristorante finì per trarne anche lui profitto, affacciandosi alle ore 16 con merende e merendine varie. Morale, quando un albero di ciliege è stracolmo, ci sono ciliege per tutti. Vennero mamme a offrirsi di lavorare con me, avendo saputo delle nostre buone abitudini. Fantastico. Anche il mio “Fantastico”, fece il giro del Piemonte... Passarono i mesi, le cose miglioravano, i guadagni anche. Il lavoro aumentava a dismisura, nonostante il “50 lire in più”, le grosse ditte mi premiavano per i servizi di rapidità, puntualità, onestà e alta qualità delle lavorazioni. Creai delle collaborazioni esterne alle quali giravo piccole partite o lavorazioni non urgenti, ditte di pochi dipendenti per la maggior parte a conduzione familiare. Tutto ciò consentì un aumento del 50% della capacità produttiva, e la voce girava. Hai una necessità urgente? Ferrari! Hai una partita di filati pregiati? Ferrari! Hai grosse partite di lavoro? Ferrari! Costa apparentemente di più ma è una garanzia. Persi la mia identità e divenni il Sig. FERRARI. Avvicinandosi le feste natalizie, avevo organizzato un pranzo aziendale alle ore 13 del 24 dicembre, nel ristorante del Sig. Luigi. Alle 12,00 si spensero le macchine, e alle 13,00 tutti a tavola. Eravamo in 45 persone. 42 dipendenti, Franca, io e il Sig. Barbirato. I piatti erano tutti coperti, quando il Sig. Luigi mi fece cenno che era pronto per servire, mi alzai per un brindisi augurale:

ringraziai tutti i dipendenti per il loro impegno ringraziai il Sig. Arnaldo, per la fiducia concessa ringraziai Franca ringraziai “la mia guida” che mi aveva aiutato a realizzare il mio sogno!

Quando ognuno girò il suo proprio piatto, trovò una “generosa” sorpresa personalizzata. Sotto il piatto del Sig. Arnaldo c’era un assegno a saldo di quanto ancora dovuto. A Franca, un rubino. SI MISERO TUTTI A PIANGERE. Non capivo, poi tutte le dipendenti vennero da me, a una a una, mi abbracciarono, mi ringraziarono, mi dissero che non avrei dovuto e piangevano. L’ultima a piangere fu Franca. Poi l’abbraccio di Arnaldo, che disse: «Grande Aldo», piansi anch’io. Avevo solo distribuito un po’ di gioia e di gratitudine. Erano così trascorsi 11 mesi e 16 giorni.

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Quello che nessuno sapeva, era che due settimane prima avevo ordinato il raddoppio dei macchinari esistenti, i quali sarebbero stati consegnati il 7 gennaio. Il pranzo si prolungò fino al tardo pomeriggio. Poi arrivarono i mariti sospettosi, e tanti bambini. Fu festa anche per loro. Lasciai tutti alle 17 e con Franca facemmo un salto ad Agrate. La mia macchina era colma di regali per tutti i miei cari. Per nostra fortuna “Lui” non c’era. Ci fermammo un’ora e ritornammo a Biella. Mia madre gioiva nel vedermi felice e, anche lei, come la mamma di Franca, le chiese di volermi bene, perché ero un bravo ragazzo. Andammo a mangiare in un piccolo ristorante a Biella Alta, dove a volte suonava Mussolini. Finimmo da “Ferrua”, c’erano tutti i vip, ma mentre si intrattenevano riverenti e cordiali con Franca, non avevano nei miei confronti altrettanta cordialità, se non il minimo del convenuto. Certo, non ero uno di loro e vivevo con la donna che tutti sognavano di avere al loro fianco. Anzi più di uno aveva in passato tentato follie, inutilmente. La cosa non mi toccava, “guardavo oltre”, non mi hanno mai toccato queste piccole meschinità. Franca si accorse della situazione e uscimmo immediatamente per recarci alla Santa Messa. Poi felici e contenti tornammo nella nostra casa. Entrati, tolti i cappotti, lei mi baciò e mi chiese scusa. Le dissi che non era il caso. Ma Franca trovò l’occasione per una sua rivincita personale. Era un anno che non rimanevo a letto dopo le ore 5,15. Franca entrò in camera con un vassoio gigantesco alle 8,30. L’aroma del caffè bollente, delle uova e di quanto potesse stare su quel vassoio, risvegliò le mie narici piacevolmente. Fu una bellissima colazione. Uscimmo dalla camera da letto alle 11,30, Franca preparò il pranzo per sua madre, poi pranzammo anche noi e, insolitamente quel pomeriggio andammo al cinema. La mattina successiva andammo a Cervinia e tornammo a sera. Fu bellissimo. Passammo il capodanno da amici di Franca. Era il 1967, un anno nuovo e pieno di sorprese. Arrivarono i nuovi macchinari, fummo in difficoltà per qualche giorno, tra muratori, elettricisti e lavori vari, ma come sempre i problemi si risolvono, e con la buona volontà e l’atteggiamento positivo, si risolvono più in fretta. Dopo la prova generale, funzionava tutto a meraviglia. Avevo conservato gli indirizzi di tutte quelle signore che si erano proposte per lavorare da me, le chiamai. Oltre a loro, molte parenti di chi già lavorava per me vennero felicemente. Avevo interi nuclei famigliari, moltissimi dei quali veneti, chiacchieroni, simpaticoni e ottimi lavoratori. Era passato un anno, la ditta era più che raddoppiata, i dipendenti erno diventati novanta, oltre a tutte le collaborazioni esterne. Raddoppiarono anche gli impegni e le responsabilità. Entro Pasqua, non c’era azienda importante che non utilizzasse i nostri servizi. Qualche volta non potevo andare a casa per la cena, allora veniva Giovanni insieme a Franca a servirci la cena in ditta. Finii anche per dormirci, a volte. Arrivò la sorpresa, la “cartolina” di chiamata al servizio militare. Misi in moto alcune conoscenze, ma non riuscii a ottenere l’esonero. Quindi feci il C.A.R. (fortunatamente a Casale Monferrato), dal quale con la complicità del comandante uscivo nel pomeriggio e rientravo il mattino successivo per tempo. Da Casale a Biella la mia aquila volava. Arrivavo in ditta verso le 15,00 e ci rimanevo fino a tarda notte. Due responsabili, tra le operaie, condussero le attività meravigliosamente; in più, quando serviva, c’era il lungo occhio di Franca. Da Casale, fui assegnato alla 1° O.R.M.E (officina riparazione motorizzazione esercito) di Torino. Giunto a destinazione, feci presente la mia situazione al Colonnello Comandante,

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lui capì che oltre centocinquanta famiglie rischiavano la perdita del lavoro e che ciò che avevo costruito poteva essere gravemente danneggiato. Mio zio di Milano, da Colonnello fu promosso a Generale e tramite un suo parente, vescovo in Vaticano, fecero delle telefonate di intercessione. Sei giorni dopo, il Comandante di Torino, mi consegnò un foglio di licenza illimitata, minacciandomi di venirmi a trovare, cosa che fece la domenica successiva. Fantastico! Tornai a Torino un giorno, per ritirare il mio congedo. Avevo già ringraziato chi di dovere. “Papà Aldo” era tornato, in pratica ero mancato saltuariamente solo qualche ora. I miglioramenti organizzativi, programmatici, i cicli di lavorazione, le priorità e altro erano stati risolti, facilitando automatismi tali da rendere la Ferrari quasi autonoma. Ogni dipendente era stato responsabilizzato e gratificato. Si era creato uno spirito d’unione incredibilmente positivo. Il debole di oggi aiutava la sua compagna, ben sapendo che avrebbe ricevuto lo stesso sostegno, in caso di sua necessità. Le “mie” ragazze viaggiavano per “obiettivi”. L’impegno era un piacere a cui adempiere. La fedeltà era assoluta. E lavorare per FERRARI, era un onore. A risvegliare queste e altre riflessioni, fu una mia giovanissima dipendente, la quale un giorno mi disse: «Papà Aldo, perchè non si riposa qualche giorno? Ha 20 anni e ne dimostra 35, si riposi, qui andiamo avanti tutte benissimo, le vogliamo bene». Mi emozionai di fronte a tanto affetto. Tentai anche qualche timido accenno a problematiche da risolvere, ma mi venne risposto che le avevo così ben addestrate che non c’era problema che loro non potessero risolvere da sole. Mi resi conto che avevo realizzato una nave che poteva navigare anche senza il suo Comandante a bordo. La cosa mi aveva in parte entusiasmato, in parte turbato. In ogni caso, avevo ringraziato della gentile attenzione. E venne un altro Natale, altra festa, altri straordinari e inaspettati regali personalizzati. Erano tutti felicissimi, e io con loro. Accanto al Sig. Arnaldo, ospite d’onore, un signore che presentai con il solito brindisi. «Signore e signori è qui con noi oggi il Sig. Noseda (applausi). Essendo una festa riservata ai Ferraristi, qualcuno di voi potrebbe domandarsi il perché della sua presenza. Semplice, da oggi la Ferrari è titolare del 50% della filatura e ritorcitura Noseda». (Brindisi) Mentre brindavamo felici, mi venne in mente il il professore dell’ospedale e i suoi “non può, non può... no lavoro, no fatica, no emozioni, no... vita”. Si era sbagliato. Davanti al mio posto a tavola avevo posto la mia aquila! Il simbolo di ciò in cui credevo e di ciò che volevo essere, «Grazie nonno, eternamente grazie. Tu mi hai trasmesso gli insegnamenti per “guardare oltre”, tu mi stai dando la forza “per volare verso altri sogni”, la tua saggezza mi sta rendendo felice e con me, molte altre famiglie». Dovetti rimettermi a studiare, imparare cose nuove, vivere nuove avventure. Quando il mondo tessile venne a sapere che, alla Noseda, c’eravamo io e Franca, molte cose migliorarono improvvisamente; tra le tante, molte commesse di nuovi lavori. Saltuariamente mi recavo ad Agrate, lo facevo di pomeriggio, ciò mi consentiva di restare con la mamma e con i miei fratelli senza l’incubo della presenza di “Lui”. Venni a sapere che aveva l’intenzione di costruire un altro piano, cosa che fece nel solito modo, impiegandoci anni. Venni anche a sapere che la mamma era di nuovo in attesa di un altro fratellino. Le sue condizioni fisiche erano pessime e un’ulteriore gravidanza avrebbe peggiorato il suo stato di salute. Viveva da anni, con un busto di gesso costrittivo. Povera donna, pensai.

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Essendo le mie possibilità economiche notevolmente cambiate, cercavo di provvedere a lei e ai miei fratellini, anche con donazioni di danaro, che la mamma doveva gestire di nascosto da “Lui”. La mamma mi teneva all’oscuro di ciò che di terribile continuava ad accadere. Ma manifestava gioia e mi incoraggiava a proseguire, dicendomi: «Bravo Aldo, almeno tu...». Tra i tanti prodotti, iniziammo a tessere coperte speciali in purissimo merinos e copri-materassi antidecubito. Fu così che iniziai a occuparmi di prodotti per la casa e la salute. L’alta qualità delle nostre produzioni fu un successo. Ma in quel tempo, nacque anche il desiderio di tornare a studiare. Scelsi Psicologia, specializzandomi successivamente, negli Stati Uniti in Analisi Transazionale. Una “folle” passione, che coltivo tutt’ora. Fantastico. Qualcuno si domanderà dove trovavo il tempo per fare tutto ciò. Il tempo c’è sempre, quando si vuole veramente! Il tempo è eternamente disponibile. Il tempo è buono e si lascia usare. Il tempo non si può sciupare. Il tempo è vita. Il lavoro andava benissimo, la vita scorreva intensamente come sempre, e iniziai a prendermi saltuariamente qualche domenica di riposo, che dedicavo allo sci, insieme alla mia “maestra” Franca. Abitando a Biella, era facile trovarsi di prima mattina sulle piste da sci. Di pomeriggio mi dedicavo a studio e contabilità la sera, saltuariamente, andavamo al cinema. Poi ci fu la riscossa di Franca. Un giorno mi informò che il “Gota” degli industriali aveva indetto la sua solita riunione annuale, alla quale lei aveva sempre partecipato. Mi chiese se avevo voglia di divertirmi. Avvertii tutta la sua voglia di rivincita, cercai di dissuaderla, ma lei insistette come se si fosse trattato di una cortesia personale. «Va bene» risposi. Mi mostrò il lussuoso invito ricevuto, le feci notare che era indirizzato a lei e non a me. «Appunto», affermò categorica. La riunione era indetta per le 19,00. Generalmente tutti gli industriali facevano commenti sull’andamento produttivo, si parlava di finanze, alleanze, strategie e poi alle 20,00 veniva servita la cena. Arrivammo volutamente con 5 minuti di ritardo, tutte le poltrone erano occupate tranne una, locata a sinistra, dell’anziano Presidente. Con la solita puntualità biellese, un relatore stava esternando il suo discorso personale, quando noi entrammo. Il relatore si ammutolì e la sala si gelò. Tenendomi per mano, raggiungemmo quella che da anni era la sua posizione privilegiata, e tutti si alzarono. Io, in doppio petto blu e lei, avvolta in un principesco abito di velluto nero, generosamente scollato, alle mani il suo rubino e una rosa rossa. Visto che la sala si era ammutolita, lei prese la parola. Salutò i presenti con un cerimoniale d’obbligo, poi disse: «Visto che tutti sapete che vivo felicemente con il Sig. Aldo Mauro Bottura, ritengo che anche a lui debba essere riservato un posto d’onore tra voi. Io non sono una cosa vostra, per mia fortuna, sono sua e ne sono orgogliosa! Il Sig. Aldo ha già dimostrato a molti di voi abilità, capacità, iniziative e una moralità ineccepibile. Credo che gli dobbiate delle scuse». Il fratello del Sig. Barbirato abbassò la testa. Uscimmo nel silenzio più assoluto. Andammo a cena, a Biella Alta. Mussolini quella sera era particolarmente romantico. Le sue dolci musiche di sottofondo fecero sbollire le sue rabbie represse e tornò a sorridere. Era dolce quando sorrideva. Dal giorno dopo, cominciammo a ricevere lettere di scuse e inviti da tutti.

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Di successo in successo

Ero stato “ammesso” al cerchio degli intoccabili. Lentamente e saltuariamente, frequentavamo le loro ville hollywoodiane. Divenni quasi un consulente in psicologie aziendali. Piacevano le mie idee rivoluzionarie per quei tempi. La cosa più difficile fu trasmettere filosofie di vita e migliorare tramite il cambiamento. Il cambiamento avveniva con la presa di coscienza della propria identità. Divenni un loro confidente. Feci del bene a molti. Il mio bisturi era la semplicità. Tra gli amici straordinari di Franca, legai molto con psicologi, psichiatri e alcuni anziani medici alternativi. Uno di loro era anche “radioestesista”. Fu proprio con lui che iniziai il mio processo di crescita, una crescita rapida e sconvolgente. Rividi il bagaglio della mia giovane vita emotiva, e compresi tramite suo le profondità degli insegnamenti della “mia guida”, incominciavo a capire ed era molto piacevole. Queste relazioni mi facevano progredire più di qualsiasi corso universitario. Non ero in cerca di titoli, ma di conoscenza. La mia vita cambiava, io cambiavo, il mondo intorno a me cambiava. Venni a sapere che mia mamma aveva dato alla luce una sorellina, che aveva chiamato Cristina. Trovai immediatamente il modo e il tempo di andarla trovare. Stavano bene entrambe. Mamma mi confessò che “Lui” voleva una bambina e che sarebbe andato avanti a oltranza. Finalmente era arrivata. Nacque ad Agrate, assistita dalla zia Maria, ostetrica, che aveva già assistito la mamma per la nascita di Marco e Bruno. La zia, sorella di “Lui”, era una simpaticona, sposata Brambilla. Verso suo marito, lo zio Carlo, “Carletto” per gli amici, ho sempre nutrito sentimenti di particolare simpatia, anzi ci fu un periodo in cui condividemmo anche alcune serate goliardiche. La stima e la simpatia verso lo zio “Carletto” dura tutt’oggi e spero per sempre. Anche la zia Maria ha spesso fatto da cuscinetto tra le follie di suo fratello e la famiglia, senza ottenere risultati alcuni, se non quello di aumentare la litigiosità di suo fratello. Ritornato in quel di Biella, la mia vita proseguiva intensamente, coinvolto da studi e attività sia commerciali che produttive in continua espansione. Anche lo studio e gli approfondimenti delle “energie sottili”, condotte con gli insegnamenti dei nostri amici medici, mi prendeva sempre più. Loro sostenevano che io avessi doti particolari, io credevo che mi elargissero complimenti esagerati, ma progredivo. Inconsapevole del fatto che stavo spalancando e oltrepassando una porta che avrebbe ulteriormente migliorato e in parte condizionato favorevolmente tutta la mia vita, continuai studi e sperimentazioni alchemiche. Franca nutriva verso questo mondo rispetto, ma anche una sorta di sottile distacco, dovuto a mio avviso, più dal timore di essere coinvolta che da altro. Realista, pragmatica, raramente ci seguiva, fatto salvo sporadici interessamenti di carattere personale. Quando ciò accadeva ci prendevamo benevolmente gioco di lei, mescolando una pozione di sacro con un po’ di profano. Se di anno in anno raddoppiavo i miei interessi e le mie attività, l’anno che stava per concludersi mi vide occupato nell’analizzare l’ipotesi di una compartecipazione in una prestigiosa azienda che stentava a decollare. Si trattava di una manifattura tessile

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estremamente importante. Il compito strategico era di effettuare riparazioni o sostituzioni di parti di macchinari logorati. Analizzai, con la competenza di Franca, le problematiche della ditta M.T.I. Lo studio e la raccolta delle informazioni richiese nove giorni. Risposi alla loro offerta con una controproposta, che fu accettata e a gennaio ritornai dal solito notaio. Ero diventato per lui un buon cliente. Divenni così comproprietario dell’attività, con particolari privilegi. Modificai molte cose, tra le più importanti: 1. il fulmineo approvvigionamento dei pezzi di ricambio (non importava il sovrapprezzo). Utilizzai in alcuni casi, anche un elicottero 2. il parco pronto intervento (con furgoni attrezzati) 3. un supertecnico alla ricezione urgenze (capace di comprendere esattamente il problema) 4. servizio 24 ore su 24 5. tecnici preparati, motivati e ben pagati 6. ... il nostro segreto, la rapidità operativa 7. il cliente soddisfatto non badava a spese. Oggi, molti forse ritengono ovvi questi aspetti, ma credo che tutt’ora molte aziende necessiterebbero di questi antichi rimedi. Tra i molti cambiamenti, realizzai un sistema che ci consentiva di ricostruire cilindri Saidel, riducendo i normali tempi di mercato (due/tre mesi) in tre settimane, spedendo il tutto a un’azienda bulgara. Fu un successo. Il segreto era proprio la nostra rapidità operativa. Dimostrammo insomma come superare la concorrenza tramite l’efficienza. Quello che segue era, in sintesi, il sistema in vigore. In un’azienda tessile si fermava un macchinario (si trattava sempre di macchinari costosissimi). L’operaio consultava il caporeparto. Il caporeparto informava il direttore. Il direttore cercava la soluzione con i propri meccanici interni. Il problema non veniva risolto e chiedevano ai titolari il da farsi. I titolari chiamavano dei tecnici. I tecnici, quando potevano, andavano sul luogo a costatare i danni. Relazionavano alla propria ditta la quale girava un preventivo. Il preventivo veniva discusso e, se accettato, si programmava l’intervento. L’intervento durava a volte assai più del necessario per incrementarne il costo. La ditta che aveva subito il danno, pagava riparazioni costosissime, ma cento volte maggiore era il danno provocato dal fermo macchina che a volte bloccava per giorni o settimane un intero ciclo produttivo. Ed ecco la mia rivoluzione. Un’azienda convenzionata aveva un problema, e chiamava un nostro operatore. Mediante radiotelefono, l’operaio trasmetteva i motivi del fermo macchina e rispondeva agli interrogativi del nostro tecnico. Forse la telefonata poteva durare anche qualche decina di minuti ma, al suo termine, nel 99% dei casi, avevamo individuato le cause ed entro altri 15 minuti il miglior tecnico partiva per risolvere. Se necessario, un secondo tecnico di sostegno era pronto a intervenire. Il tipo di contratto da noi proposto non implicava preventivi o altri tipi di autorizzazione, se non la risoluzione immediata del problema. Spesso il tecnico incassava la fattura dell’intervento. Per quanto costosa potesse sembrare, spesso in poche ore il il macchinario era in grado di ripartire con estrema efficienza.

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Incredibile ma vero, i nostri dipendenti percepivano mance pari al salario, e gli imprenditori erano felici di aver risparmiato TEMPO! In ogni angolo del mondo il tempo è danaro, a volte molto danaro, a volte è la vita! Usando un linguaggio moderno, qualcuno potrebbe dire che ce la “tiravamo”. È vero, ma eravamo gli unici. Copiarci? Non ci riuscirono, perché mancava in chi voleva copiarci il “giusto atteggiamento”. La ditta ebbe un grande successo. Anche i prodotti che prima si vendevano saltuariamente vennero richiesti. Il nostro punto di forza non erano i prodotti, ma la nostra immagine. Continuava a diffondersi questa voce: se c’è di mezzo Ferrari, costa tutto di più, ma ne vale veramente la pena. Le voci girano, e con esse anche i nostri affari. I miei due soci erano molto contenti e io mi divertivo come un pazzo. Merito mio? NO! Il merito era sempre della mia GUIDA. «Grazie nonno, eternamente». Quello che contava erano i pensieri, i principi, il guardare oltre, l’impegno, la tenacia, la perseveranza, il desiderio di raggiungere gli obiettivi, di osare in terreni inesplorati con coraggio e fiducia in noi stessi. Tutto il resto continuava a meraviglia. Un giorno mi contattò telefonicamente il Sig. Ettore, che doveva recarsi a Biella da un suo cliente e poi sarebbe stato libero per l’intera giornata; mi chiedeva un incontro. Mi fece immensamente piacere rivederlo. Insieme, andammo da attività in attività, era curioso di sapere le strategie da me adottate e io non ebbi segreti con lui. Pranzammo al “Castello” di Candelo e gli presentai Franca, che ci aveva raggiunto. Lui rimase affascinato, e le disse di aver sempre saputo che avevo meriti particolari. Era sinceramente contento di costatare i progressi straordinari ottenuti in soli 5 anni. Ci scambiammo idee, opinioni e informazioni, fu piacevole, poi gli impegni reciproci ci indussero a malavoglia a salutarci, ripromettendoci reciprocamente nuovi incontri. Venne il ’68, anno difficile per molte aziende. La crisi toccò quasi tutti, ma non noi, anzi, noi incrementammo alcune lavorazioni grazie all’acquisizione di un importante gruppo laniero di Schio. La parola “sciopero” non aveva ragione di essere pronunciata nelle mie attività. Tutti i dipendenti guadagnavano da noi dei salari extra che altri sognavano di ricevere. Ma non era solo una questione di salari. Da noi erano responsabilizzati, rispettati, stimati e amati, io ero “papà Aldo” per tutti. Loro ricambiavano con la stessa moneta. Un’altra ragione che indusse un incremento delle nostre attività fu la decisione di tutti i nostri clienti di mantenere “Il Gigante” che ben li serviva (noi), in piena occupazione, e di sacrificare, se necessario, i piccoli terzisti. In più nacque in me una nuova idea. Nel ciclo di lavorazione dei filati, questi devono essere avvolti su coni, spole o altro. Nel lontano passato si utilizzava il legno, nella storia recente è stato sostituito con bachelite o cartone. Con l’assottigliarsi dei filati pregiati, mettere su rocca o dipanare fibre pregiate, con titoli elevati, divenne sempre più una difficoltà. Cosa dire poi dei filati tesaurizzati, per i quali tale operazione richiede anche una paraffinatura liquida con oli speciali. Avvolgere questi filati su cartone rappresentava sempre maggior difficoltà, a questa bisognava aggiungere la perdita dell’ultima parte di filato che mal si svolgeva, creando difficoltà lavorative. La difficoltà aumentava quando (lo facevano tutti) si riutilizzavano i coni, che si deterioravano di passaggio in passaggio. Era dunque necessaria una nuova soluzione. Raccolsi, anche in questo caso con la complicità di Franca, tutte le informazioni possibili. Ne parlai alla mia “aquila” e alla mia “guida”. Una volta posto loro il quesito, altro non dovevo fare che i soliti esercizi di “dinamica mentale”.

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Franca e io decidemmo di andare a sciare una domenica mattina, misi i suoi antidiluviani “Rossignol” sul tettuccio di “topo gigio”, e io mi portai due block notes, con biro a volontà. Avevo un’idea in testa. Franca mi chiese se avevo problemi da risolvere, io le risposi di no, solo un piccolo sogno da realizzare. «Ti posso aiutare?» disse lei. «No, hai già fatto molto nel fornirmi tutte le informazioni tecniche necessarie». Dicendole così, capì che stavo pensando ai coni di cartone. Tentò timidamente di aggiungere: «Ma se li fanno in questo modo, da decenni...». «Franca, Franca... tu tratti centinaia di tonnellate di seta, i procedimenti che usi sono simili a quelli del secolo scorso? Certamente no, esiste l’evoluzione tecnologica! Franca, l’evoluzione altro non è che “la realizzazione di un’idea” partorita dalla mente di un uomo». Lei annuì: «Sì certo, hai ragione». L’accompagnai alla funivia e mi rintanai in un bar discreto. Lavorai sull’idea che avevo in testa. Di tanto in tanto chiudevo gli occhi e la vedevo scivolare sulla neve, con grazia e maestria. Sembrava una bambina felice, i suoi sorrisi carichi di gioia ne erano la testimonianza. Amava ciò che faceva, la serenità d’animo, la sua forza e i suoi desideri di donna si erano realizzati, o quasi. Dico quasi, perché da qualche settimana, mi chiedeva cosa ne pensassi dei bambini. Io rispondevo che amavo i bambini. Tornai ai miei progetti. Sentivo di essere vicino a una soluzione, ma... dovevo cercare ancora. Ordinai una cioccolata calda. Quando la cameriera tornò, vidi che portava 5 tazze di cioccolata su di un vassoio, una la diede a me, e posò il vassoio con le restanti 4 tazze su di un tavolo a me vicino, occupato da ragazzi. Bevevo la mia cioccolata calda e di tanto in tanto osservavo quel gruppo di giovani un po’ rumorosi. Bevuta la loro cioccolata, uno di loro maldestramente si alzò facendo cadere il vassoio. In quel momento si accese la lampadina che attendevo. I ragazzi raccolsero il vassoio e lasciarono il bar, ma il tutto fu notato dalla cameriera, la quale venne a ritirare vassoio e tazzine, e passò anche dal mio tavolo, poiché anch’io avevo terminato di bere. Approfittai per chiederle di che materiale fosse il vassoio e lei rispose che credeva fosse di plastica. «Bene, ma perché li usate in plastica?». E lei velocemente mi disse: «Perché, come ha visto, se cade non si rompe, è facile da pulire, dura sempre e costa poco». L’uso della plastica si stava affermando già da alcuni anni, entrando negli usi domestici con una moltitudine di applicazioni. Fu il tassello mancante che cercavo. La plastica. Il problema non era del tutto risolto, ma avevo trovato la via. Nell’attesa di Franca, iniziai la stesura di un lungo elenco di cose alle quali avrei dovuto dare risposte. Rimaneva il quesito realtivo alla scivolosità del materiale plastico. Ma anche a questo problema diedi una soluzione, “visualizzando il prodotto in prospettiva d’utilizzo”, e come con procedimenti costosi i coni di cartone venivano “felpati”, ho creduto che si potesse mediante macchinari speciali, “felpare” anche la plastica. «Fantastico», urlai. Attirai con mio urlo l’attenzione di molti. Nello stesso istante entrava Franca e i più credettero che il “Fantastico”, fosse rivolto a lei. Le chiesi come mai fosse tornata così presto, e ci confessammo reciprocamente che entrambi ci eravamo stancati di stare soli. Ci abbracciammo e ci baciammo, poi lei mi chiese se avessi trovato una soluzione per la mia idea. Le risposi di sì. «Quale?» chiese lei. «Segreto, per ora rimane un segreto!» «Sì, ho capito, fai bene, ma spiegami». Ma io continuai a insistere che era un segreto. Ridemmo, camminando mano nella mano in un difficile equilibrio. La giornata era splendente. Andammo a mangiare polenta e stufatino di capriolo con Barbera. Tornammo verso casa cantando, allegrotti, contenti. Arrivammo incolumi.

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Oltre a tutti gli impegni ai quali dovevo dedicarmi, lavoravo “segretamente” all’IDEA. Bravo nel disegno, avevo iniziato a progettare una macchina, Franca una sera mi scoprì e chiese a cosa stessi lavorando, questa volta le risposi: «Questa sarà la “felpatrice”». Credo che non avesse capito nulla, ma pronunciò uno squillante:« Fantastico!». Conoscevo un meccanico pazzo di Cossato, a cui piacevo molto per merito della mia auto. Egli era patito di corse e di elaborati motori; gli parlai dell’idea di realizzare la felpatrice. La cosa gli piacque molto e si mise subito all’opera; quattro mesi e 23 giorni dopo ci fu il collaudo. La macchina funzionava. Arrivò il momento di parlarne ai miei soci della M.T.I. Il Sig. Diana, il socio anziano, disse che era in stretta amicizia con un signore di Novara, esperto in stampaggio di materie plastiche per aver lavorato nel settore come piccolo artigiano, ma aveva smesso da poco per difficoltà famigliari. Dissi: «Chiamalo e invitalo per domani mattina alle 7,50 nei nostri uffici». Lo chiamò e avvertii entusiasmo sia in Diana che nel suo interlocutore. Feci un salto sia a Candelo sia a Pian Cavallo, pranzai a casa e poi si tenne un’altra riunione alle 14,00. Esposi le mie IDEE e tutti i programmi correlati. La loro realizzazione avrebbe dato vita alla prima azienda, sul mercato europeo, produttrice di coni di plastica felpati. Facemmo mezzanotte, l’idea entusiasmò gli animi. Il giorno successivo alle ore 7,30, nella sala riunioni della M.T.I., c’erano già tutti, e anche una grande lavagna, pulita. Alle ore 13,00 facemmo una piccola pausa, poi nel pomeriggio altre domande. Alle ore 18,35 nasceva la GO Plast International. Il giorno dopo eravamo dal solito notaio. I problemi da risolvere erano tanti, ma quattro mesi dopo iniziavamo a produrre. Fu un successo, un grande successo! In quel periodo avevo diradato le mie visite ad Agrate, anche perchè la litigiosità con “Lui” era aumentata notevolmente. Suo fratello Wainer lo informava dei miei successi e questo, anziché produrre approvazione e soddisfazione, serviva a rinfocolare chissà quale sua perversione mentale. Probabilmente, il sapere che avevo accumulato successi e benessere, toccava stupidamente il suo amor proprio fragile e frustato. La sua condizione ideale, era quella di frequentare persone molto più disagiate di lui, per poter contro di esse prevalere o infierire. In psicologia questo comportamento viene comunemente definito “disadattamento sociale”. L’ aiuto finanziario alla mamma e ai miei fratelli, non serviva a diminuire tensioni e maltrattamenti, anzi, a volte li aumentava. Addirittura vietò a mia madre di accettare il mio danaro, dicendo che “era sporco” e proveniente dallo sfruttamento operaio. Sosteneva che, se avessi lavorato duro e onestamente, come lui, non avrei mai potuto accumulare ciò che già possedevo. Tra le sue perversioni mentali, sosteneva che solo gli “operai” erano una casta di nobili e che tutti gli altri dovevano essere sterminati. Durante una delle mie visite, lanciai un’idea alla mamma: «Perché non vieni a vivere a Biella?»«Tu hai rinunciato al “paradiso” e ai tuoi familiari per me, ora io posso in parte, ridarti quella serenità e una vita migliore, che tu hai sempre meritato. I miei fratelli cresceranno in un ambiente sereno e rispettabile, questo rappresenterà anche per loro una prospettiva migliore» Qualche settimana dopo, l’idea aveva fatto strada e a seguito dell’ennesima discussione la mamma mi disse che non ne poteva più. Proposi la soluzione del trasferimento suo e dei miei fratelli e lei finalmente accettò.

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Per tutta la vita aveva vissuto con il terrore delle sue reazioni, delle sue minacce. In effetti è sempre stato, forte con i deboli e coniglio con i forti. Affittai, grazie alle segnalazioni del Sig. Arnaldo, il più grande e prestigioso appartamento in piazza a Candelo. Mandare un camion ad Agrate. Trasferire le cose necessarie e trasferire tutti loro nella nuova casa fu semplice. Franca si dedicò molto alla mamma e ai miei fratellini. Passammo mesi felici, ci sentivamo in paradiso finalmente. Il solo fatto di vivere in serenità aveva migliorato molto le condizioni di mia madre. Ad Agrate, vivevamo con l’acqua sotto il letto e un’umidità impressionante. La casa era priva di riscaldamento, i mattoni con i quali era stata costruita erano stati estratti dall’acqua, le fondamenta non erano state realizzate adeguatamente; vivere a Candelo in una casa sana contribuì a far stare tutti meglio. Ciò che faceva particolarmente felice la mamma, quando usciva di casa, era il rispetto e la gratitudine della gente. Ovunque andasse (il paese era piccolo), le persone, i negozianti, tutti la chiamavano, giustamente, «Signora Ferrari», con riverenza. Tutti sapevano che era la mia mamma. Un giorno mi trasmise un’emozionante frase, indimenticabile, dicendomi: «Sai, caro Aldo, le persone di questo paese mi trattano come in Brasile tutti trattavano il nonno». L’abbracciai, ma lei continuò, quasi con un candido stupore nel dirmi: « Vedi, quando tu sei “buono”, gli altri sono “buoni” con te». «Sì, mamma, è vero!» A volte mi telefonava, per informarmi che persone che lei non conosceva, le avevano chiesto se fosse la mia mamma e quando lei rispondeva di sì, la informavano che molti dei loro familiari lavoravano per me. Spesso concludeva con un: «Sai, mi hanno detto che sei veramente un bravo ragazzo». Era felice. Era emozionata, come la prima volta che qualcuno ti chiede un autografo. Ma era troppo bello, per essere vero. Un lunedì mattina, dopo che Marco e Bruno si erano recati a scuola, la mamma venne a trovarmi in ditta con Cristina. Quando la vidi col viso triste, le corsi incontro per sapere cosa fosse accaduto. Ci accomodammo e mi informò che il giorno prima, “Lui” era venuto a Biella a cavallo del suo Motom e che dopo essere entrato in casa aveva passato la mattinata insultando e minacciando. Se n’era andato verso mezzogiorno, promettendo che si sarebbe recato dai Carabinieri a denunciare tutti. L’uomo nero era riapparso. Cercai di tranquillizzarla, ma vivo in lei era il sospetto che i fatti accaduti in Brasile si sarebbero ripetuti. Chi sarebbe stata la prossima vittima? Certo che, conoscendo ciò di cui era capace, nulla mi avrebbe meravigliato. Valutato che le sue apparizioni potevano avvenire prevalentemente di domenica, ci attrezzammo. Informai i Carabinieri e la scuola dell’accaduto. La mamma passò la settimana in ditta. La domenica successiva organizzai una gita in montagna. Feci bene, perché venni a sapere dal tabaccaio sotto casa che “Lui” era tornato. Telefonai allo zio Wainer, suo fratello, e lo raggiunsi in tardo pomeriggio. Da uomo saggio, sapeva già tutto e mi promise che insieme agli altri suoi fratelli e sorelle, avrebbero cercato di dissuaderlo dal compiere altre azioni malvage. Dopo circa un mese di silenzio fui contattato dallo zio, il quale si faceva portavoce di suo fratello, per riferirmi che mio padre aveva deciso di cambiare, e di ricostituire la famiglia, venendo “Lui” a Biella. Che il lupo avesse deciso di trasformarsi in agnello era utopistico, ma dopo tante esitazioni, decidemmo di provare, nel caso fosse avvenuto un piccolo miracolo. Ponemmo alcune regole, inderogabili:

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che non frequentasse per nessuna ragione le mie attività che mantenesse un comportamento dignitoso e decoroso che si trovasse un lavoro a lui confacente che i suoi belligeranti ed egoistici atteggiamenti finissero che si continuasse una vita serena.

Dopo i suoi ripetuti giuramenti e la pressione dei suoi fratelli affinché gli concedessimo l’opportunità di riscattarsi da una vita sbagliata, accettammo. Chiusa la casa di Agrate, si attrezzò e tramite un suo amico con furgone, si trasferì a Candelo. Pregammo tutti e sperammo... Per 5 mesi, sembrava che fosse davvero cambiato, ed era già un successo. Stranamente, non aveva ancora trovato un lavoro idoneo. Io e Franca provvedevamo al mantenimento di tutta la famiglia e la mamma, per evitare di stare in casa con lui, veniva in ditta da me, nel pomeriggio anche con i miei fratelli. Poi trovò occupazione in una tintoria e fummo contenti per lui. L’illusione durò poco, perché dopo tre settimane si licenziò, o lo licenziarono. Rimase a casa senza lavoro per altri tre mesi, imprecando contro tutto e tutti. Il disco era il solito: la gente lo sfruttava, la gente si arricchiva alle sue spalle, non era giusto che un ingegnere guadagnasse più di lui, che titolari e dirigenti erano tutti una massa di ladri, ecc.. Osò di più. Un giorno sapendo che ero lontano da Biella per lavoro e che non sarei rientrato per alcuni giorni, si recò nella mia ditta di Candelo, tentando di dissuadere gli operai a compiere il proprio lavoro o di produrre la metà di quanto facevano, adducendo quale motivazione che io li stavo sfruttando, che erano pagati troppo poco e che io mi stavo arricchendo alle loro spalle. Fortunatamente, godevo di un così grande rispetto e di così tanta gratitudine da parte dei miei dipendenti, che le sue prediche crearono solo disgusto. Ovviamente al mio rientro mi fu riferito tutto. “Lui” negò e, non avendo nulla da fare, continuò la sua opera denigratoria a domicilio. Tutti vennero a sapere e tutti lo respinsero. Superò se stesso aggredendo verbalmente anche Franca, sparlando della sua moralità e recandole offese gratuite, inimmaginabili e irripetibili. Oltrepassò così la linea rossa! Alcuni suoi fratelli, che tanto avevano perorato la sua remissione da antichi peccati, dispiaciuti e sconvolti dalle sue abilità malefiche si adoperarono tra litigi spaventosi per riportarselo ad Agrate. Avrebbe potuto vivere da ricco signore per il resto della sua vita. Ma era impregnato di cattiveria e malvagità. Continuò la sua opera diffamatoria tramite lettere. La soluzione fu cestinarle all’arrivo. Riprendemmo la nostra intensa, ma serena vita. Le attività diversificate mi occupavano almeno 16 ore al giorno. Soddisfatto del loro ottimo progredire, della visione di un ottimo futuro, della progressiva realizzazione dei miei sogni, pur vivendo intensamente, cercavo ancora altro, dentro di me. Fu questo cercare che una mattina al risveglio mi riportò una domanda in testa: mi ricordai il giorno in cui avevo chiesto a nonno Giovanni, la mia guida: «Nonno, perché io»?... e lui aveva risposto: «Perché tu hai una missione speciale da compiere, tu sei predisposto per tale missione». Qual era la missione da compiere? Quella di emergere? Sì, ce l’avevo fatta, avevo deciso che non sarei vissuto nella mediocrità e ho duramente pagato per conquistare ciò che ho deciso di ottenere! Quella di distribuire benessere? Sì, nei miei rapporti ero “generoso”con gli altri. Quello di amare il mio prossimo? Sì, mi prodigavo verso tutti, sempre. Quello di creare cose innovative? Sì, per quanto potevo.

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Quello di occuparmi dei miei familiari? Sì, lo stavo facendo, con infinito amore. Forse era quello di cercare dentro di me? Avevo iniziato con lui, non avevo mai smesso, e alcuni rapporti che avevo con medici iniziati a conoscenze esoteriche, stavano facilitando la via della consapevolezza e di conoscenze illimitate.

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“La storia si ripete”

Un giorno, mi telefonò Franca, avvisandomi che nel pomeriggio si sarebbe recata a fare delle analisi. Il suo modo telegrafico di comunicare spesso non consentiva repliche o dialoghi. Mi sembrava che stesse attraversando un periodo ottimo, anzi, mai l’avevo vista così felice e splendente, perché dalle analisi? Forse per prevenzione, pensai. Feci solo in tempo a risponderle con un... «Fammi sapere». Ero a pranzo con clienti e altro non potevo fare che attendere. Alle ore 16, arrivò la sua telefonata, i clienti se ne erano appena andati e quindi mi misi comodo. «Dimmi cara, qual è l’esito?» Lei mi rispose che forse era meglio vederci. Per un attimo, pensai che le analisi riguardassero sua madre, poi mi chiesi perché avrebbe avuto urgenza d’informarmi. Tagliai corto ad altre domande che nascevano nella mia mente e le dissi: «Dove vuoi che ci vediamo?» Lei rispose al Calipso. «Va bene fra tre minuti». Era una tiepida giornata primaverile, parcheggiai e mi sedetti all’esterno, in un tavolo a noi gradito per la sua posizione discreta. Lei arrivò dopo un minuto, “topo gigio” sgommò sul briciolato e si fermò a un metro da me. Scese, si avvolse le spalle con un ampio scialle nero, con disegni ricamati di rosso e oro e mi si avvicinò raggiante. Non c’è mai un fotografo quando serve per immortalare momenti particolari. Mi buttò le braccia al collo, mi baciò dolcemente e mi disse che aveva una grande e bellissima notizia da darmi. Incominciai a incuriosirmi, e le chiesi di informarmi subito. «Aspetto un bambino!» Fantastico! L’abbracciai e ci scolammo una bottiglia di champagne. Aveva già assunto i tratti somatici della mamma felice. Anche le mani, erano conserte sul grembo, quale simbolica protezione. Divenne così «UN GRANDE SOGNO DI VITA, PER ENTRAMBI». Da quel giorno, cambiarono un miliardo di piccole abitudini, piccole attenzioni, come modifiche nell’alimentazione e prudenze eccessive riguardanti tutto. Nostro figlio era appena concepito e già prepotentemente presente. Per festeggiare la sua presenza, ogni giorno alle 15,30 ci incontravamo al Calipso e bevevamo la nostra bottiglia di champagne. Franca conservava gelosamente i tappi, inscriveva la data e li riponeva come una reliquia sacra. La nostra vita stava per cambiare. Camminava a un metro dal suolo dalla gioia. Iniziava a consultare riviste pre-maman e faceva progetti, facevamo progetti. Il nome che decidemmo per lui era “Robert”, in memoria di mio fratello. Tutte le possibili attenzioni furono prese. Ma Franca collezionò soltanto 126 tappi, poiché tanti furono i giorni di vita del nostro bambino. Lo perse, inspiegabilmente, in un caldo giorno dei primi di giugno. Alla sofferenza della perdita del nostro bambino, si aggiunse la necessità di un intervento chirurgico che le tolse la possibilità di avere altri figli. Tre drammi in un solo evento. La cosa fu per entrambi dolorosa, ma credo che per una donna lo sia in misura esponenziale. Lei non avrebbe mai più avuto una seconda possibilità. L’accaduto influenzò molto il suo carattere, provocando un morboso attaccamento fisico nei miei riguardi e una folle gelosia mai mostrata prima, se non nella norma di tutte le coppie che si vogliono bene. I giorni passavano, il suo amorevole attaccamento cresceva, così pure, la sua gelosia. Pensavo a un riflesso psicologico temporaneo, che si sarebbe attenuato con il tempo.

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Consultai gli amici medici, psicologi e altri. I pareri diversi tendevano a unificarsi sulle terapie di tempo, pazienza e tanto amore. Le saltuarie visite a casa delle sue amiche o di quel “Gota” di industriali che anni prima erano stati oggetto delle sue rivincite morali e sociali, si trasformavano al rientro in scenate pazzesche. Cosa dire poi delle figlie delle sue amiche nobili o famose? A sentire lei sembrava che io mantenessi rapporti amorosi sia con le madri, sia con le figlie. Arrivai al punto di credere che la gelosia avesse raggiunto lo stato di patologia. Ero talmente coinvolto nelle attività lavorative che non c’era certamente spazio nella mia mente per altro. Oltre a non esserci spazio, non albergava nessuna velleità, essendo la nostra intesa un compendio ideale perfetto, sia sul piano sessuale che psicologico. Passavano i mesi, lavoravo, studiavo, lavoravo e le restanti ore e minuti li trascorrevamo insieme, come sempre, più di sempre. Da parte mia, mostravo ogni attenzione possibile nei suoi confronti. Iniziò a incrementare le ore che trascorrevamo insieme, perché mi raggiungeva sul lavoro e rimaneva con me fino a che non decidevamo di tornare a casa. Fu così che Giovanni prese l’abitudine di servirci il pranzo o la cena, ove io fossi. La cosa, da un lato, presentava anche dei vantaggi, perchè in questo modo mi nutrivo meglio e pranzare insieme era più piacevole che da soli. Mamma, ovviamente, si schierò dalla sua parte. Solidarietà femminile, pensai. Ma nessuno al mondo aveva motivo alcuno per dubitare della mia fedeltà. Dopo 5 anni, vissuti ad altissimi livelli d’intensità emotiva e di impegno fisico al limite di ogni sopportazione umana, allentai la presa, prendendomi qualche piccola pausa domenicale. Il successo e la buona reputazione, portavano nuovi clienti, nuovi contratti, un incremento delle richieste di prodotti e servizi. In diverse mie attività, inserii anche il turno di lavoro notturno. Eravamo operativi 24 ore su 24. Gelosia a parte, sembrava di vivere in un film meraviglioso, poi accadde che... Molte mattine, la mamma veniva in ditta a Candelo, portandosi Cristina che aveva 4 anni e preferiva venire in ditta piuttosto che andare alla scuola materna. La mamma aiutava tutti, occupandosi di piccoli lavoretti, e la giornata trascorreva più velocemente. Sul retro della ditta, si trovavano una bocciofila e ampi spazi con giardini ove, quando il tempo lo consentiva, alcuni bambini uscivano a giocare, purché ci fosse sempre qualche adulto a prendersi cura di loro. Quella mattina eravamo impegnati come sempre nelle normali attività lavorative, quando apparve sulla porta il Sig. Luigi, chiamandomi con urgenza. Corsi da lui e mi disse: «Sig. Aldo, venga e non si spaventi, sua sorella è stata travolta dal treno... » Uscii volando, la ferrovia stava a poche decine di metri da noi e vi transitavano decine di treni locali al giorno. A rendere non pericoloso quel passaggio a livello, erano le barriere protettive che, al posto delle solite sbarre, erano costituite da cancelli i quali venivano rigorosamente chiusi. Il treno, tre carrozze in tutto, era stato fermato in quella piccolissima stazione. Vidi mia sorella a terra, in una pozza di sangue, e pensai di impazzire dal dolore. Si era già formato un capannello di curiosi, nessuno aveva mosso un dito, altri avevano già decretato la sua morte. Tutti aspettavano che qualcuno prendesse una decisione, altri gridavano che bisognava telefonare, altri ancora che non si doveva toccarla per non... saltai il cancello, presi tra le braccia mia sorella, e invitando un automobilista a portarmi all’ospedale, trovai disponibilità. Tre minuti dopo entravamo al pronto soccorso, pochi attimi dopo in sala operatoria poi, la lunga attesa. Quando arrivarono mamma e Franca, nel vedermi completamente intriso di sangue, credettero alla peggiore ipotesi.

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Dopo 45 minuti, uscì il chirurgo dalla sala operatoria chiese chi aveva portato quella bambina, e io risposi,« Sono stato io, sono il fratello». Si tolse i guanti e sorridendo mi diede ripetute pacche sulle spalle e disse: «Bravo, le hai salvato la vita, per pochi minuti siamo arrivati in tempo, è salva!». Tornò a casa 27 giorni dopo, con 18 punti sulla fronte, salva da ogni complicanza. Fu una doppia lezione di vita:

non perdere mai il controllo di un bambino piccolo quando devi agire, agisci subito, la decisione salva la vita!

Mi tuffai nuovamente negli studi: psicologia, analisi transazionale, radiestesia, radionica, feng shui, reiki e geobiologia. Andai diverse volte negli Stati Uniti per seguire stage di aggiornamento accompagnato dal nostro amico medico che era uno dei pochi di cui Franca non era gelosa. Questo amico medico era collega e braccio destro del Prof. Dott. Massimo Inardi di Bologna. Apprendevo rapidamente, lui sosteneva che, «C’è chi nasce con particolari predisposizioni» e, secondo lui, io ero particolarmente predisposto. Pensavo che fossero complimenti per indurmi a studiare di più. La fase applicativa e sperimentale ci entusiasmava, soprattutto per i risultati ottenuti. Mi chiedeva pareri su alcuni pazienti, e io partecipavo. Iniziai a controllare geopaticamente case, laboratori, studi medici... Facevamo anche indagini vibrazionali, tramite foto o oggetti, e ottenevamo risposte che difficilmente la medicina tradizionale avrebbe potuto ottenere. Facemmo insieme corsi di geobiologia, tenuti dal Prof. Dott. Hartmann, sviluppammo gli studi di George Lakhowsky, Hamer, W. Reich, Blanche Mertz e molti altri scienziati in materia. I risultati furono sorprendenti e straordinari. Creammo un “gruppo” di ricerca, composto da medici e tecnici. Approfondimmo la correlazione tra geobiologia e malattie. Fu un “amore grande”, incessante, infinito e decidemmo di dedicarci ad esso per il resto della nostra vita. Progressivamente, ottenemmo la collaborazione di altri medici e ricercatori, ampliando informazioni e conoscenze. Le attività lavorative continuavano meravigliosamente bene, anche se mi richiedevano un impegno costante, elevatissimo. Era il prezzo da pagare per la realizzazione di un grande desiderio. Riapparve l’uomo nero. Diminuite le precauzioni domenicali, “Lui” riapparve. Ne venni a conoscenza quando la mamma mi telefonò per sapere se Bruno era con me. «NO!», risposi, ma la cosa mi allarmò, e ci recammo immediatamente a Candelo in cerca di Bruno. Franca cercava di sdrammatizzare, facendo notare che era una bella giornata e che probabilmente si era allontanato dalla piazza per giocare a casa di qualche conoscente. Non era mai successo prima. La tensione aumentò con il passare delle ore. Divenne insostenibile dopo l’ora di pranzo. C’eravamo ritrovati tutti a casa, verso le ore 15,00, quando squillò il telefono. Era “Lui” che ci informava di Bruno, dicendo «Ho deciso che da oggi in poi Bruno vivrà con me!» Prima di chiudere il ricevitore, udimmo uno straziante grido d’invocazione: «Mamma»... era la voce di Bruno. Mamma si accasciò al suolo e pianse. La storia si ripeteva dopo 20 anni. Stavo considerando un’azione di forza, ma fortunatamente riflettei e contattai un amico avvocato. Dopo pochi minuti venne da noi e considerando tutta la situazione, ci consigliò di non reagire, ma di trovare una soluzione diversa, informandoci che la mamma poteva anche essere condannata per abbandono del tetto coniugale e che dopo mesi o anni di procedimenti avrebbero probabilmente affidato a lei la figlia minore, ma obbligato Marco a

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ricongiungersi con il padre. La prospettiva non era rosea e decidemmo di procedere per tentativi bonari. Tutti i nostri tentativi, sommati a quelli dei suoi parenti, naufragarono. La sua risposta ricattatoria fu: «Torni a casa e rivedrai tuo figlio, altrimenti un giorno o l’altro, passerò a prendermi anche Cristina». Passò del tempo e i tentativi di convincerlo ragionevolmente non diedero risultati. Ci tenevamo informati sulla salute di Bruno e sembrava che lo stato di libertà nel quale viveva gli fosse confacente. “Lui” non c’era mai, e Bruno passava i pomeriggi dai nonni. Riprendemmo, obbligatoriamente, la vita di sempre con una spina nel cuore. La mamma portava il suo dolore silenziosamente. Mi stavo dimenticando che, tra la nascita di Bruno e quella di Cristina, aveva subito nella più prestigiosa clinica di Bologna un intervento alla colonna vertebrale e le erano state asportate due ernie discali. Dopo 20 anni di busti in gesso, finalmente non li portava più. Con un’adeguata degenza e con le terapie necessarie, il suo stato era migliorato. Probabilmente a influire sul progressivo miglioramento erano stati l’aria sana, un’alimentazione adeguata, la serenità data dalla non presenza di “Lui”, una casa sana, il nostro affetto e la nostra vicinanza. Dopo vari e disperati tentativi, protrattisi nei mesi successivi, la mamma decise che non ci sarebbe stato un altro Brasile. La sua decisione non fu facile. Aveva tutto il nostro appoggio e la nostra comprensione. Marco e Cristina erano a scuola e la mamma veniva saltuariamente in ditta, soprattutto quando sapeva che io ero impegnato altrove. Lo straordinario rapporto con Franca le dava sicurezza, quella sicurezza che la sudditanza aveva da sempre cancellato. Ma accadde l’impensabile. Quando tutto sembrava andare per il meglio, casa, lavoro, affari, salute, ecc., la situazione esasperante, creata dalla gelosia di Franca, cresceva a dismisura. All’inizio, pensavamo che fosse un riflesso indiretto dovuto alla perdita di Robert, ma altri meccanismi sul piano psicologico erano entrati in funzione. L’affetto era così grande che sedava ogni manifestazione irrazionale. Il nostro “gruppo” di lavoro, che era composto prevalentemente da suoi amici specialisti, pur prodigandosi non portò a miglioramenti. La sua ossessione aveva già da tempo largamente superato ogni limite. Avevamo trascorso insieme 6 anni straordinariamente indimenticabili. Poi ciò che era stato tanto bello, divenne tanto brutto. Ricevevo sue telefonate ogni 15 minuti: «Dove sei? Con chi eri? Con chi stavi parlando? Ho chiamato prima e mi hanno detto che eri uscito, da chi sei andato?» solo per citarne alcune, ma il repertorio era senza fine. Alla sera l’analisi della biancheria intima, alla caccia di odori o tracce di... non so. Il suo comportamento era diventato pericolosamente patologico. Non contenta delle telefonate, spesso appariva sul posto di lavoro, ovunque fossi. Senza che me ne accorgessi, la mia gigantesca botte di tolleranza, stava svuotandosi. Interpellai la mia aquila, la mia “guida”, e l’universo. Perché? Mi domandavo. Cosa avrei dovuto fare? Cosa avrei potuto fare? Alzai gli occhi al cielo, invocai a squarciagola: «Nonnooooooo!» Poi, tornando da Pian di Cavallo, fermai la mia macchina in una zona di sosta e scesi in riva al torrente. Scelta la giusta posizione, entrai in meditazione, c’era il nonno con me. Sceso ai livelli “alfa”, navigavo nell’etere. La ricerca portò la soluzione, e la risposta fu:

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«Hai una missione da compiere che ti porterà lontano, girerai il mondo per diversi anni, parlerai alla gente, farai del bene e poi ti riposerai. Tutto questo avverrà con una nuova compagna di vita, che un giorno ti presenterò». Questa fu la risposta! E la mia vita cambiò. Tornai a Candelo, entrai al bar del Sig. Luigi e ordinai la colazione. Lui si avvicinò e mi chiese cosa avessi, «Nulla» risposi, «se non una buona notizia». Mi domandò quale fosse ed io terminato il cappuccino, ripetei le stesse parole udite sei anni prima dal Sig. Arnaldo, dicendo ad alta voce: «Se oggi incontrassi una persona interessata alla mia ditta la venderei per la metà del suo prezzo». «NO!» esclamò il Sig. Luigi, «È un gioiello di perfezione e non solo, è molto di più!». Quasi all’istante, un gentil signore, che stava facendo colazione accanto a me, mi rivolse la parola chiedendomi se stavo scherzando. «Certamente no», risposi. Si chiamava Bergometti e faceva l’autotrasportatore, era sposato e aveva sei figlie femmine. Era stanco della vita che conduceva e sembrava sapesse tutto, sia di me, che del nostro lavoro. Meravigliato della mia decisione, mi chiese quando avremmo potuto parlarne, e io risposi:«Subito, anche perchè oggi ho deciso, domani potrei cambiare idea. L’offerta è valida per oggi!». Mi spiegò che aveva un carico da consegnare in un paesino limitrofo e che gli serviva almeno un’ora. «Va bene, ci rivediamo tra un’ora.» Luigi, disorientato mi disse: «Sig. Aldo, guardi che il Sig. Bergometti è un serio lavoratore, ha soldi e diversi autotreni». Ringraziai per la benevola informazione, ma stavo già pensando ad altro. Investii quell’ora per recarmi alla M.T.I. e Go Plast, riunii i miei soci ed esternai la mia decisione di voler comprare le loro quote, per diventare l’unico proprietario delle due aziende. L’arroganza della mia pretesa, scatenò la reazione da me voluta, portando loro a rispondere, visto il conquistato benessere derivato dai successi ottenuti: «No, non vogliamo vendere! Anzi, se vuoi, compriamo noi le tue quote». A pronunciare questa frase non fu certo il Sig. Diana, ma l’altro socio, ragioniere, figlio di miliardari, poco competente degli interessi dell’azienda e dei possibili ulteriori sviluppi. Poco incline al lavoro, agli impegni e a quant’altro, molto diverso da me e da Diana. La sua unica forza era il danaro del padre, che spendeva vergognosamente. «Va bene», risposi. Rimasero scioccati e increduli e Diana fece l’impossibile per dissuadermi. Rivolgendomi al ragioniere, gli chiesi quante ore avrebbe impiegato per verificare giacenze di magazzino e situazione contabile. Lui mi rispose che per sera sarebbe stato tutto pronto, e anche il danaro per la mia liquidazione. «Ottimo», risposi. Quindi fissammo una riunione per le 18. Salutai tutti e ritornai a Candelo. Il Sig. Bergometti era già tornato, facemmo un giro per la ditta e decidemmo di continuare la nostra conversazione al Calipso. Non era ora di champagne, quindi prendemmo altri cappuccini. Notai che conosceva benissimo la nostra situazione aziendale, per il fatto che alcune delle mie dipendenti erano imparentate con la sua famiglia. Venimmo rapidamente al sodo e mi chiese quanto valesse la ditta. Non risposi immediatamente, ma lo indussi a fare una sua valutazione: dei beni, del patrimonio clienti, l’analisi del fatturato mensile e dei costi. Abbastanza esperto, non tardò nel pronunciare una cifra che si avvicinava per difetto a quella reale. «Sig. Bergometti, lei sa che il vero valore è almeno il doppio, e oggi pomeriggio ho appuntamento con altre persone che sicuramente non lesineranno danaro pur di entrare in possesso della mia attività, quindi mi faccia la sua offerta generosa o dimentichi per sempre, che la vita OGGI le ha offerto una grandissima opportunità.

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Nella vita, passa davanti a tutti un treno carico d’oro, c’è chi lo prende, c’è chi lo perde. Lei è un “vincente” o un “perdente”». (La risposta fu un silenzio assoluto) Voleva essere un “vincente”, ma era ancora titubante. Capii che il problema, non era l’entità della somma, ma come trasformare alcuni suoi beni in liquidità. Non intervenni e lo lascia cuocere nella sua pentola con fiamma al massimo. «Mentre lei ci pensa» gli dissi, «devo fare alcune telefonate». Volevo telefonare a Noseda, lo feci invitandolo a pranzo in un luogo diverso dal solito, per non essere rintracciato dalle telefonate di Franca. Noseda, intimo amico di Franca, poi anche mio, era un uomo di pochissime parole, mi rispose subito di sì. Poi telefonai a Franca, che era occupata; lasciai alla sua segretaria il messaggio che non sarei andato a pranzo, per sopraggiunti impegni di lavoro. Ovviamente, lei mi chiese dove mi poteva raggiungere e io fui volutamente evasivo. Queste telefonate furono dal Bergometti interpretate come contatti con altri acquirenti e lo motivarono a una più rapida decisione. Devo ammettere che la cosa giocò a mio favore. Tornato al solito tavolo, lo trovai più bendisposto. Visto il mio silenzio, iniziò un discorso che condensava il seguente contenuto:« Sig. Aldo, se avessi tutti i contanti le proporrei, tot.. Non avendoli, la mia proposta è la seguente, una parte in contanti subito, una parte entro 90 giorni perché venderò gli automezzi, il saldo entro un anno». Diedi un’aggiustata alle cifre e memore di essere stato aiutato, aiutai, accettando le sue richieste, anche perché non avevo necessità di incassare. Non stavo facendo quello che facevo per danaro. Stretto il patto, lui chiese al barista un foglio di carta, e scrisse i termini dell’accordo. Poi estrasse un libretto d’assegni, ne compilò uno con una cifra congrua e sottoponendomi sia il foglio che l’assegno mi invitò a sottoscriverlo. Lessi e mi sembrò corretto, controllai l’assegno e firmai. Avevo creato un’azienda perfetta e la cedevo a terzi. Telefonai al solito notaio, l’appuntamento per il giorno successivo fu fissato alle ore 9.00. Anche il notaio rimase stupito. Salutato il Sig. Bergometti, passai in ditta per dare disposizioni per il pomeriggio. La mamma percepì che c’era qualcosa nell’aria, mi accarezzò e mi chiese:«Va tutto bene? E io le risposi di sì, tranquillizzandola. Andai a pranzo con Noseda. La prima cosa che mi chiese fu: «Come va con Franca? La vedo ogni giorno sempre più strana». «Purtroppo, male!», gli risposi. Lui sapeva tutto, e ciò che non sapeva gli veniva riferito dalla moglie. Aggiunse: «È incredibile e mi dispiace per voi, se continua così, potrebbe commettere anche delle sciocchezze... speriamo di no!». Avevamo ordinato e nell’attesa gli dissi:« Caro Noseda, vorrei cederti la mia quota. La ditta è molto ben avviata, la clientela acquisita è stabile, le prospettive rosee, i conti vanno benissimo, quindi...» Lui mi chiese quanto volevo. Gli risposi di stabilire lui il prezzo, che io avrei accettato, sapendo che la sua moralità non si sarebbe trasformata in opportunismo, ma in generosità per quanto insieme avevamo fatto. Gli chiesi solo due favori: 1. chiudiamo domani, se il notaio è disponibile, per il pagamento come vuoi. 2. non parlarne a nessuno per almeno 48 ore. «Va bene Aldo, mi puoi almeno spiegare il perché? Ho involontariamente commesso qualche errore nei tuoi riguardi?» «No, caro Noseda, tu sei e rimarrai sempre una splendida persona. Verrà il giorno delle spiegazioni».

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Trovai ancora il notaio in ufficio, gli parlai di questo secondo atto e mi disse che poteva ricevermi il giorno successivo alle 18,00. Alle ore 18, mi recai all’incontro con i miei soci. Il ragioniere, mi presentò il prospetto contabile da lui preparato, in seguito al quale si sarebbe calcolata la mia liquidazione. Fu un gioco da ragazzi far lievitare le cifre a mio vantaggio, lo feci fino al limite del lecito. Concordato il saldo, da liquidarsi rigorosamente, in contanti, alle 19 telefonammo al solito notaio e aggiungemmo il rogito di vendita, non per il giorno successivo essendo già completamente occupato, ma per il giorno dopo, alle ore 9,00. Quella sera, tornai a casa per cena. Il primo a essere sorpreso fu Giovanni, poi Franca. Terminata la cena, di solito ritornavo in azienda, quella sera invece mi spogliai e mi misi in vestaglia. Franca iniziò con il solito tormento, chiedendomi dove ero stato, e con chi, dicendo che mi aveva chiamato mille volte e non mi aveva trovato, ecc. Io non risposi e lei perse il controllo di sé. Cercai di intavolare un discorso benevolo, ma non fu costruttivo. Aveva intrapreso la solita tangente di interrogativi spasmodici e assolutamente ingiustificabili. Quando la mattina dopo si rese conto che non uscivo alla solita ora, si insospettì ulteriormente e mi chiese spiegazioni. Le risposi che non ne avevo voglia e che stavo cambiando i miei programmi di vita. Se il cielo o il mare si fossero aperti, non credo che avrebbero spostato tanta acqua. Passai le successive 48 ore negli studi del notaio e vendetti ciò che avevo deciso di vendere, fatto salvo le proprietà immobiliari e altri beni acquistati durante quegli anni. Il giorno successivo, tutta Biella e dintorni seppe che avevo ceduto le mie attività. Lo seppe anche lei. Ella diede evidenti segnali di squilibrio, ma ancor più di incredulità. Solo quando da più fonti le arrivò conferma, si chiuse in un silenzio tombale che durò 36 ore. La mattina successiva, libero da impegni, feci colazione in casa e mi misi a leggere, cosa che abitualmente non facevo mai, un giornale portato in casa da Giovanni. Ero da poche ore libero da impegni, quando leggendo gli annunci economici ne trovai uno singolare, che recitava così: «cerco un uomo, che sia disposto a crescere e che voglia far crescere gli altri e voglia guadagnare almeno... al mese», riportavano una cifra talmente importante, che era da ritenersi non raggiungibile per i più, quindi molto allettante. Non fu, contrariamente a quanto seppi successivamente, la cifra ad attirare la mia attenzione ma il resto della frase. Telefonai e trovai un interlocutore garbato, non rispose nemmeno a mezza delle mie elementari domande, ma mi disse che una multinazionale americana stava facendo delle selezioni, e che poteva, se lo desideravo, fissarmi un appuntamento a Milano. Non avendo nulla da fare, gli dissi di sì. Quando mi chiese il giorno del possibile appuntamento io risposi: «Oggi». Mi propose garbatamente:« Sig. Aldo preferisce alle 13,00 oppure alle 16,00?». Guardai l’orologio e risposi alle 13,00. Mi dettò l’indirizzo e ci lasciammo con un cordiale arrivederci. Stava per iniziare una nuova avventura della mia vita. Mi recai all’appuntamento con la dovuta puntualità. Chi mi aveva convocato, mi ricevette con cordialità e simpatia. Mi venne sottoposto un questionario molto ampio, che compilai e, successivamente, fui sottoposto a un intenso e insolito colloquio. Mi disse che stavano selezionando “formatori di uomini”, per dirigere le loro aziende nel mondo e le nuove filiali che stavano sorgendo. La holding comprendeva già 279 aziende operanti in molti settori merceologici. Mi prospettò i piani di crescita e sviluppo del “Gruppo”, nonché le possibilità di avanzamento per merito verso i vertici internazionali delle loro aziende. Sosteneva che l’espansione era legata alla crescita dei propri dirigenti.

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Quasi tutto ciò che diceva era condivisibile, perché enunciava principi che avevo già fatto miei da molti anni. Che la crescita di un’azienda sia legata a chi la dirige e non ai soldi, anche questo era scontato. Che l’accettazione a livelli semidirigenziali, avvenisse al superamento dei loro corsi formativi, mi sembrò innovativo ma efficace. I corsi erano a pagamento, cosa che trovavo giusta. Avevo sempre pagato ogni corso o stage, svoltosi sia in Italia che all’estero, con aggravi notevoli di spese di viaggio e permanenza. Considerai che ogni cosa che chiedi alla vita ha un prezzo e quando non paghi, paghi il doppio più tardi. Accettai di fare questo corso, per saperne di più e per distrarmi. Ne avevo veramente bisogno. Era mercoledì, il corso sarebbe iniziato il venerdì mattina. Firmai la mia partecipazione, pagai e tornai a Biella. Da imprenditore a studente, la cosa mi divertiva molto. Tornai per cena, Giovanni aveva già messo a letto la nonna e preparato per due. Franca aveva già dato disposizioni perché tornasse la mattinasuccessiva. La tavola era preparata con gran cura, più del solito. Le candele rosse davano un tono caldo a quella serata che si prospettava enigmatica. Ovviamente, sapeva già tutto o quasi. L’unico ad adempiere al silenziofu il suo miglior amico il Sig. Noseda. Franca girava per casa e serviva a tavola, con grazia e dolcezza infinita. Era la quiete prima della tempesta. Arrivati al dolce, si fece coraggio e con un panegirico di parole, inusuale per lei, chiese: «Caro Aldo, sta accadendo qualcosa che non so?» «La cosa che non sai è che mi recherò per tre giorni a Milano, per un corso di marketing, le altre le sai già tutte. Ho venduto tutte le mie attività!». «Come?», rispose lei, «Erano le tue mete, i tuoi sogni, ciò che agognavi di raggiungere». «Sì», risposi io, «lo erano, le ho raggiunte e ora, ho nuovi sogni e nuove mete! Fantastico, non ti pare?» «Ma quali intenzioni hai?» «Ti potrò rispondere con esattezza, lunedì prossimo, quandotorno». «Ma torni da me?» «Certo, perché non dovrei?» Mi chiese l’indirizzo di dove sarei andato a frequentare il corso e glielo diedi. Il mio più grande segreto è sempre stato non avere segreti! Si vive meglio. Sentivo la sua smania di porre mille domande e tra una moina e l’altra, qualcosa chiese, ma rimbalzava sul muro di gomma che avevo eretto. Il giorno successivo uscimmo insieme, lei per andare in ufficio, io per risolvere pratiche bancarie e dare la dovuta assistenza al Sig. Bergometti, il quale aveva già piazzato sia la moglie che quattro delle sei figlie in ditta. Pranzai a casa dove mi aspettava la solita scena di gelosia. Franca mi chiese se potevamo passare il pomeriggio insieme, io risposi di sì e andammo a fare una bella passeggiata al lago di Viverone. Quando eravamo insieme, esplodevano tutta la sua grazia e il suo amore. Il pomeriggio fu fantastico e la sera pure. La mattina successiva, partii di buon’ora per arrivare con largo margine d’anticipo al corso. Alloggiavo nello stesso albergo ove si sarebbe tenuto il corso. Essendo in anticipo, ebbi tutto il tempo per fare mezz’ora di meditazione e predispormi ad apprendere. Il corso iniziò con una rigida presentazione degli istruttori, seguì una determinata esposizione degli scopi e fu preannunciata una durissima selezione finale. «Bene», pensai, «fanno le cose sul serio». La mattinata passò nella presentazione della holding e delle società aggregate. Settori d’interesse, proiezioni di possibili sviluppi e moltissimi altri dati entusiasmanti. Il principio di crescita avveniva solo dall’interno, selezionando i migliori

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leader che operavano con loro. La selezione avveniva per meriti conseguiti e non peraltri parametri, quali titoli di studio, onorifici o raccomandazioni. Mi sembrò giusto. Dopo un’ora dedicata al pranzo il pomeriggio proseguì con lapresentazione di due Presidenti e delle loro aziende, dedite alla formazione e selezione di futuri dirigenti a livello mondiale. Erano entrambi italo-americani e mi piacquero molto. Anche la filosofia che emergeva dai relatori, applicata alle attività produttive, era entusiasmante. Poi entrammo nel vivo del corso, con una pausa di un’ora per la cena, per poi proseguire fino alle ore 23. La cena era servita, per chi voleva, anche all’interno dell’hotel stesso. Due passi fuori dalla sala del corso vidi Franca. «Che fai?», le chiesi. Lei mi buttò lebraccia al collo, mi baciò e mi disse che era venuta per cenare con me. Poi mi chiese con chi dormivo. «Da solo cara, con chi dovrei se non con te». «Allora posso fermarmi per la notte?» «Certo!» Non era venuta per cenare con me... Trasudava di cattivi pensieri e non era il momento né il luogo per discuterne. Fece la stessa cosa anche per le due serate successive. Il corso terminò alle 2,45 del lunedì mattina e tornammo a casa. Avevo fissato un appuntamento, per decidere la mia adesione ai loro programmi, per martedì pomeriggio, alle 16,00. Franca ricominciò il calvario infinito delle sue inquisizioni: «Dove vai? Con chi vai? Quando?», ecc. ecc. senza fine, per concludere, come stava già facendo da mesi con frasi tragiche, quali: «Se ti vedessi o scoprissi che vai con un’altra mi ammazzo»,«Se mi lasci mi ammazzo». Non aveva alcun motivo per nutrire tali sentimenti di gelosia. Non capivo l’origine. Chiesi informazioni agli amici psicologi e psichiatri. Ben conoscendo il mio rigoroso stile di vita, anche loro non riuscivano a capire. La conclusione fu, oltre alle mille supposizioni, quella di pazientare. Riflettei molto sul da farsi, ma le mie riserve di ossigeno stavano ultimandosi. Nel pomeriggio, mentre lei era andata in ufficio, mi chiamò una nobildonna, sua amica, chiedendomi se e quando fossi stato libero per un colloquio personale. Le risposi:« Subito». Dopo 15 minuti, percorrevo il lungo viale che separava il cancello d’entrata dalla maestosa villa. Questa nobildonna aveva anche due figlie giovanissime e bellissime. Trovai la signora ad attendermi in uno dei tanti saloni, ordinò un tè per lei e un liquore per me. Iniziò a parlarmi della sua vita, del suo futuro, delle figlie e finimmo in considerazioni esoteriche. Uscimmo per fare due passi e continuare la conversazione all’aria aperta. Le ragazze stavano giocando a tennis sul retro della villa, le salutammo e continuammo la nostra conversazione. Lei mi prese sottobraccio e ci allontanammo, a piccoli passi, in uno dei viali infiniti che circondavano la proprietà. La passeggiata durò circa 45 minuti. Rientrando, fummo sorpresi di trovare Franca davanti alla porta. La cameriera riferì che la signora Franca era entrata in casa e aveva rovistato in tutte le camere da letto. La padrona di casa non fece tempo a pronunciar parola, quando fu investita da uno: «Sporca puttana, mi stai portando via il mio uomo! Anzi, state portandomelo via, perché anche le tue figlie, puttane come te, lo hanno già fatto». La discussione degenerò a tal punto, come mai avrei potuto nemmeno immaginare. Salii sulla mia “aquila” e lasciai la villa. Per un’ora ho creduto d’aver vissuto un’allucinazione, purtroppo, era tutto vero. Passai in ditta da Bergometti, aveva bisogno di un consiglio e capitai al momento giusto. Poi passai da mamma e le raccontai ciò che era accaduto. Lei disse:« È incredibile... la mia Franca». Si portò le mani al viso e singhiozzò dal dolore.

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Tornai a casa per l’ora di cena, Franca era ridiventata “miciona”. Il giorno dopo sarei andato a Milano, per decidere il mio futuro. La mattina successiva, mi recai in una località montana a mezz’ora da Biella. Trova il posto giusto, estrassi il mio block notes con gli appunti del corso e li rilessi. Qual era la filosofia sulla quale essi basavano le loro teorie?

la meta il desiderio la fede l’autosuggestione la conoscenza l’immaginazione la decisione la programmazione organizzata la trasmutazione energetica il subconscio il potere della mente il sesto senso la perseveranza le paure da superare

sia durante il corso che nell’analisi che stavo svolgendo, punto per punto, trovavo solo condivisione, anzi, avevo edificato la mia crescita personale e il mio presente, basandomi proprio su questi concetti. Poi invocai il conforto della mia guida, chiedendo al nonno se stavo andando nella giusta direzione. Arrivò il nonno e la risposta fu:« Sì!». Non ebbi più dubbi, il mio futuro sarebbe cambiato. Tornai prima dell’ora di pranzo, e lei pure. Pranzammo serenamente e mi preparai per recarmi a Milano per decidere del mio futuro. Lei, sorprendendomi, mi supplicò di non andare. Eravamo benestanti e non avevo alcun motivo di avventurarmi in cose nuove, secondo la sua opinione avrei potuto occuparmi di altro intorno a casa e avere una vita felice. Arrivò persino a dire che, con il suo lavoro guadagnava per entrambi, quindi mi chiese di rinunciare. Le ricordai che non avevo condiviso la vita con lei per interessi, avevo firmato cambiali quando necessario e che vivevo per obiettivi e nobili scopi. Si rese conto della gaffe e mi chiese scusa. Dovevo partire e partii. Arrivai puntuale all’appuntamento delle 16,00. Il mio interlocutore mi prospettò nuovamente le varie opportunità che contemplavano un periodo di vendite, poi una serie di corsi da superare e, a risultati ottenuti, avrei potuto far parte di una delle società che si occupavano della crescita personale dei collaboratori ai vari livelli di responsabilità. Era soprattutto quest’ultimo aspetto che mi attirava maggiormente, poter crescere ed essere d’aiuto per altri. Che fosse questa la “la mia missione”? Tutte le coordinate dicevano di sì! Il primo grandissimo obiettivo era quello di superare tutte le mete intermedie, per essere inserito, dopo aver superato i necessari corsi e master, nella società S.D.I. (Sales Dynamic Institute). Una meta successiva era rappresentata dalla possibilità di poter essere prescelto per meriti per un incarico di maggior impegno e prestigio, cioè entrare a far parte della L.D.I. (Leadership Dynamic Istitute), dopo aver, anche in

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questo caso, superato corsi e master, che abitualmente si svolgevano negli U.S.A. Questa seconda società si occupava della selezione, formazione e crescita dei dirigenti che avrebbero dovuto accedere alla società S.D.I nel mondo. Accettai, prevedendo non solo di arrivare alla S.D.I. ma di poter accedere alla società L.D.I. in tempi che mi furono prospettati come possibili, di 5-7 anni. Solo una persona al mondo aveva compiuto nella holding, quel percorso, in tempi più brevi, ovvero tre anni. Adempiuto a tutte le formalità del caso e preso possesso della documentazione per operare da libero professionista con base di riferimento a Milano, potevo iniziare. Tornai lentamente verso casa, con la mia Mercedes 450 SEL e riflettevo su come presentare la cosa a Franca. Non avrei più, per lei, rappresentato un punto fermo e la carriera mi avrebbe portato a viaggiare molto e non solo in Italia. Cosa fare? Prima di arrivare a Biella, passai da mamma per informarla. Dopo averle semplicemente riassunto quali prospettive stavo intraprendendo, lei mi rispose: «Caro Aldo, devi fare ciò che senti giusto, segui la tua strada, hai già dimostrato e realizzato ciò che altri avevano ritenuto impossibile». Le avevo prospettato una diversa dimora e garantito un supporto finanziario, ma lei preferì rimanere dove stava, e disse che sarebbe andata a lavorare a ore da Bergometti, un po’ per essere occupata e un po’ per stare con altri. Terminò dicendo:« Come vedi, quando non c’è “Lui” regna la serenità. Il sapere che tutti voi state bene è più di quanto io abbia bisogno. Fai la tua strada e sii felice almeno tu». «Grazie mamma». Mi rincorse per le scale e mi chiese:«E Franca?» «Ora vedrò...» Tornato a casa, era quasi pronto per la cena. Sentii Franca tesa, al limite di una tensione esplosiva. Carina, graziosa e innamorata come sempre, durante la cena mi chiese delle mie decisioni e cercai di comunicarle le motivazioni del mio cambiamento. La vidi irrigidirsi, tentò di dissuadermi, manifestò tutta la sua gelosia, e poi mi chiese:«Cosa sarà di me? Cosa sarà la mia vita senza di te? Perché continuare a vivere e per chi?» Se il suo amore era illimitato, anch’io provavo per lei sentimenti profondi, non avevo nessuna intenzione di lasciarla e le proposi come soluzione di venire con me «Non ci mancherà più nulla per il resto della nostra vita, e tra qualche anno potremmo anche adottare un bambino». Si mise a piangere e fumò un pacchetto di sigarette, fu quella sera che da non fumatore, divenni fumatore anch’io. Ci scolammo un’altra bottiglia di champagne. Dopo una lunga pausa di riflessioni, iniziò il suo ultimo assalto di domande: « Dove andremo?» « Avremo una casa fissa?» «In quale città vivremo?» «Quale sarà il nostro futuro?» E cento altre. «Cara Franca, non cercare certezze in case o città o stipendi, ma guarda dentro di te, lì è nascosta la certezza, nei tuoi sentimenti, nei tuoi desideri, nel tuo cuore, nelle tue volontà. Il più grande segreto dell’uomo sta sepolto dentro di lui! Così pure conoscenza, coscienza, consapevolezza e luce. Ma quest’uomo, istruito e tecnologico, ha voglia di conoscere se stesso? È disposto a fare ciò che è necessario?» Mentre le parlavo, gli insegnamenti profondi del nonno, emergevano. Lui diceva: «Sogna e sogna in grande! Tutto viene concesso a colui che chiede!» «Io ho deciso di continuare la mia vita sognando, e desidererei farlo in tua compagnia. Questo mi ha indotto a vendere le mie certezze, perché ne ho altre da perseguire. Ora tocca a te fare le tue scelte» Non rispose, ma fece una domanda:«Quando parti?»

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«Domani mattina», risposi. Seguì una notte d’amore indimenticabile, fu l’ultima. Evidentemente fece le sue scelte, salutandomi tra lacrime e accorati inviti a rimanere, terminò commettendo il suo ultimo errore che fu quello di dire:«Se esci da quella porta oggi, non rientrerai mai più!». Uscii e non rientrai fisicamente mai più. Venni a sapere tramite, la mamma, che stette molto male, per mesi, per anni, precipitata in una spaventosa crisi depressiva dalla quale non è mai uscita, nonostante le terapie e le cure di comuni amici medici. La causa era sepolta nella sua anima e solo lei avrebbe potuto estirparla. Sono trascorsi quasi 40 anni, le voglio bene oggi come allora. Affetti, gratitudine e ricordi sono cose che non si cancellano mai! Salii sulla mia macchina, accesi una sigaretta e partii lentamente verso quello che doveva essere il mio destino. Sapevo che faceva almeno tre visite settimanali alla mamma, durante le quali voleva sapere tutto di me, e la mamma l’aggiornava. A volte la domenica andavano a fare passeggiate insieme, e l’argomento di conversazione ero sempre io. Ha continuato a vivere sola e solo per il suo lavoro, centellinando in dosi omeopatiche i ricordi dei sei anni più belli della sua vita. Casa, lavoro, ricordi e niente più! Trovai alloggio temporaneo presso un residence, nelle immediate vicinanze della sede milanese della società. Al termine del mio primo mese, avevo raggiunto il miglior traguardo della sezione Lombardia, raddoppiai i miei risultati nel mese successivo e li triplicai il mese dopo. Andare a Roma ogni fine mese per ritirare attestati di merito e coppe stava diventando una piacevole abitudine. Venni convocato dalla S.D.I. per i relativi corsi e master che superai brillantemente. Al quarto mese dal mio inizio, venni inserito per meriti conseguiti nella società S.D.I., sezione Liguria, ove mi trasferii con mio fratello Marco. Due mesi dopo venni proposto per la massima carica di Team Capitan per Roma e il Lazio. La proposta fu accettata e ci trasferimmo a Roma. Roma e il Lazio erano città e regione, tra le più ostiche in quegli anni. Fu un successo grandioso. Premi, riconoscimenti, convention in Italia e negli Stati Uniti, ove ero presentato come un caso, un esempio. I guadagni furono relativi ai risultati, quindi altissimi. Fui convocato dal Presidente mondiale della L.D.I. International e dal Presidente della Holding, e mi vennero fatte proposte strepitose, che accettai. Entrai a far parte dei dodici uomini che nel mondo dirigevano “il mostro”. La soddisfazione maggiore, fu quando mi venne consegnato il simbolo che ci distingueva, un’aquila d’oro massiccio, di notevoli dimensioni, tempestata da dodici diamanti purissimi. Avevo stabilito un nuovo record internazionale: dalla base al vertice in nove mesi! Sei mesi dopo, mi venne proposta la vicepresidenza del Benelux. La chiave di tanto successo fu semplice per me: applicavo i miei principi, che straordinariamente coincidevano con i principi della società. Lavoravo mediamente almeno 18 ore al giorno, e non era certo uno sforzo, ma un immenso piacere. Tenevo corsi per la S.D.I. di dinamiche mentali, di motivazione e marketing, di psicologia transazionale, di leadership, e altri, sia in Italia che in altri paesi. Ero a livello mondiale additato, come l’“ESEMPIO”, la cosa mi inorgogliva e mi faceva piacere il pensiero che altri cercassero, tramite l’esempio e le testimonianze tangibili, di migliorare la propria vita.

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Forse, quando il nonno disse:« Hai una missione da compiere» si riferiva anche a questo. Marco collaborava nelle vendite con risultati discreti, forse brillava di luce riflessa e questo, ovviamente, gli creava a volte problemi. Poi si sposò con una ragazza romana che gli diede subito un figlio, ma dalla quale si separò dopo pochi mesi e ritornò a casa ad Agrate. La mamma si era trasferita in un appartamento di mia proprietà nel centro di Biella e Franca le faceva abitualmente visita. Leggevano insieme alcuni articoli di giornali che parlavano di me e visionavano lettere e foto che mi raffiguravano durante l’assegnazione di premi o riconoscimenti. Di “Lui”, fortunatamente non ebbi nessuna notizia e scarse quelle che provenivano da parenti distratti, che spesso contenevano un telegrafico:«Bruno bene». Per ragioni di lavoro o studio mi recavo spesso in California o in Florida, e da ogni viaggio ritornavo carico di nuove straordinarie esperienze, frutto di eccezionali master mind.

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Un evento che modificò la mia vita

Era la sera del 31-12-1971, stavo lavorando nel mio principesco studio romano, gli uffici erano vuoti, quando la mia segretaria personale bussò e timidamente disse: «Sig. Aldo, è mezzanotte ed è Capodanno». Stupito, controllai l’orologio che segnava già le 0,15. «Che fai ancora qui?» le chiesi. «Lei sa che io resto finché lei resta, se avesse bisogno di me?» A volte avevo fatto le 5 del mattino lei era rimasta al suo posto, sempre pronta. Un’abitudine premiata. Le dissi di chiudere tutto, le feci i miei migliori auguri e scendemmo le scale insieme. Ad attenderla pazientemente c’era il suo ragazzo. Io presi la mia fuoriserie, una stupenda Lamborghini Islero gialla e mi recai in Trastevere, in un noto ristorante ove abitualmente cenavo tra la mezzanotte e le tre del mattino. La mia assidua frequentazione aveva indotto i titolari del ristorante a riservarmi permanentemente un tavolo. Lo chiamavano il tavolo del “Comandante”! Arrivai al ristorante alle 0,40, quando i titolari mi videro, strabuzzarono gli occhi dalla sorpresa. «Dottò, non ci aveva avvisato che, sarebbe venuto stasera».«Dovevo?» chiesi. «Sì, cioè no!». Tra un balbettio e l’altro entrai nella saletta abituale con loro dietro e vidi che il mio tavolo era occupato da sei persone. «Ah!» dissi. I titolari erano dispiaciuti e imbarazzati, uno tentava disperatamente d’individuare un posto libero, l’altro di spiegare agli occupanti che quello era un tavolo riservato, che non avrebbero dovuto far occupare. Il ristorante era talmente esclusivo che, per trovare posto, a volte bisognava prenotare almeno con tre mesi di anticipo Tolsi tutti dall’imbarazzo, dicendo: «Fantastico, per una sera mi siederò nel passaggio». Gli occupanti, avendo ricevuto le spiegazioni dal titolare, essendo quasi alla fine del pasto non obiettarono, anzi, qualcuno di loro disse: «Scusi, ma noi non sapevamo». I sei partecipanti a una tranquilla cena di Capodanno, erano: padre, madre, una “graziosa fanciulla”, la nonna e gli zii. L’invasione di personalità e loquacità, non romanesca ma lombarda, la riverenza dei titolari e del personale di servizio che mi prestavano attenzioni insolite, insospettì e forse sorprese quella tranquilla famigliola. La mia attenzione era particolarmente indirizzata alla ragazza. Una strana sensazione epidermica mi diceva che poteva essere la donna della mia vita. Terminammo il pasto, cercando di stemperare l’impatto della mia diversità con conversazioni vaghe. Conclusi la cena con una battuta e l’invito a rivederci per il 6 gennaio. L’invito fu accettato. La graziosa fanciulla, odorava di libri universitari, non partecipava alla conversazione e a malapena pronunciò il suo nome, Luisa. Terminarono la cena e poco dopo l’una lasciarono il ristorante. Salutandola, ebbi modo di vederla nella sua interezza. Era molto affascinante! Ci rivedemmo il giorno stabilito, il 6 gennaio 1972, alle ore 13,00 per il pranzo. Ovviamente, Luisa venne accompagnata dai genitori. Più che genitori, mi diedero l’impressione di essere le sue guardie del corpo. Ma certamente erano invisibili, al mio sguardo attento e rivolto solo a lei. Fortunatamente, potemmo scambiarci qualche parola e meglio comprendere carattere, personalità e aspettative reciproche. La sua famiglia era composta: dal padre ex militare, poi impiegato statale, la madre casalinga e la nonna materna. Luisa era una studentessa, iscritta alla facoltà di lettere e filosofia. Era evidente che le nostre abissali visioni e considerazioni di vita erano agli antipodi rispetto ai suoi genitori. Una distanza siderale e incolmabile. Ma non erano loro l’oggetto delle mie attenzioni.

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Il pranzo fu gradevole, nonostante la presenza delle guardie del corpo, che irrigidivano ogni tentativo di libera conversazione. Fortunatamente, riuscimmo a scambiarci i reciproci indirizzi e numeri telefonici. Il pranzo fece crescere a dismisura la sensazione che fosse la donna della mia vita. Ci sentimmo telefonicamente e scoprii che la mia segretaria personale era sua amica e assistente di cattedra del Prof. Dott. Paratore, docente della facoltà che Luisa frequentava. Fu così che la mia segretaria iniziò a fissare i nostri incontri, nei tempi possibili, spesso in ufficio. Alcuni di brevissima durata, dieci minuti o quindici al massimo. Il mio sospetto, divenne certezza. Un giorno riuscii a concedermi due ore e le raccontai tutto di me, chiedendole se aveva il coraggio di correre la “grande avventura” al mio fianco. Per tutto, si intende pregi e difetti, anzi, calcai la mano sui difetti. Mi baciò, e quella fu la sua risposta positiva alla mia richiesta. Avevo vissuto sei anni con una donna che parlava poco, e mi stavo unendo con un’altra che parlava ancora meno, ma io compensavo. Poi andammo in una pasticceria in P.zza Cavour e ci mangiammo una barra di torrone alla frutta. Passò così gennaio. A febbraio, venni a sapere che dovevo andare negli U.S.A. per ritirare altri premi e riconoscimenti conquistati nel trimestre precedente e che mi sarebbero stati consegnati nel corso di una convention mondiale. Inoltre, dovevo partecipare quale docente a un corso speciale di dinamica mentale. Informai telefonicamente, Luisa e convenimmo dopo un incontro durato 20 minuti di sposarci e quindi di informare i suoi genitori. Lei ci mise circa 15 giorni per strappare l’appuntamento con i suoi, presso una famosa pasticceria sotto casa loro. Si stava avvicinando la fine di febbraio, e anche la data della mia partenza. Finalmente mi venne comunicata la data della loro disponibilità. Essendo i miei uffici vicino sia a casa loro che al luogo dell’appuntamento, uscii poco prima dell’orario previsto. Mi presentai alle 15,30. Avendo a disposizione 30 minuti, non mi persi in grandi e inutili discorsi, ma dopo le cordialità di rito, dissi loro:«Io e Luisa abbiamo deciso di sposarci, gradiremmo il vostro consenso». La mamma, che si dava arie di baronessa di tutte le Russie, non rispose e il padre, che non di meno voleva sembrava un generale prussiano, dopo una lunga pausa enunciò la sua risposta, che fu: «La mia unica figlia, a un uomo senza fissa dimora, mai!». «Fantastico» replicai (ero già preparato anche per risposte peggiori), quindi ordinai champagne. Il cameriere, che ben mi conosceva, portò rapidamente una bottiglia della mia marca preferita. Per quanto rapido fosse stato, ci servì dopo 5 minuti, che trascorsero in un mutismo generale. Intravedendo il cameriere giungere verso di noi, il padre di Luisa riprese fiato e continuò aggiungendo: «Se poi, decidete di sposarvi ugualmente, siate almeno felici come lo siamo stati io e mia moglie fino a ora». Loro si presero per mano e si emozionarono, il cameriere stappò con botto e servì, io e Luisa ci baciammo; eravamo felici, molto felici. La baronessa e il generale tornarono per pochi istanti dei comuni cittadini. Il cameriere stava riempendo i bicchieri per la seconda volta, quando ci venne chiesto tra quanti anni ci saremmo sposati. Io risposi: «Vede Sig. Danilo, tra qualche giorno devo partire per l’America, ritornerò per il 25 di marzo, sua figlia ha tutto il tempo per adempiere alle procedure necessarie e quindi ci sposeremo». Rimasero paralizzati. Qualcuno timidamente disse:«Ma marzo è come se fosse domani». «Non proprio» risposi, «ma quasi. Avendo preso la decisione non vedo perché aspettare».

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Sono consapevole che per loro sarà stato come andare dalla terra in un’altra galassia e ritorno. Ci sposammo dopo un fidanzamento durato tre mesi, la mattina del 31 marzo, alle 11,10. Parteciparono all’evento mia madre con Cristina e qualche decina di loro parenti, visti quel giorno e mai più. Come testimoni di Luisa scelsi due miei carissimi assistenti, l’Avv. Marzano e l’Arch. Meneghelli. La sposa era di una bellezza sconvolgente. Alle dieci i miei testimoni iniziarono a telefonarmi per sapere se fossi pronto e fra quanto tempo sarei arrivato. Ero in ufficio e dall’ufficio alla Cattedrale avevo cronometrato 9 minuti. Alle 10,50 con largo margine di sicurezza uscii dall’ufficio e mi recai in chiesa. Fuori non c’era nessuno, poi guardai l’orologio ed erano le 11,10, entrai, c’erano tutti. Fantastico. La cerimonia fu un po’ particolare, perché sostituii la tradizionale musica da organo, con dodici chitarristi messicani, posizionati dall’ingresso all’altare, che per tutta la funzione suonarono un sottofondo musicale a noi gradito, tratto dal film “Il Padrino”, un inno all’amore. Il buffet si tenne presso un prestigioso hotel romano. Alle ore 13,00 eravamo all’hotel Hilton, dove dovevo tenere un intervento in un corso di dinamica mentale. L’intervento fu breve, ma la platea fu distratta dalla straordinaria immagine della mia sposa in fondo alla sala. Alle 17 conclusi e partimmo per il viaggio di nozze. Fu tutto straordinariamente bello. L’unico neo fu che durante la prima notte di nozze, mi rubarono la fuoriserie per effettuare una rapina a Torino. Fui informato, la mattina successiva, del furto dai carabinieri locali, ma anche del suo ritrovamento, poiché l’auto era stata riportata e mal parcheggiata, proprio vicino alla caserma dei carabinieri stessi. «Fantastico!», gridai. Loro non capirono e io non mi dilungai in troppe spiegazioni. Feci immediatamente riparare il necessario e continuammo felicemente le nostre vacanze. Due giorni dopo, ricevetti una telefonata dal mio ufficio che mi costrinse al rientro. Fu un viaggio di nozze che durò tre giorni, ma bellissimo. Mamma e Cristina erano tornate a Biella, noi nella nostra casa, Luisa alla sua università per teminare i suoi studi e io ai miei impegni. La vita scorreva serena e felice. Progressivamente Luisa si interessava degli aspetti didattici e motivazionali dei miei corsi anzi, spesso partecipava costruttivamente. Prendeva appunti sui comportamenti e le evoluzioni subite durante il corso da alcuni studenti per poi, nei tempi possibili, analizzare gli aspetti delle metamorfosi di alcuni di loro. Luisa, con il suo carattere riservato ma disponibile, aveva facilmente attirato le simpatie di tutti i miei collaboratori. I miei studi sulla prevenzione a tutela della salute non furono mai stati interrotti, così pure la produzione e la vendita di alcuni prodotti. Il caso volle che gli amici medici biellesi mi misero in contatto con altri di Milano e poi di Roma. Il nostro “gruppo” crebbe. La crescita divenne esponenziale con la necessità della presenza di docenti, sia medici che psicologi, nello svolgimento dei miei corsi. Ho potuto approfondire sempre più tutti gli aspetti che la mia guida mi aveva trasmesso. Di ogni disciplina creai un gruppo, e i gruppi collaboravano alla interconnessione delle varie esperienze per il loro ricongiungimento alchemico. L’uno sta nel tutto, come il tutto sta in uno. Cresceva lo spirito di coscienza e conoscenza. Questa crescita era parallela a quella di tutte le nostre attività e dei nostri rapporti verso gli altri. Fu un periodo bellissimo, di crescita e di felicità.

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A volte accompagnavo Luisa all’università, ma lei mi sconsigliava di giungere davanti alla facoltà con la mia macchina presagendo chissà quale tipo di aggressione. Non è mai capitato nulla. Poi venne il giorno della sua laurea. Andai ad assistere la discussione della tesi che terminò con un 110 e bacio accademico. Festeggiammo anche con i suoi genitori. Arrivò una notizia inaspettata. La mamma era tornata ad Agrate. Quale fosse la vera motivazione non l’ho mai saputo! Tra le infinite versioni, una alla quale diedi credito, fu quella che dopo essere venuto a conoscenza della mia partenza da Biella, “Lui” aveva ripreso le sue gite e le sue pressioni per il ricongiungimento utilizzando, come precedentemente sempre fatto, i figli come merce di scambio. Alla fine la mamma aveva ceduto, lasciando la tranquillità conquistata per ritornare in quel che era ormai risaputo essere l’inferno. Marco, mio fratello, scelse di raggiungermi e si dedicava a collaborazioni nell’ambito delle mie attività, con scarsi risultati. Ritornò anche lui a casa ad Agrate. Tra sofferenze e solite discussioni, eressero il primo piano. Rarissime erano le occasioni d’incontro. Accadde un lutto che modificò il percorso prestabilito. Morì il presidente fondatore della holding. Fu la perdita di un grande uomo di cui noi tutti sentimmo la mancanza. Io e i pochi altri, che eravamo stati ripetutamente suoi ospiti nel suo ranch a San Josè, in California, ci recammo alle sue esequie. Nelle settimane che seguirono ci fu una vera lotta tra i vari Presidenti per accaparrarsi il potere. Io vendetti le mie azioni che in quegli anni avevo acquistato con enormi benefici. Percepii, purtroppo, che la mancanza di una salda guida avrebbe messo a repentaglio la stabilità del gruppo. Così fu. Molte delle società del gruppo sopravvissero ma persero la filosofia di base che mi aveva conquistato alla quale avevo dedicato anni della mia vita. Dallo sgretolamento uscii con dispiacere. Vivevamo allora in una fantastica villa alla periferia di Roma, in zona residenziale. Presso “Villa Luisa”, avevo costituito la mia nuova base operativa. Continuai a occuparmi di prodotti per la casa e la salute, consulenze aziendali e corsi. Molte altre erano le sollecitazioni e le richieste. Mi occupai di perle e pietre preziose, divenni socio del pellicciaio più famoso d’Italia, girai il mondo in lungo e in largo e vissi esperienze difficilmente narrabili. Creai in Grecia una società di confezioni, ma ricercavo altro. Poi partii per l’India. Il lavoro un giorno mi portò a Calcutta, dove vissi un’avventura che segnò la mia vita spirituale. All’uscita dall’aeroporto presi un taxi, uno dei tanti 1.400 Fiat con volante disassato verso sinistra. Chiesi di essere portato in un albergo del centro. Mentre lasciavamo l’aeroporto mi si presentò davanti agli occhi la sterminata baraccopoli che dista poche centinaia di metri. Vedere la miseria per TV è una cosa, dal vivo è un’altra. Mi resi conto di come la prostituzione infantile serpeggiasse, di baracca in baracca. I clienti erano europei e riconobbi alcuni che erano stati sul mio stesso volo. Che squallore, che ingiustizia! Mentre le madri “vendevano” le proprie figlie, i padri vendevano “spinelli” agli angoli delle vie. Quando chiesi all’autista spiegazioni, lui rispose scotendo la testa e disse:« Lo fanno per sopravvivere Sahib!».

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Un incontro irripetibile Viaggiavamo da oltre mezz’ora e mi sembrava che, anziché dirigerci verso il centro, stessimo andando in periferia. Poi arrivammo in un nucleoabitato, composto da villette di recente costruzione, tutte bianche, massimo a un piano e tutte con graziosi giardini molto ben curati. Improvvisamente si fermò, scese e mi aprì la porta, scesi anch’io. Prese dal portapacchi la mia valigia, la depositò con cura e poi sorridendo mi disse: «Sahib, io arrivato, lei anche!». Così dicendo mi indicò il cancello di fronte, congiunse le mani, si inchinò e pronunciò parole che non conoscevo e sparì all’interno di una casa. Diciamo, che rimasi... senza parole. La macchina aperta, le chiavi nel cruscotto, la mia valigia al suolo. Mentre istintivamente stavo per prenderla, vidi la porta che mi aveva indicato aprirsi e apparire un signore altissimo, tutto vestito di bianco con una lunga barba. A colpirmi ancor di più fu il suo immenso turbante bianco. Incrociò le lunghe braccia, si inchinò e pronunciò parole che stentai a credere: «Caro Aldo, bentornato a casa tua, tu sei il benvenuto figlio mio! Ti stavamo aspettando». Le braccia, da incrociate, si protesero in quello che sarebbe diventato un indimenticabile abbraccio. L’abbracciai ed entrai. Ero a Calcutta, in casa di una persona sconosciuta che mi stava aspettando e mi aveva chiamato “figlio mio”. Non è semplice da spiegare a chi non ha fede, facilissimo da capire per altri... Sentivo un senso di beatitudine pervadermi il corpo, una serenità inconsueta. Ebbi la sensazione di trovarmi davanti al nonno, ritornato in vesti diverse. Rimasi con lui 30 giorni e imparai molto. Quando venne l’ora del pranzo ci accomodammo in un salone con un grande tavolo, i posti a sedere erano 12 ma solo due erano apparecchiati. Lui mi disse che tutti i miei fratelli erano Comandanti in Marina e attualmente in navigazione, ma sarebbero rientrati tutti per festeggiare il mio ritorno entro 24 ore e così avvenne. La sera del secondo giorno eravamo 9 seduti a quel tavolo. Durante l’attesa lui mi parlò di me, dalla prenascita a quel momento. Io non avrei ricordato tutti i particolari con la sua chiarezza e trasparenza. Pur avendo io un’ottima memoria, lui era imbattibile. Nel pomeriggio mi visitò, lasciai fare cercando di capire. Era entrato nel mio corpo e curiosava, vide tutto quello che era accaduto, perfettamente. Poi mi parlò del mio futuro e in seguito è effettivamente accaduto e sta accadendo ciò che lui aveva previsto. Poi mi parlò di mia madre, di ciò che fu e ciò che sarebbe stato. Mi disse che avrei perso un altro fratello in un incidente stradale. Mi parlò di tante cose, mi insegnò tante cose, mi aprì strade nuove, mi disse che sarei tornato in Italia, anche se il suo desiderio era che io rimanessi. Meditazione, rilassamento, dinamiche mentali, preghiera, radiestesia, la sua visione del reiki, la guarigione spirituale, le cause delle malattie, l’elevazione spirituale, il controllo delle emozioni, dei pensieri e tante, tante altre cose avrebbero riempito i 30 giorni che rimasi con lui. Aveva ragione, dopo trenta giorni, ero pronto a tornare in Italia. Come previsto, entro le 24 ore arrivarono uno a uno, tutti i suoi figli. Seguirono tre giorni di festeggiamenti. Poi uno a uno ripartirono per raggiungere le rispettive navi.

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I 27 giorni rimasti, li trascorremmo a volte in casa, a volte in un Satra (monastero per la vita e la preghiera comunitaria dei seguaci di Vishnù). Poi un giorno mi portò da Madre Teresa. Mi presentò come suo figlio, rimanemmo a parlare con lei qualche ora seguendola nei suoi continui spostamenti di sala in sala. Eravamo “nella casa del bambino abbandonato”. Lei parlava con noi e svolgeva contemporaneamente le sue attività. Non si può descrivere il suo carisma senza averla toccata o sentita. La definirei “un alone di luce sfolgorante in continuo movimento”, energia d’amore purissima. L’emozione raddoppiava perché era fisicamente la fotocopia di mia madre, in tutto. Pertanto, chiamarla “madre” aveva almeno per me un duplice significato. Poi quando ci salutò, mi invitò a tornare da lei dopo tre giorni. «Torna, ti voglio conoscere meglio», mi disse e mi benedì. Stavo maturando l’idea di rimanere lì per sempre. Continuai il mio percorso di apprendimento scoprendo le giuste chiavi per accedere a conoscenze e a spazi che mi erano ancora inaccessibili. Cambiò la mia vita! Tre giorni dopo, tornammo da Madre Teresa. «Mi hanno molto parlato di te, caro Aldo» mi disse. «So anche che dopo aver scoperto questo tipo di realtà, forse vorresti rimanere, ma non farlo, sarebbe un errore. Vedi, tu hai una missione da compiere, ma non è qui. Devi ritornare, portando con te il bagaglio che ti è stato donato, e ne farai buon uso nel tuo paese, iniziando dalle persone care a te vicine». «Madre, qual è la mia missione?» «Il tuo cuore già sa, ascoltalo... aiuterai malati a raggiungere la guarigione, ti occuperai di prevenzione, tramite medici straordinari e aiuterai tanta gente a migliorarsi tramite l’esempio e la divulgazione. Questo è molto di più di quanto tu non possa fare qui. Torna alla tua famiglia, sii in pace con te stesso e con gli altri e prega. Dio ascolta sempre le richieste dei suoi figli e le esaudisce a modo suo. Vai e sii felice, sei un ragazzo straordinario». Mi benedì e io la baciai. La lasciai camminando a ritroso, volevo fissare nella mia memoria e nel mio cuore per l’eternità quell’immagine santa. L’ultima sua immagine, il suo sorriso. Tornando verso casa il mio padre spirituale mi diede un biglietto sul quale c’era scritto un nome con indirizzo e numero telefonico, e disse: «Questa è la persona che ti fornirà ciò che in India cercavi. Sii prudente». Io e il mio padre spirituale impegnavamo tutte le ore umanamente possibili in scoperte, spiegazioni, insegnamenti e preghiera. Non esagero dicendo che quei trenta giorni furono per me la più grande università di vita e filosofia spirituale. Se l’arrivo era stato scioccante, lasciare quella casa non fu traumatico, perché sapevo che da quel giorno avrei avuto due GUIDE costantemente al mio fianco. Mi imbarcai sul volo Calcutta-New Delhi dall’aeroporto in centro. Chiamai Mr. Rashid, l’uomo indicato sul biglietto che mi aveva dato il mio padre spirituale, e lui mi disse: «Vieni da me, ti stavo aspettando». Lo incontrai e in due ore conclusi ciò per cui pensavo servisse un mese. Rimasi due giorni suo ospite in attesa di un volo per il ritorno. A Fiumicino riabbracciai la mia splendida Luisa. Non fu semplice riassumerle il vissuto. La nostra vita riprese a scorrere felicemente, come prima anzi, meglio di prima. Le attività commerciali progredivano, i corsi che saltuariamente tenevo avevano un numero crescente di iscritti. Forse crescevamo troppo rapidamente e probabilmente per questo motivo nacquero invidie e gelosie.

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Le cattive notizie Erano le ore 23,00 del 24 dicembre 1974, quando apprestandoci nella nostra “Villa Luisa” alla cena di Natale, fummo raggiunti da una telefonata checi annunciava che i nostri negozi e depositi, siti nel centro di Roma, erano stati svuotati da ignoti. Salito a bordo di una delle potenti macchine parcheggiate nel nostro giardino, raggiunsi in pochi minuti i nostri magazzini. Erano realmente vuoti. In essi era conservato in merce e in denaro il 99% dei nostri averi. Era mezzanotte. Espletate le denunce di rito tornai a casa, cenai e andammo a riposare. Il giorno dopo a mezzogiorno vennero i genitori di Luisa a pranzo, capirono che doveva essere accaduto qualcosa. Chiesero e fu loro parzialmente risposto. Ma che fare? Il committente dei furti si fece vivo il giorno successivo, proponendo il suo “baratto”, così lo chiamò. Consisteva nella restituzione del doppio del maltolto a una condizione: lavorare per “loro”, per il resto della mia vita. Non esitai un secondo a dare la mia risposta, che fu un categorico “NO”. Per nulla al mondo avrei barattato la mia vita per attività che di legale e lecito non avevano proprio nulla a che fare. Ribadii il mio categorico “NO”. Accettammo un invito a pranzo a casa di nostri amici per il giorno successivo. Lei era una nobildonna di nome Silvana e dirigente di successo, proprietaria di un’isola nel Mediterraneo, lui ingegnere nel settore ricerche del CNEL di Roma, precedentemente eravamo stati anche colleghi di lavoro. Stavamo raccontando le “calde” disavventure, quando Silvana venne raggiunta da una telefonata particolarmente gradita. Era un alto dirigente dell’S.D.I. trasferitosi in Spagna anni prima, dove aveva creato una società simile a quella nella quale, con compiti e responsabilità diversi, avevamo collaborato. Evidentemente durante la telefonata lui chiese a Silvana informazioni riguardo a me, perché lei rispose: «È qui a casa mia, te lo passo». «Ciao, Alex, come va?» dissi io, e lui scherzosamente rispose: «Cercandoti per mari e monti». Andando dritto al punto mi chiese cosa stessi facendo e io risposi:«Nulla, sono da ieri disoccupato». Alex continuò dicendo: «Caro Aldo, avrei bisogno del tuo aiuto». Lo invitai a richiamarmi dopo 15 minuti e chiusi. Chiamai Fiumicino e presi nota dei voli Fiumicino-Madrid per il giorno successivo di prima mattina. Quando richiamò gli chiesi quando desiderava che io andassi, lui rispose al più presto, e io gli dissi che sarei stato a Madrid l’indomani alle 10,30. Fu molto contento. Trascorremmo una bella giornata con i nostri amici nonostante ciò che era accaduto. Erano trascorse sole 36 ore dall’aver perduto tutto quello che avevo realizzato nella mia vita fino a quel momento. Ottimisticamente pensai che forse era una prova. Se era una prova, bene, avevo già deciso che avrei ricostituito il maltolto entro i successivi mille giorni. Ero certo che ce l’avrei fatta di nuovo. Forse la telefonata di Alex non giungeva a caso e che noi fossimo a casa di Silvana proprio in quel momento forse non era una coincidenza. Il giorno dopo alle 10,30 atterravo all’aeroporto di Madrid. Vidi immediatamente Alex tra la folla, mi abbracciò, baciò, si congratulò della mia disponibilità e, saliti sulla sua lussuosissima Mercedes, andammo verso il centro di Madrid, in Paseo della Castellana 19, dove si trovava la sede della sua società. Entrammo, e tra la riverenza di tutti i presenti mi condusse nel suo ufficio personale, ampio e lussuoso. Mi raccontò brevemente la nascita e la repentina crescita delle sue attività in Spagna, poi arrivò il suo socio, Ennio, altro carissimo compagno di avventure passate.

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Alex era greco, super-esperto finanziario internazionale, Ennio era romano, figlio di una ricchissima famiglia di costruttori, sposato con la figlia di quello che fu uno dei mostri sacri del nostro cinema e teatro nazionale. Avevano entrambi lasciato la Holding molto prima della disgrazia che colpì tutti noi. Il loro problema era che non avevano saputo formare i leader che fossero in grado di dirigere le molte filiali aperte sul territorio. Pur essendo stati dei membri della S.D.I. non avevano applicato ciò che sapevano essere indispensabile. Il loro terrore era che la loro grande società gli rovinasse addosso. Credevano che io potessi ripristinare il mal fatto e mi fecero delle proposte finanziarie molto vantaggiose. Chiesi dettagliate informazioni commerciali su tutti i loro interessi aziendali e sullo stato dell’organigramma attuale. Chiamarono il loro commercialista e che ci disse che sarebbe stato tutto pronto entro due ore. Era l’occasione giusta per andare a pranzo. Tornammo due ore dopo. Il pranzo era servito a raccogliere molte altre informazioni utili. Al nostro rientro sette cartelle racchiudevano i dati richiesti. Ogni cartella recava su di essa la scritta “strettamente confidenziale”. Ovviamente chiesi di poter consultare la documentazione in uno studio tranquillo e subito Ennio mi mise a disposizione il suo. Munito di una caraffa di caffè e tre pacchetti di sigarette, mi rintanai nell’ufficio, ampio, comodo e lussuoso. Ne uscii 5 ore dopo con le idee quasi chiare. Mi mancavano due dati essenziali non riportati in quelle carte. Posi i quesiti ad Alex e ottenni immediatamente le risposte. Dopo aver ponderato per il tempo necessario e riunito entrambi i soci, feci le mie proposte:

accettavo l’incarico da subito, riconoscendo la situazione d’urgenza; chiedevo un alloggio adeguato a Puerta de Jerro (zona residenziale di massimo

prestigio); una compartecipazione pari al 33%, senza esborso finanziario; uno stipendio pari al doppio del proposto; carta bianca per operare.

Io in cambio: mi sarei trasferito in Spagna; mi impegnavo al risanamento delle parti direttive; mi impegnavo a raddoppiare il fatturato in un anno; mi impegnavo a creare 5 nuove grandi filiali sul territorio; avrei creato e diretto una S.D.I. all’interno della società.

Alle 22,10 ero in volo per Roma con il contratto accettato e sottoscritto. A mezzanotte ero a casa e riassumevo a Luisa l’accaduto. La mattina successiva, mentre Luisa preparava i bagagli per il nostro trasferimento, io sistemai banche e soci, resi la villa al proprietario, svendetti le macchine a eccezione di due con le quali il giorno successivo intraprendemmo il viaggio verso Madrid. Salutati i genitori di Luisa e di buon’ora ci mettemmo in viaggio con le nostre automobili. Luisa non aveva mai affrontato un così lungo percorso. Viaggiavamo a velocità moderatamente costante facendo piccole soste. Il giorno successivo eravamo a Madrid. Alex aveva affittato per noi una bellissima casa a Puerta de Jerro, dove abitava anche lui. Sistemammo la casa, la sera cenammo da lui e la mattina successiva presi possesso del mio nuovo ufficio mentre un nuovo sogno stava per prendere vita. Cambiarono molte cose a partire dalla prima riunione che indissi tra coloro con i quali avrei avuto a che fare, ripromettendomi di raggiungerli successivamente nelle loro sedi.

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La mia presentazione a questi signori fu fatta da Alex e da Ennio. Fui presentato come nuovo socio e da quel giorno Responsabile Generale della loro attività all’interno della società e della loro crescita personale. Il mio curriculum, da loro esposto, fu lodato come esempio di quanto sia possibile ottenere quando “la mente è favorevolmente predisposta”. La maggior parte dei direttori era di origine italiana, provenienti dalle attività italiane della Holding alla quale tutti noi avevamo partecipato. Quindi tutti sapevano di me e del mio carattere “rigidamente elastico”. Feci il mio duro intervento, brandendo simbolicamente un ramo d’ulivo nella mano sinistra e una spada nella destra. Capirono tutti immediatamente che qualcosa sarebbe cambiato e, per cementare il cambiamento, feci prendere nota delle nuove regole e cosa richiedevo loro da subito. Parlai loro dei miei piani per il cambiamento: nuove mete, impegno, desiderio bruciante, decisione, perseveranza, fede e fiducia totale, che avrebbero dovuto sviluppare in loro e nella società quale “virus” contaminante da trasmettere alla rete di collaboratori. Ovviamente grandi compensi per i loro nuovi risultati. Parlai loro dei sogni, dell’importanza di avere un sogno da raggiungere. Promisi loro che io li avrei rapidamente riportati a “vivere i loro grandi sogni” per i quali nessun prezzo è mai troppo alto. Essere un UOMO di successo, altro non è che avere il coraggio di eleggere nella mente un grande sogno e poi lottare per conquistarlo. Quella sala si era trasformata in una cassa acustica ove le vibrazioni positive per un attimo fecero tremare i muri. Scoppiò un applauso di consenso, mani protese per congratularsi, altre per presentarsi, altri gridavano: «SÌ! SÌ! SÌ! Finalmente». Poi venne l’abbraccio sia di Alex che di Ennio. Dopo una pausa per il pranzo rientrammo tutti eccitatissimi Trovarono dei formulari da riempire accuratamente. Iniziai a intervistarli a uno a uno. Era notte quando terminai di parlare con l’ultimo. Modificai molte cose e tempo tre mesi erano irriconoscibili. Erano una squadra di uomini finalmente sicuri di sé, decisi e determinati, con grandi obiettivi da raggiungere. Molti li avrebbero superati, altri raggiunti.

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La mente umana e i suoi poteri Eliminando i condizionamenti familiari e sociali, accumulati a volte involontariamente la mente può, se ben motivata, produrre “l’incredibile”, restituendo nuovo ossigeno alle facoltà umane, ottenendo il meglio che ognuno aveva desiderato ottenere, ma che altri avevano fatto assopire. Qualcuno disse: «Il successo non è frutto di una combustione spontanea, ma dobbiamo essere noi ad accendere il sacro fuoco che abbiamo dentro». Sei mesi dopo, raddoppiavamo l’obiettivo previsto, al dodicesimo mese eravamo vicinissimi a triplicarlo. Devo ammettere che l’impegno applicato oltre alle soddisfazioni morali, aveva contribuito a ricreare una gran parte del mal perso in Roma. Eravamo tutti contenti. L’anno successivo creammo due nuove società che diedero frutti e soddisfazioni notevoli. Furono necessari 18 mesi, da quel funesto 24 dicembre 1974, per ricomporre con profitto tutte le perdite subite. Contemporaneamente i prodotti per la casa, costruiti a Biella e commercializzati in Italia tramite persona di mia fiducia, stavano andando benissimo, così pure la ditta di confezioni greca, coordinata da Nicolao Calogerus. Dopo quel tour de force mi presi un giorno di libero. Ero con Luisa a Bilbao. Quel giorno facemmo un giro per la Galizia e ci recammo su di un’altura da dove si godeva uno spettacolo di una bellezza indescrivibile. Attrezzati per un pranzo al sacco, ci fermammo in una casa agricola apparentemente disabitata in cima a questa collina. Davanti alla casa, un grande tavolo con panche, all’ombra di una quercia. Era una bellissima giornata di giugno. Luisa apparecchiò e pranzammo godendoci un panorama mozzafiato. Nella vallata scorazzavano centinaia di mucche allo stato libero, alberi in fiore e un verde lussureggiante ovunque, davanti l’oceano. Per le strane connessioni che la mente umana riesce a compiere, come una folgore tornai nel passato, attraverso l’India, e mi ritrovai in Brasile. Scosse elettriche pervasero la mia mente: vedevo i delfini, i pappagalli, i cavalli, vidi il nonno e l’uomo dal grande turbante bianco. Rimasi sbalordito. Risentii le parole di Madre Teresa e rimasi immobile per ore. Avevo ricostruito capitali perduti, avevo salvato ditte dal fallimento, avevo aiutato uomini e intere famiglie a ritrovare se stessi, avevo fatto del bene a tanta gente, ma in quel momento sentii di aver trascurato qualcosa, ma cosa? Forse avevo accantonato la continua ricerca di una spiritualità interiore? Forse mi ero interessato più alle cose materiali? Forse per risvegliare i sogni degli altri avevo permesso al mio di assopirsi? Guardai Luisa che stava prendendo il sole e le chiesi: «Luisa, qual è il nostro sogno?». Lei candidamente rispose: «Avere dei figli e vivere serenamente». Si avvicinò, mi abbracciò e disse: «Guarda quanto è bello questo posto, ci sono i monti, c’è il mare, c’è il sole e ci siamo noi. C’è tutto!». Aveva ragione. Tornammo il giorno successivo a Madrid e sentivo ancora quella mancanza dentro di me. Iniziai a prestare ancor più attenzione all’interno e all’esterno degli sviluppi aziendali e notai che, nell’animo e nelle intenzioni di Alex, albergavano furberie commerciali. Tipica malattia di coloro che dopo essere scampati da un pericolo mortale si sentono improvvisamente invincibili. Chiesi informazioni e le notizie che mi giunsero furono insoddisfacenti.

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Approfondii e fu peggio. Questo mi indusse, nell’arco di pochi mesi, a richiedere la mia fuoriuscita dalle società. L’ego e la presunzione di Alex, mi ricordavano una storia già vissuta; erano così grandi che dimenticando il passato mi chiese volgarmente: «Quanto vuoi la per tua parte?». Io gli risposi che l’esperto finanziario era lui e quindi avrebbe dovuto farmi un’offerta vantaggiosa, altrimenti avrei comprato io la sua. Dopo sette ore arrivò la sua risposta, era molto più di quanto io non avessi avuto il coraggio di chiedere. Accettai e la mattina successiva rimisi la mia proprietà nelle sue mani in cambio di ciò che si era impegnato a versarmi. Dispiaciuto, almeno apparentemente, fu Ennio, il quale tentò di ricomporre il diverbio con ogni sua forza, inutilmente. Venni a sapere che sei mesi dopo anche lui abbandonò la società e che dopo altri sei mesi il “gioiello” costruito naufragò. Alex si trasferì in Canada a dirigere un piccolo hotel dopo aver dilapidato una immensa fortuna. Ennio riaprì un’attività similare, prima in Portogallo e poi in Brasile. Fu la fine di una grande storia. Perché gli uomini spesso si fanno ottenebrare dal danaro? Non capisco... Io e Luisa decidemmo di concederci una vacanza nel sud della Spagna con uno dei dirigenti con i quali avevo avuto un buon rapporto. Valenziano lui, basca la moglie, una coppia con qualche problema di convivenza che avrebbero potuto facilmente risolvere se avessero voluto. La terapia necessaria era un po’ più di altruismo da parte di lui e un pizzico di tolleranza da parte di lei. Avevano tre meravigliosi bambini. I parenti di Fernando abitavano a 70 chilometri a sud di Valencia. Il posto era incantevole, vicinissimo al mare in un’area quasi totalmente dedita all’agricoltura e alla produzione di ceramiche. La zona ci piacque molto e un’occasione ci portò ad acquistare una grande casa con molto terreno coltivato a mandarini di qualità “clementina”. La casa era talmente grande che decidemmo di condividerla. Da principio l’idea era quella di occuparci delle colture, ma capimmo presto che sarebbe stato più vantaggioso utilizzare del personale esperto, come poi facemmo. Molte visite in locali laboratori di ceramiche, fecero scaturire gli entusiasmi di Fernando, pittore, e di Luisa, da sempre appassionata di arte. Decidemmo di iniziare, senza velleità alcuna, a costruirci all’interno della proprietà un laboratorio adeguato e dei forni per le cotture. Ci avvalemmo, per la realizzazione di tale progetto, di quello che allora era conosciuto come il più grande esperto ceramista di Spagna, il signor Manolo. Dopo pochi mesi l’attività, che voleva essere più un diversivo artigianale che altro, prese vita. E Luisa che era in stato interessante, diede al mondo il nostro primo bellissimo figlio, Danilo Manuel. Il parto avvenne in una struttura privata di Alcira, la clinica di un nostro carissimo amico, il Dott. Hervas. L’evento non fu facilissimo e a renderlo particolare fu la battuta del medico che vedendomi disse:«Finalmente Aldo, scusami con Luisa ma essendo tre giorni e tre notti che non riposo ora vado a dormire tanto tu sai cosa fare». Con queste parole scomparve dietro le porte della sua abitazione privata locata all’interno della clinica. Il parto andò benissimo e il piccolo grande Danilo Manuel emise il suo primo vagito. 36 ore dopo tornavamo a casa nostra felici e contenti. Personalmente consiglio a tutti i padri di assistere al parto dei propri figli, credo che sia un collante fantastico per la vita futura, sia sul piano psicologico che fisico. In quell’angolo di paradiso, dove era sempre estate o primavera, vivevamo sereni e felici. Vivevamo negli entusiasmi delle nostre prime creazioni e vendevamo alcuni nostri prodotti a negozi per turisti, grazie alla loro ottima fattura e al loro decoro accurato. La passione per la ceramica, con l’arrivo di Manolo, contagiò tutti.

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Passammo all’approfondimento storico e artistico e la voce si diffuse. Nacque un nuovo sogno, quello di riprodurre fedelmente ceramiche antiche, utilizzando gli stessi sistemi e metodi dei secoli X, XI, XII, XIII, materiali inclusi. Fu un successo! Molte personalità del settore si interessarono a noi per conto del governo spagnolo, l’allora ministro dei Beni Culturali Don Martin Prof. Almagro, e successivamente il figlio, sovrintendente di tutti i musei di Spagna e della catena statale di negozi denominati “Arte Spagna”. Poi ci commissionarono la riproduzione di specifiche opere d’arte. Fu un periodo di splendore. Casa nostra e i nostri laboratori diventarono un punto di riferimento per molte persone, dagli studenti ai turisti, antiquari, commercianti, ricercatori ed esperti. Non fu possibile, data la lontananza, mantenere contatti strettissimi con la mamma e i miei fratelli. Sapevo tramite lettere che la situazione con “Lui” non migliorava, anzi, saltuariamente peggiorava per via delle incomprensioni con Marco, Bruno e Cristina. Mamma, che è sempre stata tenace e positiva, concludeva le sue lettere con un “ terrò duro per i miei figli, almeno tu fai la tua strada, almeno tu”. Le attività e le produzioni di prodotti per la casa continuavano con richieste crescenti e le confezioni in Grecia anche. A turbare il “paradiso terrestre” nel quale vivevamo due fattoriprogressivamente crescenti. Primo il carattere emotivo di Luisa aveva lentamente fatto crescere un sentimento di “nostalgia” per la sua Roma e per i suoi genitori, i quali spesso venivano da noi e trascorrevano lunghi periodi a casa nostra, ma alla loro partenza il problema ritornava evidente. Secondo, un cambiamento radicale d’atteggiamento del socio Fernando. Dopo aver raggiunto il benessere finanziario e un’inattesa notorietà, iniziò a rendersi meno responsabile e a impegnarsi per crearci notevoli problemi. La moglie, basca, faceva pressioni per richiamarlo alle sue responsabilità, ma i tentativi di Arabella spesso terminavano con l’acutizzarsi del problema. Noi premevamo per quanto possibile, senza esiti positivi, eccetto sporadici e limitati cambiamenti. La situazione stava precipitando e aggravava, oltre che il lavoro, anche la conseguente convivenza. Come al solito, affrontai i problemi a modo mio. Arrivò presto il giorno in cui gli proposi un’alternativa: o mi cedeva la sua parte o mi proponevo di vendergli la mia. Essendo nella sua terra, attorniato da genitori e altri fratelli, fu breve la riunione tra loro che li portò a scegliere di tenersi per loro quel “paradiso”, liquidandomi. Accettai immediatamente ottenendo tre grandi vantaggi. Mi ero liberato di un socio scomodo, avrei riportato la mia bella Luisa in Italia e io potevo ricominciare a inseguire nuovi sogni! Fantastico! Il successo altro non è che “la progressiva realizzazione di un valido ideale”! Caricammo il caricabile sulle nostre due macchine, Danilo in un cestino di vimini e tornammo, uno dietro l’altro, come avevamo fatto all’andata qualche anno prima. Fu il primo lungo viaggio di Danilo, da Villanova de Castellon a Milano. Ci fermammo da mia mamma ad Agrate. Il rivederci inaspettatamente creò gioia infinita, e anche “Lui” si dimostrò come mai prima apparentemente docile e accogliente. Ci stupimmo di tanto “scodinzolare” per Luisa e per il suo nipotino Danilo. Quando partimmo dalla Spagna non avevamo progetti se non quello di tornare. Vista l’accoglienza inaspettata e l’invito a rimanere in quella casa, che nel frattempo era stata ultimata anche nella parte superiore, decidemmo di fermarci qualche giorno e riflettere. I miei meravigliosi fratelli erano cresciuti ed erano entusiasti della nostra permanenza e del piccolo Danilo che diventò presto il giocattolo di tutti. Incontrai alcuni zii con piacere e, in particolare, lo zio “Carletto” e Wainer e mio cugino Vittorio. I primi che andammo a trovare furono nonno Vittorio e nonna Teresa.

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A differenza di tutti gli altri, nonno Vittorio, che mi era stato maestro di vita tramite gli esempi e l’osservazione della natura, non fece domande, se non: «Come stai?». Ma guardandomi meglio, concluse:« Bene da quello che vedo!». «Sei felice?» « Sì nonno!» «Bravo, bravo, questo è uno dei segreti della vita». Erano trascorsi più di 20 anni da quando in mezzo a un campo gli avevo chiesto suggerimenti per il mio futuro. Il nonno mi aveva risposto: «Studia e impara sempre. Svolgi sempre un lavoro che ti piaccia molto, solo così darai il meglio di te. Ciò che tu fai, ti sia necessario per vivere decorosamente e onestamente. Ama l’universo intero perché tu ne fai parte. Sii generoso verso la vita ed essa lo sarà con te». Considerati e ascoltati anche i desideri di mia madre, decidemmo di fermarci ad Agrate. Tra i milioni di cose possibili da fare, creammo un laboratorio di decorazioni per ceramiche e porcellane in un locale sito al piano terra, l’ideale per svolgere io e Luisa l’attività. Significava continuare in parte ciò che facevamo in Spagna. Attrezzai in pochi giorni il laboratorio e Luisa riprese a divertirsi, mentre Danilo iniziava a distruggere il suo primo box. Eravamo sereni e la vita in campagna, tra passeggiate con i nonni, pitture e buone compagnie, trascorreva piacevolmente. La produzione dei prodotti per la casa andava incrementandosi, mentre pochi mesi dopo venni a conoscenza di alcuni problemi sorti con le attività di confezione che avevo in Grecia. Partii per comprendere meglio cosa veramente stesse accadendo. Giunto a casa del mio socio lo trovai moralmente distrutto. Mi abbracciò affettuosamente e singhiozzando iniziò a chiedermi scusa, scusa e scusa ancora, altro non diceva. Suo fratello mi prese il braccio e andammo in laboratorio, ove tutti lavoravano con impegno e solerzia, come sempre. Le montagne di prodotti in lavorazione non evidenziavano alcun problema, ma il caso era di altra natura. Mi spiegò che la moglie di Nicolao, della quale lui era innamoratissimo, era fuggita negli Stati Uniti con un giovane ragazzo americano, portandosi via anche i due bambini che avevano. L’innamoramento e la loro mancanza improvvisa, aveva creato sofferenze insopportabili: crisi depressive, stati confusionali, il rifiuto di alimentarsi, di uscire di casa, e da pochi giorni nutriva l’idea di abbandonare tutto quello che aveva creato o di vendere per andare negli Stati Uniti a cercarli. «Signor Aldo, senza Niko, noi non siamo più in grado di proseguire il lavoro svolto finora, dovremmo riconvertire l’attività in produzioni locali poco redditizie. Cosa sarà di tutti noi e di tutte le famiglie dei nostri dipendenti? Lei è l’unica persona che Niko ascolta e da lei accetta consigli. Gli parli par favore, lo convinca che la sua vita, il suo lavoro e tutti i suoi familiari sono qui e che anche la sua casa è qui. Potrebbe rifarsi una nuova vita, ha tutte le qualità e capacità, lo convinca Signor Aldo». «Parlerò con Niko» risposi. Andai a casa a prenderlo e ci allontanammo dal paese per raggiungere una località montana ove aveva una casetta per le vacanze. Ascoltai il suo dolore, le sue ragioni, i suoi sentimenti... ascoltai... Seduti sui gradini di roccia di quella piccola baita di legno, avevamo davanti agli occhi una distesa di prati verdi in fiore. Il sole ci ascoltava e anche il cielo infinitamente azzurro e limpido. Fu difficile trovare una risposta. Cercai di ascoltare anche tutto quello che non mi aveva ancora detto. Cercai di guardare oltre, di sentire sotto la mia pelle tutti i suoi sentimenti. Poi mi manifestò la decisione di partire, asserendo che se anche avesse girato l’intera America, per tutta la vita, senza trovarla, sarebbe stata per lui una buona ragione per sopravvivere. Quelle parole mi riportarono lontano. Anche la mia guida le aveva pronunciate tra i tanti insegnamenti.

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«Se hai uno scopo, meta, obiettivo, desiderio o sogno e lotterai tutta la vita per raggiungerlo, anche senza riuscirvi, sarai un uomo felice solo per aver tentato!». Ci abbracciammo e piangemmo insieme, poi lui mi chiese: «Aldo, cosa devo fare?» «Parti» gli risposi. Il giorno successivo prese il primo volo Atene-New York e io lo accompagnai all’aeroporto. Mantenemmo una saltuaria corrispondenza. Sapevo che girava di stato in stato, sopravviveva mediante lavori occasionali e... cercava. Poi, ricevetti una notizia emozionante: ritrovò la moglie in un piccolissimo centro agricolo. Aveva avuto un bambino dalla sua relazione e poi era stata mollata al suo misero destino. L’incontro fu casuale, la intravide mentre attraversava le strisce pedonali con i suoi figli. Erano trascorsi sette anni. Si perdonarono, si rimisero insieme, ebbero altri tre figli e l’anno successivo riaprì un laboratorio di confezioni, il cui nome sull’insegna era: “Cuore Italiano”, chissà perché? Divenne ricco e famoso e vissero felici e contenti per il resto della loro vita. Come nelle fiabe. UN SOGNO TRASFORMATOSI IN PIACEVOLE REALTÀ. Il fratello, dopo la sua partenza, fu dispiaciuto che io non l’avessi convinto a restare e ancor più quando venne a sapere che lo avevo sostenuto nella decisione di partire. Mi propose di rescindere i contratti che avevano con me affermando che avrebbe venduto tutto e sarebbe andato a fare il dipendente in Germania o il navigante. Niko mi confermò che, dopo due anni, il fratello lavorava come capo reparto in una ditta in Germania. Noi siamo quello che decidiamo di diventare! Questa è un’altra legge alchemica: lancia il tuo bruciante desiderio verso l’universo ed esso si coalizza per aiutarti a realizzare i tuoi SOGNI. Tutto ciò che merita di vivere, VIVE! Chiusi le attività di confezione e commercializzazione a vantaggio delle attività della Ferrari, ditta che avevo sempre tenuta attiva nella produzione e commercializzazione di prodotti per la salute e la casa. Ritornai alle nostre ceramiche, agli studi di Feng Shui e Reiki, il cui approfondimento è illimitato. Tutto proseguiva bene. Poi ci fu un incontro che diede vita a nuovi sogni. Mi ero recato in Spagna per sistemare con Fernando alcuni documenti e pratiche rimaste aperte. Considerata la brevità del tempo necessario avevo scelto un volo aereo. Al ritorno, in sala d’attesa vidi un gruppo di arabi che attorniavano quello che “probabilmente” era un personaggio importante. Notai dalle loro carte d’imbarco che dovevano imbarcarsi sul mio stesso volo. Venne il momento dell’imbarco, tutti salirono a bordo e loro tardavano, anzi mi sembravano smarriti. Mi avvicinai e li informai sull’urgenza di salire a bordo. Mi furono grati e riconoscenti, altri pochi minuti e avrebbero tutti perso il volo. Il gruppo era composto da sei persone che ruotavano con fare servizievole intorno al settimo personaggio, probabilmente il “Capo”. Durante il volo, uno di loro mi si avvicinò e si presentò come dott. Gamhal Z., consulente finanziario del sultano Al Sharif, che mi indicò seduto in prima classe. Il sultano, giunti a Milano, desiderava ringraziarmi personalmente per la piccola cortesia ricevuta all’aeroporto di Barcellona. Felice di aver ben concluso con Fernando e in attesa di conoscere questo sultano saudita, arrivai velocemente a Fiumicino. Si riavvicinò il dott. Gamhal chiedendomi se accettavo, visto che era quasi l’ora di pranzo, di unirmi a loro per il pranzo nell’hotel nel quale si sarebbero trasferiti per la loro permanenza di una settimana a Milano. Accettai volentieri. Mi fu presentato il sultano e andammo insieme dall’aeroporto in hotel poi, subito dopo, a pranzo. Il sultano mi volle seduto accanto a lui e, necessariamente, vicino al dott. Gamhal

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che da buon egiziano parlava correttamente un buon italiano e altre lingue, a differenza del sultano, il quale parlava solo saudita. Rimanemmo a tavola sei ore durante le quali venni informato degli infiniti interessi che il sultano aveva in diversi paesi oltre a quelli in Arabia Saudita. Era la prima volta che veniva in Italia e lo scopo era quello di approvvigionarsi di prodotti per un nuovo grande negozio che stava per aprire in Jeddah. Scoprii, durante la conversazione, che il dott. Gamhal era stato uno dei sette consiglieri del Presidente Nasser e che ora viveva in Arabia Saudita svolgendo le funzioni di consigliere amministrativo del sultano. Ci scambiammo molte informazioni e il sultano mi rivolse molte domande, toccando diversi argomenti e interessi. Nacque fra noi una reciproca simpatia. Nel tardo pomeriggio mi rivolsero un quesito inaspettato. Mi chiesero se potevo accompagnarli nei loro appuntamenti d’affari e assisterli negli acquisti, assumendo in pratica il ruolo di consulente privato del Sultano per sette giorni. Tra le tante cariche e compiti svolti fino ad allora, questa proposta era insolita. La considerai un’opportunità per apprendere strategie orientali nelle trattative commerciali. Quando poi il dott. Gamhal, traducendo, mi riferì sul compenso che il sultano mi offriva, accettai. Era effettivamente un’offerta da sultano. M’impegnai a fondo, divertendomi molto, aiutando il sultano con la mia presenza consentendogli di percepire le intenzioni che avevano i venditori. Nessuno dei probabili venditori sapeva della mia nazionalità e non pronunciavo mai parola in loro presenza, ma riferivo a Gamhal, il quale traduceva al sultano. Sventammo due giganteschi tentativi di truffa ai danni del sultano e comprammo tutti i prodotti ottenendo sconti suppletivi all’ultimo prezzo precedentemente ottenuto dal sultano stesso e dal suo staff di consiglieri. Questo lo sbalordì e lo rese euforico. La settimana passò velocemente e intensamente. La sera, avevo molto da raccontare a Luisa. La mattina in cui ci salutammo, ricevetti una busta contenente cinque volte il pattuito e un biglietto di prima classe su un volo Milano-Jeddah e ritorno, aperto. Il sultano, entusiasta della nostra relazione commerciale, mi regalò all’ultimo istante un orologio d’oro massiccio, mi ringraziò e mi disse: «Caro Aldo, a presto. Mi farebbe piacere averti accanto». Dal 1976 in poi ci fu un grande fermento da parte delle aziende nel promuovere affari con i paesi arabi. Tra i tanti, la Libia, il Libano, l’Egitto, ma l’Arabia Saudita era il miraggio un po’ per tutti. Luisa rimase stupita di tanta generosità e ne fu contenta. Nei giorni successivi iniziai a pensare a quel paese e mi dissi che, avendo un biglietto aereo pre-pagato, avrei potuto andare a vedere. Mi recai all’ambasciata per la richiesta del visto. In attesa del mio turno, sentii quelli che erano in fila parlare delle infinite difficoltà per ottenerlo, ma quando presentai la lettera di richiesta lasciatami dal dott. Gamhal e firmata dal sultano Al Sharif, vidi una immediata disponibilità. Fui invitato ad accomodarmi in una sala riservata e dopo dieci minuti. L’Ambasciatore in persona venne a riconsegnarmi il passaporto completo di visto. Ero un po’ sorpreso e quando chiese la mia professione, gli risposi:«Io, risveglio i Giganti», rimase un po’ sorpreso anche lui, ma mi strinse ripetutamente la mano e mi offrì il suo biglietto da visita personale, invitandomi a interpellarlo in futuro per qualsiasi necessità. Scoprii che il sultano Al Sharif era il figlio del ministro del pellegrinaggio alla Mecca in Arabia Saudita la figura politica più importante dopo il Re. Incominciavo a capire gli “scodinzolamenti”. Sette giorni dopo ero sul volo Milano-Jeddah.

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Arrivato a Jeddah, l’impatto con la temperatura locale fu per me drammatico. Quando si aprì lo sportello dell’aereo fu come prendere una mattonata bollente in viso. Ho sempre sofferto il caldo fin dalla nascita. Arrivato lì in piena notte trovai una temperatura elevatissima, ma per fortuna trovai anche ad attendermi in fondo alla scaletta dell’aereo una limousine con il dott. Gamhal che mi aspettava a braccia aperte. Mi accompagnò in un lussuoso hotel e, dopo i convenevoli, mi disse di riposarmi e che ci saremmo rivisti alle 14 per il pranzo. Stava quasi per albeggiare quando presi sonno. Ero nella hall dell’albergo, quando alle 13,55 apparve raggiante ed entusiasta di rivedermi il dott. Gamhal. Scambiammo baci e abbracci, sembrava che non ci vedessimo da anni. Vista l’ora andammo a pranzo e mi informò che il sultano si scusava di non essere presente, ma si era recato a Riyadh per affari urgenti e sarebbe ritornato dopo due giorni, frattanto lui mi avrebbe fatto da Cicerone. Mangiammo benissimo e dietro sua insistenza assaggiai molti piatti tipici egiziani. Terminato il pranzo, salimmo su una mercedes 500 SEL e iniziammo un giro panoramico della città. Di tanto in tanto rallentava per indicarmi alcune delle proprietà del sultano e varie attività commerciali; in alcuni posti ci fermammo, entrammo e mi presentò ai vari responsabili. Tutti furono molto riverenti e affabili. Imparai subito che in ogni luogo, dopo il buongiorno, ti offrivano o tè o caffè, le uniche bevande che bevute caldissime aiutavano a combattere il caldo eccessivo dell’esterno. Andammo alla città dell’oro e mi stupii nel vedere che oltre ai negozi alcuni vendevano gioielli per strada. I cambiavalute avevano per scrivania o negozio due o più cassette di frutta rovesciate. C’erano macchine di lusso ovunque che nessuno chiudeva a chiave. I grossi cambiavalute usufruivano di bauli accanto alle cassette di frutta, alcuni dopo aver cambiato anche centinaia di milioni, li lasciavano in bellavista sul cruscotto e andavano altrove. Il dott. Gamhal lesse nei miei occhi lo stupore e prima che potessi porre la domanda, mi disse: «Caro Aldo qui non tocca niente nessuno, la pena è la decapitazione». Compresi immediatamente. Nel corso dei giorni imparai molte altre regole che erano vigenti in quel paese. Il mio accompagnatore era, oltre che colto e istruito, anche un “fanatico” della nostra bella Italia, come mi disse essere la maggioranza degli Egiziani. Mi ripeté mille volte che il suo sogno era di venire a vivere permanentemente in Italia con la sua famiglia. Vivere in Italia, un privilegio. In due giorni vidi e imparai una moltitudine di cose. Mi spiegò quali tipi di affari trattava il sultano e che la propensione era di dare priorità assoluta ai prodotti italiani molto richiesti e apprezzati e in particolar modo: oro, ceramiche, mobili, cucine, salotti, lampadari, mobili per uffici, progettazione di nuove costruzioni, decorazioni, ecc. Tutto doveva essere italiano, da non dimenticare abbigliamento e calzature. Chi si occupava di effettuare gli acquisti per conto suo, era una famiglia di fratelli libanesi che lavoravano in compartecipazione con lui. Nessuna attività poteva essere svolta da stranieri senza la compartecipazione maggioritaria di un saudita. Conoscendoli e controllando alcune fatture d’acquisto non fu difficile capire che i fratelli manipolavano i prezzi per ottenerne un maggior vantaggio. Dopo aver saputo che, per chi rubava, la pena poteva essere il taglio della testa, tenni per me le mie considerazioni. Avendo mostrato al dott. Gamhal, durante il loro soggiorno a Milano, alcuni album delle nostre realizzazioni artistiche, parlammo anche di ceramiche e di decorazioni. Il giorno successivo tornò il sultano. Trascorremmo tre giorni intensi. Gamhal faceva salti mortali per tradurre ogni domanda e ogni risposta. Fu un vero e proprio interrogatorio a 360 gradi. Ne scaturì una maggior simpatia e crebbe l’interesse del sultano nei miei confronti.

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Il dott. Gamhal mi aveva confidato che per le personalità importanti, come per i membri della famiglia reale, avere un consigliere personale italiano, era cosa ambita. Lo interpretai come “un messaggio”. La proposta arrivò il giorno successivo. «Vuoi tu, caro Aldo, diventare il mio consigliere personale?» mi domandò il sultano. Poi la proposta:

avrei dovuto sovrintendere o effettuare tutti gli acquisti di qualsiasi prodotto avrei dovuto essere disponibile a viaggiare in qualsiasi nazione creare nuovi negozi o attività commerciali a mio piacere essere al suo fianco in tutte le trattative avere pieni poteri nel disporre sia di soldi che di personale essere braccio destro del dott. Gamhal.

Mi veniva offerto:

una villa con servitù macchine a piacere due passaporti “rossi”, rilasciati solo ai membri della famiglia reale, ai ministri e

sultani ed eccezionalmente ad altre poche persone. Questo tipo di passaporto non aveva né vincoli di visto, né di controlli doganali. Il massimo della libertà.

un fisso mensile da sultano speciali bonus aggiuntivi, proporzionali ai risultati ottenuti libertà assoluta.

Considerando che i miei interessi in Italia non richiedevano la mia presenza costante, che per lo svolgimento di quanto richiestomi sarei stato spesso in Italia, considerando che non avevo vincoli di permanenza, considerando che poteva essere un trenino d’oro da cavalcare, sia per esperienze che per culture da acquisire, accettai! Nel pomeriggio il dott. Gamhal mi accompagnò a visitare, quella che sarebbe diventata la nostra dimora, una villa bellissima e una delle poche con giardino dotato di irrigazione costante. Poi mi condusse all’aeroporto per fissare il volo e, tornati in ufficio, trovai un acconto di 20.000 $ per le piccole spese, che aveva lasciato il sultano. Mi salutò abbracciandomi e dicendomi: «Torna presto, c’è bisogno di te qui!». Il giorno successivo ero a Milano e passai la mattina a raccontare a Luisa e a mamma gli accadimenti. La mamma mi chiese dov’era l’Arabia Saudita... ma dopo un attimo di dispiacere trovò il suo lato positivo e disse: «Andate e che sia buono il vostro destino». Portammo mamma a fare spese durante il pomeriggio e le lasciai anche del denaro per ogni eventuale necessità, sia personale che per i miei fratelli, i quali si commossero vedendoci ripartire per una destinazione a loro sconosciuta. Partimmo il giorno dopo. Arrivammo di notte. A riceverci fu ancora il dott. Gamhal. Mi resi conto del potere magico del passaporto “rosso”, quando lo estrassi. Trovai una macchina pronta ad accompagnarci dall’aereo all’uscita, fummo scortati da 4 militari della polizia aeroportuale, non passammo nessuna dogana, nessun controllo e ricevemmo riverenza ai massimi livelli. Per quanto fosse proibito in quel paese bere sostanze alcoliche, quando arrivammo a casa una bottiglia di champagne era pronta per darci il benvenuto. Il dott. Gamhal, nella sua infinita gentilezza, aveva anche provveduto a fare una generosa spesa di prodotti italiani. Poi ci lasciò a un lecito riposo, necessariamente climatizzato. Era inverno, non avevamo idea di cosa sarebbe stato d’estate. Dopo lo imparammo, e nonostante tutto sopravvivemmo.

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Andai in ufficio nel pomeriggio, dopo aver portato Luisa nel supermarket italiano per comprare le poche cose mancanti e in particolar modo ciò che serviva per Danilo. Lascio alla vostra immaginazione cosa poteva scatenare nella popolazione saudita il vedere una donna occidentale, bellissima tra l’altro. Si potevano contare sulle dita di una mano le donne occidentali a Jeddah. Medici, architetti e poche altre; poi Luisa detta anche “Madame Aldo”, aveva un effetto catalizzante. Quando andavo a comprare pagavo la metà o spesso non pagavo. E quando lei era in uno dei nostri negozi con me, la gente che entrava comprava il doppio, chiedendole pareri o consigli. Luisa non è mai stata una venditrice, ma a Jeddah otteneva risultati ineguagliabili. Il sultano non era uno stacanovista, appariva a volte in tarda mattinata, a volte nel tardo pomeriggio e catalizzava l’attenzione di tutti. A volte promuoveva riunioni improvvise che duravano a oltranza fino alla sua soddisfazione totale o alla risoluzione dei suoi desideri. Trascorremmo alcune settimane in varie disamine delle sue attività. La domanda ricorrente era :«Aldo, tu come faresti?» E io, nei tempi necessari, considerato il quesito, prospettavo le soluzioni. Molte cose cambiarono, alcune drasticamente con notevoli benefici da parte del sultano. Non trascorreva giorno che egli non mi presentasse a ministri o altri sultani o a altri importanti capi tribù e a grandi uomini d’affari. Divenni famoso e richiesto a cene, banchetti, riunioni d’affari che i suoi amici organizzavano nei loro uffici o nelle loro ville. Ero diventato il consigliere anche di altri. Spesso mi gratificavano generosamente, a volte molto generosamente. Dopo pochi mesi Luisa iniziò a sentire il desiderio di intraprendere un’attività. Accompagnarmi a trattative d’affari con Danilo in braccio non era certo soddisfacente, anche perché doveva sostenere delle grandi attese in saloni che, pur lussuosissimi, erano per le donne delle prigioni dorate, come le loro case private. Nacque l’idea di realizzare un laboratorio di ceramiche artistiche in Jeddah, nel quale Luisa avrebbe potuto realizzare cose come pannelli decorativi, ceramiche per la casa, bagni, ceramiche per piscine dipinte a mano e oggetti decorativi. Portai da Milano e da Beirut tutto il necessario. Dopo 30 giorni procedevamo già alla cottura delle nuove creazioni. Fu un altro grande successo e motivo di ottimi guadagni. Potevamo realizzare solo una piccola parte delle tante richieste. Ovviamente gli unici meno contenti dei miei interventi erano i fratelli libanesi che a poco a poco persero la possibilità di truffare il sultano loro socio. Divennero così “sospettati” del loro precedente operato. Tutto ciò creò un super lavoro di controlli contabili da parte del dott. Gamhal, che iniziò a scoprire quello che realmente era accaduto per anni. Io viaggiai spesso, quasi sempre solo o con il dott. Gamhal, e solo in due occasioni venne con noi anche il sultano. Egli soffriva molto dei lunghi tempi delle trattative e della necessità di una lenta e faticosa traduzione, preferiva recarsi al Cairo o a Beirut per divertirsi. Passarono mesi entusiasmanti, conobbi autorità e personalità importantissime, poi fui convocato a Corte e ottenni commissioni di opere importanti da realizzare. Luisa e io lavorammo sodo, ma ne valse la pena. Creammo nuovi punti vendita, una rete di commercializzazione di prodotti italiani e altre cose. Più gli affari andavano bene meno vedevamo il sultano. Sempre più penalizzati furono i fratelli libanesi che, graziati da eventuali drastiche decisioni del sultano, come condanne o espulsioni, stavano adottando strategie silenti che avrei compreso solo più tardi. Sapevo che non era “un sogno” che sarebbe durato tutta la vita. Vivevo per obiettivi e compensi mensili, durasse quanto poteva durare. L’ipotesi di vivere a lungo in un clima

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difficilmente sopportabile, in una società con cultura, mentalità, usi e costumi agli antipodi dei nostri non era ipotizzabile. E venne il giorno della discordia e della gelosia. Il sultano era estremamente geloso di me e quindi disapprovava che io frequentassi altre persone, quelle persone che lui stesso per pavoneggiarsi all’inizio mi aveva presentato. Altri, danneggiati da un punto di vista commerciale dalla mia presenza, come i fratelli libanesi, si coalizzarono per diffondere “una falsa informazione”, quella che io avrei concluso affari personali con altri. Il loro preciso intento era quello di tentare di ripristinare lo status quo. A mio favore erano tutti gli altri, godevo di stima e fiducia create proprio dal mio irreprensibile comportamento. Venni a sapere che il Sultano, avendo mio tramite stipulato accordi per forniture di materiali e servizi con molte ditte italiane, pensava che servendosi da Gamhal, potesse fare a meno dei miei servigi. Contemporaneamente eliminare i soci libanesi, sostituendoli con altro personale egiziano. Avrebbe così ottenuto notevoli benefici finanziari. Ne parlai con Gamhal, facemmo dei riscontri e purtroppo tutto tornava. Avendo imparato, tramite le esperienze di altri, che nessuno può vantare diritti o ragioni in terra Saudita contro un Saudita, ancor meno se il Saudita è persona titolata, trassi le mie rapide conclusioni. Preparammo in silenzio e discrezione i nostri effetti personali e, il giorno prima che il Sultano convocasse tutti per defenestrarci, prendemmo un volo per Milano. Portavamo con noi esperienze, buone conoscenze, stime e simpatie che durarono nel tempo e ottimi guadagni. Fu una straordinaria e positiva esperienza di vita. Collateralmente ai prodotti per la casa e la salute attivai una importexport, lavoravo con gusto e soddisfazione sia morale che finanziaria, quando un giorno mi capitò un’altra occasione. Eravamo io e Luisa, in Toscana, per trattative d’acquisto relative a mobili per la casa, da un industriale con il quale da anni avevo uno speciale rapporto affettivo. Tale rapporto si intensificò alla morte del suo unico figlio, mio coetaneo. Uomo di straordinario carisma e fede cristiana, copriva diverse importanti cariche amministrative a livello regionale ed era Senatore della Repubblica a vita. Riversò su me e Luisa tutto il suo affetto e amicizia, proponendomi per cariche importanti, per la carriera politica e altre prospettive interessanti, che io momentaneamente rifiutai. Eravamo io e lui a pranzo in un noto ristorante, nella zona limitrofa alla sua azienda, quando all’ennesimo assalto per convincermi a trasferirmi vicino a lui, gli risposi: «Dovrei innanzitutto trovarmi una casa!». Il titolare del ristorante, che ci serviva personalmente e che era a lui amico, sentendo la conversazione si avvicinò e mi disse: «Se cerca casa io ne posseggo una da vendere». Rifiutai aggiungendo che se mai avessi preso in considerazione l’ipotesi, avrei desiderato una grande casa, possibilmente un vecchio casale, immerso nel verde, con grandi giardini, arredata, ecc.. ecc... Il ristoratore mi lasciò dire, poi rispose: «La mia casa rispecchia tutti i suoi desideri sig. Aldo e forse le può offrire molto di più di quanto da lei sognato. Se desidera, quando avrete terminato, possiamo fare un salto a vederla, si trova a dieci minuti da noi». Il mio “padrino” acconsentì immediatamente e non avendo altri impegni per il pomeriggio se non quello di stare con lui, accettai l’idea. Luisa era in albergo a Casciana Terme, fui tentato di andare a prenderla, ma poi rinunciai, preferivo vedere di persona prima di offrirle delle false illusioni. Mezz’ora dopo lasciavamo il ristorante per visionare la casa. Percorsi pochi chilometri, una freccia direzionale indicava Frazione San Gervasio, girammo e iniziammo a percorre un sentiero ondeggiante che attraversava 5 chilometri di boschi privati. Tutt’attorno viti e

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ulivi, uno spettacolo mozzafiato, poi all’ultimo chilometro, la vista di un castello che troneggiava sulla collina, accanto una Pieve del X secolo. Il castello era diviso in due parti, la prima cintata e a più piani nella parte alta della collinetta, la seconda, separata da una stradina privata, anch’essa a più piani ma scendeva verso il crinale della collina disseminata da centinaia di piante d’ulivo fin verso un piccolo lago che si trovava al termine della proprietà. La macchina si fermò davanti a un portone massiccio, poco prima della Pieve. La costruzione era risalente al X secolo, realizzata in pietra e mattoni all’esterno, con tetto e solai interamente in legno. Aprì la pesante porta e ci trovammo in un chiostro incantevole. Poi entrammo all’interno della casa, e rimanemmo incantati davanti a tanta bellezza. La casa era distribuita, dalla torre centrale ai saloni del piano giardino, su quattro piani diversi. Il quarto piano, zona studio. La torre, quadrangolare, con enormi finestre ad arco su ogni lato, consentiva di apprezzare, oltre alla natura circostante ricca e rigogliosa, i quattro punti cardinali. Era arredata per uso studio, restaurata e utilizzata, come tutto il resto della casa, da uno tra i più famosi architetti fiorentini. Il terzo piano, zona notte. Attraverso una serie di corridoi, si accedeva alle molte camere, alcune munite di bagno, altre con bagni in comune, altre ancora di minore dimensione erano camere singole. Alcune con balconi esterni e camini in camera. Rimasi colpito da una in particolar modo, conteneva un camino di 5 metri e la superficie era di 66 metri quadrati. Venni a scoprire che nei secoli precedenti quella camera da letto era utilizzata come cucina. Il secondo, zona giorno. Un salone era riservato per il pranzo, posizionato a sud-ovest con ampie vetrate su parco e laghetto sottostante, l’altra stanza chiusa era la cucina. Di ampie dimensioni, circa 50 metri quadrati, era completamente attrezzata e pronta all’uso. La parte restante, era composta da cinque saloni, messi in comunicazione tra loro da ampie arcate. I muri perimetrali erano al 90% costituiti da vetrate arcuate, prospicenti o sul patio interno o sul giardino. Piano giardino. Si accedeva a questa parte della casa, sia da uno dei quattro ingressi, oppure da una scala interna. Era al momento attrezzato con sale e saloni adibiti al gioco e tramite una porta antichissima si accedeva alla dispensa e alle cantine, ove erano conservate almeno 5.000 bottiglie di vini pregiati. Il giardino. Vi si accedeva sia dalla casa, scendendo un’ampia scala, sia da altri tre ingressi, posti uno per lato. Curato e ricco di alberi, anche da frutto, era circondato da centinaia di piante d’ulivo. Rientrando assaporai il profumo delle ginestre e della moltitudine di piante fiorite. Era un meraviglioso dipinto della natura. In casa, apprezzai molto l’arredamento e la sua disposizione, nei saloni pezzi rari di antiquariato. Al proprietario e al mio “padrino” non sfuggì il mio positivo apprezzamento. Se avessi cercato l’insieme dei miei desideri concentrati in un unico ambiente, forse non avrei trovato di meglio. Mi venne chiesto cosa ne pensassi, e io risposi con un entusiastico: fantastico! Il proprietario aggiunse: «Sig. Aldo sono pronto a cedere questa proprietà, nello stato in cui si trova, alla cifra di...» poi si allontanò per prendere una bottiglia di Brunello.

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Nel frattempo il sig. Dino (il mio padrino), mi disse: «Aldo sappi che ha molto bisogno di soldi». Fu un’informazione molto preziosa. Per indole caratteriale mi sono sempre ritenuto un pessimo venditore e un buon compratore. Usai le mie armi migliori. Quando tornò con la bottiglia, gli chiesi il motivo della disponibilità a vendere, e lui mi spiegò che aveva l’intenzione di utilizzare la proprietà come Club privato, ma avendo altri due ristoranti e accumulato una situazione, momentaneamente debitoria, preferiva vendere. Musica per le orecchie di chi vuol comprare. Erano le 15,30, iniziammo la trattativa. Quando gli chiesi documentazione della proprietà, lui mi rispose che era tutto presso il suo notaio di Pisa, perché aveva in corso una precedente trattativa, non andata a buon fine. Al sentire il nome del notaio, il mio padrino mi fece cenno di consenso perché gli era amico. Quindi fu solo questione di soldi. Io li avevo e lui ne aveva terribilmente bisogno. Alle 18,00, eravamo a Pisa a redigere atto notarile di compravendita. Tornammo Dino e io, entusiasti a Casciana Terme. Ci recammo in albergo e salutato Luisa la invitai a fare le valige perché dovevamo partire d’urgenza. Lei richiuse le nostre borse da viaggio, mentre io pagavo il conto, poi l’abbraccio affettuoso a papà Dino che mantenne il più rigoroso silenzio. Una volta lasciato il paese, Luisa mi chiese il perché dell’urgenza, io le risposi che fra poco l’avrebbe capita da sola. Alle 21,00, entravamo nella nostra nuova meravigliosa casa. Cenammo e passammo parte della serata ad ammirare gli ambienti e a progettare come occuparli. Decidemmo che la nostra camera sarebbe stata quella grandissima con camino e la camera accanto quella di Danilo, rimasto ad Agrate con la nonna. La mattina successiva, venne di buon’ora Dino per fare colazione con noi. Riammirammo il tutto con un pizzico d’incredulità. Di giorno il fascino della casa era aumentato. Terminammo a tavolino i nostri affari e poi Dino ci informò su come e dove risolvere le esigenze primarie. Ripartimmo per Milano, con un furgone della ditta di mobili di Dino, per traslocare i nostri effetti personali e riprenderci Danilo. Ritornammo nella nostra casa il giorno successivo. Sappiamo che lasciare i propri cari crea sempre stati emotivi, ma la convivenza con “Lui” non sarebbe durata a lungo, e quindi sia pur dispiaciuti, era giusto che seguissimo il nostro destino. Ripartendo, invitammo la mamma a trasferirsi da noi, e lei con il suo solito triste sorriso, ci rispose «Può essere!». Scoprimmo in una delle tante stanze scorte di biancheria illimitate. Faceva parte del progetto di trasformare la proprietà in Club con albergo, così si spiegavano anche le notevoli risorse alimentari. Sempre più tardi venni a sapere che nella casa venivano realizzati matrimoni o party privati. Beneficiammo di cose inaspettate.

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Un altro sogno realizzato L’unico neo della nostra nuova casa era che non era provvista di telefono. Nessuno aveva richiesto in quell’angolo di paradiso linee telefoniche, lo feci io. Creai in una delle tante stanze il mio ufficio personale. Scelsi la torre. Da quel punto meraviglioso, tramite telefono e telescrivente, commercializzavo molti prodotti verso il Medio Oriente. Trovammo fantastica l’idea di ospitare i clienti sia italiani ma soprattutto esteri nella nostra casa e, passeggiando tra gli ulivi, pescando al lago, pranzando e cenando alla stessa tavola, tra fiumi di buon vino e musiche rilassanti, concludevamo i nostri affari. Quando qualche ospite aveva particolari esigenze poteva recarsi a Montecatini Terme che distava solo 15 minuti di macchina. L’ambiente favorì molto la ripresa dei miei studi esoterici, sperimentazioni, studi avanzati e buone frequentazioni con persone che condividevano molte delle mie idee. Mi accadeva di sovente di riunire a casa mia studiosi di geobiologia, radiestesia, radionica e di scienze filosofiche, provenienti da diverse città d’Italia o anche dall’estero, dato che avevo la possibilità di ospitarli. Scopo delle riunioni era quello di scambiarci e di approfondire informazioni, sperimentare e crescere. La meditazione era parte integrante delle nostre giornate. La mamma mi confidò che “Lui”, dopo la nostra partenza, aveva ripreso il suo pessimo comportamento con atteggiamenti che a volte sfioravano la violenza fisica. Le proposi di trasferirsi da noi e lei mi rispose: «Magari», ma era sua succube e intimorita dalle sue possibili ritorsioni. Le offrimmo tutta la nostra disponibilità e tutto l’aiuto possibile. Cristina frequentava le scuole medie, Bruno e Marco lavoravano in ditte vicino a casa. Arrivò un altro segnale per un nuovo sogno. Ero in fiera a Milano per incontrare alcuni fornitori. In una breve pausa per un pasto veloce, mi accomodai vicino a un signore con il quale dopo pochi minuti iniziammo a scambiarci commenti e informazioni. Gradevole e colto si presentò: «Sono il dott. Majid Abu Deil, giordano palestinese, piacere». Io feci altrettanto e la conversazione divenne spumeggiante. Dopo un’ora circa mi aveva raccontato in sintesi la sua vita e io la mia. Poi pronunciò una frase magica: «Sig. Aldo, io sono qui alla fiera del mobile perché ho un sogno!». Gli chiesi quale fosse il suo sogno. «Io amo i mobili italiani e l’Italia intera e vorrei realizzare una fabbrica italiana in Giordania». «Bene» dissi «io sono l’uomo dei sogni, parliamone». Dopo 14 ore, eravamo nella mia stanza d’albergo e avevo trovato posto anche per lui. Essendo le 2 di notte, decidemmo di riposare e di rivederci alle sette per colazione. Lasciandoci, anziché la solita stretta di mani, lui euforico mi abbracciò, mi baciò e mi augurò la buonanotte. Alle 6,55, entrando in sala colazioni, lo vidi radioso, elegantissimo e pronto per un lungo dialogo che poteva riservare sorprese. Consumata una rapida colazione, entrammo nel vivo del “suo sogno”. Lui aveva dormito poco e si era preparato una serie di appunti e calcoli. Io non avevo sviluppato calcoli, ma considerato il “SOGNO”. Una fabbrica italiana tecnologicamente all’avanguardia nel deserto. Possibile? Sì! Trascorremmo due giorni ad analizzare ipotesi, dati probabilistici, investimenti necessari, tempi di recupero delle somme investite, piani di sviluppo e crescita, possibilità di penetrazione nei paesi circostanti e molte altre considerazioni. Il dott. Majid era simpatico, aperto, solare, entusiasta e superpositivo, qualità che ben si adattavano al mio carattere. Legammo molto. Stava nascendo l’idea di creare una join venture tra noi.

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Il passo successivo era recarmi in Giordania. Lui ripartì, io terminai gli impegni che avevo in programma e rientrai a casa. Sette giorni dopo ero sul volo Roma-Amman. Arrivai alle due di notte e Majid era ad attendermi. Raggiungemmo Irbed, cittadina nella quale viveva con la sua famiglia attorniato da fratelli e parenti. Era a un’ora di macchina da Amman, e quando giungemmo era notte fonda, quindi andammo a dormire. Poche ore dopo, alle 7, eravamo in sala da pranzo quando mi presentò Adma, sua moglie, e poi uno l’altro i suoi tre figli. Dopo i convenevoli e una ricca colazione palestinese, ci recammo a casa dei suoi genitori ove viveva anche suo fratello Redwone, con tutta la sua numerosa famiglia. L’accoglienza fu entusiasmante e positiva e dopo aver gradito altro té, lasciammo la casa per un piccolo giro turistico del paese, per poi recarci in quella che loro chiamavano “zona industriale”. Per mia fortuna, grazie alle precedenti esperienze vissute in molti altri paesi arabi, non mi spaventai nel constatare tanta povertà, né mi sorpresi per il tipo di costruzioni e servizi che adottavano. Le rarissime eccezioni erano rappresentate da case di grandi mercanti, uomini politici, nobili o capi tribù. Quella che il dott. Majid definiva la zona industriale, altro non era che un’area nella quale suddivisi per vie, spesso non asfaltate, erano stati edificati piccoli spazi dai 20 ai 50 metri quadrati, all’interno dei quali venivano svolte le più disparate attività artigianali. Le costruzioni venivano realizzate mediante una struttura perimetrale armata e successivamente chiusa da blocchi di cemento, due finestre e una porta, spesso di lamiera, quale ingresso. Molte attività venivano svolte più all’esterno che all’interno. Come in moltissimi paesi arabi, le attività artigiane, come i negozi, si concentravano in zone o vie, così si vedevano le vie dei carrozzieri, uno accanto all’altro, la via dei gommisti, la via dei ceramisti, la via dei prodotti elettrici, la via dei macellai, la via dei panettieri, ecc. Arrivammo alla periferia della “zona industriale” e, percorsi circa cento metri, il dott. Majid fermò la macchina. Scendemmo tutti e tre e lui mi disse: «Caro Aldo, su questo terreno di nostra proprietà (indicandomi con l’indice l’area di fronte a noi) c’è un grande capannone di 2,500 mq. Sarà la base di partenza della nostra società. Non è ancora perfettamente ultimato, ma insieme stabiliremo le modifiche necessarie. Diventerà il primo mobilificio italiano della Giordania». Ebbi un attimo di perplessità non vedendo alcuna costruzione davanti a me, mi girai e incrociai lo sguardo sorridente del dott. Majid, il quale percependo il mio quesito mi anticipò dicendo: «Venga Mr. Aldo, entri pure e mi segua». Andammo a pochi passi dall’autovettura e lui mi fece notare che al suolo nella sabbia, c’era una pietra dipinta di rosso, poi ci spostammo di circa 100 metri e me ne fece notare un’altra, così percorremmo un quadrato di circa 100 metri di lato, ritornando esattamente al punto di partenza. «Vede sono 12.000 metri quadri, qui sorgerà la nostra azienda». Molti mi avevano tacciato di follia quando io parlavo dei “sogni”, ora mi trovavo vicino a un fratello che voleva vivere per realizzare un grande sogno, e guardandolo negli occhi vedevo già il riflesso della fabbrica realizzata. «Sì, Majid, vedo, è una fabbrica bellissima anzi la allargherei un po’ e alzerei anche il tetto di un metro per la ventilazione». «Certo Aldo, hai ragione». Tra i nostri sguardi una scarica d’energia che arrivò in una galassia lontana. Abbracciarci e sancire l’inizio dell’impresa fu la conseguenza immediata. Suo fratello non capiva il perché di tanto entusiasmo. Capì ancora meno quando Majid gli disse che noi due venivamo da un’altra costellazione, là dove gli UOMINI hanno il coraggio di vivere i propri sogni. Infine gli diede una semplice versione nella loro lingua e non capì, ma mi

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abbracciò anche lui, inchinandosi e dicendo: «Thank you, shukran, thank you very much, Mr. Aldo fratello». Era nata una nuova e fantastica relazione. In paese, vicino a casa loro, avevano un edificio nel quale con macchinari antidiluviani costruivano piccoli mobili, sedie, tavolini e altre cose a volte su ordinazione, di fattura tipicamente locale. Suo fratello si prestava anche a piccole riparazioni. In quello stabile, una stanza era adibita a ufficio e da quel giorno divenne il nostro ufficio. Ci tuffammo a capofitto per redigere a quattro mani il contratto di join venture. Dopo la sua stesura la sottoponemmo a un ufficio legale per il controllo dei contenuti che non fossero in violazione alle leggi internazionali. Avuta l’approvazione di conformità, il testo fu sottoposto al giudizio del “capo tribù degli anziani” che aveva potere su Irbed. Ottenemmo la sua approvazione e il suo appoggio. Nei mesi successivi capii quanto determinante fosse questo tipo di approvazione per le loro tradizioni. È stato come ottenere un lasciapassare per iniziare, con tutte le facilitazioni o agevolazioni necessarie per il nostro progetto. Significava “nessun ostacolo” se ciò che si faceva era ritenuto buono per noi e per gli altri. I passi successivi erano: da parte loro edificare, da parte mia fornire tutti i macchinari necessari, oltre alla tecnologia e alle materie prime, che dovevano essere esclusivamente italiani. Scopo della società era quello di produrre mobili, prevalentemente camere matrimoniali e singole, oltre a commercializzare prodotti per la casa italiani. Majid si era laureato a Bagdad in economia e commercio, ma la sua ecletticità lo rendeva polivalente, il suo atteggiamento positivo lo predisponeva facilmente all’analisi obiettiva e alla risoluzione delle problematiche. Iniziammo ad affrontare le problematiche per la realizzazione delle strutture. Lavoravamo dall’alba a notte fonda e spesso ci portavano pranzo e cena in ufficio. Eravamo divenuti UNO. Terminato il progetto dell’area da edificare compresi annessi e connessi, vedi allacci per l’acqua, la costruzione di una cabina elettrica, un pezzo di strada mancante e tutte le altre necessità primarie, ritornai in Italia per adempiere alle mie responsabilità. Luisa già sapeva, avendola tenuta informata sugli sviluppi quasi giornalmente. Conoscevo aziende specializzate in realizzazioni industriali nel settore del mobile, chiavi in mano. Alcune erano a Lissone, altre a Poggibonsi. Contattai sia le une che le altre, poi con l’appoggio e l’esperienza del mio “padrino” Dino, facemmo le scelte migliori. Seguirono settimane di analisi dei macchinari idonei e reversibili a una moltitudine di applicazioni, dai sistemi automatizzati di foratura e assemblaggio, alla catena automatica di trasporto per le varie fasi lavorative, agli impianti di aspirazione, carrelli trasportatori, una adeguata scorta di pezzi di ricambio, ecc. Non fu facile, ma riuscii. Poi fu la volta delle materie prime, dal legno, alle reti, materassi, specchiere, radio da applicare nella testiera del letto come loro abitudine, gli accessori, maniglie, pomoli, ecc. Trovai il meglio in assoluto per ogni singolo prodotto. Ogni due o tre settimane facevo un salto a Irbed per constatare lo stato di avanzamento dei lavori e per informare Majid dei miei progressi nelle scelte dei materiali e delle macchine. Eravamo tutti entusiasti di come le cose progredivano. Fatto eccezione del venerdì, giorno di riposo per i musulmani, gli altri giorni lavoravano con più turni possibili. Le braccia non mancavano. Bastava recarsi in una piazza del paese ove chi cercava lavoro era permanentemente presente. Pochi giorni dopo si era sparsa la voce che necessitavamo di personale. Fu così che iniziarono a formarsi all’alba dei gruppi di lavoratori anche davanti al cantiere. Più che un cantiere sembrava un formicaio. E tutti parlavano di noi, tanto che Majid, iniziò

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ad accettare prenotazioni per mobili che sarebbero stati prodotti in futuro. Alcuni negozianti di Amman si prenotarono per avere esclusiva di un modello o di un altro. Come potevamo non essere entusiasti? La costruzione copriva un’area di 3.000 mq. Era la ditta più grande mai costruita in quel paese. Poi vennero giornalisti e quelli che non sapevano, seppero. Avevamo simpatie e proposte d’aiuto da tanti notabili e personalità. Inaspettata fu una telefonata del compagno di università di Majid che dopo avergli rivolto infiniti complimenti, gli disse che lavorava come segretario personale del Re Hussein e che Sua Eccellenza desiderava conoscere meglio sia il nostro progetto, che noi stessi. Fummo orgogliosi di tale opportunità, e conosciuti data e ora dell’appuntamento ci preparammo a dovere. Venne presto quel giorno e Majid era molto emozionato. Per un rifugiato palestinese, essere invitato a Palazzo a casa del Re, era certamente un evento straordinario. Fummo ricevuti prima dal segretario, che ci accompagnò in uno studio grandissimo, arredato con molto buon gusto e tanti tappeti. I pochi mobili in palissandro arredavano le pareti con grazia regale. Poi entrò Sua Eccellenza, elegante, affabile, cordiale, ci pose molte domande alle quali rispondemmo con entusiasmo. Non mancò il solito tè alla menta e, verso la fine della conversazione, il Re ci offrì vantaggi e disponibilità inaspettate. Ci chiese di contattarlo tramite il suo segretario per eventuali necessità e che avremmo potuto contare sul suo appoggio personale. Lo ringraziammo per la sua disponibilità. Rimasti soli con l’amico di Majid, esultammo. Ma le sorprese non erano finite e quanto promesso dal Re ci fu consegnato dal suo segretario per iscritto. Era una sorta di autorizzazione aperta a facilitare ogni nostra attività, firmata dal Re. È vero che il cielo aiuta sempre gli audaci. Ringraziammo la divina provvidenza. Ci fermammo ad Amman per il pranzo da suoi parenti e, sulla via del ritorno, da alcuni suoi amici. A Irbed suo fratello Redwone ci attendeva impaziente. Ci riunimmo a casa sua e passammo la serata cenando e raccontando. Non avevamo più ostacoli. I lavori progredivano velocemente e, dopo 120 giorni i container con macchinari e materiali per realizzare le prime centinaia di camere, lasciavano il porto di Livorno. La fabbrica, non ancora ultimata in tutte le sue parti, era però pronta all’istallazione e immagazzinamento del tutto. Partimmo anche io e Luisa, lasciando Danilo momentaneamente dai nonni a Roma. Arrivati a Irbed, Majid aveva provveduto a renderci disponibile un appartamento locato nella stessa palazzina ove lui viveva per essere ancor più vicini. I container arrivarono al porto di Acaba. Sapendo del loro arrivo, Majid e io ci recammo il giorno prima dalle autorità portuali e, utilizzando l’autorizzazione del Re, ottenemmo lo sbarco immediato evitando tutte le formalità doganali e burocratiche. Un vantaggio che ci fece risparmiare soldi e settimane d’attesa. Vantaggi che rimasero permanenti nello sviluppo delle nostre attività. Il giorno stesso arrivarono ad Amman quattro tecnici montatori, concordati con la ditta fornitrice dei macchinari, per la loro installazione. Due di loro erano sotto contratto per una permanenza di almeno 4 mesi, per trasferire conoscenze e supporto nella fase iniziale. Impiegammo 5 giorni e 5 notti a scaricare tutti i container, con una moltitudine di maestranze occasionali. Fu un’impresa ardua. Nessuno di noi tornò nel proprio letto se non il sesto giorno. Redwone dimostrò tutta la sua tenacia e resistenza fisica nel coordinare il personale che, essendo occasionale, non aveva attitudini o esperienze. La gente del paese veniva a qualsiasi ora del giorno o della notte a curiosare e a meravigliarsi. Eravamo diventati un’attrazione.

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Nei mesi precedenti, io e Majid avevamo progettato alcuni modelli di camere che avremmo realizzato, quindi aspettavamo che i tecnici montassero e mettessero in moto il tutto. Poi venne il giorno del collaudo. I tecnici realizzarono le nostre prime 5 camere matrimoniali. Funzionò quasi tutto perfettamente e fu festa grande. Il giorno successivo, essendo venerdì, Redwone organizzò un pranzo memorabile invitando il capo tribù e altri notabili del paese. Il pranzo durò tutto il giorno, così pure le chiacchiere e i festeggiamenti. Dopo la definizione di alcuni particolari, due dei quattro tecnici fecero rientro in Italia come previsto. La produzione iniziò e il nostro tecnico interno responsabile, un ingegnere palestinese, amico d’infanzia di Majid, laureatosi a Mosca, aveva ricevuto una rapida istruzione sulla programmazione delle macchine e sugli eventuali interventi di riparazione. Avrebbe completato la sua formazione con i tecnici italiani rimasti, nei mesi successivi. Tutto andò a meraviglia, presto e bene. Lo stabile che avevano in paese fu trasformato in esposizione permanente comprendente, oltre che le camere matrimoniali e singole, anche altri mobiletti, un vasto assortimento di lampadari e altri prodotti per la casa. Dopo poche settimane io e Luisa tornammo in Italia per riprogrammare i rifornimenti necessari alla ditta, soddisfare le richieste che ci rivolgevano tramite l’approvvigionamento di altri nuovi prodotti, sistemare e provvedere tramite persone di fiducia al mantenimento sia interno che esterno della nostra casa. Risolti i problemi di approvvigionamento, ritornammo a Roma per prenderci Danilo e ripartire per la Giordania, via terra, con la piccola utilitaria di Luisa così da renderla indipendente, sia per andare in negozio che per venire in fabbrica quando voleva o quando era saltuariamente necessario. La mia autovettura era parcheggiata a Roma. Il viaggio Roma- Amman via terra con la piccola utilitaria fu un’avventura. Passavano i mesi e Majid vendeva ciò che stavamo allora producendo. Dopo tanto correre, di tanto in tanto cercavamo di ritagliarci un po’ di tempo da dedicare alla conoscenza del territorio e delle bellezze storiche della Giordania, da Giarash a Petra, alla vicinissima Damasco, Amman e altre piacevoli realtà della valle del Giordano. Majid era un appassionato della pesca e quindi a volte il venerdì mattina, munito di sciabica, andava pesca. Erano pochi i momenti di serena libertà. Abitando nella stessa palazzina Luisa e Adma si scambiavano ricette e culture. Passarono mesi impegnativi ma anche produttivi e sereni. Dopo aver trasmesso la conoscenza nell’utilizzo degli impianti e di tutti i macchinari, i tecnici italiani avevano fatto ritorno in patria. Majid e il nostro ingegnere convennero che potevamo incrementare la produzione, il problema a quel punto non era più produrre ma vendere e incassare. Per ovvie ragioni di lingua e di conoscenza del territorio, la responsabilità delle vendite era affidata a Majid, il quale a volte chiedeva la mia compagnia per contattare alcuni nuovi clienti. Io mi prestavo con enorme soddisfazione, anche perché contavo, come da patti stipulati, che il rientro delle ingenti somme investite avvenisse nel più breve tempo possibile. Ci rendemmo conto che la mia presenza agevolava le trattative e quindi uscivamo sempre più in coppia. La mia propensione quotidiana nel motivare Majid a nuovi contatti ad alti livelli ci consentì di stipulare ottimi contratti sia con istituzioni pubbliche in Giordania che con paesi limitrofi. La maggior parte di essi sono ancora oggi attivi, consentendo una produzione costantemente in crescita. Eravamo felici. Le vendite non rappresentavano più una necessità, le attività lavorative venivano svolte col massimo impegno e con ottimi risultati. Tutto ciò mi consentì di rientrare più rapidamente del previsto dei capitali investiti. Rientravamo di tanto in tanto in Italia sia per gli approvvigionamenti aziendali, sia per riossigenarci trascorrendo un breve periodo a casa nostra.

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Inevitabilmente, col trascorrere del tempo, la permanenza in Giordania iniziò a pesarci sempre più. Usi, costumi, clima, la crescita di Danilo parzialmente disorientato e la cessata necessità della mia presenza costante ci indusse a riflettere sul futuro. Anche in questo caso avevo realizzato un “grande sogno”, ottimo nel suo stato di funzionamento. Sacrificare ulteriormente la mia vita e la mia famiglia in una permanenza continuativa non valeva la pena e si stava avvicinando rapidamente la seconda fase, quella di occuparmene abitando in Italia, provvedendo a tutti i rifornimenti necessari e recandomi in Giordania saltuariamente. Comunicai la decisione presa a Majid e ai suoi fratelli i quali rimasero dispiaciuti ma sapevano, perché faceva parte degli accordi, che un giorno o l’altro saremmo ritornati in Italia. I successivi sette giorni furono investiti a pianificare il futuro, portare a termine alcuni contratti ancora sospesi e salutare le tante persone con le quali avevamo instaurato rapporti stretti di solidarietà e amicizia. Affrontammo il viaggio di ritorno via terra con la Renault 5 di Luisa. Amman–Pisa ci sembrò più lungo che all’andata, impiegammo 4 giorni, poi finalmente arrivammo a casa. Riprendemmo la nostra vita, gli affari proseguivano ottimamente e ripresi anche i miei studi, parzialmente interrotti. A giorni alterni mi sentivo con il Dott. Majid, a volte per necessità a volte per il piacere di sentirci sempre vicini.

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Vita e morte Poi si realizzò un altro sogno. Nacque la mattina del 19 agosto del 1980, un meraviglioso bambino di nome Henry Robert, presso la clinica universitaria di Pisa. Danilo aveva un fratello. Il parto fu felice e io assistei. Rimasi vicino a Luisa per due giorni e nel reparto ginecologico fu il caos. Distribuivo iniezioni di armonia ed entusiasmo, sia per via intramuscolare che venosa. I più tristi tornarono a sorridere, quelli preoccupati smisero di preoccuparsi e iniziarono a sorridere. La mattina del terzo giorno tornammo a casa nostra. Henry crebbe sano e sereno, in una stanza enorme accanto alla nostra con vista sul patio e un gigantesco roseto che arrivava sino al secondo piano. A fargli compagnia fiori, uccelli e la stupenda visione di una natura ricca e rigogliosa. Eravamo tutti felicissimi. Del resto come potevano non esserlo? Vivevamo in un mezzo castello, ci amavamo, la famiglia era stupenda, gli affari andavano benissimo e saltuariamente venivano i genitori di Luisa a trascorrere qualche mese di vacanza. Vennero un giorno a trovarci anche mia madre con Cristina e Bruno. Rimasero estasiati da tanta bellezza e serenità. Innamorarsi di San Gervasio era semplice, bastava trascorrervi un giorno. La mamma, dietro nostra sollecitazione, riconsiderò l’idea di trasferirsi definitivamente da noi. Ci lasciammo con il proposito che avrebbe considerato la cosa, ma Marco e Bruno? Erano adulti ormai e le loro vite erano radicate ad Agrate. Poi un evento funestò nuovamente la nostra famiglia. Marco venne travolto in un tragico incidente sull’autostrada mentre stava rientrando a casa dopo essere appena stato assunto, quella stessa mattina, per lavorare nella centrale nucleare di Corso. Colpevole fu un camionista che trasportava mobili, il quale ammise di non averlo visto a causa della foschia. Marco venne estratto dalle lamiere e ricoverato all’ospedale di Bergamo, la prognosi fu: “stato di coma vegetativo”. Eccellenti professori tentarono l’intentabile, ma l’esito fu drastico. Venne chiesto ai genitori di staccare la spina dopo aver constatato la morte celebrale. “Lui” disse che non avrebbe mai avuto il coraggio e mamma chiese amorevolmente che lo facessi io. Mi recai a Bergamo e feci ciò che mi era stato richiesto, aiutando mio fratello a un trapasso assistito verso la sua nuova dimora. Il giorno stesso furono eseguite le esequie e il suo corpo fisico sepolto accanto a suo fratello Roberto. Io e Luisa rientrammo con il nostro dolore nel cuore. Mamma rimase ad Agrate, segnata ulteriormente dalla perdita di un altro figlio. “Lui” recitava tutte le solite sceneggiate con i parenti, dimenticando il male e le avversioni provocate a Marco per tutta la sua breve esistenza. Nelle notti che seguirono, presi contatto con la mia guida, nonno Giovanni, il quale mi rasserenò dicendomi: «Non ti preoccupare Aldo, Marco e Roberto sono qui con me, da ora in poi mi occuperò anche di loro, ma ricordati che tu hai una missione da compiere, non fermarti, la direzione giusta è la luce». Trascorso qualche mese la situazione della mamma era ripiombata in uno stato di conflittualità tale da desiderare di raggiungerci insieme a Cristina. Esaudire i suoi desideri fu facile. Mi recai ad Agrate con un capiente furgone e, caricati i suoi effetti personali e quelli di mia sorella, ritornammo a San Gervasio per ricominciare una nuova vita. Bruno preferì rimanere ad Agrate con suo padre e, dopo pochi mesi, si sposò andando a occupare l’appartamento sito a piano terra, mentre “Lui” rimase solo al primo piano. Bruno era rimasto l’ultima cavia verso la quale scaricava saltuariamente le sue perversioni mentali, ingiurie e... Bruno a volte sopportava, a volte tentava di ribellarsi. Quando gli

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scontri erano verbalmente violenti, seguiva uno stato di quiete apparente di alcuni giorni. Poi ricominciavano gli scontri a cicli alterni per vicissitudini diverse. Tutto ciò è durato fino alla morte di mio padre avvenuta nell’anno 2004. La mamma e Cristina erano serene e felici della vita che stavano conducendo. La nostra vicinanza, i nipotini Danilo e Henry che le impegnavano affettuosamente, piccole vacanze al mare, l’orto e il grande giardino offrivano loro spazi di serenità mai avuti prima. Passarono gli anni e Cristina divenne donna. E venne il giorno che mi chiese il consenso a sposarsi con Riccardo. Con mamma e Luisa considerammo la situazione e, pur essendo liberi da preconcetti e di larghe vedute, ci sembrava più una fuga che un matrimonio ponderato. Nulla potevamo dire della persona che non conoscevamo, ma molte perplessità ci assalirono. Tra le tante, la differenza d’età (16 anni), lo stato sociale e lavorativo, la mentalità e molte altre cose che lasciavano presupporre una non facile convivenza futura. Tentammo, tramite dialoghi sereni, di rendere Cristina consapevole delle eventuali difficoltà che il tempo le avrebbe presentato, ma constatando che a nulla servivano, ci rimettemmo alla divina provvidenza augurando a entrambi una vita sana e serena. Alcuni mesi dopo Cristina e Riccardo si sposarono e andarono a vivere a Peccioli, località nella quale Riccardo aveva proprietà di famiglia. Avevano infatti ristrutturato un appartamento nel quale andarono a vivere con mamma. Trascorsero anni apparentemente sereni finché non affiorarono i primi dissensi e le prime incomprensioni, causati in gran parte dalle motivazioni precedentemente espresse. La mamma non capiva, noi sapevamo, ma che fare? Le controversie sembrarono attutirsi con la nascita del loro primogenito al quale misero il nome di Roberto. Ma fu un’illusione temporanea. I contrasti esistenziali esistevano e continuarono a esistere, anzi alcuni di essi si aggravarono col tempo. Tutto ciò provocò in Cristina disturbi fisici e psicologici tali da condurla a uno stato di depressione costante dal quale non è mai completamente uscita. Dopo qualche anno la mamma si ammalò gravemente, cure cortisoniche eccessive prolungarono la sua dipartita ma anche le sue sofferenze e a nulla valsero tutti gli sforzi medici. Fu una gravissima perdita perché venne a mancare, oltre all’affetto materno, quel tampone che a volte fungeva da ammortizzatore familiare. La mia guida, interpellata costantemente sul da farsi, intervenne con un messaggio e un’immagine. Il messaggio fu: «Aldo, aspetta e sii propositivo», e l’immagine era un fiume sinuoso che scorreva verso valle... Trascorse del tempo e Cristina partorì un secondo figlio che chiamò Andrea. Anche questa nuova nascita non contribuì al cambiamento ma incrementò contrasti mai spenti o mai superati. La crescita del primogenito, schieratosi a favore del padre contro la madre, incrementò il divario esistente, divario che crebbe con la crescita di Andrea. La mamma non era OK, mentre loro erano OK. In Psicologia Transazionale sono ben evidenti i drammi e le conseguenze che tale posizione scatena all’interno della famiglia. Gli psicofarmaci sono peggiorativi e non risolutivi. Servirebbe il consenso informato della persona e la valenza di un terapeuta molto bravo per tentare di porvi rimedio. Dopo quasi vent’anni la situazione non è risolta e ristagna in speranze ancestrali che tardano ad arrivare anche per la mancanza di consapevolezza risolutiva da parte del soggetto, in questo caso mia sorella. Purtroppo! Forse è lei che non desidera modificare la situazione, almeno per il momento. La mia guida recita: «Ognuno di noi vive la vita che vuole vivere». Credo sia profondamente vero! Anche Bruno iniziò a vivere dei conflitti con la moglie Irene. I tentativi di trovare una soluzione o un rasserenamento furono vani. Purtroppo le incomprensioni non superate, portarono la coppia alla separazione prima e al divorzio poi. Successivamente visse un’altra storia appassionata, ma anche questa fu di breve durata.

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I nostri contatti con Cristina si diradarono perché Riccardo non gradiva i nostri incontri. Tutto ciò ci dispiaceva molto purtroppo, dopo aver proposto mille strade migliorative, nulla sembrava accadere che portasse a cambiamenti radicali. Forse non li desideravano. Mi rituffai nelle mie attività, nei miei studi e ricerche. Incrementai la produzione selezionata di articoli “per la casa e per la salute” e con essi una serie di collaboratori/divulgatori. Al buon successo già ottenuto negli anni precedenti si aggiunsero altri straordinari risultati. L’attività cresceva a dismisura, fulcro dello sviluppo a livello nazionale fu Milano. A Bruno, informato di ciò che stavo facendo, chiesi se avrebbe fatto piacere collaborare in tali attività ed egli mi rispose di sì. Iniziammo a collaborare costruttivamente e intensamente. I risultati non tardarono ad arrivare e questo ci riempì di gioia. Tutto ciò mi costringeva a lasciare la mia casa e la mia famiglia il lunedì alle 5 del mattino per far ritorno a volte il sabato sera. La cosa non mi piaceva affatto, ma per qualche anno fu necessario. Le sere che durante la settimana trascorrevo in albergo le dedicavo ai miei studi; anch’essi mi portarono a conseguire risultati inaspettati. Ripresi vecchi contatti assopiti durante la mia assenza in Giordania e se ne aggiunsero di nuovi, eccezionali. Non è un segreto quello che accade quando invochi cose buone, esse arrivano! Medici, psicologi, geobiologi, ingegneri, bio-architetti, maestri in Energie Sottili, fisici, neurologi, endocrinologi, oncologi, maestri di Feng–Shui, bio–naturopati, maestri Reiki e molti altri, ci unimmo in una collaborazione di ricerca costante, con un fine nobile, quello di fare una corretta prevenzione della salute. Il mio grande sogno, la mia “missione” si era finalmente rivelata. Improvvisamente mi fu tutto chiaro, i messaggi, i consigli, la continua scoperta di capacità inaspettate, la possibilità di “vedere oltre”, le parole sante di Madre Teresa e gli inviti ripetuti della mia guida (nonno Giovanni Ferrari), avevano ora per me un significato cristallino. Maturammo la decisione di abbandonare il nostro “paradiso terrestre” di San Gervasio e di trasferirci a Milano per due semplici ragioni. La prima era di continuare nel modo corretto la nostra entusiasmante vita familiare, la seconda per essere presenti nel centro da dove dipartivano tutte le nostre iniziative e attività. Non fu facile, ma le aspettative di ciò che avremmo potuto e voluto fare, lenirono in parte i dolori del distacco. Il tempo ci diede ragione. Venduta la proprietà in Toscana ci trasferimmo in una nuova casa a Vimercate. La Ferrari – Casa e Salute, iniziò un rinnovato percorso che ci consentì di raggiungere progressivamente le mete che di anno in anno ci ponevamo. I nostri figli frequentarono le scuole con profitto. Bruno si innamorò di una ragazzina spagnola e dopo qualche tempo la sposò. Da questa nuova unione nacque un figlio di nome Stefano. Seguirono anni molto intensi, ma la preziosa collaborazione di Luisa consentì di condurli con piacevolezza e armonia costante. Tornai a programmare anche i corsi, sia di psicologia che motivazionali e saltuariamente quelli di dinamica mentale con ottimi risultati. Ma il grande amore era sempre la prevenzione e la crescita individuale. La dedizione totale accrebbe abilità e conoscenze che mi facilitavano nello svolgimento delle mie attività. Divenne una vite senza fine, meravigliosa. Il contribuire a riportare in stato di buona salute o benessere psicologico molte persone era il propellente quotidiano ideale. Trascorsero come un lampo altri dieci anni colmi di meravigliosi risultati, a volte oltre ogni legittima aspettativa. I miei viaggi in Giordania si diradarono e da molti anni è Majid che viene in Italia saltuariamente. Si ferma due o tre giorni e poi riparte sempre più felice. Nel frattempo i nostri figli si sono laureati, Danilo in Psicologia e Henry in Geobiologia e Bio-Naturopatia. Oggi è Henry ad aver assunto la guida della Ferrari - Casa e Salute, sia per amore di questa fantastica attività, sia perché anche in lui sono

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apparse spontanee doti di rara sensibilità. Che siano “un dono”? Forse voluto da chi da “lontano” veglia costantemente sul nostro operato. Poco alla volta cominciai a ridurre drasticamente le attività commerciali a favore delle attività di prevenzione tramite i rilevamenti di geobiologia e gli studi energetici degli ambienti. Mio fratello Bruno, avvertendo che tali attività non erano a lui confacenti, ma desideroso di cimentarsi nel settore informatico, intraprese questa strada inseguendo anche lui il “suo sogno”. Noi continuammo le nostre attività, estendendo i nostri interventi oltre al territorio nazionale. Bruno diede vita alla sua nuova attività. Cristina tra alti e bassi continua ancora oggi la sua vita in costante ricerca di una serenità minata da insoddisfazioni e problematiche mai risolte. In pochi anni una nuova nuvola apparve nella vita di Bruno. Il suo rapporto familiare si incrinò per poi spezzarsi, giungendo a una nuova separazione nella quale la principale vittima involontaria è stato il figlio Stefano, oggi quattordicenne. Contemporaneamente sopraggiunse la fase finale di una malattia degenerativa, che aveva colpito “LUI”, nostro padre, già da molti anni. In poche settimane la situazione precipitò e avvenne il trapasso. Al fine di non perdere la proprietà di famiglia, avevo acquistato nel 1997 le quote spettanti sia a Cristina che a Bruno che non erano interessati a usufruire della loro parte ma erano desiderosi di ricevere l’equivalente in denaro. La prima perché ha casa e famiglia in Peccioli, il secondo perché da sempre desiderava lasciare quel luogo, fonte di infiniti tristi ricordi mai superati. Raggiungere l’accordo finanziario fu cosa facile e per loro conveniente. Provveduta a una totale e radicale ristrutturazione dell’intera proprietà, la stessa rimaneva nell’usufrutto gratuito, sia di “LUI” che di Bruno, fino alla dipartita di nostro padre, per poi essere rogitata, suddividendola in parti equivalenti, ai miei due figli Danilo e Henry Robert. Solo nell’estate del 2005 Bruno e la sua famiglia divisa hanno lasciato la proprietà. Perché alcune persone si portano sottopelle e nella mente, per tutta la vita i ricordi tragici sia dell’infanzia che dell’adolescenza, legandoli a un luogo e non riescono a superarli? Forse per le energie negative che permangono nel luogo? Perché il loro “io” adulto non le comprende e non le supera? Forse perché il loro “GAB” non è in equilibrio? Forse per paura o per debolezza? Forse perché non hanno ancora certezze del loro “IO” interiore? Forse perché sperano che i problemi si risolvano da soli? Tramite il potere della nostra mente ognuno di noi può comprendere, giudicare e poi perdonare. Ha scarsa importanza ciò che è stato, rilevante è ciò che noi oggi decidiamo che accadrà. Noi siamo ciò che “OGGI” abbiamo deciso di essere! “OGGI” ci accadrà tutto quello che noi abbiamo deciso che accada. Sono i nostri pensieri che trasformano l’energia in cose materiali e visibili. Il nostro atteggiamento mentale interferisce con le forze cosmiche consentendo che tutto accada. Ecco perché fede, coscienza e consapevolezza ci elevano a una buona vita. Conoscendo noi stessi e potendo usufruire del libero arbitrio, in ogni istante ognuno di noi stabilisce in maniera incontrovertibile i propri accadimenti. NOI SIAMO QUELLO CHE VOGLIAMO ESSERE E DIVENTIAMO CIÒ CHE PENSIAMO. A me sembra così semplice e straordinariamente bello. Qualcuno potrebbe dire che non è così semplice, certo! Ma lo sarà se vorrai. TU SEI IL MONDO.

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UN GRANDE SAGGIO DICEVA CHE:«UN LUNGO CAMMINO INIZIA DA UN PRIMO PASSO» (Lao Tse). Ognuno di noi deve stabilire dove vuole andare, cosa vuole ottenere, per condividerlo con chi; solo allora avremo un “viandante in più sul sentiero della felicità”! Sì, una persona in più che cammina con piena coscienza, una persona felice, serena, consapevole che vive i suoi progetti e che “è” ciò che ha deciso di essere. Fantastico! Ma è indispensabile che lo si voglia con tutto noi stessi, con il cuore e con la mente. Personalmente ho sempre creduto che il più onesto datore di lavoro sia la “vita”. Chiedi alla vita che i tuoi “grandi sogni” si realizzino ed ESSA ti esaudirà, sempre che tu sia disposto a pagarne, ovviamente, il giusto prezzo. Nulla è impossibile per chi è motivato da un desiderio bruciante. Se per la realizzazione del tuo desiderio sei disposto anche a dare in cambio la tua esistenza terrena, ESSO diventerà realtà. Facile? No! Ma possibile per coloro che lo desiderano ardentemente. L’universo ne è testimone. Ripensando ai miei fratelli e alle molte persone conosciute che conducono una vita conflittuale, stracolma di problemi o desideri irrisolti, provo dispiacere. Quello che di buono possiamo fare, è inviare loro dei messaggi positivi e buoni sentimenti, ma dovranno essere loro e solo loro a decidere quando cambiare il loro atteggiamento verso la vita. Una mattina mi recai in una località montana a mezz’ora da Lecco. Trovai un posto giusto, estrassi un mio vecchio block notes con gli appunti di un corso al quale avevo partecipato tanti anni fa e li rilessi. La filosofia sulla quale essi si basavano erano: 1. la meta 2. il desiderio 3. la fede 4. l’autosuggestione 5. la conoscenza 6. l’immaginazione 7. la decisione 8. la programmazione organizzata 9. la trasmutazione energetica 10. il subconscio 11. il potere della mente 12. il sesto senso 12. la perseveranza 14. le paure da superare. Rileggendo ciò che avevo scritto circa quaranta anni fa, mi misi a sorridere. Poi liberai dal mio petto un entusiasmante, «Fantasticooooo!». Scoprii di aver condotto la mia crescita personale e la mia vita basandomi proprio su questi concetti, essi si sono radicati in me totalmente e sono stati fedeli compagni di ogni giorno. Ogni passo è stato accompagnato da un “atteggiamento positivo”, componente essenziale sia dei pensieri, sia delle azioni. Nella pace assoluta nella quale mi trovavo iniziai una buona meditazione. Fu facile raggiungere il contatto con la mia guida gli chiesi: «Nonno, è questa la mia giusta direzione?»

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E il nonno rispose: «Sì!» Poi aggiunse: «Percorri le strade del mondo e aiuta chi puoi tramite l’esempio, la volontà e l’impegno. Gli strumenti per fare dell’ottima “prevenzione” ti sono stati dati, ma ricorda che non potrai mai aiutare chi non vuol essere aiutato. Giorno dopo giorno la tua vita si colmerà di straordinarie nuove esperienze, alcune anche molto dolorose, ma il tuo impegno e la tua fede verranno premiati. Non c’è gioia senza dolore, come non si possono ottenere risultati senza l’impegno. Continua a fare del bene, questa era ed è la “tua missione”». «Grazie nonno. La mia vita è radicalmente cambiata e so esattamente cosa farò domani!». Ritornate a sognare in grande e abbiate fiducia in voi stessi, perché i sogni si realizzano se voi lo desiderate. Ognuno di voi è la parte più bella dell’universo. Io ho realizzato i miei sogni e vi auguro di realizzare i vostri. Con amore, Aldo Mauro