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Almanacco Romano STORIA DELLA «RELIGIONE DEL- L ARTE» f

a ST RIA DELLA «RE IGIONE DEL- L’ARTE f · che toccò in sorte alla religione rivelata, ragion per cui l’arte si trova nella straor-dinaria situazione di ereditare tutto, dagli

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Almanacco Romano

STORIA DELLA «RELIGIONE DEL-

L’ARTE»

f

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I sei pollici del CovileUna collana dal formato ottimizzato per i

dispositivi di lettura.5

SULLE ORME

DEL MAESTRO DELLA

KELMSCOTT PRESS E INDIF-FERENTI ALLE COLTE MODE CIMI-

TERIALI COME ALLE MINIMALISTICHE

DESOLAZIONI SENZA GRAZIE, LE PAGI-NE DEI LIBRI DEL COVILE FIORISCO-

NO NELL'INVITO A RIPRENDERE

LA BELLA TRADIZIONE TIPO-GRAFICA EUROPEA.

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IndiceL’arte come succedaneo della religione...............5I maghi del Brutto.............................................28Il pittore che inventò l’Opera d’arte totale.......46L’eremita del Baltico volta le spalle all’uomo...92

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L’arte come succedaneodella religione

~ UNO SCAMBIO DI RUOLI NEL SETTECENTOTEISTA E LIBERTINO: IL SACERDOTE VIENEALLONTANATO DALLA SCENA PUBBLICA, ALSUO POSTO ENTRA L’ARTISTA, NON PIÙIDEATORE ED ESECUTORE EGREGIO DIUN’OPERA ESTETICA, BENSÌ MEDIATORE TRA

GLI UOMINI E L’ASSOLUTO. ~

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l termine del XVIII secolo,Novalis tracciava un bilancio eavanzava una congettura me-

tafisica in un frammento pubblicato suAthenäum (1799):

APoeti e sacerdoti erano in origine unacosa sola, e soltanto i tempi successi-vi li hanno separati. Il vero poeta pe-rò è sempre anche sacerdote, cosí co-me il sacerdote autentico è sempre ri-masto poeta. Ora perché mai non do-vrebbe l’età futura ripristinare questoantico stato di cose?.

Fantasiosa ricostruzione storica, confu-sa e sofferta constatazione della scissionemoderna, romantica profezia della ricom-posizione di un supposto stato di cose ori-ginario, piú pagano — andrebbe aggiunto

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— che cristiano. Dove mai c’era stato in-fatti un sacerdote poeta? Forse nell’anticoEgitto, di certo in molte immagini deifilosofi presocratici, non certamente nelcristianesimo, anzi il cattolicesimo, rie-cheggiando la religio romana, aveva com-presso ogni misticismo, evitando le figureprofetiche, assegnando al sacerdote la con-sapevolezza e la lucidità, senza situazioniestatiche: si consacrano uomini che hannostudiato il diritto canonico, non degli ispi-rati (il carisma casomai scenderà dopo).Però quell’annuncio che il «ripristino»dell’artista-sacerdote sia alle porte coglienel segno uno dei fenomeni principali del-la modernità e sul quale gli innumerevolidiscorsi intorno alla secolarizzazione sonoscivolati via senza trattenere una riflessio-

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ne specifica alla storia dell’arte contem-poranea. La leggenda della liquidazione diogni arte religiosa — per parafrasare il ti-tolo di una celebre opera schmittiana —non è stata mai confutata.

Il Settecento teista e libertino volge altermine, affiorano qua e là le prime ipotesidella negazione atea, ed ecco il geniale ro-mantico rivelare uno scambio di ruoli: ilsacerdote viene allontanato dalla scenapubblica, al suo posto entra l’artista, nonpiú ideatore ed esecutore egregio di un’o-pera estetica, bensí mediatore tra gli uomi-ni e l’Assoluto. Calano i credenti nelle pro-messe cristiane ma crescono i fedeli dellanuova religione dell’arte. A essa spetta laredenzione, non tanto, anzi non piú, la cu-ra delle forme, la creazione della bellezza

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che accarezza i sensi, ma una presuntuo-sissima promessa del Paradiso in terra. IlBeato Angelico o Raffaello o Velázqueznon garantivano il Cielo, non pretendeva-no di sostituire le loro opere ai piaceri del-l’aldilà, né tantomeno di mettersi al postodei sacerdoti e dei vescovi. L’arte, la lette-ratura o la filosofia stavano accanto allafede cristiana, potevano essere sublimi go-dimenti dell’aldiqua che difficilmente en-travano in collisione con le faccende divi-ne, casomai ne erano un anticipo, una al-legoria. Ma l’ultima gilda avanguardisticadel Novecento si presenta come una settadi redenti e annuncia una sua propria sal-vezza al pubblico che si vorrà schierarecon essa. L’arte come gnosi, come spaziodove è ancora legittimo affrontare il tema

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salvifico, anche se sempre piú denudatodelle coloriture metafisiche e ridotto a di-sperato gioco.

Spesso questa onnipotente arte si vuoleanche sostituire alla politica, ed è la lun-ga storia dell’engagement, dai nazionali-smi romantici ai ribellismi comunisti eanarchici. Nei recenti decenni, tuttavia, lapolitica subisce la medesima degradazioneche toccò in sorte alla religione rivelata,ragion per cui l’arte si trova nella straor-dinaria situazione di ereditare tutto, daglispiritualismi d’ogni sorta all’autorità delpotere, dalla verità del dogma alla forza dilegittimizzazione con la quale rende leci-to ogni gesto, al carisma che transustanziale cose. Vi corrispondono altrettante cor-renti artistiche degli ultimi due secoli, tal-

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volta piú di una per ciascuno di questi be-ni ereditati o forzatamente avocati dallareligione e dalla politica, che cosí appaio-no estinte.

Con la nascita dei primi gruppi orga-nizzati, dei primi squadroni dell’avan-guardia, grosso modo con quel Lukasbund(o Nazareni, come li chiamavano i popola-ni romani) che si ricollega ai ‹pri-mitivismi› quattrocenteschi per rilanciarela fede cristiana aggredita dalla modernità— quasi spettasse all’arte rialzare le ban-diere della Chiesa di Roma —, fino alWiener Aktionismus che, ricorrendo pe-rfino ai paramenti liturgici cattolici, cele-bra sacrifici piú cruenti di quelli dei miste-ri pagani, il collettivo artistico tende all’a-nonimato, vicino alla comunità di monaci,

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come sognava Wackenroder, collettivo di«operai di Dio» — secondo una definizio-ne di Mario Praz per i Lukasbrüder —che saltano il tramite religioso e costru-iscono sul terreno estetico la casa della sal-vezza. Diretti messaggeri celesti, quasiangeli. Ma nessuno li ha investiti diqualcosa né li ha iniziati: da soli, con untalento via via meno dimostrabile, sol-tanto per volontà artistica e, talvolta, perconferma di un confratello, di un critico,di un mallevadore appartenente alla me-desima setta cioè, si autoproclamano ar-tisti e definiscono artistiche le loro ope-re. Viene a mancare il fondamento di unaestetica precettistica, oggettiva, la peri-zia tecnica costatabile, la rappresentazio-ne tradizionale di un oggetto. La stessa

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estetica diventa invenzione artistica, sog-gettiva come tutto il resto.

Eppure, nonostante un secolo di socio-logismi, a parte pochissime eccezioni —per esempio, quella luminosa di HansSedlmayr —, quasi nessuno ha tenuto amettere in rilievo come l’arte moderna siasorta sullo sfondo dell’ateismo, mentre sisono sprecate le analisi sulle connotazionisociali delle arti del passato, che sarebberostate condizionate dal feudalesimo odall’imperialismo. Qui però si tratta diquestioni ben piú cruciali delle colorituresociali, si sta infatti toccando il cuoredell’opera d’arte, il suo carattere ambigua-mente metafisico per cui un quadro che èil trionfo della materia e del piacere sensua-le rivela al contempo un mondo nascosto,

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svelando qualcos’altro sia pure per unavisione fugace. Allora, il venire a mancarel’ordinato universo gerarchico, dove Dio èil sovrano e gli angeli i suoi messi luminosi,in un mondo oscuro che ha bisogno vitaledella luce celeste e che si pasce di ogni siapur approssimativa apparizione, produceun serio squilibrio del quadro o della scul-tura. Ricacciata nella pura materialità, ani-mata soltanto dall’ingegnosità esasperatadell’autore, che rasenta d’ora in poi l’eser-cizio mentale funambolico, l’opera d’artenell’epoca dell’ateismo cambia il suo statu-to e trasforma pian piano anche i suoi ca-ratteri materiali. La bella pittura plasticadiviene pompieristica decorazione mentrela nuova arte degli ‹operai di Dio› si vuolesempre ascetica, gotica, primitiva, schiac-

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ciata, livida, dissonante, malinconica, in-soddisfatta. L’infelicità diventa la cifradell’avanguardia, anche quando si presentaludica e scherzosa, nel migliore dei casi,Abrgrund-glück, felicità d’abisso, comechiude un verso Gottfried Benn. Del resto,

non c’è arte se non c’è incarnazione,e in che cosa del resto si incarnerebbese non nell’immagine dell’uomo e inquella del mondo quale si è rivelataall’uomo?

diceva il russo Weidlé.Ci si conforta con un luogo comune: in

tempi angosciosi l’arte non può che essereangosciosa, teoria dello specchio nero,smentita però da secoli di storia dell’arteche in periodi travagliatissimi e inquieti

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seppe offrire una festa per gli occhi e perlo spirito, basti pensare al Rinascimentoitaliano. La storia dell’arte dell’Otto-Novecento è — salvo miracolose epifanie— quaresimale, mortificante, perchésembra chiedere sempre allo spettatoreuna prova iniziatica per accedere alla sal-vezza di cui l’artista è il sacerdote dispen-satore. Novalis ha visto giusto, si può pro-vare a rileggere le principali correnti mo-derne alla luce della sua profezia. Oggi,nelle tenebre, avanza a tastoni una umani-tà che ha perduto le mète, le speranze, iconforti sacramentali e perfino quelli sim-bolici della antica arte; vive nella bruttez-za elevata a sistema dalla industrializza-zione e vagheggia il bello come in nessunaaltra epoca mai, perché la parentesi esteti-

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ca permette ancora una fuoriuscita prov-visoria, e forse illusoria, dall’inferno diuna vita segnata dalla morte. Disposta alasciarsi irretire dalle piú sottili trovate ea giocarsi l’anima per degli scontati ca-lembours metafisici, quella povera umani-tà si incammina in interminabili pellegri-naggi verso tutti i luoghi dove aleggia unaparvenza d’arte, anche se sotto forma diparodia della bellezza. Nostalgia dell’As-soluto, dicono i sociologi. Delusa, ahimè.

Avanguardia delle avanguardie fu lagilda, medioevaleggiante e volta al passa-to, dei Nazareni. Sotto l’incalzare dellamodernità, nel pieno delle guerre na-poleoniche, son loro che per primi si or-ganizzano in reparti d’assalto, ricorronoalle metafore militari, annullano l’indivi-

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dualità artistica nel gioco di squadra, im-pongono uno stile pittorico di gruppo, del-le tecniche ‹ideologiche› (l’affresco, peresempio), i manifesti con cui lanciare leproprie battaglie. Si tratta infatti di un’ar-te che concepisce dei nemici mortali: chiè contro di noi, diranno i pii pittori, chinon condivide il nostro progetto salvifi-co, è dannato. Cosí corrotta e dannata sa-rà tutta l’arte che non si mette al serviziodi una visione del mondo: il cattolicesimoprerinascimentale per il Lukasbund comela modernità con un’anima per il Futuri-smo. Ma i Nazareni non si limitano a in-traprendere per primi queste guerre esteti-che della modernità, fondano l’avanguar-dia come ordine religioso, carattere che re-sterà impresso a ogni corrente che faccia

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tabula rasa dell’arte prima di lei e accantoa lei, anche di quelle che si ispirano a prin-cipi del tutto atei. Perché gli avanguardi-sti sono monaci di una religione dell’arteche si afferma quando il cristianesimosembra subire i piú duri colpi della storia.Non è un caso allora che proprio nellaRoma cattolica, dove surrettiziamente (einconsapevolmente), i Lukasbrüder in-troducono questa religione dell’arte, ap-paiano le prime icone di un simile culto. Ilprimitivismo dei neoquattrocenteschi di-venta arma contro la storia, volontà dipercorrere al contrario l’umana storia(cosí come altri, piú tardi, tenteranno diaccelerarla in avanti), ma il revival na-sconde il nuovo, nulla forse piú anticat-tolico dell’entusiasmo di questi pittori ro-

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mantici che pensano di reinventare la tra-dizione a loro piacimento, che confondo-no Novalis con i Padri della Chiesa eRaffaello con i santi. C’è chi affresca unparadiso incantato sulle orme del BeatoAngelico, ma nella gloria degli angeli edei santi colloca pittori e poeti. I nuovi sa-cerdoti dell’Assoluto spiritualizzato pro-vano a imporsi alla devozione dei fedeli.

Piú tardi l’intuizione di Novalis vienetradotta in filosofia da Schelling: religio-ne che si trasforma in arte. Hegel ne trar-rà le conseguenze: Assoluto che si rivelanella filosofia, morte dell’arte. Allora inmolti si affanneranno su tale annunciomacabro, ricamandoci magari fantasioseutopie. Appena una stagione precedentel’altra terribile notizia della ‹morte di

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Dio›. Comunque, le principali teorie suquesto tema, le metamorfosi dell’arte,vengono elaborate dalla cultura tedesca,poco esperta, almeno durante lunghi se-coli, in questioni di belle forme, e tale pe-nuria di forme viene compensata conspiritualità e concettualismo, due capisal-di dell’attività estetica moderna, mentrela bellezza diventa argomento tabú,quasi rimembrandola si evocasse l’anticocattolicesimo — che brillava come so-stanza celeste della grande arte, e cosí lavide ancora Novalis —, cattolicesimosul quale le teorie hegeliane, luterane,sembrano trionfare.

Giunge infine Nietzsche e ne trae condecisione le conclusioni:

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la musica, con un suo posto a parterispetto alle altre arti, l’arte indi-pendente in sé, che non già, comequeste, offre riproduzioni della feno-menalità, ma piuttosto parla la lin-gua della volontà medesima, cavan-dola immediatamente dall’«abisso»come la sua piú vera, piú originaria epiú diretta rivelazione. Con questoeccezionale potenziamento di valoredella musica, quale sembrava scatu-rire dalla filosofia di Schopenhauer,anche il musicista crebbe enorme-mente di valore e diventò ormai unoracolo, un sacerdote, una specie diportavoce dell’«in sé» delle cose, untelefono dell’al di là — da allora inpoi non parlò soltanto di musica

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questo ventriloquo di Dio — parlò dimetafisica….1

Le arti un tempo figurative impararono apiegarsi davanti alla musica, abolirono lafigura e si fecero sue ancelle. Cosí diven-nero tutte telefoni dell’aldilà, mentre folledi artisti si spacciavano per ventriloqui diDio.

Dirà un novecentesco, lo scrittore spa-gnolo José Bergamin:

Se, per esempio, ci ricordiamo dellecorrenti piú significative della pit-tura, cominciando da quella reli-giosa, che naturalmente non è unareligione della pittura, ma al contra-rio una pittura della religione —una pittura teatrale della religione:

1 Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift.

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una teatralità o popolarità religiosa—, per arrivare al cubismo che correil rischio di trasformarsi in una reli-gione razionale della pittura — o al-meno in una morale religiosa del di-pingere —, sarà facile mettere inevidenza in ogni pittore una manofelice o infelice nel suo modo natura-le della pittura e prendere il corag-gio a due mani per vedere quello cheogni pittura ha di riflesso e di traspa-renza, di simulazione teatrale, di au-tentico simulacro, di idolatria e diverità, di invenzione o di creazionepoetica.2

Era insomma scontata la falsitàdell’arte, anche quando illustrava la ve-

2 «La importancia del demonio y otras cosas sin im-portancia» in Los cuatros vientos Madrid, 1933.

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rità evangelica, e non ambiva a sostituir-si a quella verità. La moralistica ricercadell’autentico (sempre contra la corru-zione, gli inganni, dell’arte bella) si im-pone, dal movimento tedesco dei pittoriromantici in poi, diventando il Leitmo-tiv di tutte le avanguardie.

Allora, di fronte alle piú allucinateimmagini e anche alla distruzione allu-cinante delle immagini, ai desolanti pro-cedimenti mentali che sostituiscono lasensuale imagerie di un tempo, ci si ri-pete che solo quest’arte negativa dà cor-po alla disperazione contemporanea,scambiando la causa per l’effetto. Tra ipochi invece a ricordare come l’arte pos-sa essere un freno al nichilismo contem-

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poraneo piuttosto che una sua eco —senza per questo risultare puerilmenteconsolatoria —, Ernst Jünger ammonivanegli anni Trenta:

In una realtà come quella odierna,dove la vita di milioni di uomini è do-minata dalle operazioni di congegniautomatici e dove le forme si somi-gliano come in un salone degli spec-chi, la responsabilità dell’artista èparticolarmente grande. Egli operada solo per la moltitudine, e in nomedi tutti deve offrire testimonianzache l’energia creatrice non è estinta.È lo spirito che gli guida la mano,che gli regge la penna, il pennello,lo scalpello.

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I maghi del Brutto

~ QUANDO L’ARTISTA SI INTERROGA SUL SENSODELL’ARTE PIUTTOSTO CHE SULLA TECNICADA IMPIEGARE. ~ E I TEORICI DELL’ESTETICATRIBOLANO A TAL PUNTO NELLA RICERCA DELNUOVO BELLO DA FINIRE PER ACCLAMARE ILMOSTRUOSO. ~ IL CASO DI FRIEDRICH SCHLE-

GEL, APPRENDISTA STREGONE. ~

Va anche detto che nelle epoche prece-denti alla nostra i pittori […] compiva-no il proprio apprendistato presso unmaestro, come fanno i giovani calzolai

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e i sarti. Ora però la superbia e la pre-sunzione sono penetrate nei giovani,l’uovo vuol essere piú intelligente dellagallina, l’esperienza dei vecchi nonviene piú rispettata, ognuno vuol essereil maestro di se stesso, crede di saperetutto e oppone resistenza al destino cheDio gli ha assegnato.

C. D. Friedrich

ncipit l’èra della superbia artisticacome neppure tra i geni del Rina-scimento. I sacerdoti della religio-

ne estetica in realtà son quasi tutti papi.Incredibile che J. S. Bach, in livrea dadomestico, sia contemporaneo degli en-

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ciclopedisti e preceda soltanto di ven-t’anni la nascita di Beethoven. Nell’ul-timo scorcio del Settecento e il primodel secolo successivo, accadono apocalis-si della storia e avventi di messia artisti-ci: Canova, Mozart e Beethoven. Manon è ancora chiaro se aprano o chiuda-no per sempre la storia del bello. Si assi-stette infatti anche a immani catastrofiestetiche, sbigottimenti, terrori.

.Non è un caso che il maggior lavoro sisvolga in Germania, eternamente resisten-te alla cultura ‹romana›. All’inizio, Frie-drich Schlegel «aveva predetto l’avventodi una nuova epoca, un terzo regno nel-l’arte e nell’estetico»; cosí in seguito, no-vello Battista, predicava la pienezza deitempi per una rinascita religiosa. Il 7

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maggio 1799, al fratello razionalista im-penitente, annunciava tutto compreso:

Colla religione, amico mio, non in-tendo davvero scherzare: si tratta in-vece di una cosa serissima, poiché èvenuto il tempo di fondarne una […].Sí, io vedo già venire alla luce la piúgrande nascita della nuova età.3

Manteneva però una diffidenza settecen-tesca verso il cristianesimo e un erotismonon ancora annacquato dal romantici-smo:

Proprio perché il cristianesimo è unareligione della morte, potrebbe venir

3 Per le digressioni confessionali di Friedrich Schle-gel, si è debitori della Introduzione di VittorioSantoli ai Frammenti critici e scritti d’estetica, Fi-renze, 1967, qui pp. XXVII— XXVIII.

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trattato con un estremo realismo epotrebbe benissimo avere le sue orgecome l’antica religione della natura edella vita.4

Considerava il suo romanzo Lucinde, il«traatum eroticum Lucinda», «un li-bro religioso». I sogni di Friedrich Sch-legel erano comuni a quelli di molti suoicontemporanei.

Sono speranze e sogni che derivanodal retaggio cristiano dell’Occi-dente. La costante rivoluzione in-teriore avente come mèta il regnodi Dio è una continuazione del«Protestantesimo» immanente alCristianesimo, una escatologia cheesige che gli uomini non soltanto

4 Ibid. p. 153.

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credano, ma siano anche attivi. Dalmomento che la teologia alla finedel Settecento in Germania non di-ceva queste cose con sufficiente in-tensità, gli artisti e gli scrittori ri-presero i grandi temi della teologiae li trasfigurarono a modo loro.5

Nella fusione — post-lessinghiana oanti-lessinghiana — delle arti, FriedrichSchlegel indicava la formula, classicatutto sommato: ut piura poesis e vice-versa. Ma poi aggiungeva: se venisse me-no al-l’uomo l’arte della pittura gli ver-rebbe a mancare uno dei mezzi piú efficaci

5 Rudolf Zeitler, «La costruzione della storiadell’arte come storia dello Spirito in FriedrichSchlegel», saggio uscito per la prima volta in Italiae in lingua italiana: Critica d’arte, nn. 25–26(1958), p. 24.

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per collegarsi al divino. Trascorso qualchedecennio, sulla scia di Wagner, i tedeschisi convinceranno che è nella musica lamistica scala per unire cielo e terra e lapittura dovrà fare sforzi disperati per di-ventare ut musica, l’astrattismo allora sa-rà una conseguenza di tale volontà musi-cale. Ma se la pittura è creazione che mi-ma Dio «dobbiamo cercare la sua originenella libertà e nell’arbitrio».6 Non è in-somma artigianato, ma in quanto arte ‹di-vina› fa a meno delle tecniche, le supera,le travolge, per comunicare con il cielo.Perciò il pittore e il sacerdote coincidonopiú che mai, arti magiche sono qui artimistiche, rappresentazione del trascenden-te, capacità di dischiudere le tende e

6 Ibid. p. 101.

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mostrare l’iconostasi, come nella Madon-na di Raffaello. Ahimè, niente di divinovenne fuori dai pur stimabili affreschi equadri dei nostri tedeschi, come si trattas-se di maghi che si affannano per entrare incontatto con l’aldilà e continuano a rie-cheggiare soltanto parole troppo umane.

Allora, i teorici tribolarono a tal pun-to nella ricerca del nuovo che rinvenne-ro il brutto. Certo, erano solo dei teorici,potevano dire quel che volevano, aveva-no ideato strampalatissime dottrine cuiil rude artista opponeva il lavoro serio,sprezzante dei bamboleggiamenti filoso-fici. Invece, da un certo punto in poi, ar-tista e teorico coincidono sempre piú, el’artista si interroga angosciato sul ‹sen-so dell’arte› piuttosto che sulle tecniche.

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Colui che al massimo era stato un de-miurgo abilissimo pretende di divenireun amoroso redentore e un Dio onnipo-tente, a costo di legarsi all’estremo Ne-gativo. Faust docet, ma troppo diffidentiper stabilire patti con il Maligno, ci silascia andare all’estetica, si venera lamanifestazione estetica del demoniaco,il deforme, il mostruoso, l’horror.

Friedrich Schlegel, tra i primi, diceparole forti, imbarazzanti per il tempo:

Mai il bello. Il bello è cosí lontanodall’essere il principio dominantedella poesia moderna che molte dellepiú splendide opere moderne sonopalesemente rappresentate dal brut-to, tanto che si è costretti ad ammet-tere (a malincuore) che esiste una

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rappresentazione dell’immensa ric-chezza del reale nel suo massimo di-sordine e della disperazione causatadall’eccesso e dal conflitto delle e-nergie per la quale è necessaria un’u-guale se non maggiore forza creatricee sapienza artistica che non per larappresentazione di quella ricchezzae di quelle energie in perfetta armo-nia.7

L’apologia del brutto all’orecchio edu-cato dal neoclassicismo suona soprattut-to ridicola. La Romantik sembra insegui-re l’assurdo, e l’illogico diventa risibile.Nel mondo della tradizione, il bello hauna veste sacra, il brutto evoca gesti

7 Fr. Schlegel, Über das Studium der griechischenPoesie, tr. it. Napoli 1988, p. 66.

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goffi e schernevoli del diabolico. I gior-ni saturnali producono il temporaneorovesciamento dell’universo, la volta ce-leste che sprofonda sulla terra e il trion-fo del bestiale nell’alto dei cieli; risatecarnevalesche, poi il ciclo gerarchico ri-prende il sopravvento, il mondo torna alsuo posto. Ma se il brutto sopravanzasempre il bello vuol dire che questo mo-derno si fonda su una eterna risata. I Pa-dri della Chiesa ammonivano: il luogodove si ride ininterrottamente è l’Infer-no.

Schlegel scontò la pena. Fu irriso dacontemporanei e dai posteri. Oscillantetra la filosofia e la poesia, campò abba-stanza per dover decidere un mestiere e

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fu una dolorosa scelta: professore d’uni-versità o giornalista, politico o rifor-matore religioso, seduttore o padre difamiglia, pensatore o lirico, erudito ocreativo, filosofo di Stato o dilettante.Vennero fuori tutte le contraddizioniche la morte precoce risparmiò ai Nova-lis e ai Wackenroder. Era impossibilefare il ‹Goethe romantico›, non fosse al-tro che per pregiudizio sfavorevole allostato di quiete ‹olimpica›. Si fu costrettialla vita movimentata, in giro per le cit-tà d’Europa. Il dotatissimo scrittoresfiorò la miseria, Brentano lo sopranno-minò «Messer Friedrich dalle tasche vuo-te». Fece infiniti progetti, sempre ir-realizzati. L’avvocato, padre o zio dei

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Nazareni subí, come loro, risatine discherno. In fondo, si trattava delle pri-me avanguardie e Schlegel si spendevacome loro promoter.

Dopo un secolo di dileggi, Ernst Ro-bert Curtius gli dedicò un saggio conuna bella apertura:

Abbiamo molto da farci perdonare daFriedrich Schlegel perché nessungrande autore del periodo della no-stra fioritura è stato cosí incompreso,anzi con tanta malignità diffamato.8

Figlio di un ecclesiastico luterano, ni-pote di un drammaturgo, fratello di un

8 E. R. Curtius,«Friedrich Schlegel und Frankrei-ch», tr. it in Letteratura della letteratura, Bologna,1984, p. 79.

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letterato, pigro, lussurioso (nel suo Lu-cinde esaltava «l’emancipazione dellacarne»), dissoluto (nella vita godette dimolti piaceri), mangione pantagruelico egrasso come non si può perdonare a unromantico, rubizzo in contrasto con ipallori dei suoi confratelli, ma altrettan-to estremo: non si consumò nella tisi, luiesplose, morí di colpo apoplettico pertroppo cibo e vino.

Ma se Schlegel fu un precursore delBrutto in estetica, anticipatore di Rosen-kranz, c’è un lungo percorso settecente-sco che precipita poi nel caos post-rivo-luzionario. Herbert Dieckmann lo ha ri-costruito in un breve saggio.9 La valuta-

9 Si tratta di «L’orrido e il terrificante nelle teorie

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zione del brutto è affine alla giustifica-zione del male: estetica e teodicea, brut-to e peccato, mostrano qualche affinitànel XVIII secolo. Naturalmente qui siparla della «rappresentazione seria delbrutto», ché la satira e la salacità attra-verso il deforme erano sempre esistite.Ma è soltanto con la crisi dell’autonomiadel bello che si riconosce il brutto. Inorigine è la comédie larmoyante, il piace-re delle lacrime. Moses Mendelssohn, ilsuocero di Schlegel, è forse il primo aoccuparsi delle ‹sensazioni miste›. In unalettera parla del diletto per certe situa-

dell’arte del XVIII secolo» raccolto poi in unatraduzione italiana di saggi di Dieckmann, Illumi-nismo e rococò, Bologna, 1979 e che qui viene rias-sunto.

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zioni raccapriccianti.10 D’altra parte,Addison aveva già messo in evidenza cheanche l’evocazione di un letamaio puòprocurare godimento, certo per la bra-vura dell’artista nella descrizione, nonper l’oggetto in sé. Comunque, «finchéil brutto è stato l’antitesi del bello —scrive Dieckmann —, esso non aveva al-cun valore proprio, il bello dominava in-contrastato».11 Diderot, parlando dellaflagranza prodotta dall’attore sulla sce-na, fa non poche considerazioni sul pia-cevole spettacolo del brutto. Ma è Burc-ke che si spinge ad ammettere che il do-lore è una qualità positiva. Arriverà a di-

10 M. Mendelssohn, Briefe über die Empfindungen,VIII libro.

11 Dieckmann cit., p.170.

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re che «l’idea di una pena corporale […]produce il sublime»,12 inaugurando unapossente teoria, del tutto moderna, i cuirisultati letterari finiranno nella raccoltadi Praz, La morte, la carne e il diavolo.

Dieckmann sta attento però a nonconfondere la ribellione alle regole, peresempio la celebrazione lessinghiana delgenio con l’apologia del brutto. Lessinginfatti non nega l’utilità delle regole, leattenua appena in un antiaccademismoben temperato. È Mendelssohn a spin-gersi in questa indagine sulle nostre piúnascoste propensioni anche nell’arte.«Ogni spavento illusorio», ogni spetta-

12 Burcke, A Philosophical Enquiry into the Origin ofour Ideas of the Sublime and Beautiful, London1958, p. 86.

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colo del brivido, dunque, è sempre gra-devole.13 I fratelli Schlegel amplierannoil concetto, ma già Johann Elias, unloro zio, aveva detto: «a un pittore è le-cito descrivere cose nauseabonde quantoa un poeta».14

13 Si veda la lettera di Mendelssohn a Lessing del 23.11. 1756 (Moses Mendelssohns Gesammelte Schriften,Leipzig 1848, vol. V, p. 45).

14 Cit. in Dieckmann, p. 205.

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Il pittore che inventòl’Opera d’arte totale

~ PHILIPP OTTO RUNGE, «TEOLOGO DEL COLO-RE», FA DERIVARE DAL SUPPOSTO TRAMONTODEL CATTOLICESIMO LA DECADENZA DELLAPITTURA TRADIZIONALE. ~ SI PRESENTA ALLO-RA COME NUNZIO DELLO SPIRITO ASTRATTODELLA RIFORMA LUTERANA E PREDICA UN’AR-

TE ASTRATTA. ~

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I parla di Philipp Otto Rungecome di un «teologo del colore»e l’appellativo la dice lunga sui

mutamenti del ruolo dell’artista. Del re-sto, il delicato pittore cerca nel colore,come nella composizione, nella formadel quadro, perfino nel rapporto tra iquadri, un senso nuovo, e nel medesimotempo si interroga sul senso dell’arte.Prometeica battaglia che arriva a conce-pire una liturgica Gesamtkunstwerk, congrande anticipo su Wagner.

S

Fin dall’inizio, la cultura romanticatedesca tendeva alla sinestesia, alla prosamusicale o alla pittura poetica. Rungesognava un’opera d’arte totale, con i qua-dri esposti alle pareti mentre nella stessa

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sala un’orchestra avrebbe eseguito una‹colonna sonora› di questa pittura eLudwig Tieck declamato poesie ispiratealle opere circostanti.

Nel salotto del conte Filkenstein, a-mico dei romantici di Dresda, il giovaneRunge ascoltò l’esecuzione dei concertidelle Quattro stagioni di Vivaldi. Il fratel-lo Daniel, anni dopo, ne rievocheràl’entusiasmo. Il veneziano stabiliva delleaffinità tra la sua musica e i ritmidell’anno, il pittore tedesco meditavasulle assonanze tra le tonalità cromati-che e le tonalità musicali, in anticiposulle alchimie di Marc e di Klee. Rungepensava a delle sinfonie visive, sinfoniefilosofiche. Un sistema di corrisponden-

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ze segrete tra le stagioni dell’anno, leore del giorno, le età dell’uomo. Elabo-ra un ciclo di Jahrzeiten e di Weltzeiten.Prova a rappresentare il tempo nei qua-dri e perciò le tele delimitate da cornicinon gli bastano. I paesaggi romantici delcuore adesso fuoriescono dalle singoleopere. Teorizza a lungo per mettere inscena la titanica cattura dell’universo,del tempo, della vita. Goethe, in unalettera al pittore, dice in modo compitodi non essere riuscito a capire granchédelle Tageszeiten. Runge insiste nel suosforzo supremo di andare oltre la pittura,in un non so dove, che sfugga alla raffi-gurazione tradizionale. Vuole sperimen-tare, creare nuove opere e nuove sale per

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contemplarle e vuole contemplazioni ditipo diverso: l’arte è ormai un altro rito.L’atteggiamento classicista, predicatoda queste parti, di rispetto per il passato,di nani sulle spalle dei giganti, vienecancellato da nuove metafore: infantiche ripartono da zero. Il mito di Novalisviene ora riecheggiato dai pittori.

A folgorarlo era stato il romanzo diTieck, Franz Sternbalds Wanderungen(Le peregrinazioni di Franz Sternbald ),una storia del tardo medioevo che ha perprotagonista un pittore e che si snodatra descrizioni di quadri religiosi e con-versazioni su quadri religiosi, mescolan-do effetti musicali ed effetti pittorici.Neomedievale e moderno, Runge scrive

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allora a Tieck: «Non siamo piú dei Gre-ci…». Si accinge quindi al suo opus ma-gnum. Figlio di un armatore, era nato aWolgast, in Pomerania, nel 1777. Fin dapiccolo, era stato un virtuoso delle si-lhouettes, creando cioè forme dall’om-bra. L’inquietante sagoma oscura che ac-compagna i corpi luminosi. Con la suabravura aveva stregato Goethe che gli ri-chiedeva continuamente queste figurinenere. Un predicatore lo aveva indirizza-to verso il pietismo. Dopo aver anchetentato la strada del commercio, fu di-spensato in famiglia dagli affari monda-ni e finalmente potette dedicarsi all’arteanima e corpo.

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Nel 1801 se ne va Dresda, attrattodalla fama di capitale dell’arte e su esor-tazione di Caspar David Friedrich, macon il piú anziano maestro non stringeràmai vera amicizia. Quattro anni durerà ilsuo soggiorno nella capitale della Sasso-nia, eppure in una vita breve quell’in-completo lustro può corrispondere a unsecolo. I fatti decisivi avvennero qui. ADresda incontrò la ragazza che poi a-vrebbe sposato, si mise a studiare l’italia-no, conobbe i fratelli Schlegel, Fichte,Jacobi e Tieck che fu il suo patrono. Mo-rí a trentatré anni. Il fratello Daniel neraccolse le opere, gli scritti e le testimo-nianze orali, dedicandosi alla memoriadell’artista, proprio come fece Theo van

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Gogh, alla fine dell’Ottocento, con ilfratello Vincent.

Fu un filosofo prima che un artista,ma di lí a poco, nella cultura tedesca,le due figure si abbracceranno in Nie-tzsche. I suoi quadri comunque eranopensieri. Piú che un paesaggista, «unallegorista», con tutto ciò che di me-dievale e di barocco trascina con sél’allegoria.

Era trascorsa appena una stagionedalla comparsa a Dresda di un artistacome Mengs, pittore filosofico che, inquanto tale, infastidiva, fuori dai confi-ni tedeschi, anche coloro che lo am-miravano per il suo virtuosismo. Perchéil Raphael Germanicus non riduceva tut-

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to a forma e colore. Adesso, quel grumofilosofico presente in Mengs diventa radi-cale sostituzione della forma con spigo-losità filosofiche e della scienza dellanatura. Un processo di astrazione del-l’arte, di spiritualizzazione, di ‹ger-manizzazione›, si potrebbe dire, dell’artemoderna, che va in scena a Dresda.Tieck ha spinto Runge per questa stra-da. Il pittore chiama i suoi paesaggi«pensieri geroglifici» (ma anche «arabe-schi», e purtroppo spesso sono soltantoarabeschi). Un’arte concettuale che an-ticipa le avanguardie (e si spiega cosí ladevozione che molti capifila di questanutriranno per Runge). Come gli avan-guardisti, Runge si misura con la storia

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dell’arte per vibrare delle cesure vio-lente, per interrompere il corso. E pre-dicando l’«arte nuova», parla di corsi ericorsi ma sottolinea il drastico tramon-to dell’Occidente, la decadenza la senteintimamente e la vede sconfinare in unatabula rasa.

Al momento di mettersi al lavoro perle sue Tageszeiten si accorge di non pos-sedere tecnica a sufficienza. Torna allo-ra a frequentare con umiltà l’Accade-mia. E mette a punto il progetto: le teledi ciascun ‹tempo› dovranno essere dicirca cinquanta metri e i colori sarannoispirati dai libri dei mistici dedicati al si-gnificato simbolico dei colori. Rungestesso scriverà molte pagine di una teo-

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ria dei colori che sottoporrà a un Goethesempre piú perplesso. Tutto il ciclo saràospitato in un luogo appositamente co-struito, che Runge non riesce a immagi-nare e a progettare molto diversamenteda una cattedrale gotica. In questo nuo-vo tempio dell’arte, il visitatore vedrà unquadro dopo l’altro accompagnato dauna sinfonia in sottofondo scritta percontrappuntare i dipinti dal musicistaLudwig Berger, amico del pittore, e dal-le poesie e prose di Tieck, lette dal-l’autore. Ma il povero Runge, dubbiosoe malinconico, non riuscí a realizzare lasua utopia.

Nelle lettere di Runge a familiari e adamici appare l’appassionata volontà di

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creare quella che definisce ripetutamen-te un’«arte nuova», si badi bene non unnuovo stile, una nuova tecnica, bensí unadefinitiva rottura con la tradizione arti-stica occidentale, un appello affinché learti della parola e quelle visive e sonoresi intreccino per dare vita a un universoestetico mai visto, dove l’umanità scor-gerà l’alba della redenzione. Allora, ilcolore sarà l’equivalente della nota nelletrombe apocalittiche.

Fin dalla prima lettera in cui annun-cia al padre, che lo voleva commer-ciante, la sua vocazione artistica, cita ilcapostipite dei pittori ‹religiosi›:

Ho letto una lettera di Albrecht Dü-rer, che a ogni giovane pittore consi-

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glia la Bibbia quale fonte inesauribi-le dell’arte, e in ciò egli ha ragione.15

Prima di ogni altra cosa, Runge medita suuna lingua per esprimere l’intimo, linguasegreta dove è stato sepolto lo spirito nelcorso dei secoli. E naturalmente, accantoalla lingua esoterica, vuole uno spaziochiuso, una confraternita dove usare simi-le comunicazione:

sarebbe bello abitare nel cerchio diuna famiglia dove si può parlare gliuni con gli altri, e solo un folle vor-rebbe rinunciare a essere felice in es-sa. Credo che gli apostoli, i musicistidevoti, i grandi e bei pittori e poeti

15 In Ph. O. Runge, Hinterlassene Schriften, tr. it. Lasfera e il colore e altri scritti sull’arte, Milano, 1985;lettera del 24 agosto 1798, p. 62.

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veramente volessero fondare una talefamiglia. Agli apostoli è riuscito, aglialtri solo in parte.16

Primo accostamento tra gli apostoli e gliartisti, che in altre epoche sarebbe suo-nato oltremodo eccentrico. Fondarequesta famiglia, una confraternita di ar-tisti, è il compito che comincia a prefig-gersi, dove per «arte vera» «non si do-vrebbe guardare al come uno ha dettoqualcosa, ma se uno ha detto qualcos-a»,17 se ha detto la formula magica cheschiude il paradiso spirituale.

È inutile cercare di ripetere l’arte an-tica, Runge manda in rovina le prescri-

16 Datata: Dresda 1801, pp. 63–64.17 Ivi.

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zioni di Winckelmann, «come ci è maipotuta venire in mente l’infelice idea dirichiamare in vita l’arte antica?», e conWinckelmann lo studio accademico chesi rifaceva ai modelli della tradizione:

dinanzi a noi vi è qualcosa che stacrollando, noi ci troviamo al margi-ne di tutte le religioni che sono natedalla religione cattolica, decadono leastrazioni, tutto è diventato piú ae-reo e leggero di quanto non fosse.18

Comincia l’interminabile litania che ripeteuna constatazione storica, sempre nuova esempre uguale: il mondo sta crollando,grande è il disordine sotto il cielo ma lasituazione diventa eccellente. Un’opera

18 Datata: Dresda, febbraio 1802, p. 65.

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d’arte servirà d’ora in poi a segnare uncrocevia storico, a dannare il vecchio e abenedire il nuovo, a restaurare una reli-gione dei cuori, a «trattenere gli spiritiche fuggono» a far coincidere «il bello eil buono». Per raggiungere questi santiscopi, «noi dobbiamo ridiventare fanciul-li».19 Da questa affermazione ai proclamidada c’è molta strada, un secolo di storiadell’arte per esempio, ma appare comunela volontà di infantilismo che sola conce-derebbe di praticare l’arte. Perché maisolo ai piccoli innocenti è consentito l’ac-cesso nel regno della arti dove, per secolisi richiedeva casomai sapienza, abilità edunque anni di addestramento? La rispo-sta viene da sé quando si ricorda che il Re-

19 P. 66.

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gno della arti è divenuto il Regno dei Cie-li, i due Paradisi combaciano.

«Siamo sul punto di accompagnare asepoltura un’altra epoca?», scrive all’a-mato fratello Daniel il 9 marzo 1802. Difronte a questi crolli di epoche e di civil-tà, al succedersi delle mode che con vio-lenza e con scienze raffinate sembranoinfliggere colpi decisivi alla stessa reli-gione rivelata, non resta che l’operad’arte «eterna», «la piú bella delle im-prese» che prende avvio dalla «nostra in-tuizione di Dio». Altissima è la presun-zione di quest’arte nuova, di fonte divi-na, di andamento religioso, eppure inRunge come nei teorici e negli artistinovecenteschi c’è la convinzione che

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«difficilmente possa risorgere qualcosache sia pari alla bellezza dell’arte storicanel suo punto piú alto». Uno scacco inpartenza di fronte a quell’arte storicache senza proporsi mete divine (o forseproprio per questo) resta, nei suoi limitiumani e nel suo sfondo metafisico, ir-raggiungibile. Ma la lettura del pioRunge è diversa: la «decadenza» che ciallontana l’opera di Raffaello, Miche-langelo e Guido deriva dal fatto che «lospirito ha abbandonato» l’arte. La suamorte — che indirettamente Runge e-voca dal momento che parla spesso di«resurrezione» — coinciderebbe conl’averla ridotta a «trastullo», a gioco. E-co nervosa di quel «puro gioco delle fa-

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coltà» che Kant aveva stabilito nella suarecente Critica? Runge si rende contoche l’arte ludica dei moderni può pre-cipitare in breve la nobile attività in tec-nica per ingannare il tempo, per illuderel’ozio.

La sua stessa pittura non si acconten-ta piú dei pur devoti ritratti dei familiari,non si accontenta dei quadri di cavallet-to, ed escogita l’opera d’arte totale, l’in-crocio di tutte le arti onde far soffiare intal punto lo Spirito. Ma sempre pi-giando il pedale della volontà dell’ar-tista, quasi spettasse a lui solo di rimette-re in ordine il mondo spirituale. Abboz-za allora, nello spazio di una lettera fa-miliare, una sintetica storia dell’arte

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confrontata con la religione: dalla rigidi-tà fastidiosa del simbolismo egiziano alculto cattolico di Maria che «rendevabella la vita nel Cielo». Dal suppostotramonto della religione di Roma, Run-ge fa derivare il decadimento dell’arteplastica figurativa. Lo spirito della Rifor-ma era invece «piú astratto, ma in nullameno interiore, e anche da esso devesorgere ora un’arte piú astratta». L’ex-cursus storico si chiude con la convinzio-ne che «non vi è un’opera d’arte la cuiesistenza non sia fondata nella nostrapropria esistenza».20 Che fare allora se ta-le convinzione si perderà nel pubblicoche acquista e guarda l’arte? Runge non

20 Pp. 68–73.

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osa neppure pensare fino in fondo questaorribile prospettiva ma comunque si in-carica di rovesciare le sorti del mondocon le deboli forze dell’arte. Si era abitua-ti, nel leggere gli epistolari degli artistidel passato, a rivalità in fatto di bravurae di successo, a lamentele per mancatecommittenze, a progetti, a entusiasmi, adamori piú o meno felici, non a proclamiper rifondare il mondo.

Restano dei forti dubbi: «per qualeragione le arti e i suoi trastulli, che nonsono quanto di piú alto abbiamo […] eche persino possono condurre all’idola-tria» dovrebbero diventare il supportodella nuova spiritualità? Ma la rispostanon è facile, se ne rende conto lui per

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primo, se ne renderanno conto i piúsensibili artisti degli ultimi due secoli,gli eresiarchi, i fondatori delle scuoleavanguardistiche, incalzati dalla medesi-ma domanda. «Per iscritto è difficile nondar luogo a incomprensioni», dice nellastessa lettera al fratello, e poi «qual è lavia?». Cita Cristo e le sue tentazioni, sisente al centro della scena evangelica,l’imitatio Christi è diventata una reinte-pretazione o forse, in certi momentiparticolarmente eccitanti, una reincar-nazione. «Per il momento penso solo: al-lontanati da me Satana, perché mi seisoltanto noioso». Annuncia quindi unapiú lunga missiva, un saggio dove cer-cherà di mettere a fuoco la «nuova ar-

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te», altrimenti tanti pensieri che do-vrebbero ricollocare al loro posto il cieloe la terra, rischiano di finire con l’esisten-za del pittore. Niente altro che un alti-sonante sogno cui pone fine il risveglio.

Di fronte alla miseria del solipsismoromantico non resta che il lascito di unatraccia scritta, qualche pagina che com-pensi la titanica sfida mancata e che ma-gari, come un messaggio nella bottiglia,si offra a qualche altro adolescente chevoglia ritentare e tornare a sognare. Mac’è una versione religiosa di tale piccolocalvario percorso dall’artista teologo, sa-cerdote, santo, messia. Ce lo esponeRunge nella medesima lettera:

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Il demonio ci conduce sulla cima deltempio, dove noi dovremmo mostra-re tutto il nostro splendore, e infineci conduce nel vecchio mondo, or-mai trascorso, dei cui splendori eglici vuole fare dono se cadiamo in gi-nocchio e lo adoriamo.

Idolatria sarà dunque inchinarsi allosplendore del passato, ecco perché «nondevo studiare in Italia»: per dedicarsi altotalmente nuovo, a costo di mostrare«un’enorme presunzione, un enorme or-goglio»,21 come ammette lui stesso. Ra-ramente è stato detto meglio questo ri-fiuto ‹religioso› del passato, il resistere al-le tentazioni che l’arte moderna, di ori-gine sempre nordica, esprime nei con-21 Pp. 74–77.

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fronti delle seduzioni della sensualissimapittura e della sensualissima scultura ita-liana anzitutto e in generale latina. Nes-suno nega la bellezza di quelle opere eneppure il godimento che se ne ricava algiorno d’oggi, ma la si respinge comefrutto della tentazione satanica nei con-fronti dell’uomo moderno e quindi mo-rale, prima protestante e poi generica-mente ‹laico›, piccolo Prometeo kantia-no che tradisce però desideri smisurati.

Pochi giorni dopo, il 27 novembre del1802, sempre da Dresda dove si è a lun-go ispirato alla ‹icona› della raffaellescaMadonna di S. Sisto, annuncia final-mente il suo quadro che sarà «la fonteanche di tutti i quadri che farò, la fonte

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della nuova arte nonché fonte in sé persé». A quel punto il fratello capiràl’«avversione interiore [di Philipp] a ve-dere ora Francia e Italia». Illuminatidalla lettera di Runge e dall’esperienzasecolare possiamo capire anche noi l’av-versione o comunque l’imbarazzo dei teo-rici e degli artisti dell’avanguardia, finoal silenzio e all’impaccio di Adorno, lo-ro padre spirituale, rispetto al patrimo-nio antico italiano. Le piú recenti ec-cezioni, le curiosità per i manieristi ol’appassionato studio dei romanici daparte di Klee, sono una citazione, tal-volta uno sberleffo, una violazione delbello che si vuole sacrilega o giocosa osemplicemente, nel piú diffuso dei casi,

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il saccheggio di un’aurea forma con laquale fregiarsi e di cui sentirsi eredi.

In quest’alba dell’arte nuova vieneevocato Jakob Böhme, padre di tutti gliapprendisti teurgisti e si annuncia «lagrande nascita del mondo», dove gnosi emassoneria restano in sottofondo. Laluce, prodotta dai mistici colori sui qualimediterà Runge, sarà l’origine della ri-generazione del mondo. Il colore si do-vrebbe fare carne: versetto di questagnosi artistica che zoppica, perché adifferenza della parola, luce e colorehanno già pienezza fisica e sensuale. Ilmysterium magnum di Böhme avvolgeora anche l’arte con i suoi manicheismi.Il pantesimo cerca una conciliazione

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con la Trinità e una trascrizione nei co-lori, sempre a rischio di essere spenti daSatana. «Su questa linea penso anche aun quadro dove noi si possa dar figura esenso all’aria, alle rocce, all’acqua e alfuoco». Leonardo da Vinci è il primonome che viene in mente a sentir parlaredi raffigurazioni dell’aria e delle rocce,dov’è la novità? Perché non provareumilmente a dipingere questi elementi(come farà un giorno con somma mae-stria Stifter nelle sue prose) invece ditrasfigurarli in una battaglia cosmica eapocalittica tra le forze divine e quellediaboliche? Perché la scelta del paesag-gio, che Runge come Friedrich e Caruscon molta teoria pongono al centro

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dell’‹arte nuova›, non è soltanto un ge-nere pittorico?

Perché, sembra risponderci Runge, seDio è irrappresentabile, di quella naturache gli è specchio, possiamo dare peròrappresentazione spirituale, rivelare Dionei quadri attraverso i riflessi divini deipaesaggi. Ben altra, estrosa, soluzioneproponeva un credente d’altri tempi co-me Teodoro Studita quando sostenevache poiché Cristo è nato da una madreraffigurabile, possiede una immagine ri-spondente a quella della madre, e se nonsi potesse rappresentare nell’arte vor-rebbe dire che sarebbe nato dal solo Pa-dre e non da Maria.22 Invece Runge con-

22 Citato da padre Giovanni Pozzi nel suo fulgido

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cepisce l’individualismo piú sfrenato, allimite della incomunicabilità: «il pro-dotto piú alto dell’arte è l’immagine diDio in noi», cioè «la visione individualeche ciascuno porta con sé», e trattandosidell’Assoluto immaginato nell’intimo,senza piú rapporto con il mondo empiri-co, senza alcuna incarnazione nel mon-do degli uomini: tutti gli espressionismisono possibili, scatenati per dare formaal Dio individuale e nascosto. Di frontea questo compito sublime perché mail’artista-sacerdote, l’evocatore della di-vinità, dovrebbe perdere tempo e furoremistico nell’umile attività del copiare?«Non posso retrocedere» si dice convin-

Sull’orlo del visibile parlare, Milano, 1993, p. 63.

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to Runge, «Dio ha voluto che fossi quiassegnato» e dunque «mai mi adatterò aun vero e proprio copiare».23

Non si è precisato che negli anni incui scrive queste lettere la sua vocazionepittorica è ancora piuttosto astratta, diquadri ne ha fatti ben pochi. Ma si sentechiamato, non si tratta neppure ditalento esperimentato, di mano felice,quanto di segno di predilezione divinaaffiorato nell’anima. Come sempre poiaccadrà nelle avanguardie a venire, pri-ma delle opere ci saranno i proclami. Iltimido Runge i suoi proclami li confida-va al devoto fratello, proprio come piútardi farà van Gogh.

23 Pp. 77–81.

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Le proibizioni imposte dalla Storia: ipittori moderni si accorgono dello iatoprofondissimo con il mondo della tradi-zione e riportano questo senso di distan-za con alcuni divieti che pare loro di de-durre dagli ultimi sviluppi della storiadell’arte. Da un certo punto in poi si diràperciò che non si può piú dipingere lafigura umana o non si può piú dipingeretout court. Runge, agli albori, scrive inuna lettera a Ludwig Tieck che «dopo ilGiudizio universale di Michelangelo» èimpossibile rappresentare «gli uominicome la forza dei tempi [che] si agita inessi». La storia dell’arte apporta la testi-monianza di migliaia di artisti che dopoMichelangelo smentiscono l’«impossibi-

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lità» teorizzata da Runge, ma lui repli-cherebbe che si tratta di epigoni pom-piers, eterno pompierismo di chi non è il-luminato dall’intuizione del nuovo ruo-lo dell’artista vocato alla nuova arte.Adesso avanza, secondo Runge, il pae-saggio come specchio dell’umano e deldivino, fiori e alberi che tradiscono uncerto sentimento umano; piú tardi si di-rà: dopo l’arte concettuale di Cézannenon si potranno piú dipingere paesaggiingenui, successivamente si reagirà agliintellettualismi francesi con la lava e-spressionistica tedesca: dopo i colori chegridano non si può piú rappresentare se-condo la pacata scienza rinascimentale,e cosí all’infinito, semmai la storia avesse

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uno svolgimento infinito. Dall’altra par-te c’è chi resiste, talvolta nell’oscuritàtalvolta nella esplicita ribellione, a que-sti divieti dell’epoca, che in quanto tali sipotrebbero anche chiamare imposizionidella moda. Ma cosí rubricando similiinibizioni, dimentichiamo che esse sonolette da chi vi soggiace come comanda-menti divini:

Come comprendere del resto que-st’arte se non muovendo dalle pro-fondità di una mistica religiosa, dalmomento che essa deve procedereinfine da questa e su questa anchesaldamente poggiarsi, altrimenti crol-la come la casa sulla sabbia?.24

24 Pp. 83–85.

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La debolezza di quest’arte, al limitedel vuoto concetto, deriva dall’essersisostituita all’idea religiosa, nutrendosisoltanto di immagini mistiche. Si tolgainvece l’impalcatura savonaroliana allaNatività della National Gallery di Bot-ticelli: resterà gran parte dell’opera. Manessuno potrebbe sostenere che la pit-tura del Quattrocento fiorentino non siacolta, lussureggiante di idee, semplice-mente che quella moderna di cui sentia-mo l’annuncio poggia soltanto su dei«geroglifici»; senza la spiegazione deiquali risulta un insieme di inutili enigmi,e piú tardi sarà fatta solo di concetti,ideine nella testa dell’autore, che po-trebbero perfino restarsene in mente sua.

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Il 13 gennaio del 1803, Runge confidaal padre che talvolta si sente attaccato:

«Lei non capisce niente d’arte»: mase anche fosse non mi resta altro cheprendere di qui le mie mosse. Ciò acui io do il nome di arte è in effettifatto in modo tale che se lo si doves-se raccontare tale e quale nessuno locomprenderebbe e io verrei ritenutopazzo, folle, sciocco.

La lettera è ricca di progettualità altiso-nante, non a caso si misura con il padre,ma vale la pena fermarci un po’ su questerighe. Tutti gli ‹innovatori› moderni,che per comodità possiamo chiamareavanguardisti, vengono all’inizio so-spettati di follia, mentre è certo che

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quando Giotto scioglie la fissità bizanti-na o Paolo Uccello introduce la pro-spettiva, pur rompendo con schemi se-colari, riempiono di ammirazione il loropubblico piuttosto che essere consideratida questo fuori di cervello. E gli stessimanieristi di cui si narrano estreme stra-vaganze, operano lunaticamente sulpiano biografico, l’opera non viene so-spettata di essere inutile gesto demente.Il fatto è che l’innovazione moderna ri-guarda non temi o stili quanto lo stessolavoro dell’artista e lo statuto dell’operad’arte. La piú sfrenata fantasia baroccafu infatti contenuta in una concezionemillenaria del quadro (o dell’affresco odella statua), ovvero nella oggettività

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della tela dei colori delle velature, di unlavoro che con impercettibili e infinitemodificazioni ripeteva un eterno sche-ma: a chi si era addestrato dalla fan-ciullezza nel rappresentare su un deter-minato materiale figure umane e paesag-gi naturali veniva commissionata la talescena storica o una vicenda biblica o pri-vata, e l’incaricato eseguiva di volta involta inventando la composizione, il ta-glio di quella scena, scegliendo i colori,la luce, la plasticità e nei casi piú eccelsianche il significato spirituale che quel-l’opera doveva sprigionare; ma ora è l’i-dea stessa di arte a cambiare di volta involta, diventando una fantasia soggetti-

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va che si esprime senza piú il freno dellatradizione.Sfrenata, dunque, folle, l’arte non è piúquella che è stata da sempre ma l’inven-zione che ciascun personaggio, auton-vestito di grazia, senza controprova ditalento e di perizia tecnica, inventa libe-ramente. «Ciò a cui io do il nome di ar-te», dice Runge, e propone una misticapanteista cui non basta piú il singoloquadro, che richiede l’opera totale; «ciòa cui do il nome di arte» dirà qualcun al-tro e proporrà la tela nera, e qualcun al-tro la tela bucata e basta, e il rifiuto delquadro, e un’idea virtuale di opera, unsegreto mentale. Il «libero gioco» diKant ne ha fatta di strada. L’estetica te-

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desca, soprattutto di timbro idealistico,l’ha trasformata in arte filosofica e su-bito dopo, si è confusa cosí tanto con ipensieri, che si è ridotta a metter in sce-na la sua morte. In questa voluttuosanecrofilia si presenta ormai da alcunidecenni, ma non si può escludere chequalcuno, piú fantasioso, ne decreti laresurrezione momentanea, sarebbesoltanto un cambio di segno, resterebbeinfatti la sfrenata soggettività con cuiun essere umano si autoproclama ar-tista e propone una qualsiasi sua fanta-sia sotto il nome di arte. Sacerdoziouniversale ma senza neppure un testosacro sul quale poggiare.

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L’ambizioso progetto veniva spiegatoda Philipp al padre: «conosco […] parec-chi giovani» disposti a eseguire il pianoepocale, ad Amburgo degli artigiani «po-trebbero crescere sotto la mia guida», esubito scatta una presuntuosa analogia:«una istituzione di questo genere assomi-glierebbe a quello che fu la scuola diRaffaello».25 Quando non si evoca GesúCristo e i suoi apostoli si vola diret-tamente ai massimi maestri del Rinasci-mento, o viceversa. Nel frattempo fa de-gli schizzi, «sono convinto che quandonella mia cartella ne avrò cinquanta po-trò considerarmi arrivato». Non è sol-tanto una posa tardo-adolescenziale per

25 Pp. 85–88.

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cui basta poco e si gioca all’artista, è so-prattutto che si mira a megalomani pro-getti, la realizzazione dei quali conta po-co; la tecnica cosí viene in ultimo, al pri-mo posto c’è una idea. In una successivalettera al fratello, scende nei molti detta-gli delle sue Tageszeiten. Il Giorno e laNotte si popolano di fiori animati, luce ecolori si caricano di significati simbolici.Due settimane piú tardi affiorano inun’altra lettera dei dubbi e delle preoc-cupazioni sull’«esito di queste fantasie»26

e, passata una decina di giorni, si dilungaancora sulla sua «incomprensibile pau-ra»,27 l’artista ora — come il soggetto

26 P. 90.27 P. 91.

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morale di Kant che dev’essere al contem-po giudice imputato e boia di se stesso —è committente, ideatore, esecutore, criti-co e sacerdote della sua arte. Del resto,non basta piú «eseguire secondo regola epratica», ma secondo l’indicazione evan-gelica di Matteo «cercate prima il regnodi Dio e la sua giustizia».

Si infittiscono allora le lettere ricol-me di simbolica, in cui Runge specula suinumeri e su geometrie mistiche, invocala musica e la Bibbia, per concludere il 6aprile del 1803:

non è stupefacente e vano quan-do gli artisti di oggi per pro-nunciare il nuovo usano le anti-

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che figure, gli dèi pagani e lepersone allegoriche

sí, da sempre gli artisti avevano dipintodèi, e quando giunse l’annuncio del Diounico e si affermò la religione cristiana,nessuno pensò di buttare a mare gli dèi ela figurazione pagana, appena si sfuma-rono le somiglianze e in un gioco dimascheramenti si trasformò le damedell’Olimpo nella ragazza ebrea di Na-zareth. Ora invece si voleva esclusi-vamente il mai visto, difficile anche dapercepire. Non a caso, qualche riga piúsotto Runge aggiunge: «Rivive in me ildesiderio di rileggere l’Apocalisse di Gio-vanni. Credo che non mi sarà, ora, vera-

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mente incomprensibile».28 Quale altrolibro prova a rivelare l’impossibile maivisto come quello supremo della Bibbia?Ogni annuncio avanguardistico, ogni‹manifesto›, ha un tono apocalittico cheRunge coglie per primo e con serietà.Solo negli ultimi giorni dell’umanità,quando le donne gravide invidieranno lesterili, si sradicheranno le abitudini del-l’umanità, a cominciare dalla prospet-tiva temporale che improvvisamente sichiude, e si potrà assistere veramente auno spettacolo del tutto inedito. Il maivisto allora non sarà un brivido di modaquanto il terrificante segnale di morte,anzi la visione propria dei morti. Ma

28 Pp. 98–101.

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guai a chi crederà ai falsi messia e alle fal-si apocalissi, rivelazioni ingannevolidell’Anticristo: si moltiplicheranno gliannunci dell’imminenza del giorno su-premo confondendo le trombe angeli-che con le réclames circensi del nichili-smo moderno.

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L’eremita del Baltico voltale spalle all’uomo

LA RELIGIONE, BIASIMATA NELLE CHIESE ENEI MONASTERI, RISPUNTA NEI MUSEI. ~ MA ÈUNA RELIGIONE PROTESTANTE, AVVERSARIADELLA SENSUALITÀ DEI «MIGLIORI ITALIANI»,CHE SI AFFERMA PROPRIO QUANDO I PASTORIDEL GREGGE LUTERANO PERDONO PESO IN-TELLETTUALE E MORALE, CONTESTATIDALL’ILLUMINISMO. ~ IL CASO DI CASPAR DA-

VID FRIEDRICH.

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orse l’insofferenza romantica perl’arte come si era sempre fattanasceva dal materialismo sette-

centesco, scaduto spesso in stucchevoleprosa. Ed ecco che riecheggiando le an-sie di Runge, morto prematuramente, ilmassimo rappresentante del romantici-smo in pittura, Caspar David Friedrich,solitario che sarà preso a modello daisuoi tanti epigoni, osservare:

F

può la pittura, o qualsiasi altra formaartistica, venir esaurita, o non mori-rebbe come arte se ad essa non potes-se venir posto un fine piú alto?29

29 C. D. Friedrich, Äußerung bei Betrachtung einerSammlung von Gemälden von größtenteils nochlebenden und unlängst verstorbenen Künstlern, trad.it. Scritti sull’arte, Milano, 1989, p. 38.

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Noi, con l’esperienza degli ultimi duesecoli, potremmo rovesciare la domanda:porre un fine troppo alto non ha forseprovocato la morte dell’arte?

Ancora una volta, è un comando reli-gioso a intimare ai suoi contemporanei diessere moderni:

nessuno ha il potere di frenare la no-stra grande epoca fatale, l’epocadell’inquietudine e delle trasforma-zioni che si manifestano in tutti icampi, dalle arti alle scienze, giacchéDio stesso l’ha originata e la porteràdunque a compimento. Combattere ilproprio tempo significherebbe dun-que rivoltarsi contro l’Onnipotente,la qual cosa è lontana da me.30

30 Ivi, p. 39.

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Léon Bloy polemizzerà con il conte deMaistre con argomenti non dissimili:«non aveva capito che nel 1789 Dio avevacambiato la faccia del mondo». Dio cheaveva garantito i tempi lenti del feudalesi-mo con il suo carattere di eternità, adessoveniva invocato dai credenti nella storia,in una pericolosa identificazione con essa.Dove era però scritta la fatalità dell’epo-ca? Non appariva una tentazione satanicaverso il peccato di superbia per cuil’inquietudine di sempre diventava segnodi una catastrofe cosmica?

La storia detta dei precetti estetici chese fossero impartiti dalle accademie di bel-le arti susciterebbero scandalo, la storia sifa megafono della volontà divina, la storiaimpone i temi all’arte anche nei quadri che

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storici non sono. Quando Friedrich dipin-ge una chiesa in rovina, si giustifica:

è svanito il tempo della magnificen-za dell’edificio sacro e dei suoi mini-stri, e dall’insieme in rovina è comesorta un’altra epoca e un’altra neces-sità di chiarezza e di verità.31

Che cosa diverrà mai l’arte se rifiuta la«magnificenza» a vantaggio di rovine eframmenti? Se la consolazione che hafino ad allora rappresentato diventa for-ma luttuosa (non conforto del lutto),costruzione sinistra, memento mori senzaresurrezione della carne e soprattuttosenza carne e sangue, senza forma sen-suale, puro concetto macabro?

31 Ivi, p. 42.

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Friedrich, l’eremita romantico, non te-me di confrontarsi anche con l’aspetto so-ciologico della faccenda. Il numero deglistudenti di arte cresce sempre piú, che nesarà di loro quando entreranno nella pro-fessione? Il fattore quantitativo diventad’altronde un elemento essenziale dellacrisi dell’arte tradizionale. Fuori del nu-merus clausus delle botteghe d’arte, dive-nuta una libera professione, dove non siviene selezionati in base al talento ma ac-colti per libera volontà di ‹essere artisti›; ènaturale poi che questo esercito di pittori,scultori, architetti combatta la sua primabattaglia nella concorrenza, e si forminoperciò battaglioni di avanguardia che conteorie e pratiche stravaganti si voglionodistinguere dal resto delle truppe. «Alla

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base di tutto ciò non c’è forse un’ambizio-ne sbagliata?» si chiede Friedrich. Neitanti nuovi mestieri che stanno rubandole braccia all’agricoltura — come si dice-va un tempo, quando appunto l’agricoltu-ra imperava — avanza ora anche quellodell’artista. Nel giro di due secoli, imestieri ‹creativi› incideranno notevol-mente nelle percentuali delle popolazionioccidentali, con un indotto che gareggiacon la vecchia industria pesante, in un in-treccio con moda, media, turismo, ecc.Ma questo è il nostro tempo. Nel primoOttocento, ci si domandava ancora:«Bisogna ricorrere alla massa, a un eserci-to di pittori, per promuovere l’arte?».Nella interminabile guerra all’arte tradi-zionale, nelle battaglie per il nuovo asso-

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luto che si ingaggiano dal romanticismoin poi, c’è pronto un esercito di artisti:

io chiedo, e lo faccio con particolareinsistenza, si crede davvero che sipossa inculcare in un uomo la ragio-nevolezza attraverso l’insegnamentodelle regole e la meccanicità degli e-sercizi, quando la natura gli ha rifiu-tato predisposizione e inclinazione?32

Domande ingenue, cui Friedrich aggiungecon maggiore innocenza: non sarebbe me-glio che questa gente senza talento si pre-parasse a divenire abili uomini d’affari? Idue mestieri diverranno uno solo nell’artedi domani.

32 Ivi, pp. 43–44.

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Se l’eremita parla di questioni sociali èperché vi intravede profeticamente i segnidel tempo, e Dio nell’epoca romantica simanifesta nella storia. Friedrich sembrameno radicale di Runge, quantomeno sen-za megaprogetti sull’essenza dell’arte, li-mitandosi a dipingere un quadro che èancora un quadro e che al massimo fuorie-sce sulla cornice per esuberanza magma-tica. Però si tormenta anche lui sul fattoche non si possa tornare indietro, neppure sesi fosse Raffaello redivivo, perché si è figlidel proprio tempo e questo tempo moder-no impone di separarsi dal passato, difrantumare la continuità delle generazionie di credere solo al futuro, futuro che inun attimo è già nei rifiuti del passato, se-condo la grande intuizione di von Baader.

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«Ogni epoca imprime a tutto la sua im-pronta», il marchio di una finora scono-sciuta schiavitú viene imposto dal roman-ticismo all’umanità occidentale. Di questalotta mortale con il passato, Friedrichparla con parole chiare:

Si combatte una guerra eterna con-tro il tempo, giacché laddove nelmondo qualcosa di nuovo cerca di as-sumere forma, per quanto sia vero ebello viene contrastato dal vecchio,dall’esistente e solo con la lotta e lacontesa può farsi spazio e affermarsi,finché non subirà l’assalto di qualco-sa di piú nuovo, a cui dovrà cedere.33

Il mulino del tempo tutto macina, l’ar-te che sembrava echeggiare l’eternità del

33 Ivi, pp. 47–48.

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divino si fa ora effimera schiava del tem-po, ma non del presente, che solo in quan-to immagine quotidiana dell’eternità po-trebbe avere una sua chance, schiacciatoinvece nella battaglia tra vecchio e nuovoche carica di ansia perfino l’istante. Loscontro degli adolescenti con i loro padridiventa allegoria di una umanità che ro-manticamente si maschera da adolescente,falsi giovinetti, trucco sfacciato e parodi-stico, per cui si dimentica o si dileggia lasapienza di secoli, e si ricomincia ognigiorno da capo, contro i padri, senza piúdiventare padri, senza generare, perché leopere sono votate a quell’«assalto di qual-cosa di piú nuovo», come dice Friedrich,che sicuramente le annienterà.

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Friedrich è dubbioso nella teoriaquanto è sicuramente innovativo nell’o-pera. Diffidente verso chi si autoprocla-ma sacerdote del nuovo, vorrebbe con-ciliare ancora la semplicità del mestierecon l’attuale peso sociale che ha ac-quistato l’arte. Se si chiede come possaparlarsi di ‹progresso dell’arte›, rispon-de negativamente, ma poi si confondecon questa pazza corsa del tempo per cuiil meglio sta sempre dopo. Ricorre alloraa un obiettivo non troppo radicale, digenere: la pittura dei nostri tempi saràquella di paesaggio. Cosí decretavanoanche altri, cosí suonava bene in tedescodove si era rimasti folgorati dalle inter-pretazioni goethiane della natura. Pun-

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tare sul paesaggio voleva dire mettere daparte la figura umana, o rimpicciolirla atal punto, come farà proprio Friedrich,da tornare alle gerarchie medievali nelleproporzioni, girando definitivamente lespalle alla prospettiva rinascimentale e alsuo umanesimo sotteso. Ma era anche unsegno dello strano panteismo che avevatravolto l’antica arte dei giardini e pro-dotto la teologia neopagana che piú cor-rode il cristianesimo rivelato e che siaffermerà nel comune sentire. SenzaGoethe, però, e neppure Campanella eBruno, che ebbero pochi seguaci tra ipittori, e non fosse altro che per motivicronologici, l’arte del Quattrocento fio-rentino, o quella ‹lombarda› di Leonar-

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do e dei suoi seguaci, per non dire di Dü-rer, avevano già mostrato i segreti di unanatura sottratta al materialismo e filtratain un cristianesimo ‹eretico› che pur sa-peva distinguersi dal paganesimo. Nel-l’entusiasmo per la riscoperta ci si di-mentica dei celebri precedenti e sembradi assistere all’avvento di un’arte piú spi-rituale di quella che ritraeva gli umani ole scene storiche, perfino piú sacra diquella che metteva in scena Gesú e i suoisanti. I paesaggi si caricano di grandi va-lori, l’«infinito orizzonte» che con-tengono rimanda direttamente a Dio.

Friedrich può meravigliarsi allora dicoloro che «dipingono sempre il tersocielo italiano, libero da foschia, nella cui

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luce persino gli oggetti piú distanti sem-brano piú vicini», accorciando magari ladistanza incerta che è segno del Dio ro-mantico. Già, per secoli si dipinsero i-talici cieli tersi, o turgidi di nubi leggeree dorate che si facevano nere e minac-ciose soltanto negli sfondi delle crocifis-sioni o nelle anticipazioni delle immagi-ni apocalittiche. D’ora in poi, cieli scurie nordici, e piogge e asfalti bagnati nelleinnumerevoli scene impressioniste,rompendo anche in questo aspetto tema-tico con vecchie abitudini: i paesaggi chedovremo avere sempre davanti agli occhiservono ad allietare la vita nella nostravalle di lacrime, conviene che siano im-magini solari, squarci di felici esistenze,

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possibilità di rivivere dei dettagli di pa-radisi in terra — e l’Italia era edenicaper eccellenza —, non permettendosil’arte figurativa quel gusto macabro chepure è consentito alla letteratura e inmodo particolare alla poesia che può ci-vettare con il tetro, perché poi si chiudeil libro mentre l’opera della pittura se nesta perennemente davanti a noi, e solo ibarocchi osarono ripetere il mementomori anche in quadri non devozionali,facendoci sospettare che in quell’epocail gusto del corpo si estendeva ad assa-porarne con piacere anche il momentodella decomposizione, frutto di una fe-de, dalla forma oramai perduta, nellaresurrezione della carne.

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Parlando dell’altro polo della pitturaromantica tedesca, di quello dei Naza-reni fiorito a Roma, Friedrich, già con iltono polemico incandescente delle futu-re avanguardie, attacca duramente la fa-zione opposta.

Non è disgustoso e nauseante vedereesangui Madonne tenere in braccioGesú Bambini affamati, le cui vestisembrano fatte di carta? Va inoltredetto che l’insieme è spesso delibe-ratamente mal disegnato, con volu-te infrazioni alle regole della pro-spettiva lineare ed aerea. Tutti gli er-rori dell’epoca precedente vengonoscimmiottati, ma il valore di quelleopere, il sentimento profondo, de-voto e infantile che le anima, non

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può certo venir imitato meccanica-mente, e questo non riuscirà mai adegli ipocriti, per quanto abbianoperfezionato la simulazione sino alpunto di farsi cattolici.34

Friedrich svela gli artifizi della primaavanguardia storica (o preistorica, inquanto molto distante dal Novecento).Benché questa si voglia semplice espontanea, nient’altro che un ritorno alpassato religioso, alla tradizione, cela uninsopprimibile artificio, in quanto il re-trocedere è una simulazione, una messain scena, un primitivismo esibito in chia-ve estetica, una religiosità che ricorre al-la filosofia dell’arte. La simulazione si è

34 Ivi, p. 58.

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perfezionata al punto da convertirsi alla‹religione bella›, ma la differenza tracattolicesimo e protestantesimo sta pro-prio nel resistere, da parte del primo, al-le sollecitazioni romantiche. Dal puntodi vista luterano, la critica di Friedrichinveste l’infantilismo di ritorno: i nostriavi erano veramente candidi come bam-bini e potevano accettare i misteri litur-gici e il culto delle immagini, ma adessocome si fa a mantenere un tale abito for-zatamente infantile?

Se persone adulte facessero i loro bi-sogni nella stanza come i bambini,questo non verrebbe certo giudicato

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favorevolmente né tanto meno ac-cettato.35

Il paragone è pesante, diventare cattoliciper artifizi estetici sarebbe come defe-care in pubblico, atto di demenza cui sipiegano i pazzi dichiarati, come Nie-tzsche dopo la crisi di Torino. Ma Frie-drich sembra non prevedere quell’infan-tilismo dichiarato e militante che giàRunge ideava e che tutte le avanguardieo quasi tenteranno di conquistare. In-fanzia sta letteralmente per coloro chenon parlano ancora, che sono ai balbet-tamenti, alla comunicazione prelogica.L’arte nuova partirà da questo stadio, eove non fosse in grado di raggiungere un

35 Ivi.

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verosimile livello infantile, se insommala scrittura automatica o altre trovatenon garantissero l’assoluta in-fanzia etradissero folgorazioni razionali, le dro-ghe permetterebbero l’impossibilità diragionare, il primitivismo coatto. Farsipiccoli come infanti attraverso le solu-zioni chimiche per una iniziazione mo-derna che consenta di conquistare il Re-gno dei Cieli.

L’eccessivo ricorso al colore, secondoFriedrich, rispecchia il suo tempo:«Ognuno vuole imporsi con violenza,ognuno vuole superare l’altro»,36 magarianche nella nobile gara di chi è piú spiri-tuale, di chi non si lascia irretire dalla

36 Ivi, pp. 58–59.

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meccanica verosimiglianza. Ma il risul-tato è che il colore grida, che l’operaconosce soltanto il tono dionisiaco, ver-gognandosi delle delicatezza apollinee,che si gareggia nei radicalismi, che laviolenza si trasfigura in arte o megliol’arte si riduce a gesto violento, sulla te-la e piú tardi sulla scena della perfor-mance. Il dubbioso artista pomerano saricordare, non si è piegato a tal punto da-vanti agli imperativi dei contemporaneida dimenticare le opere di un tempo, illoro fulgore. Eppure è cosí folgorato dal-la nuova voga spiritualista, dai comanda-menti etici interiori, da risolversi allafine nel preferire l’idea dell’opera al suoaspetto materiale. Egli lamenta infatti

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che spesso viene criticato chi «sa stimola-re lo spirito e suscitare nell’osservatoreriflessioni e sentimenti», mentre «troppospesso giudicano il valore di un quadrosolo in base al grado di perizia e di abili-tà nell’uso del pennello, nel trattamentoe nell’applicazione del colore». Ebbene,bisognerebbe tener presenti i due cornidella ricerca artistica ma, ammette, «sedovessi scegliere, preferirei annoverarmitra i primi».37

In un’altra pagina tornerà sull’argo-mento: c’è chi crede che

il pittore deve limitarsi a dipingere,non deve volere! […] Io dichiaroapertamente e liberamente che mai e

37 Ivi, pp. 59–60.

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poi mai potrò concordare con una si-mile concezione.38

Del resto una simile concezione riporte-rebbe alla situazione del pittore artigiano,mentre in cuor suo l’artista si convinceoramai di essere ispirato direttamente daDio e di parlare in suo nome all’umanità.

Devo ripetere quello che ho già det-to piú volte, ossia che l’arte non è, enon dev’essere, unicamente abilitàtecnica […]. È invece necessario chesia il linguaggio della nostra sensibi-lità, del nostro modo di essere, lanostra devozione e la nostra pre-ghiera.39

38 Ivi, p. 67.39 Ivi, p. 79.

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Se il filosofo dice un po’ cinicamente chela nostra preghiera mattutina è diventatala lettura dei quotidiani, l’artista ancorauna volta sembra salvare il delicato aspet-to del sacro, la nuova preghiera perciò sa-rà la recezione dell’arte, la contemplazio-ne di un quadro romantico. Quando qual-cuno sostiene che

sia un bel viso […] che un bel dereta-no sono soggetti degni per l’artista,essendo entrambi parte della natura,e il Creatore si rivela all’uomo attra-verso la bellezza…

Friedrich tiene subito a dire che «questaopinione sull’arte» che corrisponde

a quella dei migliori greci e dei mi-gliori italiani, confesso che non mi

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aggrada. Da un’opera d’arte io esigoelevazione dello spirito e impeto re-ligioso...40

La religione che viene dannata nelle chie-se e nei monasteri deve rispuntare nei mu-sei. Una religione protestante, certo, av-versaria della sensualità dei «migliori ita-liani», che si afferma mentre i pastori delgregge luterano perdono peso intellettua-le e morale, contestati dall’illuminismo.Una libera interpretazione della naturache prende il posto di quella del testo sa-cro, una ricostruzione soggettiva dellaspiritualità affidata ai pittori. E fuori dallechiese Friedrich dipinge il suo Crocefisso,icona di un nuovo culto.

40 Ivi, p. 81.

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Epilogo. — La commistione reli-gione-arte raggiunse il massimo, come ènoto, nella filosofia di Schelling. In undiscorso pronunciato a Monaco di Ba-viera sul rapporto tra Le arti figurative ela natura, il teorico idealista mostravacome ormai la vecchia tecnica dei pittoriservisse addirittura a concedere agli u-mani l’unica esperienza di immortalità,quella in qualità di spettatori, davanti aun quadro che sottrae, appunto per mi-racolo estetico, l’attimo alla morte. Seogni prodotto della natura

possiede per un solo istante la verabellezza perfetta, possiamo allora di-re anche che possiede per un soloistante la pienezza dell’esistenza. Es-

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so è in questo istante ciò che è in tut-ta l’eternità: al di fuori di quell’istan-te lo attende solo il divenire ed il pe-rire. L’arte, rappresentando l’essenzain quell’istante, la sottrae al tempo;la fa apparire nel suo puro essere,nell’eternità della sua vita.41

In mancanza di altra, piú certa, immor-talità.

Quando la carne sembra destinata alladissoluzione, si afferma questa fugace vi-sione dell’immortalità, per cui l’arteblocca, come Giosuè, il tempo nei limitidi un quadro. Ne deriva però un’artemolto malinconica che trapela perfino

41 Fr. W. Schelling, Ueber das Verhältnis der bilden-den Künste zur der Natur, trad. ital. Le arti figura-tive e la natura, Palermo, 1989, p. 52.

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nel tema neutro dei paesaggi. Del resto,Et in Arcadia ego: cosí parlava la Mortein un paesaggio ‹classico› di Guercino.Rendere viva una natura morta è benmagra soddisfazione se il quadro divienel’unica speranza di sopravvivenza ed èperciò caricato di significato smisurato.Unico accesso all’Infinito. Un uso stru-mentale della pittura, un soterismo pervia estetica, dove il pittore naturalmen-te deve badare a cogliere l’attimo e tra-sformarlo in eternità, sacerdote o ma-go. Eppure,

certo, non ritornerà mai piú un’arteche, sotto tutti gli aspetti, sia la stes-sa di quella dei secoli precedenti,

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giacché la natura non si ripete mai.Non ci sarà mai piú un Raffaello

e per raggiungere «la vetta dell’arte inun modo altrettanto originale» ci sarà bi-sogno di «una nuova fede».42 Della poe-sia non si sarebbe detto alla stessa manie-ra: Goethe era lí a smentire quanti aveva-no affermato che l’età dell’oro di Omeroe di Shakespeare era per sempre termina-ta. E la musica, con Beethoven, si presen-tava autentica arte dell’avvenire, senzaperò rompere con la tradizione di Haydne di Mozart, sempre piú assoggettando ca-somai le arti figurative fino al punto difarle astratte come lei, sottoposte alla suapreminenza gerarchica.

42 Ivi, p 71.

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È allora l’arte sensuale, la raffigura-zione dei corpi che pare avviarsi al tra-monto, dal momento che la credenzanella «resurrezione della carne» contra-sta con la fede moderna nello spirituali-smo. Ormai l’ateismo si combatte sem-pre a colpi di spiritualismo, perciò ilprimo risulta sempre vincitore. Arte eGrazia, arte in ogni aspetto sacra, dun-que. A un drappello di pittori tedeschiSchelling affidava il compito di far sor-gere l’arte nuova e la nuova fede, e sem-brava annunciare profeticamente lacongrega dei Nazareni:

Chi può negare che negli ultimitempi sia apparsa di nuovo nel-l’arte tedesca una sensibilità mol-

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to piú libera e originale che, setutto andasse per il meglio, ali-menterebbe grandi speranze ecreerebbe l’attesa di una spiritua-lità in grado di aprire nell’arte lastessa via, piú alta e piú libera,che la poesia e le scienze avevanopercorso, e sulla quale soltantopotrebbe germogliare un’arte chepotremmo definire veramente no-stra, cioè un’arte dello spirito edelle forze del nostro popolo e del-la nostra epoca?43

A udire simili annunci, sulle rive delMediterraneo, si saranno provati già alloradei brividi di paura.

43 Schelling, «Geschichte der zeichnenden Künste»in Le arti cit., p. 87.

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Elenco dei volumi pubblicati in questa collana.

1 AA. VV. — Indagini su Epimeteo tra Ivan Illich, Konrad Weisse Carl Schmitt.

2 Claudio D’Ettorre (Omar Wisyam) — Giorgio Cesarano e lacritica capitale.

3 AA. VV. — Mario Praz faber.

4 Fabio Brotto — Rileggendo Simone Weil.

5 Almanacco Romano — Storia della «Religione dell’arte».

6 Rodolfo Papa — Le ragioni dell’arte.

7 AA. VV. — Figure adelphiane. Cristina Campo, Furio Jesi, Ja-cob Taubes, Simone Weil.

8 Stefano Borselli — Raccolta 1985-2000.

9 Lothar Meggendorfer — Le nuove tabelline.

10 Alfred Tennyson — La dama di Shalott.

11 Lewis Carroll — La cerca dello Squallo.

Elenco aggiornato a www.ilcovile.it/pdf.htm.

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ornamenti, i Fell Types di Igino Marini, per i capi-lettera & decori, vari di Dieter Steffmann

& altri.

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