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BIBLIOTECA DELLA SOCIETÀ APERTA STUDI E RICERCHE 6 “Democrazie difficili” in Europa, Asia, Nord Africa e Medio Oriente: competizione partitica, conflitti e democratizzazione a cura di Diego Abenante

6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

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Euro 18,00

Diego Abenante is Associate professor of Asian History at the Department of Political and Social Sciences of the University of Trieste. He is interested in the history of Islam in South Asia and in the modern politics of India and Pakistan.

I saggi raccolti nel presente volume sono il frutto del lavoro di un gruppo di ricerca interdisciplinare presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste sul tema della democrazia e della sua evoluzione nei paesi di recente transizione politica. Lo scopo della ricerca era di esplorare, in una prospettiva comparata, la struttura della competizione politica e il conso-lidamento di alcune democrazie in Europa orientale, Asia meridionale, Africa mediterranea e Medio Oriente, dopo le recenti rivoluzioni e instaurazioni democratiche. Il volume si compone di tre sezioni tematiche. La prima, intitolata “La politica tra le nazioni”, tratta due casi distinti, ancorché interconnessi, di difficile consolidamento democratico in Spagna e in Polonia e un saggio sulla politica estera statunitense verso le cosiddette “democrazie difficili”. La seconda sezio-ne, dal titolo “Globalizzazione e integrazione sovranazionale” sposta il filo del discorso verso le interconnessioni economiche e giuridiche internazionali. La terza sezione del volume è invece dedicata al tema del ruolo svolto dalle istituzioni militari nei processi di democratizzazione. Pur nella loro diversità di approcci e di metodi d’indagine, i saggi raccolti nel presente volume offrono delle analisi che riconducono a una serie di questio-ni comuni: come interpretare la stabilità di una democrazia e la sua capacità di mantenersi tale nel tempo? Quali fattori interni e internazionali ne in-fluenzano la coesione e la capacità di rinnovamento? Quali sfide incontrano le democrazie nei processi di globalizzazione e integrazione sovranazionale?

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BIBLIOTECA DELLA SOCIETÀ APERTA

STUDI E RICERCHE 6

6 “Democrazie difficili” in Europa, Asia, Nord Africa e Medio Oriente:competizione partitica, conflitti e democratizzazionea cura diDiego Abenante

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BIBLIOTECA DELLA SOCIETÀ APERTA

STUDI E RICERCHE 6

Page 3: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

impaginazioneGabriella Clabot

© copyright Edizioni Università di Trieste, Trieste 2019.

Proprietà letteraria riservata.I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, diriproduzione e di adattamento totale e parziale di questapubblicazione, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm,le fotocopie e altro) sono riservati per tutti i paesi.

ISBN 978-88-5511-074-7 (print)ISBN 978-88-5511-075-4 (online)

EUT Edizioni Università di Triestevia Weiss 21, 34128 Triestehttp://eut.units.ithttps://www.facebook.com/EUTEdizioniUniversitaTrieste

BIBLIOTECA DELLA SOCIETÀ APERTAStudi e ricerche

DIREZIONE EDITORIALE / EDITORSDiego Abenante, Serena Baldin, Giuseppe Ieraci, Luigi Pellizzoni

COMITATO SCIENTIFICO / SCIENTIFIC BOARDMatthijs Bogaards (Jacobs University Bremen), Bernardo Cardinale (Università di Teramo), Danica Fink-Hafner (University of Ljubljana), Damian Lajh (University of Ljubljana), Luca Lanzalaco (Università di Macerata), Liborio Mattina (già Università di Trieste), Leonardo Morlino (Luiss Guido Carli Roma), Lucio Pegoraro (Università di Bologna), Guido Samarani (Università Ca’ Foscari Venezia), Michelguglielmo Torri (Università di Torino), Luca Verzichelli (Università di Siena)

logo design: Pierax

Opera sottoposta a peer review secondo il protocollo UPI – University Press Italiane

Il presente volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Triestetramite un progetto FRA (Finanziamento di Ateneo per la Ricerca) 2016-2018.

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“Democrazie difficili” in Europa, Asia, Nord Africa e Medio Oriente:competizione partitica, conflitti e democratizzazione

a cura diDiego Abenante

EUT EDIZIONI UNIVERSITÀ DI TRIESTE

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Diego Abenante

7 Introduzione

Prima sezione – La politica tra le nazioni

Anna Bosco

15 Dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della Spagna

Fabio Fossati

39 Obama’s and Trump’s foreign policies towards “difficult democracies”

Cesare La Mantia

65 La lotta politica durante la transizione della Polonia da nazione divisa

a Stato sovrano

Seconda sezione – Globalizzazione e integrazione sovranazionale

Lucio Franzese

101 Su democrazia e diritto nella società globalizzata

Alessia Vatta

119 La politica commerciale dell’Unione Europea e le “democrazie difficili”:

riflessioni su tre Stati del Medio Oriente

Terza sezione – I militari e i regimi politici

Diego Abenante

139 Le relazioni civili-militari negli anni formativi dello Stato pakistano:

l’influenza dei fattori nazionali e internazionali

Federico Battera

169 Stabilità, regimi e il fattore militare in Nord Africa

Giuseppe Ieraci

209 Pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia. Istituzionalizzazione

e persistenza dei regimi politici

Indice

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Introduzione

I saggi raccolti nel presente volume sono il frutto del lavoro di un gruppo di ricer-

ca interdisciplinare presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’U-

niversità di Trieste sul tema della democrazia e della sua evoluzione nei paesi di

recente transizione politica. Lo scopo della ricerca era di esplorare, in una pro-

spettiva comparata, la struttura della competizione politica e il consolidamento

di alcune democrazie in Europa orientale, Asia meridionale, Africa mediterranea

e Medio Oriente, dopo le recenti rivoluzioni e instaurazioni democratiche.

Il volume si compone di tre sezioni tematiche. La prima, intitolata “La po-

litica tra le nazioni”, tratta due casi distinti, ancorché interconnessi, di difficile

consolidamento democratico in Spagna e in Polonia e un saggio sulla politica

estera statunitense verso le cosiddette “democrazie difficili”. Il saggio a firma di

Anna Bosco prende in considerazione il caso, di grande interesse, di evoluzione

inversa della democrazia spagnola da una “granitica stabilità politica” verso l’elec-

toral epidemic del periodo 2015-19, caratterizzata da “elevata frammentazione del

parlamento, polarizzazione tra le forze politiche e affermazione di nuovi compe-

titori anti-establishment”. L’autrice delinea i punti di contatto di questo scenario

con altri sistemi politici del sud Europa. Si sofferma in particolare sul tendenzia-

le cambiamento dei processi costitutivi dei governi, causato dalla mancanza di

un’affermazione chiara delle forze politiche e dalla crisi dei partiti mainstream,

DIEGO ABENANTE

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accompagnate dall’emergere di nuove forze politiche con ambizioni nazionali. Il

saggio percorre le tappe di quest’evoluzione verso l’instabilità governativa, carat-

terizzata dalla formazione di governi di minoranza di breve durata. Nel comples-

so, il sistema politico spagnolo dopo il 2015 presenta aspetti di forte frammen-

tazione e di polarizzazione che, anche alla luce delle elezioni del 2019, pongono

un deciso interrogativo sulle prospettive di un ritorno della democrazia spagnola

verso la governabilità del passato.

Il secondo saggio della sezione, a firma di Fabio Fossati, allarga lo sguardo

in chiave geografica e concettuale, analizzando il rapporto tra politica interna

e cambiamento della politica estera negli Stati Uniti, nel passaggio dalla presi-

denza Obama a quella Trump. L’autore delinea i legami esistenti tra le principa-

li culture politiche e i modelli di diplomazia, per poi procedere ad analizzare la

diplomazia statunitense nel quadro delle tre linee dominanti di politica estera:

conservatrice, liberale e costruttivista. Il dato essenziale evidenziato dall’autore è

il sostanziale abbandono da parte di entrambe le presidenze delle ambizioni di

governo mondiale. La diplomazia “soft” seguita dalla presidenza Obama avrebbe

portato a una diminuzione dell’influenza statunitense nella regione mediorien-

tale e asiatica, mentre durante la presidenza Trump (almeno fino ad oggi) l’in-

fluenza americana sarebbe stata più incisiva, nonostante la mancanza di coeren-

za. Un dato comune, nota l’autore, è che la politica statunitense è stata di recente

molto più influenzata dai poteri regionali (in particolare l’Arabia Saudita e l’Iran)

che in passato.

Il saggio di Cesare La Mantia affronta un tema più focalizzato geograficamen-

te ma esteso sul piano temporale, che esplora l’uso della violenza, in particola-

re quella nei confronti delle minoranze, nel quadro dell’evoluzione politica in

Polonia dopo il primo conflitto mondiale agli anni venti del novecento. Anche

nel caso polacco, come in altri contesti studiati dal presente volume, la diffusione

delle ideologie, in questo caso l’influenza della rivoluzione russa, provoca una

forte instabilità che si traduce in violenti cambiamenti politici. Una peculiarità

del caso polacco, ben descritta dall’autore, è la tendenza alla trasformazione dello

scontro politico in violenza inter-comunitaria. Cosi l’emergente nazionalismo

polacco finisce per evidenziare quei tratti di odio razziale e di antisemitismo che

caratterizzarono una fase travagliata dell’evoluzione dello Stato polacco.

La seconda sezione, dal titolo “Globalizzazione e integrazione sovranaziona-

le” sposta il filo del discorso verso le interconnessioni economiche e giuridiche

internazionali. Il lavoro di Lucio Franzese verte sulle sfide che la globalizzazione,

con i suoi cambiamenti indotti soprattutto dalla tecnica e dall’economia, presen-

tano per la democrazia e per l’applicazione del diritto. L’autore pone la questione

se l’assetto tra mondializzazione economica e diritto sia rimesso in discussione

dagli “aspetti patologici della globalizzazione”, evidenziati dall’unificazione dei

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mercati. Il saggio risponde ponendo una rinnovata enfasi sulla “scaturigine so-

ciale del diritto” più che su un “nuovo monopolio statale” della produzione giuri-

dica. La riscoperta della dimensione sociale rispetto ad un’enfasi dogmatica sulla

statualità, secondo l’autore, deve portare a far leva sul paradigma giuridico della

sussidiarietà e sull’autonomia personale.

Il saggio a firma di Alessia Vatta analizza la politica commerciale dell’Unione

Europea verso tre Stati del Medio Oriente: Giordania, Israele e Libano. Ricostruite

le linee principali della politica euro mediterranea dalla metà degli anni novanta,

l’autrice discute la relazione esistente tra le politiche esterne – in particolare gli

accordi commerciali – dell’UE e la garanzia dei principi del diritto internazionale

e della Carta delle Nazioni Unite sul rispetto dei diritti umani, della democrazia

e dello sviluppo sostenibile. Su questa base, nonostante i principi, si nota una

mancanza di coerenza interna nella politica estera dell’UE. In alcuni casi, come

in quello della Giordania, nota l’autrice, gli accordi stipulati dall’UE conterreb-

bero clausole deboli su temi come la libertà di associazione e la contrattazione

collettiva. In generale, i fattori politici interni sembrano essere ancora molto ri-

levanti nel determinare il grado effettivo di apertura economica. Tuttavia, vi sono

segnali incoraggianti che indicano come, dopo il 2015, siano emersi processi di

riforma a seguito di accordi commerciali nel campo della tutela della salute, della

sicurezza e dei diritti dei lavoratori. Secondo l’autrice, il principio seguito dall’UE

di “pace attraverso il commercio” deve essere accompagnato da una politica più

decisa sul rapporto tra diritti umani e prosperità, soprattutto insistendo sull’in-

serimento di clausole sociali e sui diritti.

La terza sezione del volume è invece dedicata al tema del ruolo svolto dal-

le istituzioni militari nei processi di democratizzazione. Il saggio di Diego

Abenante affronta il caso del pretorianesimo o interventismo militare in Asia

meridionale, con particolare riferimento allo Stato pakistano nella sua fase

formativa. L’autore evidenzia alcune peculiarità storiche del militarismo pa-

kistano rispetto ai casi più noti di pretorianesimo nel mondo afro-asiatico.

Pone altresì in luce come i militari pakistani abbiano costruito il proprio ruo-

lo dominante dopo il 1947 basandosi, in parte, sui propri tradizionali ruoli di

garanti della sicurezza nella regione e sfruttando la cultura politica coloniale,

ma altresì attraverso una capacità di costruire un nuovo ruolo pubblico per le

forze armate. L’autore rileva come il discorso militare pakistano si sia impo-

sto come dominante per una combinazione di fattori interni (debolezza isti-

tuzionale), regionali (percezione di vulnerabilità vis-à-vis la potenza indiana) e

internazionali (i rapporti privilegiati tra i militari pakistani e gli Stati Uniti).

Quest’ultimo fattore, secondo l’autore, avrebbe garantito alle forze armate dal

1954 in avanti l’accesso ad una fonte di finanziamento autonomo, garantendo

il dominio del fattore militare.

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Il saggio di Federico Battera si muove su una linea di discussione affine,

analizzando il rapporto tra stabilità politica e fattore militare in Nord Africa

dopo le “primavere arabe” del 2011. L’autore traccia un bilancio di questi rivol-

gimenti politici, notando come quasi nessuno tra questi casi abbia condotto

a una sostanziale apertura dei regimi politici, a eccezione di quello tunisino.

L’autore analizza la struttura di potere dei regimi negli autoritarismi militari

arabi, concentrandosi sui casi algerino ed egiziano. Sulla base di quest’anali-

si, l’autore rileva una sostanziale continuità del ruolo dei militari nei due casi

analizzati, nel loro rapporto con il potere civile. Rimangono comunque delle

differenze, legate al ruolo più “defilato” dell’apparato militare algerino rispet-

to a quello egiziano; il dominio strutturale dei militari nei gangli della società

e dell’economia in Egitto, anche nel periodo post-Mubarak, rimane peculiare.

Riguardo al ruolo dei militari rispetto al sistema dei partiti, l’autore nota che,

a dispetto di una somiglianza apparente, Algeria ed Egitto evidenziano impor-

tanti differenze. L’esercito egiziano riesce infatti a esercitare ruoli di controllo

burocratico e di governo locale, mentre i militari algerini costituiscono piutto-

sto un’ “enclave” che agisce tramite un ruolo indiretto.

Questa sezione si conclude con il saggio di Giuseppe Ieraci, che chiude il

volume, dedicato ai rapporti tra pretorianesimo, patrimonialismo e democra-

zia in Medio Oriente e Nord Africa. L’autore discute criticamente le principali

teorie sul tema, con particolare riferimento al contributo di Eva Bellin sulle re-

lazioni civili-militari nei regimi pretoriani. Ricordati gli elementi principali

della dicotomia “democrazia-non democrazia”, si evidenzia la possibilità per

i regimi autoritari, nonostante la loro debolezza costitutiva, di garantire la

propria continuità tramite la cooptazione e la repressione delle opposizioni.

Estendendo la teoria di Huntington sull’istituzionalizzazione politica dei re-

gimi ai sistemi non democratici, l’autore nota che il regime militare e quello

patrimoniale si manifestano in politica quando questa non dispone di argini

sufficienti a difendere la sua autonomia. Gli argini sono dati dai tratti d’istitu-

zionalità che separano l’esercizio del potere dalle persone, legandolo invece a

ruoli e funzioni. Quando invece la “matrice istituzionale” è debole, i fattori del

regime – tra cui i militari – possono riempire il vuoto di potere. Tuttavia, con-

clude l’autore, la forza del regime non implica la stabilità di questo. L’uso della

violenza e i legami privilegiati delle élite pongono le premesse per la rivolta o

il crollo del regime.

Pur nella loro diversità di approcci e di metodi d’indagine, i saggi raccolti

nel presente volume offrono delle analisi che riconducono a una serie di que-

stioni comuni: come interpretare la stabilità di una democrazia e la sua capa-

cità di mantenersi tale nel tempo? Quali fattori interni e internazionali ne in-

fluenzano la coesione e la capacità di rinnovamento? Quali sfide incontrano

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le democrazie nei processi di globalizzazione e integrazione sovranazionale? I

contributi presentano una serie di risposte in chiave comparata e che pongono

in relazione i processi politici in Europa con le dinamiche nell’area sud-asiatica,

nord-africana e mediorientale. Un lavoro che – almeno questo è il nostro auspi-

cio – può essere d’interesse al lettore e allo studioso attenti alle dinamiche del

mondo globalizzato.

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Prima sezioneLa politica tra le nazioni

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15

Per la Spagna il 2019 resterà un anno storico dal punto di vista elettorale. Nel

paese iberico sono state infatti convocate quasi tutte le elezioni possibili: oltre

alle consultazioni politiche anticipate e a quelle per il rinnovo del parlamento

della Comunidad Valenciana, celebrate il 28 aprile, il 26 maggio si sono tenute

le elezioni europee, municipali e regionali (queste ultime per le 12 comunidades

autonómicas che seguono il calendario elettorale ordinario). Non è escluso, infine,

che prima della fine dell’anno si celebrino elezioni anticipate anche in Catalogna.

Se così fosse, le uniche consultazioni mancanti sarebbero quelle per il rinnovo

dei parlamenti nelle tre regioni in cui si è votato nel 2016 (Galizia e Paese basco)

e nel 2018 (Andalusia).

Un simile “tsunami elettorale”, con le elezioni europee, regionali e municipa-

li che seguono a ruota le legislative, è un evento inedito nella storia spagnola. È

infatti la prima volta che le consultazioni per i quattro i livelli di governo si svol-

gono nello stesso anno. Poiché le tornate del voto amministrativo, autonomico

ed europeo hanno scadenze non modificabili, la vera novità della multipla chia-

mata alle urne è rappresentata dal voto per il rinnovo del parlamento nazionale,

che riunisce alcune caratteristiche rilevanti.1

1 Secondo la legge elettorale spagnola (ley orgánica 5/1985 del 19 giugno), nelle regioni che

Dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della Spagna

ANNA BOSCO

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16anna bosco

Innanzi tutto, le politiche del 2019 chiudono con un anno di anticipo la le-

gislatura iniziata nel giugno 2016. Il voto del 28 aprile, inoltre, segna il terzo

appuntamento elettorale in meno di quattro anni, in quanto gli spagnoli erano

già stati chiamati a scegliere i propri rappresentanti parlamentari nel dicembre

2015 e nel giugno 2016. Si tratta, infine, delle seconde elezioni anticipate di fila,

un evento inedito negli oltre quarant’anni trascorsi dal ritorno della Spagna alla

democrazia.

Alla densità elettorale si associa poi la moltiplicazione dei governi. Tra il 2015

ed il 2019 si sono infatti succeduti tre esecutivi caratterizzati da forte debolezza:

un governo del Partito popolare (Partido Popular, Pp) per il disbrigo degli affari

correnti; un esecutivo del Pp di minoranza; ed uno del Partito socialista (Partido

Socialista Obrero Español, Psoe) definibile di “grande minoranza” in quanto il

partito del presidente del governo disponeva di appena 84 seggi su 350.

Ciò posto, quello che emerge dalle vicende spagnole dal 2015 in poi è un qua-

dro di grande instabilità politica. Il punto da sottolineare è che tale instabilità

rappresenta una situazione del tutto nuova per il paese iberico, che ha vissuto i

primi quarant’anni dopo la morte di Franco sotto la guida di esecutivi estrema-

mente stabili, spesso dotati di maggioranze assolute e capaci di durare in carica

per intere legislature.

Quali sono, allora, le cause di un simile cambiamento? In questo lavoro mi

propongo di ripercorrere le trasformazioni del sistema politico spagnolo e in-

dagare le ragioni della perdita della sua tradizionale stabilità politica. Il capitolo

prosegue con quattro sezioni. Nella prossima ricostruisco le caratteristiche della

governabilità che ha caratterizzato la Spagna tra il 1979 (quando si sono tenu-

te le prime elezioni dopo l’approvazione della Costituzione del 1978) ed il 2015.

Nelle due sezioni successive illustro invece come l’instabilità spagnola rientri in

una sindrome che è stata definita electoral epidemic (epidemia elettorale, Bosco e

Verney 2012) e come questa abbia poi dato luogo ad una esasperata instabilità

governativa. L’ultima sezione, infine, è dedicata alle conclusioni.

seguono il calendario ordinario le consultazioni si svolgono ogni quattro anni, insieme alle municipali nazionali, la quarta domenica di maggio. L’anno in cui le elezioni europee coinci-dono con quelle regionali e comunali viene fissato un unico election day. Prima del 2019 ciò è avvenuto solo due volte, nel 1987 (prime elezioni europee a cui ha partecipato la Spagna) e nel 1999. Nel 1989 e nel 2004, infine, si è votato sia per le elezioni europee che per le legislative, ma non per le regionali e le comunali (Bosco 2019).

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17dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

L’era della stabilità

Fino al 2015 la Spagna ha mostrato un sorprendente primato tra i paesi europei.

Nei 36 anni che seguono le elezioni del 1979 si sono susseguiti solo undici go-

verni, guidati da sei primi ministri (tabella 1). Tutti i governi, eccetto uno, sono

stati in grado di durare per l’intera legislatura ed in cinque elezioni su 10 le urne

hanno garantito al primo partito la maggioranza assoluta dei seggi. Tutti gli ese-

cutivi, infine, sono stati monopartitici, un record che nemmeno il Regno Unito

è riuscito ad eguagliare.

Tabella 1 – Elezioni e governi in Spagna (1979-2019)

GovernoDecreto di nomina del presidente del gobierno

ComposizioneDurata in mesi

Elezioni 1 marzo 1979

Suárez 31 marzo 1979 Ucd – minoranza 23

Calvo-Sotelo 25 febbraio 1981 Ucd – minoranza 21

Elezioni 28 ottobre 1982

González I 1 dicembre 1982 Psoe – maggioranza assoluta 44

Elezioni 22 giugno 1986

González II 23 luglio 1986 Psoe – maggioranza assoluta 40

Elezioni 29 ottobre 1989

González III 5 dicembre 1989 Psoe – maggioranza assoluta 43

Elezioni 6 giugno 1993

González IV 9 luglio 1993 Psoe – minoranza (CiU) 34

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18anna bosco

Elezioni 3 marzo 1996

Aznar I 4 maggio 1996 Pp – minoranza (CiU, Cc, Pnv) 48

Elezioni 12 marzo 2000

Aznar II 26 aprile 2000 Pp – maggioranza assoluta 48

Elezioni 14 marzo 2004

Zapatero I 16 aprile 2004 Psoe – minoranza 47

Elezioni 9 marzo 2008

Zapatero II 11 aprile 2008 Psoe – minoranza 45

Elezioni 20 novembre 2011

Rajoy I 20 dicembre 2011 Pp – maggioranza assoluta 48

Elezioni 20 dicembre 2015

Rajoy I In carica per il disbrigo degli affari correnti 6

Elezioni 26 giugno 2016

Rajoy I In carica per il disbrigo degli affari correnti 4

Rajoy II 30 ottobre 2016 Pp – minoranza (C’s) 7

Sánchez 1 giugno 2018 Psoe – minoranza 11

Elezioni 28 aprile 2019

Note:

Per convenzione, un mese è conteggiato se il governo resta in carica per almeno 16 giorni

I partiti indicati tra parentesi sono quelli con i quali i governi in minoranza hanno stretto dei formali accordi di collaborazione parlamentare

Fonte: Informazioni ufficiali del Gobierno de España, http://www.lamoncloa.gob.es/presidente/presidentes/Paginas/index.aspx

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19dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

La “granitica” stabilità politica della Spagna non è comprensibile senza pren-

dere in considerazione, da un lato, l’assetto istituzionale voluto dai costituenti a

metà degli anni settanta; e, dall’altro, la capacità delle principali forze politiche di

dialogare ed arrivare ad accordi su questioni “di stato” come la lotta al terrorismo,

le relazioni centro-periferia e la politica estera. Vediamo meglio.

Dopo il ritorno alla democrazia, la Spagna sceglie di costruire un edificio isti-

tuzionale che privilegi la governabilità rispetto alla rappresentatività. Questa

preferenza è legata alla negativa esperienza della Seconda repubblica – il fragile

regime democratico durato appena cinque anni (1931-1936) e successivamente

spazzato via dalla guerra civile (1936-1939) e dall’alzamiento di Franco. Il punto

da evidenziare è che il mancato consolidamento della Seconda repubblica è at-

tribuito all’ordinamento istituzionale del 1931, da cui i costituenti degli anni

settanta prendono le distanze sviluppando un assetto completamente diverso. Il

fallimento della Seconda repubblica, in altri termini, genera un processo di “ap-

prendimento politico”, che gioca un ruolo molto importante nel momento in cui

si devono pensare le istituzioni per la nuova fase democratica (Aguilar 2002). In

sostanza, per cautelarsi dai problemi connessi all’esistenza di governi deboli, di

un parlamento frammentato e di partiti divisi, i costituenti eletti nel 1977 rifon-

dano la democrazia creando un “circuito della stabilità” (Bosco 2005).

L’edificio istituzionale viene così ricostruito “a contrario” rispetto a quello

precedente la guerra civile. Il nuovo ordinamento – una monarchia parlamen-

tare con parlamento bicamerale e legge elettorale proporzionale – ha infatti ben

poco a vedere con quello del 1931, una repubblica caratterizzata da una assem-

blea monocamerale ed un sistema elettorale maggioritario con voto limitato.

Ciò posto, prima di vedere in che modo le istituzioni scelte nel 1978 favorisca-

no la stabilità e la governabilità, occorre sottolineare che anche l’esito delle pri-

me elezioni democratiche e costituenti del 1977 ha spinto in direzione di una

scelta che privilegiasse la governabilità. I risultati vedono infatti emergere due

partiti principali: la Ucd (Union de Centro Democrático, Unione del centro de-

mocratico), costituita da gruppi democristiani, liberali, socialdemocratici e

esponenti del vecchio regime; ed il Psoe, una delle tre formazioni, insieme al Pce

(Partido Comunista de España, Partito comunista spagnolo) e all’Erc (Esquerra

Republicana de Catalunya, Sinistra repubblicana catalana), ad essere sopravvis-

suta al lungo periodo autoritario. I due partiti ottengono maggioranze di voti

(34,4% la Ucd e 29,3% il Psoe) che non consentono l’insediamento di solidi go-

verni monocolore. La lettura che viene data di un simile risultato, pertanto, è che

partiti che vincono le elezioni con maggioranze solo relative possono rendere

l’esperienza di governo instabile e complessa. Per questo, durante la costituente,

Ucd e Psoe si accordano per adottare delle istituzioni che rafforzino l’esecutivo

formato dal partito vincitore. I risultati del 1977 convergono così con la memoria

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20anna bosco

della Seconda repubblica nello spingere i costituenti a disegnare un assetto che

privilegi la governabilità rispetto alla rappresentatività.

L’obiettivo viene perseguito ideando un “circuito della stabilità” basato su

quattro pilastri istituzionali, le cui caratteristiche consentono di puntellare la

nuova democrazia e renderla facilmente governabile: la monarchia; la legge elet-

torale; l’esecutivo e l’organizzazione del parlamento (Bosco 2018). La monarchia

è un’eredità del franchismo che le élite politiche decidono di non mettere in di-

scussione e che garantisce l’esistenza di un potere moderatore e autorevole. Gli

altri tre pilastri, sui quali mi soffermo brevemente, vengono invece precisati du-

rante l’elaborazione della carta costituzionale.

La legge elettorale per il congresso – la camera bassa responsabile del rappor-

to fiduciario con il capo del governo – è stata concepita in modo da impedire che

la proliferazione dei gruppi politici nell’arena elettorale si trasferisse a quella

parlamentare dando vita ad un sistema partitico frammentato. Con i suoi aspetti

disproporzionali, invece, il sistema elettorale spagnolo ha evitato il pluralismo

eccessivo; ha sovra-rappresentato, con gradi diversi, il primo ed il secondo par-

tito; ha rappresentato in modo equilibrato i partiti di ambito regionale, e sotto-

rappresentato i terzi partiti con elettorato diffuso su tutto il territorio nazionale.

Questi risultati sono stati garantiti da caratteristiche quali un’assemblea parla-

mentare non troppo grande (350 deputati); la distribuzione dei seggi in 52 circo-

scrizioni mediamente piccole; un sistema a scrutinio di lista (senza la possibilità

di esprimere preferenze) che usa la formula d’Hondt per tradurre i voti in seggi

(una delle meno proporzionali); e l’accesso alla ripartizione dei seggi a livello di

collegio, previo superamento di una soglia del 3% dei voti validi, e senza recupero

dei resti a livello nazionale (Equipo Piedras de Papel 2015). Grazie a questo siste-

ma elettorale, le urne hanno sempre prodotto chiari vincitori in grado di guidare

governi monopartitici.

Come si può vedere nella figura 1, fino alle consultazioni del 2011, la legge

elettorale ha garantito maggioranze “fabbricate” al primo partito che hanno

oscillato tra il 44,6% ed il 57,7% dei seggi.2 Quando, però, è aumentata la fram-

mentazione nel sistema partitico – con la comparsa delle formazioni anti-establi-

shment nel 2015 (vedi oltre) – e il primo partito ha ottenuto percentuali di voti

ridotte rispetto al passato, l’aiuto offerto dai meccanismi elettorali non è più stato

sufficiente ad agevolare la formazione dei governi.

All’esecutivo, il terzo pilastro oltre alla monarchia e alla legge elettorale, i costi-

tuenti hanno cercato di garantire capacità di durata, un ruolo predominante sul

parlamento e accentramento del potere nella figura del presidente del gobierno. La

durata dei governi spagnoli è assicurata da un insieme di meccanismi che ne fa-

2 Si parla di maggioranze fabbricate quando la percentuale dei seggi è sensibilmente supe-riore a quella dei voti.

Page 22: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

21dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

cilita l’insediamento mentre rende difficile la loro destituzione. La Costituzione

prevede, infatti, un primo voto di investitura con la maggioranza assoluta dei

membri del congresso. Nel caso tale quorum non venga raggiunto, ha luogo una

seconda votazione, dopo 48 ore, in cui è sufficiente la maggioranza relativa. Più

precisamente, basta che i voti a sostegno del candidato premier siano in nume-

ro superiore ai voti contrari. Questo implica che per diventare primo ministro

non è indispensabile contare sulla maggioranza del congresso, basta non averla

contro, un esito facilitato dal fatto che le astensioni non vengono conteggiate ai

fini del numero totale dei votanti. L’edificio istituzionale è dunque costruito in

modo da agevolare, in caso di necessità, la costituzione di governi di minoranza

che cercheranno poi in parlamento il sostegno per attuare il proprio programma.

In altri termini, una volta insediato, il governo ha limitate probabilità di essere

costretto alle dimissioni se riesce ad accordarsi con altre forze politiche su vota-

zioni cruciali come quella della legge finanziaria (Guerrero Salom 2008).

Per evitare lunghe fasi di instabilità, la Costituzione ha inoltre introdotto una

“clessidra elettorale” che si attiva nel momento in cui fallisce l’investitura del pri-

mo ministro. Nel caso in cui la prima sessione di investitura non vada a buon

Figura 1 Percentuali di voti e seggi guadagnate dal primo partito (1979-2019)

0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60

1979 Ucd

1982 Psoe

1986 Psoe

1989 Psoe

1993 Psoe

1996 Pp

2000 Pp

2004 Psoe

2008 Psoe

2011 Pp

2015 Pp

2016 Pp

2019 Psoe

seggi voti

Figura 1 – Percentuali di voti e seggi guadagnate dal primo partito (1979-2019)

Page 23: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

22anna bosco

fine, e il presidente candidato non ottenga la fiducia né a maggioranza assoluta

né a maggioranza relativa, la Costituzione prevede infatti che vengano fatte altre

votazioni (anche con altri candidati proposti dal sovrano). Tuttavia, trascorsi due

mesi dal primo voto di investitura, se nessun candidato ottiene la fiducia, il re è

chiamato a sciogliere il parlamento e a convocare nuove elezioni. Si tratta, evi-

dentemente, di norme introdotte nella carta fondativa per evitare prolungate fasi

di stallo in caso di assenza di chiare maggioranze parlamentari (Frosina 2016).

Come si vede dalla tabella 1, grazie a queste norme, la stabilità è stata notevole

non solo per gli esecutivi di maggioranza ma anche per quelli di minoranza. A

partire dal 1982, e fino alla vigilia delle elezioni del 2015, i governi spagnoli han-

no sempre dato prova di una invidiabile capacità di durata.3

Per quanto riguarda il predominio dell’esecutivo, vanno prese in conside-

razione due dimensioni. Innanzi tutto, mentre il primo ministro può decidere

quando sciogliere le Cortes e convocare elezioni anticipate, il congresso dei de-

putati è in grado di revocargli la fiducia solo approvando una mozione di sfiducia

costruttiva. Costruita sul modello offerto dalla costituzione tedesca, la mozione

deve proporre un candidato per sostituire il premier in carica e tale candidato

deve ricevere la fiducia della maggioranza assoluta dei deputati. Il meccanismo,

di fatto, limita la possibilità di far cadere un governo in parlamento in quanto per

la composita opposizione spagnola è più facile votare contro un primo ministro

che a favore di uno alternativo. La supremazia dell’esecutivo emerge anche nel

processo legislativo, dove i progetti di legge del governo hanno priorità su quelli

parlamentari mentre il ricorso all’ostruzionismo da parte dell’opposizione è li-

mitato dai regolamenti. Il capo del governo, infine, ha un ruolo predominante

anche sui ministri. È infatti il premier ad ottenere la fiducia da parte del congres-

so, ancora prima di formare il governo; a nominare e cessare i ministri (e non è

tenuto darne conto al parlamento); a decidere quale sia il momento più conve-

niente (o meno sfavorevole) per sciogliere il parlamento; a proporre (con autoriz-

zazione previa del congresso) i referendum consultivi su questioni di particolare

rilevanza; e a presentare i ricorsi di incostituzionalità a nome del governo. Si trat-

ta di norme che hanno aiutato a lungo i primi ministri spagnoli a restare in carica

e controllare il processo legislativo.

L’ultimo pilastro della stabilità politica spagnola è relativo all’organizzazione

del parlamento. Le Cortes sono formate da un congresso ed un senato con poteri

differenziati. In particolare, il senato è subordinato alla camera bassa sia nella

funzione di controllo del governo che in quella legislativa. Il processo di investi-

tura del presidente del governo, infatti, è prerogativa del congresso che è anche

3 Le elezioni del 1982 segnano il declino del partito che aveva guidato la transizione e l'avvio di una nuova fase politica. Per un ottimo quadro dei governi spagnoli e del loro personale mini-steriale si veda Rodríguez Teruel (2011).

Page 24: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

23dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

la sede in cui vengono poste e votate le mozioni di sfiducia e avviato il processo

legislativo ordinario. Sempre nel congresso, infine, si svolge ogni anno l’impor-

tante dibattito sullo stato della nazione. La debolezza del senato nel rapporto con

il governo e nella funzione legislativa sembra compensata dal ruolo di camera “di

rappresentanza territoriale” riconosciutogli dalla Costituzione. Tuttavia anche in

questo ambito i poteri del senato sono assai ridotti in quanto la rappresentanza

territoriale si limita a 58 senatori designati dai parlamenti autonomici, mentre i

restanti 208 vengono eletti con un sistema maggioritario.

Nonostante il dettato costituzionale, quindi, il senato non è ancora una vera

e propria camera delle autonomie, tanto che da decenni si parla della necessità di

riformarlo. D’altra parte, proprio in virtù della sua definizione di camera territo-

riale, la camera alta è chiamata ad approvare, a maggioranza assoluta, l’eventuale

attivazione dell’art. 155 della Costituzione, che obbliga una comunità inadem-

piente a rispettare gli obblighi imposti dalla Costituzione e dalle leggi. Tale pre-

rogativa è stata usata per la prima volta nel 2017, in seguito alla proclamazione

dell’indipendenza da parte del parlamento catalano, offrendo al senato un ina-

spettato momento di visibilità e autorità.

L’organizzazione del parlamento è funzionale alla stabilità politica sotto

due aspetti. In primo luogo, la gestione del rapporto fiduciario con l’esecutivo

da parte del solo congresso evita episodi di instabilità legati a maggioranze di-

versificate nelle due camere (come in Italia). Ma soprattutto, l’organizzazione

delle due camere intorno ai gruppi parlamentari consente uno sviluppo dei la-

vori in aula ordinato e privo di sorprese. Pensata per neutralizzare la fragilità

di partiti politici che erano appena stati fondati o da poco tornati alla legalità,

l’organizzazione “gruppo-centrica” del parlamento implica che la libertà di ma-

novra dei singoli deputati è subordinata alle decisioni dei gruppi. In questo

modo, ad esempio, l’iniziativa legislativa individuale non è prevista, mentre

gli emendamenti devono essere controfirmati dal capogruppo o presentati dal

gruppo. I regolamenti garantiscono anche la coesione dei partiti vietando ai

deputati eletti nelle liste di un partito di costituire gruppi diversi o abbando-

nare il proprio al di fuori di precise finestre temporali. Infine, il rispetto delle

decisioni dei gruppi parlamentari è assicurato dallo scrutinio di lista contenu-

to nella legge elettorale, dal momento che non seguire le indicazioni di voto

della direzione implica, per i deputati, il rischio di non venire ricandidati alle

elezioni successive (Bosco 2005, 57-60).

Oltre all’assetto istituzionale fin qui tratteggiato, un altro fattore ha con-

tribuito alla stabilità politica spagnola: la capacità di collaborazione tra i due

partiti principali, Ucd e Psoe, prima, e Psoe e Ap/Pp dal 1982 in poi.4 Non a caso

4 Il Pp nasce in seguito alla rifondazione di Alianza Popular, nel 1989.

Page 25: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

24anna bosco

si parla di “consenso”, per indicare la ricerca di compromessi e accordi tra i par-

titi che ha caratterizzato tutta la fase della transizione e dell’instaurazione de-

mocratica. Famosi sono rimasti, ad esempio, i Patti della Moncloa, un accordo

per affrontare la crisi economica firmato nell’ottobre 1977 dai rappresentanti

dei principali partiti, che è stato paragonato al compromesso storico (Estefanía

2007, 117-181). Con il tempo, il clima consensuale con cui viene gestita la fase

iniziale del nuovo regime democratico lascia spazio ad una politica più avver-

sariale e normalizzata. E tuttavia, fino ai primi anni 2000, alcune questioni

vengono sempre tenute al di sopra della competizione partitica. La politica an-

titerrorista nei confronti di Eta, quella relativa alla struttura territoriale dello

stato, o la politica estera ed europea, ad esempio, vengono a lungo affrontate dai

due partiti principali seguendo una linea condivisa (Mújica e Sánchez Cuenca

2006, Maravall 2008).

A partire dal 2004, invece, la pratica del consenso si indebolisce fino a lasciare

spazio ad una situazione di iper-conflittualità tra il Pp ed il Psoe che finisce per

travolgere anche le questioni di stato. La prima avvisaglia si ha nel 2003 con la

decisione del governo Aznar di partecipare alla guerra contro l’Iraq nonostante

l’opposizione del Psoe e di quasi tutta l’opinione pubblica (Bosco 2005, 173-185).

In seguito verranno sottratti al perimetro delle larghe intese temi come le rifor-

me territoriali, la politica antiterrorista e la politica economica durante la grande

recessione. Il passaggio da un blando consenso all’iper-conflittualità è un aspet-

to cruciale dello sviluppo politico spagnolo, sul quale mi soffermo in altra sede

(Bosco 2018). Qui è rilevante sottolineare che, finché dura, la capacità di dialogo

dei partiti maggiori complementa e rafforza la governabilità del paese.

Dalla stabilità all’electoral epidemic

A partire dal 2015 la stabilità che ha caratterizzato la Spagna sembra andare in

frantumi. Dopo la fine del primo mandato di Rajoy, le elezioni del dicembre

2015 presentano un quadro molto più frammentato che in passato: la concen-

trazione elettorale dei due partiti mainstream – che somma le percentuali di voti

guadagnate da Pp e Psoe – crolla dal 73,4% al 50,7%, mentre quella parlamentare

vede precipitare l’insieme dei seggi controllati dai due partiti dall’84,6% del 2011

al 60,9%, il risultato più basso nei quarant’anni trascorsi dalla morte di Franco

(tab. 2 e 3). I seggi persi dalle due storiche forze di governo vanno, da un lato, ai

terzi partiti di ambito nazionale – Izquierda Unida (Sinistra unita, Iu); Podemos

(Possiamo); e Ciudadanos (Cittadini, C’s) – che passano ad occupare quasi il 32%

dei posti del congresso; e, dall’altro, ai partiti nazionalisti e regionali che vincono

il 15%. In tutti i casi si tratta dei risultati più elevati mai toccati dal 1977 in poi.

Page 26: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

25dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

Come lasciano presagire questi aspetti, si tratta di consultazioni contrasse-

gnate da elevata volatilità elettorale, la misura che indica la percentuale mini-

ma di votanti che cambiano il proprio comportamento di voto tra due elezioni

consecutive. Nel 2015 questa percentuale supera un terzo dell’elettorato (35,4%),

un dato inferiore solo al 42,3% registrato nel 1982, quando vi era stata l’alternan-

za tra Ucd e Psoe (Bosco 2018, 24). D’altra parte, l’esito delle elezioni comporta

una “rivoluzione parlamentare” che vede quasi raddoppiare il numero effetti-

Tabella 2 – Evoluzione del sistema partitico spagnolo: principali indicatori (2008-2019)

Concentrazioneelettorale

(% di voti validi al primo e

secondo partito)

Concentrazioneparlamentare

(% di seggi al primo e

secondo partito)

Terzi partiti di ambito nazionale

(% di seggi)

Numero di partiti di impianto regionale

(% di seggi)

Numero effettivo di partiti

parlamentari

Volatilità totale

Astensione(%)

2008Psoe e Pp

83,892,2

Iu, UPyD0,9

6 (6,9) 2,2 4,3 26,2

2011Pp e Psoe

73,484,6

Iu, UpyD4,6

9 (10,8) 2,6 15,5 31,1

2015Pp e Psoe

50,760,9

C’s, Podemos, Iu 24,0

8 (15,1) 4,5 35,4 30,3

2016Pp e Psoe

55,663,4

Podemos-Iu-Equo, C’s

22,08 (14,6) 4,2 4,9 33,5

2019Pp e Psoe

45,454,0

C’s, Podemos-Iu-Equo,

Vox 32,6

10 (13,4) 4,9 23,2 24,3

Note:

Psp-Us (Partido Socialista Popular – Unidad Popular); Cd (Coalicion Democrática); Un (Union Nacional);

Cds (Centro Democrático y Social); UPyD (Union Progreso y Democracia); Podemos-Iu-Equo (al-leanza tra Podemos, Izquierda unida e Equo – partito verde – che si presenta a livello nazionale)

Fonte: per i dati elettorali, Ministerio del Interior, http://www.infoelectoral.mir.es/infoelectoral/min/; per il numero effettivo dei partiti parlamentari, Montero (2008), Gallagher (2017) e Valbruzzi (2019); per la volatilità Anduiza, Bosch, Orriols e Rico (2014), Rama (2016) e Valbruzzi (2019)

Page 27: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

26anna bosco

Tabella 3 – Risultati elettorali, Congresso dei deputati (2015-2019)

2015 2016 2019

Voti (%) Seggi Voti (%) Seggi Voti (%) Seggi

Pp 28,7 123 33 137 16,7 66

Psoe 22,0 90 22,6 85 28,7 123

Podemos 20,7 69

Up* 21,1 71 14,3 42

C’s 13,9 40 13,1 32 15,9 57

Iu 3,7 2

Erc 2,4 9 2,6 9 3,9 15

Ex convergentes** 2,3 8 2.0 8 1,9 7

Pnv 1,2 6 1,2 5 1,5 6

EH Bildu 0,9 2 0,8 2 1 4

Cc 0,3 1 0,3 1 0,5 2

Vox 10,3 24

Na+ 0,4 2

Compromís 2019 0,7 1

Prc 0,2 1

Altri 3,3 - 3,3 - 4,0

* I risultati di Unidos Podemos (Unidas Podemos nel 2019), alleanza elettorale formata da Podemos e Iu nel 2016, includono anche i voti e seggi guadagnati con diverse forze locali.

** Il termine indica il partito emerso dalla frattura di CiU e oggi guidato da Puigdemont, in tutte le sue varie denominazioni.

Fonti:

Dati ufficiali del ministero degli interni spagnolo

vo dei partiti, che sale da 2,6 a 4,5.5 I partiti che siedono in parlamento, inoltre,

sono caratterizzati anche da una maggiore polarizzazione (distanza ideologica)

(Simon 2016).

5 Il numero effettivo dei partiti, calcolato secondo la formula di Laakso e Taagepera (1979), offre informazioni sul livello di frammentazione di un sistema partitico in relazione alla gran-dezza dei partiti che lo compongono. Un numero pari a cinque, ad esempio, indica che il siste-ma è frammentato come se ci fossero cinque partiti delle stesse dimensioni.

Page 28: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

27dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

In breve, la Spagna affronta uno scenario elettorale caratterizzato da voto di

castigo ai partiti di governo, crescita dell’astensione e della volatilità, crisi dei

partiti maggiori; e nascita o rafforzamento di nuovi competitori anti-establi-

shment che sfidano i canoni della politica tradizionale. Questi elementi, nel loro

insieme, pur con differenze e peculiarità nazionali, caratterizzano anche paesi

come la Grecia, l’Italia e il Portogallo a partire dalle elezioni del 2011. Si tratta di

una sindrome che è stata definita electoral epidemic e che ha radici comuni nella

gestione della crisi finanziaria e del debito che ha colpito i paesi del Sud Europa

(Bosco e Verney 2012).

Secondo Peter Mair (2011), le conseguenze della crisi del 2008 hanno reso

molto difficile per i partiti di governo conciliare due funzioni essenziali come la

responsiveness, ovvero la capacità di rispondere alle domande dei propri cittadini

(rispondenza) e la responsibility, la capacità di rispettare gli accordi presi con altri

governi e istituzioni sovranazionali (affidabilità). Quando la crisi del debito dila-

ga nel Sud Europa, i partiti di governo si trovano tra l’incudine della domanda dei

propri elettori per misure espansive e il martello di organismi come l’Ue, la Bce e

il Fmi per politiche fiscali restrittive. Si tratta di una scelta non facile. Da un lato,

se rispondono alle domande della loro base elettorale e rimandano il consolida-

mento fiscale, i governi perdono credibilità, con pericolose ricadute per la soste-

nibilità del debito sovrano dei propri paesi. Leader politici di questo tipo vengo-

no infatti ritenuti inaffidabili da mercati e partner europei.6 Dall’altro, se invece

si mostrano affidabili e rispettano le richieste degli organismi sovranazionali per

politiche restrittive, i partiti di governo finiscono inevitabilmente per trascurare

le domande della propria base elettorale, con la conseguenza di dure sconfitte alle

urne, come mostrato dall’epidemia elettorale che colpisce i paesi del Sud Europa.

In Spagna la crisi economica viene gestita dal governo socialista di Rodríguez

Zapatero tra il 2008 ed il 2011 e da quello popolare di Rajoy tra il 2011 ed il 2015.

Le due esperienze si chiudono con fortissime sconfitte elettorali, in quanto en-

trambi gli esecutivi scelgono di perseguire la responsibility rispetto alla responsive-

ness e attuano politiche di austerità anche a costo di rimangiarsi le (ben diverse)

promesse fatte in campagna elettorale.

Ciò posto, è utile ricordare che a differenza di paesi come l’Italia e il Portogallo,

che affrontano la crisi economica provenendo da fasi di crescita molto deboli,

la Spagna che entra in recessione nel 2009, lo fa dopo un sostenuto periodo di

espansione, iniziato già a metà degli anni novanta e proseguito grazie all’entrata

del paese nell’eurozona. Nel paese iberico, pertanto, il tracollo economico assu-

me tre peculiarità che vanno indicate per comprendere la portata della recessio-

ne e le sue conseguenze politiche. Innanzi tutto, la crisi si traduce subito in una

6 Come dimostra la sostituzione del governo Berlusconi con l’esecutivo tecnico presieduto da Mario Monti, nel novembre 2011 in Italia (Bosco e McDonnell 2012)

Page 29: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

28anna bosco

voluminosa distruzione di posti di lavoro, inferiore solo a quella che ha luogo

in Grecia: il tasso di disoccupazione passa infatti dall’8,2% registrato nel 2006

al 26,1% del 2013, quando tocca il suo massimo livello. Nel caso dei giovani con

meno di 25 anni l’incremento, drammatico, passa dal 17,9% del 2006 al 55,5% del

2013 (dati Eurostat).

La seconda peculiarità della recessione spagnola è che genera una profonda

crisi sociale, caratterizzata dall’aumento delle diseguaglianze e del rischio di po-

vertà. Vari istituti di ricerca hanno messo in evidenza come la crisi, contrasse-

gnata da tagli alla spesa pubblica e distruzione di milioni di posti di lavoro, abbia

avuto gravi conseguenze per il tessuto sociale (Fundacion Foessa 2014, Fundacion

Alternativas 2015). Per limitarsi ad un indicatore ben conosciuto come il coeffi-

ciente di Gini, che misura la disparità nella distribuzione della ricchezza, questo

cresce dal 31,9% del 2007 al 34,7% del 2014.7 Va segnalato che nel 2014, quando

l’indice tocca il suo livello massimo, la Spagna presenta una distribuzione della

ricchezza più diseguale non solo di quella media dell’eurozona (30,8%) ma persi-

no della Grecia (34,5%) (dati Eurostat).

La terza caratteristica, infine, è quella relativa alla disintegrazione di impor-

tanti quote di fiducia nei due partiti di governo, il Psoe ed il Pp. A questo pro-

posito può essere utile ricordare che la percentuale di spagnoli per i quali la

disoccupazione è un problema centrale passa dal 38,4% del 2007 all’82,3% del

2011, alla fine del secondo mandato di Zapatero, per poi restare a livelli altissi-

mi (79,2%) fino alla conclusione del governo Rajoy, nel 2015 (dati del Centro de

Investigaciones Sociologicas, vari anni). In questa situazione, la disillusione ver-

so il partito di governo non genera apprezzamento per quello di opposizione. Sia

il Psoe che il Pp vengono valutati negativamente e considerati responsabili per

lo stato in cui versa il paese. La conseguenza principale di questa delegittimazio-

ne è la massiccia erosione della fiducia nei partiti politici, che in Spagna cola a

picco: dal 40% nell’aprile 2008 al 7% nel novembre 2015. Per capire la portata del

declino basta ricordare che, nello stesso periodo, il dato medio registrato nell’U-

nione europea scende dal 18% al 15%. I partiti spagnoli, cioè, perdono molto più

consenso di quelli europei pur partendo da un capitale di fiducia maggiore (dati

Eurobarometro, vari anni).

Ad aumentare la sfiducia nei partiti contribuiscono anche i casi di corruzione

che emergono nel periodo 2011-2015 e che coinvolgono soprattutto il Pp e, in

misura minore, il Psoe. Il punto da sottolineare è che la recessione genera verso

questi fenomeni un forte senso di indignazione, che spinge i cittadini a consi-

derare la corruzione – ed i politici che la praticano – uno dei principali problemi

del paese. Vicende come il caso Gürtel, che riguarda le imprese che finanziano

7 Il coefficiente di Gini varia tra 0%, quando il reddito è distribuito in modo omogeneo, e 100% quando la diseguaglianza è massima.

Page 30: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

29dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

il Pp in nero a cambio di contratti pubblici in varie regioni; o la scoperta delle

carte di Bárcenas, l’ex tesoriere del Pp che ha occultato quasi 50 milioni di euro in

Svizzera per finanziare illegalmente le spese del partito, finiscono per aumentare

la sfiducia dei cittadini nella classe politica (si vedano, tra gli altri, Lapuente 2016

e Villoria e Jiménez 2016).

Il risultato complessivo della recessione e del dissesto sociale da questa pro-

vocata è che Pp e Psoe vengono visti come attori politici che hanno perso credibi-

lità; che sono incapaci di mantenere le promesse elettorali; che si arricchiscono

illegalmente; e che, infine, sono efficaci solo nel realizzare le politiche di rigore

imposte dall’Ue. Su tale percezione matura e accelera la crisi di rappresentan-

za che favorisce l’affermazione di partiti anti-establishment come Podemos e

Ciudadanos, prima nelle elezioni europee del 2014 (Cordero e Montero 2015) e,

in seguito, nelle politiche del dicembre 2015 e del giugno 2016, con tutte le con-

seguenze che questo comporta per la trasformazione del sistema partitico.

La Spagna e l’epidemia governativa

Il quadro fin qui ricostruito indica, seppur brevemente, come nel 2015 la Spagna

entri in una fase di mutamento elettorale che modifica il numero effettivo dei

partiti presenti in parlamento ed i reciproci rapporti di forza. Il punto da eviden-

ziare, però, è che il cambiamento generato dall’electoral epidemic, non riguarda

solo il sistema nazionale, né solo il sistema partitico. Da un lato, infatti, le ele-

zioni regionali e municipali del maggio 2015 anticipano la trasformazione delle

consultazioni politiche del 20 dicembre. Dall’altro, invece, le conseguenze del

mutamento elettorale incidono pesantemente sulla governabilità del paese.

Gli alti volumi di volatilità, il declino della partecipazione, la sistematica ero-

sione del sostegno alle forze mainstream e l’apparizione di nuovi sfidanti partiti-

ci generano, infatti, una situazione di frammentazione e polarizzazione che si

traduce in grandi difficoltà nel momento in cui, passate le elezioni, si tratta di

formare il governo. L’electoral epidemic, in altri termini, produce una government

epidemic, un contesto in cui le elezioni non esprimono più come in passato un

chiaro vincitore, rendendo i processi di formazione dell’esecutivo dipendenti da

accordi e alleanze tra i partiti. Tali intese, tuttavia, sono difficili da raggiungere

proprio a causa della polarizzazione e frammentazione che hanno trasformato le

arene partitiche e parlamentari. Di conseguenza, i processi di formazione gover-

nativa risultano molto più complessi e incerti che in passato.

La government epidemic non si limita alla Spagna ma – con tempi diversi e

specificità nazionali – riguarda anche altri paesi del Sud Europa (Bosco e Verney

2016, Sözen e Sonan 2019). Tuttavia è nel paese iberico che ha avuto l’impatto

Page 31: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

30anna bosco

maggiore, mandando in pezzi una stabilità governativa che, come ho indicato,

era stata perseguita e mantenuta per quasi quarant’anni. Se fino al 2011 l’identità

del premier che avrebbe formato il governo era chiara fin dalla notte elettorale,

dal 2015 in poi ciò non è più prevedibile né a urne appena chiuse (con la diffusio-

ne degli exit polls), né a conteggio dei voti ultimato. Le elezioni del 2015, del 2016

e del 2019 mostrano infatti che la Spagna è entrata in una fase in cui formare il

governo è diventato un processo lungo, tortuoso e incerto. Vediamo meglio, allo-

ra, quali sono gli indicatori di una government epidemic in corso.

Il primo elemento che la contraddistingue è la durata del processo di forma-

zione dell’esecutivo che, rispetto al passato, si allunga notevolmente. Come si può

vedere nella tabella 1, nel periodo 1979-2011 il tempo trascorso tra le elezioni e

la nomina del nuovo primo ministro è sempre stato molto breve, un mese o poco

più nella maggior parte dei casi. Solo con il primo esecutivo Aznar si superano i

due mesi, a causa del patto di legislatura stretto con i partiti nazionalisti e regio-

nalisti che sostengono il governo dall’esterno. Niente, comunque, di paragonabi-

le a ciò che avviene dopo le elezioni del dicembre 2015.

In quella occasione, infatti, la frammentazione del parlamento e la distanza

tra i partiti impediscono per la prima volta la formazione di un esecutivo ren-

dendo necessario ripetere le elezioni il 26 giugno 2016. Sarà comunque solo il

30 ottobre dello stesso anno che viene insediato un governo di minoranza del

Pp, dopo dieci mesi in cui Rajoy si è limitato al disbrigo degli affari correnti.

Nel momento in cui scrivo, inoltre, sono trascorsi quasi due mesi dalle elezioni

del 28 aprile 2019 e l’investitura del nuovo presidente del governo non è ancora

avvenuta.

Il secondo indicatore di una government epidemic in corso è che il processo di

formazione dell’esecutivo è puntellato da norme, prassi e circostanze inedite o

mai praticate in precedenza. Si amplia, in altri termini, il perimetro procedurale

e si sperimentano strade mai battute in passato perché completamente nuovo è

il panorama politico. Il numero di “prime volte” è quindi molto elevato: alla ripe-

tizione delle elezioni nel 2016 – una novità già di per sé dirompente – bisogna

aggiungere l’attivazione, anch’essa inedita, della “clessidra elettorale” prevista

dalla Costituzione. In precedenza, la norma – che come indicato prevede la con-

vocazione di nuove elezioni se non si riesce a insediare un governo nei due mesi

che seguono una votazione di fiducia andata male – non era mai stata utilizzata

perché non necessaria: solo Calvo Sotelo (1981) e Rodríguez Zapatero (2008) han-

no ottenuto la fiducia in seconda votazione, mentre tutti gli altri primi ministri

sono stati investiti con la prima votazione.

A modificare il tradizionale modello di formazione dell’esecutivo contribui-

scono anche le scelte dei principali attori politici ed istituzionali. Innanzi tutto,

quella di Rajoy, leader del primo partito, di rifiutare il mandato del re affermando

Page 32: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

31dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

di non disporre del sostegno necessario per formare il governo. Questa decisione

senza precedenti ne comporta un’altra: la nomina da parte del sovrano del segre-

tario socialista Pedro Sánchez – vale a dire del leader del secondo partito – come

candidato premier (2 febbraio 2016). In seguito a queste vicende, il Psoe arriva

ad un “accordo per un governo riformista e di progresso” con Ciudadanos, che

include un elenco di oltre 200 politiche da attuare. L’accordo porterebbe C’s a vo-

tare a favore dell’investitura di Sánchez pur senza entrare con propri ministri nel

governo. I due partiti, tuttavia, riuniscono insieme solo 130 deputati (su 350),

ragion per cui cercano di ottenere il sostegno o l’astensione di altre formazioni

partitiche. Ma la distanza tra i partiti che siedono al congresso resta incolmabile

e la candidatura Sánchez viene bocciata in entrambe le votazioni del 2 e 4 marzo.

Nei sessanta giorni della “clessidra elettorale” Felipe VI svolge un terzo giro di

consultazioni con i leader di tutti i partiti – un fatto senza precedenti nella storia

spagnola, dove un unico giro di colloqui era sempre stato sufficiente – ma senza

alcun risultato.

Anche dopo le elezioni del 2016 gli eventi inediti non mancano. È infatti la

prima volta che il sovrano nomina due volte lo stesso candidato premier (Rajoy);

la prima volta che questi viene bocciato tre volte dal congresso prima di trovare

i voti sufficienti per insediare un governo di minoranza; e, infine, la prima volta

che il primo partito dell’opposizione (il Psoe) si astiene nel voto di investitura

decisivo su Rajoy, anziché votare contro, come era sempre avvenuto in passato. Si

tratta di un insieme di fatti e decisioni che complicano il percorso di investitura

e che si chiudono con una profonda spaccatura del Psoe, in quanto Sánchez – con-

trario all’astensione – si dimette dalla segreteria e abbandona il posto di deputa-

to. Inutile aggiungere che in passato il voto di investitura del primo ministro non

aveva mai causato crisi di tale portata in uno dei due partiti maggiori.

Volendo riassumere le novità del processo di formazione del secondo gover-

no Rajoy, si può affermare che sono necessarie due elezioni generali, sei votazio-

ni di investitura (due dopo le elezioni del 2015 e quattro dopo quelle del 2016) e

molteplici giri di consultazioni da parte del sovrano per arrivare ad insediare un

governo di minoranza del Pp.

Da cosa dipendono queste difficoltà? Nel 2015 il Pp avrebbe potuto formare

agevolmente il governo solo stringendo intese con il Psoe (una grande coalizio-

ne) o con il Psoe e C’s.8 Tuttavia, nessuno di questi accordi viene preso in conside-

razione in quanto la distanza politica (polarizzazione) tra i due partiti principali

è troppo ampia per consentire anche solo un dialogo tra le due formazioni.

8 Le combinazioni rese possibili dai numeri sarebbero state le seguenti: una coalizione Pp-Psoe-C’s; un esecutivo di minoranza Pp-C’s con l’astensione del Psoe o un governo monocolore del Pp con l’astensione del Psoe e di C’s.

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32anna bosco

Dopo le elezioni del giugno 2016, nonostante i rapporti di forza leggermen-

te più favorevoli al Pp (tab. 3), la formazione dell’esecutivo resta complicata in

quanto il Psoe – nelle cui mani si trova la chiave della governabilità – rifiuta sia

di votare a favore di Rajoy che di agevolarne l’insediamento con l’astensione. I

socialisti votano quindi contro Rajoy in entrambe le votazioni della prima ses-

sione di investitura (31 agosto e 2 settembre). Il mancato insediamento del 31

agosto, d’altra parte, attiva nuovamente la “clessidra elettorale” e aggrava la crisi

del Psoe, spaccato tra i sostenitori di Sánchez, contrari ad un governo targato Pp, e

chi preferirebbe lasciar passare un esecutivo popular per evitare la convocazione

di un terzo appuntamento elettorale. Il braccio di ferro si chiude con la sconfitta

di Sánchez e le sue dimissioni dalla segreteria, il primo ottobre 2016. Solo allora

il partito socialista, guidato da una commissione di gestione, rende nota la pro-

pria disponibilità ad astenersi per favorire un esecutivo di minoranza del Pp pre-

sieduto da Rajoy. Quest’ultimo riceve quindi nuovamente l’incarico dal sovrano

e viene eletto nella seconda delle due votazioni di investitura (27 e 29 ottobre

2016), con 170 voti a favore (Pp, C’s, Coalicion Canaria), 111 contrari e l’asten-

sione di 68 deputati del gruppo socialista (mentre 15 votano contro, rompendo

la disciplina di gruppo). Sánchez rinuncia al proprio seggio parlamentare giu-

sto poche ore prima della votazione di investitura, in modo da evitare di dovervi

prendere parte (Simon 2016).

La government epidemic non si limita agli esecutivi che si formano dopo le ele-

zioni. A conferma del fatto che il paese affronta un panorama politico che richie-

de profonde innovazioni rispetto al passato, il 31 maggio 2018 viene votata la

prima mozione di censura costruttiva di successo della storia spagnola.9 La mo-

zione viene presentata dagli 84 deputati del Psoe – che sostengono la candidatu-

ra di Pedro Sánchez – dopo la pubblicazione della sentenza sul caso Gürtel, che

certifica la rete di corruzione finanziaria che fa capo al Pp. Sostenuta da Unidos

Podemos (alleanza di Iu e Podemos), dai partiti indipendentisti catalani (Erc e

PdeCat) e da quelli nazionalisti baschi (Pnv e EH Bildu), oltre che da formazioni

regionaliste come Compromís e Nueva Canarias, la mozione viene approvata con

180 voti contro 169. La maggioranza assoluta richiesta dalla Costituzione viene

quindi raggiunta e superata grazie ad un insieme di forze accomunate solo dalla

volontà di mettere fine al governo popular. Dalla mozione emerge così un gover-

no socialista di “grande minoranza” – dispone di appena 84 deputati su 350 –

che deve negoziare con altri sette partiti per portare avanti le proprie iniziative

9 Le tre mozioni di censura votate nel passato – rispettivamente, nel 1980 (presentata dai deputati socialisti contro Adolfo Suárez e a favore di Felipe González); nel 1987 (presentata dai deputati di AP contro Felipe González e a favore di Antonio Hernández Mancha); e nel 2017 (presentata dai deputati di Unidos Podemos contro Mariano Rajoy e a favore di Pablo Iglesias) – non erano riuscite a raggiungere la maggioranza assoluta.

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33dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

in parlamento. Nonostante l’insediamento del premier a maggioranza assoluta,

quindi, l’esecutivo non può contare su un sostegno solido e affidabile, fatto che

limiterà la sua durata a poco meno di un anno.

Il governo guidato da Sánchez è debole e breve come quello che lo ha prece-

duto. Le sue caratteristiche, d’altra parte, ampliano ancora il menù delle novità

procedurali. Innanzi tutto, è il primo governo della storia spagnola che viene

insediato a seguito di una mozione di censura costruttiva. In secondo luogo, è

il primo governo il cui presidente non è un parlamentare: Sánchez, che nel mag-

gio 2017 ha riconquistato la segreteria socialista dopo aver vinto le primarie, nel

2018 è infatti ancora senza seggio, avendo dato le dimissioni nell’ottobre 2016.

Infine, è anche il primo governo guidato dal secondo partito parlamentare. In

altri termini, seppure un governo socialista di minoranza non rappresenti, in

Spagna, una grossa novità, gli elementi che lo contraddistinguono sono tutti sen-

za precedenti.

Conclusioni

L’electoral epidemic – caratterizzata da elevata frammentazione del parlamento,

polarizzazione tra le forze politiche e affermazione di nuovi competitori anti-

establishment – ha avuto importanti conseguenze per la granitica stabilità poli-

tica della Spagna. Per la prima volta in decenni, infatti, la regola d’oro “una legi-

slatura, un esecutivo, un presidente del governo” è stata ampiamente disattesa.

Dal dicembre 2015 al giugno 2019 – periodo che teoricamente avrebbe dovuto

coincidere con un’unica legislatura – si sono svolte tre elezioni generali e sono

stati insediati tre governi: uno per il disbrigo degli affari correnti e due etichetta-

bili come deboli, se non debolissimi, esecutivi di minoranza.

Come altri paesi del Sud Europa, la Spagna è entrata in un periodo caratteriz-

zato dalla trasformazione del processo di costituzione dei suoi governi. I tempi

per l’insediamento dei nuovi esecutivi si sono allungati; le procedure seguite per

la loro formazione sono uscite dai binari tradizionali; e anche le caratteristiche

dei governi insediati possono essere inedite. Adesso che le elezioni non sono de-

cisive, perché non indicano subito un chiaro vincitore, e tocca ai partiti superare

le divisioni e pactar (accordarsi) per costituire delle alleanze, i processi che porta-

no a dar vita agli esecutivi hanno imboccato nuove strade.

Questa situazione, definita government epidemic, ha portato nel paese iberi-

co all’aumento dell’instabilità governativa. Dal 2015 ad oggi si sono susseguiti

solo governi di minoranza o per il disbrigo degli affari correnti. I governi di

minoranza, d’altra parte, sono in grado di durare nel tempo a condizione che

le alleanze che li sostengono vengano strette grazie ad accordi puntuali (come

Page 35: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

34anna bosco

nel caso dei governi Zapatero) o a patti di legislatura (come nel caso dei governi

González e Aznar). Tali intese, a loro volta, possono essere formate e sopravvi-

vono alle contingenze politiche se la distanza tra i partiti che le sottoscrivono

non è estrema.

A partire dal 2015, tuttavia, nel congresso spagnolo si è assistito sia alla cresci-

ta della frammentazione (numero dei partiti rappresentati) che della polarizza-

zione (distanza ideologica e/o programmatica) tra le forze politiche. In tale con-

testo, dar vita a governi di minoranza stabili è diventato molto più difficile che in

passato. Per questo, la partita che Sánchez sta giocando per dar vita al suo nuovo

governo dopo le consultazioni del 2019 va seguita con attenzione. Il suo esito aiu-

terà a capire se la Spagna sarà in grado di ingranare la retromarcia e tornare alla

governabilità perduta oppure resterà ancora bloccata in un percorso di “stabile

instabilità” (Morlino e Raniolo 2018).

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35dalla stabilità all’epidemia governativa: il caso della spagna

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39

Introduction

In this essay, foreign policy will be studied through the “modern” political sci-

ence instrument of the models, which is typical of the Italian school of political

science. A model is like a Weberian ideal type and summarizes behaviors that

obey conditions of simplicity and coherence. Each model represents how diplo-

macy, according to the main contemporary Western political cultures (conserva-

tive, liberal, neo-conservative or leftist constructivist) would work at the analytic

level. Then, the empirical analysis will show if the behavior rigidly follows one

of the models (that are like the primary colors: white, yellow, red, blue and black)

or whether they disobey them, being flexible, volatile, incoherent, passive and so

on. Thus, diplomacies would become green, orange, violet, gray, purple.

In the first section, the functioning of a political culture is emphasized; ev-

ery political culture is seen as a mix of interests and/or ideologies, and power

is only an instrument to reach those two objectives. Obviously, ideas and in-

terest may be compatible or lead to the opposite directions, and the same may

happen to different ideologies and/or interests. In conservativism, interests pre-

vail over ideologies; in liberalism, neo-conservatism, leftist constructivism or

Manicheanism, ideas overcome interests. In the second section, the four diplo-

FABIO FOSSATI

Obama’s and Trump’s foreign policies towards “difficult democracies”

Page 41: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

40fabio fossati

matic models (conservative, liberal, leftist constructivist and leftist Manichean)

and the three hybrids (neo-conservatism, neo-communism and xenophobic

right) are presented. In the third section, the evolution of the American foreign

policy, read through the lens of these models, is presented: during the Cold War,

in the 1990s, and from 2001 to 2008. The fourth and the fifth sections focus on

Obama’s and Trump’s diplomacies.

The relation among political cultures, interests and ideologies

This essay focuses on foreign policy, which will be analyzed through the relation

between political cultures, interests and ideologies (Fossati 2017). This is a com-

plex theme that has already been studied by other scholars (Goldstein, Keohane

1993, Katzenstein 1996, Wendt 1999, Wiarda 2013); yet it needs further devel-

opment. The “modern” approach of the Italian school of political science will be

applied, by using the instrument of the models (Weber’s ideal-types).

The first analytical effort in this regard is the identification of the main polit-

ical cultures in Western societies and political systems. Political cultures (Geertz

1973) may be defined as coherent sets of ideas or ideologies (values and beliefs),

that are “somewhat” (i.e. in a different way) linked to the promotion of certain

interests. Values are pre-empirical orientations, while beliefs are post-empirical

evaluations. The concrete way in which ideas and interests are linked depends

on the particular political culture, and cannot be selected in an abstract way (see

below). What are the main Western political cultures? There are two approaches

in order to answer this question. The splitters’ approach is to draw up a classifi-

cation (or typology), for example, of party ideologies (Ware 1996). The list will be

a long one, because these analytical instruments must be exhaustive. The lump-

ers’ approach is that of devising models (Weber’s ideal-types); of course, the list

will be much shorter, because those categories are not exhaustive and identify

only those behaviors that obey conditions of simplicity and coherence. Models

are white, yellow, red, blue and black, while reality is also orange, purple, green,

gray, violet... For example, Esping-Andersen (1990) elaborated three models of

conservative, liberal and social-democratic welfare states; the relation between

ideologies and political economy has been much more thoroughly investigated.

Both inductive and deductive strategies must be used to build models. Empirical

analysis is the first step in order to identify the main features of political behav-

iors for each political culture; then deductive analysis helps to translate those

data into a model, that fulfills the conditions of simplicity and coherence.

Models were more often used during the modern phase (1950s/1970s) of

political science, and tend to identify regularities, while historians and philos-

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41obama’s and trump’s foreign policies

ophers look at differences. Therefore, the models focus on the main features of

liberalism in post-1989 world politics, whilst it is well known that there were

several differences among liberal philosophers and liberal parties in the past.

Of course, these models may also differ from theories of International Relations

(IRs), usually labeled as “liberal”; there were many categories of (idealist, institu-

tionalist, utopian, Kantian, rationalist, reflectivist) liberal scholars. These mod-

els do not consider possible differences between the European and the American

collective perceptions of liberalism, on the assumption that Western popula-

tions share the same cosmologies (Galtung 1981). In fact, the main criticism that

can be advanced against models is their partial artificiality, because they are con-

structed by observers, i.e. by political scientists.

The main purpose of this essay is to identify some post-1989 diplomatic mod-

els constructed through specification of the main features of each Western po-

litical culture. There have been some attempts in the literature to link the polit-

ical cultures and diplomacies of individual states. Some studies have concerned

the USA; for example, Guzzini (1998) and Gries (2014) focused on the conserva-

tism-liberalism cleavage. Instead, very few generalizations have been applied to

the West as a whole, because it is assumed that such categories change across

countries and over the decades. This is true, and for this reason the analysis of

this article is mostly limited in time to the post-1989 period. Instead, difficulties

linked with the “space frontiers” can be overcome by emphasizing that it often

happens that political actors apply labels to themselves that have different mean-

ings (for several reasons) from political science. For example, Italian commu-

nists were in fact socialists because they rejected violence; French socialists were

in fact social-democrats because they accepted capitalism; Margaret Thatcher’s

government was liberal, and not conservative. Without any general category for

ideas, political science would always remain dependent on political philosophy,

while it has become more autonomous from international law (through regimes’

theory) and economics (through international political economy). In sum, the

main assumption of this essay is that political events matter more than declara-

tions, philosophers’ traditions, and IRs scholars’ theories.

The four diplomatic models (and the three hybrids)

Four diplomatic models have been developed (Fossati 2017) with reference to

the main Western democratic political cultures: the conservative, the liberal, the

social-democrat/constructivist, and the socialist/Manichean. Non-democratic

cultures – Nazism/fascism and communism – are not commonly addressed in

contemporary politics. A classification would lead to the identification of Social-

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42fabio fossati

Christian, agrarian, green, regionalist political cultures, but the assumption of

this article is that the latter represent the orange, the purple, the violet, and that

they are less relevant. For example, Social-Christian parties are a hybrid between

conservatism and social-democracy, while the greens between the leftist con-

structivist and the leftist Manichean ideology. Let us focus on the link between

ideas and interests of each political culture.

Conservatism has always been influenced by the realist philosophical tradi-

tion; it is a big mistake to confuse it with the defense of the status quo (past-ism:

in French, passéisme). In foreign policy, the emphasis has been on the defense

of collective state interests (like security), which are often plural and become

national if (as in Western countries) the (sociological) nation and the (political)

state coincide. In conservatism interests are more relevant, and subsequently

favor the consolidation of a nationalist ideology, which differs from Nazism/

fascism because it is not imperialist. Interests may be both strategic (with the

fight against Islamic fundamentalism and the control of foreign immigration)

and economic (for example, priority to oil exporting countries, to former colo-

nies or to close countries); thus, they are different and not always compatible.

The conservative choice of isolationism has only concerned pre-1929 American

diplomacies; since Roosevelt, and the end of the economic crisis, isolationism

has been abandoned. Conservatism has also weakened its patronage of specific

interests like those of rural producers in the last century. The conservative model

is based on respect for Westphalia’s international law, on sovereignty, and on the

non-interference principle. Then, the conservatives rely more upon power and

the use of force, prefer unilateralism, and pursue a great- (and not super-) pow-

er status1, linked to some priorities (Europe, the Middle East, richer East Asia…).

In economy, a conservative diplomacy promotes moderate laissez faire reforms,

defending national producers and opposing “blind” privatizations; that’s the rea-

son why, for example, Ronald Reagan has not been conservative in political econ-

omy. In politics, conservatives do not promote democracy, because communist

or Islamic fundamentalist parties could win elections. A conservative diploma-

cy is not interested in promoting national self-determination (of Palestinians,

Kurds, Armenians…) against state interests, that are always defended, as nation-

alism may lead to conflicts, terrorism, wars, and damage state interests. Then,

conservatives go to war only if their security or economic interests are at stake,

according to Clausewitz’s realist prescription; war is the continuation of politics

by other means. The conservative model relies upon the threat or use of violence

without the involvement of rigid global institutions, like the United Nations

(UN). This is the foreign policy of the so-called real-politik that has been theorized

1 For a typology on power statuses of super, great, medium, small powers (and low profile), see Fossati (2017).

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43obama’s and trump’s foreign policies

by Kissinger in the American diplomacy. In the Cold War, the US have often mil-

itarily intervened against the Soviet Union in the so-called “traffic light” wars

(Korea, Vietnam, Afghanistan), that have been fought by two local actors and only

one of the two great powers. Before 1989, the conservative diplomacy has always

been anchored to the “lesser evil” principle, because authoritarian (military or

personalist) regimes were considered much better than communist parties, that

could have won democratic elections, especially in Latin America.

The linkage between diplomacy and the defense of certain values, such as hu-

man rights, democracy, free market, and national self/determination, represents

the core of a liberal foreign policy. Liberals trust in global institutions, alliances and

negotiations, and promote multilateralism (or, better, “minilateralism”). However,

NATO is preferred to the UN, because their decisions are made by the “concert” of

democracies (like Kant’s foedus pacificum), while the UN suffers of vetoes coming

from authoritarian states like Russia and China. As a consequence of the priority

to universal values, a liberal diplomacy looks for a super- (and not great-) power

status within a global diplomacy. In economy, liberals promote radical laissez faire

reforms, by supporting privatizations. In politics, a liberal diplomacy promotes

human rights and democracy, and applies political conditionality to some key

decisions, like development co-operation; thus, Western foreign aid is tied to the

respect of civil rights and democracy by a third-world country. Then, liberals pro-

mote national self-determination, leading to single-nations states, or federalism,

through referenda, as cultural pluralism is preferred to state interests. A liberal di-

plomacy supports free movements of people, and objects to limits to immigration

flows, but promotes a symmetric integration of immigrants that must respect the

laws of the guest country. Then, the liberal model envisages a linkage between war

and values whose philosophical reference is the tradition of bellum iustum. “Evil”

must be fought, even if politically incorrect wars (against Third World states) are

necessary. Wars against Nazism/fascism, communism and Islamic fundamental-

ism are considered legitimate. But violence is chosen only after severe violations of

human and political rights. However, liberalism in continental Europe has always

been weak, especially in the Mediterranean countries.

“Neo-conservatism” represents a hybrid, with liberal objectives (like the pro-

motion of democracy) and conservative instruments (unilateralism and power

relations), within the strategic doctrine of “offensive Realism” (Mearsheimer

2001): see the empirical section.

The leftist post-Marxist philosophy (Von Hayek 1976, Galtung 1977) has

consolidated “constructivist2” (in Italy “reformist”) diplomacies based on ideas

2 Von Hayek and Galtung differently evaluated the (negative and positive) effects of con-structivism, which will not be used in this essay with the meaning given to it by Guzzini (2000) and others: that is, as synonymous with “reflectivism”.

Page 45: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

44fabio fossati

such as multi-culturalism, welfare state, political participation and active

non-violence. These have usually been the strategies of social-democrat parties.

Since 1989, the main value of constructivism has been “political correctness”,

a post-modern attitude based on the perception that rational Western people

can no longer manage reality. Political correctness aims at making equal what

is different and at not criticizing under-privileged actors (underdogs) through

language or politics. Political correctness stresses the priority of multi-cultural

values in decisions concerning both Third World immigration flows and plu-

ri-national armed conflict resolution processes outside the West. Constructivists

neglect national self-determinations and referenda, and promote pluri-nation-

al states, based on consensus pacts, in conflict resolution processes. They are

against radical terrorist Islamic groups (like Al Qaeda or Isis), but they favor mod-

erate fundamentalist actors (like the Muslim Brotherhood party or the Iranian

regime). Then, they promote free immigration flows, but political correctness

has led to an asymmetric integration process with immigrates, that are not asked

to respect the laws of the guest country. The moderate left accepts free market,

even if corrected by a strong state governance: welfare state in domestic politics

and foreign aid in world politics. In politics, constructivists prefer positive sanc-

tions (increase of foreign aid or diplomatic support) to democratizing countries

(democratic assistance), more than negative sanctions to authoritarian regimes

(political conditionality). Thus, social-democrats promote privileged relations

with post-communist countries of Eastern Europe or development cooperation

with the poorest countries in the Third World. The Gandhian active conception

of non-violence is the philosophical principle of constructivism; war is accepted,

even if under exceptional circumstances (Galtung 1985). First, constructivists go

to war only when weak non-Western actors are to be defended, such as Muslims

in Bosnia and Kosovo (but not catholic Croats). Second, aggressive states linked

to the West (like Serbia, a small power) can be attacked, but not Third World

countries (like Vietnam, Iraq, Libya, Hutus in Rwanda, or Arab Sudanese gov-

ernment). Politically incorrect wars are rejected because of the value of cultural

relativism. Third, asymmetrical conflicts, for instance those involving medium

powers, like Russia against Chechnya or China against Tibet, should not induce

military interventions by the West, so as to avoid a risky escalation. Fourth, vio-

lence can only be used reactively; decisions must be made immediately, but only

to stop the use of force by the aggressors. Constructivists follow the prescriptions

of global institutions, like the UN, even if these decisions are not made by demo-

cratic states. Before 1989, this ideology was influential in the universities (for ex-

ample among peace researchers), but not in world politics; it had some influence

only on the diplomacies of Scandinavian countries and the Ost-Politik of Western

Germany (since the 1970s).

Page 46: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

45obama’s and trump’s foreign policies

The leftist neo-Marxist philosophy (without the violent inclination of

communism), based on third-worldism and “passive” non-violence, leads to

a “Manichean” ideology, because reality is interpreted under two rigid dichot-

omous categories (of white-good, black-evil: the USA, “neo-liberalism”). These

(anti-NATO, anti-American, anti-Western, and anti-capitalist) ideas correspond

to the strategies of socialist parties, but pro-democracy, movements in domestic

politics. The socialist ideas have often been anchored to pacifism. Manichaean

peace movements chose a passive conception of non-violence whose philosoph-

ical reference is Tolstoy; they reject war even in an ultima ratio scenario (Bobbio

1984). Manichaean peace movements mobilize when Western powers intervene,

but remain silent if a Third World actor is violent. In economy, as socialism has

failed, the post-1989 Manichean strategy is based on populism, with an increase

of public expenditure, to protect the poorest citizens. Anti-capitalist values are

also promoted by no-global movements.

Neo-communism is the second hybrid, with a “post-modern” synthesis be-

tween non-violent socialism and revolutionary (or terrorist) communism;

neo-communists are not directly violent, but appreciate the “violence of the

others” (the underdogs): Castro, Maduro, Chiapas rebels. Neo-communism com-

bined two coherent (pacifist socialist and violent communist) models, and the

outcome was a “false pacifism”, that was promoted (for example) by the Italian

Communist Party (PCI) during the Cold War. Communism was naturally violent

and has pursued its aims through revolution and “proletarian dictatorship”. In

the West, it was promoted by communist terrorists, like the Brigate Rosse in Italy

and the RAF in Germany. The PCI was a “neo”-communist party.

The third hybrid (between conservatism and Nazism-fascism) has emerged in

recent decades in the USA and Europe: that of xenophobic right. This “Alt”-Right

is ambiguous; it is not violent, and it is very politically incorrect; their leaders

usually make intolerant declarations against non-Western immigrants or gays.

This right has often been defined as populist, but that is conceptual stretching,

because the xenophobic right has never been in favor of the increase of public

expenditure.

Finally, there can naturally be foreign policies aimed at promoting neither

interests, nor values/ideas, and these are uncertain, reluctant (Destradi 2017),

passive diplomacies, based on wait and see, apathy, inertia… In fact, it often hap-

pens that interests or ideas are simply absent.

The analytic instrument of the models permits to overcome some superfi-

cial conclusions on the relations between interests and ideologies, that were

advanced by the followers of some schools of thought. For example, some

orthodox realists (Waltz 1979) and some post-Marxists (Carlsnaes 1986) as-

sumed that ideologies merely reflect power relations. Only the interests of

Page 47: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

46fabio fossati

states or classes would matter. The conservative defense of collective interests

(security of citizens, limits on immigration) consolidated a nationalist ideol-

ogy. Waltz’s evaluation seems apt for the nationalist ideology, very strong in

the Cold War, that was the derivation of states’ interests. Instead, the thesis of

the instrumentality of ideas induces an intellectual mistake for the other three

political cultures, which were anchored to autonomous values. In liberalism,

constructivism and Manicheanism, ideas precede interests. Democratic ideas

favor the formation of pro-human rights and pro-democracy non-governmen-

tal organizations (NGOs); welfare state values lead to the consolidation of lob-

bies (unions); anti-American beliefs produce no-global groups and Manichean

peace movements. This is the most innovative analytical shift of this article

with reference to the previous literature. Precisely because “trans-country”

models of the main Western political cultures have never been identified, the

crucial link between ideologies and interests has been missed. In sum, liberal

and leftist political cultures begin with ideas and then consolidate interests,

while conservatism starts with interests and then crystallizes a nationalist ide-

ology. Conservatism is more “intensive” in interests, and the other three are

more “intensive” in ideologies, even if they are often labeled as ideologies in

the literature. Power is always important, but it is not an aim; it is an instru-

ment to get interests, ideas or both.

The promoters of the schools of thought have also tried to manipulate the

empirical analysis. For example, reflectivists wanted to underestimate the role

of interests, and for example Wendt (1999) emphasized that interests and ideas

always coexist; all interests would have an ideological dimension. But this is a

form of conceptual stretching, because only the empirical analysis – coupled

with the analytic instrument of models – can show whether interests or ideol-

ogies can prevail. Also neo-classical realists (Rose 1998) undermined the role

of ideologies. They linked interests to the subjective perceptions of the various

actors; as they always change, ideas would never matter. For example, Johnson

perceived that in Vietnam there were strong American interests and attacked

Ho Chi Min; then, Nixon perceived that US interests were low and decided to

abandon that war. A correct empirical analysis (based on the analytic instru-

ment of models) would support the second diagnosis; thus, Johnson decision

has been influenced by ideas and not by interests. Let’s make another exam-

ple. Bush Jr. perceived that there were strong US interests in Iraq to make war

against Saddam Hussein in 2003. After the war, he realized that those interests

were probably low and that the outcome (Isis conquering large part of Iraq) was

contrary to American interests. A correct empirical analysis (based on the ana-

lytic instrument of models) would support the second diagnosis; Bush Jr.’s de-

cision to attack Iraq was influenced by ideas and not by interests. Neo-Realists

Page 48: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

47obama’s and trump’s foreign policies

have done a permanent “trial to intentions” to show that ideas never matter,

but this is intellectually incorrect.3

Diplomatic models and US foreign policy

The hypothesis anchored to diplomatic models is that Republican presidents

should follow the conservative model, while Democratic leaders the liberal one

(Fossati 2017). Instead, during the Cold War conservatism prevailed over liberal-

ism, and Democratic presidents almost always applied the conservative model.

Values were sacrificed because of the “lesser evil” principle, that was the corner-

stone of conservatism. Neither Republican nor Democratic presidents promot-

ed democracy in the third world, because they wanted to avoid that communist

parties (the “absolute evil”) could win free elections, and kept supporting (mil-

itary or personalist) authoritarian governments, which represented the “lesser

evil”. During the Cold War, conservatism has been applied in most armed con-

flicts, which were anchored to American interests, except the “liberal” war in

Vietnam, where values – to defend that country from communism according to

bellum iustum tradition – overcame limited interests. Vietnam was a poor (on the

contrary of South Korea) and not strategic (on the contrary of Indonesia) coun-

try (Morgenthau 1969). In fact, that war was decided by a Democratic president

(Johnson), while a Republican president (Nixon) halted the Vietnam War, be-

cause he (and Kissinger) perceived that an American defeat would not have had

dramatic consequences. After Vietnam, all Democratic Party presidents aban-

doned the bellum iustum tradition. The US emphasis on liberal ideas in the Cold

War has mostly been rhetorical, without major effects on politics; thus, the USA

did not export peace in the Third World, where many “traffic light” wars (Korea,

Vietnam, Afghanistan, Nicaragua, El Salvador, Angola, Mozambique…) were

fought against the USSR.

In the 1990s conservatism remained the prevailing political culture in

the US diplomacy. Some wars (in Kuwait and Afghanistan) were threatening

American interests. Kuwait (a sovereign country, allied with the USA) had been

attacked by Saddam Hussein, destabilizing the oil market; the Afghan Taliban

were allies of Al Qaeda and supported Bin Laden. The new lesser evils were

the Islamic fundamentalist actors; the conservative diplomacy led to support

military or personalist regimes in Arab-Islamic countries, like in Algeria in

the 1990s. Instead, US interests were limited in the Bosnia (1995) and Kosovo

3 The contribution of the schools of thought was great in the last century, but then they became counter-productive; a conference on “The end of IRs theory” was organized by the European Journal of IRs in 2013 (VV. AA. 2013).

Page 49: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

48fabio fossati

(1998) wars; Milosevic was repressing national groups, like in many other con-

flicts in Eastern Europe. The two decision-making processes, being a novelty,

were long and difficult. After 1989, liberalism had more influence in diploma-

cy, like in former Yugoslavia’s (Bosnia and Kosovo) “just” and politically correct

wars (with limited interests), decided by Clinton and Blair, and supported by

many European governments of the moderate left (like D’Alema in Italy). Then,

the other two post-1989 military interventions were both “just wars” (against

tyrants), and compatible with interests: in Kuwait (against Saddam Hussein)

and Afghanistan (against the Taliban). In the 1990s Clinton has promoted de-

mocracy in Latin America, sanctioning (with cuts to foreign aid) presidents who

had dissolved parliaments: Fujimori in Peru and Serrano in Guatemala (Fossati

2017). He also tried to apply trade sanctions to China after Tienammen’s re-

pression in 1989, but then he withdrew them and returned to a conservative

diplomacy.

Then, Bush Jr. abandoned conservatism, as the 2003 war against Hussein in

Iraq was against a “lesser evil”, and followed the “ideologies-intensive” neo-con-

servative diplomacy, with liberal objectives and conservative instruments. In

that war, the conservative diplomacy was promoted by France and Russia. After

the war, Bush Jr. could not give support to their declared security commitments

based on the defense of two interests: avoiding the Hussein-Bin Laden alliance,

and preventing the deployment of Iraq’s weapons of mass destruction. That alli-

ance and those weapons were absent. The liberal objectives of the war had been

stronger, and were anchored to values (the defense of Israel, a “civilization ally”,

thanks to the role of the Israel’s lobby) – the “tyrant” Saddam Hussein had to be

sanctioned for his support to Palestinian terrorists -, and not to American inter-

ests – Hussein was not directly threatening the USA (Mearsheimer, Walt 2007).

Exporting democracy was another ideological objective of the neo-con diploma-

cy; an elected government could have fought Islamic fundamentalist actors much

better than corrupted (military or personalist) authoritarian regimes, supported

by the “old” conservators. Neo-cons also applied the typical unilateral (conserva-

tive) strategy of refusing the concert of democracies within the UN. Instead, Italy

and Spain followed the mainstream liberal diplomacy, by supporting the “just

war”, but only under the UN umbrella.

In sum, from 1990 to 2008 interests prevailed, but ideologies were rele-

vant too (Fossati 2017); the exceptions were the just and “politically correct”

wars in Bosnia and Kosovo, and the neo-con war in Iraq. An intentional alli-

ance arose between the promoters of conservatism and liberalism in Kuwait

and Afghanistan. Bosnia and Kosovo wars were supported by both liberals

(Clinton) and constructivists (Blair and D’Alema); democratic values and weak

people (but no strong interests) had to be defended. In the neo-con Iraq war

Page 50: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

49obama’s and trump’s foreign policies

of 2003, there were two parallel alliances: between neo-cons and liberals, and

between old conservators and constructivists. Democracy had been promot-

ed in the 1990s by Clinton, but since 2001 that priority has been weakened by

Bush Jr.; political conditionality was substituted by democratic assistance, that

had very low political impact.

Obama’s foreign policy in difficult democracies

At the beginning of his mandate (2009), Barack Obama was more willing not to

do certain things, like wars and democracy promotion, rather than doing some-

thing (Nau 2010, Shively 2016). His diplomacy was anti-conservative, anti-liber-

al (Kupchan, Trubowitz 2010), and anti-neo-con. His strategies against Al Qaeda

were intelligence research, torture, and attempts to kill (and not capture) leaders,

like Bin Laden’s murder in May 2011 (Mc Krisken 2011). That outcome was co-

herent with conservatism.

But Obama’s most challenging decision was his reaction to the Arab Spring

since December 2010. He decided not to support anymore the (personalist)

authoritarian regimes of Egypt, Tunisia and Yemen. Thus, the conservative di-

plomacy of the “lesser evil” has been abandoned by Obama in the Arab Spring;

Mubarak, Ben Ali and Saleh were the lesser evils of Islamic fundamentalist

actors.

Then, the 2011 NATO war in Libya was against Gaddafi (Ackerman 2011),

who had also been previously perceived as the lesser evil of Islamic fundamen-

talism. Liberal values emerged in that war “against the tyrant”, promoted by

France and the United Kingdom4; the conservative diplomacy was promoted

by Germany, that objected to that decision. The 2011 Libyan war was coherent

only with liberalism; it was a just and politically incorrect war against a violent

Third World leader.

In 2013, the armed forces staged a coup in Egypt, even if without any rel-

evant US aid, but al Sisi was supported by Israel and Saudi Arabia. As a conse-

quence of the Arab Spring, Obama decided to promote the moderate (not ter-

4 France was against Gaddafi because of the war in Chad; the United Kingdom because of the Lockerbie terrorist attack. But those “subjective interests” were less relevant than the liberal value of the war against the tyrant that pushed Obama to intervene. After Gaddafi’s death and the long war among Libyan clans, Obama admitted that the US diplomacy had been weak; it became evident that Western interests would have been better guaranteed by the lesser evil diplomacy. But the neo-realists’ diagnosis was wrong also in Libya. French and British objec-tives were not subjective interests, but were values: to punish Gaddafi for his use of violence. Instead, the conservative principle of the lesser evil accepts some violence of that authoritarian regime, as the alternative (a war among clans and Islamic fundamentalists) is worse.

Page 51: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

50fabio fossati

rorist) Islamic fundamentalist actors (Muslim Brotherhood in Egypt and Libya,

Ennahda party in Tunisia, Erdogan in Turkey, and the Iranian government, but

not the Houthis in Yemen), that is a typical “politically correct” diplomacy of

the constructivist left.

Then, some radical Islamic fundamentalist groups emerged, and in June

2014 Isis proclaimed the new caliphate, by uniting large parts of Syria and Iraq

(after the US withdrawal in 2011), and conquered some tows in the north of

Libya. Moderate Shiite al Houthis and radical Al Qaeda emerged in Yemen.

The typical conservative answer would have been a “high intensity” military

intervention against Isis or the support of a military coup of Haftar in Libya.

The only conservative war was the French military intervention in Mali (in

2013). Instead, Obama started only “low-intensity” aerial (drone) bombings –

the so-called “surrogate warfare” (Krieg 2016) – against Isis in Iraq and Syria

(since 2014), that had limited effects. Obama hoped that not making a real war

against Isis in the Middle east would have avoided terrorism in Europe, but

that “tacit agreement” failed after Isis’ terrorist attack in Paris of November

2015. Even after that event, the US bombings in Syria remained limited, and

at the end of 2016 Isis had lost few territories. The US priority did not seem to

defeat the enemy, but to limit American human losses. Obama did not apply

any model against Isis; he was not conservative, by refusing to attack Isis and to

support the lesser evil (Assad), but he did not launch either a liberal “just war”

against the tyrant: Assad. In Syria, Obama kept supporting moderate Sunnis

(and Kurds in the north); thus, he indirectly favored Isis, as Assad had to fight

two enemies. In July 2015, Obama also signed the nuclear agreement with Iran

(Parsi 2017). The constructivist support of moderate fundamentalist actors had

already emerged in the Arab Spring.

However, in August 2016 the USA bombed Sirte, a town in the north of

Libya that had been conquered by Isis, and helped the government to recapture

it. Also Al Qaeda bases in Yemen were bombed by the US drones (since 2010).

Drone bombs were also launched against Al Shaabab in Somalia, and against

Isis and Taliban in Pakistan. In Afghanistan there was a partial withdrawal of

US troops, and the war between the Taliban and the government continued. All

those were “low-intensity” military interventions without relevant political ef-

fects. The promoters of radical Islamic fundamentalism were no longer fought

with the usual conservative strategies of the American diplomacy (“high inten-

sity” wars and “lesser evil” principle) or with the liberal ones (“just wars”).

While Clinton and Bush Jr. promoted conflict resolution in Bosnia,

Afghanistan and Iraq, Obama only promoted (without success) two consen-

sus pacts (coherent with constructivism): in Yemen between pro-Iran Houthis

(Islamic fundamentalist) Shiites and pro-Saudi Arabia Sunnis, and in Libya be-

Page 52: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

51obama’s and trump’s foreign policies

tween Haftar’s army and al-Sarraj’s government. Obama did not promote a con-

sensus agreement neither in Syria, nor in Afghanistan, as he did not want to have

diplomatic relations with Assad (Calculli 2018) and the Taliban. In 2014, Obama

refused Putin’s proposal of a Ukrainian federal agreement, that was coherent

with liberalism; he did not prevent the Donbass war, and there was not any US

mediation capability in the conflict between Ukraine and the Russian minorities

(Pisciotta 2018). Obama was not able to mediate either in the conflict between

Palestinians and Israel, and relations with Tel Aviv (and with Saudi Arabia or

Egypt) worsened (Freedman 2017).

Obama did not promote democracy either (Carothers 2013); he did not ap-

ply negative sanctions (with cuts to foreign aid) to authoritarian regimes of

the Egyptian and the Thai armed forces after their military coups: in 2013 and

2014. In May 2009, he criticized neither the massacre of the Tamil tigers by

the Singhalese government, nor Erdogan’s repression of the promoters of the

coup d’état in Turkey (in July 2016). Then, his “anti-liberal” rapprochement with

Cuba was done without any democratic progress of Raul Castro. He did not react

against the new president Maduro in Venezuela, who had become authoritar-

ian after Chavez’s death in 2013, and against Ortega’s semi-authoritarian gov-

ernment in Nicaragua, whose political performances decreased after 2016 presi-

dential elections. All those decisions were far from constructivism, because also

leftist rewards come after democratic progresses. Thus, Obama has also been far

from a liberal diplomacy, except in the Libyan war.

In sum, at first Obama changed three models of diplomacy: first the conser-

vative (Bin Laden’s murder), then the liberal (Libyan war), finally the construc-

tivist (support of moderate Islamic fundamentalist actors in the Middle East

and promotion of consensus pacts in Libya and Yemen). Obama probably tried

to be constructivist, but without coherence, as he did not promote a consensus

pact in Syria, Afghanistan and Ukraine. Obama was not fully constructivist, and

he abandoned conservatism and liberalism. He was too volatile, but in the first

phase he was more incoherent than “intentionally” pragmatic. Then, when Isis

conquered parts of Iraq and Syria, he relied upon that tacit agreement, that failed

after Isis’ terrorist attack in Paris of 2015. By supporting moderate Sunnis, he

indirectly favored Isis. After 2015, Obama kept refusing any coherent (conser-

vative, liberal, constructivist) strategy; he had become passive and uncertain in

both war decisions and conflict resolution. His diplomacy was anchored neither

to interests nor to values, and Obama abandoned any American great power’s

ambition; with him, US governance capability in world politics strongly de-

creased (Fossati 2017).

Page 53: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

52fabio fossati

Trump’s foreign policy in difficult democracies

The Isis’ terrorist attacks in Paris (in November 2015), Brussels, Nice, Berlin,

Manchester, Barcelona (in 2016 and 2017) could have led to a revival of the

conservative diplomacy, with the promotion of new lesser evil dictators (like

Haftar in Libya), and of new “high intensity” wars (in Syria and Iraq) against

Isis. Since 2017, Trump and Russia increased bombings in Iraq and Syria. In

2017 and 2018 most Isis’ territories were recaptured by Iraqi, Syrian and Libyan

armies, but the involvement of the US armed forces was limited; it was a “surro-

gate warfare”: only 75 American soldiers died in Iraq and Syria. US and Russian

bombings aided Assad against moderate Sunnis, but not against Kurds, as

Trump stopped to support the former but not the latter. Trump’s abandonment

of moderate Sunnis (and not increased US bombings) seemed the main reason

why Isis was weakened in Syria; Assad could better fight Isis. In Iraq, Trump did

not support Kurds’ request for secession after the referendum of September

2017; the Iraqi federal government could also better fight Isis. Haftar increased

his military control in Libya in 2017/2019, with a military support from Egypt

and Saudi Arabia, but he did not defeat al-Sarraj’s government, sponsored by

the UN and the European states.

Trump kept being involved in many low-intensity (“surrogate warfare”) mili-

tary interventions (with aerial bombings): in Libya, Iraq and Syria against Isis, in

Afghanistan and Pakistan against the Taliban and Isis, in Yemen against Al Qaeda,

and in Somalia against Al Shaabab. Trump does not seem to want to win those wars,

but to avoid that those radical fundamentalist groups conquer power. Another (not

declared) objective of those wars could be the attempt to catalyze violence in the

Middle East, avoiding terrorist attacks in the West – which diminished after Isis’

loss of territories. Trump has declared that the USA will reduce its military forces

in Syria and Afghanistan – negotiations with the Taliban started in February 2019

-, as they are less prior than oil-exporting Iraq. The first decision is compatible with

a conservative diplomacy, as Isis was weakened and Assad is the lesser evil, but not

the second; the Taliban are a strong radical fundamentalist actor.

Trump’s diplomatic efforts are limited; he is not involved in any relevant ne-

gotiation on conflict resolution. He abandoned Obama’s constructivist proposals

of consensus pacts in Libya and Yemen. Trump has changed Obama’s diplomatic

priority in the Middle East: Saudi Arabia and not Iran – the 2015 nuclear agree-

ment was frozen –; relations with Israel and Egypt also improved. And he has

abandoned Obama’s constructivist priority for moderate Islamic fundamentalist

actors.

Trump is not interested in democracy promotion, being far from both

neo-conservatism and liberalism (in Cuba, Venezuela, Thailand, Myanmar),

Page 54: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

53obama’s and trump’s foreign policies

weakening the world order projects of the 1990s (Ikenberry 2017, 2019, Patrick

2017, Peterson 2018). He accepted Russia’s and China’s middle powers’ leader-

ship ambitions in their regions, and did not raise any objection in Ukraine or in

North Korea. In Venezuela, Trump is politically supporting the leader of the mod-

erate right (democratic) opposition Guaidò, against the radical left (authoritari-

an) president Maduro; this soft diplomacy is coherent with conservatism. Before

1989, American presidents never hesitated to use violence to fight third-world

leaders in Latin America; that was a “hard” version of conservatism. Thus, Trump

has not only frozen democracy promotion, like Obama did (even if with a differ-

ent, conservative versus constructivist, ideological attitude); he is comfortable

with many authoritarian leaders, that at the same time do not perceive anymore

the world order climate of the ‘90s.

Trump has not been volatile and uncertain like Obama, but his diplomacy

is very “reluctant”. He is materializing a “soft” conservative diplomacy and the

label of “soft power” seems to be perfect for him. He has accepted Assad as the

lesser evil of Isis, even if Trump is not making a “high intensity” war in Syria.

In Libya, he is politically supporting Haftar, but not for a military coup. Then,

in Venezuela, he is in favor of Guaidò’s opposition to Maduro, but only with

diplomatic pressure, like most of European and Latin American governments.

American interests appear “shy” in Trump’s reluctant (Destradi 2017) diplomacy,

but those interests highly overcome ideologies, that have become marginal in his

diplomacy (Dian 2018, Jervis et al 2018).

Another feature of Trump’s foreign policy is his unilateralism (Druckman

2019, Nye 2019), as he is not inclined to coordinate his decisions with other

Western governments, but that’s typical of mainstream conservative (see for ex-

ample Bush Jr.’s decision to attack Iraq), on the contrary of (usually multilateral)

liberal, diplomacies. Then, the label of “Jacksonian diplomacy” (Mead 2017), fo-

cused on potential power and on the selective use of violence, is a simplification

of Trump’s foreign policy. Trump is “shy”, because he is fast and assertive in dec-

larations, but he is slow and reluctant in actions. These two sides of his diploma-

cy are linked; Trump is assertive and arrogant, precisely because he is conscious

that he is able to do few things in foreign policy; for that reason, he is not really

“Jacksonian”. Trump has not become isolationist, but seems to rely more on the

search for prestige and reputation (Clarke, Ricketts 2017a, Williams 2018, Wolf

2018), by “displaying” more than by using power (Morgenthau 1948).

Moreover, it is meaningless to label Trump’s foreign policy as populist, like

Stangel, McDonald and Nabers (2019) or Bouchier and Thies (2019) did, because

he is not populist either in domestic political economy, where he supports mod-

erate laissez faire, with some protectionism to defend national producers: howev-

er, that is mainstream conservatism. Other Republican presidents, like Reagan,

Page 55: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

54fabio fossati

became liberal in political economy. Populism is a radical left ideology, based on

both expansion of public expenditure (Dornbusch, Edwards 1989) and plebisci-

tarian appeals to the population (Geddes 1994). Trump made those plebiscitarian

appeals to the population, and rightist conservative leaders usually do such kind

of things (see for example De Gaulle in France or Berlusconi in Italy), but this

does not automatically convert them into populist. Latin American leaders like

Peron, Allende, Garcia, Chavez were populist, not Trump, De Gaulle or Berlusconi.

In sum, Trump is using low-intensity military force against radical Islamic

fundamentalist actors, both to avoid that those groups conquer power and to cat-

alyze violence in the Middle East, as Islamic terrorism has to be prevented in the

West. Then, he is not interested in mediation and conflict resolution. His foreign

policy of “soft conservatism” is quite coherent, but it is not anymore a “great pow-

er” diplomacy, and, according to Drezner (2019), “this time is different” (thus, it

is independent from both Obama and Trump) and “US foreign policy will never

recover”. Cohen (2019) also argued that the crisis of US foreign policy will last

beyond Trump. However, leaving Syria is compatible with conservatism, because

Isis has been weakened and Assad is the lesser evil. His main contradiction is rep-

resented by negotiations with the Taliban, that are a radical Islamic fundamental-

ist group. Trump is not promoting a constructivist diplomacy, aimed at reaching

a consensus pact between Ghani and the Taliban, but if the USA sign a peace deal

and leave Afghanistan, then the Taliban will probably defeat Ghani and conquer

power. Negotiations with the Taliban contradict even the soft version of a con-

servative diplomacy. What can explain this contradiction in Trump’s diplomacy?

The most convincing hypothesis is that negotiations between the US and (Sunni)

Taliban are encouraged by Saudi Arabia, that has always financed them since the

1990s, because they seem the only actor able to fight Isis in Afghanistan. Taliban

are also supported by Qatar, and a latent conflict has recently emerged between

the two monarchies; also on the mediation process between the Taliban and the

US. This empirical evidence shows that the US has not a “Grand Strategy” any-

more, and that the American Middle East policy is probably suggested by local

powers: Saudi Arabia for Trump and Iran for Obama. In sum, both diplomacies

seem to have been elaborated more by those two Middle East countries, than by

the US.

Conclusions

The following table summarizes the three diplomatic models (conservative, lib-

eral, constructivist), to be applied to Obama’s and Trump’s foreign policy deci-

sions in “difficult democracies”.

Page 56: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

55obama’s and trump’s foreign policies

FP Decision Conservative model Liberal model Constructivist model

Al Qaeda Killing of Bin LadenOBAMA

Just war against Al Qaeda

No war because politically incorrect

Arab Spring Support of lesser evil: military or personalist regimes

Democracy promotionin single-nation states

Support of moderate Islamic fundamentalists OBAMA

Libyan war Support of lesser evil: Gaddafi

Just war against GaddafiOBAMA

No war because politically incorrect

Post-war Libya Promotion of military coup: Haftar

Promotion of federalism

Support of moderate Islam and of consensus pact OBAMA

Egypt Promotion of military coup: Al Sisi

Democracy promotion with political conditionality

Support of moderate Islamic fundamentalists OBAMA

Isis (Iraq, Syria) High intensity waragainst Isis

Just war against Isis and promotion of federalism

No war and promotion of consensus pact

Syria (Assad) Support of lesser evil: Assad TRUMP

Just war against Assad No war and promotion of consensus pact

Yemen High intensity waragainst Al Qaeda

Just war against Al Qaeda and promotion of referendum

Support of [moderate Houthis and] consensus pact OBAMA

Afghanistan High intensity waragainst Taliban

Just war and promotion of referendum

No war and promotion of consensus pact with Taliban

Venezuela Promotion of military coup against Maduro

Democracy promotion with political conditionality

Democracy promotion with democratic assistance

Ukraine No war but diplomatic pressure on Russia

No war and promotion of federalism

No war and promotion of consensus pact

North Korea No war but diplomatic pressure on China

Democracy promotion with political conditionality

Democracy promotion with democratic assistance

Page 57: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

56fabio fossati

At first, Obama has been pragmatic and volatile: with something of conserva-

tism (Bin Laden’s killing), of liberalism (the war against Gaddafi), of construc-

tivism (with the support of moderate Islamic fundamentalist actors after the

Arab Spring: in Libya, Egypt and Iran). But his diplomacy was not fully con-

structivist, as he did not support moderate fundamentalist actors in Yemen

(Houthis) and did not promote consensus pacts in Syria (including Assad),

Afghanistan (including Taliban) and Ukraine (including Russians). When Isis

emerged, Obama became passive and uncertain, by disobeying any model. At

the end, his diplomacy has not been coherent, and has promoted neither inter-

ests nor values. The label of “smart power” (Nye 2012), that is to say a combina-

tion of hard and soft power, has been used for Obama; in fact, his diplomacy has

been soft, but the problem is that compliance was not stabilized; thus, Obama’s

“power” has been very low.

Instead, Trump stabilized some compliance, and for example Isis has been

weakened in Syria and Iraq, but only with “surrogate warfare”. Trump has not

become isolationist, and his diplomacy is quite (even if not fully) coherent, but

he is materializing a “soft” conservative diplomacy, with a “reluctant” defense of

interests. This may appear a paradox, because his communication style is rude

and assertive, but he combines fast declarations and slow actions, and they both

appear as the two sides of the same coin. This evaluation is similar to Starr-

Dealen’s (2018) emphasis on Trump’s “principled realism”. The only mainstream

conservative diplomacy is applied in Syria, where he is promoting (together

with Russia) Assad, the new lesser evil (and not for example a consensus pact).

In Libya he is supporting the lesser evil Haftar, but not with the typical conser-

vative instrument: the support of a military coup. Then, the USA are using “low

intensity” violence (“surrogate warfare”), with aerial bombings in several Middle

east countries, against some radical Islamic fundamentalist groups. A main-

stream conservative diplomacy should have led to high intensity wars against

Isis in Iraq and Syria, Al Qaeda in Yemen and Taliban in Afghanistan. However,

Trump’s negotiations with the Taliban contradict even the soft version of conser-

vatism, that would never support a radical Islamic fundamentalist actor; this has

probably happened because those talks have been encouraged by Saudi Arabia.

The planned reduction of US military forces in Syria, but not in Afghanistan, is

coherent with conservatism. Then, Trump is supporting Guaidò’s democratic op-

position to Maduro in Venezuela, but only with diplomatic pressure (soft con-

servatism); a mainstream conservative diplomacy should lead him to organize a

military coup against Maduro. Finally, he is not making any relevant diplomatic

pressure, typical of a great power, on Russia in Ukraine and on China in North

Korea. However, Trump has abandoned the defense of liberal and constructivist

ideas, typical of the 1990s, or of neo-conservatism (in the 2003 Iraq war); both

Page 58: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

57obama’s and trump’s foreign policies

“just wars” (like in Bosnia and Kosovo) and democracy promotion only seem a

memory of the past (Norrlof 2018, Stokes 2018). Constructivism (with an em-

phasis on consensus pacts) is being firmly refused by Trump; it is currently pro-

posed (even if without any relevant political effect) only by the UN, by the EU

commission (“Lady Pesc” Mogherini), and by some European governments.

In sum, US foreign policies of both presidents have abandoned their previous

great power’s ambitions (Nye 2019, Walker 2018), whose main feature is gover-

nance capability (Fossati 2017).5 Obama was not able to influence international

politics, while with Trump some compliance has been stabilized -Isis has been

weakened -, but the USA does not seem to be willing anymore to try to “govern

the world”. For example, the American Middle East policy seems to have been

elaborated more by local powers (Iran for Obama and Saudi Arabia for Trump),

than by his presidents.

5 Here is a list of essays on Obama (Bose 2019, Brands 2016, Cutler 2017, Dueck 2015, Henriksen 2017, Kaufman 2016, Keller 2015, Lofflmann 2017, Maas 2018, Walt 2018) and on Trump (Abrams 2017, Brands 2017, 2018, Daalder, Lindsay 2018, Dombrowki, Reich 2017, Edwards 2018, Jarhi Milo 2018, Maillet 2018, Oliva, Shanahan 2019, Singh 2016). Moran (2017) labeled Obama’s diplomacy as declinist. According to Clarke, Ricketts (2017b), Obama’s diplo-macy was an attempt of “decline management”, while Trump’s foreign policy was aimed at a “decline denial”. According to Posen (2018), Trump is looking for a primacy “without a pur-pose”. Jeffrey (2017) has emphasized the continuity, even with a different personal tone, be-tween Obama and Trump. Powaski (2019) wrote about realism and idealism, but those are cat-egories of political philosophy or of schools of thought of IRs scholars, while conservative or liberal diplomatic models are categories of political science. Finally, there are some rigid schol-ars (Mearsheimer 2018, Porter 2018), who are simply nostalgic of the past, and are incapable of reading whatever diplomatic change.

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1

Con l’ultimo armistizio firmato a Belgrado, il 13 novembre 1918, tra il capo delle

forze alleate nei Balcani il generale francese Louis Franchet d’Espèrey (1856-1942)

e il governo ungherese di Mihály Károlyi (1875-1955) finirono le ostilità tra i bel-

ligeranti del primo conflitto mondiale, ma non cessarono gli scontri legati alle

sue conseguenze, alcuni di essi divennero una vera e propria guerra come la ci-

vile russa, la polacco-russa (Davies 1972) e la greco-turca. La violenza più brutale

aveva dominato, in ogni sua manifestazione, la seconda parte del XIX secolo e gli

anni immediatamente antecedenti il conflitto e dopo di esso continuò ad essere

la prima opzione nei tentativi di soluzione di controversie nazionali e internazio-

nali. Nel medesimo periodo maturò il definitivo coinvolgimento delle masse nel-

le vicende belliche il cui lascito di odio, rabbia, paura e promesse non mantenute

rese più difficile la costruzione della pace e più semplice la ricerca di un nemico

da identificare come responsabile delle proprie disgrazie. La carneficina appe-

na conclusa non impedì che la forza continuasse ad essere usata dai governi per

evitare scioperi e tentativi rivoluzionari e per imporre, in alcuni casi, un ordine

politico altrimenti non accettato. Il conflitto con la banalizzazione e, nello stesso

*1 Una versione preliminare del lavoro è stata pubblicata dalla Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale (2018).

CESARE LA MANTIA

La lotta politica durante la transizione della Polonia da nazione divisa a Stato sovrano*

Page 67: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

66cesare la mantia

tempo, glorificazione della morte contribuì, in maniera decisiva, all’affermazio-

ne di un processo di brutalizzazione della politica nella società europea iniziato

nel XIX secolo e consolidatosi nel successivo (Mosse 2005; Ventrone 2003).

Non fu estranea a tale evento la scomparsa di una governance continentale, già

espressa dal Concerto europeo (Breccia 2008) e l’incapacità di quella che avrebbe

dovuto sostituirla di essere all’altezza del gravoso compito. Il modello tramon-

tato, espressione della forza dei più importanti Stati del continente, era fondato

su un fattore di compensazione politico-territoriale destinato, nelle intenzioni

e nei risultati, a conservare tra essi un equilibrio di potenza che non poteva pre-

scindere da una visione di largo respiro e da un principio dinamico; il sistema

creato si modificava per proteggere l’equilibrio, il suo successore fu quasi statico,

basato sul tentativo di mantenimento di quanto stabilito con i trattati di pace,

soprattutto quello di Versailles con la Germania, sanzionanti sul continente la

supremazia francese e una riorganizzazione politico-territoriale europea a sua

tutela. Tra i membri appartenenti al precedente ordine europeo il Regno Unito e

la Francia serbarono il proprio ruolo di potenze ad interessi mondiali e, elemento

più importante, possedevano i mezzi per tentare, con ragionevole ottimismo, di

conseguire i propri obiettivi. L’Italia continuava a confrontarsi con la grandez-

za delle proprie aspirazioni e la pochezza dei mezzi posseduti per realizzarle.

La Germania era, per il momento, impegnata ad assorbire le conseguenze della

sconfitta. Gli Imperi asburgico, germanico, ottomano e russo si erano dissolti, la-

sciando in eredità i primi tre nuovi Stati e il quarto un movimento rivoluzionario

temuto in tutta Europa (MacMillan 2002). Quattro Imperi multinazionali erano

scomparsi e gli Stati successori vivevano una profonda crisi di assestamento po-

litico, sociale, legislativo, confinario in cui l’uso della forza era un forte elemen-

to caratterizzante. La già limitata capacità di gestire la violenza come strumento

politico nelle relazioni internazionali, entrata in crisi irreversibile con le guerre

balcaniche, cessò di esistere dopo la prima guerra mondiale e il susseguirsi dei

fallimenti degli accordi a garanzia della sicurezza collettiva avrebbe dimostrato

quanto flebile essa forse.

Dalla seconda guerra mondiale sarebbe sorto un mondo progressivamente

bi-polare (USA e URSS e rispettive alleanze), quello nato dalla prima fu, invece,

ancora multipolare ed euro-centrico, ma con delle importanti variazioni dovute

alle conseguenze del conflitto, la prima delle quali fu il fallimento dell’utopia del-

la pace universale del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson (1856-1924).

La principale potenza europea, la Francia, impostò la propria politica in funzione

anti tedesca e anti sovietica. Il Regno Unito guardava più ai suoi interessi colo-

niali che alle faccende europee. In uno sfondo d’instabilità cominciavano a intra-

vedersi l’aggressività giapponese e, soprattutto, l’inizio del processo di disimpe-

gno degli Stati Uniti dagli affari e dalle complicazioni del Vecchio continente e

Page 68: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

67la lotta politica durante la transizione della polonia

l’identificazione della Russia bolscevica come una minaccia il cui messaggio ri-

voluzionario e violento trovava terreno fertile nelle sconvolte società europee. Le

popolazioni avevano patito danni terribili; ai morti in battaglia si aggiungevano

le perdite causate dalle febbri tifoidee, dal colera, dalle malattie da denutrizione.

La pandemia di influenza nel 1918 provocò la morte di oltre 50 milioni di perso-

ne. La riconversione dell’economia da bellica a pacifica non era ancora iniziata. I

reduci non trovavano occupazione e le promesse ricevute per sostenere la voglia

di combattere sembravano destinate a rimanere tali. In un contesto simile ogni

idea e messaggio politico aumentava il proprio potenziale di aggressività.

I problemi derivati dal conflitto e dal complesso dei dispositivi dei trattati

di pace erano più gravi nei territori europei orientali, in cui scontri per la defi-

nizione dei confini e allargamenti territoriali erano in corso e in cui gli sposta-

menti forzosi di popolazioni avrebbero dovuto eliminare fastidiose e cospicue

minoranze nazionali. Il complesso sistema politico-territoriale deciso a Parigi e

le questioni lasciate in sospeso furono le principali ragioni della violenza post

bellica e della futura crisi di quanto fu creato in sede di conferenza per la pace.

La “questione di Danzica” sarà uno degli esempi della debolezza dell’impalca-

tura creata a sostegno della pace (Cienciala 1992; La Mantia 2016; 2019) al pari

di quella più generale dei confini orientali tedeschi (Tooley 1988). Nel pieno ri-

spetto del principio di supremazia della nazionalità prevalente e degli interessi

strategici delle potenze vincitrici, furono creati Stati con ingenti minoranze al

proprio interno. Ciò gettò le premesse per una potenziale ulteriore crescita del

nazionalismo non soltanto nella sua accezione di affermazione di uno Stato su

altri, ma anche di supremazia della nazionalità dominante sulle minoritarie pre-

senti all’interno del medesimo Stato. Il nazionalismo inteso come uso politico

del concetto di identità nazionale fatto dalla coesione di elementi comuni come

la lingua, delle tradizioni e delle memorie collettive, un credo religioso nel quale

riconoscersi, trasse una forza ulteriore dalla presenza di un nemico facilmente

identificabile, fosse esso il vicino Stato confinante con il quale fosse sorto un con-

tenzioso territoriale, oppure le clausole anche se favorevoli, ma non abbastanza,

dei trattati di pace o le parti politiche opposte al proprio credo. Alla conferenza

della pace il tema delle popolazioni minoritarie era conosciuto e fu affrontato,

soprattutto dietro pressione ebraica, imponendo alla Polonia per prima e, suc-

cessivamente, agli altri Stati di nuova costituzione la firma di una serie di vincoli

giuridici a tutela delle minoranze di razza, di lingua e di religione residenti nel

proprio territorio (Motta 2006; 2017). Le norme furono in particolare dirette alla

salvaguardia delle comunità ebraiche presenti in numero differente negli Stati

dell’Europa centro-orientale e nei Balcani (Fink 2004; 2009) e spesso percepite e

identificate come vicine se non alleate del bolscevismo russo, fattore che si som-

mò agli antichi pregiudizi anche di ordine religioso e alimentò molte violenze

Page 69: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

68cesare la mantia

contro di esse (Polonsky, Mendelson, Tomaszewski 2004). L’antagonismo verso

queste ultime e la loro identificazione con la nemica nazionalità russa crebbe nel

tempo in Polonia, a causa del ruolo giocato dai suoi cittadini di origine ebraica

nei movimenti comunisti dell’area baltica, in Romania e soprattutto in Ungheria

con il deciso sostegno e partecipazione alla fallimentare vicenda della Repubblica

dei Consigli di Béla Kun (Fornaro 1997; 2006).

La guerra in quanto conflitto mondiale era conclusa, ma continuava nelle ap-

pendici “minori” da essa causate. Lo scenario politico dell’Europa centro-orien-

tale era completamente mutato rispetto all’ante guerra e in fase di difficile stabi-

lizzazione. Gli Stati nati dalla dissoluzione dei grandi Imperi avevano in comune

una serie di obiettivi in linea di massima riconducibili al rafforzamento dei con-

fini, alla ricerca di alleati e al consolidamento della situazione interna. Il perse-

guimento di tali scopi subiva i condizionamenti legati alla posizione geografia,

all’esistenza di risorse, all’alleanza di appartenenza prima della guerra e allo scon-

tro o incontro con gli Stati confinanti con i quali si condividevano l’insieme dei

problemi. Il dibattito e le contese tra posizioni differenti erano spesso durissimi

e visto il clima violento in cui si viveva, ogni tentativo di dialogo rappresenta-

va, comunque andasse a finire, un successo. L’Europa centro-orientale e i Balcani

erano in una condizione politico-sociale d’instabilità in cui le idee più facilmente

riconoscibili e di conseguenza più forti, avevano le possibilità maggiori di attec-

chire (Motta 2011). La frontiera con la Russia bolscevica era in via di definizione

e la politica sovietica puntava al recupero di quella antecedente persa con l’ar-

mistizio e all’esportazione in Germania della rivoluzione per salvarla al proprio

interno (Graziosi 2007). La Polonia era un ostacolo tra Mosca e la rivoluzione in

Germania e la politica russa di sostegno all’autodeterminazione delle minoranze

presenti in territorio polacco era una tattica per destabilizzare Varsavia e favorire

il diffondersi della rivoluzione bolscevica. In tale contesto d’intensa aggressività

il nazionalismo polacco, se pur non ne avesse avuto in origine, non poteva non

avere un aspetto fortemente aggressivo. Si ricreava una situazione internaziona-

le favorevole al possibile uso della violenza per raggiungere la riunificazione. La

questione allora non era se il nazionalismo politico fosse o meno violento, bensì

“quanto” lo fosse e quali tipi di violenza fossero esercitati in un contesto in cui,

del resto, gli effetti devastanti della crisi post bellica, ne spingevano le varie tipo-

logie verso una confluenza unitaria.

Le critiche relazioni sovietico-polacche erano, nella loro complessità, un altro ele-

mento molto favorevole all’uso della violenza. Politica interna e politica estera

sovietica spesso si fondevano nei tentativi di esportare la Rivoluzione d’Ottobre

all’esterno per salvarla all’interno e di trovare una soluzione al problema delle na-

zionalità nell’Europa orientale attraverso la creazione di una nuova struttura di

Page 70: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

69la lotta politica durante la transizione della polonia

repubbliche socialiste. Finalità, la seconda, sulla quale la prima avrà la prevalenza

dopo la presa del potere, ma in entrambi i casi era il presupposto di una politi-

ca che avrebbe portato allo scontro violento con gli oppositori. Anche per Stalin

(1878-1953) nel 1920 la questione nazionale era una lotta per la liberazione ge-

nerale di nazioni e colonie che coincideva con la rivoluzione proletaria (Gurcich

1926). A questa impostazione si aggiunse un ulteriore fattore di possibile scontro

costituito dalla rivendicazione da parte di Mosca di territori ucraini, bielorussi e

baltici come aree integranti dello Stato russo ad occidente. Aree dove risiedevano

popolazioni polacche e che comprendevano territori parti della zona orientale

della Polonia antecedente le partizioni di fine Settecento. Il governo bolscevico

aveva rivendicato il diritto della Polonia ad essere uno Stato sovrano, ma avreb-

be voluto che questo fosse di stampo simile al suo e in tale comunanza le que-

stioni confinarie avrebbero avuto una soluzione e avrebbero escluso gli Stati

borghesi dalla definizione dei confini (Manusevich 1960). La maggioranza dei

partiti, quello di Piłsudski e quello di Dmovski, era contraria a tale visione soste-

nuta invece dai comunisti polacchi. Nella visione sovietica i territori rivendicati

erano stati russi e tali sarebbero dovuti ritornare ad essere e la creazione di una

Polonia socialista avrebbe contribuito a ciò ed alla salvaguardia della rivoluzione

in Russia. Lo scontro con i nazionalisti polacchi sarebbe stato inevitabile se la

rivoluzione non fosse scoppiata anche a Varsavia, evento che, se fosse avvenuto,

avrebbe spinto le masse polacche a stare a fianco di quelle russe e tedesche in una

guerra di classe europea. Il modo in cui ciò avrebbe potuto realizzarsi passava dal

sostegno all’autodeterminazione della Polonia che sarebbe stata condotta verso

il bolscevismo dai socialisti polacchi mentre in Russia tra i polacchi residenti,

quelli che erano stati arruolati nelle forze zariste e quelli che credevano nell’idea-

le comunista, avrebbe dovuto crearsi un partito polacco filo-russo. Le discussioni

attorno la pace di Brest-Litovsk con gli Imperi centrali e il lavoro del Narkomnats,

Commissariato delle nazionalità, fanno pensare che la Polonia fosse destinata ad

essere parte della Russia bolscevica. Il principio di autodeterminazione come

classe e senza riferimenti territoriali era comunque riconosciuto solo al prole-

tariato lì dove fossero presenti sovietici e ove non fossero maggioritari, come

in Polonia e Lituania, si sarebbe potuto richiedere un referendum sull’auto de-

terminazione nazionale come primo passo verso una Polonia bolscevica, parte

di un progetto di rinascita della vecchia estensione territoriale zarista come ter-

ritorio della Repubblica sovietica federale(RSFSR). E, in subordine, la frontiera

polacco-russa avrebbe potuto essere accettata solo se frutto della volontà di una

Polonia socialista che dichiarasse nello stesso tempo la propria disponibilità

ad unirsi con la Russia socialista, ammettendo di fatto di non volere i confini

che aveva tracciato. Nella definizione dei confini a contare sarebbe stata la vo-

lontà del popolo lavoratore e non quella espressa dai suoi oppressori proprietari

Page 71: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

70cesare la mantia

terrieri, capitalisti e banchieri (Degras 1951). Questa era la posizione all’inizio

dell’ultimo anno di guerra, dalla quale la Russia era uscita nel dicembre 1917, con

le trattative che avrebbero portato alla firma il 3 marzo successivo della pace di

Brest-Litovsk e con il convincimento della direzione del partito bolscevico di un

prossimo scoppio della rivoluzione in tutta l’Europa.

In ambito polacco la visione internazionalista e sostanzialmente pro-sovie-

tica era condivisa dal SDKPiL (Partito social-democratico del Regno di Polonia

e Lituania) secondo il quale la Russia rivoluzionaria era a guardia degli inte-

ressi e della libertà del popolo polacco (Meijier 1964, 1971). In sede di trattato

l’indipendenza polacca non venne considerata, la delegazione russa non era

nelle condizioni di pretendere nulla non avendo neanche una parvenza di for-

za negoziale e la tutela della rivoluzione all’interno della Russia fu l’obiettivo

principale da raggiungere a qualsiasi prezzo chiudendo la guerra esterna per

concentrarsi su quella civile all’interno. Il trattato di Brest Litovsk rese anco-

ra più complessa la situazione nei territori polacchi lasciandone in sospeso

la definizione dei rapporti con la Russia bolscevica costretta ad accettare, ma

proprio per tale motivo pronta ad abrogarlo alla prima occasione, il disposto

dell’articolo 3 del trattato con la rinuncia a ogni futura rivendicazione di sovra-

nità sulla Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina (Wandycz 1969: 30). Il governo del-

la Repubblica Socialista Sovietica Federata Russa intenzionato a prevenire ogni

forma di potere non sovietico in territorio polacco comunicò al Consiglio della

Corona polacca la volontà di non accettarlo come rappresentante della volontà

del popolo polacco, riconoscendo a quest’ultimo il diritto all’auto determina-

zione e presentando il trattato di Brest-Litovsk come un vulnus nell’unità ter-

ritoriale russo-polacca. I territori polacco-baltici erano considerati come parte

integrante dello Stato russo e per ciò su di essi solo Mosca avrebbe potuto deci-

dere. La guerra non era ancora conclusa, ma l’interesse sovietico a recuperare le

aree cedute sotto il manto dell’internazionalismo era già chiaro. L’unione allo

Stato in cui la rivoluzione aveva preso il potere era sostenuta in area polacca dai

fedeli di Rosa Luxemburg e rientrava in un progetto in parte espressione di una

delle costanti di lungo periodo della storia russa, la paura di essere accerchiati

e la necessità di avere un vicino estero amico o meglio subordinato alla neces-

sità di Mosca di avere un territorio a difesa di quello metropolitano russo. Una

costante dal forte potenziale di violenza. La neo-nata Russia bolscevica poteva

contare, per intromettersi negli affari di Varsavia, del sostegno dei socialisti

polacchi presenti in Russia durante la rivoluzione, il SDKPiL e il PPS-Sinistra

(Partito Socialista Polacco di Sinistra) con il primo schierato su posizioni filo-

russe sulla questione dell’autodeterminazione polacca.

Nel novembre 1917 Stalin iniziò per il suo Commissariato delle nazionalità

una campagna di reclutamento tra socialisti polacchi e lituani contrari alle riven-

Page 72: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

71la lotta politica durante la transizione della polonia

dicazioni nazionali confermando una tendenza al rifiuto dell’auto determinazio-

ne polacca. Le attività di forze paramilitari locali d’ispirazione bolscevica lungo le

frontiere con il sostegno russo e il mantenimento di uno stato di violenta fibril-

lazione testimoniavano la volontà di non far risolvere la questione confinaria in

senso nazionalista. I leader del SDKPiL e tra loro Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij,

(1877-1926) erano coinvolti con l’attività del partito bolscevico russo. Il PPS fu

vicino al bolscevismo dal quale sarebbe stato allontanato dalla sua visione di una

indipendenza della Bielorussia e della Lituania (Wandycz 1969: 51-52) che portò

alla sua scissione tra un ramo il PPS-Sinistra che avrebbe collaborato con l’SDKPiL

filo sovietico e la parte rimasta nel partito originario. Nell’ultimo anno di guer-

ra Mosca tentò l’organizzazione di truppe polacche da incorporare nell’Armata

Rossa. Nell’autunno 1918 la volontà russa di avere un ruolo determinante nella so-

luzione della questione polacca era molto chiara nelle intenzioni e nelle azioni: il

Partito comunista polacco, nato formalmente in quel periodo rinunciava all’auto

determinazione e a confini polacchi e chiedeva un incorporamento della Polonia

nella Russia così come facevano i comunisti finlandesi e baltici. Nell’ottobre

1918 i media sovietici rafforzarono una campagna stampa a favore dell’unità

economica e politica della Polonia con la Russia bolscevica nella sua lotta per la

creazione di una federazione socialista che si estendesse verso occidente fino a

comprendere anche la Germania, principale obiettivo per la rivoluzione europea.

Un’eventuale azione diretta nella vasta area oggetto dell’interesse bolscevico era

da escludere causa l’impossibilità di spostare truppe dell’Armata Rossa in caso di

intervento dell’Intesa tramite l’utilizzo delle forze tedesche presenti nelle regioni

amministrate dall’Ober Ost (Oberbefehlshaber der gesamten deutsche Streitkräfte im

Osten), circa 109mila Km2 estesi tra la Curlandia, la Lituania e le aree polacche

di Augustow e Suwałki. La mancanza dell’intervento e l’inizio della ritirata delle

forze tedesche consentì l’uso di soldati regolari russi e la diffusione di un’intensa

propaganda tra le truppe tedesche per farli aderire alla causa rivoluzionaria.

L’intensa attività militare bolscevica perdente in Estonia, ma vittoriosa in

Lettonia, Lituania, Bielorussia consente di considerare l’intervento delle ri-

costituite armate polacche del 1919 come preventivo nei confronti di una se-

ria minaccia russa. All’avanzata verso occidente e verso l’Ucraina delle forze

bolsceviche avrebbe dovuto corrispondere la creazione di governi regionali

provvisori sovietici che avrebbero dovuto proclamare e difendere il principio

di autodeterminazione con lo scopo di rafforzare i soviet locali, di essere vi-

sti come liberatori e di creare le premesse per futuri eventuali movimenti di

truppe sovietiche. L’offensiva in direzione della Vistola (Davies 1972) avrebbe

dovuto spingersi il più possibile ad occidente per sostenere la rivoluzione in

Germania. La violenza era il principale, se non l’unico in quel momento caotico,

veicolo di trasmissione dell’ideale rivoluzionario. Nel caos provocato dal crollo

Page 73: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

72cesare la mantia

degli imperi europei e con la necessità di salvare la rivoluzione russa bolsce-

vica esportandola in un contesto di estrema violenza la scelta di quest’ultima

come “lingua veicolare” potrebbe apparire come obbligata, ma debole se non

supportata da un’attività politico-ideologica volta a creare nel migliore dei casi

consenso, o nel peggiore almeno non ostilità. La strategia dell’esportazione o

meglio l’internazionalizzazione della rivoluzione poteva riuscire solo se il sup-

porto prestato avesse contribuito allo scoppio della rivoluzione bolscevica nel

territorio interessato e dove le condizioni non erano ideali il fallimento era

una possibilità concreta. Nella guerra russo-polacca (1919-1921) il nazionali-

smo polacco si scontrò con il tentativo sovietico di esportare la rivoluzione in

Polonia, ma quando le truppe dell’Armata Rossa e quelle dell’Armata a caval-

lo del cosacco Semën Budënnyj (1883-1973), ribaltando la sorte avversa della

prima parte del conflitto, posero sotto assedio Varsavia, nonostante il lavoro

preparatorio fatto dagli agenti sovietici e dai comunisti polacchi la rivoluzio-

ne non scoppiò e le truppe di Piłsudski realizzarono il 13 e il 25 agosto 1920

il “miracolo della Vistola” sconfiggendo i sovietici e iniziando una penetrazio-

ne in territorio russo che si sarebbe arrestata sulla strada di Kiev all’inizio dei

colloqui che avrebbero portato il 18 marzo 1921 alla pace di Riga. Scioperi nei

trasporti bloccarono i rifornimenti che Varsavia aveva chiesto ai paesi occiden-

tali e in Cecoslovacchia il governo rifiutò il passaggio degli aiuti ungheresi del

governo del reggente Miklos Horthy (1868-1957) recente vincitore con l’ausilio

delle truppe rumene della Repubblica dei soviet di Béla Kun (1886-1938). La re-

cita del Santo Rosario per ottenere alle armi polacche il sostegno della Vergine

Maria, raccomandata a tutti i cristiani dal pontefice Benedetto XV (1854-1922)

su richiesta dei vescovi polacchi diede alla battaglia il tono di uno scontro tra

il bene e il male e alla vittoria delle forze di Piłsudski quello di un miracolo

(Zamoyski 2009).

Tra i nuovi Stati, la risorta Polonia viveva la fase più difficile. La sola sua esistenza

era suscettibile di creare problemi con i paesi confinanti e la sua composizione

etnica interna ne avrebbe prodotto degli altri. Un’eredità fatta di violenza origi-

nata nel periodo delle spartizioni trovò nella nuova realtà un fertile terreno per

crescere e manifestarsi. A Parigi lo Stato polacco era rinato, ma doveva ancora

essere riempito di contenuti. Le tre potenze che alla fine del XVIII secolo si erano

spartite il suo territorio avevano imposto i propri ordinamenti giuridici e la pro-

pria cultura politica. Due delle tre aree spartite, la prussiana e la russa, dovevano

confrontarsi con l’aggressivo nazionalismo tedesco e russo e la rimanente con

la politica più conciliante e lungimirante dell’Impero asburgico la cui gestione

del contrasto tra le nazionalità e tra i contadini e i proprietari terrieri fu un utile

mezzo per governare la Galizia e, in generale, rallentare la propria decadenza.

Page 74: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

73la lotta politica durante la transizione della polonia

La violenza non solo o non necessariamente quella fisica fu uno strumento di

repressione e controllo delle aree occupate, ma i polacchi di Prussia e soprattut-

to quelli asburgici condivisero le esperienze parlamentari di Berlino e Vienna. Il

sistema elettorale della Galizia asburgica per l’elezione della dieta favoriva i con-

tadini piuttosto che i proprietari terrieri.

Dopo la sconfitta dell’Austria nel 1867 nella guerra contro la Prussia e l’Italia,

i politici galiziani solleciteranno, senza ottenerla, una riforma in senso federale

dell’impero nella quale la loro terra avrebbe dovuto avere rango di Stato; si do-

vettero accontentare di ampi margini di autonomia in cambio di una forte lealtà

alla Corona che, in definitiva, fece della Polonia austriaca la più libera o la meno

oppressa delle tre aree spartite. Nell’area russa lo zar Alessandro II (1855-1881)

aveva illuso i suoi sudditi polacchi con una politica tollerante al punto da indur-

re il sorgere di velleitarie istanze di cambiamento in direzione di una sempre

maggior autonomia reclamata con forza e violenza nel completo rispetto di una

tradizione e cultura insurrezionalista lesta a sfruttare ogni vera o presunta op-

portunità data dal contesto interno e internazionale che lasciasse intravedere

una possibilità di successo. La memoria dei morti, dei martiri e dunque della

violenza dell’insurrezione del 1830-31 era mantenuta viva e celebrata con mani-

festazioni e proteste la cui entità spinse il governo russo, già incline all’uso della

forza, ad una reazione sanguinosa nel periodo febbraio-marzo 1861. Le proteste,

nonostante il tentativo di sopprimerle, continuarono nell’autunno del 1861 con-

tro l’introduzione il 14 ottobre del medesimo anno della legge marziale e della

coscrizione obbligatoria. Le forze russe effettuarono la repressione entrando an-

che nelle chiese di Varsavia. La possibilità di scatenare una nuova insurrezione fu

accettata e sostenuta dai “rossi” – i più radicali, indipendentisti, vicini alle società

segrete e favorevoli all’emancipazione dei contadini – in cui confluivano la bor-

ghesia e l’ambiente accademico di Varsavia, e considerata con molte perplessità

dai “bianchi” in cui si riconoscevano il clero e la nobiltà terriera poco incline all’e-

mancipazione delle campagne e più propensi ad un’applicazione del lavoro orga-

nico. Le associazioni di studenti ebrei si schierarono a favore della riunificazione

polacca e a sostegno dell’insurrezione.

A conclusione di un periodo di violenta guerriglia e di brutale reazione rus-

sa, la rivolta strisciante si trasformò in una sollevazione nazionale nel genna-

io 1863 con la chiamata all’insurrezione fatta dal Comitato Centrale Nazionale

(Komitet Centralny Narodowy), costituito dai “rossi” nella primavera del 1862 e

si sarebbe conclusa nella primavera del 1864 con l’impiccagione del generale

Romuald Traugutt (1826-1864) comandante dei rivoltosi. Anche il Granducato di

Lituania insorse senza successo così come altri territori sotto sovranità russa. Le

aree polacche prussiane e asburgiche inviarono denaro e uomini. La mancanza di

un reale sostegno internazionale alla rivolta, la sproporzione di forze, l’appoggio

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74cesare la mantia

prussiano alla Russia e la fine della neutralità benevole dell’Austria causarono la

sconfitta dei rivoltosi. Il soffocamento della rivolta fu sanguinoso, spietato e oltre

alle esecuzioni e alle migliaia di deportazioni in Siberia provocò la definitiva di-

struzione della piccola nobiltà terriera. Il fallimento dell’insurrezione nel Regno

polacco del Congresso ne sancì la scomparsa; fu sostituito nelle carte geografiche

dalla dizione “regione della Vistola”. Il ridimensionamento della speranza indi-

pendentista e del sogno romantico di una ribellione contro il peggiore dei tre

occupanti decretò, con molto realismo e corretta valutazione della situazione, il

ritorno al lavoro organico ovvero ad un’attività che, messa da parte per il mo-

mento la questione nazionale e la violenza ad essa legata puntasse a promuovere

lo sviluppo economico e sociale delle comunità polacche. Formulato negli anni

Trenta dell’Ottocento il concetto di lavoro organico poneva la crescita culturale

ed economica alla base della tutela degli interessi nazionali. Ci fu una rinuncia

alla violenza, ritenuta non funzionale al bene nazionale e all’insurrezione armata

e si mirò alla collaborazione di tutte le classi sociali dell’intera nazione. I risul-

tati ottenuti furono soddisfacenti: alla generale crescita economico-sociale della

popolazione e al consolidarsi della cultura, si unì il mantenimento di un senso

di comune appartenenza nazionale in attesa di un mutamento nello scenario in-

ternazionale dal quale dopo il fallimento della rivolta del 1861-64 la questione

polacca fu assente.

La pratica del lavoro organico fu teorizzata dopo la sconfitta di un tentativo

insurrezionale: il Regno della Polonia del Congresso – creato dopo la fine delle

guerre e delle illusioni napoleoniche dalle potenze vincitrici durante il Congresso

di Vienna (1815) – insorse e perse contro l’occupante russo nel periodo novem-

bre 1830-ottobre 1831. La pratica servì anche ad evidenziare come il nazionali-

smo non necessariamente dovesse identificarsi con la violenza fisica. Il positivi-

smo polacco – branca del pensiero politico del filosofo francese Charles Auguste

Comte (1798-1857) da cui l’idea del lavoro organico traeva origine – ridiscusse

nell’amarezza delle opere di Adam Asnyk (1838-1897) il romanticismo nostalgico

e dolorosamente legato al passato per proiettarsi nella modernità, oltre le tra-

dizioni e nell’accettazione della realtà in cui si viveva dalla quale avrebbe tratto

lo slancio per edificare un futuro di indipendenza (Marinelli 2004). Impresa da

effettuare con l’uso prevalente della ragione per costruire senza l’uso della vio-

lenza, bensì con quello del lavoro, le fondamenta di una crescita culturale, di un

miglioramento delle condizioni di vita e di un progresso economico, sulle quali

si sarebbe eretta l’indipendenza.

Compito arduo quello del nuovo indirizzo di pensiero che doveva confron-

tarsi con la memoria del sacrificio e l’esaltazione del martirio per l’indipenden-

za della Patria. L’insurrezione violenta contro il potere costituito è una costante

della storia polacca indipendente dal tempo e dall’autorità contro cui la solle-

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75la lotta politica durante la transizione della polonia

vazione avvenga; verso di essa si è, nel divenire della storia, esercitato un culto

che prescinde dall’eventuale successo e si esalta nel sacrificio salvifico in cui alla

Polonia è attribuito il ruolo e la responsabilità di un Messia tra le nazioni. In un

tale contesto la trasmissione della memoria dei fatti e la loro narrazione assu-

mono un ruolo più importante dei fatti stessi depurandoli dagli aspetti negativi

e quasi mitizzandoli. Anche se inserita in una sfera trascendente quella uma-

na, è la lotta la protagonista del messianismo del più importante dei poeti-vati:

Adam B. Mickiewicz (1798-1855). In uno scontro tra il bene e il male il ruolo del

Cristo è assunto dalla Polonia, tradita e dilaniata senza colpa, il cui sacrificio su-

premo era la necessaria premessa per una resurrezione salvifica per tutte le na-

zioni oppresse da tiranni e occupanti che sarebbero stati eliminati per sempre.

Alla Polonia spettava il ruolo messianico di liberare il mondo dagli oppressori.

La violenza è il tema dominante di questo messaggio: subita, imposta o le-

cita, giusta, ma pur sempre violenza. Sulle orme dell’autore di Il signor Taddeo

(Pan Tadeusz), Mickiewicz, gli altri due poeti-vati Juliusz Słowacki (1809-1849) e

Zygmunt Krasiński (1812-1859), contribuirono alla diffusione del messianismo

polacco. Secondo Słowacki la forza dello spirito e dell’entusiasmo patriottico

avrebbero sconfitto gli occupanti il patrio suolo. Krasiński tentò di conciliare l’a-

spetto messianico insurrezionale dei precedenti con una visione conservatrice

della realtà. Cresciuto nella diaspora seguita al fallito tentativo rivoluzionario del

1830-1831 il messianismo si nutrì di romanticismo e speranze d’insurrezione

e i valori di riferimento sembravano essere quelli di una vecchia società rurale

con le sue tradizioni ancora feudali e soprattutto con una questione agraria non

affrontata che teneva lontani i contadini dall’ideale unitario. Questi tre scrittori,

ricordati come i Tre Bardi, furono cantori in esilio del romanticismo polacco in

cui trovavano spazio le sofferenze del popolo, l’incapacità e la mancanza di vo-

lontà dell’aristocrazia terriera a riformarsi. La memoria e la narrazione esaltante

delle sconfitte nelle sollevazioni erano, comunque, reminiscenza e racconto di

una violenza non andata a buon fine, suscettibile di essere abbandonata o, quan-

to meno, di essere messa da parte in attesa di tempi migliori. Dopo il fallimento

della ribellione del 1830-1831 l’idea che, sperando in un futuro più favorevole,

fosse opportuno provvedere al progresso della società polacca attecchì tra i ri-

voluzionari e tra coloro i quali non avevano mai approvato l’aspetto insurrezio-

nale del patriottismo polacco. L’esperienza del lavoro organico fu inizialmente

limitata alla parte prussiana della Polonia spartita dove non c’erano state rivolte

e, nonostante il severo controllo da parte dell’occupante, esistevano dei margini

di autonomia e benessere dai quali poter partire. Per ottenere il progresso desi-

derato bisognava operare nei settori economico-agricolo, civile, culturale e farlo

nel contesto delle leggi vigenti e con la collaborazione di tutte le forze sociali.

Questa attività escludeva a priori l’uso della violenza, per il momento almeno,

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76cesare la mantia

e avrebbe potuto portare, secondo i patrioti rivoluzionari ad un’abolizione della

società polacca come la conoscevano e al passaggio alla lotta armata per l’indipen-

denza. Dopo la morte di Nicola I (1796-1855) il successore al trono dei Romanov,

Alessandro II (1818-1881) allentò il duro controllo esercitato dal suo predeces-

sore sulla parte polacca del suo immenso impero e ciò rese possibile un timido

inizio della pratica del lavoro organico e con il suo successo il riproporsi di pro-

getti violenti insurrezionali da parte delle associazioni studentesche, di quelle

esistenti in seno all’esercito e di parte della diaspora provocata dalle sconfitte

nelle precedenti rivolte.

La scelta del lavoro organico fu una reazione politica alla sconfitta del 1864 e

alle sue durissime conseguenze, ma fu anche frutto della costatazione dell’inu-

tilità per la causa polacca della “primavera dei popoli” e di ogni tentativo diplo-

matico per realizzarla (Świętochowski 1886). Delusioni che si tramutarono in un

patriottismo costruttivo che si muoveva anche dall’analisi dei problemi presenti

nella società polacca e che avrebbe avuto tra i propri obiettivi la difesa della po-

polazione sotto sovranità prussiana e in lotta contro il Kulturkampf di Bismark

(1815-1898). Una forma di amor patrio che nei romanzi di Eliza Orzeszkowa

(1841-1910) (Orzeszkowa 1874;1878) si confronta con i temi della questione

ebraica, del rapporto tra ebrei e nobiltà polacca e tra ortodossia ebraica e liberali-

smo polacco e affronta anche il ruolo dell’aristocrazia terriera nel contesto socio-

politico polacco (Orzeszkowa 1888). La violenza/insurrezione come strumento

in sé valido per ottenere importanti obiettivi non è condannata, è l’uso errato,

senza cioè un’adeguata preparazione politica, ad essere messo in discussione

dallo scrittore Jozef Ignacy Kraszewski (1812-1887) (Kraszewski 1864). I russi

furono molto abili nel togliere il sostegno dei contadini alla rivolta mediante la

concessione di terre e approntando una prima riforma agraria che avrebbe eroso

un eventuale sostegno futuro a forme di contestazione violenta del potere del-

lo zar e creato le premesse per uno sviluppo industriale e la formazione di una

classe operaia. La piccola e media nobiltà terriera polacca si riversò nelle città al-

terandone gli equilibri e pesando sulla ricerca di lavoro. Una frattura tra nobiltà

terriera e contadini avvenne nello stesso periodo anche nella Galizia asburgica,

ma la cauta e tollerante politica di Vienna evitò lo scoppio di ribellioni. Nel pe-

riodo post rivolta del 1861-64 il tema dell’insurrezione fu affrontato in maniera

differente a seconda della posizione ideologica. I positivisti si ponevano l’obiet-

tivo immediato di rifondare economicamente e culturalmente la società polacca

gradualmente e posticipando al raggiungimento di tali obiettivi il problema del

recupero dell’indipendenza. Rompevano così con la tradizione romantica e post

romantica che convinta della missione di dimostrare la superiorità dell’elemento

spirituale su quello materiale attribuita alla nazione polacca, manteneva l’obiet-

tivo irredentistico.

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77la lotta politica durante la transizione della polonia

L’area conservatrice dalla quale trarrà origine il partito di Roman Dmowski

(1864-1939) vedeva nella diplomazia e nel mantenimento di rapporti non con-

flittuali con le potenze occupanti la via per giungere all’indipendenza, mentre il

raggruppamento socialista poneva in cima alla propria lista dei desideri l’elimi-

nazione delle diseguaglianze sociali tramite la lotta di classe. La corrente posi-

tivista escludeva la violenza, almeno nell’immediato, come strumento di lotta e

in ciò trovava un punto d’incontro con l’area conservatrice che diede vita ad una

revisione interpretativa della storia polacca diretta a capire i motivi dell’incapaci-

tà a difendere l’indipendenza, comprensione senza la quale l’indipendenza non

sarebbe stata recuperata. I positivisti arrivarono all’estrema considerazione che

lo sviluppo fosse l’obiettivo principale e che dell’indipendenza si potesse anche

fare a meno. Fu questo anche il periodo in cui si creò e consolidò nelle tre aree

la struttura sociale da cui sarebbero nati i partiti, futuri protagonisti della lotta

politica della fine dell’Ottocento e del Novecento.

La violenza come strumento politico fu offuscata dalla diffusione del catto-

licesimo solidaristico nei territori che dal Congresso di Vienna in poi avevano

costituito il Granducato di Posen (Poznań) sotto sovranità prussiana e con una

fantomatica tutela internazionale a garanzia dell’autonomia amministrativa

e dello sviluppo della nazionalità polacca. Nacquero circoli agrari, associazioni

artigiane e contadine, cooperative di risparmio e credito, una banca territoriale.

Il clero cattolico e i proprietari terrieri polacchi in opposizione al Kulturkampf

bismarchiano furono alla base del fenomeno e con il loro sostegno alla creazio-

ne e diffusione di biblioteche popolari contribuirono a mantenere vivo l’uso del

polacco e una condivisione di memorie. La riforma agraria e il grande mercato

tedesco favorirono lo sviluppo agricolo e la nascita e il consolidamento di una

classe di contadini ricchi che si preparava a diventare la base dei futuri partiti

contadini. Parte dei contadini privi di risorse per l’acquisto di terre abbandona-

rono il bracciantato per essere assorbiti come operai dalla nascente industria di

trasformazione agro-alimentare e diventare sensibili alla propaganda socialista.

La possibilità per tutti i contadini che ne avessero i mezzi di acquistare anche

piccolissimi appezzamenti, negata da Berlino, concessa nelle proprie aree dai go-

verni asburgici e russi, aumentò la diffusione e la parcellizzazione della proprietà

terriera, conquistò, inizialmente, il consenso dei nuovi proprietari, ma limitò lo

sviluppo agricolo e fu un freno per la crescita in generale dell’economia. La base

proletaria per i futuri partiti di sinistra fu data in Galizia dallo sfruttamento pe-

trolifero nell’ultimo ventennio del XIX secolo e dal successo del settore tessile

nella zona di Łodź, che aveva fatto della città polacca il principale centro di attec-

chimento delle idee socialiste dell’Impero russo. Idee il cui sviluppo contribuì a

creare le fondamenta delle violente ribellioni contro la guerra russo-giapponese

del 1904-1905 in generale e l’invio di polacchi al fronte in particolare. Le autorità

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78cesare la mantia

russe, in difficoltà a controllare il fenomeno, scelsero un nemico interno facil-

mente identificabile, sul quale già pesavano molte accuse mai provate, per scari-

care la tensione.

Un problema politico-sociale fu affrontato generando ulteriore violenza:

quella contro la popolazione ebraica, additata come la quinta colonna del nemico

nipponico all’interno dell’Impero russo. La ricca presenza di miniere di carbone

fece del bacino di Dąbrowa in Alta Slesia un centro siderurgico, mentre Białystok

attraeva dalle campagne coltivate in forma estensiva braccianti nella sua indu-

stria tessile. La Galizia asburgica fu fornitrice di materie prime, con una agricol-

tura poco sviluppata e con i contadini proprietari fondamentali nella creazione

e mantenimento del consenso alla politica di Vienna. Una politica tesa a man-

tenere in equilibrio le componenti aristocratica, dei ricchi proprietari terrieri e

contadina. Quest’ultima era la più numerosa e piuttosto riluttante, nelle tre aree,

all’accettazione dell’ideale nazionalista. Il pur diseguale sviluppo industriale ave-

va creato un proletariato pronto a prendere coscienza delle proprie esigenze e a

vedere nell’ideale socialista un possibile loro soddisfacimento. Una borghesia del

commercio, delle professioni e della burocrazia viveva nelle città. La Chiesa catto-

lica dove era penalizzata dal potere come nelle zone prussiana e russa acquisiva e

rafforzava le caratteristiche di chiesa nazionale; nella Galizia asburgica l’alto cle-

ro così come l’aristocrazia terriera erano vicini al potere di Vienna (Davies 2005).

Nelle tre aree erano presenti minoranze di nazionalità non polacca, la maggiore

delle quali era l’ebraica, contro di esse sarebbe stato, in buona parte, destinato

l’accusatorio messaggio nazionalistico e maggiori soluzioni ai problemi quoti-

diani la sua realizzazione avesse prospettato, più sarebbero aumentate le proba-

bilità di attecchimento e successo dell’idea.

L’intellighenzia polacca fu un fattore importante per i movimenti nazionali. Il

lavoro non manuale, impiegatizio e di concetto fu uno sbocco per i proprietari

terrieri impoveriti nella Polonia russa e per la piccola nobiltà galiziana, che pote-

va accedere ai ruoli dell’amministrazione dello Stato. L’eccesso di offerta di forza

lavoro a fronte di una bassa richiesta rese ancor più predisposti all’accoglienza

del messaggio nazionalista i presunti intellettuali.

Alessandro II di Russia aveva unito durante il suo impero riforme dell’ammi-

nistrazione tributaria e dell’esercito, l’eliminazione del servaggio (1861) e il ripri-

stino (1864) delle assemblee elettive locali (zemstvo), ad una politica estera molto

aggressiva e ad una durissima repressione dei moti nazionalisti del 1863-1864

nel Regno polacco. Il potere dello zar non fu toccato dalle riforme. L’autocrazia

rimase tale e avvalendosene, accogliendo i suggerimenti del suo ex tutore il prin-

cipe Kostantin P. Pobedonoscev (1827-1907), del conte Dmitri A. Tolstoj (1823-

1889) e di Michail N. Katkov (1818-1907), Alessandro III (1845-1894) asceso al

trono dopo l’assassinio del padre il 13 marzo 1881, inaugurò una politica nazio-

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79la lotta politica durante la transizione della polonia

nalista per la quale la cultura e la lingua russa, la religione, la nazionalità e le isti-

tuzioni russe sarebbero state al di sopra di tutto. L’indirizzo voluto dallo zar portò

ad una politica interna ed estera molto aggressiva, violenta, limitatrice di quanto

il padre aveva concesso e repressiva verso le minoranze non russe dell’Impero,

ottenendo il non desiderato risultato di rafforzare o far nascere in esse il senso

identitario che si opponeva alla politica di russificazione e iniziava a toccare an-

che il popolo contadino verso il quale nei territori polacchi spartiti l’intellighenzia,

accogliendo le idee del populismo russo degli anni Settanta, intravedeva il depo-

sitario dell’identità nazionale.

Il governo russo non si mostrò all’altezza delle esigenze del tempo e con

la repressione fatta di forche, carcere duro, sequestri di beni e confino tentò

di bloccare i cambiamenti in corso. I movimenti anarchici e nichilisti conti-

nuavano la loro lotta contro il potere costituito per mezzo di attentati. La vio-

lenza come strumento era presente e viva in tutti i territori dell’Impero russo

e si mantenne come tramite di realizzazione politica e di comunicazione tra

avversari fino alla nascita della nuova Polonia quando muteranno i soggetti

che l’esprimevano, ma non la sostanza. L’accoglienza o meno dei messaggi na-

zionalista e di riscatto sociale qualificava la violenza come strumento politico

e non come scoppio improvviso di rabbia. Dopo la prima guerra mondiale il

nuovo Stato polacco dovette gestire il passaggio da tre legislazioni differenti

ad una; costruire un apparato istituzionale; provare a creare un corretto rap-

porto di dialogo tra i partiti politici; ricostruire l’economia distrutta dal con-

flitto, dalle requisizioni, dai passaggi degli eserciti e dalla rottura del quadro

politico di riferimento. Ognuna delle aree spartite era stata, inoltre, integrata

nell’economia dei Paesi occupanti. Si trattava di una riedificazione materiale

poiché spiritualmente la Polonia aveva continuato a esistere anche durante il

periodo delle spartizioni. L’identità polacca intesa come senso di condivisione

di una famiglia di memorie risalente al periodo in cui la Polonia era stata la

principale potenza dell’area si era mantenuta nel tempo – rafforzandosi sotto

il governo di Alessandro III – pur se con intensità differente a seconda dell’ap-

partenenza sociale: poco presente tra i contadini, più forte tra gli intellettua-

li, meno intensa nell’alta borghesia commerciale, nell’alto clero e nella parte

della nobiltà residente nelle capitali degli stati occupanti, parte della quale

durante l’Ausgleich del 1867 aveva sostenuto gli Asburgo ricevendo in cambio

maggior autonomia. Impresa ardua la ricostruzione mentre il contrasto con la

Russia bolscevica cresceva al punto che sarebbe sfociato in una guerra e le re-

lazioni con i paesi vicini diventavano sempre più complesse (Wandycz 1969).

Lo Stato polacco ricevette dalla prima guerra mondiale un’eredità di violenza

manifestata in particolare nell’instabile e ancor non completamente definita

area del confine orientale.

Page 81: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

80cesare la mantia

Lo stesso ministro degli Affari esteri polacco Eustachy Sapieha (1881-1963)

dubitava della durata della pace e delle sue disposizioni territoriali e riteneva es-

sere la linea di frontiera (orientale) temporanea (DBFP 1961). I combattimenti

tra eserciti e truppe eterogene lungo i confini in via di definizione giustificavano

le impressioni del principe Sapieha. Gli scontri avvenivano per l’affermazione

violenta di un principio nazionalistico di possesso su terre ritenute proprie. La

distinzione tra eserciti regolari, paramilitari, contadini armati, unità di autodi-

fesa e bande di rapinatori era un’impresa ardua e spesso pericolosa. La guerra e

la scomparsa dei tre Imperi avevano rafforzato gli elementi identitari delle popo-

lazioni dominate e nel dopo guerra servirono a “marcare” le nazionalità. Lingua,

tradizioni, religione furono le basi più evidenti di nazionalismi in lotta già du-

rante la guerra. Lungo l’ancora non definito confine orientale il nazionalismo

polacco visse la prova più dura del suo processo di affermazione.

La violenza senza controllo fu parte integrante della confusione regnante

nell’area. Le forze di Varsavia è più corretto indicarle come paramilitari, poiché

non erano ancora sotto il pieno controllo dell’autorità di uno Stato in corso di

formazione e ciò aumentò la possibilità di violenze contro le minoranze con, a

volte, il plauso di parte della popolazione civile. Il tentativo di creazione di un

esercito precedette la dichiarazione di rinascita dello stato polacco, 3 novembre

1918. A provarci furono tutti i centri di potere polacchi esistenti in quel periodo.

Dopo la dichiarazione dell’Intesa del 3 giugno 1918 che dava il proprio assen-

so alla rinascita della Polonia il Comitato Nazionale Polacco (Komitet Narodowy

Polski) con sede a Parigi, (fondato a Losanna da Dmowski nell’agosto 1917 e ope-

rativo fino al gennaio 1919) riconosciuto per prima dalla Francia il 20 settembre

1917 e poi dalle altre potenze dell’Intesa, affidò con il pieno assenso francese al

generale Jozef Haller di Hallemburg (1873-1960) il comando e la formazione in

Francia di una forza militare denominata Armata polacca all’estero (Patricelli

2004). Anche il Consiglio di reggenza con sede a Varsavia tentò invano la crea-

zione di un esercito, così come il Governo che si era insediato a Cracovia dopo

il ritiro degli austro-ungarici. Nel caos del primo periodo post-bellico in Galizia

nacque la Repubblica contadina di Tarnobrzeg che espropriò i latifondisti. A

Varsavia le forze tedesche rimaste crearono un proprio Soviet e si accorderanno,

per avere agevolata la ritirata, con Jozef Piłsudski (1867-1935) (Suleja 1995) –

che sarà conosciuto più comunemente con l’appellativo di Comandante – le cui

forze sostenevano a Lublino il Governo popolare provvisorio della Repubblica

polacca presieduto dal socialdemocratico Ignacy Daszyński (1866-1936). L’11 no-

vembre 1918 quest’ultimo e il Consiglio di reggenza misero il potere nelle mani

di Piłsudski appellandosi ai soldati smobilitati dai vari eserciti, ai legionari del

Comandante e ai giovani i quali per ragioni di età non avevano partecipato alla

guerra. La catena di comando, però, ancora non funzionava e, dato il contesto in

Page 82: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

81la lotta politica durante la transizione della polonia

cui le formazioni operavano, aumentò la possibilità di violenze sulla popolazione

civile, giustificate anche dal presunto sostegno di parte di essa al nemico durante

la guerra e dalla presunta presenza in mezzo ad essa di cecchini e spie o comun-

que di collusi con l’avversario o sostenitori dei comunisti russi.

Violenze a sfondo antisemita furono perpetrate in molte parti della Polonia

e la collusione degli ebrei con i Bolscevichi fu la giustificazione data durante le

inchieste che seguirono le brutalità commesse. Un nazionalismo degenerato mi-

schiato all’antisemitismo ed espresso principalmente con la forza fu alla base di

forme di violenza in cui il coltello era lo strumento utilizzato. Gli ebrei ortodossi

erano le vittime designate alle quali erano tagliati e spesso bruciati i payot e le

barbe con una cattiveria dal valore simbolico molto forte: si eliminavano i segni

più caratteristici dell’appartenenza religiosa e identitaria dell’oggetto dell’aggres-

sione e lo si faceva in maniera umiliante tenendo la persona piegata e usando

in maniera brutale un coltello sì da strappare anche brandelli di pelle o di cuoio

capelluto lasciando ferite e cicatrici che avrebbero segnato la vittima. L’atto era

perpetrato in pubblico e a volte l’intera testa era rasata affermando un potere di

vita e di morte e lanciando un messaggio minaccioso alla comunità di apparte-

nenza rafforzato dagli incendi appiccati nella Polonia orientale a case e negozi di

proprietà ebraica. Il fuoco usato contro i beni e, in particolare, le abitazioni con-

sentiva di mantenere l’anonimato e, nello stesso tempo, possedeva una rilevante

visibilità, aveva un valore rappresentativo di purificazione dal nemico e permet-

teva una partecipazione collettiva priva di responsabilità.

Le più importanti posizioni del nazionalismo polacco si rifacevano principal-

mente alla visione che di esso avevano il Partito Socialista Polacco (Polska Partia

Socjalistyczna, PPS; 1892) di Piłsudski e il Movimento Nazionale Democratico

(Stronnictwo Narodowo- Demokratyczne, SN-D; 1897), dal 1919 Unione Nazionale

del Popolo (Związek Ludowo-Narodowy, ZL-N), dal 1928 al 1944 Movimento

Nazionale, (Stronnictwo Narodowe, SN), il cui filo conduttore era rappresentato dal

loro fondatore e principale organizzatore Dmovski (Dmowski 1926-27; 1939) e il

cui complesso di movimenti sarà conosciuto con il nome di endecja, Democrazia

Nazionale (Davies 2005:39). Entrambi le aree politiche erano dotate di un aspetto

violento più o meno esplicito. Il partito di Piłsudski aveva razionalizzato l’uso del-

la violenza ed era provvisto di una struttura para militare finalizzata al raggiun-

gimento degli obiettivi preposti non posseduta dall’organizzazione di Dmovski,

il cui messaggio politico era comunque violento e la violenza fisica, operata da

terzi rispetto al partito, ne diventava la conseguenza. I due leader dotati di una

personalità decisa e il primo anche di un forte carisma furono i protagonisti della

storia della Polonia tra la fine dell’Ottocento e le due guerre mondiali. I raggrup-

pamenti di entrambi erano diventati partiti di massa grazie ad un avvenimento

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82cesare la mantia

violento per eccellenza: una guerra, in questo caso quella russo-giapponese del

1904-05. Le manifestazioni avverse la mobilitazione militare e il conflitto visto

come imposto e lontano dagli interessi polacchi segnarono l’inizio di una parte-

cipazione di massa alla vita politica.

Le proteste nelle città, soprattutto a Varsavia, la combinazione di richieste so-

ciali e nazionali e gli scioperi iniziarono a far uscire il nazionalismo dalla fase

elitaria predisponendolo ad allargare la propria base popolare. Il nazionalismo

di Piłsudski aveva una solida base nella nostalgia per la Confederazione polacco-

lituana e nella sua peculiarità: l’essere la principale potenza dell’area. Una visione

che dato il contesto in cui avrebbe dovuto concretizzarsi aveva insito in sé un

principio di realizzazione violento legato alla preliminare definizione dello spa-

zio polacco i cui confini, in particolare quelli orientali, erano interessati da dina-

miche di guerra civile e rivolta nazionale mescolati ad una guerra di conquista

alle quali bisognava aggiungere il problema del confronto con Mosca. Il tempo

avrebbe dimostrato come il sogno di ricreare la Confederazione fosse solo preva-

lentemente polacco e privo di fascino per la maggior parte dei capi della nuova

Repubblica lituana. Stanislavas Narutavičius (1862-1932), fratello naturale del

primo presidente polacco Gabriel Narutowicz (1865-1922), fu uno dei firmatari

della Dichiarazione di Indipendenza della Lituania (16.02.1918). La guerra po-

lacco-lituana pur avendo le sue origini nelle tensioni tra Kaunas e Varsavia fece

parte del più vasto conflitto polacco-sovietico.

La spinta polacca verso est mirava al possesso delle città di Suwałki, Augustow,

Wilno(Vilnius). La guerra durò dal 1 settembre 1920 al 7 ottobre successivo e si

concluse con una pace che prevedeva il mantenimento ai Lituani di Vilnius, oc-

cupata prima dai polacchi il 19 aprile 1919 e successivamente dai sovietici il 14

luglio i quali l’avevano restituita alla Lituania dopo la sconfitta nella battaglia

della Vistola. Il 9 ottobre la divisione di fanteria lituano-bielorussa dell’esercito

polacco di stanza a Vilnius inscenò un ammutinamento e occupò la città che

divenne la capitale della Lituania Centrale filo-polacca e il 20 febbraio 1922 fu

annessa alla Polonia.

Nella seconda metà dell’Ottocento gli effetti delle spartizioni, il potere spesso

durissimo esercitato dalle potenze occupanti e le sconfitte dei tentativi rivoluzio-

nari avevano creato una condizione che Stanisław Szczęsny Potocki (1751-1805),

uno degli artefici della Confederazione di Targonica, aveva, in precedenza, iden-

tificato con la difficoltà a parlare di Polonia e di Polacchi e con la necessità che

quest’ultimi dimenticassero la propria patria. Nel rapporto con la potenza do-

minante i comportamenti dei polacchi che si ponevano il problema potrebbe-

ro riassumersi nella triade: lealismo, ribellione/insurrezione, conciliazione.

Piłsudski rientrava nella seconda tipologia. Non condivideva le idee dei nostal-

gici della Confederazione di Targonica e di chi vedeva, come Henryk Rzewuski

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83la lotta politica durante la transizione della polonia

(1791-1866), nell’autorità russa la possibile unione delle popolazioni slave e al

livello strettamente polacco ciò coincideva con una politica conservatrice del po-

tere aristocratico. La questione politica del rapporto con la potenza occupante e

quella sociale comunque più “interna” apparivano strettamente legate. Non con-

divideva, il futuro Maresciallo neanche l’idea di una presunta rinascita dal (per

lui presunto) corrotto spirito polacco tramite l’aiuto russo come pensava invece

il lealista Adam Gurowski (1805-66) (Gurowski 1840;1848) durante il suo tra-

vagliato rapporto con la potenza occupante (Walichi 1979). Piłsudski rientrava

nel filone della ribellione/insurrezione e più in generale del diritto ad opporsi al

potere costituito che nella Repubblica nobiliare aveva il suo riferimento storico,

ma reinterpretava in maniera più concreta e aggiornata al contesto storico un

ribellismo altrimenti fine a sé stesso. La violenza era stata ed era una sorta di

lingua veicolare per chi si riconoscesse nel filone insurrezionalista ed era uno dei

punti di contatto con i Carbonari italiani, i Decabristi russi, la Fraternità tedesca

e soprattutto con la memoria del sangue versato dai protagonisti polacchi delle

periodiche e vane sollevazioni contro le potenze occupanti. Al nazionalismo in-

surrezionale aderirono in tempi diversi i cadetti reduci dalla Rivolta, alla quale

diedero il nome, del 1830-31, conosciuti come Gruppo del Belvedere Novembre

1830, dall’attacco sferrato in quella data al Palazzo del Belvedere sede del pote-

re russo nel ducato di Polonia, contro l’ordine del vice-re gran duca Costantino,

fratello dello zar, di schierare truppe polacche a sostegno della repressione delle

rivoluzioni in Belgio e Francia (Duffy e Ricci 2015).

Il nazionalismo con finalità riunificatrice dei territori polacchi era in

Piłsudski prioritario rispetto all’istaurazione del socialismo, andando oltre l’e-

guaglianza iniziale presente nel PPS e rispecchiando un contrasto esistente, ma

con soluzioni opposte, nei partiti della Sinistra polacca, prima della rinascita

dello stato unitario, che davano la priorità alla soluzione della questione sociale

piuttosto che alla riunificazione. Il Partito operario polacco “Proletariat” fondato

nel 1882 da Ludwik Waryński (1856-1889) era antinazionalista. Il programma di

Bruxelles, stampato a Ginevra nel 1879, al quale aveva concorso anche Waryński,

vedeva nell’internazionalismo proletario e nella lotta di classe gli elementi

principali. Roża Luksemburg (1871-1919) e i marxisti della Social-democrazia

del Regno di Polonia e Lithuania, (Socjal-demokracja Krolestwa Polskiego i Litwy

1898-1918, SDKPiL) erano anche loro internazionalisti e rivoluzionari contrari

alla riunificazione polacca.

La violenza nel progetto politico di Piłsudski aveva avuto sempre un ruolo

centrale e si era manifestata prima dello scoppio della prima guerra mondiale

in tre maniere differenti legate alla possibilità di una rivolta nazional-popolare:

attentati per destabilizzare nel Regno polacco la Russia, potenza occupante, le

rapine agli uffici postali per finanziare l’attività terroristica e mantenere l’orga-

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84cesare la mantia

nizzazione necessaria e, in fine, lo scontro armato all’interno di una sollevazione

generale. I sostenitori del Comandante avrebbero dovuto assorbire l’idea dello

scontro fisico e prepararsi ad esso. La questione non era se si dovesse o meno

utilizzare la violenza come strumento, bensì in che misura e in relazione a quale

obiettivo. Il futuro Maresciallo e chi gli stava vicino accettandone le idee ritene-

vano che la via per ristabilire una Polonia indipendente fosse la sollevazione po-

polare e la partecipazione a eventuali rivoluzioni in Russia per sfruttarne i van-

taggi. Per l’eventuale insurrezione avrebbero dovuto sussistere due condizioni:

avere armi e saperle utilizzare e nessuno avrebbe potuto stabilire quando e in

che quantità sarebbero state possedute e come sarebbero state utilizzate. Oltre

a procurarsi le armi bisognava addestrare i possibili rivoltosi ad adoperarle; si

rendeva così necessaria una struttura in grado di svolgere tale compito e di con-

seguenza ci volevano i finanziamenti per realizzarla. Dal marzo 1904 Piłsudski

chiese la partecipazione finanziaria all’iniziativa delle organizzazioni socialiste

della Finlandia – che però si opposero –, del Caucaso e dell’Ucraina.

Tra gli studenti polacchi all’estero si formarono gruppi di preparazione mi-

litare. Sempre nel marzo del 1904 a Varsavia gruppi male organizzati diedero la

caccia e pestarono presunte spie della polizia zarista. Dal mese successivo ini-

ziò la creazione di un disciplinato gruppo di combattimento specializzato nel-

la guerriglia urbana sotto la guida di Bolesław Berger (1876-1942) che rientrato

in anticipo, nel 1903, da tre anni di esilio in Siberia dal dicembre 1903 all’aprile

1904 fu membro del comitato centrale del PPS e principale organizzatore delle

manifestazioni di protesta contro la guerra russo-giapponese e la mobilitazione

di soldati polacchi in tre voivodati del sud e in due del nord del Regno. Le manife-

stazioni principali si svolsero a Varsavia, gli scontri furono durissimi con morti

e feriti ricordando all’Occidente europeo l’esistenza di una questione polacca con

la quale si sarebbero dovuti fare i conti. Il bisogno di risorse e la possibilità di

sfruttare le possibili ricadute politiche del conflitto spinsero Piłsudski a recarsi

in Giappone nel maggio 1904. Oltre a chiedere armi e a ottenerle in misura mol-

to ridotta rispetto alle sue richieste, offrì la creazione di un fronte interno alla

Russia con la formazione di una legione polacca con la quale avrebbe impegnato

le forze zariste. I giapponesi non si dimostrarono interessati alla proposta e ne-

anche a quanto Piłsudski domandava in cambio: la discussione della questione

polacca in sede di conferenza della pace tra i due belligeranti. Nella stessa cir-

costanza Piłsudski che vedeva già oltre la rinascita di una Polonia indipendente

manifestò la sua intenzione di creare una federazione tra Polonia, Bielorussia e

Ucraina. Si trattava del progetto politico al quale dedicherà parte delle sue ener-

gie nel primo dopo-guerra.

La sconfitta contro i giapponesi fu l’elemento scatenante della rivoluzione

russa del 1905. Nella parte polacca dell’impero zarista ciò portò ad una parziale

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85la lotta politica durante la transizione della polonia

modifica del rapporto tra violenza e nazionalismo, poiché ai temi cari al naziona-

lismo nella interpretazione del PPS e anche dei nazional democratici si saldarono

le varie problematiche sociali e la violenza quando si verificò fu anche frutto del-

le rivendicazioni socio-politiche del periodo. La questione sociale era comunque

politica ed aveva anche delle carature nazionalistiche se l’interlocutore principale

era una potenza occupante e se le soluzioni richieste passavano attraverso affer-

mazioni di carattere nazionale. Il PPS era dotato di una struttura ben organizzata,

diffusa nella società polacca del Regno e della Galizia che divenne base e diffu-

sione del nazionalismo quando a questo si associò la questione sociale. Il partito

era soprattutto presente tra la classe operaia e divenne il catalizzatore di un in-

sieme di forze anche eterogeneo per provenienza e formazione meglio indicato

come sinistra patriottica polacca che nella soluzione della questione nazionale

vedeva un passaggio necessario per la soluzione di quella sociale, riconosceva il

ruolo di leader di Piłsudski e aveva la sua forza anche nell’essere formato da po-

litici indipendenti, formazioni paramilitari e reti informali. Piłsudski riteneva,

inoltre, che l’indipendenza da raggiungere attraverso la guerra fosse il mezzo per

risolvere i problemi sociali polacchi mentre per una parte dei socialisti la rivo-

luzione li avrebbe risolti e non l’indipendenza. Vicini alla classe operaia russa

posticipavano l’indipendenza allo scoppio e conseguente vittoria della rivoluzio-

ne. All’interno del PPS si crearono due schieramenti i “Vecchi” con Piłsudski e i

“Giovani” favorevoli alla rivoluzione. Realista e convinto della bontà delle proprie

idee il futuro Maresciallo spinse affinché il PPS fosse in grado di difendersi e nel

periodo febbraio- aprile 1904 il partito si dotò di una organizzazione di combatti-

mento formata da gruppi speciali di autodifesa armata dei lavoratori, separati dai

gruppi volti all’agitazione politica, con il ruolo di tentare di garantire la sicurezza

dei partecipanti durante le manifestazioni. L’organizzazione avrebbe svolto an-

che azioni terroristiche. Gli effetti della rivoluzione russa del 1905 consolidarono

la presenza del PPS sul territorio sottolineandone la forza attrattiva e la capacità

organizzativa e nello stesso tempo i dibattiti sulle scelte tattiche e sull’uso del-

la violenza all’interno di esse furono rilevanti. Per Piłsudski e gran parte della

vecchia guardia del partito, l'azione disorganizzata delle masse contro la potenza

dello Stato moderno erano destinate alla sconfitta; fu per tentare di ovviare a que-

sto problema che si perfezionò la struttura nata nel 1904 e il 5 febbraio 1905 al VII

congresso del PPS fu istituita l’Organizzazione di Cospirazione e Combattimento

del PPS (Organizację Spiskowo-Bojową). Una modifica alla struttura organizzativa

nel senso di una sua centralizzazione venne decisa l’ottobre successivo, Piłsudski

divenne capo del dipartimento operativo. Alla fine di dicembre 1905 il CC del

PPS proclamò uno sciopero generale iniziato a Varsavia e successivamente esteso

a Łodź e Radomko. Gli scontri con i militari e la polizia causarono morti e feri-

ti e accelerarono l’organizzazione della parte combattente del partito. Cracovia

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86cesare la mantia

sarebbe stata la sede della scuola clandestina di combattimento. Strutturata in

cellule, nel 1906 avrebbe riunito 800 membri, l’Organizzazione nella seconda

metà dell’anno uccise 300 tra militari e funzionari civili e partecipò al “merco-

ledì di sangue” del 15 agosto 1906, quando la reazione delle truppe russe provo-

cò 30 morti e un numero superiore di feriti. Si trattava di uno scenario in cui la

violenza era il principale strumento di comunicazione esaltato poi dal conflitto

mondiale e che nel primo dopo guerra nonostante alcuni elementi del contesto

stesso mutassero stentò a diminuire. Nel febbraio successivo alle motivazioni

sociali si aggiunse la richiesta di avere la parità linguistica tra il russo e il polacco.

Durante le manifestazioni gli scontri con le forze di polizia e militari zariste fu-

rono numerosi e violenti. La mancanza di fondi necessari al finanziamento della

struttura organizzativa e alla preparazione delle manifestazioni fu in parte ovvia-

ta con delle rapine l’ultima delle quali sarebbe stata eseguita ad un treno postale

nel settembre 1908. Il metodo contestato da una parte dei membri del partito

perché li rendeva simili ai banditi del tempo portò ad una scissione; dopo il con-

gresso del 19-25 novembre 1906 i membri dell’Organizzazione di Cospirazione

e Combattimento furono espulsi e formarono il PPS di Sinistra con un Comitato

centrale a forte presenza ebraica.

Il programma dell’endecja evidenziava il realismo del suo principale fonda-

tore. Dmowski credeva lontano il raggiungimento dell’indipendenza e riteneva

l’interesse nazionale realizzabile cercando d’imporlo come prioritario in ogni

settore della vita nazionale. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e

con le tre potenze spartitrici ancora salde nel proprio dominio ciò si concretiz-

zava nel tentativo di sfruttamento dei tre contesti politico-giuridici per portare

avanti gli interessi polacchi. Nel settore russo, dove il partito era più radicato, gli

obiettivi da raggiungere sarebbero stati evitare di far progredire l’uso della lingua

russa al posto del polacco, proteggere i resti di autonomia giuridica e politica del

Regno, risvegliare il popolo passivo all’ideale nazionale; obiettivi dai quali la vio-

lenza sembra essere esclusa. In realtà, la violenza intesa come strumento politico

è esclusa in quel frangente non per una qualche forma di principio morale, bensì

poiché al momento era ritenuta inutile e controproducente, così come ne sarebbe

stato l’utilizzo durante la guerra russo-giapponese. La politica di polonizzazione

e contrasto delle manifestazioni politiche, economiche, sociali delle minoranze

etniche presenti in Polonia raccontava però una storia differente. Dmowski con-

dannava le manifestazioni lealiste al sostegno dello zar Nicola II; riteneva non

si dovessero favorire le forze russe bensì sperare in una loro sconfitta. Era, per

tale ragione, opportuno non provocare disordini suscettibili di bloccare le timide

aperture che San Pietroburgo sembrava fosse intenzionata a concedere, in cam-

bio della mancanza di contestazioni, e causare l’intervento delle truppe zariste

stanziate nel Regno. Eventuali sollevazioni popolari non avrebbero avuto succes-

Page 88: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

87la lotta politica durante la transizione della polonia

so e avrebbero provocato il peggioramento delle condizioni di vita dei polacchi.

I seguaci di Dmovski limitavano le contestazioni pubbliche preferendo scrivere

contro una guerra ritenuta d’interesse esclusivamente russo, per la quale non era

necessario versare sangue polacco, ma sarebbe potuta servire per aggregare e co-

struire le forze polacche. Secondo Anna Żarnowska, il 93,2% di tutti i lavoratori

partecipò all’enorme ondata di scioperi che spazzarono il Regno del Congresso

nel 1905 sorprendendo i partiti socialisti e i nazional democratici (Żarnowska

1965). Il dialogo con i nuovi arrivati sulla scena politica divenne l’elemento più

importante delle formazioni partitiche della Polonia russa.

La violenza del 1905 ebbe come attori protagonisti sullo sfondo di un forte

contrasto sociale la potenza occupante, la Russia, le sue forze di controllo e re-

pressione, l’esercito e la polizia, i due principali partiti con opinioni differenti

su ogni aspetto della vita del Regno e, infine, la minoranza ebraica. La violenza

verso gli ebrei fu la risultante di un antisemitismo di matrice sociale e culturale

sommato ad un nazionalismo che li riteneva contrari alla rinascita della Polonia.

La partecipazione di ebrei russi, che non parlavano il polacco o l’yiddish, alle ma-

nifestazioni a Varsavia fu notevole e questo pose il problema di come rapportarsi

con loro e se o come inserirli nella visione della comunità nazionale che avevano

Dmowski e Piłsudski e in larga parte spiega la forza e il ruolo che ebbe l’accusa di

essere il presidente degli ebrei nell’assassinio di Gabriel Narutowicz. Le proteste

e i disordini del 1904-5 furono percepite dai democratici nazionali come frutto

di un interesse essenzialmente ebraico; provocate da ebrei, in aggiunta immi-

grati dalla Russia, per perseguire obiettivi propri e non polacchi che avrebbero

portato ad uno scontro aperto con l’impero zarista al quale Dmowski guarda-

va per ottenere una maggior autonomia della Polonia. Il timore per l’attivismo

ebraico si andava ad aggiungere al giudizio fortemente negativo sugli scioperi

di operai polacchi, di origine ebraica e non, contro proprietari polacchi che rom-

pevano l’unità organica della nazione messa ancor più in pericolo dai legami

con il socialismo internazionalista. L’identificazione degli ebrei polacchi e non,

come rivoluzionari, anti polacchi e successivamente come filo sovietici diede a

chi affrontava la questione ebraica un elemento in più per chiedere e ottenere

popolarità e consenso imputando agli ebrei la responsabilità di ogni problema e

accrescendo la forza dell’antisemitismo. La partecipazione politica di molti ebrei

non assimilati parlanti yiddish e russo in eventi rivoluzionari ebbe un effetto ne-

gativo sulla classe media polacca e portò la questione ebraica al centro delle pre-

occupazioni democratiche nazionali. Nella Polonia del Congresso vivevano alla

fine dell’Ottocento circa 1.300.000 ebrei e circa 800.000 in Galizia concentrati in

maggior parte nelle città e nelle cittadine, gli shtelt descritti così bene nella loro

complessa e commovente umanità dai fratelli Singer. Cristiani polacchi ed ebrei

si troveranno a condividere pur se in maniera sproporzionata e a vantaggio dei

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88cesare la mantia

primi, risorse e obiettivi e questo faceva, specialmente nei periodi di crisi, dei se-

condi potenziali concorrenti e, nel peggiore dei casi, dei possibili nemici la paura

verso i quali poteva essere un fattore aggregante. Elemento questo suscettibile di

utilizzazione dai democratici nazionali. La diffusione del Bund, il partito sociali-

sta ebraico che mentre dichiarava essere la Polonia la patria degli ebrei polacchi

rivendicava il socialismo e il potere ai lavoratori, indicava la presenza rilevante di

operai di origine ebraica le cui idee non collimavano con quelle dei democratico-

nazionali. Il Bund era sorto nel 1897 in clandestinità a Vilnius sulla scia di forme

di tutela già esistenti degli interessi dei lavoratori ebreo-lituani e più in generale

con lo scopo di difendere la vita degli ebrei dall’ondata di pogrom iniziata dopo il

1881. Dmowski non amava gli ebrei e ancor meno apprezzava le loro organizza-

zioni e si riferiva all’Organizzazione combattente del PPS come formata da ebrei

e lunatici.

La guerra russo-giapponese fu un veicolo di violenza non solo al fronte in

Estremo oriente. I disordini nel Regno del Congresso cominciarono durante le

fasi iniziali del conflitto e crebbero progressivamente così come il malcontento

per le perdite russe e la mobilitazione. La brutalità della repressione delle mani-

festazioni sorprese e impaurì chi pur facendo attività politica in tutta l’area si te-

neva lontano da esse. Nel periodo 1905-1907, la violenza nei rapporti tra i partiti

delle aree socialista PPS, Bund, SDKPiL e di destra, endecja e soprattutto i militanti

della Unione Nazionale dei Lavoratori (Narodowy Zwiazek Robotniczy, NZR; 1905)

divenne rilevante. La NZR collaborò spesso con la polizia zarista per la repressio-

ne degli scioperi. Alle motivazioni nazionaliste, sociali e antisemite si aggiunse

anche l’aspetto religioso come ragione di una aggressività perpetrata contro la

setta eretica mariavite (imitatori della vita di Maria), fondata dalla suora cattoli-

ca Maria Franciszka (al secolo Feliksa Magdalena) Kozłowska (1862-1921) e dal

sacerdote Jan Maria Michał Kọwalski (1871-1942) nella Polonia russa nel 1893,

entrambi furono scomunicati da Pio X (1835-1914), i quali predicavano contro la

corruzione del clero e a favore di una nuova spiritualità. I Mariaviti erano social-

mente radicali e tendevano ad aderire ai partiti socialisti, in particolare l’SDKPiL.

Negli attacchi contro di loro e contro le forze socialiste, accusate di fare gli inte-

ressi degli ebrei, i democratici nazionali si presentarono con successo come gli

unici veri difensori della nazione polacca. Elemento importante dell'ideologia

democratica nazionale, l’antisemitismo acquisì nel tempo la caratura principale

dell’identificazione degli ebrei come principale minaccia alla sovranità polacca.

Le elezioni per la Duma del 1906 furono un passaggio importante della esclusio-

ne degli ebrei dall’immagine della futura comunità polacca che aveva Dmowski.

Pur avendo la Duma le funzioni di un consiglio consultivo i nazional democratici

speravano in una possibile evoluzione in un vero parlamento nel quale poter ot-

tenere vantaggi alla loro causa. Ecco perché era importante che a rappresentare

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89la lotta politica durante la transizione della polonia

gli interessi della Polonia fossero polacchi e non ebrei. La capitale avrebbe avuto

due rappresentanti. Il sistema elettorale avrebbe dato agli ebrei delle città e in

particolare a quelli residenti a Varsavia una influenza sul voto superiore a quella

già posseduta grazie alla loro rilevante presenza nella popolazione. Le elezioni

furono un’altra tappa della stabilizzazione dei fattori di violenza antisemita. I

socialisti mirando ad un’indipendenza che non passava per la competizione elet-

torale, le boicottarono e gli avversari principali dei nazional democratici furono

un gruppo di liberali di Varsavia, i Democratici progressisti di Petizione (Pedecja)

firmatari di un accordo con il Comitato elettorale ebraico per conquistare e spar-

tirsi i due posti di rappresentanti alla Duma spettanti alla capitale. Questa allean-

za elettorale rafforzò la visione dell’ebreo come antagonista e nemico politico. I

nazional democratici consci dell’importanza economica ed elettorale della parte

ebraica della popolazione del Regno si dichiararono disponibili ad un dialogo

alle proprie condizioni che se realizzato avrebbe notevolmente ridotto i fattori

di scontro violento.

Antisemitismo e dichiarazioni di apertura andarono di pari passo. Non avreb-

bero respinto chi avesse teso la mano verso di loro e in particolare non lo avreb-

bero fatto con gli ebrei ai quali promettevano tolleranza, uguaglianza di diritti e

di essere i portavoce dell’abolizione delle leggi discriminatorie. Questa posizione

confermata per l’elezione della seconda Duma, mutò per la terza nella quale il

boicottaggio degli altri partiti polacchi e ebraici consentì ai nazional democratici

di concorrere senza oppositori. Il partito nazional democratico tentò una politica

di cooperazione con il governo zarista rompendo i rapporti con i democratici co-

stituzionalisti russi e accentuando il profilo antisemita. La politica di vicinanza

alla Russia non ebbe risultati positivi e fu la causa principale dell’uscita dalla Lega

Nazionale del NZR nel 1908 e l’anno successivo dell’organizzazione universitaria

Związek polskiej młodzieży (Unione di giovani polacchi). Il punto critico delle rela-

zioni tra democratici nazionali e ebrei polacchi furono le elezioni della Duma del

1912 nel cui periodo il nazionalismo polacco si spostò verso un crescente odio di

razza e l’identificazione sempre più stretta dei termini “ebraico” e “rivoluziona-

rio”. La minoranza russa ebbe riservato uno dei due seggi di Varsavia lasciando

aperta la possibilità che l’altro seggio rimanente potesse essere conquistato dagli

ebrei. L’antisemitismo acquistò un valore propagandistico molto intenso e gli

attacchi della stampa popolare furono così duri al punto da spingere la censura

russa ad intervenire. Si stava consolidando il clima che avrebbe dieci anni dopo

portato all’assassinio del primo presidente della Repubblica polacca. La violenza

legata al boicottaggio delle attività ebraiche non fu rivolta solo contro i legittimi

proprietari, ma anche contro i polacchi che non si prestavano a farlo. Sia la Destra

che la Sinistra all’interno della propria concezione della comunità nazionale ave-

vano una parte aggressiva che favorì la violenza. Le élite al potere presentavano

Page 91: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

90cesare la mantia

visioni concorrenti della comunità immaginata della nazione polacca. E questo

aumentava i fattori di scontro.

La situazione politica peggiorò con lo scoppio della guerra che accrebbe gli ele-

menti di crisi e legittimò ogni tipo di violenza. Il rapporto tra i nazional demo-

cratici, i polacchi in generale e la comunità ebraica peggiorò nel suo complesso.

Le accuse di collaborazionismo con i tedeschi e simpatia per i bolscevichi si ag-

giunsero a quelle per la richiesta di autonomia per la popolazione ebraica e di

mancato sostegno alla causa dell’indipendenza polacca. Il complesso di queste

imputazioni nello scenario della guerra russo-polacca, della povertà e dispera-

zione del primo dopo guerra saranno la ragione principale delle violenze e delle

centinaia di vittime da esse causate dalla fine del conflitto ai primi anni Venti del

Novecento. Il Sejm del Commonwealth polacco-lituano era stato il più potente, ma

non il più efficace, parlamento nella prima Europa moderna. La memoria di ciò

era molto forte, ma non bastava a fare del Sejm Ustawodawczy (Sejm legislativo o co-

stituzionale) convocato da Piłsudski nel 1919 un organo efficiente. Era un corpo

fondamentalmente nuovo, eletto da una società con poca esperienza della politi-

ca parlamentare e ciò aumentò la possibilità che il “dibattito” politico si spostasse

fuori dalle aule, senza regole e con un alto tasso di litigiosità. Solo alcuni deputati

furono eletti con il suffragio universale e con regolari elezioni. La Galizia orien-

tale, che era ancora contesa tra i polacchi e gli ucraini, fu rappresentata dai depu-

tati polacchi del Reichstag austriaco, le province prussiane furono inizialmente

rappresentate dai deputati polacchi al Reichstag tedesco. Non esistevano deputati

delle frontiere orientali (i voivodati di Volhynia, Polesia e Nowogrodek) o dall’Al-

ta Slesia. A seguito dell'esclusione di queste aree, il Sejm costituzionale non aveva

quasi rappresentanze di minoranza nazionale, salvo dieci deputati ebrei e due

tedeschi. Le elezioni organizzate in fretta nell'ex Regno polacco, portarono avan-

ti deputati di prima nomina i quali dovettero imparare il funzionamento di un

sistema parlamentare e non rispettavano, tendenzialmente, la disciplina di par-

tito in un continuo dibattito e messa in discussione dell’appartenenza ai propri

gruppi il più ordinato dei quali era quello del PPS grazie anche alla tradizionale

disciplina del partito e alla presenza di un leader carismatico come Piłsudski. La

conseguenza principale fu una forte instabilità dovuta all’impossibilità di avere

una chiara maggioranza governativa. L’instabilità, tra il 1919 e il 1922 si succe-

dettero 8 gabinetti, fu lo specchio di un paese in costruzione in cui la lotta politi-

ca era fortemente radicalizzata e i rapporti con gli stati limitrofi ancora in via di

definizione. La violenza continuava ad essere parte importante di tale scenario;

c’erano quella a supporto di una politica estera molto aggressiva, la potremmo,

forse, definire una violenza di Stato, e quella interna tra parti politiche e sociali

differenti; in entrambi i casi essa era a supporto di differenti ideologie naziona-

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91la lotta politica durante la transizione della polonia

liste e concezioni della comunità nazionale e il diminuire dell’attrattività e della

capacità di convincimento delle loro idee favorì il mantenimento della violen-

za come uno dei principali fattori di comunicazione e tentativo di soluzione dei

conflitti nella società polacca. Gli stessi partiti principali dovettero affrontare dei

problemi che misero in parte in discussione il modello ideale di Stato che propo-

nevano ai polacchi. Per il PPS di Piłsudski, poco tempo dopo dalla rinascita della

Polonia come entità sovrana, la possibilità di creare uno stato unitario con tutte

le nazionalità appartenenti all’antica Repubblica diminuì all’aumentare dell’in-

tensificazione dell’azione dei movimenti nazionali tra gli ucraini e i lituani suoi

ex popoli costituenti. La Polonia creata a Riga (18 marzo 1921) sarebbe stata abi-

tata da poco meno di due terzi di polacchi e avrebbe incluso notevoli minoranze

ucraine, ebree, tedesche, bielorusse e avrebbe dovuto confrontarsi con la propria

natura multietnica, costituita da minoranze le quali, salvo quella ebraica, aveva-

no all’estero degli stati a cui guardare per il sostegno delle proprie rivendicazioni.

La rinascita della Polonia ante 1772 e l’esigenza di corrette e non violente relazio-

ni con gli altri popoli dell’area cominciavano ad essere inconciliabili. I socialisti

internazionalisti del SDKPiL e del PPS-Lewika non ebbero tali problemi poiché

essendo proiettatati verso la costruzione della giustizia universale e della frater-

nità internazionale non accettavano gli ideali nazionalisti. I democratici nazio-

nali mantennero e proclamarono coerentemente una posizione di difesa dei soli

interessi polacchi. In vista delle elezioni il nazionalismo di matrice PPS arrivò in

piena elaborazione della nuova situazione, mentre i democratici nazionali man-

tenevano le proprie posizioni. In tale contesto assunse ancora più importanza la

percezione avuta a livello popolare della concezione del nazionalismo dei princi-

pali partiti (Snyder 2004). Al fine di sfruttare al meglio il sistema D’Hondt con il

quale si sarebbe votato, i partiti di destra si unirono in un cartello elettorale de-

nominato Alleanza Cristiana di Unità Nazionale (Chrześcijańskiej Związek Jedności

Narodowej, ChZJN) composta da Unione Nazionale del Popolo (Związek Ludowo-

Narodowy, ZLN), e Movimento Cristiano democratici (Stronnictwo Chrześcijańsko

Demokratyczne, SChD). Nella campagna elettorale il cartello di destra ebbe il so-

stegno finanziario di proprietari terrieri e aristocratici e ciò favori una capilla-

re diffusione della comunicazione propagandistica, soprattutto nelle fasce più

povere e meno istruite della popolazione, tramite giornali locali e volantini. Il

messaggio era semplice, breve, immediato e di facile comprensione e si conclu-

deva in molti casi con l’invito a trasmetterlo ad un amico. Il lettore era visto come

un potenziale veicolo di trasmissione, gli si chiedeva una partecipazione attiva. Il

tema dominante della propaganda, fortemente polarizzato e espresso con inten-

sa violenza verbale, fu l’unità nazionale da raggiungere e difendere dal principale

nemico rappresentato dagli ebrei che erano, data la loro presenza, anche la prin-

cipale fonte di discredito degli altri partiti. Le forze di sinistra in genere, anche

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92cesare la mantia

quelle del centro agrario, Piłsudski e Wincenty Witos (1874-1945) in particolare,

furono indicate come delegati degli ebrei, succubi dell’imperio dell’ebraismo in-

ternazionale, complici del gioco ebraico diretto alla conquista del controllo po-

litico e economico sulla Polonia. I democratici nazionali si presentavano come

l’unico partito in grado di contrastare una così terribile prospettiva. La propagan-

da diretta agli operai chiedeva loro se desiderassero essere rappresentati da un

ebreo, come sarebbe accaduto se avessero dato ascolto al PPS, o governati al livello

nazionale da partiti sottomessi agli ebrei indicati come colpevoli di ogni tipo di

problema o crisi ci fosse in Polonia in quel periodo. Agli elettori polacchi spettava

il compito di difendere la Polonia dall’invasione ebraica universale.

In tale difficile contesto maturò prima l’elezione e poi l’uccisione del primo

presidente della risorta Repubblica polacca. L’Assemblea costituente promulgò

la Costituzione il 17 marzo 1921, in forza di essa la Polonia era una repubblica

parlamentare (Rzeczpospolita Polska) con al vertice un presidente eletto dal Sejm

e dal Senato uniti in Assemblea nazionale per la durata di sette anni. Il modello

costituzionale era quello della Terza repubblica francese. L’assassinio avvenne

in un contesto di violenza sociale e radicalizzazione dei conflitti: Varsavia era

bloccata in preda a violenti scontri e il Sejm circondato da una folla invocante

le dimissioni del neo eletto presidente. Sul contesto violento pesò il risultato

delle elezioni dalle quali non ebbe origine una maggioranza politica definita

costringendo così i partiti ad una caccia ai voti necessari all’elezione del presi-

dente. L’importanza del ruolo del partito contadino Piast posizionato al centro

dello schieramento politico e delle minoranze fu subito evidente. L’elezione fu

condizionata dalla decisione di Piłsudski di non candidarsi, scelta però che non

significava una sua completa uscita di scena. La figura del presidente della repub-

blica non era stata dotata, l’azione di Dmowski era stata decisiva in tal senso, dei

poteri d’intervento nella vita pubblica che il Comandante desiderava e ciò oltre

ad amareggiarlo profondamente lo spinse a non candidarsi. La decisione la rese

pubblica il 4 dicembre 1922, solo cinque giorni prima delle elezioni previste per

il nove dicembre creando ai partiti che avevano deciso di sostenerlo il problema

di scegliere un candidato (Thugutt 1992). Piłsudski poteva vantare un sostegno

personale trasversale in tutti i partiti del centro-sinistra e della sinistra che nes-

sun altro politico aveva in quel periodo. Non candidarsi significa dare un van-

taggio al centro-destra e alla destra e il ruolo delle minoranze sarebbe risaltato

più di quanto sarebbe stato se avessero votato un candidato carismatico come

Piłsudski, il quale nonostante si fosse ritirato indicò la tipologia del suo successo-

re che avrebbe dovuto essere un uomo di compromesso e non legato strettamen-

te a nessun partito(Piłsudski 1937). Gabriel Naturowicz candidato della sinistra

vinse per 62 voti il ballottaggio del 9 dicembre 1922 contro quello della destra

conte Maurycy Zamoyski (1871-1939) conosciuto uomo politico sposato con la

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93la lotta politica durante la transizione della polonia

principessa Maria Roża Sapieha (1884-1969) e principale proprietario terriero

della Polonia russa. Il vincitore cinque giorni dopo l’elezione assunse la carica di

Presidente della Repubblica. Il 16 dicembre 1922 dopo sette giorni di disordini e

violenze organizzate dai democratici nazionali e dai loro alleati contro l’elezio-

ne di Narutowicz ritenuto il candidato delle minoranze nazionali, dei massoni

e degli ebrei, il pittore Eligiusz Niewiadomski (1869-1923) (Brykczynski 2014:

411- 439), accogliendo anche l’appello a passare all’azione dell’associazione an-

tisemita Sviluppo (Rozwój), uccise il neo presidente la cui elezione era ritenuta

dalla destra un vulnus al diritto esclusivo dei polacchi a prendere loro soltanto le

decisioni più influenti sui destini della Nazione (Monzalli 2018).

Con l’assassinio di Narutowicz iniziò un periodo di instabilità in cui il vero

protagonista della scena politica, Piłsudski, stava apparentemente in disparte,

ma manovrava con decisione e abilità per influenzare l’attività governativa. La

crisi politica e le tensioni sociali aumentarono e nel novembre 1923 Cracovia fu

teatro di scioperi e sanguinosi scontri tra manifestanti e polizia i quali avrebbero

contribuito a preparare il terreno alla svolta autoritaria del Comandante nel mag-

gio 1926 concludendo nel nome della sanacja, ovvero del risanamento morale e

della diminuzione delle ruberie, la prima travagliata e violenta fase della storia

del risorto Stato polacco.

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vol. 56, n° 3.

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Seconda sezioneGlobalizzazione e integrazione sovranazionale

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I processi di globalizzazione in atto nella contemporaneità e indotti soprattutto

dalla tecnica e dall’economia sembrano mettere in discussione “la tradiziona-

le funzione della democrazia, spostando progressivamente in ambiti transna-

zionali, sui quali i cittadini dei singoli Stati non possono influire, le decisioni

che toccano i loro destini” (Galgano 2005: 197); del pari, il mondo globalizzato

sembra non conosca “quei modi di produzione del diritto che sono caratteri-

stici degli Stati nazionali, come le leggi votate dai parlamenti (o dai governi

su delega dei parlamenti)” (Galgano 2005: 201). Con queste parole Francesco

Galgano evidenzia quelle che appaiono come le due principali questioni istitu-

zionali poste dalla globalizzazione: il declino della democrazia e del principio

di statualità del diritto.

In effetti, il regime democratico, che riconduce la dinamica politica al cir-

cuito “elettori-rappresentanti-leadership-decisione” e teorizza “una relativa

impermeabilità delle singole arene nazionali e una interdipendenza delle de-

cisioni relativamente modesta” è in crisi perché oggi, per un verso, le decisioni

politiche sono per lo più frutto della stessa società civile ovvero di organismi

sovranazionali che, comunque, non promanano dallo Stato e, per l’altro, le “are-

ne decisionali nazionali hanno perduto la loro sovranità, a seguito dei processi

d’integrazione sopranazionale (come nel caso dell’UE, oppure dell’affermarsi

LUCIO FRANZESE

Su democrazia e diritto nella società globalizzata

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102lucio franzese

dei regimi internazionali), e le decisioni nazionali si ripercuotono nell’arena

internazionale, per effetto della mondializzazione e delle interdipendenze

dei mercati” (Ieraci 2016: 10). Analogamente, il monopolio del diritto da parte

degli Stati mostra la corda in una società il cui asse non sembra più la legge,

intesa quale manifestazione di volontà del titolare del potere secondo i cano-

ni del pensiero giuridico moderno, profilandosi il singolo quale protagonista

dell’esperienza giuridica e non come mero centro d’imputazione delle norme

imposte dal potere. Attraverso il ricorso allo strumento contrattuale, che appa-

re caratterizzare la globalizzazione giuridica, infatti, l’individuo consegue l’au-

toregolamentazione dei propri interessi. Cosicché appare opportuno riflettere

sulla società globalizzata per mettere a fuoco l’ordinamento politico e giuridi-

co delle relazioni intersoggettive a essa corrispondente. Del resto, pure coloro

che evidenziano i vistosi limiti della globalizzazione presenti, indubbiamente,

nell’esperienza contemporanea, sono consapevoli dei pericoli derivanti da un

ritorno agli stati nazionali quali protagonisti autarchici della scena economico-

istituzionale (King 2017).

Intervenendo sui rapporti tra globalizzazione economica e diritto, Pietro

Barcellona ha dichiarato “la piena realizzazione del progetto moderno, del suo

destino e della sua vocazione” (Barcellona 2000: 33), nel senso dell’avvenuto

trionfo dell’economia di mercato e del suo referente, l’individuo-soggetto. Il te-

orico dell’uso alternativo del diritto, infatti, ravvisa nella connessione tra diritto

privato ed economia di mercato “il dispositivo immanente al diritto moderno”,

così come “nell’individuo sciolto da ogni vincolo, libero e uguale”, cioè il soggetto

di diritto, “l’espressione del principio organizzativo fondamentale della società

moderna” (Barcellona 1998: 65-66). Solo apparentemente opposta è la posizio-

ne di Luigi Ferrajoli, che dalla globalità vede messe in discussione le categorie

proprie del pensiero politico e giuridico moderno. “Io credo che il principale

problema del futuro [...] sia la crisi ormai irreversibile della sovranità degli Stati

nazionali, cioè del monopolio statale della produzione giuridica, generata da un

processo d’integrazione economica e politica non accompagnato dalla costruzio-

ne di una sfera pubblica internazionale all’altezza dei nuovi poteri e dei nuovi

rapporti extra e sovra-statali. Ne è risultato un ‘vuoto di diritto pubblico’, cioè una

mancanza di regole” (Ferrajoli 2004: 19).

Tra gli storici del diritto, invece, il dibattito è agitato da un insanabile con-

trasto. Mentre Paolo Grossi esprime una “valutazione positiva del rivolgimen-

to in corso e, in particolare, della crisi attuale che investe il cuore del diritto di

un Paese – come il nostro – a impostazione legalitaria” (Grossi 2002: 162), Ugo

Petronio rivendica l’egualitarismo del diritto codificato contro le “seduzioni del

mercato”, nel senso che gli Stati nazionali, affidandosi all’autoregolamentazione

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degli operatori economici, “spalancano le porte a un’egemonia totalizzante dei

contraenti forti e creano i presupposti per una rinnovata disuguaglianza giuridi-

ca” (Petronio 2003: 466).

Una polarità interpretativa discrimina gli stessi cultori del diritto positivo.

L’anacronismo della modernità è denunciato da Giovanni B. Ferri, secondo cui

“alla razionalità della odierna realtà sociale e dei mercati nazionali e interna-

zionali sempre più culturalmente ‘stretti’ vanno i confini delineati dai sistemi

di principi e di regole, predisposti, sulla scia della tradizione illuministica del-

le grandi codificazioni continentali, dai legislatori statali” (Ferri 2001: 2). Per

contro, Natalino Irti non ravvisa motivi per non riconfermare la sua adesione

all’idea, elaborata dalla scienza giuridica moderna, della “separatezza” tra pro-

duzione e imputazione normativa e, quindi, alla necessità di una disciplina po-

testativa dei rapporti intersoggettivi, sia pure espressi mediante accordi tra i

governi nazionali, al fine di far corrispondere il raggio d’azione della volontà

pubblica alla dimensione mondiale dell’economia contemporanea. “La risposta

alla globalità rimane nell’interstatualità: non già nella rinuncia, ma nell’eser-

cizio della sovranità” (Irti 2001: 77). Secondo il fautore del formalismo norma-

tivistico, infatti, “il tramonto della sovranità statale farebbe – si passi l’inele-

ganza della parola – saltare il coperchio: esploderebbero tutte le passioni dei

luoghi, e le potenze terrestri si troverebbero l’una contro l’altra in hobbesiana

naturalità” (Irti 2001: 96).

Tale disparità di vedute si riflette nella configurazione della nuova lex

mercatoria, cioè del diritto che gli stessi operatori economici elaborano negozial-

mente per disciplinare i loro rapporti, così come avvenne nell’esperienza giuri-

dica medievale, e che della globalizzazione appare la principale artefice (Galgano

2005: 9). Alcuni la riconducono alla mera volontà degli agenti economici, facen-

done la manifestazione dell’imprenditoria egemone, e di conseguenza vedono

nella sottoposizione alla potestà sanzionatoria delle istituzioni statali e sovrasta-

tali l’unico freno agli abusi e alle prevaricazioni dell’arena globale. Altri, invece,

ne evidenziano il carattere di diritto promanante dalla generalità degli operato-

ri, il risultato delle loro autodeterminazioni, munito di sanzioni per chi agisce

scorrettamente, ma lo giustappongono al diritto statale che, nella presunzione di

esaurire il fenomeno giuridico lo ignorerebbe, causando, a sua volta, una sdegno-

sa reazione di segno uguale e opposto1. Negazione dell’assolutismo giuridico in-

staurato dalle codificazioni moderne – con la volontà legislativa accreditata quale

1 “Di fronte alla impotenza, alle sordità, alle lentezze del diritto ufficiale degli Stati”, la glo-balizzazione testimonia l’”auto-organizzazione dei privati, i quali, per proprio conto, grazie all’opera esperta di privati, inventano strumenti congeniali a ordinare i loro traffici giuridici, dando vita a un canale giuridico che si affianca e scorre accanto a quello dello Stato” (Grossi 2003: 69-70).

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unica fonte di ordine delle relazioni intersoggettive – la nuova lex mercatoria rap-

presenterebbe l’epifania di un “diritto senza Stato”.2

Di fronte al dualismo tra mercato e società politica, non è mancato chi ha mes-

so in luce il paradosso che “cambiamenti così importanti siano avvenuti per la

forza spontanea della tecnologia, dell’economia e della finanza, per cui i mercati

diventano globali, mentre le istituzioni su cui si appoggiano e che li regolano

rimarrebbero nazionali” (Cassese 2003: 5). In particolare, nei confronti della vi-

sione autarchica della nuova lex mercatoria, che s’identificherebbe con le forze di

mercato a prescindere da qualsiasi apporto delle istituzioni, Michael J. Bonell ha

osservato che i contratti uniformi a livello internazionale, da cui principalmen-

te essa prende forma, sono per lo più formulati dalle associazioni di categoria

in vista del contemperamento dei diversi interessi presenti in campo e non dal

singolo imprenditore che, dotato del necessario potere economico, potrebbe im-

porre la propria volontà agli altri operatori, pregiudicando l’equilibrato sviluppo

degli scambi economici. E il contratto, anche quando è predisposto dagli studi

legali delle multinazionali, non può essere considerato frutto dei “mercanti del

diritto”, secondo la formula coniata da Yves Dezalay per stigmatizzare la “prosti-

tuzione” del sapere giuridico agli interessi dei potentati economici. Le law firms

esplicano sostanzialmente un’attività di traduzione tecnico-giuridica delle prati-

che commerciali che nel mercato, grazie alla generalità dei suoi avventori, si sono

affermate per la loro efficacia operativa; esse appaiono dunque come i soggetti

più attrezzati per formalizzare gli schemi contrattuali che meglio soddisfano le

esigenze del commercio, garantendo una circolazione celere e al tempo stesso

sicura di beni e servizi oltre le frontiere statali.3

Soprattutto, si è rilevato che la nuova lex mercatoria “non costituisce un feno-

meno antagonista o, peggio, alternativo al diritto internazionale (sia privato che

pubblico)”; infatti, “a differenza di quanto avvenne per l’antica lex mercatoria, il

cui declino cominciò quando l’avvento dello Stato moderno provocò la statalizza-

zione e la centralizzazione del diritto commerciale, oggi accade che la nuova lex

mercatoria si sviluppa con la piena complicità degli Stati”, i quali, dando “grande

impulso all’arbitrato commerciale internazionale”, riconoscono “spazi di autono-

2 “Dobbiamo affrettarci verso una meta che è un diritto senza Stato; il conseguimento di que-sta meta è anche conseguimento di un effettivo pluralismo giuridico”, (Grossi 2002: 55). Sulla lex mercatoria quale ordinamento alternativo sia al diritto nazionale sia a quello internazionale cfr. Goldman 1964.

3 Per tale prospettazione (Franzese 2001: 72-80). Secondo M. R. Ferrarese le law firms interna-zionali “hanno uno stile di lavoro eminentemente creativo anziché esegetico […] esse possono funzionare sia come convertitrici di dinamiche economiche in dinamiche giuridiche, sia come convertitrici di schemi giuridici in dinamiche economiche” (Ferrarese 2002: 83). Critico nei confronti dei grandi studi legali, strumenti “dell’imperialismo giuridico americano” è M. Lupoi (Lupoi 2003: 552).

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105su democrazia e diritto nella società globalizzata

mia vastissima” agli operatori economici4 (Marrella 2003: 36 e 21), conducendo

di fatto verso un declino dei dogmi della statualità e della nazionalità del diritto.

Questo evidenzia la problematicità della mondializzazione economica e della lex

mercatoria, che ne costituisce per così dire il precipitato giuridico. I punti nodali

riguardano il rapporto tra economia e diritto e quello tra diritto e democrazia e,

più in generale, con le istituzioni, sui quali influisce il condizionamento della

scienza giuridica moderna che, con il suo panlegalismo, sembra ostacolare l’in-

telligenza del novum indotto dalla globalizzazione dei mercati.5

Due sono a ben vedere le posizioni che si contendono il campo: quella che conce-

pisce il diritto come espressione di eteronomia e quella che ricostruisce il proces-

so di ordinamento giuridico delle relazioni umane a partire dall’autonomia. Nella

prima prospettiva l’economia è il regno dell’homo oeconomicus, dell’individuo che

pensa solo al proprio particulare, per cui gli scambi, lasciati a se stessi, si svolge-

rebbero secondo la logica del profitto a tutti i costi. “Il mercato – dichiara un pro-

tagonista della vita economica e istituzionale – svaluta la regola giuridica, perché

vuole che la base di tutto non sia la virtù delle regole, ma la capacità contrattuale

del singolo che persegue il proprio interesse” (Rossi 2006: 81). La corrispettività

nei traffici dipende esclusivamente dall’intervento eteronomo: ergo, il mercato

è di per sé antigiuridico. E non si porrà fine all’attuale sconquasso “se al Rule of

Economics, con il suo abusato credo che ha condizionato il capitalismo degli ulti-

mi decenni, non si sostituisca il Rule of Law” (Rossi 2009: 938-939). In quest’ottica

i processi di globalizzazione riconducono la società a quello “stato di natura” te-

orizzato dal giusnaturalismo moderno, per la mancanza di istituzioni che siano

in grado di presidiare il mercato mondiale, mediante l’imposizione di precetti

e l’applicazione di sanzioni nel caso in cui essi siano violati. Quasi si rimpiange

l’epoca in cui i confini nazionali coincidevano con quelli del mercato e gli Stati,

grazie al loro indiscusso potere d’imperio, erano tutori delle relazioni che in essi

si svolgevano. Ma c’è anche chi, come Charles E. Lindblom, non facendo coincide-

re l’ordine intersoggettivo con la volontà dello Stato apre all’idea secondo cui esso

è un effetto del mutuo aggiustamento della relazionalità delle parti sociali, guar-

dando al “modello della democrazia pluralista, il cui apparato di governo serve

solo a salvaguardare le regole indispensabili dell’adattamento reciproco di tutte

le parti” (Croziere e Friedberg 1978: 216).

4 “Oltre a norme di origine statale ed interstatale, il diritto del commercio internazionale — e quindi anche il più vasto diritto dell’economia — viene disciplinato, in misura crescente, dalla lex mercatoria, intesa alla stregua di un insieme di norme di diritto internazionale privato mate-riale di origine astatuale” (Marrella 2003: 915).

5 Una lucida rappresentazione dei mutamenti è quella di F. Galgano (2005); si veda altresì M. R. Ferrarese (2000).

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Per il futuro, da un lato, si auspica una codificazione del diritto dei contratti da

parte dell’Unione Europea, che nel Vecchio continente sarebbe subentrata, quale

entità sovrana, agli Stati nazionali ormai limitati dall’estensione planetaria del

mercato;6 dall’altro, ci si riferisce al diritto amministrativo, che sarebbe chiamato

a esercitare su scala internazionale quell’addomesticamento del mercato tradi-

zionalmente svolto a livello nazionale (Ferrara 2004).

La categoria del diritto amministrativo, in crisi d’identità nei luoghi natii

(Berti 1986, Benvenuti 1996, Cassese 2002, Napolitano 2003), dove è avvertita

la necessità di riconoscere spazio alla partecipazione dialettica del singolo me-

diante la previsione d’istituti che legittimano fenomeni di coamministrazione

e perfino di autoamministrazione, è rilanciata a livello sovranazionale quale

strumento di eteroregolazione della vita economica. A ciò confortati dal fatto che

anche il Nuovo continente avrebbe ormai ammesso, secondo la dichiarazione

di Richard B. Stewart, che “quasi ogni attività è soggetta a regolazione pubblica:

la nostra sicurezza fisica ed economica e il nostro benessere dipendono da essa.

Non c’è praticamente settore del diritto – titoli di credito e finanza, benessere

dei bambini, fisco, commercio internazionale, edilizia residenziale, impiego e

quasi tutti gli altri settori – che non richieda una regolazione amministrativa”

(Stewart 2004: 2).7

6 Al significato della codificazione del diritto è dedicato AA.VV., Codici. Una riflessione di fine millennio (Atti dell’incontro di studio, Firenze 26-28 Settembre 2000), Milano, 2002. Per l’idea che con l’entrata in vigore delle Costituzioni del secondo dopoguerra i codici civili europei “si sono dissociati dall’ideologia tradizionale della codificazione, fondata sull’identificazione delle fonti del diritto con la sovranità statale”, per risolversi in “un concetto puramente tecni-co, correlato alla funzione di apprestare un nucleo sistematico di principi e di categorie ordi-natrici adeguato alla selezione strutturale dei conflitti di interessi” (Mengoni 1992: 515-516). Anche (Zeno-Zencovich 1998: 812) il codice è una “struttura logica — ce lo insegna Leibniz — volta a dare ordine alle regole giuridiche”. Sul codice come “impresa politica, non come ope-razione tecnica” (Rodotà 2004). Secondo S. Patti (Patti 2004) la “decodificazione interna”, cioè il nuovo diritto dei contratti di matrice europea che si allontana dal principio dell’uguaglian-za formale dei soggetti di diritto, proprio dei codici moderni, costituisce “un fenomeno in grado di mettere in crisi la stessa idea di codice”. Un progetto di codificazione europea dei contratti è quello elaborato dall’Accademie des privatistes européen (Gandolfi 2003). Tale op-zione si distingue da quella incarnata dai Principles of European contract law elaborati da parte della Commissione accademica guidata da Ole Lando (Castronovo 2000) i quali operano una sintesi tra i principi generali dei diversi ordinamenti europei; così come è diversa da quella praticata dal Progetto del gruppo di Trento, che mira alla ricostruzione delle matrici comuni del diritto europeo (Bussani e Mattei 2000).

7 Si tratta della prolusione pronunciata all’atto d’insediamento come John Edward Sexton Professor of Law alla New York University, in cui rivendica all’Ateneo il merito di aver stabili-to, a partire dal 2003, che gli studenti del primo anno frequentino un nuovo corso sullo stato regolatore e amministrativo, sottolineando come invece la Law school di Harvard si attardi sul common law curriculum predisposto dal presidente Landgell nel XVIII secolo.

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In definitiva, l’invocazione di un nuovo codice e di un diritto amministrativo

internazionale testimonia che si cerca nel vecchio armamentario dell’Illumini-

smo e del Giacobinismo la soluzione ai problemi posti all’organizzazione giuri-

dica dall’unificazione mondiale dell’economia. Non rendendosi conto che queste

figure sono la quintessenza di una concezione che guarda al fenomeno giuridico

esclusivamente dal punto di vista statale.

Nella seconda prospettiva l’economia è dotata di un’intrinseca razionalità, di

un principio ordinatore che tende alla reciprocità nella circolazione dei beni e

nella prestazione dei servizi, per cui il diritto non verrebbe a incidere su una ta-

bula rasa o, peggio ancora, in una situazione da Far West. La globalizzazione dei

mercati è vista non come una minaccia, bensì come un’opportunità per il singolo

di esercitare le proprie capacità affrancandosi dalla pretesa degli Stati nazionali

di predeterminare ogni aspetto della vita umana; in particolare, dall’imposizione

di fini e modalità dell’agire economico, come avviene quando l’allocazione delle

risorse risponde alla logica dirigistica. Si riconosce il ruolo dell’autonomia sog-

gettiva, l’attitudine cioè del singolo a darsi da sé le regole della propria azione e a

rispettarle, nell’ordinamento giuridico delle relazioni economiche. Condizionati

però dalla figura dello Stato moderno, che si sovrappone ai singoli quali unica ga-

ranzia dell’ordinato svolgersi dell’agire umano, si teorizza per reazione l’autosuf-

ficienza dell’operato individuale e si disdegna l’ausilio delle istituzioni, non rav-

visando in esse il necessario supplemento all’autonomia, qualora il regolamento

negoziale divisato non prenda in considerazione tutti gli interessi implicati dallo

scambio economico.

Nel dibattito sulla globalizzazione è frequente il ricorso al concetto di “governan-

ce” il quale, a prescindere dall’esistenza di organi di governo sopranazionale, per

il policentrismo caratterizzante l’età postmoderna, concerne la necessità che il

processo d’integrazione mondiale sia orientato in modo da garantirne la soste-

nibilità non solo dal punto di vista economico, e cioè dell’efficienza degli scambi,

ma anche da quello sociale, in vista dell’utile generale.8 Si pone così un problema

politico, poiché necessita individuare quanto è opportuno, conveniente, neces-

sario per la vita in comune, cui indirizzare le energie individuali sprigionate dai

fenomeni di mondializzazione.

8 Per quanto riguarda i politologi, cfr. Rosenau e Czempiel 1992; Ieraci 2002. Per la prospet-tiva giuridica, si vedano le considerazioni di chi ritiene che il termine governante evoca “de una parte — incluso etimologicamente —, el ‘gobierno’, másallá del Estado, aunque también implica, de otra, en la realidad, la rendicion de la política al economicismo” (Ayuso 2005: 52). Secondo G. Palombella, “il Rule of Law chiede al diritto di incorporare qualità e caratteri tali da contra-stare sul piano giuridico la tendenza monopolizzatrice del potere “, convergendo in un diritto positivo “che sia giuridicamente collocato al di fuori della portata del sovrano e della sua mera volontà” (Palombella 2009: 335-336). Per la prospettiva economica cfr. Stiglitz 2006.

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Il governo della globalizzazione potrebbe essere concepito in due diversi

modi, tra di loro antitetici. Come mera imposizione delle istituzioni, che sostitu-

iscono la propria volontà a quella degli agenti economici, le cui determinazioni

sarebbero volte al proprio esclusivo tornaconto; oppure come attività di supporto

all’ordine espresso dal mercato stesso, nel senso che le istituzioni, riconoscendo

l’autodisciplina di cui sarebbero capaci gli operatori economici, pongono l’accen-

to su quanto è indefettibile per il bene della comunità.

Nella prima prospettiva si è affermato, con riguardo al mercato nazionale, che

il “governo dell’economia e le istituzioni della regolazione sono espressione di

un chiaro e immanente bisogno di canalizzare i conflitti dentro uno schema di

composizione per stabilire un meccanismo di controllo sul mercato. Un mecca-

nismo che prende vari nomi (regolazione, vigilanza, disciplina, ecc.) in ragione

del punto di equilibrio in cui nei vari mercati (il mercato delle imprese, della fi-

nanza, dei beni pubblici) si attesta l’“ingerenza” storicamente accettabile e giu-

stificabile o addirittura necessaria dei poteri pubblici per lo sviluppo e la crescita

dell’economia in quel determinato momento” (Cardi 2005:14). Si prospetta in

questo modo un ordinamento “virtuale” delle relazioni economiche, espressio-

ne di mera potestà, dimenticando che “regolare il mercato non è mai un’attività

esclusiva ed imperativa del potere politico: occorre in ogni caso, per definizione,

la collaborazione dell’ambiente, vale a dire la contrattazione o l’accettazione delle

regole politiche, rigenerate nella loro efficacia dalla prassi effettiva del mercato, al

punto che divengono anch’esse fattore di autodisciplina” (Berti 2001: 174-175)9.

La seconda concezione configura un’implicazione tra mercato e istituzioni,

sia nazionali sia sovranazionali, nel senso che la funzione di queste prenderebbe

lo slancio dall’agire individuale, nella consapevolezza che i singoli sono capaci di

un vivere sociale e, quindi, di perseguire la concomitanza tra il bene proprio e

quello della comunità cui appartengono. Invero si può aspirare al bene comune

solo quando l’azione individuale sia informata a questo criterio, nel senso che già

i singoli considerano le conseguenze della propria condotta sulla vita societaria.

La “politicità” individuale, che nel lessico filosofico (Gentile 1983) indica l’ido-

neità soggettiva a individuare ciò che consente ai singoli di stare insieme senza

avvertire la presenza degli altri come un limite alla propria libertà, è sostenuta

dalle istituzioni. Esse sono complementari all’ordine espresso dai mercati, inter-

venendo per controllare la correttezza delle relazioni economiche, per impedire

9 Il giuspubblicista ha anche osservato che “molto vi sarebbe da dire sull’identità Stato-diritto e sul diritto in sé: si potrebbe pensare anzitutto che il diritto offre una propria immagine della realtà e la sovrappone alla vita e ai rapporti di tutti i giorni, quali sono voluti e definiti dagli uomini. È come se la società, riflettendosi appunto nell’ordine giuridico, predisponesse una diversa realtà a propria misura per poi imporla ai singoli, già astretti per loro natura al vincolo sociale” (Berti 2004: 10).

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cioè prevaricazioni e asimmetrie10, e per supportare quelle logiche non attinenti

alla mera efficienza, censurando le condotte individuali che adottano il profitto

come unico criterio decisionale.

L’apertura al sociale trova la sua scaturigine nell’autonomia soggettiva, in

quanto il singolo avverte la cogenza dell’etica nelle relazioni di cui è parte, per-

cependo cosa è necessario per il benessere della comunità.11 L’utile sociale non

è, infatti, un risultato inintenzionale dell’agire individuale12 né, tantomeno, un

quid estraneo al mercato, imposto dall’esterno, quasi fosse uno scotto che l’econo-

mia deve pagare per potersi legittimare, trattandosi di un valore originario delle

relazioni economiche che deve essere difeso e valorizzato dalle istituzioni.

Sulla scorta di tali considerazioni, sembra di poter confutare la negazione

dell’accostamento della lex mercatoria medievale a quella odierna, che difetterebbe

della dimensione politica. “Ho la sensazione – ha dichiarato Paolo Spada, inter-

venendo al XIII Congresso nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e

politica – che ci sia una differenza fondamentale che è questa: nella civiltà comu-

nale italiana i mercanti costruivano regole al servizio sì dei propri interessi, ma

proprio nel momento stesso in cui costruivano una società politica nella quale

quelle regole si applicavano. Non a caso noi commercialisti, quando andiamo a

pescare l’immagine remota delle figure giuridiche con le quali ci confrontiamo

oggi, prima di tutto andiamo a vedere gli statuti dei Comuni, prima, ancora quelli

delle Corporazioni. Oggi non è così, manca la costituzione di una società politica

corrispondente alla società dei mercanti; quindi non so quanto il paragone tra la

lex mercatoria di allora e quella di oggi abbia conoscitivamente qualche valenza”

(Spada 2008: 125).

Di conseguenza l’agire politico, che si connota per l’elaborazione di un dise-

gno globale entro il quale le diversità trovano la possibilità di coesistere senza

rinunciare a ciò che è essenziale per la convivenza umana, si riduce alle forme

organizzative del potere. Si assumono cioè le procedure di gestione degli affari

della comunità come principio aggregante la stessa, con l’effetto di confondere

10 “Al deficit di potere economico dei consumatori rispetto al potere economico delle imprese può porsi rimedio con l’ausilio delle regole giuridiche mediante le quali sono contenute entro canali invalicabili le forme di azione economica delle imprese nei rapporti con i consumatori” (Falzea 2004: 29).

11 È stato evidenziato “il superamento della prospettiva dirigistica, che associava la regola-zione alla tutela dell’interesse pubblico in contrapposizione a quello dei regolati, sostituita da una più complessa visione in cui l’interesse pubblico e quello dei regolati coincidono o sono comunque parte integrante di un processo regolativo unitario” (Cafaggi 2004: 219).

12 Per l’idea che l’ordine spontaneo del mercato sia il risultato inintenzionale di atti ininten-zionali bisogna rinviare all’orientamento che da Adam Smith, proposto nella Indagine sulla na-tura e le cause della ricchezza delle nazioni, va fino al premio Nobel per l’economia Friedrich August von Hayek, espresso in Legge, legislazione, liberta; sul punto cfr. Moroni 2005.

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il fine per cui si sta insieme con gli strumenti realizzativi. Per tal modo si disco-

nosce il valore della nuova lex mercatoria, che realizza, anche grazie al supporto

istituzionale all’autonomo operato degli agenti economici, l’unità dei mercati

mediante l’ordinamento giuridico delle relazioni economiche.

Ecco perché la sussidiarietà si presenta come un “principio particolarmente

adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo uma-

no. Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico”, am-

monisce Benedetto XVI, “il governo della globalizzazione deve essere di tipo sus-

sidiario, articolato su più livelli e piani diversi, che collaborino reciprocamente.

La globalizzazione”, conclude il Pontefice emerito, “ha certo bisogno di autorità

in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale auto-

rità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non

ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace” (Benedetto XVI: 57).13

È necessario chiedersi se il delineato assetto tra mondializzazione economica e

diritto – che mostra la tendenziale coessenzialità tra fenomeno giuridico e au-

todisciplina individuale, nel senso che gli istituti giuridici sono intrinseci alla

vita degli affari, riflettendo ciò che in essa accade emendato di quanto non corri-

sponda all’autentico sviluppo della persona umana – sia rimesso in discussione

dagli aspetti patologici della globalizzazione che, nella presente temperie, sem-

brano dominanti, per non dire esclusivi, del processo di unificazione dei merca-

ti. Si è icasticamente parlato di logoramento dell’autoregolamentazione, la quale

sarebbe servita per dissimulare quella deregulation che, invocata e praticata nel

mondo anglosassone, avrebbe attecchito anche nel Vecchio Continente nono-

stante la pervasiva, ma, di fatto, neutralizzabile regolazione pubblica dei mercati

(Rossi 2008).

Un tentativo di risposta non può non tenere in debito conto gli aspetti etimo-

logici ed epistemologici che la questione richiama. Va rilevato il fraintendimento

cui è andato incontro il concetto di autonomia soggettiva. In una società secola-

rizzata, qual è quella in cui viviamo, dominata dal razionalismo giuridico, cioè da

una conoscenza strutturata in termini ipotetico-deduttivi e con finalità operati-

va (Gentile 2006), l’autonomia è sinonimo di signoria della volontà individuale.

Con il risultato che, di fronte al caos in cui è precipitato il mondo economico,

s’invoca l’intervento dello Stato: l’unico in grado di riportare ordine tra soggetti

che, in nome di una sedicente autodisciplina, hanno impunemente scorazzato

in quelle che consideravano essere delle praterie finanziarie, finendo con il met-

tere in pericolo l’economia globale.14 Pertanto si rimettono in campo politiche

13 Si veda altresì Scambech 2006.

14 “Lo Stato ha fallito per inazione, non per eccesso di azione; per non aver voluto vedere e contrastare una sequenza di evidenti fallimenti del mercato” (Rossi 2008: 56).

Page 112: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

111su democrazia e diritto nella società globalizzata

keynesiane e, soprattutto, s’invoca l’eterno ritorno al Leviatano, secondo la speri-

mentata strategia del pensiero politico e giuridico moderno, che giustifica l’ete-

rodirezione della vita in base all’assunto convenzionale dell’anomia individuale.

Per contro, l’etimo di autonomia esprime l’idoneità del singolo a essere legge a se

stesso, rispettando l’impegno assunto anche a dispetto del mutamento del pro-

prio volere. Questo perché la persona umana, in ciò supportata dalle istituzioni,

è capace di essere “signore di sé”.15

Sgombrato il campo dagli equivoci, si prende coscienza della scaturigine so-

ciale del diritto nonostante che le contingenze sembrino legittimare un nuovo

monopolio statale o comunque pubblico della produzione giuridica. Sul piano

nazionale e su quello sovranazionale le istituzioni sono sussidiarie rispetto al

processo di ordinamento delle relazioni autonomamente attivato dagli operatori

economici.16 Tant’è che la nostra Cassazione ha avuto modo di affermare la giuri-

dicità originaria della nuova lex mercatoria in quanto ordinamento proprio della

società degli affari17, le cui decisioni sono portate ad esecuzione dalle istituzioni

nazionali non essendo dotata di propri organi di coercizione18.

Opportunamente Giuseppe Tesauro ha ricordato che la lex mercatoria, la quale

come si è detto costituisce il profilo giuridico della globalizzazione, “non si è mai

affermata in un vuoto normativo e/o istituzionale. Il Duca di Amalfi, intorno al

1000, raccolse gli usi nelle tavole amalfitane e ne fece il codice dei traffici maritti-

mi del Mediterraneo. Né si limitò alle regole: inventò perfino una moneta unica

del Mediterraneo, insomma l’euro di quei tempi, usata da tutti i trafficanti del

nostro mare. Già allora, per non andare ancor più indietro nei secoli, c’era, dun-

que il coniugarsi degli usi commerciali con l’esercizio della funzione regolatoria

15 “Nella stessa anima di ciascun uomo vi sono due aspetti, uno migliore, uno peggiore. E quando la parte per natura migliore ha il dominio sulla peggiore, ecco l’espressione essere si-gnore di sé e suona lode; quando invece, per colpa di una cattiva educazione o di non buona compagnia, la parte migliore, ma piu debole, è vinta dalla peggiore, più forte, allora chi si trova in questa situazione è detto di sé schiavo e suona biasimo e rimprovero“: di ciò ci rende edotti Platone, La Repubblica, X, 431 a.

16 L’analisi dell’esperienza giuridica sembra evidenziare che l’ordinamento nasca dall’incon-tro dialettico tra la naturalità dell’autonomia soggettiva e la sussidiarietà delle istituzioni: sia consentito il rinvio a Franzese 2010.

17 “Nella misura in cui si constata che gli operatori (prescindendo dal vincolo della loro appar-tenenza ad uno Stato e/o dalla ubicazione delle loro attività in uno Stato) consentono su valori basici inerenti al loro traffico, e, quindi, mostrano di nutrire (anche per una affectio dettata da motivi pratici) l’opinione cessitatis, deve ritenersi che esista una lex mercatoria (regole di condotta con contenuti mutevoli, ma, pro tempore, determinati)” Cass. 8 febbraio 1982, n. 722, in Rivista internazionale privato processuale, 1982, p. 835.

18 “Il ricorso al braccio secolare dello Stato ed alle sue sanzioni non sminuisce il carattere di ordinamento giuridico della lex mercatoria, ma, anzi, ne mette in evidenza il riconoscimento ad opera dell’ordinamento statale” (Merrella 2003: 652).

Page 113: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

112lucio franzese

dei poteri pubblici”.19 Insomma, a parere del giurista, accanto all’autoregolazione,

“ci deve essere, e c’è sempre stato, il contrappeso di un potere pubblico, che a volte

ha fatto un passo indietro, altre volte ha fatto dei passi avanti, in ogni caso vigi-

lando sul perseguimento anche di un interesse generale”.20

Ritornando all’odierna lex mercatoria, vanno menzionati i “Principi dei con-

tratti commerciali internazionali” elaborati dall’Istituto internazionale per l’u-

nificazione del diritto privato (UNIDROIT) che, partito con l’obiettivo di solleci-

tare l’uniformità legislativa del diritto, ha puntato la sua attenzione sulle prassi

commerciali al fine di desumerne i principi della contrattualità internazionale,

intervenendo ortopedicamente laddove fosse necessario affinare ed equilibrare

quanto elaborato dall’inventiva negoziale.21 I “Principi” pongono invero l’accento

sulla necessaria “ragionevolezza”, “appropriatezza” e “proporzionalità” dei rime-

di esercitabili nei confronti delle patologie del commercio internazionale.22 Si

mira all’equità degli scambi, consapevoli che la coesione sociale richiede il suum

cui tribuere diversamente da quanto assume la prospettiva formalistica, in cui l’or-

dine giuridico è dato dalla mera conformità dell’agire individuale al volere del

potere normativo.

“Per quasi tutto il XX secolo la nostra cultura giuridica si è fatta beffe dell’idea

che l’assetto di interessi messi in atto volontariamente dalle parti possa essere in

sé giusto, ed ha quindi formato schiere compatte di giuristi ed operatori del dirit-

to che venerano la legge statuale e disprezzano l’idea che il contratto abbia forza

di legge tra le parti, essendo, a loro modo di vedere, l’effetto giuridico vincolante

una conseguenza della legge e non già dell’autonomia privata. Lo scoramento che

simile cultura giuridica prova a fronte dei fenomeni di globalizzazione la dice

lunga sul fatto che agli inizi del XXI secolo ci si avveda che tale tendenza [...] era

solo una strada sbagliata” (Gambaro 2008: 246).

Il criterio della ragionevolezza informa anche l’operato dell’Organizzazione mon-

diale del commercio (WTO), l’istituzione intergovernativa sorta a Marrakech nel

1994 per favorire la liberalizzazione del commercio mondiale, vagliando l’attitu-

dine delle misure adottate dagli Stati a fungere da impulso ovvero da ostacolo allo

scambio di beni e servizi.

19 Intervento pronunciato al CNEL l’8 aprile 2008.

20 Ibidem.

21 Si è evidenziato che la nuova lex mercatoria si avvale del “filtro culturale di Unidroit, che la rimodella secondo i consolidati principi di civiltà giuridica, cui nessun operatore economico può sottrarsi, nella ricerca del giusto punto di equilibrio fra gli opposti interessi in gioco, fra le ragioni dell’impresa e le esigenze di protezione del contraente debole” (Galgano 2005: 74-75).

22 Si vedano anche i già citati “Principi di diritto europeo dei contratti” redatti dalla Commissione Lando, che non si sarebbe limitata a un restatement: cfr. Zimmermann 2009.

Page 114: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

113su democrazia e diritto nella società globalizzata

Secondo una prima posizione, lo “schema entro il quale si sviluppa ed opera

l’Organizzazione mondiale del commercio è quello, tipico e ben noto, interna-

zionale. E nel sistema globale del diritto internazionale e delle Organizzazioni

internazionali sono le Nazioni ad essere titolari di diritti ed obblighi. La rivo-

luzione di Marrakech modifica molte cose, ma soprattutto impone la categoria

“nazione” come categoria fondante. Ai tavoli delle Organizzazioni internaziona-

li siedono e votano le Nazioni. Le norme del mercato globale, le sole a cui tut-

ti gli Stati devono sottostare, sono quelle delle Organizzazioni internazionali”

(Ciccarelli 2010: 141).

In realtà lo scopo del WTO, secondo quanto dichiarato dall’allora direttore

generale, Supachari Panitchpakdi, al Simposio del 2005, è quello di assicurare

relazioni economiche pacifiche e stabili (the most crucial function) e tale obiettivo

non è perseguito in termini di sovranità, nel senso che la WTO non sembra volta

a ripristinare a livello sopranazionale quel potere sommo che si è disintegrato a

livello nazionale per effetto della globalizzazione, ponendo in crisi il dogma della

statualità del diritto. L’Organizzazione mondiale del commercio non sovrasta in-

vero i Paesi aderenti, bensì indica loro quanto attiene alla protezione delle produ-

zioni di qualità ovvero tipiche, e quanto, invece, limita e distorce la concorrenza

tra i produttori dei diversi Stati. Sulla base di questi criteri, da tempo essa è im-

pegnata a dirimere la controversia in materia di agricoltura tra i cosiddetti Paesi

emergenti e quanti, come Europa, Stati Uniti e Giappone, esercitano politiche

protezionistiche che, in quanto tali, privilegiano alcuni produttori a scapito di

tutti gli altri e dei consumatori. Così come nell’annosa controversia Boeing-Airbus,

che ha opposto gli Stati Uniti all’Unione Europea, la WTO ha distinto il soste-

gno (lecito) alla sicurezza dato dagli Stati, dal sussidio (illecito) dato alle imprese

nazionali che, invece, impedisce lo sviluppo armonioso del commercio interna-

zionale. Continuando nell’esemplificazione, una particolare rilevanza presenta

la questione della commercializzazione degli organismi geneticamente modifi-

cabili (OGM) nei cui riguardi un Paese ha diritto di difendersi; a patto però, dice

l’Organizzazione, che le misure adottate siano ragionevoli, cioè adeguate al ri-

schio che si prospetta.

A oggi tra gli Stati membri figurano Cina e Israele, Mongolia e Pakistan,

Gibuti e Arabia Saudita. Per Libia, Libano, Algeria, Vietnam, Russia e Sudan è in

corso la procedura per il loro ingresso nell’Organizzazione. Non sembra dunque

di poter ravvisare in essa uno strumento di condizionamento del commercio in-

ternazionale. Apparendo, invece, plausibile avanzare un parallelo tra la funzio-

ne assolta dall’Unione Europea nei confronti degli Stati membri e quella che sta

svolgendo la WTO a livello mondiale: far emergere un ordinamento che consenta

alle singole comunità nazionali di affermare le proprie ragioni senza chiuder-

si a quelle degli altri, invocando pretestuosamente esigenze di ordine pubblico

Page 115: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

114lucio franzese

o di sicurezza sanitaria, di tutela ambientale o di libertà di religione. Di qui la

rilevata discrepanza si può tradurre in uno schema interpretativo che vede da

una parte la prospettiva dell’agire strategico dei singoli attori sociali, e dall’altra

l’idea dogmatica della statualità del diritto che però trova dei limiti proprio nel

momento in cui deve trovare soluzioni a problemi nuovi. In definitiva, occorre

far leva sul paradigma giuridico della sussidiarietà che, incardinandosi nell’ori-

ginaria autonomia personale, indica la strada per congedarsi dalla sovranità sta-

tale. Soprattutto oggi che la crisi economica ci sospinge verso posizioni mercan-

tilistiche. Si tratterebbe invero di un ritorno a un’architettura giuridica logorata

dall’esperienza della globalizzazione, che indica nell’autodisciplina personale e

nel corrispondente ausilio delle istituzioni, sia nazionali sia sovranazionali, le

modalità dell’ordinamento giuridico delle relazioni economiche. È chiaro che il

dispiegarsi dell’autonomia impone un rafforzamento dei presidi istituzionali,

soprattutto internazionali, per vigilare sull’esercizio dell’autodeterminazione.

Non in base a criteri estrinseci, usciti dalla testa di Minerva, ma di quelli che af-

fiorano dalla stessa associazione societaria e che bisogna riconoscere e valorizza-

re per quel seme di socialità di cui è naturalmente portatore la persona umana,

eventualmente integrandoli qualora si rivelassero insufficienti al bene comune.

Compito delle istituzioni, infatti, dovrebbe essere quello di iustitiam dare.

Page 116: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

115su democrazia e diritto nella società globalizzata

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La politica commerciale dell’Unione Europea e le “democrazie difficili”: riflessioni su tre Stati del Medio Oriente

ALESSIA VATTA

Introduzione

Negli ultimi vent’anni, l’Unione Europea ha fatto spesso ricorso agli accordi com-

merciali per promuovere norme e principi come lo sviluppo sostenibile e i di-

ritti umani, sia a livello globale sia nei rapporti con paesi in via di sviluppo. Ha

quindi assunto il ruolo di una potenza non solo commerciale (“power in trade”),

ma anche normativa (“power through trade”). In particolare, negoziando accordi

preferenziali con i paesi del Mediterraneo, l’Unione ha sostenuto i processi di

integrazione regionale al di là dei suoi confini (Poletti e Sicurelli 2018). La po-

litica euromediterranea risale alla metà degli anni novanta. Nel 1995 l’UE, i go-

verni degli stati membri e quelli di dodici stati nordafricani e del Medio Oriente

firmarono un accordo – noto come Dichiarazione di Barcellona – dando inizio

a un processo di cooperazione in tre macro-settori: politica e sicurezza, econo-

mia e finanza, società e cultura. Attualmente, la politica euromediterranea è ri-

compresa nella politica europea di vicinato, che include le iniziative riguardanti

i paesi contermini all’UE, ed è il risultato di tentativi e ridefinizioni di attività

precedenti, con la caratteristica tipica di una certa flessibilità rispetto ai cambia-

menti politici. Il cosiddetto “processo di Barcellona” prevede che le riforme po-

litiche, economiche e sociali interne debbano andare avanti per consolidare la

Page 121: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

120alessia vatta

democratizzazione e lo stato di diritto, grazie alla cooperazione sui diritti umani,

al rafforzamento della democrazia e al sostegno rivolto alla società civile (Attinà

e Natalicchi 2007). Tuttavia, è necessario che il processo di modernizzazione si

sviluppi dall’interno di questi paesi, mediante autentiche riforme delle strutture

sociali e politiche, che spesso sono ostacolate da forti resistenze al cambiamento

e possono risultare destabilizzanti. Gli accordi di partenariato euromediterranei

e di associazione sono stati utilizzati per incoraggiare la democratizzazione e il

rispetto dei diritti umani, sebbene clausole di condizionalità siano in genere pre-

senti solo negli accordi di associazione (Smith 2005).

A livello globale, il peso economico dell’UE è importante per tre ragioni.

La prima è che l’Unione ha un forte interesse nella governance dell’economia

mondiale. La seconda è che la dimensione dell’economia europea e la sua quota

d’importazioni mondiali determinano importanti implicazioni politiche per

i partner commerciali. La terza è che la sua economia è importante per altri

attori e l’UE cerca di esercitare influenza aprendo il suo mercato a condizione

che siano attuati determinati cambiamenti politici negli altri paesi (da qui il

power through trade) o siano praticate condizioni di scambio favorevoli (power

in trade, o anche to trade) (Young e Peterson 2006; Meunier e Nicolaïdis 2006).

Il ruolo dell’UE come potenza di mercato dotata di obiettivi di regolazione eco-

nomica e sociale è avvalorato dall’ampia dimensione del mercato unico e dalla

conseguente capacità di esternalizzare varie politiche interne, con particolare

riferimento agli standard regolativi (Damro 2012). Infatti, la dimensione del

mercato europeo rappresenta un forte incentivo materiale per i governi che

devono valutare l’opportunità e i vantaggi potenziali riconducibili al coordina-

mento degli standard normativi. Poiché l’UE ha una forte identità normativa,

formula regole su cui gli altri attori statali possono convergere. In particolare,

come sottolineato da Bach e Newman (2007), ai fini dell’esternalizzazione sono

necessari la competenza regolativa (in termini di risorse finanziarie, umane e

di esperienza), la coerenza regolativa (riferita a precise deleghe di potere de-

cisionale) e l’autorità sanzionatoria (riferita alla capacità di imporre sanzioni

agli attori inadempienti, sia pubblici che privati). L’esternalizzazione può con-

sistere nel tentativo di indurre gli attori non-UE ad adottare un livello di rego-

lazione simile a quello europeo o a seguire linee d’azione conformi ai canoni

europei. In alcune aree di policy, come la concorrenza, la sicurezza alimentare

e della produzione manifatturiera, la protezione ambientale, la contabilità e le

norme finanziarie, il settore chimico, le regole europee sono state adottate in

tutto il mondo (Damro 2012: 695). Si potrebbe dunque sostenere che, in effetti,

la capacità regolativa europea sia effettivamente esistente, con ambizioni d’in-

tervento anche nel campo dei principi democratici, delle libertà e dei diritti

fondamentali (Manners 2002: 243). Lo stesso autore individua alcuni canali di

Page 122: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

121la politica commerciale dell’unione europea

propagazione normativa: il contagio (non intenzionale), la diffusione d’infor-

mazioni (spesso tramite le istituzioni europee), la diffusione procedurale (tra-

mite la definizione di rapporti istituzionali). Inoltre, i meccanismi di diffusio-

ne possono tradursi nello scambio di beni, commerci, assistenza tramite mezzi

finanziari, mediante la diffusione esplicita (con la presenza sul posto di dele-

gazioni o rappresentanze europee) e attraverso il filtro culturale dei processi

di apprendimento e/o adattamento/respingimento delle norme. Pertanto, la

base normativa su cui è costruita l’UE la predispone ad agire per via normativa

anche nella politica mondiale: non conta tanto ciò che l’UE dice o fa, bensì ciò

che è (Manners 2002: 252).

Con riferimento agli accordi euromediterranei, alcuni studiosi rilevano il

legame tra benefici previsti dagli accordi e rispetto dei diritti umani (Hafner-

Burton 2005). Tuttavia, è aperto il confronto tra chi sottolinea l’importanza degli

accordi commerciali per modificare le politiche interne e le azioni repressive, e

coloro che invece evidenziano la mancanza di obblighi certi e di meccanismi san-

zionatori. Secondo Hafner-Burton (2005: 595) è importante modificare gli incen-

tivi all’azione di chi persegue comportamenti repressivi, spesso in contesti con

scarse competenze e strutture amministrative per l’applicazione degli accordi.

Tale operazione richiede un complesso equilibrio tra persuasione e coercizione,

se l’obiettivo è il riconoscimento effettivo dei diritti umani, cambiando la valuta-

zione di costi e benefici operata dalle élite locali.

Sull’effettiva capacità europea di agire politicamente attraverso la politica

commerciale, sembra assodato che – nel rallentamento dell’azione multila-

terale nell’ambito delle organizzazioni internazionali – la governance through

trade si affianca all’azione unilaterale e alle pratiche informali di definizione

delle regole (Marx et al. 2015: 3). Poiché nel 2013 il commercio di beni e ser-

vizi ha rappresentato l’80% del prodotto interno lordo europeo, si giustifica

la definizione dell’UE come power in trade (Marx et al. 2015: 5). Tuttavia, vale

anche quella di power through trade, nella misura in cui l’accesso al mercato co-

mune funge da canale per l’esportazione di standard, valori e norme europei

(Meunier e Nicolaïdis 2006). Queste studiose distinguono le manifestazioni di

power through trade secondo il tipo di relazione commerciale (bilaterale, regio-

nale e globale), individuando tre obiettivi principali. Nell’ipotesi bilaterale, si

tratta della democratizzazione, dello sviluppo, della governance e dell’adozione

degli standard; nel caso regionale, il fine è l’esportazione delle regole del mer-

cato unico e di strumenti di governance di più ampio respiro; nel terzo caso,

l’UE ambisce a modellare il sistema multilaterale mediante un’agenda commer-

ciale attenta anche al rispetto di diritti e principi (ibid.: 910). Con riferimento

all’ambito euromediterraneo, le autrici evidenziano come si tratti, insieme alla

politica europea di vicinato, di un tentativo di “convergenza senza adesione’,

Page 123: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

122alessia vatta

poiché i paesi contraenti non sono destinati all’ingresso nell’UE, e dunque la

condizionalità non può essere utilizzata estensivamente. La distanza tra non-

membership e piena adesione è colmata ricorrendo a molti strumenti e termini

di solito associati all’adesione, concedendo però solo l’ingresso nel mercato co-

mune e varie forme di assistenza. Nata come un approccio regionale, la politi-

ca euromediterranea sembra essere in seguito mutata verso un approccio più

country-specific, anche a causa della mancata complementarietà tra le economie

dei paesi interessati. Gli accordi euromediterranei prevedono disposizioni di

risoluzione delle controversie sulle clausole riguardanti i diritti umani (Bartels

2015). Curiosamente, a differenza degli altri accordi commerciali dell’UE, non

sono esplicitate le condizioni legate alle convenzioni fondamentali dell’ILO

(Agustí-Panareda et al. 2014). Tuttavia, l’effetto pratico di tali riferimenti dipen-

de comunque dalla loro formulazione e dalle misure di attuazione (ibid.: 14).

Analizzando le clausole sociali dei tre trattati in vigore con Libano, Israele e

Giordania, si possono costatare analogie e differenze nell’approccio dell’UE, te-

nendo presenti le considerazioni suesposte.

Gli accordi commerciali euromediterranei con Giordania, Israele

e Libano

Nel quadro del partenariato euromediterraneo, tutti e tre gli accordi sono di asso-

ciazione. Si tratta quindi di intese che, in linea di principio, prevedono obiettivi

piuttosto ampi. In passato, l’accordo di associazione ha preceduto, per numerosi

paesi, l’ingresso nell’UE (ad es., i paesi dell’Europa centro-orientale). Pertanto, pur

con le riserve e le limitazioni connesse alla politica euromediterranea, gli accordi

con i tre paesi in oggetto appaiono rilevanti con riferimento al tentativo di otte-

nere risultati non solo commerciali, ma anche politici.

L’accordo con il regno di Giordania è in vigore dal maggio 2002. Già nel pre-

ambolo si fa riferimento ai principi enunciati nella Carta delle Nazioni Unite in

merito alla tutela dei diritti umani, ai principi della democrazia e alle libertà poli-

tiche ed economiche, su cui devono basarsi i rapporti tra i contraenti. Si dichiara

che, tra i fini dell’accordo, rientrano il miglioramento delle condizioni di vita e

di lavoro, la coesistenza pacifica e la stabilità economica e politica. La pace, la si-

curezza, la democrazia, i diritti umani e lo sviluppo regionale sono inclusi tra gli

obiettivi comuni. Viene preservata la facoltà delle parti di applicare le rispettive

normative in materia di ingresso e uscita stato, di condizioni di lavoro e di resi-

denza. Sul tema della cooperazione regionale, le iniziative comuni includono i

temi ambientali e culturali. Nel primo caso, si rileva che la cooperazione è rivolta

a impedire il deterioramento ambientale, a prevenire l’inquinamento e a garan-

Page 124: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

123la politica commerciale dell’unione europea

tire lo sfruttamento equilibrato delle risorse naturali. La gestione delle acque, la

lotta alla desertificazione, l’uso corretto delle risorse energetiche, il trattamento

dei rifiuti, l’impatto ambientale dell’agricoltura e dell’industria, l’educazione am-

bientale, l’uso di tecnologia avanzata e il contrasto alla salinizzazione rientrano

tra i punti evidenziati nell’accordo. Nel secondo caso, si sottolinea la necessità

del dialogo su temi sociali, in particolare per quanto riguarda la circolazione

dei lavoratori, la parità di trattamento e l’integrazione nei rispettivi contesti. In

particolare, i flussi migratori, i rimpatri, le condizioni di lavoro e le iniziative

di cooperazione culturale, a favore della tolleranza e contro le discriminazioni

sono punti esplicitamente elencati, come pure la costituzione o l’estensione di

istituzioni sanitarie e sociali. La creazione di posti di lavoro e di centri di for-

mazione professionale, anche per il ricollocamento dei cittadini rimpatriati, è

ritenuta fondamentale. Si indica anche la promozione della reciproca tolleranza

e comprensione in campo culturale. Sono inoltre enunciati come obiettivi la pia-

nificazione familiare e i programmi di protezione per madri e figli in Giordania.

Si auspica inoltre che il contesto economico favorisca la crescita, ma anche il be-

nessere della popolazione.

L’accordo di associazione con Israele risale invece al 2000. Nel preambolo, si sot-

tolinea l’auspicio delle parti di unire gli sforzi per rafforzare la stabilità politica e lo

sviluppo economico incoraggiando la cooperazione; di sviluppare il dialogo poli-

tico su questioni d’interesse bilaterale e internazionale; e di conservare e rafforza-

re l’interscambio su vari temi, inclusi l’economia, la cultura e le questioni sociali.

L’accordo ha tra i suoi obiettivi dichiarati il miglioramento delle condizioni di vita

e di lavoro, il consolidamento della coesistenza pacifica e la stabilità economica e

politica. Nell’importante settore dell’agricoltura si promuove l’adozione di tecniche

non dannose per l’ambiente e di rapporti più stretti tra le organizzazioni impren-

ditoriali, commerciali e professionali. Nella tutela ambientale, si punta al controllo

dell’inquinamento e all’uso razionale delle risorse naturali, per lo sviluppo sosteni-

bile e la promozione di progetti ambientali regionali. Gli obiettivi della cooperazio-

ne in quest’ambito includono – analogamente al trattato con la Giordania – la lotta

alla desertificazione, il monitoraggio delle acque del Mediterraneo e la prevenzio-

ne dell’inquinamento, la gestione dei rifiuti, il contrasto alla salinizzazione, la tute-

la delle zone costiere, l’educazione ambientale, il ricorso a strumenti tecnologica-

mente avanzati per la sorveglianza ambientale, la gestione dei trasporti e l’analisi

dell’impatto ambientale delle attività agricole e industriali. Interessante è anche

l’impegno delle parti ad agevolare l’attuazione dell’accordo tramite l’avvicinamento

delle rispettive normative. Ampio spazio è dedicato alla cooperazione su questioni

sociali come la disoccupazione, la riabilitazione dei disabili, le pari opportunità, i

rapporti di lavoro, la formazione professionale, la sicurezza e la salute sul lavoro. Si

evidenzia la necessità di coordinare i sistemi previdenziali, riconoscendo i periodi

Page 125: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

124alessia vatta

di lavoro svolti nei paesi firmatari a fini pensionistici, di reversibilità e di invalidi-

tà, nonché per le prestazioni sanitarie.

Più recente è l’accordo di associazione con la repubblica del Libano, risalente

al 2006. Nel preambolo, le parti riconoscono le comuni responsabilità per la

stabilità, sicurezza e prosperità della regione euromediterranea, e la necessità

di rafforzare il processo di sviluppo economico e sociale. Anche in questo trat-

tato si promuove la cooperazione economica, sociale, culturale e finanziaria.

Le parti s’impegnano a collaborare su molti fronti in materia ambientale, rical-

cando gli impegni già assunti nell’accordo di associazione con Israele, con l’ag-

giunta della conservazione del suolo e dell’attuazione di iniziative congiunte di

ricerca. Dopo l’ampio spazio riservato alla lotta contro diverse attività criminali

(dal riciclaggio al crimine organizzato, fino al traffico di droga), si concorda di

mantenere un dialogo costante sulle questioni sociali di comune interesse, in

particolare in merito alla circolazione dei lavoratori e alla parità di trattamento

nei paesi firmatari. Il tema dell’immigrazione (legale e illegale) rimane crucia-

le, soprattutto su prevenzione e controllo. Sempre in materia sociale, le parti

concordano di impegnarsi su problemi come la disoccupazione, la riabilitazio-

ne dei disabili, le pari opportunità, i rapporti di lavoro, la formazione profes-

sionale, la sicurezza e la salute sul lavoro. Inoltre, si punta a migliorare i sistemi

sanitari e di previdenza sociale, a incoraggiare la pianificazione familiare e i

programmi di protezione materna e infantile, nonché la promozione del ruolo

delle donne nello sviluppo economico e sociale, in particolare tramite l’istru-

zione e i mezzi di comunicazione di massa. Si auspica inoltre la collaborazione

tra organizzazioni non governative giovanili.

I rapporti “Freedom in the World 2018”

Ogni anno, Freedom House (la nota organizzazione non governativa che si oc-

cupa di ricerca e sensibilizzazione sui temi della democrazia, delle libertà poli-

tiche e dei diritti umani) pubblica sul suo sito web, https://freedomhouse.org,

rapporti aggiornati sullo stato delle libertà e dei diritti in ciascun paese sotto os-

servazione, con particolare riguardo per quelli in transizione di regime. Tali do-

cumenti rappresentano quindi una preziosa fonte d’informazioni anche per una

riflessione sull’efficacia degli strumenti utilizzati per tutelare i diritti, nelle loro

varie declinazioni. Essi rendono dunque possibile una riflessione sul possibile

influsso – dato il periodo trascorso dalla loro stipula – degli accordi commerciali

che l’UE ha in atto con i paesi qui considerati.

Per quanto riguarda il Libano (definito “parzialmente libero”), il rapporto

esprime alcune considerazioni sul complesso sistema di rappresentanza politica

Page 126: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

125la politica commerciale dell’unione europea

vigente. Esso assicura la rappresentatività delle principali comunità presenti nel

paese (cristiani, musulmani sciiti e sunniti), anche mediante la ripartizione delle

principali cariche istituzionali, ma allo stesso tempo ostacola la competizione in-

terna alle singole comunità e l’affermazione di leader unitari tra comunità diver-

se. Le divisioni di parte e le interferenze politiche indeboliscono l’applicazione

della legge, sebbene i cittadini dispongano di un certo livello di libertà civili e

pluralismo degli organi d’informazione. Dal 2017 il sistema elettorale è propor-

zionale, con preferenze e possibilità di voto all’estero, ma le circoscrizioni sono

definite in base alla distribuzione delle comunità, il che finisce per rafforzare le

dinamiche interne a ciascun gruppo. Il sistema partitico è comunque competi-

tivo e i cittadini possono organizzarsi liberamente, sebbene le reti intracomu-

nitarie, le autorità religiose e talune componenti – come Hezbollah – si servano

di risorse finanziarie e di intimidazioni per esercitare influenza. A ciò si aggiun-

gono le pressioni legate alle interferenze straniere e agli effetti della guerra in

Siria, con il conseguente afflusso di profughi e rifugiati. Lo Stato riconosce uf-

ficialmente diciotto comunità religiose, con diritto di rappresentanza politica.

Le donne hanno formalmente gli stessi diritti degli uomini, ma sono sovente

emarginate a causa della discriminazione di genere.1 Spesso il processo di policy-

making è frutto di trattative tra le figure più in vista del paese. Il rapporto riferisce

inoltre di una diffusa corruzione a livello politico e amministrativo. Le leggi anti-

corruzione sono scarsamente applicate, né esiste una norma che garantisca l’ac-

cesso agli atti del governo. I gruppi della società civile e gli organi d’informazione

hanno la possibilità di discutere le proposte normative e politiche rese note, ma

non di esercitare un’influenza concreta. La libertà d’espressione e di stampa sono

garantite, sebbene la censura si applichi a libri, film, opere teatrali e altri lavori

artistici, specie se riguardano la politica, la religione, il sesso o lo Stato d’Israele.

La normativa sugli audiovisivi proibisce di criticare o mettere in discussione le

autorità politiche e di sicurezza e la politica estera. Inoltre è proibito l’incitamen-

to alla violenza contro le comunità religiose. La costituzione protegge la libertà

di coscienza e lo stato non interferisce con la pratica o l’espressione religiosa. È

rispettata anche la libertà di riunione e di ricerca scientifica; tuttavia, il governo

sorveglia i social media e le fonti di comunicazione, e viene scoraggiato il dibatti-

to pubblico sui temi soggetti a censura. Le organizzazioni non governative sono

libere di operare, pur essendo soggette a registrazione presso il ministero dell’In-

terno, che può istruire indagini sui fondatori, i dipendenti e le risorse finanziarie

(la legge sulle associazioni risale al 1909). In particolare, è possibile costituire o

aderire a sindacati e organizzazioni professionali, ma il ministero del Lavoro ha

notevole autorità sulla loro costituzione e sul loro scioglimento, nonché sulle ele-

1 Nel 2009, solo quattro donne furono elette in parlamento, ed erano tutte imparentate con parlamentari eletti in precedenza.

Page 127: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

126alessia vatta

zioni interne. Lo Stato regola il diritto di sciopero e di contrattazione collettiva, e

molti sindacati sono legati a partiti politici, i quali esercitano influenza anche sui

processi giudiziari. Il potere giudiziario non è dunque indipendente, e i tribunali

militari hanno spesso trattato casi che riguardavano contestatori e attivisti per i

diritti umani. Inoltre, la tortura è ancora praticata nei luoghi di detenzione. Chi

non appartiene a una delle comunità riconosciute riscontra difficoltà nell’ottene-

re documenti ufficiali e impieghi pubblici. Le donne rimangono spesso escluse

da alcune professioni e sono discriminate sotto il profilo salariale e previdenzia-

le. Negli ambienti più conservatori, i movimenti femminili e il lavoro fuori di

casa sono controllati dagli uomini. Sebbene la legge tuteli l’iniziativa e la pro-

prietà privata, le donne spesso subiscono pressioni per trasferire i loro beni agli

uomini, a causa dell’influenza dei codici tradizionali e delle corti religiose, il cui

ruolo è cruciale per quanto riguarda molti diritti individuali su matrimonio, di-

vorzio e custodia dei figli. Ciò fa sì che l’appartenenza all’una o all’altra comunità

condizioni lo status personale, anche se l’elemento comune è la peggiore condi-

zione della donna rispetto all’uomo.2 Solo nel 2017 è stato abolito l’articolo del

codice penale che consentiva il matrimonio riparatore, sottraendo gli stupratori

alla giustizia. Tuttavia, lo stupro maritale non è ancora considerato reato, e ne-

anche i minori sono tutelati contro la violenza sessuale. Il lavoro minorile non è

perseguito, pur essendoci leggi al proposito, e condizioni di sfruttamento sono

spesso diffuse tra i rifugiati e i migranti.

Nel caso della Giordania, la posizione del re rimane fondamentale, poiché la

camera bassa del parlamento – pur essendo elettiva – ha scarsi poteri. Gli enti

rappresentativi locali (a livello municipale e provinciale) rivestono un ruolo so-

stanzialmente consultivo. I media e le associazioni della società civile sono osta-

colati da leggi restrittive e dalla pressione del governo. Il sistema giudiziario non

è indipendente e spesso non garantisce il giusto processo. Come in Libano, nel

2017 è stata abolita una disposizione del codice penale che consentiva la depe-

nalizzazione dello stupro tramite il matrimonio riparatore. Il re nomina e de-

stituisce il primo ministro e l’esecutivo, e può sciogliere il parlamento. Nomina

inoltre i membri della camera alta (o senato). Irregolarità e compravendite di voti

alle elezioni sono frequenti. Sono proibiti i partiti a base religiosa, etnica, raz-

ziale o di genere, ma restano importanti i legami tradizionali. Molte posizioni

politiche di rilievo non sono elettive, bensì basate su nomine (anche nelle for-

ze dell’ordine e nei servizi segreti). Inoltre, l’autorità della monarchia – protet-

ta dalla costituzione – fa sì che nessuna forza d’opposizione possa assumere il

controllo dell’esecutivo con mezzi democratici. Le donne godono di pari diritti

politici, ma di fatto permangono resistenze culturali che ostacolano la loro parte-

2 Ad esempio, le libanesi non possono trasmettere la cittadinanza a mariti stranieri o ai figli.

Page 128: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

127la politica commerciale dell’unione europea

cipazione. Sono comunque presenti nella camera bassa e negli organi di governo

locale. Sono previsti anche seggi parlamentari riservati alle minoranze religiose

(cristiani, circassi e ceceni), mentre i palestinesi – pur in gran numero – restano

sottorappresentati. I disegni di legge devono essere approvati dal senato e dal re

per entrare in vigore. Spesso i giornalisti praticano l’autocensura, e il governo

istruisce i media sulla copertura delle notizie. Il governo controlla anche i sermo-

ni nelle moschee e impartisce raccomandazioni e testi autorizzati. Molti gruppi

cristiani sono ufficialmente riconosciuti e liberi di professare il culto, ma non

di fare proseliti. C’è libertà di ricerca scientifica, ma i servizi segreti controllano

l’attività dei campus universitari e anche il materiale didattico. Questioni reli-

giose, di sicurezza, politiche o riguardanti la monarchia sono spesso escluse dal

dibattito pubblico. La libertà di riunione è limitata dalla legge e soggetta a no-

tifica, pena sanzioni pecuniarie o detentive. Le organizzazioni non governative

possono agire, ma con restrizioni sulla libertà di associazione, sui finanziamenti

e sull’attività dei dirigenti, sorvegliati dai servizi segreti. I lavoratori possono co-

stituire sindacati, ma solo in specifici settori, dopo aver ottenuto l’approvazione

del governo ed essersi affiliati a una federazione nazionale. Il diritto di sciopero

è limitato dalla necessità di notifica preventiva e di ricorso alla mediazione. Chi

partecipa a uno sciopero illegale può essere licenziato. Il potere giudiziario non

è del tutto indipendente. Il re nomina l’intera corte costituzionale e i vertici della

magistratura (anche i giudici delle corti civili e sciaraitiche sono formalmente

nominati con decreto reale). La polizia può trattenere i sospetti fino a sei mesi

senza muovere accuse formali, e spesso le norme contro l’arresto e la detenzio-

ne arbitraria sono ignorate, compromettendo il diritto alla difesa. Nonostante

il divieto contenuto nella costituzione, i tribunali possono accettare confessioni

estorte sotto tortura o maltrattamenti, ancora molto diffusi. I giordani di origine

palestinese sono spesso esclusi da occupazioni nel settore pubblico e nelle forze

dell’ordine. Nel 2017 è stata approvata una normativa a favore delle persone di-

sabili, che ha condannato le discriminazioni in ambito lavorativo. Le donne sono

discriminate (nelle corti sciaraitiche la loro testimonianza non equivale a quella

degli uomini). Sebbene il diritto di proprietà sia riconosciuto, le donne non han-

no pari diritti ereditari e non possono trasferire la cittadinanza ai loro figli. La li-

bertà personale è limitata dai condizionamenti culturali e normativi. Argomenti

come matrimonio e divorzio sono gestiti dalle corti sciaraitiche, che limitano i

matrimoni interreligiosi e discriminano le donne e i convertiti dall’Islam ad altri

culti. Nel 2017 sono state abolite alcune clausole che consentivano pene ridotte

per i delitti d’onore. Tuttavia, lo stupro coniugale non è considerato reato e sono

ancora possibili attenuanti per delitti commessi in caso di flagrante adulterio.

L’attività economica è spesso ostacolata dalla corruzione e da legami clientelari.

Spesso i lavoratori migranti sono privi di permesso di lavoro, e lo stesso vale per

Page 129: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

128alessia vatta

i rifugiati, entrambi soggetti a limitazioni della circolazione. Il salario minimo

legale resta sotto la soglia di povertà. L’orario di lavoro e gli standard di sicurezza

sono disciplinati legalmente, ma poco osservati. Le organizzazioni sindacali han-

no spesso denunciato le carenze normative e gli abusi commessi specialmente a

danno delle donne e dei lavoratori stranieri.

Israele è invece una democrazia multipartitica con istituzioni forti e indi-

pendenti che garantiscono diritti politici e civili alla maggioranza della popola-

zione. Sebbene il potere giudiziario sia attivo nella protezione dei diritti delle

minoranze, sussistono disparità di trattamento verso gli arabi e altre minoran-

ze in settori come la rappresentanza politica, la giustizia penale e l’iniziativa

economica. Le organizzazioni critiche del governo subiscono limitazioni ai fi-

nanziamenti. Con un sistema partitico competitivo e variegato, le elezioni sono

libere e regolari. Sono proibiti partiti o candidati che neghino la natura ebraica

di Israele, si oppongano alla democrazia o incoraggino il razzismo. Le donne

hanno pieni diritti politici, sebbene rimangano sottorappresentate in posizio-

ni apicali e trovino possibili ostacoli in partiti e comunità di stampo più con-

servatore. I cittadini arabi o palestinesi godono formalmente di pari diritti, ma,

di fatto, subiscono discriminazioni per via legale o informale. La cittadinanza e

la residenza sono negate a chi sia stato condannato per spionaggio, tradimento

o complicità con nemici dello stato. Le leggi, la prassi politica, i gruppi della so-

cietà civile e gli organi di comunicazione di massa garantiscono un buon livello

di trasparenza, fatte salve le limitazioni alla divulgazione di informazioni sulle

forze armate, sui servizi segreti, sul sistema penitenziario e sull’agenzia per

l’energia nucleare. Sulle questioni di sicurezza, infatti, vige la censura militare.

Pur definendosi uno Stato ebraico, Israele rispetta largamente la libertà di reli-

gione. Cristiani, musulmani e Baha’i possiedono giurisdizione comunitaria sui

propri membri in materia di matrimonio, divorzio e onoranze funebri, nono-

stante siano stati registrati episodi di vandalismo contro i luoghi di culto e una

riduzione dei contributi statali a loro destinati. Il controllo dell’establishment

ortodosso sulle questioni di status individuali viene spesso criticato dagli ebrei

non ortodossi e non osservanti, i quali sono anche contrari all’esenzione dal

servizio militare per gli ultraortodossi che studiano la Torah. Le università han-

no libertà di espressione. In genere, la società civile è attiva e le dimostrazioni

sono permesse. Tuttavia, le organizzazioni non governative devono rendere

noti i finanziamenti ricevuti da governi esteri. Questa disposizione riguarda

soprattutto le organizzazioni che criticano la politica del governo verso i pale-

stinesi, mentre le risorse dei gruppi conservatori favorevoli agli insediamenti

nella West Bank provengono principalmente da fonti private. I lavoratori pos-

sono unirsi ai sindacati e hanno diritto di sciopero e di contrattazione collet-

tiva. Il potere giudiziario è indipendente ed è più volte intervenuto, tramite

Page 130: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

129la politica commerciale dell’unione europea

la Corte Suprema, a tutela delle minoranze e dei diritti umani, anche contro

le posizioni del governo e del parlamento. Tuttavia, in caso di sospetto reato

contro la sicurezza, gli indagati possono essere detenuti senza processo per sei

mesi (rinnovabili). Ufficialmente, la tortura sarebbe bandita per legge, con una

sentenza del 1999 della Corte Suprema, ma in caso di minaccia criminale im-

mediata la coercizione è ancora ammessa negli interrogatori. Tale posizione è

criticata dalle organizzazioni di tutela dei diritti umani. Discriminazioni nel

campo dell’istruzione, dei servizi sociali e dell’accesso alla casa riguardano, di

fatto, i cittadini arabi e palestinesi, specie se non prestano servizio militare.

Inoltre, molti cittadini beduini vivono in insediamenti non riconosciuti dallo

Stato, e quindi privi di servizi. In posizione arretrata rispetto al resto della po-

polazione, si trovano anche gli israeliani di origine etiope, soprattutto econo-

micamente. Le donne sono trattate paritariamente davanti alla legge, sebbene

forme di discriminazione resistano tra gli arabi e nelle comunità ebraiche orto-

dosse. I diritti di proprietà sono protetti e l’attività imprenditoriale è libera. Le

libertà personali sono in genere garantite. Tuttavia, poiché i tribunali religiosi

sovrintendono alle questioni di stato civile, le donne possono subire discrimi-

nazioni in caso di divorzio e altri temi correlati. I matrimoni misti con persone

di religione diversa non sono riconosciuti dallo Stato (ad es. quelli tra donne

musulmane e non musulmani). Inoltre i gruppi ultraortodossi tentano di in-

fluenzare informalmente la separazione dei sessi e l’abbigliamento. Il governo

opera contro il traffico di esseri umani e il lavoro nero, sebbene in questo caso

le norme contro lo sfruttamento siano scarsamente applicate.

Clausole dei trattati e dati di fatto: alcune riflessioni

Secondo Freyburg et al. (2009), un’efficace adozione delle norme europee può es-

sere assicurata attraverso specifiche definizioni normative degli elementi della

governance democratica presenti nell’acquis comunitario di settore e nelle con-

venzioni internazionali. Tuttavia una buona trasposizione formale non garan-

tisce necessariamente l’applicazione reale. La nozione di democratic governance è

cruciale, poiché non tutti i paesi con cui l’UE intrattiene rapporti commerciali

sono democrazie (nel presente contributo, è il caso della Giordania). È importan-

te, almeno nel policy-making di settore, garantire la trasposizione dei principi se

non delle istituzioni, laddove siano assunte decisioni vincolanti di portata ge-

nerale. I principi democratici possono dunque essere incorporati nelle norme e

nelle prassi amministrative anche in sistemi politici non democratici. Secondo

tale approccio, la qualità della governance democratica può variare in base al grado

di trasparenza, partecipazione e accountability. Inoltre, l’attenzione è concentrata

Page 131: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

130alessia vatta

sui cambiamenti normativi e pratici entro specifici settori di policy. Tali cambia-

menti dovrebbero derivare dall’esposizione all’acquis europeo e all’azione ammi-

nistrativa dell’UE e degli Stati membri, con l’eventuale adozione delle normative

comunitarie. I rapporti intergovernativi favorirebbero tale recepimento, in par-

ticolare nelle aree ricomprese nella politica europea di vicinato, e dunque anche

nel contesto medio-orientale coinvolto nell’ambito euromediterraneo. Tuttavia,

molto dipende dal reale interesse a rafforzare i legami con l’UE e dal grado di libe-

ralizzazione interna raggiunto dai paesi in questione. Spesso, come rilevano gli

autori succitati, l’adattamento ai requisiti richiesti dall’UE è solo formale, mentre

l’applicazione concreta e le procedure di controllo sono scarse. Per quanto il mu-

tamento formale possa avere luogo, i vecchi comportamenti legati a interessi ed

esigenze interne permangono immutati. Ciò si evince chiaramente dal raffron-

to tra i testi degli accordi di associazione con l’UE e le conclusioni dei rapporti

di Freedom House. La distanza tra l’enunciazione di principi e la realtà concre-

ta dimostra pienamente la difficoltà di superare i problemi esistenti (di ordine

politico, giuridico, culturale) per favorire cambiamenti sostanziali. È però pos-

sibile che, a fronte delle resistenze politico-istituzionali, gli attori privati (come

le imprese e le organizzazioni della società civile) facciano affidamento sull’ap-

plicazione delle nuove norme e ne pretendano l’osservanza concreta, partendo

ad esempio da temi più facilmente condivisibili (come i problemi ambientali).

Inoltre, i policy networks della cooperazione transnazionale possono agevolare

l’attuazione in maniera collaborativa. In tal senso, è stata utilizzata anche la no-

zione di external governance (Lavenex e Schimmelfennig 2009), per indicare l’inte-

grazione dell’acquis europeo in varie aree di policy rilevanti sul piano sopranazio-

nale (come quella ambientale e della concorrenza) e il suo trasferimento a paesi

terzi e organizzazioni internazionali. L’approccio di governance sottolinea i pro-

cessi istituzionali di trasferimento di policy e diffusione normativa. In tal senso,

la visione “orizzontale”, legata a processi di apprendimento e collaborazione, può

sortire effetti migliori rispetto a un’impostazione gerarchica, o accompagnata da

forme rigorose di condizionalità. Infatti, l’eventuale adozione delle norme previ-

ste dall’UE dipende anche dal suo potere negoziale e dalla possibilità che tali nor-

me siano percepite come legittime o “normali” nei paesi contraenti. Ciò significa

che le strutture istituzionali, i rapporti di potere e i sistemi normativi di tali paesi

possono rivestire un ruolo notevole nell’effettivo o mancato recepimento delle

clausole dei trattati. In particolare, per quanto riguarda i diritti collegati al lavoro,

i trattati UE sono di solito privi di sanzioni e fortemente contraddistinti dal dia-

logo tra le parti (incluse le organizzazioni della società civile), mentre ad esempio

i trattati siglati dagli Stati Uniti sono molto più rigidi, specie con riferimento agli

standard fondamentali stabiliti dall’International Labour Organization (libertà di

associazione e contrattazione collettiva, eliminazione del lavoro coatto e minori-

Page 132: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

131la politica commerciale dell’unione europea

le e della discriminazione di genere) (Postnikov e Bastiaens 2014).3 Secondo tale

analisi, l’assenza di sanzioni può incoraggiare processi di apprendimento utili a

consolidare l’adozione delle nuove norme nei paesi terzi. Possono esserci però

marcate differenze regionali, in particolare nell’area del Medio Oriente (Busse

2004: 216). Questo riporta l’attenzione sulla capacità regolativa di chi formula

le normative. Tornando a Bach e Newman (2007), la capacità regolativa è multi-

dimensionale, e si compone della competenza specifica, della coerenza e dell’au-

torità sanzionatoria. Dunque l’UE non può contare solo sulla sua dimensione di

mercato, ma dovrebbe confrontarsi ancora più sistematicamente con le comples-

sità delle varie componenti della sua politica esterna. Inoltre, fattori interni ai

paesi contraenti come povertà, scarsità di risorse specifiche e di volontà politica

non devono essere trascurati (Doumbia-Henry e Gravel 2006).

Conclusioni

Secondo il trattato di Lisbona, le politiche esterne dell’UE devono rispettare i

principi di democrazia, di rule of law, di universalità e indivisibilità dei diritti

umani e delle libertà fondamentali, del rispetto per la dignità umana, di egua-

glianza e solidarietà, del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite,

aggiungendo lo sviluppo sostenibile economico, sociale e ambientale, con l’o-

biettivo primario dell’eliminazione della povertà. Seguendo Bartels (2012), gli

accordi commerciali dell’UE includono obblighi precisi sui diritti e gli standard

sociali, ma la coerenza interna alla politica estera europea è meno soddisfacente,

date le molteplici direzioni in cui essa si evolve. A ciò si aggiungono i problemi

attuativi evidenziati dai rapporti di Freedom House, legati al contesto interno

ai paesi contraenti. Peraltro, ad esempio, le clausole su libertà di associazione e

contrattazione collettiva dell’accordo con la Giordania sono ritenute deboli (Axel

e Soares 2015). Gli stessi autori sostengono che non vi siano dati certi sul miglio-

ramento della tutela di tali diritti in seguito alla loro inclusione nei trattati (ibid.:

176), e rilevano l’importanza dei fattori interni ai paesi interessati – dalla compo-

sizione dell’esecutivo al grado di apertura economica – per spiegare le differenze.

Secondo l’ILO (2015), circa il 60% degli accordi commerciali che includono

clausole sociali – in particolare sui temi del lavoro – hanno un carattere pro-

3 Nell’accordo commerciale tra Stati Uniti e Giordania (2001), i diritti e le condizioni di la-voro sono esplicitamente menzionati, ed eventuali contestazioni vanno sottoposte ad un or-ganismo neutrale internazionale per dirimere le controversie (Doumbia-Henry e Gravel 2006; Bolle 2016: 192). Le parti sono tenute ad applicare le leggi nazionali esistenti in materia, con particolare riferimento alle convenzioni dell’ILO (Polaski 2004). È previsto un comitato con-giunto responsabile per la gestione complessiva dell’accordo. Inoltre, viene escluso il sostegno a scambi o investimenti che prevedono l’indebolimento della normativa sul lavoro (ILO 2015).

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132alessia vatta

mozionale e annoverano disposizioni su dialogo, cooperazione e/o controlli.

È appunto questo il caso degli accordi stipulati dall’UE, che comunque restano

vincolanti e possono prevedere misure istituzionali articolate. Accordi come

questi, che non prevedono sanzioni o forme stringenti di condizionalità, posso-

no funzionare facendo leva su incentivi economici e con il sostegno di adeguate

politiche economiche, sociali e del lavoro. Secondo quanto riportato da Pedersini

(2017), processi effettivi di riforma a seguito di accordi commerciali sono sta-

ti avviati soprattutto dopo il 2015, e la comparazione degli accordi firmati dal

1962 al 2011 e dal 2012 al 2014 segnalerebbe l’inclusione di riferimenti alla tu-

tela della salute, della sicurezza, dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente, oppure

allo sviluppo sostenibile (63% nel secondo periodo rispetto all’11% nel primo)

e di indicazioni a garanzia di politiche pubbliche per la protezione della salute,

della vita umana e delle risorse naturali (58% rispetto al 12%), secondo dati della

United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD) (ibid.: 117-118). A

questi segnali incoraggianti si affianca tuttavia una certa prudenza, dovuta all’in-

completezza delle ricerche condotte finora e ai loro risultati discordanti (Treu

2017). Treu evidenzia come l’effettività delle clausole sociali dipenda in misura

decisiva dall’efficace intervento delle autorità pubbliche, ponendo l’accento sul

peso dei fattori politici, interni ed esterni, l’importanza strategica dei paesi coin-

volti e – non ultimo – l’interesse effettivo dei governi, commisurato in termini

di risorse e investimenti (anche organizzativi) dedicati a sostenere tali clausole

e la loro applicazione. Alcuni standard (come l’eliminazione del lavoro minorile)

possono essere perseguiti più agevolmente di altri su cui l’opinione pubblica può

essere meno attenta (Hendricks et al. 2016). In ogni caso, il ruolo dell’UE come

norm exporter è legato alla globalizzazione non solo economica, ma regolativa,

che favorisce soluzioni “ibride” di governance, unendo soggetti pubblici e priva-

ti (Hendricks et al. 2016: 348). Inoltre, secondo Meunier e Nicolaïdis (2006), le

autorità europee sembrano inclini a ritenere che il principio “pace attraverso il

commercio”, felicemente applicato nel caso europeo, possa valere uniformemen-

te altrove. Tuttavia, il commercio può anche alimentare conflitto se praticato in

un contesto di norme sleali, disuguaglianze sociali e corruzione, e senza riguardo

per i suoi effetti collaterali più sgraditi, come la dipendenza dalle esportazioni,

la volatilità dei prezzi, i traffici illegali e i costi di aggiustamento. L’UE dovrebbe

perciò sviluppare una politica commerciale più attenta a tali conflitti potenziali.

Più in generale, gli accordi commerciali con ambizioni di tutela dei diritti do-

vrebbero scoraggiare possibili inadempienze connesse a vantaggi immediati,

ma di corto respiro, quando non palesemente illeciti (Banks 2011). Inoltre, le

clausole sui diritti umani, divenute obbligatorie negli accordi commerciali UE

dal 1995, non sono di fatto presenti in tutti i settori e non sono sorrette da ef-

ficaci dispositivi per il rispetto della condizionalità (Zwagemakers 2012). Ciò

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133la politica commerciale dell’unione europea

espone spesso tali requisiti al rischio di soccombere davanti ad argomentazioni

legate alla sovranità nazionale e culturale. Per questo l’UE dovrebbe contribuire

a modificare la percezione diffusa di queste clausole, sottolineando il legame tra

diritti umani e prosperità e l’importanza di una condivisione di responsabilità

per il loro rispetto. Inoltre, l’inserimento di clausole sociali o di riferimenti ai di-

ritti nei trattati rimane comunque cruciale, rispetto alla loro eventuale assenza.

Peraltro, anche in questo studio, si rileva l’importanza di fattori interni agli Stati,

come il tessuto imprenditoriale, i partiti politici, l’istruzione e la società civile, in

rapporto al nesso tra crescita economica, democrazia e rispetto dei diritti (ibid.:

14). In tali direzioni, l’UE stessa dovrebbe investire di più, sostenendo le realtà

associative, la formazione e l’iniziativa economica, con un approccio bottom-up

complementare rispetto alla sua azione sul piano internazionale.

Page 135: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

134alessia vatta

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Terza sezioneI militari e i regimi politici

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139

DIEGO ABENANTE

Le relazioni civili-militari negli anni formativi dello Stato pakistano: l’influenza dei fattori nazionali e internazionali

Introduzione

Le forze armate hanno svolto un ruolo preminente in Pakistan sin dalla creazione

dello Stato (1947). Tuttavia l'emergere del dominio militare non è stato un evento

improvviso ma il risultato di un processo graduale che ha attraversato il primo

decennio di vita del paese. L’interventismo militare – anche definito “pretoriane-

simo” in scienza politica – nel caso pakistano si è manifestato in una prima fase

attraverso la formazione di un’alleanza burocratico-militare emersa pochi mesi

dopo l’indipendenza, per poi trasformarsi in un dominio militare esclusivo dalla

seconda metà degli anni Cinquanta.

Il presente scritto sottolinea l'importanza della fase formativa per il successo

o il fallimento della democrazia in Asia meridionale. Si tratta di un argomento

già avanzato con riferimento all’India ma che costituisce una chiave di lettura

importante anche per comprendere il fallimento della democrazia in Pakistan

(Jalal 1995: 38-48; Jaffrelot 1998).1 L’interesse crescente per lo studio della fase

1 L'analisi comparativa dei percorsi opposti rispetto alla democrazia seguiti da India e Pakistan occupa uno spazio crescente nella letteratura storica e di scienza politica (si vedano tra gli altri: Jalal 1995, Oldenburg 2010 e Tudor 2013).

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140diego abenante

formativa è legato al successo nelle scienze sociali dell’approccio della path depen-

dence. Nella sua formulazione più semplice, secondo questa visione – mutuata

dagli studi economici e dalla teoria dei giochi – ogni fenomeno sociale sarebbe il

risultato di decisioni e di accadimenti del passato.2 Secondo tale linea di pensiero

non soltanto il successo o il fallimento della democrazia dovrebbero essere con-

siderati come il risultato di decisioni precedenti, affermazione in sé ovvia, ma la

democrazia andrebbe considerata essenzialmente come un processo cumulativo.

Nelle parole di Oldenburg, “l’India è una democrazia oggi perché lo era l’anno

scorso, l’anno precedente e il decennio precedente” (Oldenburg 2010: 8). Nel caso

del Pakistan questa lettura è stata ampiamente condivisa dalla letteratura specia-

listica. Il fatto che nel primo decennio d’indipendenza i governanti pakistani non

siano riusciti ad avviare i processi politici democratici avrebbe rappresentato un

ostacolo di primaria importanza per la stabilizzazione del suo sistema politico

negli anni seguenti.3

L’influenza del fattore militare nel sistema politico pakistano è una caratte-

ristica strutturale del suo percorso storico.4 Il paese è stato governato per quasi

metà della sua storia – 33 anni su 72 – da regimi militari. Considerando anche i

periodi in cui il governo è stato formalmente retto da regimi sostenuti da elezio-

ni, i militari hanno continuato a esercitare un ruolo di supervisione sulla politi-

ca, in particolare sull’agenda di politica estera.5 Tuttavia sarebbe errato a nostro

parere ricercare l’elemento centrale del dominio militare in Pakistan nella ge-

stione diretta o indiretta del potere, o soffermarsi sulla liminalità del suo tipo di

governo rispetto a un “ideal tipo” di regime militare. Gli elementi strutturali del

militarismo pakistano vanno piuttosto individuati in una serie di caratteristiche

proprie dell’ethos dei militari, quali: la sistematica svalutazione della politica de-

mocratica, ritenuta inadatta alla società locale; la supposta incapacità dei politici

d’interpretare i bisogni della società; la delegittimazione della forma-partito in

quanto inadatta alla società pakistana; l’auto-rappresentazione dell’istituzione

2 Si veda la voce “path dependence” in McLean e McMillan (2003: 399-400). Si vedano anche i contributi presentati alla tavola rotonda “Rethinking the role of institutions in South Asia: historical institutionalism and path dependence”, curato da I. Talbot e G. Singh; 24° European Conference on South Asian Studies, Varsavia, 27-30 luglio 2016 (https://nomadit.co.uk/confe-rence/ecsas2016/p/3709; ultimo accesso: 7 luglio 2019).

3 Le prime elezioni politiche nazionali in Pakistan si svolgeranno solo nel 1970, 23 anni dopo la fondazione dello Stato.

4 In questo scritto si utilizza il termine “militari” per riferirsi alle forze armate nel loro com-plesso; dunque includendo l’esercito, la marina e l’aeronautica.

5 Il primo periodo di governo militare, dal 1958 al 1971, è stata interrotto dalla sconfitta del Pakistan nella seconda guerra indo-pakistana del 1971 e dal ritorno al governo civile sotto Zulfiqar ‘Ali Bhutto. I militari sono tornati al potere dal 1977 al 1988 sotto la guida del generale Zia-ul-Haq. Dopo una breve democratizzazione, tra il 1990 e il 1999, l'esercito ha preso di nuovo il potere con il generale Musharraf che è rimasto a capo dello stato fino alle sue dimissioni nel 2008.

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141le relazioni civili-militari dello stato pakistano

militare – specialmente l’esercito – quale quintessenza dello “spirito” dello Stato

e della cittadinanza.

Con ciò non si vuole suggerire che questi aspetti siano esclusivi del mili-

tarismo pakistano. Al contrario, essi sono individuabili in molti altri casi di

autoritarismo militare. Tuttavia, come si cercherà di evidenziare, mentre nella

maggior parte dei casi il militarismo si fonda su fattori storici quali il processo

di modernizzazione, l’ottenimento dell’indipendenza, la fase di state-building,

la difesa del paese, o ancora l’ideologia di riferimento dello Stato, il militari-

smo pakistano si differenzia dalla maggior parte di questi casi. I ruoli politici e

ideologici delle forze armate in Pakistan sono stati costruiti in gran parte dopo

l’indipendenza, per molti aspetti ricostruendo i propri ruoli storici rispetto al

processo formativo del nazionalismo pakistano. In certa misura si è trattato di

un processo paragonabile a un’ “invenzione della tradizione”.6 I militari paki-

stani, alla stregua della burocrazia civile, della polizia e della magistratura, non

hanno svolto un ruolo fondamentale prima del 1947 nella modernizzazione

del paese; al contrario essi erano identificati con la struttura elitaria, “tradi-

zionale” e gerarchica della società coloniale. Non rappresentavano dunque la

modernità, semmai i valori gerarchici su cui i Britannici avevano costruito il

proprio dominio nel corso del diciannovesimo e ventesimo secolo. Dunque le

forse armate hanno dovuto ridefinire la propria immagine pubblica dopo l’in-

dipendenza, quasi rilegittimandosi come degni rappresentanti della Nazione

indipendente. Allo stesso tempo, i militari pakistani non hanno offerto un

contributo determinante all’ottenimento dello Stato indipendente, processo al

quale, fino al 1947, sono stati largamente estranei. Né il Pakistan è stato costret-

to a difendersi con le armi dall’aggressione esterna. Il conflitto del Kashmir,

infatti, benché centrale nella costruzione dell’immagine pubblica dei militari,

va piuttosto considerato come lo sforzo di affermare o completare l’aspirazione

nazionale – tramite l’acquisizione della regione a maggioranza musulmana del

Kashmir – più che a difendere l’esistenza in sé della Nazione dall’aggressione di

nemici esterni. Dunque l’ascesa del fattore militare pakistano rappresenta un

fenomeno peculiare, che va iscritto in una dinamica di riaffermazione e ridefi-

nizione del ruolo e dell’immagine pubblica delle forze armate. Un processo in

cui un ruolo cruciale è stato svolto dal graduale imporsi della sicurezza – intesa

sia nella dimensione interna sia in quella regionale e internazionale – quale

discorso dominante del dibattito pubblico post-1947.

La “fase formativa” cui ci riferiamo è quella compresa tra il 1947 e il primo col-

po di Stato militare del 1958.7 La scelta di questi limiti temporali non è solo legata

6 Il riferimento è ovviamente al classico testo curato da E. Hobsbawm (1987).

7 Chi scrive deve l’espressione a Khaleed bin Sayeed (1968), anche se, in realtà, qui si prende in considerazione un periodo storico più recente di quello del volume di Sayyed che andava dal

Page 143: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

142diego abenante

al significato che essi rivestono per l’evoluzione dello Stato in Pakistan, ma rile-

va altresì l’importanza in chiave regionale del primo decennio di vita degli Stati

successori del governo britannico in India: negli stessi mesi in cui la democrazia

in Pakistan subiva la prima sconfitta, l’India completava le seconde elezioni della

Lok Sabha (la camera bassa) nel 1957, che sancivano al tempo stesso la vittoria

del Congress e la maturazione del sistema democratico; con ciò evidenziando la

divergenza del percorso politico dei due Stati.

Sono state avanzate diverse spiegazioni per l’ascesa dei militari in Pakistan,

con una sostanziale “divisione del lavoro” tra storici e scienziati politici; se i

primi si sono soffermati sull’eredità coloniale, i secondi hanno enfatizzato so-

prattutto i fattori istituzionali post-1947. La letteratura storiografica ha eviden-

ziato soprattutto tre fattori principali: la cultura politica coloniale; la debolezza

strutturale dello Stato nel ’47 e la sua debolezza ideologica. Dal primo punto

di vista, si è fatto riferimento alla presenza, in particolare nella provincia del

Punjab, di un modello di amministrazione incentrato sull’esecutivo e sull’ap-

parato militare-poliziesco (Gilmartin 1988; Talbot 1988). Nel linguaggio am-

ministrativo coloniale, il Punjab e in genere le provice nord-occidentali erano

definite non-regulation provinces per distinguerle dalle province cui si applica-

vano le norme del diritto anglo-indiano. Le regioni nord occidentali del sub-

continente furono dunque sottoposte a un tipo di amministrazione centraliz-

zata in cui il potere era concentrato in poche mani. Il Deputy Commissioner, la

figura-chiave di questa struttura amministrativa, era un funzionario con estesi

poteri giudiziari, di polizia e fiscali. Questi poteri erano spesso esercitati in

modo discrezionale. Secondo una lettura consolidata, la tradizione autoritaria

del Punjab coloniale sarebbe rimasta a far parte della cultura politica pakistana.

Secondo Khaleed bin Sayyed (1968: 223-232) l’autocrazia coloniale – che egli de-

finisce “tradizione vicereale” – avrebbe ostacolato la diffusione di una mentali-

tà democratica tra i vertici del futuro Stato pakistano. Questi avrebbero avuto la

tendenza a dare la precedenza all’idea di un forte Stato centralizzato piuttosto

che alla partecipazione politica. Un esempio sottolineato da Sayyed è la deci-

sione del “padre del Pakistan” nonché presidente del partito-Stato della Muslim

League, Muhammad ‘Ali Jinnah, nel 1947 di assumere la carica di Governatore-

Generale, una funzione esecutivo-burocratica, anziché quella pienamente poli-

tica di primo ministro, come Jahawarlal Nehru in India.

La storiografia ha altresì sottolineato gli enormi problemi affrontati dallo

Stato pakistano al momento della sua fondazione. Ayesha Jalal (1990 e 1995)

ha esplorato lo squilibrio delle risorse esistente tra India e Pakistan dopo il

periodo coloniale al 1948.

Page 144: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

143le relazioni civili-militari dello stato pakistano

1947. L’autrice ha evidenziato come il Pakistan abbia preso vita come lo Stato

nettamente più debole della regione. È un dato di fatto che il Pakistan abbia

ricevuto una quota minore delle infrastrutture e dei beni dell'India britannica

e della sua forza militare. Ragioni storiche e culturali facevano sì che le aree

che formavano il Pakistan avessero una percentuale minima delle infrastrut-

ture industriali dell’ex colonia britannica. Benché le regioni che costituivano il

Pakistan fossero forti produttrici di prodotti grezzi – come il cotone del Punjab

e la juta del Bengala orientale –, precedentemente al 1947 la produzione era

inviata per essere lavorata in centri industriali a Bombay e Calcutta che erano

rimaste in territorio indiano. Dunque la Spartizione aveva sottratto alla produ-

zione agricola pakistana i propri naturali centri di lavorazione industriale (Jalal

1990: 25-48). A questa debolezza infrastrutturale se ne aggiungeva una psico-

logica legata alla difficoltà del nuovo Stato di affermarsi sul piano del diritto

internazionale. Poiché lo status internazionale dell'India britannica era stato

ereditato dalla Repubblica indiana, il Pakistan fu costretto a chiedere il ricono-

scimento di un voto alle Nazioni Unite, con l’opposizione dei rappresentan-

ti dell’Afghanistan (Shaikh 2009: 203). Tutto ciò deve essere inoltre posto nel

contesto di una situazione regionale che evidenziava lo squilibrio militare tra

India e Pakistan. La realtà della debolezza militare pakistana e il suo conseguen-

te senso di insicurezza si manifestarono ben presto con l'inizio delle ostilità in

Kashmir, nell'ottobre del 1947 e le operazioni militari indiane per occupare gli

Stati di Junagadh (novembre 1947) e Hyderabad (settembre 1948).

L’ultimo aspetto riguarda la dimensione ideologica. A differenza dell'India, che

aveva fatto proprio l’ideale del nazionalismo laico sviluppato dall’Indian National

Congress attraverso un lungo percorso storico, dal 1885 al 1947, il Pakistan era

stato caratterizzato sin dall'inizio da un’ambigua ideologia (Shaikh 2009). L'idea

del Pakistan era stata elaborata nel 1940 come Stato musulmano laico, ma questa

era stata respinta dalla maggioranza delle gerarchie religiose musulmane nell'In-

dia coloniale. L’idea che l'Islam indiano potesse essere ridotto ai confini di uno

Stato territoriale era stata oggetto di dibattito sin dagli anni Venti e Trenta del

Novecento, ma era alla fine stata respinta da gran parte delle organizzazioni poli-

tico-religiose musulmane (Hardy 1972: 222-255). Un ulteriore problema era dato

dal fatto che il nesso Nazione-territorio-Islam era stato fin dall'inizio interpre-

tato da diversi settori della società in modo radicalmente divergente. Per l’élite

musulmana occidentalizzata – in buona parte appartenente alla Muslim League o

a essa affine –, l’Islam era un principio astratto del tutto compatibile con le isti-

tuzioni di una democrazia parlamentare di stampo occidentale. Per gli intellet-

tuali musulmani modernisti il concetto islamico di Consenso (ijma) poteva ben

servire quale base teorica per legittimare il principio della sovranità popolare e

del parlamentarismo (Binder 1961: 34-69). Nel fare ciò, le élite occidentalizzate

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144diego abenante

potevano fare riferimento alla ricca tradizione riformista islamica del subconti-

nente indiano e alla centralità dell’idea d’ijtihad o interpretazione personale delle

scritture.8 Per i partiti religiosi e per i settori più conservatori, invece, l’Islam era

un complesso di norme di origine divina incompatibile con il parlamentarismo

e con il principio della sovranità popolare. I dotti musulmani (ulema), inoltre,

respingevano la possibilità che lo Stato fosse guidato da élite musulmane educate

all’occidentale (Binder 1961; Hardy 1971). Quest’ambiguità si rivelò un enorme

ostacolo dinanzi alla scrittura della Costituzione e del funzionamento normale

delle istituzioni dello Stato (Shaikh 2009). Mentre l’India approvò il proprio te-

sto costituzionale già nel 1949, il Pakistan giunse all’approvazione della prima

Costituzione solo nel 1956; testo poi abrogato dopo soli due anni con il colpo di

Stato del 1958.

Volgendo il nostro sguardo alle spiegazioni offerte dalla letteratura di scien-

za politica, dobbiamo innanzi tutto partire dalle interpretazioni teoriche del

pretorianesimo, per poi passare a discutere le analisi specifiche del caso paki-

stano. Secondo Morlino (2003: 60-64) il pretorianesimo può essere analizza-

to secondo cinque linee principali: il basso grado d’istituzionalizzazione delle

strutture del regime e degli organismi intermedi (partiti politici, sindacati,

associazionismo); il monopolio dell'uso della forza da parte dei militari; l’in-

stabilità politica ed economica; il livello di organizzazione e gerarchia dell’i-

stituzione militare; la difesa d’interessi corporativi. Si noterà come queste

spiegazioni facciano riferimento esclusivo alla dimensione interna. Benché, in

effetti, alcuni autori includano tra i fattori dell’interventismo militare anche le

influenze internazionali, la scienza politica ha considerato queste ultime meno

rilevanti. Sempre Morlino afferma che le evidenze di colpi di Stato militari nei

quali l'influenza esterna sia stata decisiva sarebbero rare (2003: 61).9 Secondo

l’analisi teorica, tuttavia, il pretorianesimo non conduce necessariamente alla

formazione di regimi militari. Secondo l’esito dell’intervento militare si è in-

trodotta una distinzione tra i casi in cui le forze armate gestiscano direttamen-

te il potere – nel qual caso si darebbe il regime militare vero e proprio – e quelli

nei quali i militari esercitino una sorta di supervisione su governi civili. Più che

di regime militare si dovrebbe parlare in questo caso di regimi civili-militari.

Non sarebbe errato sostenere che nell’interpretazione propria della scienza po-

litica il regime militare costituisca un evento sostanzialmente eccezionale e di

8 I riferimenti intellettuali includevano il grande riformatore musulmano indiano Shah Waliullah (1703-1762) e la tradizione modernista inaugurata da Sayyid Ahmad Khan (1817-1898) (Metcalf 1982).

9 Secondo Morlino, in realtà, in alcuni casi le influenze internazionali sono state importanti, ad esempio nel colpo di stato in Cile del 1973. Tuttavia, anche in questo caso l’Autore conclude che i fattori decisivi siano di tipo istituzionale interno e non esterno (Morlino 2003: 61).

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145le relazioni civili-militari dello stato pakistano

breve durata. Nella norma esso dovrebbe lasciare spazio in breve tempo a un

governo civile o a una forma ibrida di regime civile-militare (Grilli 2009: 20;

Dewey 1991: 255). Gli scienziati politici che hanno analizzato il caso pakistano

si sono ricollegati in gran parte alla teoria della debolezza istituzionale, basan-

dosi soprattutto sul lavoro di Samuel Huntington (1968). Diversi autori tra i

quali Ziring (1980), Lodhi (1978) e Mahmood (1994) hanno fatto riferimento a

quest’interpretazione, sia con riferimento alla debolezza delle istituzioni stata-

li sia a quella del sistema partitico pakistano.

A parere di scrive queste spiegazioni colgono ciascuna aspetti importanti

del fenomeno. Tuttavia il loro limite consiste nella tendenza a non cogliere il

quadro d’insieme dell’evoluzione politica in Pakistan. I fattori menzionati ri-

mandano a un elemento fondamentale che può essere definito come l'ossessio-

ne per la sicurezza. Ci si riferisce a una percezione profonda di debolezza, in-

terna ed esterna, e alla convinzione che l’unica risposta possibile consista nella

centralizzazione dello Stato e nel potenziamento delle forze armate, a spese

degli obiettivi di partecipazione politica e d’integrazione. L’emergere di questa

percezione d’insicurezza a sua volta rimanda a fattori sia interni che esterni.

Sul piano interno essa era causata dallo scarso potere del governo centrale, dal-

la sua debolezza istituzionale e dall’incapacità di controllare le spinte centrifu-

ghe provenienti dalle province. Sul piano esterno era provocata dalle relazioni

conflittuali tra India e Pakistan, e dalla disputa territoriale con l’Afghanistan –

dunque dalla percezione d’isolamento geografico dello Stato e dalla mancanza

di “profondità strategica”.10

I governanti pakistani hanno cercato una compensazione al proprio senso di

debolezza nelle relazioni internazionali e nella ricerca di alleanze con le grandi

potenze. La saldatura tra i militari e gli attori internazionali, in specie gli Stati

Uniti, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del Novecento, ha

garantito ai primi una fonte di finanziamento autonomo e un contributo essen-

ziale al proprio ruolo dominante. In questo senso, si può affermare che esista una

correlazione tra l’emergere del dominio militare nel paese e la definizione della

posizione internazionale del Pakistan nel quadro dei piani delle potenze occi-

dentali. In sintesi, secondo la nostra interpretazione, l’ascesa del fattore militare

in Pakistan può essere sintetizzata in tre punti: a) l'agenda della sicurezza – inter-

na ed esterna – si è imposta sulle altre questioni di governo; b) la sicurezza è stata

10 Il concetto di profondità strategica quale idea centrale per la difesa del Pakistan è stato in-trodotto inizialmente dai vertici militari britannici nel 1946 nel quadro delle valutazioni sulle conseguenze strategiche della Spartizione (Jalal 1990: 50). Da allora il concetto ha continuato a dominare la visione dei militari pakistani e per conseguenza l’agenda della politica estera. Vari autori hanno recentemente messo in dubbio l’importanza di questo assunto nella guerra moderna (si veda per esempio Fair 2014).

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146diego abenante

declinata in termini esclusivamente militari e non politici; c) ciò ha garantito la

fissazione di un ruolo di controllo da parte dell'esercito e la sua accettazione da

parte degli altri attori.11

Le radici storiche del militarismo pakistano

Si è evidenziato in precedenza che l’interventismo militare pakistano è un fe-

nomeno recente, frutto di dinamiche e processi storici in gran parte succes-

sivi al 1947. Ciò nondimeno esso presenta elementi di continuità con il ruo-

lo e le caratteristiche dell’esercito anglo-indiano. L’esercito pakistano è stato

sempre in gran parte composto da truppe e ufficiali provenienti dalla regione

del Punjab e questa tradizione si ricollega a una scelta politica compiuta dal

governo coloniale nel diciannovesimo secolo. Una parte importante di questo

processo è stata la costruzione del Punjab come una sorta di provincia “semi-

militarizzata”, dove un’alta percentuale di famiglie aveva una tradizione di ser-

vizio nei corpi armati. Si tratta di un’evoluzione che aveva preso spunto dalla

ristrutturazione dell’esercito anglo-indiano successiva alla repressione della

grande Rivolta del 1857.12

Il reclutameno nell’esercito aveva da allora seguito la teoria antropologica co-

loniale delle “razze marziali”; ovvero la classificazione delle comunità regionali e

castali sulla base della loro supposta attitudine alla lealtà e alla disciplina. Le razze

marziali furono identificate in buona parte con le comunità rurali del nord-ovest

del subcontinente – oggi comprese in gran parte entro i confini del Pakistan. In

grande maggioranza si trattava di sikh e musulmani del Punjab, pashtun della

frontiera nord-occidentale e gurkha nepalesi (Rizvi 2000: 201 e 1986: 37-38). La

sovra-rappresentazione di queste comunità nell’esercito anglo-indiano rimarrà

una caratteristica per tutto l’Ottocento e il Novecento. Nel 1875 i punjabi costitui-

vano il 44% dell’esercito e circa un quarto delle intere forze armate. Nel 1904 la

percentuale aveva raggiunto il 57% (Rizvi 2000: 201). Una conseguenza di que-

sto sbilanciamento etnico è stata la tendenziale sotto-rappresentazione delle al-

tre comunità, una caratteristica che si è mantenuta dopo il 1947 negli eserciti

di India e Pakistan. Secondo una recente ricerca, i quadri dell’esercito pakistano

11 Il generale gradimento per il ruolo attivo delle forze armate in politica costituisce una carat-teristica strutturale della società pakistana. Una ricerca del 2008 ha evidenziato che “l’idea che il paese dovrebbe essere governato dall’esercito è approvata da 6 intervistati su 10 in Pakistan…uno dei livelli più alti di sostegno per il governo militare registrati in qualunque parte del mon-do” (Oldenburg 2010: 6).

12 Ci si riferisce alla grande Rivolta delle truppe coloniali della East India Company (i Sepoys) che coinvolse buona parte del bassopiano indo-gangetico tra il 1857 e il 1858.

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147le relazioni civili-militari dello stato pakistano

provengono attualmente per il 75% da tre soli distretti del Punjab: Rawalpindi,

Jhelum e Campbellpur (Cohen 1999: 44; Rizvi 2000: 37-38).

Sarebbe suggestivo paragonare da un punto di vista storico il caso pakistano

con l’ascesa del fattore militare nelle fallite transizioni democratiche in Medio

Oriente e Nord Africa. Gli esempi degli interventi militari in Egitto, Siria, Iraq,

Turchia, Iran dagli anni Cinquanta in poi, avvenuti nello stesso periodo del pri-

mo intervento militare in Pakistan, sembrerebbero offire diverse analogie; come

ad esempio la tendenza di questi regimi a trasformarsi in sistemi ibridi civili-mi-

litari con il predominio strutturale delle forze armate e la comune appartenenza

all’Islam. Ciò ha spinto alcuni autori ad estendere all'Asia meridionale l'analisi

propria dell'“eccezionalismo arabo”.13 Tuttavia, almeno con riferimento alla fase

formativa dei regimi, le analogie sono molto più limitate di quanto sembri. Nel

caso degli Stati mediorientali, particolarmente per le zone già sotto influenza ot-

tomana, l'ascesa dei militari come élite dominante è legata storicamente alla ri-

forma in senso moderno di quelle strutture statali e all’introduzione della cultura

occidentale tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento.

In Egitto, Iran e nell'impero ottomano le scuole che introdussero program-

mi di istruzione moderna furono inizialmente le accademie militari e le scuole

destinate a formare tecnici a scopo militare. Ciò spiega il ruolo cruciale svolto

da quelle élite nel cambiamento politico delle loro società (Hourani, Khouri et

al., 2005). In Egitto e nell’impero ottomano le forze armate sono state la pri-

ma o addirittura l'unica classe di istruzione occidentalizzata, in ambienti nei

quali la cultura era radicata in curricula e modi di apprendimento tradizionali.

Essendo spesso le élite più occidentalizzate, i militari sono stati generalmente i

principali agenti del cambiamento politico e culturale. Ciò spiega la loro sovra-

rappresentazione nei movimenti nazionalisti così come la loro tendenziale

opposizione alle gerarchie religiose. Un altro elemento da prendere in consi-

derazione è che gli Stati musulmani del Nord Africa e del Medio Oriente non

hanno in genere ereditato una tradizione di separazione tra la struttura poli-

tica e quella militare. Al contrario, lo Stato era espressione del potere militare

– spesso di natura tribale – o comunque era strettamente collegato ad esso. In

alcuni casi lo Stato moderno nasce dalla trasformazione di élite militari in di-

nastie politiche, come nel caso dell’Egitto di Muhammad ‘Ali o dell’Iran Pahlavi

(Hourani, Khouri et al., 2005; Abrahamian 1982).

Nel subcontinente indiano, invece, i Britannici hanno introdotto la tradi-

zione anglosassone della separazione tra civili e militari e del controllo civile

sulle forze armate (Brass 1994: 61). Questo concetto aveva radici profonde nel-

13 Più di recente ci si è interrogati sull’eventualità di una possibile “Primavera” in Pakistan sull’onda delle contestazioni in Tunisia ed Egitto (Soherwordi e Ikram 2011; Abenante 2011).

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148diego abenante

la storia britannica, dove la presenza di un forte esercito sotto controllo del so-

vrano era stato percepito come una minaccia alla libertà (Metcalf 1995: 4). Non

a caso il potere britannico nasceva come impero marittimo, basato sulla flotta

e sulla colonizzazione di territori oltremare e non sulle conquiste di un eserci-

to di terra, verso il quale la mentalità britannica aveva sempre nutrito timore

(ibidem). Diversamente dalle regioni ex-ottomane e mediorientali, nel subcon-

tinente indiano il processo di modernizzazione ha seguito un percorso autono-

mo. L'educazione occidentale è stata introdotta dai Britannici nella prima metà

del diciannovesimo secolo nei College creati sotto l’egida coloniale. Nel 1835 la

“Minute on Indian Education” di Thomas Macaulay dettava la strategia mirante

alla formazione di un’élite di indiani istruiti all’occidentale. Questa classe di in-

diani educati alla maniera moderna trovava sbocco soprattutto nelle nuove pro-

fessioni liberali, specialmente il diritto, piuttosto che nella professione militare.

Il mestiere delle armi, specialmente dopo l’estinzione della East India

Company nel 1858, attraeva invece le famiglie delle élite rurali, principalmente

dal nord-ovest del subcontinente. Pertanto, mentre in Medio Oriente general-

mente si è determinato un forte legame tra cultura moderna, idea di progresso e

istituzioni militari, questa connessione si è sviluppata in Asia meridionale solo

dopo l’indipendenza e in modo più discontinuo. Mentre nel contesto indiano

post-indipendenza questo legame tra idea di progresso e istituzione militare si

può dire non si sia sviluppata affatto, in Pakistan si è trattato di un processo tar-

do. All’indipendenza, in Pakistan i militari rappresentavano ancora i valori tra-

dizionali legati alle caste marziali e alle relazioni gerarchiche della società rurale

(Dewey 1991: 278; Wilder 1999: 16; Oldenburg 2010: 117-118). Una tendenza al

cambiamento si iniziò a intravedere solo nel corso del primo decennio d’indi-

pendenza, quando l’istituzione militare ha iniziato a porre sé stessa dinanzi all’o-

pinione pubblica quale depositaria dell’idea di progresso, sviluppo e moderni-

tà, in ciò sostenuta dai mezzi di informazione. Quest’evoluzione è tutt’altro che

estranea all’ascesa dell’influenza politica dei militari in Pakistan.

Pur ammettendo che le forze militari anglo-indiane siano state influenzate

dall’ostilità del mondo coloniale inglese verso i politici nazionalisti (Shah 2014:

5), non vi è dubbio che il discorso dominante abbia enfatizzato la disciplina e

il rispetto delle direttive della politica. L’idea britannica del controllo civile sul

potere militare si è radicata soprattutto nell’India indipendente dove, secondo

Brass (1994: 61), la chiave del rapporto civili-militari è stata l’alleanza tra la clas-

se politica e la burocrazia civile al fine di controllare le forze armate. Questo ha

consentito al governo indiano, sotto la leadership di Nehru, di assumere subi-

to dopo l’indipendenza misure concrete per ridimensionare l’influenza politica

dei militari. Queste misure includevano l’esclusione dal primo governo del co-

mandante in capo delle forze armate e, nel 1955, l’abolizione stessa della carica.

Page 150: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

149le relazioni civili-militari dello stato pakistano

Persino la rilevanza simbolica dei militari fu seriamente indebolita da misure

quali l’arretramento del capo di Stato maggiore dell’esercito al venticinquesimo

posto tra le cariche pubbliche nel cerimoniale delle funzioni di Stato (Jalal 1995:

43). Più in concreto, la strategia del governo indiano passò attraverso la creazione

di corpi paramilitari, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, ai quali lo

Stato poteva fare ricorso in situazioni di emergenza senza dipendere dall’eserci-

to (Brass 1994: 62). Il governo indiano fu costretto a rivedere questa strategia a

causa della sconfitta nella guerra sino-indiana del 1962 e ad avviare un rafforza-

mento dell’istituzione militare; tuttavia, quando ciò avvenne, la democrazia era

stata fermamente stabilita in India e il fattore militare posto sotto controllo civile

(Jalal 1995: 43).

È altresì da rilevare che nei casi di Stati mediorientali in cui i militari han-

no esercitato storicamente un’influenza politica, diretta o indiretta, l’esercito

ha spesso svolto una funzione essenziale nel processo fondativo della nazione.

Frequentemente l’indipendenza era stata acquisita o difesa tramite l’uso delle

armi. Questo è, ad esempio, il caso della Turchia post-ottomana. In questi casi lo

Stato era il risultato di un’azione militare e dei sacrifici compiuti dai soldati che

ne rafforzavano la legittimità. Ulteriori confronti possono essere suggeriti con

la Birmania, la Thailandia o gli Stati appartenenti al blocco comunista come la

Cina. In questi casi, a causa della loro capacità di sviluppare un'ideologia distin-

ta e di rappresentarla a livello statale, i militari sono stati in grado di incarnare

i valori ideali delle loro società. Il carattere altamente gerarchico e organizzato

dell'istituzione militare la rendeva ideale per rappresentare una “società per-

fetta” in miniatura. Analisi similari possono essere fatte, ad esempio, per la

rappresentazione da parte dell'esercito delle qualità ideali del cittadino nello

Stato di Israele (Lissak 1998; Perlmutter 1968). Nel caso dei sistemi comunisti,

ovviamente, la rilevanza del ruolo ideologico svolto dall'esercito è ancora più

evidente. In Cina secondo il pensiero maoista il soldato era “il cittadino ideale”

che avrebbe agito da modello per la società civile (Coccopalmerio 1984: 9-10).

A confronto dei casi citati, in Asia meridionale l’esercito non ha svolto un ruo-

lo determinante nel conseguimento dell’indipendenza. La decolonizzazione in

Asia meridionale è stata il frutto di un processo primariamente politico e non

militare, monopolizzato da una classe di uomini politici di estrazione urbana e

liberale. Né l’India né il Pakistan hanno ottenuto l’indipendenza al termine di un

conflitto in cui i militari abbiano svolto un ruolo rilevante (Oldenburg 2010: 46;

Nawaz 2008: 19).

Se dunque l’esercito anglo-indiano ha esercitato il proprio ruolo entro li-

miti rigidamente marcati dalla politica all’interno, esso ha svolto importati

funzioni sia di difesa dei confini dell’impero britannico, sia per la proiezione

della potenza britannica all’estero. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo,

Page 151: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

150diego abenante

le truppe anglo-indiane furono schierate su diversi fronti al di fuori del sub-

continente: nelle guerre anglo-birmane (tra il 1824 e il 1885); in Cina durante

le guerre dell’oppio (1839-1842; 1856-1860) e la rivolta dei Boxer (1899-1901);

nelle guerre anglo-afghane (1839-1842; 1878-1880) e, ovviamente, in entram-

bi i conflitti mondiali (Metcalf 2007). L'importanza dell'esercito nel sistema

imperiale britannico era confermata dal fatto che il bilancio e la politica del-

la difesa erano esclusi dal controllo della legislazione indiana, e posti sotto

il controllo del viceré e del governo britannico (Robinson 2014).14 Dalla fine

del diciannovesimo secolo il compito dell'esercito nell'India britannica fu gra-

dualmente limitato alla difesa della frontiera nord-occidentale dell'India dalla

minaccia russa.

L’esistenza di questa tradizione di dispiegamento all’estero dell’esercito è

tutt’altro che irrilevante per l’analisi del fattore militare in Pakistan, per due mo-

tivi principali: in primo luogo in quanto i militari pakistani hanno fatto esplicito

riferimento a quest’eredità storica per esercitare un controllo sulla politica este-

ra e per rappresentare le ambizioni del Pakistan a essere una grande potenza,

soprattutto in direzione del mondo arabo-musulmano (Maestri e Pastori 2002).

In secondo luogo, perché i comandi militari statunitensi e britannici vedranno

nelle forze armate pakistane durante la Guerra Fredda i naturali eredi della capa-

cità propulsiva dell’esercito anglo-indiano verso la Persia e la regione del Golfo

(Shaikh 2009). Ciò darà un contributo importante a rendere l’istituzione militare

un’interlocutrice privilegiata dei governi occidentali e a svincolarla in parte dal

controllo politico.

Nonostante la sostanziale continuità etnica nella composizione dell’eser-

cito, il personale militare si è evoluto nel tempo per composizione sociale,

educazione e cultura, specialmente tra i ranghi degli ufficiali. Seguendo l’im-

postazione di Cohen (1998: 55-63 e 2013: 93) è possibile distinguere tre diverse

generazioni di ufficiali: la generazione britannica, quella americana e quella

pakistana. La prima generazione è quella addestrata durante l’epoca colonia-

le presso l'accademia militare di Sandhurst, in quella indiana di Dehra Dun,

oppure entrata in servizio durante la seconda guerra mondiale. Gli ufficiali di

questa generazione hanno assorbito la mentalità coloniale britannica, ispirata

a principi di professionalità, disciplina, rigida gerarchia e netta separazione tra

la sfera militare e quella politica (Shaikh 2009: 153; Rizvi 2001: 201). In quanto

tale, l'esercito era un'istituzione altamente professionale, addestrata a seguire

14 F. Robinson, “South Asia and West Asia from the Delhi Sultanate to the Present; Security, Resources and Influence”, British Association for South Asian Studies, Annual Conference Keynote 2014 (http://basas.org.uk/news-events/podcast/south-asia-and-west-asia-from-the-delhi-sultanate-to-the-present-security-resources-and-influence/. Ultimo accesso: 7 lu-glio 2019).

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151le relazioni civili-militari dello stato pakistano

rigorosamente gli ordini delle autorità civili. Tuttavia era anche un'istituzione

che, al pari dell’Indian Civil Service, aveva in parte assorbito la diffidenza delle

autorità coloniali nei confronti dei politici. Secondo questa visione, i politici

erano corrotti e moralmente inadatti a governare (Shah 2014: 5). Qualunque

peso si voglia dare a questo precedente, esistono delle analogie tra il discorso

coloniale e la delegittimazione dei politici espressa dalla prima generazione

dei militari pakistani negli anni Cinquanta e Sessanta.15 Dal punto di vista so-

ciale, questi ufficiali appartenevano all’élite della società indiana ed erano so-

prattutto di estrazione rurale, le cui famiglie guardavano alla carriera militare

essenzialmente come fonte di prestigio.

La generazione americana era composta dagli ufficiali che avevano ricevuto

la loro formazione negli anni 1950-1965; un periodo nel quale il Pakistan è en-

trato a fare parte delle alleanze internazionali filo-statunitensi create durante la

Guerra Fredda. Grazie a ciò i militari hanno avuto accesso a tecnologie e sistemi

d’arma avanzati, e hanno seguito programmi di addestramento negli Stati Uniti

o in patria secondo modelli statunitensi. Questi ufficiali avevano spesso un’ori-

gine sociale più eterogenea, perché il reclutamento aveva iniziato a espandersi al

di là delle tradizionali razze marziali, includendo le classi medie. Inoltre gli uffi-

ciali, per via delle influenze ricevute durante l’addestramento, sono stati esposti

a valori liberali. L’impatto di questi valori, che secondo Cohen ha determinato la

formazione di una distinta mentalità militare, è in parte ridimensionato da Rizvi

il quale ha sostenuto che il cambiamento culturale non sia stato tale da diminuire

in modo rilevante l’importanza della mentalità britannica di origine coloniale

(Cohen 1984: 70; Rizvi 2001: 201). Entrambi gli autori concordano sul reale cam-

bio di orizzonte rappresentato dalla terza generazione, quella cosiddetta pakista-

na, entrata in servizio dagli anni Settanta, la cui mentalità si sarebbe differenzia-

ta nettamente rispetto alle precedenti.

Sebbene i contatti con le istituzioni militari statunitensi siano proseguiti

sporadicamente, in questo periodo i militari poterono ottenere meno risorse

dall'estero a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti dopo la guerra in-

do-pakistana del 1971.16 Avendo ricevuto una minore influenza dall’Occiden-

te, quest’ultima generazione si è concentrata maggiormente sulla dimensio-

ne politica interna ed è anche la prima generazione a non aver avuto contatti

diretti con l'ambiente indiano (Shaikh 2009: 152). Il processo di allargamento

delle origini sociali dei ranghi è proseguito con un numero crescente di ufficia-

15 Una evidente dimostrazione di quest disaffezione verso la classe politica è presente nelle memorie del generale Ayub Khan e nella sua ricostruzione delle cause del colpo di stato del 1958 (Khan 1967: 68ss).

16 In conseguenza dello scoppio della seconda guerra indo-pakistana nel 1971 gli Stati Uniti sospesero gli aiuti economici a entrambi i contendenti (Talbot 1998: 211-212).

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152diego abenante

li provenienti da famiglie della classe medio–bassa, sia rurale sia urbana, che

vedevano nell’arruolamento una mera opportunità di lavoro più che essere at-

tratti dal prestigio della carriera militare (Rizvi 2001: 202). Si trattava inoltre di

una generazione più politicizzata, in ragione dell’alto livello di attività politica

presente nei campus universitari pakistani negli anni Settanta. In ragione del

coinvolgimento delle forze pakistane negli accordi di collaborazione militare

con gli Stati del Golfo durante gli anni Settanta e Ottanta, molti di questi uffi-

ciali hanno sviluppato più familiarità con il Medio Oriente che con l'Occidente

(Shaikh 2009: 153; Rizvi 2001: 203).17 Avendo trascorso dei periodi di servizio

in paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, questi ufficiali

sono entrati in contatto con idee religiose conservatrici che sono state in parte

veicolate nei quadri delle forze armate.

L'ampliamento della composizione sociale, la crescente influenza dei valori

islamici tra i ranghi e la sconfitta nella guerra indo-pakistana del 1971 spiegano

anche l'emergere di tensioni tra i gradi più bassi e gli alti ufficiali; questi ultimi

vennero spesso accusati dai propri subalterni di inefficienza, corruzione e di

condurre stili di vita occidentali (Shaikh 2009: 153). Molti di questi ufficiali sa-

ranno in seguito cooptati nel regime militare di Zia-ul-Haq (1977-1988). Di pari

passo con il cambiamento dei programmi tecnici di formazione e delle influen-

ze culturali, anche l'approccio delle forze armate nei confronti delle istituzioni

civili, così come l’orientamento ideologico, si sono evoluti. Si può affermare

che ciò costituisca un aspetto peculiare dei militari in Pakistan: ovvero la loro

capacità di incarnare piattaforme ideologiche molto diverse tra loro, persino

antitetiche, pur senza perdere significativamente la propria rilevanza nella sfe-

ra pubblica. Nell'arco di circa vent'anni, l'esercito è stato in grado di agire prima

come simbolo di progresso e modernità – durante il regime di Ayub Khan negli

anni Cinquanta e Sessanta – e poi come veicolo dell’islamizzazione dello Stato,

durante il regime di Zia-ul-Haq negli anni Settanta e Ottanta. Nel primo perio-

do i militari hanno adottato un discorso di modernità e di sviluppo, e hanno

avanzato un’interpretazione modernista dell’Islam. Dalla seconda metà degli

anni Settanta, invece, essi hanno aderito a una visione scritturista della religio-

ne, facendone la loro principale base di legittimazione.

17 Dagli anni Settanta in poi i pakistani hanno costituito una percentuale rilevante delle forze armate di vari paesi del Golfo tra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman. In Arabia Saudita, in particolare la 12° brigata corazzata di stanza a Tabuk aveva tra i propri ranghi dieci-mila soldati pakistani (Maestri e Pastori 2002: 131-154). In Oman la presenza di militari paki-stani baluci si ricollegava ad un’antica interazione militare, economica e politica tra la penisola arabica meridionale, l’Africa orientale e la costa del Makran (Nicolini 2002). Questa collabora-zione militare tra Pakistan e i paesi della regione si è poi gradualmente ridotta dopo la prima Guerra del Golfo.

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153le relazioni civili-militari dello stato pakistano

I militari e la costruzione dello Stato dopo il 1947

Nei primi mesi d’indipendenza lo Stato pakistano fu costretto ad affrontare pro-

blemi che ne posero in dubbio la stessa sopravvivenza. Il problema più gravoso

si rivelò essere il ricollocamento dei rifugiati (Talbot e Singh 1999). L’obiettivo

di assistere una grande massa di persone in un tempo limitato spinse le fragili

strutture dello Stato sull’orlo del collasso. Diverse furono le conseguenze della

difficile gestione dei rifugiati sugli equilibri politici interni. In primo luogo, essa

espose le inefficienze delle autorità civili e della classe politica, determinando un

ulteriore elemento di delegittimazione pubblica. Come evidenziato dalla ricerca

di Elisabetta Iob, l’inefficienza della macchina amministrativa portò al riemerge-

re nella vita quotidiana di meccanismi clientelari “tradizionali” e di negoziazione

informale del potere a livello locale (Iob 2017). In generale, la crisi dei rifugiati

creò le condizioni per l’emergere di una prassi di governo autoritaria (Rizvi 2000:

57-58). Questa pratica si tradusse in particolare nella tendenza del governo cen-

trale a concentrare su di sé i processi decisionali imponendosi sulle autorità pro-

vinciali; nell’attribuzione ai funzionari amministrativi di poteri speciali; e nella

tendenza delle forze armate – specialmente l’esercito e l’aeronautica – a farsi ca-

rico di compiti propri delle autorità civili, come la gestione dei campi profughi,

l’assegnazione delle proprietà vacanti ai rifugiati e la protezione delle minoranze

(Rizvi 2000: 58).

Tutto ciò ha contribuito a costruire l’immagine dei militari quali difensori

dell’ordine e “salvatori” dello Stato. L’influenza dei rifugiati ha dunque contribui-

to a (ri)costruire un’immagine pubblica dei militari e a garantire l’accettazione da

parte della società del predominio delle forze armate sulla vita pubblica. Il fatto

che una larga parte dei rifugiati fosse originaria del Punjab e avesse vissuto delle

esperienze di violenza durante la Spartizione, tese a costruire e diffondere una

mentalità favorevole alla costruzione di uno Stato forte e centralizzato, in grado

di proteggere la popolazione. In questo senso è suggestivo introdurre l’idea di

una “mentalità del rifugiato” quale fattore favorevole alla creazione di un regi-

me autoritario (Waseem 1999: 216).18 Dunque si creò un bacino di consenso per

il ruolo pubblico delle forze armate. L’importanza del Punjab nella vita pubblica

del Pakistan e l’alta percentuale di punjabi nell’esercito, porteranno a una sorta di

“punjabizzazione” del Pakistan; il che a sua volta si tradusse in una sostanziale

accettazione per il ruolo pubblico dei militari.

18 A ciò si aggiunga che, durante gli stessi anni, i militari erano costretti a intervenire a più riprese per supplire all’incapacità delle agenzie civili nel soccorrere la popolazione del Punjab colpita dalle inondazioni avvenute poco dopo l’indipendenza, nel settembre del ’47 (Rizvi 2000: 58).

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154diego abenante

Il fattore militare in Pakistan è dunque emerso in una situazione in cui

gli attori politici erano già delegittimati rispetto alle istituzioni non elettive.

Paradossalmente un contributo importante alla delegittimazione della classe po-

litica venne proprio dalla prima generazione di leader civili. Ci si riferisce in par-

ticolare alla prassi precoce nel paese d’imposizione del governo centrale sul livel-

lo provinciale. Prova evidente fu la destituzione, su indicazione del Governatore

Generale Jinnah, dei governi provinciali del Sindh e della North-West Frontier

Province a causa di disaccordi politici. Un altro esempio fu l’introduzione nel

gennaio del 1949 da parte del primo ministro Liaquat Ali Khan del cosiddetto

PRODA (Public Representatives Order Disqualification Act), atto che introduceva

il concetto di “accountability” in Pakistan. La legge prevedeva che il Governatore

Generale, i Governatori delle province, ma anche qualunque cittadino potessero

muovere accuse di corruzione o clientelismo contro i ministri e i parlamenta-

ri; questi sarebbero stati inquisiti da tibunali i cui giudici erano nominati dai

Governatori stessi (Talbot 1998: 136-137). La legge dunque sottolineava pubbli-

camente il sospetto di disonestà per la classe politica, ponendola sotto il controllo

della burocrazia.

La tradizione di governo esecutivo e burocratico, iniziata con Jinnah come

Governatore Generale, continuò anche dopo il 1948 e avrebbe caratterizzato i pri-

mi anni di vita del Pakistan. Sebbene in teoria l'Assemblea Costituente avrebbe

dovuto funzionare anche come Parlamento provvisorio, in realtà tutto il potere

era concentrato nelle mani del Governatore Generale, così come lo era l’atten-

zione dell’opinione pubblica. La tendenza era quella del “governo per decreto”,

piuttosto che quello della discussione e dell'approvazione delle leggi nell'Assem-

blea. La composizione stessa dell'Assemblea Costituente, che era stata formata

indirettamente sulla base del Government of India Act del 1935 – approvata in

epoca coloniale –, contribuì a renderla scarsamente rappresentativa e autorevole

quale arena per la costruzione del consenso.

Gli effetti del conflitto in Kashmir e la questione del riarmo

Gli eventi decisivi saranno quelli che coinvolgeranno la dimensione militare

vera e propria. L’inizio dei combattimenti in Kashmir tra l’ottobre del 1947 e il

gennaio del 1949 aveva una serie di conseguenze importanti. In primo luogo,

esponeva in modo impietoso la debolezza militare del Pakistan rispetto all’India,

acuendo il senso di vulnerabilità cui si è fatto cenno.19 In secondo luogo, segnava

19 Secondo una ricostruzione generalmente condivisa, alla notizia dello scoppio delle ostilità Jinnah avrebbe ordinato al Generale Gracey, allora comandante dell’esercito pakistano, d’invia-re l’esercito in Kashmir, ricevendone un rifiuto sulla base delle “conseguenze incalcolabili” che

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155le relazioni civili-militari dello stato pakistano

la fine di qualunque possibilità di cooperazione India-Pakistan sul piano della

difesa comune del subcontinente (Talbot 1999: 118); progetto che era stato pro-

posto dai Britannici sin dal 1946 e che aveva continuato a essere avanzato da-

gli attori internazionali come chiave per diminuire la tensione nella regione.20

Infine, impediva il corretto svolgimento della divisione dei materiali militari

che era previsto dagli accordi di Spartizione tra India e Pakistan (Jalal 1990: 42-

43).21 Poiché il Pakistan non aveva ricevuto le infrastrutture per la produzione di

armamenti dell’India britannica – che con la Spartizione erano rimaste tutte in

territorio indiano – Karachi si trovò in una situazione di drammatica scarsità di

materiale bellico. In breve il conflitto in Kashmir ha sancito il predominio delle

esigenze militari sopra ogni altro obiettivo di governo.

La crisi in Kahsmir era accompagnata inoltre da una percezione di accerchia-

mento, poiché nel 1947 il governo afgano aveva annunciato di non riconoscere

la frontiera tra Afghanistan e Pakistan (Durand Line) come un confine valido.

Il governo afgano contestava la sovranità di Karachi sui territori nord occiden-

tali della North West Frontier Province e del Baluchistan abitati da popolazioni

pashtun. Per questa motivazione, il governo di Kabul si oppose al riconoscimen-

to internazionale del Pakistan alle Nazioni Unite nel settembre ’47 e, nel 1949,

sostenne una proclamazione di indipendenza delle tribù pashtun (Shaikh 2009:

202-203). Tutto ciò ha indotto alcuni autori a considerare il caso pakistano come

un “garrison state”, secondo la definizione di Lasswell (1941) (Kamal 1982); ov-

vero il caso di uno Stato nel quale il senso di accerchiamento porta all’emergere

degli “specialisti della violenza” come attori dominanti sulla scena politica.

È tuttavia rilevante notare che in questa fase non vi fosse una differenza fon-

damentale tra élite civili e militari riguardo alla necessità di far prevalere le esi-

genze della sicurezza. In un discorso radiofonico al paese dell’ottobre del 1949,

il primo ministro Liaquat Ali Khan espresse questo punto con chiarezza affer-

mando che: “La difesa dello Stato è la nostra prima considerazione. Essa domina

tutte le altre attività di governo”. Analoghe dichiarazioni provenivano, nei mesi

successivi, da altre autorità politiche. Il successore di Liaquat Ali Khan nella ca-

rica di primo ministro, Muhammad Ali Bogra, dichiarava nell’agosto 1953 che

avrebbe preferito “affamare il paese piuttosto che consentire un indebolimen-

to della sua difesa” (Rizvi 2000: 62; Talbot 1999: 118). La conseguenza principale

ne sarebbero derivate (Jalal 1990: 44). Questa ricostruzione è tuttavia contestata da una parte della storiografia pakistana (Cheema 2003).

20 Gen. Arthur Smith (capo di stato maggiore, India), “Memorandum: Defence implications of a partition of India into Pakistan and Hindustan”, 1 April 1946 (Oriental and India Office Collection, British Library; in seguito IOC).

21 Secondo gli accordi il Pakistan avrebbe dovuto ricevere dall’India il 30% dell’esercito anglo-indiano, il 40% della marina e il 20% dell’aeronautica (Jalal 1990: 42).

Page 157: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

156diego abenante

di quest’enfasi sulla sicurezza era l’attribuzione di un peso sproporzionato alle

spese militari sul bilancio. Nel periodo 1947-1958 il Pakistan avrebbe speso in

media più del 60% per le esigenze militari, con una punta superiore al 73% nel

1949-1950 (Rizvi 2000: 63).

La maggior parte di queste spese fu orientata all’acquisto di armi e materiale

bellico sul mercato internazionale. I paesi ai quali Karachi si rivolse, in primo

luogo, furono l’Inghilterra e in seguito gli Stati Uniti. La scelta dell’Inghilterra

era dettata dalla circostanza che gli armamenti e i mezzi già in possesso dell’eser-

cito pakistano erano di produzione britannica. Tuttavia ben presto dinanzi all’i-

nabilità di Londra di rispondere positivamente alle richieste pakistane, Karachi

si rivolse al governo di Washington. I primi contatti finalizzati all’acquisto di

armi risalgono già a ottobre-novembre del 1947. Fu però soprattutto dall’anno

successivo che i leader civili e militari pakistani iniziarono una serie di missioni

a Londra e Washington finalizzate all’acquisto di armi. Oltre a questi due paesi, il

governo pakistano prese contatto con vari altri governi europei, tra cui il governo

italiano (Rizvi 2000: 64).

Va evidenziato che nella propria ricerca di alleanze internazionali, tra la fine

degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, l’obiettivo del Pakistan era più am-

bizioso del mero acquisto di armi. Vi era anche lo scopo più generale di forma-

re un sistema di alleanze che compensasse la percezione di debolezza a livello

regionale. Nelle discussioni degli emissari pakistani a Londra e a Washington,

di fatto, la richiesta di una garanzia territoriale contro l’India in Kashmir era

costantemente posta sul tavolo (Jalal 1990: 126-127). Secondo Shaikh (2009), il

dinamismo pakistano in politica estera aveva altresì l’obiettivo di rispondere

all’ambiguità ideologica del paese. In altre parole la ricerca di una collocazione

internazionale sarebbe stata vista come una strategia per risolvere la fondamen-

tale incertezza del Pakistan tra mondo occidentale e mondo islamico. Se è così,

tale ambiguità rimaneva comunque irrisolta. Negli stessi mesi in cui le autorità

pakistane guardavano alle capitali occidentali in cerca di alleanze strategiche, la

società civile esprimeva dei sentimenti di unità e di immedesimazione con le

vicende dei paesi musulmani, con ciò evidenziando la schizofrenia delle aspira-

zioni pubbliche del Pakistan. Ad esempio la stampa pakistana anglofona tra il

1948 e il 1950 dava grande enfasi agli sviluppi politici interni alle società mu-

sulmane, con particolare attenzione ai paesi che lottavano per acquisire la piena

indipendenza dal controllo europeo.22 Gli sviluppi politici in Libia, Indonesia,

Somalia, erano seguiti con grande partecipazione. Questi sentimenti assumeva-

no talvolta toni decisamente anti-coloniali e “terzomondisti”, per i quali molto

probabilmente non era ininfluente la politica di non allineamento del governo

22 Si veda ad esempio Dawn (Karachi), 11 ottobre 1949, p. 5 (IOC).

Page 158: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

157le relazioni civili-militari dello stato pakistano

Nehru. Essi erano tuttavia in contraddizione con l'instaurazione di una politica

estera filo-occidentale.

Le aspirazioni a cementare relazioni con il blocco dei paesi musulmani era-

no dimostrate anche da iniziative di diplomazia personale assunte da alcuni

leader politici pakistani. Indicativo della diffusione di questi sentimenti pan-

islamici era il progetto sostenuto dal presidente della Muslim League, Chaudry

Kaliquzzaman, nel 1949 di creare a un’unità politica tra i vari Stati musulmani,

progetto battezzato Islamistan. Sebbene solo vagamente descritta all'epoca, l'i-

dea era di creare una sorta di confederazione tra gli Stati musulmani che costi-

tuisse un’alternativa internazionale sia al fronte occidentale che a quello co-

munista. Il progetto fu intensamente sostenuto da Khaliquzzaman con visite

in varie capitali tra il 1948 e il 1949; tuttavia esso ricevette un ascolto cortese

ma freddo dagli interlocutori dei paesi musulmani. Ciò costituiva un chiaro

esempio dell'atteggiamento tutt'altro che caloroso del mondo musulmano nei

confronti delle ambizioni pakistane a svolgere un qualche ruolo di leadership

degli Stati islamici.23

Dunque le scelte di politica estera dei governanti pakistani erano tutt’altro

che prive di chiaroscuri. L’incertezza sulla posizione internazionale del Pakistan

s’intrecciava con il dibattito sull’ideologia fondante dello Stato. Tali ambiguità

erano incarnate dallo stesso primo ministro. Negli stessi mesi in cui Liaquat Ali

Khan era impegnato nei negoziati con i governi statunitense e britannico per la

fornitura di armi, l’Assemblea Costituente approvava un documento di principio

sulla Costituzione – prodotto dallo stesso primo ministro – le Objectives Resolution

del 1949, che venendo incontro alle richieste dei partiti islamici affermavano la

supremazia di Dio anziché la sovranità popolare come principio ispiratore dello

Stato (Binder 1961: 116-154; Shaikh 2009: 190-200). La contraddizione tra queste

diverse aspirazioni emergeva inevitabilmente nel corso dei negoziati con Londra

e Washington sulla fornitura di armi.

Le forniture di armi e le relazioni civili-militari

È stato sostenuto di recente che l’Asia meridionale non abbia rivestito un partico-

lare interesse agli occhi degli Stati Uniti prima degli anni Cinquanta (Kux 2001).

Ciò appare, tuttavia, difficile da sostenere alla luce dell’attenzione che l’ammini-

strazione di Washington riservava all’area subito dopo la Spartizione del 1947.

Un memorandum del dipartimento di Stato dell’aprile del 1949 evidenziava

come l’accesso alle materie prime, il possibile utilizzo delle forze armate paki-

23 Ibidem.

Page 159: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

158diego abenante

stane e di basi aeree sul suo territorio, e il rischio che l’area cadesse sotto con-

trollo comunista, rendevano la regione vitale per la sicurezza degli Stati Uniti.24

La visione americana era legata alla convinzione che l’Unione Sovietica fosse in

procinto di espandere la propria influenza in Asia meridionale. Il dipartimento

di Stato sospettava che l’ambasciata sovietica a Kabul costituisse la base per atti-

vità di indottrinamento degli agenti di Mosca tra le tribù pashtun nella North

West Frontier Province pakistana. Ulteriori timori erano nutriti dagli USA per

l’apertura dell’ambasciata sovietica a New Delhi, che a parere di Washington

avrebbe contribuito a diffondere l’influenza comunista in India.25 Tutto ciò, evi-

dentemente, rendeva il Pakistan un obiettivo strategico dal punto di vista statu-

nitense. L’importanza delle relazioni con il Pakistan era destinata ad aumentare

ulteriormente nel corso degli anni Cinquanta, in ragione degli eventi politici in

Iran e nella regione di Suez, che sembravano minacciare gli interessi statuniten-

si nella regione.

La necessità di assicurare la cooperazione del Pakistan in caso di conflitto

con l’Unione Sovietica o di espansione cinese in Asia meridionale era già evi-

dente all’inizio degli anni Cinquanta. Nel giugno del 1950 la guerra di Corea

aveva indicato ai vertici diplomatici e militari a Washington la potenziale uti-

lità di un alleato con buone potenzialità militari in una posizione strategica in

Asia. Non a caso la decisione pakistana di non inviare truppe in Corea sotto la

bandiera dell’ONU era stata accolta negativamente a Washington.26 Al tempo

stesso, essa aveva indotto il dipartimento di Stato a riflettere sulla possibilità

di estendere una garanzia territoriale al Pakistan, in modo da indurre Karachi

a impegnarsi concretamente in favore degli interessi americani nella regione.

In un memorandum del luglio 1951 si identificava la questione del Kashmir

come l’ostacolo che si frapponeva ad una piena partecipazione dei militari pa-

kistani al sistema di sicurezza degli Stati Uniti in Corea e in Medio Oriente.27

Sull’eventualità di estendere tale garanzia unilaterale al Pakistan, tuttavia,

Washington incontrò la netta contrarietà del governo britannico (Jalal 1990:

126).28 Al fine di convincere Londra e Washington alla fornitura di armi, il go-

24 Department of State, “Report by the SANACC Subcommittee for the Near and Middle East; Appraisal of U.S. National Interest in South Asia”, 19 April 1949 (https://history.state.gov/his-toricaldocuments/frus1949v06. Ultimo accesso: 6 luglio 2019).

25 Ibidem.

26 Department of State, “Memorandum of Conversation, by the Assistant Secretary of State for Near Eastern, South Asian, and African Affairs, 18 October 1951 (https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1951v05. Ultimo accesso: 6 luglio 2019).

27 Department of State, “Policy Statement, Pakistan”, 1 July 1951 (https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1951v05. Ultimo accesso: 6 luglio 2019).

28 Ministry of Defence, “Supply of Arms to India and Pakistan”, 29 settembre 1951 (DO 35/2482, National Archives, Kew Gardens, UK).

Page 160: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

159le relazioni civili-militari dello stato pakistano

verno pakistano propose di armare e addestrare delle unità militari da inviare

in Medio Oriente in caso di crisi per proteggere gli interessi anglo-americani

in Persia e nella regione di Suez.

È interessante notare come, nel formulare tale proposta, le élite pakistane

civili e militari facessero diretto riferimento all’identità musulmana del paese,

dunque al suo essere “implicitamente” anti-comunista (Shaikh 2009: 192ss). Si

assisteva dunque al paradosso di uno Stato che aspirava a essere parte di un gran-

de blocco islamico e che, al tempo stesso, si proponeva come strumento militare

degli interessi strategici occidentali in Medio Oriente (Jalal 1990: 127). La propo-

sta pakistana incontrava sicuro interesse da parte degli interlocutori occidentali.

Secondo il dipartimento di Stato, il Pakistan disponeva della forza militare suffi-

ciente ad assistere gli USA a bloccare un’aggressione sovietica in Medio Oriente,

specialmente in Iran. L’esercito pakistano, se equipaggiato in modo adeguato,

sarebbe stato in grado di “svolgere una delle funzioni tradizionali delle truppe

anglo-indiane nei conflitti del passato”.29 Tuttavia il progetto non si sarebbe con-

cretato, almeno in questi termini, a causa della riluttanza pakistana a tradurre

l’iniziativa in impegni precisi.

Nonostante l’intensa pressione pakistana e l’interesse degli Stati Uniti a

stringere un’alleanza strategica in Asia meridionale, le richieste di armamenti

di Karachi rimasero in gran parte inevase, per tre ragioni principali. In primo

luogo, Washington e Londra non erano intenzionate a compromettere l’equili-

brio strategico in Asia meridionale; tanto più che da parte pakistana non vi era

garanzia che le armi fornite fossero utilizzate solo come difesa da un’eventua-

le aggressione sovietica e non contro l’India. Dunque, la linea politica stabilita

da Washington e Londra fu che qualunque fornitura di materiale militare al

Pakistan dovesse essere estesa all’India, cercando di mantenere per quanto possi-

bile una teorica parità di trattamento.30 In secondo luogo, le potenze occidentali

temevano le reazioni da parte della comunità internazionale per le forniture di

armi a due paesi in stato di guerra nel Kashmir. Infine, Washington e Londra

insistevano a condizionare la fornitura di armi alla disponibilità del Pakistan a

entrare a far parte di un’alleanza formale; un passo che le autorità pakistane com-

pirono solo nel 1954.

Fu quindi solo con la decisione pakistana di aderire al SEATO (South East Asia

Treaty Organization) nel ’54 e, l’anno successivo, al Patto di Baghdad – rinomi-

nato CENTO (Central Treaty Organization) nel 1958 – che ebbe avvio la prima

sostanziale collaborazione militare.

29 Department of State, “Policy Statement, Pakistan”, 1 July 1951.

30 Ministry of Defence to Commonwealth Relations Office, “Supply of Arms to India and Pakistan”, 29 settembre 1951.

Page 161: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

160diego abenante

Il punto che riveste maggiore interesse in questa sede è se, e in che misu-

ra, lo stabilimento dei rapporti tra Washington e Karachi abbia contribuito al

sorgere del fattore militare in Pakistan. Diversi autori sia pakistani sia interna-

zionali hanno argomentato a favore di un’importanza decisiva dell’alleanza con

gli Stati Uniti per il colpo di Stato del 1958 (Samad: 1995; Jalal 1990). Le cono-

scenze attuali non consentono al momento di affermare al di là di ogni dubbio

che Washington abbia sostenuto direttamente l’intervento. Sul piano formale,

al contrario, si può affermare che Washington abbia sottolineato l’importanza

del mantenimento della democrazia nei propri rapporti diplomatici con il go-

verno pakistano. In un telegramma all’ambasciatore in Pakistan di pochi mesi

precedente il colpo di Stato del 1958, il segretario di Stato Dulles sottolineava

come “gli Stati Uniti e il suo popolo hanno creduto per almeno due secoli che nel

lungo periodo il governo democratico sia superiore… al governo autoritario”, an-

che se “possono esserci eccezioni giustificate per un periodo limitato”.31 Le fonti

diplomatiche lasciano supporre che l’interesse statunitense fosse soprattutto fa-

vorevole a un mantenimento dell’asse burocratico-militare al potere, pur sotto la

facciata di una democrazia formale (Jalal 1990: 273).

Tuttavia vi sono altri fattori da tenere in considerazione. In primo luogo va

tenuta presente l’evoluzione dello scenario politico interno in Pakistan. Come

accennato, fino al 1951 non vi era una divergenza rilevante tra élites civili e mi-

litari sulla centralità delle esigenze militari. Vi era certamente un’ambiguità

riguardo alla direzione della politica estera, tuttavia questa era mantenuta su

una linea pro-occidentale durante il mandato di Liaquat Ali Khan come primo

ministro. L’assassinio di questo nell’ottobre del 1951 e l’ascesa dell’influenza

dei partiti religiosi, che esercitavano una forte pressione per riconsiderare la

politica estera del paese, resero lo scenario politico in Pakistan più incerto. La

prima conseguenza fu che nel corso degli anni Cinquanta i vertici statunitensi

abbandonarono gradualmente la convinzione che il fattore islamico fosse un

utile baluardo contro l’avanzata del comunismo. “Se la loro [dei partiti islami-

ci] influenza dovesse diventare predominante” – affermava un rapporto del

dipartimento di Stato del 1951 – “il Pakistan potrebbe diventare uno Stato te-

ocratico con distinti pregiudizi anti-occidentali”.32 D’altra parte gli osservatori

americani sospettavano che il fronte dell’opposizione islamica fosse infiltrato

da elementi comunisti, benchè non vi fosse alcun fondamento per questa rico-

struzione. Un rapporto del marzo 1953 di poco successivo alla proclamazione

della Legge Marziale nel Punjab, sosteneva che i tumulti scoppiati a Lahore

31 Department of State, Secretary of state to the Embassy in Pakistan, 21 maggio 1958 (https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1958-60v15. Ultimo accesso: 6 luglio 2019).

32 Department of State, “Policy Statement, Pakistan”, 1 July 1951.

Page 162: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

161le relazioni civili-militari dello stato pakistano

erano stati “organizzati da un gruppo musulmano anti-occidentale assistito

da elementi comunisti”.33 L’amministrazione statunitense dunque considera-

va che il ruolo di contenimento dell’influenza sovietica e cinese nella regione

sud-asiatica potesse realizzarsi soprattutto attraverso lo strumento militare.

Erano le forze armate e in particolare l’esercito e l’aeronautica, che rivestivano

l’importanza maggiore per Washington. Questi fattori facevano sì che gli Stati

Uniti avessero un interesse specifico a dirigere i propri finanziamenti verso le

forze armate più che a irrobustire le istituzioni civili.

Il punto essenziale è che, attraverso il sostegno economico statunitense, le

forze armate pakistane ottennero l’autonomia finanziaria necessaria a svilup-

pare i propri armamenti e a espandere la propria influenza politica senza dover

utilizzare esclusivamente le risorse nazionali. In quest’ultima ipotesi, le forze

armate pakistane sarebbero state costrette a negoziare con gli altri attori politici

per la distribuzione delle risorse, e a costruire un consenso politico all’interno.

La costruzione del rapporto con gli Stati Uniti ha esentato i militari dall’obbligo

di negoziare la distribuzione delle risorse, garantendo loro una fonte di finan-

ziamento indipendente dagli equilibri politici interni. Benché il caso pakistano

non sia normalmente incluso nella tipologia dei “rentier state” quanto sopra

sembra giustificare l’applicazione di questa categoria al Pakistan (Oldenburg

2010; Herb 2005). Tuttavia, nonostante l’avvio delle forniture di armi a partire

dal 1954-55, l’alleanza rimarrà deludente dal punto di vista pakistano. Karachi

non ottenne mai l’obiettivo primario di compensare la superiorità militare

indiana. Ciò detto, i rapporti internazionali stabiliti in questo periodo furono

cruciali dal punto di vista delle relazioni civili-militari in Pakistan. La stretta

relazione tra Washington e i militari pakistani era destinata a permanere nel

lungo periodo.

Conclusione

Con questo scritto si è inteso analizzare le cause del pretorianesimo pakistano

nella sua fase iniziale. Si sono evidenziate le differenze esistenti tra il militari-

smo pakistano e alcuni casi noti di pretorianesimo del mondo mediorientale e

asiatico. In particolare, si è posta in luce la sostanziale mancanza nel caso paki-

33 Le agitazioni nel Punjab del 1953 erano stati provocati da una campagna condotta da alcune organizzazioni politico-religiose islamiche contro la minoranza religiosa degli Ahmadiyya (Abenante 2018). Department of state, “Memorandum, Assistant Secretary of State for Near Eastern, South Asian, and African Affairs (Byroade) to the Secretary of State”, 25 marzo 1953 (https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1952-54v11p2. Ultimo accesso: 6 luglio 2019).

Page 163: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

162diego abenante

stano di alcuni dei fattori storici principali che hanno causato l’ascesa del fattore

militare nei casi più noti, come il legame con il processo di modernizzazione e

con i movimenti nazionali. Al tempo stesso si è evidenziato come i militari pa-

kistani abbiano costruito il proprio ruolo dominante, dopo il 1947, basandosi in

parte sui propri tradizionali ruoli di garanti della sicurezza nella regione nord-

occidentale, anche sfruttando la cultura politica autoritaria di origine coloniale,

e facendo riferimento alla tradizione di proiezione della forza militare anglo-

indiana verso l’Iran e la regione del Golfo. In questo contesto, il discorso militare

si è imposto come dominante nel dibattito pubblico a spese delle altre necessità

di state-building, d’inclusione e di rappresentanza politica. In definitiva le forze

armate pakistane hanno acquisito la supremazia sulle istituzioni elette e poi sul-

la burocrazia civile nel periodo 1947-58 per tre ragioni principali: la debolezza

istituzionale che ha caratterizzato lo Stato dopo la sua formazione nel 1947; la

percezione di debolezza delle sue élite, civili e militari, dinanzi alla forza militare

dell’India; la costruzione di un rapporto privilegiato tra l’istituzione militare e gli

alleati internazionali, in specie gli Stati Uniti. Questi hanno garantito ai militari

pakistani dal 1954 in avanti l’accesso ad una fonte di finanziamento esterno so-

stanzialmente autonoma da condizionamenti politici interni.

Page 164: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

163le relazioni civili-militari dello stato pakistano

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169

FEDERICO BATTERA

Stabilità, regimi e il fattore militare in Nord Africa

Introduzione

Il 2011 viene ricordato come un anno di svolta per il mondo arabo. A lungo im-

merso in un immobilismo caratterizzato dall’autoritarismo e dal prolungato ar-

roccamento al potere di presidenti inamovibili, il mondo arabo, dalla caduta del

regime di Ben Ali in Tunisia (gennaio 2011), è stato teatro di una successione di

messe in discussione dei regimi, caratterizzate da estese proteste, cambi anche

violenti di governo, crolli dello Stato e conseguenti guerre civili.

A distanza di otto anni, tuttavia, il bilancio è deludente, fatta eccezione per la

transizione tunisina, la “Primavera araba”, come è stata sommariamente cono-

sciuta, ha in realtà generalmente prodotto un riadattamento dei regimi al potere

(Heydemann 2013; Stacher 2015; Hinnebusch 2016 e 2018), caratterizzati da una

variazione tra riforme gestite dall’alto – Marocco – a successive chiusure anche

violente dei regimi in carica, passando, in un caso almeno, attraverso un colpo di

Stato (Egitto, luglio 2013).

Partendo dalla constatazione che un fattore comune ai regimi arabi preceden-

temente la Primavera araba fosse l’esistenza di ampi strumenti di coercizione

(Bellin 2004, Barany 2011) e una generale debolezza della società civile (Ottaway

2004), lo scopo di questo saggio è quello di descrivere e in qualche modo misura-

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170federico battera

re il ruolo degli apparati di sicurezza/militari all’interno di due regimi nordafri-

cani – quello egiziano e quello algerino – comparabili, per le molte analogie. In

questo saggio vengono identificati proprio negli apparati di sicurezza/militari

un fattore di stabilità del regime (in senso autoritario) e l’ostacolo dunque più

importante a una possibile transizione di tipo democratico.

La letteratura di riferimento è abbondante (Cook 2007; Lutterbeck 2011;

Heydemann 2013; Hinnebusch 2016) ed il tema è già stato in parte oggetto di

discussione da parte di questo autore (Battera 2014). A fianco delle molte analo-

gie vi sono alcune differenze nelle modalità di regolazione interne al potere, nel-

le interazioni del potere militare con la sfera economica, nel grado di “fusione”

dell’apparato militare con altri apparati di potere, tema su cui avremo modo di

tornare, nel grado di personalizzazione e fazionalismo nello stesso o al contrario

di salvaguardia di un principio di collegialità. È in particolare quest’ultimo, cioè

la coesione all’interno degli apparati militari, che consente di scongiurare possi-

bili crisi di successione.1

Si è deciso di limitare l’analisi agli unici due casi nordafricani che rientrava-

no in questa fattispecie non presentando: a) il caso tunisino che presenta scarse

analogie2; b) quello marocchino che vede l’esercito e gli apparati di sicurezza to-

talmente sottomessi all’autorità del monarca (Saidy 2018); e c) quello libico, un

apparato militare/repressivo debole e frammentato dal fazionalismo interno.3 In

Marocco, l’arena politica è definita dall’intervento del Re (Leveau 1993). Mentre

nel caso algerino e egiziano, l’arena politica è delimitata, come vedremo, dagli

uomini in divisa.

Casi invece che presentavano analogie, come quello siriano e yemenita sono

stati esclusi, sia per ragioni geografiche che per il grado di confessionalismo nel-

la società e negli apparati di governo che ne hanno alterato significativamente

le dinamiche di potere. Con il senno di poi, questa scelta è giustificata dal fatto,

che similmente al caso libico questi due contesti hanno sperimentato estese e

intense guerre civili.

I due casi però presentano di primo acchito un’importante differenza di fon-

do: se in Egitto la caduta del regime di Mubarak (ma non del potere militare)

vede un’estesa partecipazione popolare, in quello algerino, le manifestazioni nel

corso del 2011 sono state circoscritte e limitate nel tempo e nelle dimensioni.4 La

1 Si cfr. con la successione da Hafez a Bashar al-Assad in Siria (Stacher 2012).

2 Ho già avuto modo di trattare il caso egiziano in Battera (2014). In Tunisia, l’esercito è ge-neralmente depoliticizzato (in senso huntingtoniano, 1957), dunque non giocherà dopo aver favorito il cambio di regime nel 2011 più alcun ruolo politico.

3 Risultato delle specificità dello sviluppo politico della Libia. Su questa si cfr. Vandewalle (2006).

4 Ciò nonostante una nuova crisi politica si è presentata nel 2019 alla vigilia della presen-

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171stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

ragione generalmente addotta è che l’Algeria aveva già conosciuto la sua “prima-

vera” e il suo drammatico epilogo (Holmsen 2016). Dunque, in retrospettiva il

caso algerino potrebbe servire a delineare un percorso possibile anche per quello

egiziano se non fosse che le “risorse” a disposizione e la loro gestione e regolazio-

ne interna ai regimi ha dato vita a variazioni in parte diverse.

Dopo un esame critico della letteratura riferita ai due casi, si individueranno

a monte, per entrambi, i settori della coalizione di potere (variamente indicata

anche come “coalizione dominante”; Morlino 2003) e si cercherà di “misurarne”

il rapporto dei suoi diversi elementi con l’apparato militare. Si vuole altresì veri-

ficarne il grado di autonomia e/o di reciproca compenetrazione (altrove già indi-

cata come “fusione”; Battera 2014: 545). Si tratta cioè di verificare se altri settori,

per esempio la società economica, vedono la partecipazione diretta o interposta

di membri dell’apparato militare.

Quest’ultimo si trova in una posizione apicale nel sistema. Lo si evince dall’ab-

bondante letteratura. La parentela, che gioca un ruolo limitato in questi due casi,

viene considerata un fattore interveniente e distorsivo, ed in genere è associata al

fazionalismo. Poiché le risorse all’interno dell’apparato militare sono distribuite

in maniera diversa, si vuole in questo modo determinare quanto la competizione

tra “fazioni” mini quel principio di collegialità che è considerato una salvaguar-

dia del ruolo dei militari.

Le forze di polizia e i diversi apparati di intelligence sono stati generalmente

inclusi nell’apparato militare sebbene, essendo in parte dipendenti dai ministeri

degli interni, godano di una certa autonomia. Ma non manca un grado di compe-

netrazione da parte dei ranghi militari. La loro posizione è quindi generalmen-

te subordinata ma va anche per essi determinato il grado d’autonomia e quello

di conflittualità/competizione con l’apparato militare. Non dimentichiamo che

la transizione tunisina fu agevolata anche dall’autonomia del Ministero della

Difesa da quello degli Interni (Battera 2014: 554).

Fattore militare e sviluppo politico a partire da un esame della letteratura

La rilevanza del fattore militare nello sviluppo politico dei regimi arabi è am-

piamente trattato in letteratura. Essi non sono solamente considerati come de-

gli ostacoli alla democrazia (Bellin 2004 e 2012) o come portatori di specifici

interessi da difendere di fronte a cambiamenti importanti nella sfera economi-

ca ed internazionale (Heydemann 2004 e 2007; Cook 2007; Richter 2007), ma

sono generalmente intesi come agenti del nation- e state-building (Cook 2007).

tazione delle candidature per le elezioni presidenziali algerine con la riproposizione, per un quinto mandato, del presidente Bouteflika.

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172federico battera

Owen (1992) annovera gli apparati militari e di sicurezza tra i pilastri di regime

nella formazione dello Stato a fianco di ampie burocrazie e partiti egemonici

(Ayubi 1980 e 2009). Questo vale in particolar modo per quei regimi di natu-

ra repubblicana (Kamrava 1998) che emergono in quella fase che Hinnebusch

(2006: 380) chiama di autoritarismo populista (“Populist Authoritarianism”;

PA) sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e Sessanta e fondata su un’“alleanza”

tra classi medie urbane emergenti, classe operaia e contadini a discapito delle

vecchie oligarchie. I regimi che persistono nella forma monarchica sviluppano

gli apparati militari solo in un secondo momento, in taluni casi tardivamente

(i regimi “rentier”5 del Golfo), e li sottomettono con successo, a volte non senza

difficoltà, alla Monarchia.

L’Egitto di Nasser, autore del colpo di Stato degli “ufficiali liberi” nel 1952, è

non a caso il punto di partenza dell’analisi del ruolo dei militari nella costruzione

dello Stato prima che dei regimi, specie in contesti dove inizialmente i partiti co-

stituiscono delle organizzazioni dalla debole capacità di mobilitazione (Khadduri

1953). A partire dal lavoro di Abdel-Malek (1962 [1968]), poi, la pervasività degli

uomini in divisa nella società, il loro ruolo sociale prima che politico vale il ti-

tolo di société militaire data da questo autore all’Egitto nasseriano. I militari sono

chiamati a rivestire un ruolo di modernizzatori nella “stratocrazia” egiziana di

Vatikiotis (1961 e 1968). Questo tipo di letteratura ancorata ai paradigmi della

modernizzazione – i militari come agenti di modernizzazione, la modernizza-

zione intesa per via burocratica come capacità dello stato, ecc. –, solidamente co-

struitisi anche attorno al ruolo dei militari “pretoriani” in contesti debolmente

istituzionalizzati o in ritardo di sviluppo (Huntington 1968; Pearlmutter 1969;

Nordlinger 1977), si spinge fino ai lavori critici più recenti sul ruolo dei mili-

tari come apparato che difende i propri interessi, tra tutti, quello di Abul-Magd

(2017) sulla “militarizzazione” dello Stato in Egitto. Come giustamente sottoli-

nea Cook (2007: 164) è poco importante la definizione di questi regimi, general-

mente chiamati “militari”, quanto lo è il ruolo dominante degli uomini in armi

nella costruzione dello stato e nella definizione del campo politico dove più o

meno autonomamente agiscono altri attori siano essi della società politica, di

quella economica o quella civile, ma in posizione subordinata.6

Dunque, se nel caso egiziano, l’evidenza del ruolo dell’apparato militare ha

spinto molto l’indagine accademica, ciò è avvenuto meno nel caso algerino.7 La

ragione sta nel prolungato ruolo politico del FLN, movimento di liberazione

5 Si v. a proposito Beblawi (1990).

6 Vista la subordinazione degli altri attori ma una loro relativa autonomia, questo genere di regimi militari ricadono nella tipologia “autoritaria” di Linz & Stepan (2000: 70) caratterizzata da “pluralismo limitato”.

7 V. anche Addi (2001: 162).

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173stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

dotato sì di una sua ala militare (ALN), ma pur sempre organizzazione politica

civile. Che poi l’ala militare domini il sistema politico algerino da Boumédiène

in poi non è stato sufficiente a qualificare il sistema come un autoritarismo

militare o dominato dai militari, nonostante alcuni lavori che ne evidenzino

il ruolo e che fanno dell’apparato militare oggetto di studio precipuo. Anche

un eccellente lavoro recente come quello di Werenfels (2007) sull’élite politica,

annovera quella militare tra le altre, pur assegnandone indirettamente una po-

sizione dominante ma non esclusiva. Più esplicito Cook (2007: 41), che stabili-

sce chiaramente come il sistema sia disegnato a beneficio dell’élite militare e i

suoi “alleati”, cioè l’élite politica ed economica, dove la seconda viene appunto

dopo. In particolare, con l’eccezione di Zartman (1972), Knauss (1980), Entelis

(1983) e Harbi (1985), prima del colpo di stato del 1992, i lavori che tendono a

qualificare il regime come “militare” o dominato da questi sono pressoché as-

senti, mentre dopo il 1992 vi è un incremento di lavori dedicati al tema anche

se essi tendono a concentrarsi negli anni Novanta poiché, l’ascesa alla presiden-

za di un profilo civile, quello di Bouteflika, mette in discussione la dominanza

dell’apparato militare.

Appurato che ogni autoritarismo si costruisce attorno ad una coalizione do-

minante, fatta di una burocrazia, in genere estesa, necessaria soprattutto al fun-

zionamento della macchina dello Stato e, in subordine, da interfaccia con i citta-

dini, mentre generalmente a questo ruolo è demandato un partito, dominante

o unico, ai militari e agli apparati di repressione, variamente articolati, viene

affidato il monopolio della violenza e le funzioni di controllo della società civile.8

Dentro la coalizione dominante le relazioni tra queste tre istituzioni (v. fig. 1)

8 Su questo punto si v. Morlino (2003: 54) e Acemoglu et al. (2008).

Figura 1I rapporti all’interno della coalizione di potere negli autoritarismi dominati dai militari

Fig. 1 I rapporti all’interno della coalizione di potere negli autoritarismi dominati dai militari

Le relazioni sono però anche complesse perché elementi dell’uno si ritrovano anche nell’altro. Ciò è

ben evidente tra partito e burocrazia che tendono a “fondersi”, poiché membri del partito tendono a

“colonizzare” la burocrazia, soprattutto nella fase storica che Hinnebusch (2006: 380) ha chiamato di

PA, così come vi è stata fusione tra partito e forze armate. Diverso il rapporto tra questi elementi nella

fase PPA (“Post-Populist Authoritarianism”; Hinnebusch 2006: 383-386) innescata dalla

liberalizzazione economica che vede un declino di capacità decisionale del partito a vantaggio di

tecnocrati che vanno ad occupare i vertici degli apparati burocratici e da questi vengono spesso

imposti ai partiti.10

Vi è dunque un possibile grado di “fusione” o compenetrazione tra apparati. Ciò non esclude rivalità

e autonomia, ma in genere fintantoché il sistema ha mantenuto un suo equilibrio a livello d’élite si è

mantenuta una coesione, altrimenti detta “intra-élite”.11 Come vedremo, quando invece il sistema è

stato messo in discussione, nei due casi a farne le spese è stato soprattutto il partito.

Come si diceva, è l’esercito l’agente principale dello sforzo di modernizzazione intrapreso dallo Stato

o su sua iniziativa. Se prendiamo come misura le spese dei governi centrali (sul PIL) (Owen 2004:

23-38), queste crescono in Egitto dal 18,3% del 1955 (poco dopo il colpo di Stato militare del 1952),

per raggiungere il 29,7% nel 1960 e ben il 55.7% nel 1970. Di conseguenza, l’apparato burocratico

stesso si incrementa del 161% nel decennio tra il 1961-62 e il 1970-71 (Harb 2003: 274). Sebbene

nel caso egiziano il livello di spesa si sia contratto durante gli anni Ottanta, in occasione della politica

di liberalizzazione economica inaugurata dal presidente Sadat (infitah), il peso della spesa centrale

rimaneva importante raggiungendo ancora nel 1992 il 57,5% (fonte: IMF). Durante gli anni 2000

circa 6 milioni di lavoratori erano impiegati dalla funzione pubblica (quasi il 10% della popolazione

e un terzo del totale degli impiegati) (UN-DPADM 2004).

10 Nel caso egiziano, la tecnocratizzazione, quanto meno dei governi, cominciò già sotto Sadat negli anni Sessanta (Abdel Malek 1968: 174-177). 11 Si v. a proposito Gerschewski (2013) e Croissant et al. (2014: 61).

FORZE ARMATE

BUROCRAZIA PARTITO

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174federico battera

sono necessariamente diseguali. Dal riesame storico dello sviluppo politico dei

due paesi possiamo cercare di “misurarne” qualitativamente il peso di ognuno.

È evidente però che la posizione dominante è quella assunta dagli apparati mili-

tari. Il fatto che questi in certi frangenti storici sembrino “ritirarsi” dalla politica

fino a creare delle “enclave” protette (Springborg 1998; Harb 2003: 269-290; Cook

2007: 14-31) e accentuando la loro “professionalizzazione” non cambia il dato di

fondo, sebbene quel ritiro possa aver determinato un aumento di autonomia e

per conseguenza, di potere, del partito o della burocrazia.9

Le relazioni sono però anche complesse perché elementi dell’uno si ritrovano

anche nell’altro. Ciò è ben evidente tra partito e burocrazia che tendono a “fon-

dersi”, poiché membri del partito tendono a “colonizzare” la burocrazia, soprat-

tutto nella fase storica che Hinnebusch (2006: 380) ha chiamato di PA, così come

vi è stata fusione tra partito e forze armate. Diverso il rapporto tra questi elemen-

ti nella fase PPA (“Post-Populist Authoritarianism”; Hinnebusch 2006: 383-386)

innescata dalla liberalizzazione economica che vede un declino di capacità deci-

sionale del partito a vantaggio di tecnocrati che vanno ad occupare i vertici degli

apparati burocratici e da questi vengono spesso imposti ai partiti.10

Vi è dunque un possibile grado di “fusione” o compenetrazione tra appara-

ti. Ciò non esclude rivalità e autonomia, ma in genere fintantoché il sistema ha

mantenuto un suo equilibrio a livello d’élite si è mantenuta una coesione, altri-

menti detta “intra-élite”.11 Come vedremo, quando invece il sistema è stato mes-

so in discussione, nei due casi a farne le spese è stato soprattutto il partito.

Come si diceva, è l’esercito l’agente principale dello sforzo di modernizza-

zione intrapreso dallo Stato o su sua iniziativa. Se prendiamo come misura

le spese dei governi centrali (sul PIL) (Owen 2004: 23-38), queste crescono in

Egitto dal 18,3% del 1955 (poco dopo il colpo di Stato militare del 1952), per

raggiungere il 29,7% nel 1960 e ben il 55.7% nel 1970. Di conseguenza, l’ap-

parato burocratico stesso si incrementa del 161% nel decennio tra il 1961-62

e il 1970-71 (Harb 2003: 274). Sebbene nel caso egiziano il livello di spesa si

sia contratto durante gli anni Ottanta, in occasione della politica di liberaliz-

zazione economica inaugurata dal presidente Sadat (infitah), il peso della spesa

9 Non si può concordare con Harb (2003: 277) là dove menziona che la demilitarizzazione del potere politico in Egitto avesse reso le forze armate “totalmente” subordinate a una leadership “civile” – la Presidenza – poiché quest’ultima è civile solo in apparenza rimanendo ancorata a un apparato militare che seppur manipolato e rimaneggiato da quella manteneva gli strumenti di intervento intatti, come si è poi evidenziato. Anzi l’apparente separazione vieppiù legittima i suoi interventi agli occhi dell’opinione pubblica. Nello stesso saggio, infatti, Harb (2003: 280), parla di “reciprocity” tra la Presidenza e l’apparato militare.

10 Nel caso egiziano, la tecnocratizzazione, quanto meno dei governi, cominciò già sotto Sadat negli anni Sessanta (Abdel Malek 1968: 174-177).

11 Si v. a proposito Gerschewski (2013) e Croissant et al. (2014: 61).

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175stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

centrale rimaneva importante raggiungendo ancora nel 1992 il 57,5% (fonte:

IMF). Durante gli anni 2000 circa 6 milioni di lavoratori erano impiegati dalla

funzione pubblica (quasi il 10% della popolazione e un terzo del totale degli

impiegati) (UN-DPADM 2004).

L’Algeria ottiene l’indipendenza solo nel 1962. Nel 1963, la spesa del governo

centrale (Owen 2004: 25) si situa intorno al 25,0%. Alla fine di quella decade (1969)

si proietta già oltre il 40% (42.8%). In mezzo vi è il colpo di Stato di Boumédiène

(1965). Cifre che vedranno un crollo nel corso degli anni Novanta-Duemila per

poi risalire nell’ultima decade fino ad oltre il 40% ed un settore pubblico che nella

decade 2005-16 copriva ancora oltre il 35% dell’impiego totale (IMF 2018: 3).

Risultati dunque simili tra i due paesi ma che derivano da una notevole varia-

zione nell’uso e nel peso della rendita, se pensiamo che nel caso algerino il set-

tore degli idrocarburi pesa molto di più12 mentre nel caso egiziano le fonti della

rendita sono più articolate e debbano cercarsi in parte nell’aiuto internazionale

(anche aiuto militare), in parte svincolato, e nel controllo del Canale di Suez13. È

anche nella gestione diretta, o indiretta, della rendita che si esercita il controllo

militare dello Stato, o è grazie ad essa che l’apparato militare si “svincola” dalla

tutela burocratica e guadagna in autonomia. Non più dipendente, esercita più li-

beramente la sua autorità sugli altri apparati dello Stato. È sempre a partire dagli

anni Cinquanta, nel caso egiziano, e negli anni Sessanta, nel caso algerino, che si-

milmente allo Stato, l’esercito si espande fino a raggiungere dimensioni notevoli

e una densità sulla popolazione in generale, intesa come rapporto tra personale

in divisa impiegato nelle forze armate, molto elevato. Per esempio, nel caso egi-

ziano si registravano oltre 800.000 uomini in armi (riservisti esclusi) riconduci-

bili alle forze armate agli inizi degli anni 2000 (circa uno ogni 84 cittadini; erano

180.000 nel 1966) (UN-DPADM 2004). Nel caso algerino erano oltre 330.000 al

2010 (Cordesman et al. 2010: 53), cioè circa uno ogni 97 cittadini. Questa espan-

sione si registra nel caso algerino negli anni Ottanta mentre risale+ alla fine degli

anni Sessanta nel caso egiziano.14

12 Stiamo parlando del 28% del PIL, 58% delle entrate governative e 98% dell’esportazioni (ISPI, “Algerian Hydrocarbon Sector struggles to meet expectations and country requirements”, marzo 2016), contro circa il 15% del PIL e il 40-50% dell’esportazioni per l’Egitto (Springborg 2012).

13 L’accesso al canale è controllato dalle forze armate, mentre la gestione diretta ricade sot-to l’autorità della Suez Canal Authority controllata direttamente o indirettamente sempre da membri delle forze armate (Springborg 2017: 199).

14 I militari egiziani passano da 180.000 a 460.000 tra il 1966 al 1984 a fronte di una crescita della popolazione del 10% (Gaub & Stanley-Lockman 2017: 22).

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176federico battera

Le relazioni all’interno delle coalizioni dominanti esaminate

storicamente

Di seguito viene rappresentata per i due paesi una sequenza storica utile a situare

le diverse fasi nello sviluppo politico dei due paesi, incentrata sulle presidenze.

La sequenza è una semplificazione nella successione poiché azzera le fasi di in-

terregno, in genere di brevissima durata. Per esempio, dopo il colpo di Stato del

generale el-Sisi nel luglio 2013, l’interim alla presidenza è stato assicurato per 11

mesi da Adly Mansour, già Vice-Presidente della Corte Suprema Costituzionale.

Più lunga, due anni, invece, la transizione della crisi algerina, dalle dimissioni/

destituzione di Bendjedid alla presidenza Zéroual.

Storicamente, la fase che Hinnebusch (2006) chiama PA coincide con le presi-

denze Nasser, nel caso egiziano, e Ben Bella/Boumédiène nel caso algerino. Sono

seguite da misure di liberalizzazione economica peraltro molto più incisive in

Egitto (la fase PPA di Hinnebusch) che anticipano di una buona decade quelle al-

gerine degli anni Ottanta.15 Da un punto di vista strettamente relativo alle poli-

tiche pubbliche ed economiche, quest’ultima fase – PPA – non si è ancora conclu-

sa, ma la diversa struttura dell’economia nei due paesi, dove la rendita derivata

dagli idrocarburi gioca un’incidenza maggiore nell’economia algerina, assicura

una leva di intervento pubblico molto più importante. In questo caso, non tale

da prefigurare un ritorno alla fase PA caratterizzata da un partito mobilitante

settori ampi della società in uno sforzo di modernizzazione, ma che denota una

distribuzione di risorse diversa tra settore pubblico e privato, prima importante

distinzione tra i due casi.

Accertato che le coalizioni dominanti sono in entrambi i casi costituite da un

triangolo al cui apice, come da Fig. 1 (v. sopra) troviamo le Forze armate (forze ar-

mate), restano da determinare le variazioni tra i due, innanzitutto nella posizione

della Presidenza. Questa è sempre occupata da qualcuno proveniente dai ranghi

delle forze armate in Egitto, se si esclude la breve parentesi dell’esperienza Morsi

(giugno 2012-luglio 2013), laddove nel caso algerino, tra le cinque presidenze

prese a riferimento solo le tre di mezzo escono dai ranghi militari – dalla presa di

potere da parte di Boumédiène (1965) alla fine della presidenza Zéroual (1999).

Da questa data, Bouteflika assume la presidenza per condurla fino ad oggi: pres-

soché un lungo ventennio. La distinzione non è priva di importanza. Bouteflika

certo deve la sua formazione all’FLN, il partito/movimento che conduce l’Alge-

ria all’indipendenza, ma pur militando nell’ALN, braccio militare dell’FLN, ha un

profilo civile, cresciuto però sotto la protezione di Houari Boumédiène. Ricopre

nei quattro governi di questa presidenza incarichi, quello più significativo di mi-

15 Un nuovo impulso alle privatizzazioni segue l’accettazione di un SAP (Structural Adjustment Program) nel 1993-94 al fine di beneficiare di una riprogrammazione del debito.

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177stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

nistro degli Affari esteri (dal 1963 al 1979). È costretto all’esilio sotto la presiden-

za Bendjedid nel 1981 con l’accusa di appropriazione indebita di fondi. Ritorna

in patria nel 1987 e nel 1989 è reintegrato nel Comitato centrale (CC) dell’FLN.

Eletto presidente della Repubblica nel 1999 con il 74% dei voti, durante elezioni

caratterizzate dal ritiro delle altre candidature e marcate dal pesante condizio-

namento delle forze armate (Garçon 1999), lo fa tuttavia in qualità di candidato

indipendente, seppure ottenga il supporto dell’FLN.

Rispetto al caso egiziano, dunque, nel caso algerino abbiamo l’emergere ai

vertici della Presidenza di un profilo civile a partire dal 1999 che acquista una

posizione durevole fino a marcare un ventennio cruciale, caratterizzato dalla fine

della guerra civile (ma non del terrorismo) e una raggiunta nuova stabilità.

Cook (2007: 73) al riguardo del caso egiziano parla di una “mutually reinfor-

cing relationship” tra la Presidenza e i vertici delle FFA. Condizione che dunque

sembra venire a mancare nel ventennio Bouteflika, nel caso algerino. In realtà,

essa si articola diversamente ma finisce per produrre disfunzioni, come la crisi in

corso fa emergere. Disfunzioni che in realtà indeboliscono la Presidenza contra-

riamente alle attese di molta letteratura pre-crisi, tra le molte Werenfels (2007).

1952- 1970- 1981- 2012- 2013-

NASSER SADAT MUBARAK MORSI SISI

ASU (dal 1962) NDP (dal 1978)

Figura 2Le successioni alla presidenza (Egitto)

1963- 1965- 1979-1992 1994- 1999-

BEN BELLA BOUMÉDIÈNE BENDJEDID ZÉROUAL BOUTEFLIKA

FLN RND (dal 1997) FLN e RND

Figura 3Le successioni alla presidenza (Algeria)

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178federico battera

Come si diceva sopra, la crisi di regime della fine degli anni Ottanta in Algeria

anticipa di un ventennio quella egiziana che esplode solo nel 2011. In Algeria, al

contrario, la crisi emerge già nell’ottobre del 1988 con le rivolte antigovernative,

le elezioni locali del 1990 vinte dal Fronte islamico di salvezza (FIS) con il 54%

dei voti (il doppio dell’FLN), dopo la transizione al multipartitismo del 1989, la

vittoria al primo turno alle elezioni parlamentari del 1991 (47% dei voti e vittoria

di 231 seggi su 430), il colpo di Stato del gennaio 1992 e lo scoppio della guerra

civile subito dopo per circa un decennio (con una stima di vittime che supera

le 100.000; Hagelstein 2008). La soluzione è una presidenza civile che in parte

oscura il ruolo dei militari, tanto che in letteratura il loro reale peso è fortemen-

te dibattuto (Werenfels 2007), e in cui il sistema partitico si ridefinisce, riacqui-

stando però un ruolo più importante in rapporto al caso egiziano. Esso rimane

però ancillare o subordinato rispetto al potere militare nelle modalità che vedre-

mo più avanti. Vero è che entrambe le crisi di regime se non ridimensionano il

potere, diretto o di veto, dei militari, ridimensionano il ruolo dei partiti e ridu-

cono o disintegrano, nel caso egiziano, il ruolo degli ex partiti unici/dominanti.

Dunque, quella fusione ai vertici tra sistema partitico e apparato militare non

solo si ridimensiona per effetto delle crisi di regime ma queste determinano una

crisi innanzitutto del partito dominante. Certo la crisi egiziana è troppo recente e

alla dissoluzione dell’NDP di Sadat e Mubarak non ha fatto seguito la creazione di

alcun partito dominante, malgrado le sollecitazioni di gruppi parlamentari egi-

ziani al riguardo.16 Sta di fatto che oggi, se nel caso egiziano non abbiamo più al-

cun partito di riferimento dell’apparato militare, verso i quali cioè le forze armate

giocano un ruolo d’influenza, nel caso algerino ne abbiamo due: l’FLN e l’RND

(Rassemblement National Démocratique), quest’ultimo fondato nel 1997 tra i soste-

nitori dell’allora presidente Zéroual eletto due anni prima senza partito. Tutti i

governi creati sotto la presidenza Bouteflika, hanno visto la partecipazione sia

dell’FLN che dell’RND (il primo ministro, Ahmed Ouyahia, in carica fino a marzo

2019, ne è segretario generale), che insieme costituiscono ciò che è nota dal 2009

come l’ “alleanza presidenziale” alle elezioni presidenziali del 2004, l’FLN non so-

stiene Bouteflika, ma Ali Benflis. Bouteflika diventa presidente onorario dell’FLN

immediatamente dopo, nel 2005.

Resta il fatto che vi è stata fusione tra partito e apparato militare nei due casi

fintantoché il sistema economico non si è liberalizzato, cioè non si è passati dalla

fase PA a PPA, quando mutano le funzioni dei partiti, da strumenti di mobilita-

zione a macchine clientelari.17 Per esempio, sia Boumédiène che Bendjedid rico-

16 “Pro-Sisi coalition considers forming political mega-party”, The Arab Weekly 06/05/2018.

Un raggruppamento si è poi effettivamente formato in Parlamento (“‘Support Egypt’ coalition sweeps Egypt parliament’s 25 committees”, Ahram Online 14/12/2018).

17 Sulla funzione mobilitante dell’FLN cfr. Werenfels (2007: 35).

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179stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

prono la carica di presidente dell’FLN, come questa sarà poi attribuita a Bouteflika

(carica onoraria). I segretari del partito che si sono succeduti dal colpo di Stato di

Boumédiène (dal 1965) hanno inevitabilmente tutti ricoperto un ruolo nell’ALN,

con l’eccezione forse di Mehri (segretario dal 1988 al 1996), ma questo si deve alla

specificità dell’indipendenza algerina e all’importanza del braccio militare del-

l’FLN. Salvo il caso di militari nell’ASU sotto Nasser, nel partito che lo sostituisce,

l’NDP, a partire da Sadat è fatto esplicito divieto ai militari di entrare nel partito

(Stacher 2012: 116).18 Questo svolge essenzialmente un ruolo di raccordo di tipo

clientelare tra regime e popolazione, volto alla creazione di consenso che si espli-

cita nel ricorrente ricorso alle urne, a partire dal 1979, in un contesto di elezioni

18 Sotto Nasser, sebbene i numeri siano in declino, la percentuale delle posizioni nella segre-teria dell’ASU affidate a militari sono sempre state importanti (dal 75% nel 1962 al 42,9% nel 1970 (Harb 2003: 274).

Fig. 4 I rapporti all’interno delle coalizioni di potere in Egitto e Algeria a seguito delle crisi politiche

FORZE ARMATE

BUROCRAZIA

EGITTO

Resta il fatto che vi è stata fusione tra partito e apparato militare nei due casi fintantoché il sistema

economico non si è liberalizzato, cioè non si è passati dalla fase PA a PPA, quando mutano le funzioni

dei partiti, da strumenti di mobilitazione a macchine clientelari.17 Per esempio, sia Boumédiène che

Bendjedid ricoprono la carica di presidente dell’FLN, come questa sarà poi attribuita a Bouteflika

(carica onoraria). I segretari del partito che si sono succeduti dal colpo di Stato di Boumédiène (dal

1965) hanno inevitabilmente tutti ricoperto un ruolo nell’ALN, con l’eccezione forse di Mehri

(segretario dal 1988 al 1996), ma questo si deve alla specificità dell’indipendenza algerina e

all’importanza del braccio militare dell’FLN. Salvo il caso di militari nell’ASU sotto Nasser, nel

partito che lo sostituisce, l’NDP, a partire da Sadat è fatto esplicito divieto ai militari di entrare nel

partito (Stacher 2012: 116).18 Questo svolge essenzialmente un ruolo di raccordo di tipo clientelare

tra regime e popolazione, volto alla creazione di consenso che si esplicita nel ricorrente ricorso alle

urne, a partire dal 1979, in un contesto di elezioni controllate e sostanzialmente non libere in cui è

ammessa la partecipazione di candidati “indipendenti” a volte cooptati dal partito o militanti in partiti

ammessi dal regime. Non è così nel caso algerino dove il sistema è a partito unico fino alla crisi del

1988-89. La crisi determina prima la liberalizzazione politica, poi, dopo l’intervento militare che

annulla le elezioni del 1992, una nuova costituzione (1996) fortemente limitante i partiti religiosi, un

nuovo fiorire di partiti, e il declino dell’FLN quale unico punto di riferimento dell’apparato militare,

al quale però è interdetta la partecipazione diretta alla vita partitica.

La trasformazione da PA a PPA, più estesa in Egitto – in Algeria comincia a realizzarsi una parziale

liberalizzazione economica sotto Bendjedid – comporta anche un’evoluzione della burocrazia, che

tende a svincolarsi dalla tutela partitica ma non da quella militare. A volte essa viene imposta ai

partiti, nel senso che tecnocrati di regime capaci vengono imposti ai partiti in posizione apicale.

Dunque, sono anche le coalizioni dominanti che mutano, nel senso che le crisi di regime determinano

17 Sulla funzione mobilitante dell’FLN cfr. Werenfels (2007: 35). 18 Sotto Nasser, sebbene i numeri siano in declino, la percentuale delle posizioni nella segreteria dell’ASU affidate a militari sono sempre state importanti (dal 75% nel 1962 al 42,9% nel 1970 (Harb 2003: 274).

FORZE ARMATE

BUROCRAZIA PARTITI

ALGERIA

FLN RND

Figura 4I rapporti all’interno delle coalizioni di potere in Egitto e Algeria a seguito delle crisi politiche

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180federico battera

controllate e sostanzialmente non libere in cui è ammessa la partecipazione di

candidati “indipendenti” a volte cooptati dal partito o militanti in partiti ammes-

si dal regime. Non è così nel caso algerino dove il sistema è a partito unico fino

alla crisi del 1988-89. La crisi determina prima la liberalizzazione politica, poi,

dopo l’intervento militare che annulla le elezioni del 1992, una nuova costituzio-

ne (1996) fortemente limitante i partiti religiosi, un nuovo fiorire di partiti, e il

declino dell’FLN quale unico punto di riferimento dell’apparato militare, al quale

però è interdetta la partecipazione diretta alla vita partitica.

La trasformazione da PA a PPA, più estesa in Egitto – in Algeria comincia a

realizzarsi una parziale liberalizzazione economica sotto Bendjedid – comporta

anche un’evoluzione della burocrazia, che tende a svincolarsi dalla tutela parti-

tica ma non da quella militare. A volte essa viene imposta ai partiti, nel senso

che tecnocrati di regime capaci vengono imposti ai partiti in posizione apicale.

Dunque, sono anche le coalizioni dominanti che mutano, nel senso che le crisi

di regime determinano il declino del ruolo del partito di riferimento o come nel

caso egiziano, la sua sparizione senza che nel frattempo si sia prodotto un suo so-

stituto, nonostante quello partitico rimane uno strumento importante di coopta-

zione e di eventuale controllo della classe politica da parte dell’apparato militare.

Tecnocratizzandosi, i governi vedono nel corso del tempo un venir meno del

numero di uomini in divisa in posizioni di governo, fatta riserva per due mini-

steri cruciali che sono la Difesa e gli Interni.19 Ciò nonostante, uomini in divisa

ricoprono sovente, almeno nel caso egiziano in maniera preponderante ruoli nel

governo locale (governatorati)20 e in alcuni apparati della burocrazia21. Per esem-

pio, Sayigh (2012: 12) riporta come malgrado esistano più agenzie di vigilanza e

controllo dell’attività amministrativa, quella più importante sul piano politico, la

AMA nel suo acronimo in inglese – Administrative Monitoring Authority – sia esclu-

sivamente fatta da personale di provenienza dalle forze armate. Sotto il regime di

19 Se nel 1967 i militari nei gabinetti egiziani oscillavano tra il 41% e il 66%, nel 1972 sotto Sadat erano già scesi al 22% (Harb 2003: 277-278). Una tendenza che si è poi accentuata per rag-giungere il 13% sotto l’ultimo Sadat (Cooper 1982: 144). Dopo il colpo di Stato di Boumédiènne, negli anni Sessanta, anche nei governi algerini fino a un terzo dei ministri sono uomini in arme (Quandt 1969: 251). Il ruolo istituzionale delle forze armate è inciso nella Carta nazionale del 1976 (Werenfels 2007: 34).

20 Nel 1964, sotto Nasser, su 26 governatori, 22 provenivano dai ranghi militari. Nel 1980, sotto Mubarak, erano 5 (Harb 2003: 275). Tuttavia, nel decennio 2000-2011, erano ridiventati il 44% (più un 20% di provenienza dalla polizia) (Bou Nassif 2013: 517). Tutti i governatori sono di nomina presidenziale. I governatori sono i veri dominatori della politica locale (Sayigh 2012: 13-14).

21 Non è così nel caso algerino, dove nella generalità dei casi i wali (governatori) delle wilaya (già dipartimenti dell’Algeria francese) vengono dal personale civile e sono di nomina politica, in buona parte di formazione nell’ENA, la scuola di formazione amministrativa nata sul model-lo francese.

Page 182: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

181stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

Mubarak serviva appunto per intimidire quei membri della burocrazia giudicati

troppo indipendenti dal regime.

Inoltre, se formalmente il ministero degli Interni ha un ruolo definito ri-

spetto a quello della Difesa e un personale distinto, la sua posizione è subor-

dinata.22 L’esistenza di corpi di polizia dipendenti dal ministero della Difesa

implica, infatti, una sovrapposizione di ruoli, ancor più evidente negli apparati

di intelligence (mukhabarat), mentre sovente ai vertici e nella burocrazie del

ministero degli Interni vengono chiamati uomini in divisa formati esclusiva-

mente nelle forze armate (Sayigh 2012: 15). Dunque è evidente una relazione di

dominio e/o controllo delle forze armate sulle forze di polizia. Ciò non esclude

che emergano delle frizioni come quelle ben documentate nel caso egiziano

(ICG 2012).

Con la transizione da PA a PPA, la business community ha acquisito potere e

influenza e potrebbe (seguendo Werenfels 2007) essere inclusa nella coalizio-

ne dominante ma la sua posizione in entrambi i casi è fortemente subordinata

ma secondo modalità diverse. Dato il minor rilievo del settore privato nel caso

algerino, qui la business community è molto debole. Al contrario, nel caso egizia-

no essa è robusta, ma vi è in questo caso un fenomeno che non ha eguali nel

caso algerino23: l’esercito è un produttore diretto di beni, cosa che altera pro-

fondamente certi settori del mercato e la business community egiziana sconta la

concorrenza sleale in alcuni settori, per esempio quello delle infrastrutture, di

imprenditori provenienti dal settore militare che beneficiano di trattamenti di

favore. Questo fenomeno è diventato macroscopico dopo il colpo di Stato del

2013 (Springborg 2017). Nel 2011, la business community egiziana perde il suo

appiglio diretto nel partito (l’NDP) attraverso la persona di Gamal Mubarak,

vice segretario del partito, figlio del presidente e lui stesso importante uomo

d’affari e canale diretto verso il vertice del regime. L’irruzione di un numero

crescente di businessmen ritiratisi dalle forze armate ne ha ridotto l’influenza.

Fenomeni simili in Algeria non hanno la stessa ampiezza ma è noto come qui la

business community debba fare riferimento non già a un partito e alle sue fazioni

ma direttamente alle fazioni nell’esercito o se il riferimento è un partito o una

sua fazione questa comunque fa capo a una fazione dell’esercito.24

22 In Egitto si annoveravano circa 1 milione e mezzo di dipendenti del ministero degli Interni (ICG 2011: 1) (non tutti questi sono evidentemente in divisa); in Algeria, tra i 130.000 e i 200.000 fanno parte della sûreté nationale (dipendenti ministero Interni).

23 Tra il 1997 e il 2010, 558 imprese di Stato sono state vendute o sono diventate joint ventures (Farah 2009: 54). Quando parliamo di business community ci riferiamo alla grande industria. Generalmente, la piccola-media impresa è stata assolutamente priva di potere di influenza (Pioppi et al. 2011: 20).

24 Vi è comunque un certo numero di ex funzionari di formazione militare del MALG – Ministère de l’armement et des liaisons générales – che faranno la loro entrata nel business nel corso

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182federico battera

La menzione del ruolo di Gamal Mubarak indica un grado di personalizzazio-

ne della politica che raggiunse il suo apice sotto la presidenza di Hosni Mubarak25

e non ha eguali in Algeria, questo sia per la minor rilevanza del settore priva-

to che del grado di collegialità all’interno dell’FLN e il dominio subito da questo

da parte del potere militare, fino alla crisi del 1988-89.26 Tuttavia, autori come

Brownlee (2002a e 2008: 51) che annoveravano l’Egitto di Mubarak tra i regimi

personalistici (o neo-patrimoniali), per il solo fatto della concentrazione di pote-

re economico e politico nelle mani della famiglia Mubarak sbagliano prospettiva,

poiché il “ri-trinceramento” dei militari non ha voluto dire rinuncia ad esercitare

potere.27 In entrambi i casi, stando il potere ultimo nelle forze armate, è all’inter-

no di queste che bisogna guardare e in entrambi i casi, malgrado l’esistenza di

fazioni, la direzione si è mantenuta collegiale, quantomeno nei momenti di crisi.

È quello che ci accingiamo a descrivere nel prossimo paragrafo.

Le forze armate: tra fazionalismo e salvaguardia del principio di collegialità

Cominciamo con il fornire alcuni dati sulle forze armate nei due paesi. Si tratta di

forze armate estese, la cui espansione è avvenuta contestualmente all’espansione

burocratica. Siamo in presenza di una forte “densità” militare, intendendo con

questa il rapporto tra uomini in armi e civili, un po’ più pronunciata nel caso

egiziano, ma comunque significativa per entrambi. I dati possono discordare,

ma si stimano in Algeria 147.000 militari (IISS 2014: 311-313) a cui si aggiungo-

no almeno 130.000 uomini inquadrati nella Gendarmerie Nationale che assume

compiti anche di polizia. In Algeria, la guerra civile ha comportato poi la crea-

zione nel 1997 di milizie locali – Groupes de légitime défense (GLD) – che agiscono

in coordinazione con l’esercito nelle aree rurali. Nel 2003 erano stimate a circa

degli anni Novanta (Garcon 1999: 346).

25 L’entrata di Gamal nel sistema-NDP comportò, non senza resistenze, l’emarginazione di altre fazioni nel partito (Stacher 2012: 114)

26 È sotto Boumédiène che l’FLN subisce il dominio dell’ANP (Bourrat 2012: 23). Un tentativo di riaffermare un dominio dell’FLN sull’apparato militare fu portato alla morte di Boumédiène sotto Bendjedid ma è stato fallimentare (Roberts 2007: 5).

27 Su questo punto cfr. Stacher (2007: 98). Secondo Stacher (2007: 99), l’aumento di concentra-zione di potere nelle mani della presidenza avviene dopo la rimozione da ministro della Difesa di Abu Ghazala, nel 1988. Da allora, Mubarak avrebbe promosso una graduale “depoliticizza-zione” dei quadri militari. Su questo punto si veda anche Springborg (1989: 98-104 e 118-123). Tuttavia, questo processo di “depoliticizzazione” non è chiaro né convincente. Se come tale si intende la separazione dal partito allora dominante, questa era già in atto sotto Sadat. Non è convincente poi se ci richiamiamo ad Huntington (1968: 194). Secondo questi in un contesto a bassa istituzionalizzazione, cioè di debolezza del potere politico, i militari sono gioco forza “politicizzati”.

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183stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

300.000 effettivi ridottisi alla metà nel 2010, venute meno le esigenze della lotta

anti-terrorismo (Cordesman et al. 2010: 53).

In Egitto, si annoverano circa 440.000 membri delle forze armate, di questi tra

il 65 e il 75% è costituito da coscritti (290-320.000; IISS (2016).28 Ma nel comples-

so le forze armate in Egitto impiegano un numero di persone superiore. A questi

si aggiungono circa 400-450.000 membri delle Central Security Forces (CSF; Al-Amn

al-Markazī), le cui funzioni sono quelle di affiancarsi alla polizia e sono poste alle

dipendenze del Ministero degli Interni.29 Nel complesso, questi numeri hanno

un valore importante perché dimostrano il grado di compenetrazione delle for-

ze armate nella società (Vatikiotis 1961; Abul-Magd 2017). Così facendo le forze

armate sono degli attori imprescindibili, portatori di interessi ben ancorati nella

società. Il dominio è tale che tende dunque ad estendersi alla società.

D’altra parte, in Egitto, i militari beneficiano di una forte autonomia di con-

trollo del proprio budget. Se da un lato è vero che il budget militare viene discusso

in base all’art. 203 della Costituzione, da un organo misto governativo-parlamen-

tare-militare, il National Defense Council (NDC), nel quale figurano anche membri

del Parlamento (lo speaker e i vertici di alcune commissioni parlamentari) è an-

che vero che il ruolo dei civili è solo di figuranti. È vero che vi fu declino tra il 2007

e il 2009, nelle spese generali per le forze armate, non a caso prima della crisi del

2011, ma dopo il colpo di Stato del 2013 si è registrato un aumento di due/terzi

delle importazioni d’armi tra il 2013-17 in rapporto al quinquennio precedente

(Fleurant et al. 2017). Secondo Parsons e Taylor (2011: 4), inoltre, il 41,6% delle

spese militari tra il 2006 e il 2009 (80% secondo Gaub [2014: 2], nel 2012) erano

coperte dall’aiuto americano e costituivano risorse aggiuntive extra budget, sulle

quali il Parlamento egiziano non aveva alcun controllo.30

Nel caso algerino viste le caratteristiche di rentier state più pronunciate, le

acquisizioni di materiale sono soprattutto fatte all’estero e non nella misura di

un aiuto militare. Ciò nonostante, la crescita delle spese militari anche in anni

di contrazione della rendita di idrocarburi dopo il 2008 dimostrano il grado di

orientamento dei militari nelle decisioni relative al budget della difesa, formal-

mente decise da un governo civile con il consenso parlamentare. Per esempio, la

28 Tenuto conto che circa 80.000 giovani egiziani entrano ogni anno nelle forze armate per espletare il servizio militare, l’effetto socializzante di queste nella società è importante (Gotowicki 1999: 107-109). Al contrario, la coscrizione è stata via via ridotta a partire dal 2003 nel caso algeri-no, dopo l’avviamento della cosiddetta “professionalizzazione” (Bourrat 2012: 31).

29 Il loro inquadramento è di tipo militare e sono considerate simili all’Arma dei Carabinieri, ma le chance di carriera in quest’arma sono limitate così come i salari. Per queste ragioni, nel 1986, le CSF sono state protagoniste di un sollevamento militare, poi represso dall’esercito.

30 La rilevanza dell’aiuto militare americano sulle spese militari egiziane era seconda solo a quella della Giordania, dove l’aiuto militare nello stesso periodo contava per il 47,3% (Parsons & Taylor 2011: 35).

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184federico battera

legge finanziaria del 2018 ha elevato a ¼ l’incidenza delle spese della difesa sul

budget totale (9,9 miliardi di dollari su 39,9 totali)31. Se guardiamo ai budget per

la difesa, quello algerino sopravanza quello egiziano (nel 2017, l’Egitto spendeva

poco più di 3 miliardi di dollari).

Prima di arrivare a una descrizione di come si struttura la distribuzione del

potere nelle forze armate, è necessario fornire alcune informazioni riguardo agli

organi che le presiedono. In Egitto, lo SCAF (Consiglio supremo delle forze arma-

te) è l’organo decisionale superiore presieduto dal Presidente della Repubblica. È a

questo organo e alla sua composizione che bisogna guardare. Lo SCAF ha presie-

duto sull’Egitto dopo la caduta di Mubarak, prima dell’elezione di Morsi, per più

di un anno (febbraio 2011 – giugno 2012) diretto allora da Mohammed Hussein

Tantawi, ministro della Difesa. È composto attualmente da 26 alti ufficiali ed inclu-

de oltre al ministro della Difesa (un militare), il Capo di Stato Maggiore delle forze

armate e i comandanti delle diverse armi, ed altri prominenti ufficiali. È un organo

che è chiamato a giocare un ruolo politico nelle situazioni d’emergenza. Fu fondato

da Nasser nel 1968 dopo la sconfitta del 1967. Morsi lo soppresse nell’evidente in-

tenzione di privare i militari di un organo politico formale, ma ciò non fu sufficien-

te ad impedire il colpo di Stato del 2013; esso è stato ricostituito dopo quest’evento.

Ora teoricamente non sarebbe più presieduto dal Presidente della Repubblica ma

dal ministro della Difesa, che dovrebbe essere nominato con l’approvazione del-

lo SCAF (art. 234 della Costituzione del 2014). In realtà, Sisi lo ha profondamente

rimaneggiato a partire dal 2013 (Gamal 2018), costringendo alle dimissioni ben

33 membri dalla sua riattivazione nel luglio 2013, non ultimo, Sedki Sobhi, mini-

stro della Difesa dal marzo 2014 a giugno 2018, violando probabilmente proprio

quell’articolo 234 che lo avrebbe dovuto proteggere (Gamal 2018: 2).32 Così facendo

non solo è stata alterata la composizione nello SCAF ma anche la catena di coman-

do, poiché di questo comitato fanno parte i comandanti di unità operative. Lo SCAF

è in definitiva, uno strumento di cooptazione e/o promozione dei quadri superiori

nell’organo decisionale, oggi forse il più importante; presidenza a parte, dunque,

l’entrata e l’uscita da questo organo offre una rappresentazione interessante del

conflitto interno. È qui che le forze armate raggiungono quel principio di collegia-

lità che è precondizione necessaria al loro ruolo di dominio politico. Mutandone

la composizione, al-Sisi ha voluto assicurarsene però la fedeltà, imponendo il suo

dominio. La promozione di Ahmed Zaki a nuovo ministro della Difesa rientra in

31 D. Khechib, “Why Algeria is Arming Itself Militarily?” 10/09 2018 (https://insamer.com/en/why-algeria-is-arming-itself-militarily_1613.html).

32 Dal 2013, solo tre membri dello SCAF hanno mantenuto il posto, il più importante fra loro il Ten. Gen. Mohamed Farid Hegazi, attuale capo di SM promosso nella posizione da quello di Segretario generale del ministero della Difesa. È l’unico che avrebbe l’autorità di muovere trup-pe sul terreno.

Page 186: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

185stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

questa fattispecie. Le mutazioni dal 2013 all’interno dello SCAF e nei quadri supe-

riori vedono la promozione di membri autorevoli della Guardia repubblicana, uni-

tà alle dirette dipendenze della Presidenza e non del Capo di Stato maggiore; una

garanzia di fedeltà in più.33

Secondo diversi autori, tra questi Parsons e Taylor (2011: 18), la cooptazione

è lo strumento di coesione più importante nell’esercito egiziano, insieme agli

ampi privilegi economici e alle cariche governative a cui è concesso di accedere

ai quadri superiori. Tuttavia, è proprio il ritmo di ricambio che in passato è stato

fonte di insoddisfazione dei ranghi intermedi (“second row”) nei confronti dei

flag officers (generali di divisione), minando quella coesione. Infatti, la cristalliz-

zazione dei ranghi superiori e il loro conseguente invecchiamento, impediscono

la redistribuzione delle posizioni e dei privilegi ritardando il ricambio. La “rivo-

luzione” del 2011 è stata perciò un’occasione importante di ricambio ai vertici, di

cui ha beneficiato lo stesso al-Sisi34. Tuttavia gli ampi rimaneggiamenti ai vertici

da parte dello stesso Sisi a partire dal 2013 non hanno avvantaggiato ufficiali più

giovani poiché i sessantenni sono stati sostituiti da coetanei giudicati più affi-

dabili e leali.35 La concentrazione dei privilegi potrebbe dunque alimentare un

nuovo risentimento (TI 2018: 16).

33 Anche la promozione di ufficiali legati alla Guardia repubblicana (altrove indicata come “Guardia presidenziale”) ha un precedente sia in Sadat (Harb 2003: 276), che in Mubarak con il caso del Gen. Tantawi (Brooks 1998: 39).

34 Nel 2011, secondo Parsons e Taylor (2011: 16), gli hard-liners si trovavano piuttosto tra i mi-litari più giovani e non tra la generazione di Tantawi, restia a reprimere la rivoluzione. Tuttavia furono proprio i più giovani poi a beneficiare di questa (al-Sisi era allora il membro più giovane nello SCAF), non appena la rivoluzione dette l’opportunità di sbarazzarsi della generazione più vecchia compromessa con Mubarak. L’età media dei membri dello SCAF nell’epoca dell’ultimo Mubarak era stimata intorno ai sessant’anni (ICG 2012: 18). Nonostante i rimaneggiamenti di al-Sisi, l’età media di oggi, dopo sette anni, non è più bassa. L’intervento ripetuto di al-Sisi nei confronti dello SCAF ricorda i rimaneggiamenti dei quadri superiori da parte di Nasser dopo la sconfitta del 1967, quando l’insieme die vertici militari fu sostituito da ufficiali completamente slegati dall’esperienza degli Ufficiali liberi (Harbi 2003: 276). Similmente, nel caso algerino, i “janviéristes” come sono conosciuti gli autori del colpo di Stato del 1992 e tra i più accesi “sradicatori” dell’opposizione islamica figurano non solo i membri più anziani della fazione “DAF” ma anche molti giovani (Bourrat 2012: 25). Le fazioni sono essenzialmente due: quella uscita dal maquis dell’interno e quella costituita dai disertori dell’esercito francese (DAF). Quest’ultima domina il sistema dalla crisi del 1989 al 2004, data della seconda elezione di Bouteflika, nonostante Zéroual venga dalla prima. È alla seconda che Boumédiène assegna l’organizzazione delle forze armate, in virtù delle loro capacità logistiche ed organizzative (Leveau 1993: 212). Si tratta infatti di far transitare l’ANL da movimento di guerriglia ad esercito nazionale (ANP) (Quandt 1972).

35 L’arresto nel gennaio 2018, alla vigilia delle elezioni presidenziali di marzo 2018, di Sami Hafez Anan, già capo di SM alla vigilia della rivoluzione del 2011, e dunque membro autorevole dello SCAF di allora, arresto compiuto dalle forze armate, poiché violava la disposizione che vie-ta la partecipazione a elezioni di membri delle forze armate anche se messi in riserva, colpisce una serie di alti ufficiali già dismessi o messi in riserva (Gamal 2018: 4).

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186federico battera

Anche l’Algeria è stata di fatto governata da un organo similare (l’Haut Comité

d’État) ma solo tra il gennaio 1992 e il gennaio 1994, in un momento critico della

storia repubblicana. Nel caso algerino, la collegialità si risolve più per via infor-

male. Il Presidente della Repubblica – Bouteflika – assume in sé anche le funzioni

di ministro della Difesa e questo ha intaccato il principio di collegialità, nel senso

che l’inevitabile competizione tra fazioni non si sarebbe più risolta all’interno

delle stesse forze armate ma avrebbe trovato un punto di sintesi altrove, cioè

nella carica civile della presidenza36. Questo è almeno quanto alcuni osservatori

(Werenfels 2007: 5537; Bourrat 2012) sottolineano. Merita indubbiamente soffer-

marsi su questo punto; benché la questione sia dubbia, dato che la salute precaria

di Bouteflika è stata certamente uno dei motivi che hanno portato al suo esauto-

ramento proprio da parte del CSM (Capo di Stato Maggiore) tra marzo e aprile

2019, oltre naturalmente alle pressioni della piazza.

Questo ruolo della presidenza civile è forse il fattore di distinzione più

importante del caso algerino rispetto a quello egiziano e deve alle specifici-

tà dello sviluppo politico in questo caso – lo Stato si sviluppa a partire da un

movimento nazionale (FLN) dotato di un braccio militare in posizione do-

minante (ALN) e non già da un colpo di Stato militare ai danni di un regime

monarchico –, ai rapporti tra partito ex unico e militari e può contribuire in

definitiva a disegnare soluzioni diverse alla crisi innescatasi recentemente. Le

specificità stanno in un lungo braccio di ferro tra fazioni nell’ANP (fino alla

presidenza Bouteflika), fazioni createsi durante la lotta per l’indipendenza e

cristallizzatesi nella sua immediatezza. Esse si alternano al potere e trovano

nella presidenza Bouteflika un punto d’equilibrio inizialmente insoddisfa-

cente. Tuttavia, è negli apparati di sicurezza, l’equivalente del mukhabarat egi-

ziano (v. sotto), qui DRS (Département du reinsegnement et de la sécuritè), che il

sistema trova il suo punto di forza, e dunque quel punto di sintesi, almeno

fino al 2016, nel senso che la cessione del potere presidenziale a un civile dopo

il 1999 determina la cessione della rappresentanza delle forze armate pres-

so il potere centrale alla DRS.38 Ed è proprio infatti grazie al rapporto con la

DRS che Bouteflika riesce ad emergere come punto di equilibrio del sistema,

36 Malgrado la ripetuta menzione dell’esistenza di fazioni nell’ANP, lo studio della Werenfels (2007: 36) incentrato sulla core élite algerina enumera tra questa l’intera sommità delle forze ar-mate fino alla crisi del 1989. È in essa che è assicurata la collegialità. Va aggiunto che il conflitto tra fazioni in Algeria, ben evidente al pubblico negli anni novanta perché veicolato attraverso i mass media, è di nuovo diventato opaco a partire dal 1999 (prima presidenza Bouteflika) (Addi 2006: 143).

37 Werenfels (2007: 186), per la precisione quando menziona “la Presidenza” si riferisce all’in-sieme costituito dal Presidente e i suoi consiglieri (anche militari).

38 L’intelligence militare viene fondata durante la guerra d’indipendenza. Diventa sotto Boumédiène nel 1962, DCSM (Direction centrale de la Sécurité Militaire), per divenire nel 1990

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187stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

perché puntellato da questo (Bourrat 2012: 29). In rapporto al caso egiziano

(v. sotto), la DRS è più centralizzata (Bourrat 2012: 32-34), nel senso che non

sconta rivalità da parte di altri apparati. Anche se i suoi quadri vengono dai

ranghi militari, sono questi a prevalere sui vertici delle forze armate nelle de-

cisioni principali e non viceversa, almeno fino al 2016. Va aggiunto che, pari-

menti alla lunga stagione Bouteflika (1999-), la DRS è l’unica istituzione sotto

la stessa direzione dal 1990 al 2016, quella di Mohamed Mediene “Toufik”. Al

contrario, i vertici dell’esercito sono via via soggetti a rimaneggiamenti, in

particolare il CSM, che rimane ciò nonostante un soggetto decisivo, mentre

anche la Difesa (Ministero della) è formalmente controllata dalla Presidenza

sotto Bouteflika come del resto avveniva sotto Boumédiène e Bendjedid (fino

al 1990)39 (v. Fig. 5). Da notarsi però che salvo nel caso di Boumédiène che dal

1967, dopo il tentativo del colpo di Stato di Zbiri, allora CSM40, assomma in sé

la figura di Presidente della Repubblica e de facto ministro della Difesa e CSM,

tutti i CSM sono imposti dall’apparato militare collegialmente alla Presidenza,

anche se essa è fatta da militari (Bendjedid e Zéroual)41. Il cambiamento avvie-

ne a partire dalla seconda presidenza Bouteflika (2004-09). Ma l’imposizione

di un dominio del Presidente sarebbe un’interpretazione erronea, poiché non

tiene conto del ruolo della DRS42.

Per quanto riguarda la DRS, questa viene certamente ridimensionata nel

gennaio del 2016, con il pensionamento del Gen. Mediene, e la sua trasfor-

mazione in DSS (Département de surveillance et de sécurité), separata dalle forze

armate e posta sotto la direzione della Presidenza. Ma questa separazione è

probabilmente incompleta, come la sottomissione alla Presidenza dubbiosa;

piuttosto la liquidazione del potere di “Toufik”, se ridimensiona il ruolo della

DRS riporta al centro il CSM, come del resto era fino al 2004, in equilibrio allora

con la DRS.43 Gli stessi ampi licenziamenti militari portati da Bouteflika nell’e-

DRS. La sua onnipresenza giustifica il titolo del libro del giornalista Sifaoui, “Histoire secrète de l’algérie indépendante. L’Etat-DRS”.

39 Tuttavia sotto Bouteflika viene creato un ministro delegato presso il Ministero della Difesa dal 2005. Naturalmente si tratta di un militare: Abdelmalek Guenaizia, dal 2005, unico sfuggito all’epurazione dei DAF dopo il 2004, e poi affidato a Ahmed Gaїd Salah, della fazione opposta dal 2015.

40 La carica di CSM è una creazione di Houari Boumédiène nel 1960 e segue la trasformazione dell’ALN in ANP (Armée Nationale Populaire), la vittoria di Boumédiène sull’ala politica dell’ALN e la sua conseguente crescente professionalizzazione e autonomia dal partito.

41 Non solo, nel caso di Bendjedid, questi è costretto nel 1990 a cedere la difesa all’allora CSM Khaled Nezzar.

42 Su questo punto v. anche (Roberts 2007: 11).

43 Alla direzione del DSS è assegnato Othman “Bachir” Tartag fino ad allora sottoposto a Toufik. I suoi rapporti con Gaїd Salah sono però conflittuali come dimostrano nel 2016 alcune

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188federico battera

PRESIDENZA ANNI DIFESA CSM

NASSER 1956-70

AMER (1956-62)AL BISHRI (1962-66)

BATRAN (1966-67)HOWEIDI (1967-68)

FAWZI (1968-71)

VARI (6)

SADAT 1970-81

FAWZI (1968-71)SADEK (1971-72)

ISMAIL ALI (1973)EL GAMASY (1974-78)HASSAN ALI (1978-80)

BADAWI (1980-81)

VARI (5)ABU GHAZALA (1980-81)

MUBARAK 1981-11ABU GHAZALA (1981-89)

ABU TALEB (1989-91)TANTAWI (1991-2012)

VARI (6) (1981-2005)ANAN (2005-12)

MORSI 2012-13 SISI (2012-14) SOBHI (2012-14)

SISI 2014-SOBHI (2014-18)

ZAKI (2018-)HEGAZY (2014-17)

FARID HEGAZY (2017-)

Figura 5b Le cariche di ministro della Difesa e di Capo dello Stato Maggiore (Egitto)

PRESIDENZA ANNI DIFESA CSM

BEN BELLA 1963-65

BOUMÉDIÈNE 1965-79 BOUMÉDIÈNE BOUMÉDIÈNE (1967-79)*

BENDJEDID 1979-92BENDJEDID (1979-90)

NEZZAR (1990-93)VARI (1984-90)

GUENAIZIA (1990-93)MOHAMED LAMARI (1993-2004)

GAЇD SALAH (2004-)

ZÉROUAL 1994-99 ZÉROUAL (1993-99)

BOUTEFLIKA 1999-19BOUTEFLIKA (DAL 2002)

Guenaizia (2005-13)Gaїd Salah (2013-)

* In realtà nel 1967, il CSM viene abolito. Di fatto, data la concentrazione di potere nelle mani di Boumédiène le sue funzioni sono ricoperte da questo.

Figura 5a Le cariche di ministro della Difesa e di Capo dello Stato Maggiore (Algeria)

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189stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

state del 2018 è dubbio che siano stati una sua decisione autonoma, impossi-

bilitato com’era per ragioni di salute, ma riconducibili piuttosto alla lotta di

successione in seno al potere, che vede primeggiare l’attuale CSM, Gaїd Salah,

in opposizione al direttore della DSS, Othman Tartag44, dimessosi poi conte-

stualmente a Bouteflika nell’aprile 2019.

Negli equilibri di potere all’interno delle forze armate una certa importan-

za è ricoperta dalla regione dove stazionano le principali unità. Entrambi i pae-

si sono divisi in zone militari. Va premesso che da un lato l’Egitto è impegnato

nel controllo delle frontiere e gran parte delle sue unità stazionano ad est verso

Israele, oltre ad essere direttamente impegnate nel Sinai, dove è in corso da anni

un’importante insorgenza. L’insorgenza in Algeria è presente ovunque nella par-

te settentrionale, sulle montagne dell’Atlante, ma più marcata verso il confine

con la Tunisia, inoltre la porosità delle sue frontiere, in particolare verso il Mali

e la Libia è più importante. Detto questo, però, va precisato che cruciali unità sta-

zionano nelle capitali. In Egitto, a Heliopolis (il Cairo) stazionano 24.000 uomini

nella Guardia repubblicana al diretto comando del presidente della Repubblica

non del CSM. È l’unica unità ammessa al Cairo ed è chiaramente volta a proteg-

gere la Presidenza. In Algeria, la guardia repubblicana ha numeri molto più ri-

dotti – 1.200, secondo Cordesman et al. (2010: 88) – e non sembra giochi un ruolo

particolare nelle dinamiche interne all’esercito. La sua marginalità è forse dovuta

alla natura civile del potere presidenziale. Al contrario, nel caso egiziano l’accento

posto a un suo ruolo è certamente dovuto a una postura difensivista in rapporto

al resto delle forze armate del potere presidenziale, rivestito come stabilito sopra

da un uomo in divisa.

Di cruciale importanza gioca lo stato delle relazioni delle forze armate con le

altre agenzie. Il ministero degli Interni, ma soprattutto le agenzie di intelligen-

ce45. Dell’Algeria si è già detto. Nel caso egiziano, va detto che i militari spesso

hanno ricoperto cariche importanti sia nel ministero degli Interni sia dell’intel-

ligence.46 Quest’ultime fanno capo a tre agenzie, e non una come nel caso algeri-

no. Una ha compiti strettamente militari (Military Intelligence and Reconaissaince

Administration [MIRA]), una dipendente dal ministero degli Interni, oggi deno-

minata in inglese National Security Agency (fino al 2011 la famigerata State Security

Investigations Service), che impiega fino a 200.000 agenti e il cui vertice precedente

è stato nominato nell’estate del 2018 ministro degli Interni (Mahmoud Tawfik),

estromissioni nel DSS di ufficiali vicini a Gaїd Salah. Con la caduta di Bouteflika, Tartag ne ha fatto però le spese.

44 “Alger, une guerre souterraine féroce entre services secrets”, Mondafrique, 12 Oct. 2018.

45 Kamrava (1998: 69) li definisce mukhaberat states.

46 Nell’ottobre del 2017 vi fu un ampio rimaneggiamento anche nel ministero degli Interni a seguito di un attentato nel deserto libico.

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190federico battera

e, l’agenzia più importante di tutte, la General Intelligence Directorate (GID; Gihaz

El Mukhabarat El ‘Amma), semplicemente nota al pubblico come mukhabarat.47

Questa è un’agenzia costituita da militari che riportano direttamente al presi-

dente della Repubblica. La GID fu diretta dal 1993 al 2011, dal Gen. di divisione

Omar Suleiman, a lungo indicato come un possibile successore a Mubarak e di

fatto braccio destro di questi. Dal giugno 2018 la direzione è stata assunta dal

Gen. di Divisione Abbas Kamel. Kamel viene dallo Stato maggiore dell’esercito

(SME) che ha diretto dal 2014. La GID opera all’interno del paese ed è vista come

una voce importante dell’apparato militare nelle questioni interne (Parsons &

Taylor 2011: 18)48.

Dunque, possiamo ragionevolmente sottolineare che anche in questo modo

in Egitto si è ribadito un dominio militare su entrambi, Interni e intelligence

e che quella relazione speciale tra forze armate e presidenza – la mutually rein-

forcing relationship di Cook (2007: 73) – mantiene inalterato il principio di colle-

gialità malgrado la concentrazione di potere nella presidenza, che diventa una

sorta di primus inter pares. Se è vero che sotto Mubarak il bilancio del ministero

degli Interni finì per eguagliare quello della Difesa (Sayigh 2012: 6-7) questo fu

compensato dalla crescita di funzioni di personale militare nel ministero degli

Interni (Sayigh 2012: 5). Ciò non ha escluso tensioni tra i due, come le vicende

della rimozione di Mubarak ai vertici dimostrano, ma esse si sono sempre risol-

te a favore delle forze armate ed ogni iniziativa da parte delle forze di polizia di

rendersi autonome, iniziative non a caso tentate dai quadri inferiori sono state

efficacemente contrastate (Abdelrahman 2016: 14).

Il caso algerino, invece, conosce alcune variazioni. Del dominio della DRS

si è detto sopra. Se è poi indubbio il dominio delle forze armate sugli Interni,

tuttavia a partire dal 2004 la DRS cede alcune prerogative nella lotta al ter-

rorismo agli Interni (Bourrat 2012: 31), ma il ministro titolare del dicastero,

almeno fino al 2013, è un uomo uscito sempre dalla sicurezza militare. La dis-

soluzione della DRS, nel 2016, e la sua sostituzione in DSS, che è un organo di

coordinamento dell’intelligence formalmente dipendente dalla Presidenza, è

stato anticipato dal trasferimento della sicurezza militare, nel 2013, al CSM

de l’ANP (Bourrat 2018: 26). In altre parole, la DRS perde il dominio sulle forze

armate, viene ridimensionata anche in rapporto al Ministero degli Interni,

tutto a vantaggio della Presidenza e del CSM. Vi è stata, dunque, una sintonia

47 Mahmoud Tawfik ha un curriculum interamente di provenienza dal ministero degli Interni.

48 “Orient XXI” (“Pourquoi le président Abdel Fattah Al-Sissi a peur”, 1/4/2918) riporta che sotto il regime di al-Sisi la GID sarebbe stata ridimensionata a vantaggio della MIRA che si ve-drebbe così attribuiti ruoli di intelligence interna, ma probabilmente non è così dopo la promo-zione di Abbas Kamel ai suoi vertici.

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191stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

di quest’ultimo con la Presidenza. Tuttavia, si è già detto dell’inopportunità

di considerare le forze armate dominate dalla presidenza. In sostanza, il CSM

e di conseguenza l’ANP, braccio principale delle forze armate, ne hanno gua-

dagnato in autonomia, rispetto l’una (la Presidenza) e l’altra (l’intelligence).

Il ruolo delle risorse

Si è da più parti insistito sul carattere “rentier” dei regimi arabi e di come que-

sta condizione fosse avversa all’instaurazione della democrazia. Questa natura

rentier del regime è più evidente nel caso algerino, dato il peso delle estrazioni

nell’economia generale in rapporto al caso egiziano, tuttavia questa raffigura-

zione trascura l’importanza dell’aiuto internazionale. Nel caso dell’Egitto il peso

dell’aiuto non è trascurabile. Si tratta di enormi risorse finanziarie dirette allo

Stato, in larga parte di provenienza dai paesi del Golfo, in particolare Arabia sau-

dita ed Emirati Arabi Uniti49, e aiuti militari, provenienti in massima parte dagli

Stati uniti e quest’ultimi gestiti direttamente extra budget dall’apparato militare

egiziano, senza alcun controllo parlamentare.50

La questione, infatti, è quale dimensione hanno le risorse direttamente ge-

stite dall’apparato militare, poiché questo è un indicatore aggiuntivo dell’auto-

nomia delle forze armate in rapporto al potere civile (burocrazia, esecutivo e

parlamento). Da quanto a nostra conoscenza, questo grado di autonomia è più

pronunciato o più evidente nel caso egiziano, mentre l’opacità è maggiore nel

caso algerino. Detto questo, va anche aggiunto che la liberalizzazione dell’eco-

nomia, in particolare sotto il regime di Mubarak, ha largamente beneficiato

anche le forze armate (Sayigh 2012: 7). I militari (ritirati) possono avere le pro-

prie attività di business; benefici a cui si accede solo in base a comprovata lealtà

(Sayigh 2012: 5).

In Egitto, il ruolo diretto dei militari in alcuni settori economici era stretta-

mente legato, inizialmente, al problema di assicurare un’autosufficienza in rap-

porto al procurement (approvvigionamento militare), per cui fu creata un’agenzia,

la NSPO51. Oggi, però, si stima il controllo di settori civili dell’economia da parte

49 L’aiuto saudita ed emiratino è cresciuto, non a caso, dopo il 2013 (Springborg 2017: 189).

50 Tra il 1979 e il 2003, l’Egitto ha ottenuto qualcosa come 19 miliardi di dollari in aiuto milita-re dagli Stati uniti. Gli aiuti militari americani furono congelati inizialmente sotto la presiden-za Obama a causa degli abusi dei diritti umani, ma ripresi già a partire dal 2014 quando furo-no sbloccati 1,3 miliardi di dollari in linea con le medie annuali dell’aiuto militare americano. Simili somme sono state recentemente sbloccate dal segretario di Stato Mike Pompeo (“US to release $1.2 billion in military aid to Egypt”, The Associated Press, 9 set. 2018).

51 Fondata nel 1979, NSPO sta per National Service Products Organization (NSPO). Il suo budget è indipendente da quello del ministero della Difesa (TI 2018: 8-9). La NSPO controlla direttamen-

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192federico battera

dei militari fino ad un 30-40% (Parsons & Taylor 2011: 20), sia attraverso le con-

trollate (21 imprese) dalla NSPO ed altre istituzioni create con lo stesso scopo che

società proprietà di singoli militari.52 Questo controllo ha portato inizialmente

alla creazione di enclave economiche che sono poi partite alla conquista di settori

dominanti beneficiando di una posizione di oligopolio.

Come in altri regimi autoritari dove il controllo delle licenze è uno strumen-

to detenuto dal potere per condizionare la classe economica, il fatto di avere un

controllo, come avviene oggi sotto il regime di al-Sisi, o una rappresentanza di-

retta nel potere, come avveniva sotto Mubarak, ha facilitato la creazione di una

business community di formazione militare molto più competitiva di quella civile

e che in parte minaccia o soppianta quest’ultima in alcuni settori, specie quelli

più promettenti, anche grazie ad un regime di esenzione fiscale (TI 2018: 11).53

Non si tratta solo di opportunità economiche aggiuntive per militari ritirati, ma

è parte di un sistema di potere e di un sistema clientelare perché consente alla

business community di formazione militare di impiegare direttamente quadri e

personale militare, spesso in maniera opaca, contribuendo non poco ad altera-

re quel requisito di professionalizzazione nelle forze armate che è direttamente

connesso ad una separazione delle funzioni.54

Questo problema, che emergerà in prospettiva nel caso egiziano a misura

della “militarizzazione” della società, di cui l’occupazione della business commu-

nity da parte di personale militare è un evidente segno, è meno pronunciato nel

caso algerino, dove la separazione è più netta, almeno dopo la gestione Bendjedid

(Werenfels 2007: 35), sebbene qui la debolezza della business community locale

non derivi tanto dall’invasione di questo spazio da parte di militari, quanto dalla

forza relativa dell’apparato economico pubblico (El Mestari 2018). Qui i milita-

ri sono meno presenti direttamente sebbene la business community algerina

necessiti dei suoi sponsor nell’apparato militare.55 Nel caso algerino, è il settore

te imprese impegnate nella costruzione di infrastrutture, cibo e agricoltura, nel settore chimi-co, turistico, energetico e molti altri. È in particolare il settore infrastrutturale dove agiscono queste imprese. Da sola inoltre, l’industria della difesa egiziana impiega circa 100.000 persone (Harb 2003: 278-279).

52 Dalla National Authority for Military Production, all’Arab Organization for Industrialization, e l’Armed Forces Engineering Authority (TI 2018: 9).

53 J. Boukhari, “Mainmise des généraux sur le ciment égyptien”, Orient XXI, 20 nov. 2018.

54 Secondo Barfi (2018: 31), la promozione di una business community militare da parte di al-Sisi è anche dovuta al sospetto con la quale viene vista quella civile da parte del nuovo regime militare per le sue responsabilità indirette nella caduta del regime di Mubarak.

55 Correttamente Werenfels (2007: 64) annovera la business class algerina tra l’“élite rilevan-te”, ma il suo potere d’influenza è limitato e derivato. Nonostante i suoi rappresentanti maggio-ri si siano associati nel 2000 nella FCE (Forum des Chefs d’Enterprise) essi agiscono tutt’al più come lobby nei circuiti di potere.

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193stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

degli idrocarburi a dominare la scena economica attraverso la Sonatrach socie-

tà pubblica creata già nel 1963. La Sonatrach è incaricata della ricerca, trasfor-

mazione e commercializzazione degli idrocarburi. Spesso al centro di indagini

giudiziarie, è noto il ruolo cruciale di arricchimento delle élite, anche militari,

attraverso di essa (Werenfels 2007: 50).

Nel caso algerino, essendo che il procurement, date le maggiori disponibilità fi-

nanziarie, è stato generalmente risolto attraverso acquisti all’estero, in particola-

re ex Unione sovietica, ciò ha comportato un minor interesse diretto verso il set-

tore economico.56 Tuttavia, sia Bourrat (2012: 33) che Martín Munoz (1999: 92)

sottolineano anche qui il ruolo di regolatore della gestione della rendita petroli-

fera insieme al procurement da parte della onnipresente DRS molto più che l’ANP,

a partire quantomeno dalla fine degli anni Novanta; in altre parole, dalla prima

presidenza Bouteflika. C’è da chiedersi se il ridimensionamento della DRS a par-

tire dal 2016 a vantaggio dell’ANP non abbia comportato un trasferimento di que-

sti vantaggi direttamente al CSM e/o l’ANP nei suoi vertici. Ma di fatto, questi

sono dettagli, resta che anche il settore pubblico è dominato nelle sue scelte da

uomini in divisa, qua e là infiltrati o con potere di influenza e veto, non di meno

dal settore privato la cui autonomia incarnata da associazioni come il Forum des

Chefs d’Enterprise è solo di facciata.57

Partiti ed elezioni in un sistema dominato dall’apparato militare

In un sistema così dominato da uomini in divisa, quale ruolo giocano elezioni

e sistema partitico? La loro posizione ancillare merita una seppur breve tratta-

zione? La risposta non può essere che affermativa se non altro per ribadire che,

seppure subordinati, elezioni e sistema partitico, laddove esistenti (non è più il

caso sotto il regime di al-Sisi in Egitto), servono essenzialmente a due scopi: a)

mantenere all’esterno una parvenza di legittimazione democratica58, e b) assicu-

rare un certo margine di cooptazione del personale e della società civile. D’altra

parte, raramente i militari governano da soli se non nelle fasi di transizione, essi

giocoforza hanno bisogno di demandare a personale civile alcune funzioni es-

senziali di governo. Potrebbero al limite non necessitare di partiti ancella (questo

sembrerebbe il caso del regime di al-Sisi oggi), ma anche questo, potrebbe sem-

brare essere una soluzione solo transitoria.

56 Al contrario l’Egitto si distingue per una certa produzione su licenza e l’assemblaggio (Gaub & Stanley-Lockman 2017: 31).

57 Nell’aprile del 2019, le forze di sicurezza hanno arrestato Ali Haddad, presidente dell’FCE, con l’accusa di frode e corruzione.

58 Su questo punto cfr. Szmolka (2006).

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194federico battera

Va detto che l’Algeria è stato un sistema a partito unico (l’FLN) dalla fondazio-

ne (1962) fino alla crisi del 1989. Ciò è dovuto al ruolo che il partito/movimen-

to era demandato a svolgere: mobilitare la società in funzione di un progetto

“rivoluzionario” teso a realizzare uno Stato. Dopo l’interludio seguente al colpo

di Stato del 1992, introduce un multipartitismo limitato (il vincitore del primo

turno delle elezioni parlamentari del 1991, il FIS, è fuori legge) con le elezioni

presidenziali del 1995, che vedono la vittoria del candidato “indipendente”, il

Gen. Liamine Zéroual (in seconda posizione arrivò il candidato del partito isla-

mista moderato ammesso, Mahfoud Nahnah dell’MSP/Hamas). A partire dalle

elezioni parlamentari del 1997, il sistema si struttura su due partiti principali,

che finiscono per costituire delle coalizioni. All’FLN reintegrato nelle sue funzio-

ni di partito cardine, sebbene non più unico partito di riferimento dell’apparato

militare, si aggiunge l’RND (Rassemblement National Démocratique), costituitosi

nel 1997 tra i sostenitori di Zéroual. I diversi partiti di riferimento religioso en-

trano ed escono dalle coalizioni governative fino a costituire un’alleanza d’oppo-

sizione in occasione delle elezioni del 201259. Da allora soffrono, guarda caso, di

un declino elettorale60. Nell’ultima legislatura (2017-), il blocco governativo può

controllare, dunque, una maggioranza assoluta del 56,5% in Parlamento (nella

misura di 161 seggi per l’FLN e 100 per l’RND)61.

Come si diceva, in questo tipo di sistema le elezioni svolgono un ruolo di rac-

cordo fra il sistema di potere e i cittadini e la società civile. I partiti sono chiamati

a svolgere una funzione di interfaccia. Si ribadisce, dunque, che le elezioni non

sono libere né fair e tutt’al più la competizione è ammessa solo fra i partiti pro-

sistema, nel caso algerino FLN e RND. La conseguenza è un turn out basso (35,4%

in Algeria nel 2017). Il sistema favorisce poi una iper-frammentazione partitica

tra i partiti d’opposizione (in Algeria più di 50 partiti in Parlamento) o un pro-

liferare di candidati indipendenti (specie nel caso egiziano; in Algeria erano il

6,1% in Parlamento), facilmente cooptabili su issues singole. Non dimentichiamo

che entrambi i sistemi sono iper-presidenzialisti e la gran parte della legislazio-

59 Il nome dell’alleanza è Alliance de l’Algérie verte costituita dai partiti Hamas (MSP), Ennahda e Islah. Poteva contare nella legislatura del 2012 su un controllo del 10,6% dei parlamentari. L’alleanza non ha retto e nelle elezioni parlamentari del 2017 il risultato migliore tra i partiti islamisti è stato quello dell’MSP-FC, nato dalla fusione tra Hamas e il Front du Changement (insie-me controllano il 7,4% del Parlamento).

60 Che le elezioni siano orientate dal potere e il risultato manipolato più o meno ampiamen-te è dovuto al ruolo giocato dal Ministero degli Interni nel processo elettorale e dall’apparato amministrativo locale da esso dipendente che sovrintende alle operazioni di voto (Werenfels 2007: 57; International IDEA, https://www.idea.int/data-tools/country-view/97/54). Esiste una commissione elettorale cosiddetta indipendente (HIISE) ma di nomina interamente presidenziale.

61 Non è un caso che l’FLN sia più robusto dell’RND, unica eccezione le legislative del 1997, quando Zéroual era presidente.

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195stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

ne avviene tramite decreti governativi. Il sistema partitico è pesantemente infil-

trato dall’intelligence che agisce anche da controllore. Per esempio lo spazio di

manovra delle correnti islamiste esistenti nell’FLN sono regolarmente limitate o

circoscritte dall’intelligence (Bourrat 2018: 27)62. I sistemi sono poi bi-parlamen-

tari (l’Egitto lo ridiventerà a breve per effetto del referendum dell’aprile 2019),

esistendo una camera alta in buona parte di nomina presidenziale che ha essen-

zialmente le funzioni di limitare e controllare ancora di più il ruolo della camera

bassa eletta63. Tuttavia i parlamenti esistono perché i parlamentari discutono i

budget e, su issues di natura essenzialmente clientelare, partiti o singoli candidati

possono orientare il voto in una direzione piuttosto che un’altra.

Diverso lo sviluppo in Egitto. Il colpo di Stato degli “Ufficiali liberi” abolisce il

debole sistema partitico precedente e instaura nel 1962 un sistema a partito unico

(ASU). Questo si riforma a partire dal 1976 sotto la presidenza Sadat instaurando

un sistema a partito dominante (NDP, fondato nel 1978 con lo scioglimento dell’A-

SU). La particolarità del sistema elettorale egiziano è il ruolo giocato dai candida-

ti indipendenti. L’“indipendenza” di questi non solo è il paravento per candidati

moderati legati alla Fratellanza Musulmana, ufficialmente non ammessa nel gioco

(Ghanem e Mustafa 2011), ma diventa lo strumento precipuo di negoziazione per

fazioni perdenti dell’NDP. Escluse dalle candidature ufficiali, esse entrano o escono

da posizioni di forza. Questo perché il sistema di potere ammette un certo grado di

libertà al voto, pur sottoponendo alle candidature un controllo stretto. Non aven-

do l’NDP la stessa legittimità dell’FLN in Algeria, dunque, l’“indipendenza” di certe

candidature è ammessa o addirittura promossa, fino al paradosso del regime di al-

Sisi, dove circa il 59% dell’intera camera bassa (Maglis El Nowwab) è costituita da

indipendenti e il partito più robusto – si tratta del Free Egyptian Party, fondato nel

2011 – non raggiunge l’11%64. In un sistema dove il processo elettorale è controllato

a “monte” – con uno stretto controllo delle candidature più che sulla partecipazio-

ne – più che a valle, attraverso brogli, gli eletti sono dunque indotti a collaborare e

dunque a farsi cooptare, la varietà della composizione parlamentare non ha alcun

riflesso sul potere, ma da tutt’al più un’idea del posizionamento di alcuni settori

cruciali, anche popolari, nelle dinamiche di potere sottostanti. La rappresentanza

62 Ma lo stesso vale per l’altro partito pro-sistema – l’RND – che esclude al suo interno correnti islamiste. Secondo Roberts (2007: 15), dentro questi due partiti tutte le fazioni nella struttura del potere vi sarebbero rappresentate, ma sarebbero controllate dai comandanti militari attra-verso la direzione della DRS.

63 In Algeria è il Consiglio della Nazione, per un terzo di nomina presidenziale e per il resto nominata dagli enti locali. Werenfels (2007: 69) lo definisce un “parcheggio” di ex alti funziona-ri o l’anticamera per giovani politici e diplomatici in attesa di incarichi governativi.

In Egitto, fu abolita nel 2014. La nuova consisterà di 120 eletti e 60 di nomina presidenziale.

64 Sotto il regime di Mubarak, l’apice degli indipendenti fu raggiunto nelle elezioni del 2005 con 112 eletti su 454 (25%). 88 di questi erano Fratelli Musulmani.

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196federico battera

ha dunque una funzione di lobby presso il potere. Non va sottovalutata, ma va ri-

marcata la sua totale subordinazione.

Resta, infine, da chiedersi come mai un regime autoritario a dominio milita-

re come quello algerino tolleri o favorisca l’esistenza di un bi-partitismo di rife-

rimento. Esso rappresenta non dimentichiamo un unicum in regimi di questo

tipo. La risposta sta probabilmente nelle specificità del sistema politico algerino

e cioè: a) da un lato due partiti di riferimento mantengono una parvenza di mul-

tipartitismo funzionale a una narrativa di tipo democratico; b) il calo di legittimi-

tà dell’ex partito unico – FLN – causa la crisi dell’’89 ha richiesto l’esistenza di un

possibile sostituto65; tuttavia, c) questi non si è imposto poiché diviene il partito

di riferimento di Zéroual, dunque di una delle due principali fazioni nell’appa-

rato militare di allora (v. n. 34). Il dualismo partitico soddisfa dunque anche il

gioco di fazioni nell’apparato militare, impedendo che una fazione predomini

sulle altre, mantenendo allo stesso tempo una base di reclutamento lievemente

differente.66

Le relazioni civili-militari nei due regimi: variazioni di una trama similare

Alla luce di quanto descritto, si possono trarre alcune conclusioni importanti. Vi

è innanzitutto una continuità significativa del ruolo politico dei militari in en-

trambi i paesi. Essa può variare di intensità nel tempo e anche nel rapporto con il

potere civile, ma non cessa mai di essere presente. Anche la crisi recente algerina,

sul quale caso non ci si è soffermati poiché contestuale alla stesura di questo ela-

borato, dimostra le difficoltà di venire a capo di una presenza essenziale, che al

momento sopravvive alla crisi del regime. Cade la sua testa – la presidenza civile

di Bouteflika – ma sopravvivono i vertici militari che si sbarazzano della dirigen-

za dell’intelligence, rivale negli anni di Bouteflika.

Ma proviamo a porre l’accento sulle variazioni tra i due sistemi. L’elemento

più evidente è la posizione defilata dell’esercito algerino rispetto al potere civile

65 Secondo Addi (2006: 148), la nascita dell’RND è promossa dalla gerarchia militare per la sua irritazione nei confronti delle iniziative di pace promosse da Sant’Egidio e approvate dall’FLN. I passaggi da un partito all’altro sono comunque continui da parte del personale politico come di quello amministrativo in cerca di opportunità di arricchimento, specie a livello locale. Addi (2006: 149-150) li qualifica come partiti dell’“amministrazione”. La concorrenza fra loro è una concorrenza in termini di influenza, funzionale però al controllo esterno giocato dall’apparato militare.

66 Nonostante il calo di legittimità, l’FLN rimane comunque un canale di mobilitazione e re-distribuzione di favori con una base più ampia dell’RND, che si limita ad essere solo “partito dell’amministrazione”, grazie al controllo da parte dell’FLN di alcune organizzazioni, in parti-colare: l’Union Générale des Travailleurs Algériens, l’Union Nationale des Paysans Algériens e l’Organi-sation Nationale des Moudjahidines.

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197stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

che non si ritrova nel caso egiziano. Fatta eccezione per la troppo breve parentesi

di Morsi, non a caso rapidamente conclusasi, i militari in Egitto tornano al pote-

re e in forze, occupando gangli vitali dell’economia. La stessa demilitarizzazione

sotto Mubarak viene in parte rimessa in discussione fatta eccezione per il profilo

generalmente civile dei dicasteri.

Approcciamo dapprima il fattore meno decisivo, dove però le variazioni

sono importanti: il rapporto con il sistema partitico. In entrambi casi, il siste-

ma partitico è invariabilmente dominato dall’apparato militare. La variazione

sta nel peso attribuito ai partiti. Passiamo dunque, da un sistema a partito do-

minante, nel caso egiziano sotto il regime di Mubarak, a un sistema pressoché

privo di partiti significativi nella nuova stagione segnata dalla presidenza di

al-Sisi. Nel caso algerino, da un partito unico (FLN) fino alla crisi del 1989 a un

multipartitismo controllato dall’apparato militare che si struttura su due par-

titi di riferimento (FLN e RND). La variazione appare di relativa importanza,

ma a uno sguardo più attento rivela una particolarità del sistema algerino non

priva di effetti dopo la caduta di Bouteflika. Se è vero che il mantenimento di

una parvenza di maggiore democraticità, e di conseguenza di rappresentatività

del sistema algerino unita alla scelta di una presidenza civile pur manipolata

esclude la classificazione dell’Algeria tra i sistemi democratici o di difficile clas-

sificazione democratica (ibridi), nondimeno forza le scelte dell’apparato mili-

tare algerino nel caso di crisi, come si sta manifestando oggi, all’interno di un

rotta segnata dalla costituzione, limitandone il potere d’arbitrio. Ciò non sarà

privo di conseguenze, in prospettiva.

La definizione di “enclave” (Cook 2007: 14-31) del potere militare algerino è

dunque più appropriata, mentre lo è meno nel caso egiziano. I militari in Egitto

occupano posti importanti nell’apparato burocratico, sia nelle funzioni di con-

trollo che di governo locale, mentre in Algeria agiscono solo indirettamente con

un potere di influenza e probabilmente di veto. La distinzione non è marginale. Il

potere è più indiretto, dunque più confinato e limitato. Lo stesso vale in rapporto

all’arena economica come si è evidenziato.

Nell’introduzione si è poi posto l’accento sul principio di collegialità. Anche

questa ha dimostrato di essere più solida nel caso egiziano. Vi è un organo che

la regola, lo SCAF. Mentre in Algeria, un organo simile, l’HCE, ha cessato di fun-

zionare con l’elezione di Bouteflika nel 1999. L’esistenza di un organo collegiale

è di estrema importanza nella regolazione del conflitto tra fazioni e genera-

zionale all’interno degli apparati militari. È vero che i ripetuti interventi di al-

Sisi sui vertici militari e quindi sulla composizione dello SCAF, nonché il suo

crescente affidarsi ai quadri cresciuti nella Guardia presidenziale indicano una

postura difensivista verso altri elementi (fazioni) militari, ma questo carattere

personalistico è rivelatore di una posizione non ancora solida, poiché recente

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198federico battera

(cinque anni) e non si può affermare abbia intaccato seriamente il principio di

collegialità.67

Un altro fattore del quale è stato importante definire il reale peso è la que-

stione del fazionalismo, poiché è evidente il suo effetto negativo sul principio di

collegialità. Altrimenti indicato come patrimonialismo o personalizzazione del

potere (Brownlee 2002a e 2008) e in parte riconducibile a lealtà di tipo familiare/

regionale/di clan ecc. Per definizione, ogni autoritarismo concentrando il potere

in poche mani favorisce degenerazioni di questo tipo. Tuttavia qualificare i due

regimi in oggetto come “personali” o “patrimoniali” ci è sembrato fuorviante.

Né il lungo potere di Mubarak, gli ampi spazi di potere lasciati al figlio Gamal,

né eventuali promozioni nelle forze armate di congiunti o militari più vicini

alla presidenza (Parsons & Taylor 2011: 18), possono condurci a definire quello

egiziano come un sistema strettamente personalistico, negli anni di Mubarak.

L’esito della transizione egiziana post-“rivoluzione” è evidente: la “dinastia” cad-

de ma dopo una parentesi di due anni fu soppiantata da un altro regime mili-

tare.68 Stesse considerazioni per il regime algerino, dove pure le connessioni di

tipo regionale/clanico sono state storicamente più importanti (Werenfels 2007:

34 e 142) e malgrado negli ultimi anni i media riportassero l’importanza giocata

dal fratello del presidente Bouteflika – Said – ai vertici del potere.69 Questi regimi

rimangono saldamente ancorati all’apparato militare, il quale a sua volta non è

mai completamente egemonizzato da un’unica persona.

Questa coerenza dell’apparato militare la si ritrova nella posizione di dominio

anche in relazione ad apparati di sicurezza cruciali come l’intelligence, general-

mente conosciuti come mukhabarat. Sono note le loro funzioni apicali all’interno

dei regimi militari arabi (Kamrava 1998), ma nel caso egiziano essi rappresenta-

no ancora, piuttosto, la longa manus del potere militare che si esercita in funzioni

di polizia sulle diverse arene, politica, economica, e nei confronti del potere giu-

67 Per la precisione, contrariamente alle precedenti presidenze di Nasser e Sadat, Mubarak si distinse poco per la rimozione dei vertici delle forze armate, fatta eccezione per le dimissioni di Abu Ghazala da ministro della Difesa, contando molto più sul generare opportunità economi-che e di potere ai militari ritirati (Bou Nassif 2013: 516). D’altra parte, Nasser dovette far fronte a ben cinque sollevazioni militari nel corso del suo regime. Dunque con al-Sisi si ritornerebbe a una posizione più difensivista.

68 Similmente, la promozione nell’estate del 2018 di Mahmoud, figlio di al-Sisi, a generale di brigata e a vice del GID, sarà certamente dovuta più al legame con il padre che al merito, peraltro rafforza il controllo presidenziale sul GID, ma non è abbastanza per poter definire il regime come un regime personalistico. Hassan al-Sisi, un altro dei suoi figli, che anch’esso rico-pre incarichi nel GID è sposato con la figlia del Gen. Mahmoud Hegazy, capo di SM tra il 2014 e il 2017. Ciò nonostante ciò non impedì le dimissioni di Hegazy dalla potente carica e dalla sua sostituzione.

69 Werenfels le intende però essenzialmente come dei “corridoi” per il potere più che vere solidarietà di tipo sub-etnico.

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199stabilità, regimi e il fattore militare in nord africa

diziario.70 Il caso algerino presenta in relazione a questo fattore una variazione

importante. Nel ventennio di Bouteflika, il mukhabarat (è d’uopo nel caso algeri-

no il singolare) non è già subordinato al potere militare, ma con questo, pur pro-

venendo dagli stessi ranghi, costituisce una diarchia, vincente nel conflitto tra

fazioni fino alla messa in pensione di Mediene nel 2016. Poi declinante, nel bien-

nio finale del ventennio Bouteflika, per emergere come il grande perdente per

effetto della messa in discussione del regime. Emerge dunque ancora l’esercito,

questa volta saldamente nelle mani di un unico uomo – Gaїd Salah – in un’epoca

segnata dal venir meno di un conflitto tra fazioni che risaliva all’epoca dell’indi-

pendenza. C’è da domandarsi, in attesa che emerga una nuova leadership civile,

se questi sviluppi uniti alla professionalizzazione crescente dell’esercito algerino

determineranno il mantenimento in una posizione di “enclave”, favorevole non

solo a un ritorno di un potere civile ma a un’ingerenza via via decrescente e di

conseguenza a una transizione di tipo democratico. Di ciò è lecito dubitare.

70 Sull’uso esteso della giustizia militare nei confronti dell’opposizione v. Brownlee (2002).

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209

Pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia. Istituzionalizzazione e persistenza dei regimi politici

GIUSEPPE IERACI

Introduzione

Nell’epoca della democratizzazione che stiamo attraversando desta ancora mol-

to interesse scientifico il tema dei rapporti tra il potere militare e quello civile,

nonché lo studio delle condizioni della persistenza dei regimi politici e del loro

cambiamento. Da un lato, le nuove democrazie si dimostrano fragili. Un recente

studio mostra che nel periodo 2000-2009 il 46% dei colpi di stato nel mondo han-

no riguardato la democrazia, una percentuale che sarebbe doppia rispetto a quel-

la del secolo precedente. Gli autori di questi colpi sono i militari, che sarebbero

molto sensibili al livello della spesa per gli armamenti e propensi ad un atteggia-

mento più neutrale quando questa aumenta oltre i livelli medi (Powell, Faulkner,

Dean e Romano 2018). Questa spiegazione è naturalmente troppo semplicistica

per essere accolta, perché nasconde il problema della stabilità della democrazia e

suppone che il solo variare della spesa possa spiegare l’intervento dei militari in

politica. Inoltre, questa interpretazione trascura quella che a ragione è stata defi-

nita la “sindrome della democrazia debole” (Haggard e Kaufman 2016).1

1 “Il fallimento è molto più spesso attribuibile a ciò che abbiamo chiamato la ‘sindrome della democrazia debole’: un insieme di fattori economici e politici che includono esperienze di pre-

Page 211: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

210giuseppe ieraci

Dall’altro lato, alcuni autoritarismi mostrano una persistenza sorprendente.

Una quindicina di anni fa, un articolo di Eva Bellin avanzava una lettura influen-

te sull’autoritarismo nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa e la difficoltà

della democratizzazione in quell’area (Bellin 2004). Bellin sosteneva che “la so-

luzione al puzzle del Medio Oriente e l’eccezionalità nordafricana risiede meno

nei prerequisiti assenti della democratizzazione e più nelle condizioni attuali

che promuovono un autoritarismo robusto, in particolare nella presenza di un

apparato coercitivo robusto in questi stati. La volontà e la capacità dell’appara-

to coercitivo dello Stato di sopprimere l’iniziativa democratica hanno inibito la

possibilità di transizione” (Bellin 2004: 143). Sebbene in quei paesi non vi fossero

le condizioni per la democratizzazione (una società civile forte, un’economia di

mercato, livelli adeguati di reddito e alfabetizzazione, paesi vicini democratici e

cultura democratica), quegli stati autoritari si sono dimostrati capaci di supera-

re la disaffezione di massa dal regime ricorrendo al potere coercitivo.2 Dunque,

dopo Theda Skocpol (1979), anche Bellin sostiene che la rarità degli eventi rivolu-

zionari nel mondo contemporaneo sia dovuta alla capacità dello Stato di ricorre-

re ai mezzi di coercizione e di mantenere il monopolio su di essi.

L’interesse per questa tesi, come meglio vedremo, sta nelle prospettive che

apre sui rapporti tra militari e potere civile, perché il legame tra militari e civili

sembra essere favorito nei regimi patrimoniali, cioè laddove l’esercizio del pote-

re è personalistico e avvantaggia determinati gruppi sociali. Questa saldatura tra

il potere militare e quello patrimoniale, esercitato da una élite civile sostenuta

da gruppi specifici, costituirebbe la condizione della persistenza o stabilità dei

regimi non democratici.

Mi propongo nel prosieguo di analizzare criticamente questa tesi e di avan-

zarne una ad essa alternativa. In primo luogo, affronterò il tema delle relazioni

tra civili e militari nei regimi cosiddetti pretoriani. Dirò come il dibattito attorno

al pretorianesimo si sia talvolta confuso tra la professionalizzazione del corpo

militare e l’istituzionalizzazione politica. Questi due aspetti sono le facce di una

stessa medaglia, ma serve tenerli distinti, in quanto la professionalizzazione ri-

manda al problema organizzativo del corpo militare mentre l’istituzionalizza-

zione comporta l’analisi delle relazioni con gli altri poteri presenti nel regime,

torianesimo, debole istituzionalizzazione e un rendimento economico scadente, esso stesso un prodotto dello scadimento della governance” (Haggard e Kaufman 2016: 4).

2 Il ruolo centrale dei fattori politici nelle transizioni democratiche è stato recentemente an-che richiamato da Haggard e Kaufman (2016, 3): “Sul piano teorico, cerchiamo d’indirizzare la discussione sulle transizioni verso la democrazia e dalla democrazia, spostandola dalle spiega-zioni strutturali, che enfatizzano il livello dello sviluppo economico e l’ineguaglianza sociale, nuovamente verso interpretazioni più politiche, basare su fattori quali la natura delle istitu-zioni autoritarie e democratiche, il rendimento del regime e le capacità di azione collettiva da parte della società civile”.

Page 212: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

211pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

in particolare con il potere civile. La conclusione alla quale tenterò di giungere

su questo primo aspetto è che il grado di professionalizzazione del corpo mili-

tare non è molto rilevante per spiegare il pretorianesimo, più di quanto lo sia

invece l’istituzionalizzazione del regime politico e quindi l’autonomia della sfera

politica.

In secondo luogo, discuterò il caso del potere patrimoniale, che nei regimi

non-democratici è indubbiamente pervasivo e si serve di canali organizzativi

molto efficienti come il partito politico, la burocrazia di stato e gli apparati, in-

fine anche il corpo militare. Tuttavia, se – come vedremo – il patrimonialismo

indica un uso “privato” del potere, questo è un fenomeno presente inevitabil-

mente in ogni regime, anche quello democratico, per quanto varino molto il

grado e l’estensione di questo fenomeno. Queste variazioni, come argomen-

terò, dipendono anche qui dal grado d’istituzionalizzazione del regime, per-

ché il patrimonialismo può essere contenuto se il potere politico è fissato in

ruoli e procedure come meglio avviene nelle democrazie se confrontate con le

“non-democrazie”.

La tesi centrale di questo scritto è che il potere militare, o comunque il ruo-

lo degli apparati di coercizione e di violenza, e il potere patrimoniale nelle loro

manifestazioni sono pervasivi della politica sempre, perché nella prospettiva

qui adottata la politica è collegata inevitabilmente all’esercizio della violenza o

alla sua minaccia e all’esercizio del potere, cioè alla capacità di far fare qualcosa a

qualcuno o ottenere qualcosa da qualcuno. Tuttavia, queste due inclinazioni del

potere politico, verso la coercizione e magari la repressione e verso il suo uso pri-

vato, possono essere molto limitate se agiscono le istituzioni politiche. Laddove

il livello dell’istituzionalizzazione politica è basso, l’opportunità per il potere mi-

litare d’invadere la sfera politica è concreta, quando se ne creino le condizioni.

Analogamente, l’esercizio “privato” del potere è più facile e più probabile nei re-

gimi a bassa istituzionalizzazione, perché il suo esercizio non è collegato a ruoli

e procedure ben definite e controllabili. Il pretorianesimo e il patrimonialismo

sono due sindromi dei regimi a bassa istituzionalizzazione politica.

I regimi pretoriani e le relazioni civili-militari

Abbiamo accennato alla tesi di Bellin (2004), secondo la quale la sopravvivenza

dei regimi autoritari dipende dalla “presenza di un apparato coercitivo robusto”.

Ameno quattro variabili inciderebbero sulla “robustezza” dell’apparato coerci-

tivo di un regime: l’efficienza dell’apparato fiscale; il mantenimento di reti di

sostegno internazionali; il livello basso d’istituzionalizzazione dell’apparato co-

ercitivo, che resta organizzato in senso patrimoniale; e infine il livello basso di

Page 213: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

212giuseppe ieraci

mobilitazione popolare. Come si vede, Bellin collega esplicitamente il livello bas-

so d’istituzionalizzazione con l’organizzazione di tipo patrimoniale e specifica

che sussisterebbe una relazione inversa tra il livello d’istituzionalizzazione e la

volontà dei militari di reprimere le iniziative di riforma. “Quanto più l’apparato

di sicurezza è istituzionalizzato, più è disposto a disinteressarsi del potere e a

favorire il procedere della riforma politica. Viceversa, quanto meno istituziona-

lizzato esso è, tanto meno sarà incline alla riforma” (Bellin 2004: 145). In questo

modo, nei regimi con un apparato coercitivo a base patrimoniale, il livello basso

d’istituzionalizzazione di questo costituirà un incentivo a impedire o reprimere

ogni tentativo di riforma.

Guardando alle recenti crisi politiche e alle rivolte popolari nei paesi del

Medio Oriente e del Nord Africa, in particolare Tunisia, Libia, Egitto e Siria, Bellin

ha sostenuto che il livello di istituzionalizzazione degli apparati di sicurezza e il

livello di mobilitazione popolare sono stati due fattori decisivi. Di fronte a un

livello molto alto di mobilitazione popolare, gli apparati coercitivi scarsamente

istituzionalizzati (e quindi organizzati patrimonialmente) di Libia e Siria hanno

reagito, reprimendo le iniziative di riforma e trascinando i due paesi in un bagno

di sangue, mentre gli apparati coercitivi molto istituzionalizzati di Tunisia ed

Egitto hanno raggiunto un accordo con i riformatori e alla fine li hanno sostenuti

nella transizione e negli sforzi di canalizzazione pacifica della mobilitazione po-

polare. Infatti, “laddove l’apparato coercitivo è istituzionalizzato, l’élite degli ap-

parati di sicurezza ha un senso d’identità corporativa separata da quella statale”,

e “si distingue per l’impegno verso una qualche missione nazionale più ampia e

funzionale al bene pubblico” (Bellin 2004: 145-146). La Primavera Araba avreb-

be mostrato che: “Se l’apparato coercitivo è organizzato in modo patrimoniale

piuttosto che essere istituzionalizzato, è probabile che sia meno ricettivo all’idea

di cambiamento perché è più probabile che le riforme si rivelino per esso una

‘rovina’” (Bellin 2012: 129).

L’interpretazione di Bellin è paradigmatica dell’approccio corrente al tema del

rapporto tra militari e politica, che enfatizza il ruolo delle variabili organizzative

interne agli apparati militari e di sicurezza, ciò che è comunemente detto il loro

grado d’istituzionalizzazione. Sebbene questa interpretazione sia coerente e fo-

calizzi l’attenzione sul legame stretto tra l’azione politica e il ricorso potenziale

ai mezzi di coercizione da parte degli attori che vi prendono parte, non di meno

essa è discutibile.

In primo luogo, l’istituzionalizzazione dell’apparato coercitivo non progre-

disce da sola e separatamente da altri aspetti dell’istituzionalizzazione politica,

tra i quali quelli intrinsecamente connessi alle componenti di base di qualsiasi

regime come la struttura dell’autorità, le regole e procedure e infine i valori

fondanti (Easton 1965). Se vale l’idea che l’istituzionalizzazione degli appara-

Page 214: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

213pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

ti di coercizione favorisca la loro separazione dalla sfera politica, questa sepa-

razione resta comunque condizionata dal livello d’istituzionalizzazione delle

strutture di autorità, delle regole e dei valori. In altre parole, gli apparati di co-

ercizione “istituzionalizzati” tendono a non interferire con la sfera politica se

anche questa è istituzionalizzata. Laddove l’autorità politica è mal definita e così

regole e procedure politiche, non si può escludere che vengano offerte ad altri

poteri le opportunità per “invadere” la sfera politica. Nei termini di Huntington

(1968a), si può ipotizzare che se le istituzioni politiche non sono generalmente

percepite come valide e stabili (cioè, se non sono istituzionalizzate), regole e

procedure possono essere manipolate per soddisfare interessi o convenienze,

così reprimere brutalmente qualsiasi espressione non autorizzata dell’identità

sociale e culturale può risultare agevole facendo appello agli apparati di coerci-

zione che rispondano ad élite politiche facilmente permeabili. Se la sfera poli-

tica non è istituzionalizzata, al pari di quella militare-coercitiva, allora questa

può “invadere” quella.

In secondo luogo, l’ipotesi di Bellin della “robustezza dell’autoritarismo”

(Bellin 2004) e la sua riconsiderazione alla luce degli eventi della cosiddetta

Primavera Araba (Bellin 2012) presentano qualche elemento d’incongruenza.

Come richiamato più sopra, l’ipotesi suggerisce che sopravvivenza e stabilità

degli autoritarismi stiano nella volontà e nella capacità dell’apparato coercitivo

dello Stato di sopprimere l’iniziativa democratica. Nei termini degli assiomi di

Dahl (1971: 15), in questi regimi i costi della tolleranza superano quelli della re-

pressione e dunque il regime è molto tentato di non tollerare l’opposizione quan-

do questa si manifesta. Sennonché nel 2011 gli autoritarismi “robusti” entrano

in crisi, ma falliscono i loro tentativi di reprimere i sollevamenti popolari e di

salvare il regime. Quale delle due? La “robustezza degli autoritarismi”, basata sul

controllo patrimoniale degli apparati di coercizione, è la variabile che spieghe-

rebbe la persistenza degli autoritarismi o solo la loro propensione a ricorrere alla

repressione? Si tratta di due ipotesi con implicazioni diverse.

La tesi che voglio avanzare può apparire un po’ ardita, alla luce delle tendenze

molto radicate della letteratura storico-politologica. Ribaltando la prospettiva di

Bellin, Stati o regimi che devono la loro sopravvivenza ai loro apparati coercitivi

e, in ultimo, alla possibilità di farvi ricorso contro gli oppositori, non sono “robu-

sti” ma invero deboli e suscettibili di cadere, comunque si mantengono in condi-

zione d’instabilità politica endemica (Ieraci 2013a, 2013b). Il grado d’istituziona-

lizzazione dell’apparato coercitivo (nel modo com’è inteso correntemente) non

fa molta differenza circa la propensione di questo a intervenire nella sfera poli-

tica, come mostra l’incongruenza del ragionamento della Bellin. Infatti, accanto

all’istituzionalizzazione dell’apparato coercitivo occorrerebbe considerare anche

il livello dell’istituzionalizzazione politica del regime e la struttura delle oppor-

Page 215: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

214giuseppe ieraci

tunità che si presentano in contesti che vanno incontro a crisi di stabilità. Questa

tesi potrebbe essere corroborata da alcuni contro fattuali, come quelli offerti dai

casi della Turchia contemporanea, dell’Egitto e del Pakistan, dove la presenza di

un apparato coercitivo istituzionalizzato non ha per nulla inibito l’intervento dei

militari in politica. In questi casi, l’apparato coercitivo interviene frequentemen-

te in politica, tentando d’inibire, d’interferire o di pilotare i processi riformatori,

e si sovrappone e forse coincide con il regime o lo Stato stessi. Esso diventa uno

di quei “fattori del regime” (accanto al partito politico, alla burocrazia penetrata

dall’élite dominante, all’apparato di polizia leale ed efficiente) che forniscono un

argine contro la mobilitazione sociale e politica e anche un canale di accesso della

domanda sociale ai regimi non-democratici (Ieraci 2013a). Quando l’istituziona-

lizzazione politica di un regime è bassa, i “fattori del regime” intervengono in

ragione della loro forza, capacità e delle opportunità che si aprono.

Occorre dunque volgere l’attenzione allo svolgimento delle relazioni tra ci-

vili e militari nei regimi politici, perché i militari sono proprio uno di quei

“fattori del regime” che possono avere un ruolo quando l’istituzionalizzazione

politica è carente. Bellin ha affermato che la sua nozione di “istituzionalizza-

zione dell’apparato coercitivo non dovrebbe essere confusa con la professiona-

lizzazione nel senso di Huntington”. Questa, infatti, va piuttosto associata al

concetto di burocrazia di Max Weber e alle sue qualità correlate. Bellin sostiene

che – nel senso da lei attribuito a tale concetto – “l’istituzionalizzazione non si

riferisce alla depoliticizzazione dell’establishment della sicurezza e alla sua su-

bordinazione al controllo civile” (Bellin 2004: 145). In altre parole, Bellin riduce

il concetto di professionalizzazione di Huntington alla creazione di una burocra-

zia militare e alla sua “subordinazione al controllo civile”. Nondimeno, questa

distinzione di Bellin tra la dimensione della professionalizzazione (creazione

di una burocrazia militare subordinata al controllo civile) e l’istituzionalizza-

zione introduce alcune ambiguità e poggia su un’interpretazione discutibile

della tesi di Huntington.

In primo luogo, Huntington ha sostenuto che la professionalizzazione dell’e-

sercito è un effetto combinato del processo di differenziazione e modernizzazio-

ne della società (Huntington 1957). Lo sviluppo del corpo militare professionale

comporta il reclutamento del corpo degli ufficiali secondo requisiti formativi e

educativi, un sistema di avanzamento basato sull’esperienza, sull’abilità e sui ri-

sultati conseguiti, la creazione di accademie per la promozione dell’educazione

militare e l’introduzione di un apparato o di personale specializzato a sostenere

la leadership militare nella logistica e nella gestione delle attività in pace e in

guerra. Questi requisiti implicano che il corpo militare professionale si trasformi

anche in un corpo burocratico. Da questo punto di vista, professionalizzazione e

istituzionalizzazione, cioè l’organizzazione burocratica, coincidono o sono due

Page 216: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

215pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

fenomeni sovrapposti. Entrambi gli effetti dell’istituzionalizzazione sulla vita

politica indicati da Bellin coincidono con gli effetti della professionalizzazione

secondo Huntington: lo sviluppo di “un senso d’identità di corpo separato dallo

stato” e di “un impegno verso una missione nazionale più ampia che serva il bene

pubblico, come la difesa nazionale e lo sviluppo economico, piuttosto che il solo

accrescimento e arricchimento personale” (Bellin 2004: 145-146). Per accorgerse-

ne, basti confrontare la posizione di Bellin con quella di Huntington: “Un corpo

di ufficiali [...] è geloso della propria sfera di competenza limitata, ma riconosce

la sua incompetenza in questioni che esulano dalla sfera militare professionale

e quindi è disposto ad accettare il suo ruolo di strumento subordinato allo stato”

(Huntington 1968b: 493).

In secondo luogo, è vero che Huntington sostiene che la professionalizza-

zione dell’esercito, cioè un grado marcato di differenziazione delle istituzioni

militari da altre istituzioni sociali, è la condizione affinché i civili ottengano

un elevato grado di controllo sui mezzi di coercizione, ma sottolinea che “le

principali cause dell’intervento militare in politica sono la politica, non le forze

armate”, e che “quando le istituzioni politiche della società sono deboli e di-

vise, anche in presenza di un establishment militare professionalizzato può

verificarsi l’intervento militare” (ibidem). Pertanto, la domanda è: cosa rende le

istituzioni politiche “deboli e divise”? Nella prospettiva di Huntington, che qui

s’intende accogliere, la depoliticizzazione dell’establishment militare e degli

apparati di sicurezza e coercizione, nonché la loro subordinazione al controllo

civile, non dipendono affatto dal grado di professionalizzazione degli stessi,

ma dalla forza delle istituzioni politiche e la loro capacità di adempiere ad al-

cune funzioni essenziali di garanzia. L’indagine su queste funzioni è quindi un

compito preliminare.

Professionalizzazione e istituzionalizzazione del corpo militare

Gli apparati di coercizione entrano in politica se non vi sono argini che li con-

tengano, qualunque sia il loro grado di professionalizzazione e/o istituzionaliz-

zazione. Sul piano concettuale, tutta questa tematica resta però confusa per due

ordini di ragioni: perché si usano due concetti (professionalizzazione e istituzio-

nalizzazione) per significare la stessa cosa; e perché ancora ricorre il concetto di

istituzionalizzazione per indicare il processo di separazione delle sfere delle au-

torità civili e militari, nonché il concetto di istituzione per indicare tutte le orga-

nizzazioni (partito politico, burocrazia, un apparato coercitivo leale ed efficiente,

naturalmente parlamenti e tribunali) che forniscono un argine di contenimento

della mobilitazione sociale e della partecipazione.

Page 217: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

216giuseppe ieraci

Tutta questa confusione concettuale è anche dovuta allo stesso Huntington

(1957), che sembra ricondurre entro il concetto di professionismo del corpo mi-

litare cose pertinenti a ambiti diversi. Huntington definisce la professionalità

come caratterizzata da “competenza” (expertise), “responsabilità” e “senso di ap-

partenenza” (corporateness) (Huntington 1957, 8-10). La competenza è segnalata

dalla conoscenza specialistica e dalle capacità (skill) dei militari, che sono dive-

nuti – secondo l’espressione di Lasswell (1941) ripresa da Huntington – degli

specialisti nell’impiego della violenza. La responsabilità consiste nella funzio-

ne assolta dai militari di “assicurare la sicurezza del suo cliente, cioè la società”

(Huntington 1957: 15). Infine, il senso di appartenenza o spirito di corpo discen-

de dalla burocratizzazione della professione e dell’organizzazione entro la quale

sono inquadrati i militari e particolarmente il corpo ufficiali (ibidem: 16). Queste

tre dimensioni della professionalità fanno riferimento a variabili indipendenti.

Se conoscenze e appartenenza sono proprietà che una comunità d’individui svi-

luppa nello svolgimento delle relazioni al suo interno (generare e trasmettere

conoscenze tra i membri della comunità; cementare i vincoli di solidarietà e di

appartenenza tra i membri della comunità), l’assunzione di responsabilità com-

porta invece entrare in relazione con altre comunità, per esempio con la “comu-

nità civile”.

Questa duplicazione delle dimensioni d’analisi in Huntington è ancora evi-

dente quando egli affronta in tema del controllo del potere dei militari, che può

essere di tipo “soggettivo” (da parte d’istituzioni di governo, come il parlamento

o il sovrano nel caso inglese, oppure attraverso la “forma costituzionale”, come

nel caso della democrazia contrapposta al totalitarismo) oppure “oggettivo” (at-

traverso il riconoscimento della professionalità del militare e della sua autono-

mia, che lo renderebbe “politicamente sterile e neutrale”) (ibidem: 83-84). A parte

il mancato riconoscimento da parte di Huntington che storicamente l’assogget-

tamento del potere militare al parlamento e al sovrano e la democratizzazione

sono stati le due facce dello stesso processo, anche qui possiamo osservare che

con il richiamo alla dimensione soggettiva del controllo dei militari si fa riferi-

mento alle loro relazioni esterne con altre componenti (la società civile), mentre

la dimensione oggettiva, collegata all’autonomia della professione militare è tut-

ta interna allo sviluppo del corpo militare e della sua burocrazia.

Nella Figura 1 viene riproposto lo schema di Huntington, riassunto e adattato

per rendere espliciti i suoi richiami ed evitare le sovrapposizioni terminologiche

e concettuali.

Come lascia intendere Huntington (1957: 80-85), al compimento della demo-

cratizzazione fondamentale o della “prima ondata”, come lui l’ha definita altrove

(Huntington 1991), il potere militare risulta assoggettato al Parlamento e al so-

vrano, che lo rendono uno strumento politicamente neutrale. Da qui lo sviluppo

Page 218: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

217pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

nel corpo militare del senso di responsabilità prima richiamato. I militari sono

posti al servizio della società, alla quale garantiscono sicurezza. In cambio rice-

vono le risorse necessarie allo sviluppo del loro corpo burocratico e della loro au-

tonomia, cioè si pongono le condizioni della loro professionalizzazione. In altri

termini, la democratizzazione rende relativamente autonomo il potere militare,

il quale ottenendo risorse per lo sviluppo di un corpo burocratico, accetta di porsi

al servizio della società e “razionalizza” questo suo assoggettamento con l’inte-

riorizzazione del senso della “missione nazionale” al quale fa riferimento anche

Bellin (2004), come visto. L’interiorizzazione del senso della missione nazionale

o del bene pubblico (responsabilità del corpo militare) è evidentemente un mec-

canismo di falsificazione ideologica, ovverosia falsa coscienza.

In definitiva, i percorsi della democratizzazione sono caratterizzati da una

certa stabilizzazione dei rapporti tra militari e società civile, da un vero e pro-

prio “scambio politico”. Da questo punto di vista, la prospettiva di Huntington

sopra delineata e quella di Nordlinger (1977), che invece rimarca la propensione

dei militari a difendere interessi di corpo e a ingerirsi in politica quando questi

sono minacciati, non sono incompatibili ma complementari. I militari offrono

sicurezza e ottengono in cambio risorse per costituirsi come corpo e “specialisti

della violenza” (Lasswell 1941). La società civile, o meglio sarebbe dire la “comu-

nità politica”, offre le risorse necessarie al nascente corpo burocratico militare e

ricevono in cambio la garanzia della sicurezza. Questa prospettiva presuppone in

qualche misura una lettura macro sociologica dei rapporti tra gli attori politico-

Figura 1Professionalizzazione e istituzionalizzazione.

Un adattamento dello schema di Huntington (1957)

Controllo “oggettivo”

Burocratizzazione del corpo militare

Conoscenze

Relazione con la società civile

dimensione “interna”

Appartenenza

Fig. 1: Professionalizzazione e istituzionalizzazione. Un adattamento dello schema di Huntington (1957)

Controllo “soggettivo”

Istituzioni politiche

Responsabilità

dimensione “esterna”

Professionalizzazione

Istituzionalizzazione

Page 219: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

218giuseppe ieraci

sociali, in base alla quale – seguendo ad esempio Michael Mann – si interpretino

questi stessi come “reti di potere” e li si riconducano alle relazioni tra quattro

fonti distinte di “potere sociale”: l’ideologia, l’economia, la forza militare e la poli-

tica (Mann 1986: 1-2). Quando i rapporti tra questi poteri sociali si strutturano

o, come si suole dire, si istituzionalizzano, i regimi politici tendono alla stabilità,

ma è evidente che questa stabilizzazione dipende tanto dal controllo esercitato

entro ciascuna sfera (dimensione “oggettiva”: sviluppo di aspetti organizzativi

interni a ciascuna sfera) che dal controllo reciproco, di una sfera sull’altra (di-

mensione “soggettiva”: sviluppo di poteri di “intercetto” o di “interferenza” di

una sfera sull’altra).

I regimi patrimoniali. Potere personale e democrazia

Abbiamo argomentato che il potere militare stabilisce relazioni di non inter-

ferenza con il potere politico quando questo secondo s’istituzionalizza e, a sua

volta, quando il corpo militare si professionalizza (vedi supra Fig. 1). Possiamo

osservare che quando questo processo d’istituzionalizzazione del potere politico

si è compiuto, il potere militare non tracima e le relazioni di scambio con la so-

cietà civile si stabilizzano. Il processo d’istituzionalizzazione del potere politico

comporta la sua universalizzazione, cioè il fatto che il potere agisca come mezzo

generalizzato degli scambi politici, così diventando lo strumento della “capacità

generalizzata di assicurare la prestazione delle obbligazioni vincolanti da parte

delle unità” (Parsons 1963: 237). In questo modo ancora, la politica si trasforma

nella sfera delle relazioni garantire dal potere (Stoppino 2001).

L’opposto del “potere generalizzato” è il “potere patrimoniale”, dove l’esercizio

non è generalizzato ma “privato”. L’interesse per questo tema in collegamento

con quello dei rapporti tra società civile e corpo militare consiste nel fatto che

sovente quest’ultimo è descritto proprio come un potere patrimoniale (Bellin

2004), cioè un potere che serve interessi privati. Dobbiamo chiederci quali siano

le condizioni che limitano l’esercizio patrimoniale (privato) del potere, perché

se si danno delle condizioni generali di questa limitazione, esse devono valere

anche per l’azione del corpo militare.

Come noto, in un’accezione concettuale che parte da Weber, il potere è defini-

to come la capacità o possibilità di far valere la propria volontà entro una relazio-

ne sociale (Weber 1980, I: 51) e questi aspetti relazionali opportunamente enfa-

tizzati (Lasswell e Kaplan 1950) rivelano il carattere intenzionale e/o interessato

del potere e la possibilità di una sua stabilizzazione nel tempo (Stoppino 2001,

35-63). Negli studi sullo sviluppo politico e la democratizzazione fondamentale

si è spesso discusso sulla forma che le relazioni di potere possono prendere, an-

Page 220: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

219pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

che restando dentro la tripartizione weberiana del potere tradizionale, carisma-

tico e razionale-legale. Al punto conclusivo dello sviluppo è normalmente posto

il potere razionale-legale delle società moderne industrializzate, così il problema

posto resta quello della transizione da forme di potere pre-moderne a quello ra-

zionale-legale e degli eventuali “residui” delle forme pre-moderne del potere nei

regimi politici contemporanei.

Naturalmente, chiunque conosca il metodo della formazione dei concetti

per via dei “tipi ideali” o “puri” sa che questi “non si presentano, in questa for-

ma assolutamente e idealmente pura, forse più di quanto nella realtà si presenti

una reazione fisica calcolata in base al presupposto di uno spazio assolutamen-

te vuoto” (Weber 1980, I: 18). Dunque: “Il medesimo fenomeno storico può, ad

esempio, configurarsi in una parte dei suoi elementi come fenomeno ‘feudale’,

in un’altra come fenomeno ‘patrimoniale’, in un’altra ancora come fenomeno

‘burocratico’ oppure ‘patrimoniale’” (ibidem). Tuttavia, sovente la letteratura ha

trascurato questa declinazione storica dei tipi ideali e ha ragionato per contrap-

posizioni forzate che hanno inoltre oscurato gli aspetti dinamici delle relazioni

sociali e politiche. Un esempio in tal senso è offerto dall’impiego del concetto

di patrimonialismo nella sociologia del potere politico degli Stati che stanno

affrontando i primi stadi della democratizzazione. Questi esempi sono interes-

santi, in quanto mostrano nuovamente (come nel caso dei rapporti tra militari

e società civile sopra affrontato) la difficoltà a trattare le “reti del potere” e le

relazioni tra i “poteri sociali”.

Per Weber il patrimonialismo è una specie del potere tradizionale, in base

al quale “si obbedisce in virtù della dignità personale attribuita dalla tradizione”

(Weber 1980, I: 221). Il potere tradizionale, dunque, presenta un elemento di

“personalizzazione”, poiché “non si ubbidisce a statuizioni ma alla ‘persona’ a ciò

designata dalla tradizione o dal signore determinato tradizionalmente”. Questa

legittimità può presentarsi in due modalità, a seconda che “l’attività del signore

sia vincolata alla tradizione”, oppure che sia “libera materialmente dalla tradizio-

ne”. Nel primo caso, il contenuto delle prescrizioni sono determinate univoca-

mente dalla tradizione; nel secondo caso, il contenuto delle prescrizioni è sogget-

to al “libero arbitrio del signore, al quale la tradizione attribuisce un certo ambito

in proposito” (ibidem). Il patrimonialismo è quel potere tradizionale esercitato

mediante un apparato amministrativo personale e quindi in virtù di un assoluto di-

ritto personale (Weber 1980, I: 226). In alcuni casi, “determinati poteri di signoria

[…] sono appropriati da una parte dell’apparato amministrativo”, come “un grup-

po sociale o una categoria di persone”, oppure “singoli individui” (Weber 1980, I:

227). Si parla qui del potere di ceto. Infine, va richiamato che secondo Weber non

solo ogni potere tradizionale inclina verso il patrimonialismo, ma ampliandosi

la sfera del potere esercitato esso può trasformarsi in sultanismo, che è un pote-

Page 221: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

220giuseppe ieraci

re patrimoniale “che si muove principalmente nella sfera dell’arbitrio svincolato

dalla tradizione” (Weber 1980, I: 226 e 227).3

Queste nozioni sono sembrate evocative di certe situazioni di potere in con-

testi di prima democratizzazione, dove restano gravi i conflitti per l’attribuzione

delle giurisdizioni e delle risorse. In tali contesti, anche chi ha vinto la competi-

zione democratica e occupa il potere può ricorrere ad “appropriazioni” nel senso

indicato da Weber, cioè ad attribuzione di competenze, poteri sociali e risorse

come agisse in base ad un acquisito “diritto personale”, a vantaggio di gruppi so-

ciali o individui vicini o graditi. Dunque, anche il potere democratico può diven-

tare un potere patrimoniale o di ceto, nei termini di Weber.

Tuttavia, Roth (1968; 1987) ha giustamente argomentato che, una volta pri-

vato della legittimazione tradizionalistica, come nel patrimonialismo storico

concepito da Weber, in ottica contemporanea il patrimonialismo diventa “un

rapporto di fedeltà, basato su interessi ideali e materiali, tra un ‘padrone’ e il suo

apparato o il suo seguito personali” (Roth 1987: 6). In questo modo, il patrimo-

nialismo diventa un concetto per individuare gli usi personalistici del potere

politico, che sono presenti tanto in democrazia e in regime di pluralismo che

nei regimi non-democratici, spaziando da quelli autoritari ai totalitarismi. Roth

suggerisce di chiamare il patrimonialismo in ambito democratico “personali-

smo universalistico”, perché resta valido il principio normativo legale, mentre

in ambito non-democratico si avrebbe un “personalismo particolaristico”, dove

“la professione di fede (la fedeltà ideologica al regime) è decisiva per l’assunzione

pubblica” (ibidem).

Roth dunque sostiene, in primo luogo, che nell’esercizio del potere, qualunque

sia la sua forma di legittimazione o anche quando questa sia assente, sono possi-

bili scelte “personalistiche” in misura diversa a seconda dei casi. Naturalmente,

“vi è una notevole differenza tra una situazione in cui un governo legale […] go-

verna con l’aiuto del suo apparato personale […], una in cui le strategie persona-

listiche di una élite di partito minacciano di avere il sopravvento, e infine una in

cui un governante senza legittimazione legale, tradizionale o carismatica esercita

il potere su un intero paese con l’aiuto del suo apparato” (Roth 1987: 7). L’aspetto

interessante, che Roth non rimarca a sufficienza, è che in ambito democratico, o

nei suoi termini in situazione di legittimazione razionale-legale del potere, an-

che questi usi discrezionali del potere risultano sufficientemente contenuti e de-

finiti. Per esempio, un presidente di governo o di Stato può nominare un corpo di

consiglieri “personali” e affidarsi a loro nelle scelte, ma è probabile che le risorse

a disposizione per queste nomine siano definite così come gli ambiti di azione.

Questo è il caso che Roth chiama del personalismo universalistico.

3 Per un approfondimento sul concetto di potere patrimoniale, il rinvio classico è al lavoro di Eisenstadt (1973).

Page 222: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

221pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

All’opposto, nei casi di personalismo particolarista possono non sussistere li-

miti di alcun genere e anche quelli indicati da Roth (vedi supra), quali la fedeltà

a un’ideologia o a un partito, sono suscettibili di un trattamento discrezionale

massimo. In altri termini, l’aspetto simbolico della legittimazione (se razionale-

legale, carismatica o tradizionale) poco importa se non si considerano anche i

suoi aspetti “materiali” (organizzazioni, apparati e istituzioni collegati a quel-

la particolare forma di legittimazione), come del resto fatto da Max Weber. La

conclusione molto importante di Roth circa il legale tra patrimonialismo, ov-

verosia particolarismo, e tipologie dei regimi politici è che “non è opportuno

equiparare neopatrimoniale e autoritario. ‘Autoritario’ è un concetto utile all’in-

terno di un continuum che va dalla democrazia pluralistica al totalitarismo.

‘Neopatrimoniale’, invece, rientra in una tipologia di mentalità e prassi orga-

nizzativa personalistica riscontrabile in qualsiasi punto di questo continuum”

(Roth 1987: 8).

Dunque qualsiasi regime o tipologia può presentare tratti di personalismo.

Roth, in secondo luogo, sostiene che il carattere privato o personalistico dell’e-

sercizio del potere può essere contenuto dalla “matrice istituzionale” che carat-

terizza alcuni regimi: “Il dominio personalistico […] è una componente non sra-

dicabile delle burocrazie pubbliche e private dei paesi altamente industrializzati;

alcuni degli stati di più recente costituzione sono carenti della matrice istituzio-

nale (sia pluralista o totalitaria) dei paesi industrializzati, in un grado tale che

il dominio personalistico diviene la forma dominante di governo” (Roth 1968:

196). Va sottolineato che Roth ammette un campo di variazione molto ampio

della cosiddetta matrice istituzionale, spaziando dal pluralismo al totalitarismo.

Queste due posizioni espresse da Roth (il patrimonialismo, in quanto uso di-

screzionale o privato del potere è sempre presente in politica; tuttavia, un suo

contenimento è possibile con una matrice istituzionale) sono di grande interesse

e costituiscono punti di partenza per la riflessione. Innanzitutto, come già richia-

mato e in definitiva implicitamente ammesso dallo stesso Roth, la forma della

legittimazione da sola non basta a spiegare il patrimonialismo. Questo, si è detto

(vedi supra) è più probabile nei regimi di potere basati sulla tradizione perché in

questi casi, seguendo Weber, l’obbedienza si deve a una persona, ancorché “desi-

gnata dalla tradizione”. Nella misura in cui questa persona rispetta la tradizione,

cioè da essa è vincolata, il suo esercizio di potere trova nella tradizione stessa la

matrice istituzionale che può contenere i suoi usi personali. Si tratta di un fe-

nomeno già noto ai teorici del potere assoluto del monarca del XVI secolo (per

esempio Bodin 1988), i quali sottolineavano che l’espressione legibus solutus non

scioglieva affatto il sovrano dal vincolo del rispetto della tradizione. Il problema,

dunque, non è il tipo di credenza nella legittimazione, ma il sistema dei vincoli

che sono dati; ciò che conta è dunque il regime materiale. Se il potere tradizio-

Page 223: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

222giuseppe ieraci

nale più facilmente inclina verso il patrimonialismo (potere personale) è perché

lì i vincoli sono culturali e ideali, e di essi si fa depositaria la persona stessa che

detiene il potere. Nel potere razionale-legale, questi vincoli invece si oggettivano,

si separano dalle persone che esercitano il potere. Qui, infatti, i vincoli sono codi-

ficati in procedure riconoscibili e controllabili e sono sottoposti alla gestione di

organizzazioni (burocrazie, agenzie, apparati) tendenzialmente autonomi dai ti-

tolari del potere. Nei termini di Roth (1968), è la matrice istituzionale di un regime

che può contenere il patrimonalismo, non la forma di legittimazione.

In secondo luogo, Roth sostiene che tanto il pluralismo che il totalitari-

smo siano due matrici istituzionali efficaci a contenere il patrimonialismo.

Analogamente a quanto fa Huntington (1968a), Roth pone democrazia e totalita-

rismo (meglio sarebbe dire, “regime a partito unico”) nel campo dei regimi “forti”

o a elevata istituzionalizzazione politica. Roth tuttavia trascura che se nella de-

mocrazia la matrice istituzionale, come già detto, è “oggettivata” e separata dalle

persone che esercitano il potere, nel totalitarismo (e in genere nei regimi non-

democratici retti da partiti politici o coalizioni di potere) la matrice istituzionale

è fornita dal partito unico controllato dal titolare stesso del potere e dall’ideologia

ufficiale, della quale il titolare del potere è l’interprete esclusivo e ultimo.

Infine, se il punto cruciale è la matrice istituzionale che limita le tendenze

all’uso personale (patrimoniale) del potere, occorrerebbe proprio in una pro-

spettiva weberiana indagare sulla sua genesi, le sue funzioni e la sua struttura.

Tralasciando l’indagine sulla genesi delle matrici istituzionali che possono limi-

tare l’uso del potere a fini personali, perché è un compito immane, qualcosa però

è possibile dire sulla funzioni e indirettamente sulle strutture di queste matrici,

perché ci sono note e osservabili. Già Roth (1968; 1987) lascia intendere che il

contenimento del potere patrimoniale/personalistico è più probabile nei con-

testi del potere razionale-legale, ma poi non avanza una spiegazione esaustiva

del collegamento tra potere razionale-legale e uso “universalistico” del potere e

inoltre indica “pluralismo” e “totalitarismo” come possibili soluzioni effettive

contro il patrimonialismo. Questa tesi mi pare molto opinabile e credo si pos-

sa argomentare contro di essa proprio analizzando le funzioni che un’effettiva

matrice istituzionale di contenimento del potere personale adempie nello svol-

gimento del processo politico. Per far ciò, occorrerà tracciare un confronto tra il

pluralismo, ovverosia la democrazia, e il totalitarismo, o meglio la “non-demo-

crazia”, per mostrare che solo i primi (pluralismo e democrazia) offrono qualche

garanzia contro il patrimonialismo/personalismo e non i secondi (totalitarismo

e “non-democrazia” in genere).

Page 224: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

223pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

Sulle funzioni della “matrice istituzionale”.

Democrazia e “non-democrazia”.

Possiamo ora finalmente avanzare i nostri quesiti principali, perché tanto il pre-

torianesimo che il patrimonialismo pongono un problema analogo, vale a dire il

fenomeno dell’uso “privato” o “personalistico” del potere. Quale matrice istitu-

zionale argina meglio il potere patrimoniale e il potere militare? In che modo ciò

avviene? Anticipo che la risposta argomentata sarà: la democrazia e il pluralismo,

attraverso la competizione aperta per il potere politico. Ci sono due ragioni per

cui oggi questa risposta potrebbe essere non soddisfacente in partenza. La prima

è legata alla produzione e diffusione di dati sempre più esaustivi sui livelli di cor-

ruzione nelle democrazie contemporanee, nell’assunto che proprio l’uso del po-

tere a fini privati anche in democrazia genera quel tipo di fenomeno. Non affron-

terò questo tema, ma si possono portare due argomenti contro la vulgata che la

democrazia sia un regime corrotto al pari di altri. Innanzitutto, come mostrano

gli stessi “indici di corruzione politica”, le democrazie restano comunque regimi

meno corrotti di altri. Inoltre, proprio per l’effetto della percezione del fenomeno

più che della sua reale portata, l’opinione pubblica democratica sconta un deficit

conoscitivo molto profondo. Insomma, non abbiamo coscienza effettiva di quan-

to corrotti e corruttibili siano i politici nelle non-democrazie e nei regimi non

modernizzati, di quanto personalistico risulti sovente l’uso del potere in questi

contesti, per le ragioni che vedremo.

La seconda ragione dell’enfasi oggi sulla presunta corruzione della democra-

zia sta per paradosso nell’aver spinto i processi decisionali in democrazia verso

un livello parossistico di trasparenza e di correttezza formale-procedurale. Parlo

di parossismo, perché “normando” e costringendo a “legalità” qualsiasi relazione

sociale, pena la nullità o la non-liceità di quelle relazioni, la legittimità di tipo

legale-razionale finisce per proiettare un velo di illiceità su qualsiasi comporta-

mento che non rientri nella sfera delle condotte normate e prescritte. Così, una

moltitudine di comportamenti e relazioni sociali, poiché non prescritti, sono

interpretati alla stregua di comportamenti finalizzati all’interesse personale,

questo stesso è demonizzato e perseguito giuridicamente.4 In altri termini, se in

ambito razionale-legale ogni relazione sociale dovesse essere normata procedu-

ralmente, da un lato si eserciterebbe un controllo oppressivo e invasivo in tutte

le sfere dell’agire sociale, e questo controllo potrebbe generare un potere politi-

co leviatanico; dall’altro lato qualsiasi comportamento, tra gli infiniti comporta-

menti entro le infinite relazioni sociali, che non rientrasse tra quelli normati e

prescritti rischierebbe di essere denunciato come “illegale” e “illegittimo”. Da qui

4 Quanto dico è forse in linea con la critica liberale all’espansione del diritto amministrativo nella gestione delle relazioni sociali, denunciata già molti anni fa da Leoni (1995, ma 1961).

Page 225: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

224giuseppe ieraci

l’impressione distorta – e anche conduttiva a forme di controllo giudiziale esa-

sperato e anti-liberale – che l’opinione pubblica ha di una corruzione pervasiva

del processo decisionale anche in ambito democratico.

Torniamo a ragionare sulla contrapposizione tra democrazia e pluralismo,

da un lato, e non-democrazia dall’altro, così spingendoci a ricomprendere in un

unico tipo l’autoritarismo e il totalitarismo in tutte le loro varianti. Vogliamo

individuare la funzionalità di questi regimi rispetto all’esercizio del potere e

della lotta politica.5 Non si può negare che i regimi non democratici si presen-

tino in così tante forme che resta problematico ricondurli ad unità.6 Seguendo

Linz (1964), Morlino (2008: 174) suggerisce di analizzare i «regimi autorita-

ri» in base a cinque dimensioni: grado di pluralismo politico, giustificazione

ideologica del regime, grado di mobilitazione politica, composizione del grup-

po al potere, presenza di un quadro normativo. Queste dimensioni rendono

possibile l’individuazione del totalitarismo, dell’autoritarismo, del post-totali-

tarismo, del sultanismo (Grilli di Cortona 2009: 31), del personalismo, del pa-

trimonialismo e del neo-patrimonialismo (Roth 1968; Guliyev 2011). Tuttavia,

per evitare di restare invischiati in un dibattito tuttora aperto, possiamo sof-

fermarci su un tratto che accomuna i regimi non democratici e sul quale tutti

gli studiosi concordano. In tali regimi, il pluralismo politico è assente o forte-

mente manipolato dalla struttura del potere vigente.7 Del resto, come abbiamo

visto, anche Roth (1987) contrappone il pluralismo al totalitarismo e pone l’au-

toritarismo come un regime sta in qualche punto di un ipotetico continuum

“pluralismo-totalitarismo”.

La proprietà fondamentale della democrazia è l’istituzionalizzazione della

responsabilità politica (Ieraci 2003). In democrazia, non solo si compete per il

potere politico, ma il suo esercizio è associato al controllo pro tempore di ruoli,

ai quali sono collegate risorse di carattere normativo e procedurale, con una

gamma di soluzioni e di architetture che è impossibile sintetizzare in questa

sede. Queste soluzioni costituiscono in definitiva la gamma delle strutture che

la matrice istituzionale della democrazia può prendere.8 Proviamo a riflette-

re sulle implicazioni di questo principio. Tutti i regimi politici si fondano su

una costellazione di ruoli formalizzati in vari gradi, dai quali promanano gradi

anch’essi variabili di capacità di potere e influenza. Quanto più questa capacità

5 Riprendo qua le considerazioni svolte in Ieraci (2013a).

6 Per una classificazione dei regimi non-democratici, Morlino (2003).

7 Schwarz (2008) sottolinea come la liberalizzazione di un regime autoritario (intesa come apertura politica, parziale e controllata) non implichi necessariamente la democratizzazione dello stesso, attraverso istituzioni democratiche che garantiscano la competizione politica la partecipazione. Sul tema, si veda anche Schlumberger (2008).

8 Questa gamma di soluzioni è stata analizzata in Ieraci (2003).

Page 226: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

225pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

è circoscritta, limitata e dunque prevedibile, tanto più è facilmente trasferibile

da un soggetto a un altro che sia chiamato a svolgere, in un dato momento, quel

certo ruolo. Viceversa, se le capacità del potere sono indefinite o discrezionali,

illimitate o tendenzialmente tali, il loro trasferimento sarà difficile, se non ad-

dirittura impossibile, poiché comporta delle conseguenze non prevedibili. In

altri termini, nel primo caso il potere è astrattamente agganciato al ruolo e alle

funzioni limitate e prevedibili che un determinato soggetto si troverà a ricopri-

re, dunque esso si pubblicizza. Nel secondo caso, invece, il potere e le capacità

si personalizzano, nel senso precipuo che diventano una riserva personale e

tendono a privatizzarsi, perché non si conoscono i loro limiti di applicazione,

quindi esse diventano discrezionali e, appunto, personali. Qui si creano le con-

dizioni del potere patrimoniale.

Se accogliamo questo punto di vista, allora ne possiamo derivare la conclusio-

ne che la democrazia poggia, almeno tendenzialmente, sul potere pubblico del

primo tipo, collegato a ruoli e funzioni altamente formalizzati, cioè a istituzioni;

la “non-democrazia” invece poggia sul potere privato del secondo tipo, collegato

a persone e soggetti che lo esercitano discrezionalmente. In democrazia ci si può

sbarazzare facilmente di chi svolge quelle funzioni e ricopre quei ruoli, perché

le capacità e i poteri istituzionali restano intatte e conosciute una volta rimosso il

soggetto che le esercitava. In altre parole, la probabilità del trasferimento del potere

in democrazia è elevata e i costi implicati da tale trasferimento sono contenuti,

perché sono ragionevolmente prevedibili e anticipabili i limiti dell’azione del

potere. All’opposto, i regimi non democratici sono de-istituzionalizzati per de-

finizione, o a bassa e precaria istituzionalizzazione, e non risulta così semplice

sbarazzarsi dei soggetti che esercitano potere e capacità, in quanto la loro rimo-

zione comporta la cancellazione di tutto o buona parte della capacità di potere

esistente in quel regime. Potere e capacità non sono pienamente associati a ruoli

e funzioni e non possono essere rigenerati facilmente una volta venuto meno il

soggetto che ne era titolare. Qui la probabilità del trasferimento del potere è mol-

to bassa, mentre sono incerti i costi inerenti di un suo eventuale trasferimento,

perché non sono prevedibili i limiti dell’azione del potere.

Qualcosa di simile intendeva Friedrich (1950: 176) facendo riferimento al

“governo costituzionale”, cioè democratico, come caratterizzato, 1), “(dalla) isti-

tuzione e (dal) mantenimento di limitazioni efficaci all’azione politica e più spe-

cialmente a quella governativa” e, 2), dalla regolarizzazione di tali limitazioni. Su

queste basi, Friedrich distingueva i “governi costituzionali” nei riguardi dei quali

agiscono forti limitazioni, da quelli incostituzionali, o illimitati. Così, se i regimi

democratici sono caratterizzati da governi costituzionali o limitati, nei regimi

non democratici troviamo invece governi incostituzionali o illimitati.

Page 227: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

226giuseppe ieraci

Sopra il funzionamento dei governi “limitati” e “illimitati”.

Integrazione e cooptazione

La probabilità del trasferimento del potere è una dimensione che discrimina i go-

verni democratici e limitati rispetto a quelli non democratici e illimitati. Un altro

aspetto importante è come si raccordano i comportamenti della classe politica e

delle classi sociali nei due tipi. Diremo, in sintesi, che in democrazia il modello

prevalente è l’integrazione della classe politica e delle classi sociali, mentre nelle

non-democrazie vigono sistemi di cooptazione.

In democrazia, l’influenza guadagnata dai leader e dalle loro organizzazioni

dipende in larga misura dai flussi di scambio (politiche per sostegno) con gli at-

tori sociali e la pubblica opinione.9 Questi flussi sono instabili perché, da un lato,

i valori attesi si possono modificare così come la composizione delle forze sociali

che le ricercano; dall’altro lato, i leader politici devono ampliare quanto più pos-

sibile l’offerta dei valori, così da incrociare quote sempre crescenti di domanda da

essere vincenti nella lotta politica. Ne discende che i legami tra forze politiche e

forze sociali restano flessibili e negoziabili, le prime hanno un interesse ad allar-

gare sempre più il loro campo sociale di riferimento, mentre le seconde possono

rivolgersi in alternativa alle varie componenti politiche per vedere soddisfatti i

loro valori e interessi. Questo insieme d’interazioni favorisce l’integrazione fra

classe politica e classi sociali, attraverso il meccanismo della competizione elet-

torale e i canali della rappresentanza (parlamento, partiti politici, gruppi sociali),

che diventano i contenitori istituzionali delle condotte delle due componenti,

uniformandole e omogeneizzandone le attitudini. Integrazione qui significa l’af-

fermazione di modelli di comportamento condivisi.

Al contrario, nelle non-democrazie chi esercita il potere e ne detiene il mo-

nopolio è portato ad allacciare legami diretti ed esclusivi con i gruppi sociali,

che sono costantemente mobilitati in funzione di appoggio. Questa propen-

sione può essere assecondata mediante un sistema fitto di relazioni clientelari

che leghi in modo diretto, esclusivo e stabilizzato alcuni gruppi sociali al pote-

re. Molto spesso nelle non-democrazie, i legami e gli scambi clientelari sono

garantiti da un partito unico o da un partito in posizione di monopolio la cui

organizzazione è ramificata nella società e può essere chiamata a svolgere fun-

zioni statuali elementari (di protezione e/o di garanzia sociale) nei riguardi dei

gruppi clienti, per sopperire alle inefficienze della macchina statale o semplice-

mente per erogare privilegi. Ne consegue che i flussi di scambio tra il potere e i

gruppi sociali e le frazioni dell’opinione pubblica sono rigidi e non negoziabili,

almeno fintantoché il regime si mantiene. Quanto più i canali di accesso al po-

9 Questa prospettiva si ritrova in molte teorie sociali basate sulla nozione di scambio, a parti-re dal lavoro di Blau (1964).

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227pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

tere politico sono ostruiti, tanto più i gruppi sociali cercheranno di rafforzare

i loro legami con la fazione politica (oppure il partito o i partiti) in posizione

dominante, cercando di rendere questi loro legami tendenzialmente esclusi-

vi. A differenza della democrazia, qui i comportamenti della classe politica e

delle classi sociali non sono caratterizzati dalla contrattazione e dallo scambio

diffuso di politiche per sostegno, non s’istituzionalizzano canali che possano

favorire tali contrattazioni e scambi, e per conseguenza alcune frazioni della

classe politica e alcuni gruppi restano ai margini del potere, permanentemente

esclusi. L’occlusione dell’accesso al potere di governo e i legami molto esclusivi

tra il gruppo politico dominante e alcuni gruppi sociali privilegiati producono

disomogeneità delle attitudini e possono esprimersi attraverso le cosiddette

sottoculture (di tipo politico-ideologico, etnico-linguistico, religioso, tribale),

che i vari gruppi sviluppano l’una in contrapposizione all’altra. La rigenerazio-

ne del consenso non è facile in questi regimi e tuttavia, in alcune circostanze, la

classe di governo può ricercare il sostegno aggiuntivo di nuovi gruppi sociali,

promettendo loro i favori e i privilegi già accordati ad altri, mediante forme di

cooptazione, cioè attraverso una selezione mirata e discriminante di nuovi be-

neficiari, sia pure alterando l’equilibrio del regime e mettendone a repentaglio

la stabilità.

Conclusioni

Se due problemi cruciali della politica nei secoli sono stati come sbarazzarsi dei

governanti, quando troppo a lungo al potere, e impedire che non compiano trop-

pi danni nella sua gestione, la democrazia è il regime politico che meglio ha fin

qua soddisfatto entrambe le necessità. Il potere in democrazia è detenuto per

un lasso di tempo certo e sono chiare le procedure per il ricambio dello stesso.

Inoltre, l’esercizio del potere nel lasso di tempo dato è tendenzialmente defini-

to nei suoi limiti e nei suoi scopi. In una democrazia la trasmissione del potere

è una questione di tempo ed è pacifica, senza conseguenze per chi è sconfitto.

All’opposto nei regimi non-democratici non esistono scadenze temporali che re-

golino la trasmissione del potere, in molti casi chi risulti sconfitto nella lotta per

il potere rischia tutto, persino la propria vita. Non è così invece in democrazia,

dove il potere non appartiene ai titolari come una riserva personale, ma è “aggan-

ciato” ad alcuni ruoli istituzionalizzati di autorità con attribuzioni formali e pro-

cedurali. In un regime non-democratico, viceversa, il potere diventa una “riserva

personale” dei detentori, tende cioè a trasformarsi in un potere patrimoniale,

perché funzioni, giurisdizioni e risorse dei ruoli da cui è esercitato non sono

formalmente definite. Infine, il potere e le relative capacità esercitate in ambito

Page 229: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

228giuseppe ieraci

democratico tendono a diventare pubblici, perché “appartengono” a un “ufficio”

definito formalmente, e non alla persona.

Questi tratti connotativi della democrazia, nella sua forma tipico-ideale, sono

altrettanti indicatori del suo grado d’istituzionalizzazione, che in definitiva è ca-

ratterizzabile per (Ieraci 2003: 57):

– Definizione e attribuzione dei ruoli dell’autorità, del loro mandato e delle pro-

cedure per il ricambio dei titolari;

– Assegnazione delle risorse potestative, ovvero definizione del raggio d’azio-

ne ammesso di ciascun ruolo sulla base di alcune risorse procedurali ad esse

collegate;

– Relazioni tra i ruoli entro arene del confronto inter-istituzionale e sulla base

delle risorse potestative assegnate.

Secondo queste qualità distintive delle istituzioni democratiche, l’esercizio del

potere risulta dal collegamento delle risorse potestative ai ruoli formali dell’au-

torità, anziché alle persone che li stanno occupando. Ciò non esclude che forme

di potere patrimoniale o personale siano esercitate anche in democrazia, giacché

queste forme esistono sempre in politica, ma il grado elevato d’istituzionalizza-

zione della democrazia circoscrive in massimo grado le loro manifestazioni.

Se la dicotomia “democrazia-non democrazia” fosse trattata ricorrendo a una

serie di variabili continue (come in definitiva suggerisce di fare Roth 1978, vedi

supra), ma lungo le tre dimensioni dell’istituzionalità sopra elencate, ne risulte-

rebbe una distribuzione costantemente polarizzata dei casi estratti. In una de-

mocrazia, la distribuzione dei ruoli è fissa e orizzontale, l’allocazione delle risorse

potestative è stabile e conosciuta, il confronto politico avviene in arene istitu-

zionali altamente formalizzate nelle quali entrano in gioco prevalentemente le

risorse potestative. Queste proprietà rendono la trasmissione del potere attra-

verso la competizione aperta sostenibile, cioè rendono tollerabile il pluralismo

politico. Al contrario, in una “non democrazia” la distribuzione dei ruoli è discre-

zionale e gerarchica, l’allocazione delle risorse è variabile e non ci sono arene for-

malmente definite di confronto istituzionale tra i ruoli, o esse sono mal definite.

Di conseguenza, la trasmissione del potere non può essere aperta e avviene attra-

verso meccanismi di cooptazione chiusa.

Tuttavia questa debolezza costitutiva delle “non democrazie”, non implica

una vittoria futura e inevitabile per la democrazia. Come molti studi hanno di-

mostrato, i regimi autoritari sono in grado di sopravvivere per decenni e le loro

élite dominanti riescono spesso a garantire la continuità del regime attraverso il

Page 230: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

229pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

meccanismo della cooptazione politica. Nondimeno, i regimi autoritari affron-

tano ricorrenti crisi o esplosioni di violenta ribellione e sono permanentemente

sull’orlo del collasso. La loro capacità di reprimere l’opposizione è indubbiamen-

te uno dei fattori chiave della loro sopravvivenza, ma non dovrebbe essere con-

fusa con un segno di stabilità o forza. Huntington ha sostenuto che la ricorrente

crisi di partecipazione e mobilitazione nelle società che attraversano il cambia-

mento può essere superata se le loro istituzioni politiche sono forti, cioè se l’isti-

tuzionalizzazione politica del sistema è elevata. Huntington, com’è noto, chiama

“istituzione politica” tutto ciò che serve a canalizzare la partecipazione politica

e distingue le “società pretoriane” dalle “società civili” (Huntington 1968a, tr. it.

2012: 102-103). Mentre queste ultime presentano un grado elevato d’istituziona-

lizzazione politica, che gli consente di affrontare efficacemente le ricorrenti crisi

di partecipazione politica, le prime sono potenzialmente instabili, un poco isti-

tuzionalizzate e in grado di mantenersi fin tanto che la partecipazione politica è

limitata. In altre parole, più una società è istituzionalizzata, più sarà governabile.

Il punto cruciale in questa prospettiva sono i fattori che contribuiscono ad ac-

crescere la “governabilità” di una società o di un regime politico, strutturando

la partecipazione politica. Huntington ritiene che in questo senso agiscano va-

rie istituzioni, tra le quali attribuisce un peso predominante ai partiti politici:

“il partito politico è l’organizzazione caratteristica della politica moderna [...].

La funzione del partito è di organizzare la partecipazione, di aggregare gli inte-

ressi, di fungere da collegamento tra le forze sociali e il governo” (Huntington

1968a, tr. it. 2012: 119). Ora, assunto questo punto di vista che tende a un po’ a

confondere nella classica “notte in cui tutte le vacche sono nere” funzioni di rap-

presentazione degli interessi e funzioni istituzionali del governo, non sorpren-

de che Huntington disponga nella stessa casella tipologica le democrazie liberali

occidentali, come quella inglese e americana, e il regime comunista sovietico, in

quanto società civili ad elevata istituzionalizzazione politica.

Estendendo così la tesi di Huntington alle “non democrazie”, e tralasciando

il suo trattamento insoddisfacente e fuorviante del concetto d’istituzione politi-

ca, si potrebbe dedurre che queste possono sopravvivere, anche se solo in modo

precario, finché alcune organizzazioni di regime riescono a incanalare la parteci-

pazione di massa alla politica (Ieraci 2013a). Tali organizzazioni di regime posso-

no essere un partito politico, una burocrazia penetrata dall’élite dominante o un

apparato coercitivo leale ed efficiente, come le organizzazioni di polizia e milita-

ri, che riescono ad arginare la mobilitazione sociale e politica contro i detentori

del potere. Nondimeno, e contrariamente a quanto sostenuto da Huntington, è

importante sottolineare che nella prospettiva qui avanzata tali organizzazioni di

regime non sono veramente istituzionali. Un partito politico, e persino la bu-

rocrazia statale e il corpo militare possono “colonizzare” il potere politico e l’éli-

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230giuseppe ieraci

te dominante li utilizzerà come strutture di opportunità per distribuire uffici e

privilegi ai membri dei gruppi che sostengono il regime. Tali organizzazioni di

regime non soddisfano nessuna delle tre condizioni dell’istituzionalità sopra

menzionate e non promuovono un meccanismo per la trasmissione aperta del

potere o un processo flessibile di scambio politico tra i detentori del potere po-

litico e i gruppi sociali. In poche parole, queste organizzazioni tendono a essere

non-istituzionali o pre-istituzionali e il mancato riconoscimento della loro vera

natura è una delle principali insidie dell’istituzionalismo di Huntington. Sono

“fattori del regime” di carattere non istituzionale perché non forniscono garan-

zie generalizzate per entrambe le parti coinvolte nella lotta per il potere (deten-

tori del potere e sfidanti), ma possono essere efficaci come strumenti di controllo

del conflitto e della mobilitazione popolare attraverso la coercizione e la manipo-

lazione (Ieraci 2013a).

Il fallimento è inerente ai regimi debolmente istituzionalizzati (Ieraci 2013b).

Il potere militare e il potere patrimoniale si manifestano in politica quando que-

sta non dispone di argini sufficienti a contenerli e a difendere la sua autonomia.

Questi argini sono dati dai tratti d’istituzionalità sopra richiamati, che in senso

lato si possono ricondurre alle procedure razionali-legali e che in definitiva sgan-

ciano l’esercizio del potere dalla persona e lo collegano astrattamente a ruoli e

funzioni. Quando manca, o è debole, questa “matrice istituzionale” (per dirla con

le parole di Roth 1968, già richiamate), alcuni “fattori del regime” con le loro élite

(un partito, una burocrazia chiusa, il corpo militare e gli apparati della violenza),

in varia combinazione nei casi concreti, riempiono il vuoto di potere e possono

avere successo nello stabilizzare un regime politico. Ma questa stabilizzazione è

precaria, ed è miope scambiare la “forza” o la “robustezza” dei “fattori del regime”,

perché nel medio-lungo periodo l’uso o la minaccia della violenza e i legami pri-

vilegiati delle élite del potere con alcuni “clienti” crea disaffezione e rabbia negli

esclusi, ponendo le condizioni persino della ribellione.

Page 232: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

231pretorianesimo, patrimonialismo e democrazia

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Diego Abenante is Associate professor of Asian History at the Department of

Political and Social Sciences of the University of Trieste. He is interested in the

history of Islam in South Asia and in the modern politics of India and Pakistan.

Among his publications: La colonizzazione di Multan, EUT, 2004; L’Islam in Asia me-

ridionale: identità, interazione, contaminazione, Franco Angeli, 2006 (co-edited with

Elisa Giunchi); “La controversia anti-Ahmadīyya e il conflitto per l’autorità nel

Pakistan contemporaneo”, in: E. Giunchi, M. Golfetto, L. Osti (a cura di) L’autorità

nei paesi musulmani, Jaca Book, 2018. He is a Fellow of the Royal Asiatic Society.

Federico Battera is Associate professor of African Political Systems at the

Department of Political and Social Sciences, University of Trieste, Italy. He is

the author of a series of articles and chapters on Somali, Kenyan, Zambian and

North-African and Middle East politics and history. He recently published on the

Journal of Asian and African Studies and on Contemporary Arab Affairs.

Anna Bosco is Associate Professor of Political Science at the University of Florence.

She teaches European Union Politics and directs (together with Susannah Verney)

the magazine ‘South European Society and Politics’ (Routledge). Her most recent

publication is The Four Crises of Spain, Il Mulino, 2018.

Note biografiche

Page 237: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

236

Fabio Fossati is Associate professor in Political Science at the University of

Trieste, where he teaches International Relations. He has been visiting scholar

at the CEPAL in Santiago and Buenos Aires, CENDES in Caracas, University of

California in Berkeley, Essex University, Universidad Complutense in Madrid

and OECD in Paris. He has published four books in Italian (Mercato e democrazia

in America Latina; Economia e politica estera in Italia; I conflitti armati contemporanei:

quali soluzioni, with the preface of Galtung; Introduzione alla politica mondiale),

and one book in English: Interests and stability or ideologies and order in contempo-

rary world politics (Cambridge Scholars Publishing). Moreover, he has published

nearly 50 articles in International Relations and Comparative Politics journals.

Lucio Franzese is Associate Professor of General Theory of Law at the University

of Trieste where he teaches also Law and Economics. His main research interests

concern with dichotomy between private and public (Il contratto oltre private e

pubblico, II ed., CEDAM, Padova 2001; Feliciano Benvenuti - Il diritto come scienza

umana, ESI, Napoli 1999; Ordine Economico e ordinamento giuridico, II ed., CEDAM,

Padova 2005), the principle of subsidiarity (Percorsi della sussidiarietà, CEDAM,

Padova 2012) and the issue of reconciliation quarrels (La controversia come espe-

rienza giuridica della conciliazione, in “RIFD. Rivista internazionale di filosofia del

diritto”, 2015 pp. 488-505; Il principio di autocomposizione delle liti tra mediazione e

processo, in “JUS”, 2017 pp. 247-268).

Giuseppe Ieraci is Full Professor of Political Science at the Department of Political

and Social Sciences of Trieste University, Italy, and Visiting Professor at the Faculty

of Social Sciences, University of Ljubljana. His research interests are in the fields

of democratic theory, party systems and political institutions, and policy analysis.

His recent publications include: “Government Alternation and Patterns of

Competition in Europe. Comparative Data in Search of some Explanations”, West

European politics, Vol. 35, No. 3, 530–550, 2012; “Il crollo dei regimi non democra-

tici. Stabilità politica e crisi di regime in Tunisia, Libia ed Egitto”, Rivista Italiana

di Scienza Politica, XLIII, n. 1, aprile 2013, pp. 3-28. “Revolutions and Democracy”,

Quaderni di Scienza Politica, vol. XXII (3), 2015, pp. 319-338; Le Politiche Pubbliche.

Concetti, teorie e metodi, Torino, UTET, 2016; “From Movement to Party. MeetUp

groups, Policies and Conflict in the Organisational Development of the Italian

Five Stars Movement” (with R. Toffoletto), Quaderni di Scienza Politica, vol. XXV (3),

2018, pp. 399-421; “Expertise e comitati tecnici nelle decisioni pubbliche. Il caso

della regolazione europea delle emissioni inquinanti e delle particelle in sospen-

sione (PM10)”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 1, 2019, pp. 5-34.

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Cesare La Mantia is Associate Professor of Eastern European History. He stu-

dies in particular the long-term constants present in the area. Among his most

recent works: “La moda polacca nel periodo comunista. Creatività e dissenso po-

litico”, in: G. Motta (a cura di), La forza della moda. Potere, rappresentazione, comu-

nicazione, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2019, pp. 169-196; “Manfredi Gravina

Alto commissario della SdN nella città libera di Danzica (1929-1932)”, in: Italy on

the Rimland. Storia militare di una penisola eurasiatica, vol. I, Intermarium, 2018,

pp. 343-360; “La violenza come strumento politico tra gli ultimi anni dell’Ot-

tocento e i primi del Novecento polacco”, Rivista della Cooperazione Giuridica

Internazionale, vol. 21, 60, 2017, pp. 109-123; “La fuga dall’Ungheria nel 1956: le

cause e i primi interventi internazionali a sostegno dei profughi”, in: S. Baldin,

M. Zago (a cura di), Europe of Migrations: Policies, Legal Issues and Experiences, EUT,

2017, pp. 359-384; “Maxim Litvinov: Un diplomatico (non laureato) a servizio

della rivoluzione”, in: Russia 1917. La rivoluzione di Ottobre nei contesti politici, socia-

li, religiosi e culturali. Studi e Ricerche internazionali, 2017, pp. 215-245.

Alessia Vatta is Assistant Professor in the Department of Political and Social

Sciences of Trieste University, and teaches European Public Policy. Her research

interests include European politics, interest groups and lobbying. Her recent pu-

blications include articles on employers’ associations, European Union common

commercial policy and migration policy.

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Le versioni elettroniche a testo completo sono disponibili nell’Archivio istituzionale di Ateneo dell’Università di Trieste “OpenstarTS”

www.openstarts.units.it/handle/10077/12314

1 La cittadinanza molteplice. Ipotesi e comparazioni

Daniele Andreozzi, Sara Tonolo (eds)

2 Attraverso i conflitti. Neutralità e commercio fra età moderna

ed età contemporanea

Daniele Andreozzi (ed)

3 Europe of Migrations: Policies, Legal Issues and Experiences

Serena Baldin, Moreno Zago (eds) (online)

4 Conveniente, giusto o affidabile?

Il fotovoltaico e le logiche della diffusione di un’innovazione

Gabriele Blasutig

5 Energia e innovazione tra flussi globali e circuiti locali

Giorgio Osti, Luigi Pellizzoni (eds)

6 “Democrazie difficili” in Europa, Asia, Nord Africa e Medio Oriente:

competizione partitica, conflitti e democratizzazione

Diego Abenante (ed)

Page 241: 6 in Europa, Asia, Nord Africa conflitti e

Finito di stampare nel mese di ottobre 2019

da Rubbettino print - Soveria Mannelli (CZ)