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Massimo Fini Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta Ingrandimenti Copyright 1996 Arnoldo Mondadori Editore S'p'A' Milano I edizione marzo 1996 Arnoldo Mondadori Editore Chi è stato veramente Catilina? Quali erano gli scopi della sua congiura? Massimo Fini, che con Nerone ci ha già abituati a rivisitazioni critiche di personaggi troppo facilmente liquidati da una storiografia conformista e spesso compiacente con i vincitori, risponde in questo libro a entrambi gli interrogativi, tratteggiando i contorni di una figura lontana dal personaggio che Sallustio e Cicerone ci hanno tramandato. Patrizio di nobilissima origine, bello e inquieto, Catilina si oppose all'oligarchia dominante da cui proveniva e abbracciò la causa della plebe. Sbaglia però, avverte Fini, chi interpreta Catilina come un precursore della lotta di classe; egli non preannuncia, né potrebbe, un futuro lontano diciotto secoli, guarda semmai dietro di sé, verso la Roma delle origini, dove i valori erano l'onore, il coraggio fisico e morale, la lealtà, la coerenza, e dove la ricchezza non faceva ancora premio su tutto. Prototipo quasi retorico del romano antico, uomo incapace di mediazioni, che dice ciò che pensa e fa ciò che dice, Catilina è un personaggio lontanissimo dai tempi nostri. In compenso sono molte le analogie fra la Roma di Catilina e l'Italia di oggi. Anche allora, una classe dirigente corrotta mascherava dietro nobili parole sul «bene comune» la difesa dei propri privilegi; anche allora, la ricchezza e il potere avevano preso il posto dei valori morali; anche allora, la legge e le regole della democrazia venivano prostituite alle convenienze di parte. Più volte Catilina tentò la via legale del consolato: ne fu sempre respinto con ogni genere di trucchi e di brogli. Allora decise che ne aveva abbastanza di questi giochi e giochetti «democratici». E prese le armi: affrontò lo scontro con forze enormemente inferiori, sapendo di soccombere. E morì, pagando con la vita la fedeltà a se stesso. Massimo Fini, di madre russa e padre pisano, è nato a Cremeno (Como) nel 1944. Lucido «bastian contrario» del giornalismo italiano, ha cominciato all'«Europeo» di Tommaso Giglio e Oriana Fallaci dove è stato inviato speciale e poi editorialista. Ha partecipato alla fondazione di «Repubblica» e ha collaborato al «Giorno», al «Tempo» e all'«Indipendente». Con Aldo Canale è stato l'animatore del mensile di politica e cultura «Pagina», dove si sono formati alcuni dei più notevoli giornalisti e intellettuali d'oggi. Ha pubblicato: La Ragione aveva Torto? (Camunia 1985 e Sperling & Kupfer 1993), Elogio della guerra (Mondadori 1989), Il conformista (Mondadori 1990) e Nerone, duemila anni di calunnie (Mondadori 1993). «Mi sono assunto, com'è mio costume, la causa generale dei disgraziati.» Lucio Sergio Catilina

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Massimo FiniCatilina. Ritratto di un uomo in rivolta

Ingrandimenti

Copyright 1996Arnoldo Mondadori Editore S'p'A'MilanoI edizione marzo 1996Arnoldo Mondadori Editore

Chi è stato veramente Catilina? Quali erano gli scopi della sua congiura? Massimo Fini, che con Nerone ci ha già abituati a rivisitazioni critiche di personaggi troppo facilmente liquidati da una storiografia conformista e spesso compiacente con i vincitori, risponde in questo libro a entrambi gli interrogativi, tratteggiando i contorni di una figura lontana dal personaggio che Sallustio e Cicerone ci hanno tramandato. Patrizio di nobilissima origine, bello e inquieto, Catilina si oppose all'oligarchia dominante da cui proveniva e abbracciò la causa della plebe. Sbaglia però, avverte Fini, chi interpreta Catilina come un precursore della lotta di classe; egli non preannuncia, né potrebbe, un futuro lontano diciotto secoli, guarda semmai dietro di sé, verso la Roma delle origini, dove i valori erano l'onore, il coraggio fisico e morale, la lealtà, la coerenza, e dove la ricchezza non faceva ancora premio su tutto. Prototipo quasi retorico del romano antico, uomo incapace di mediazioni, che dice ciò che pensa e fa ciò che dice, Catilina è un personaggio lontanissimo dai tempi nostri. In compenso sono molte le analogie fra la Roma di Catilina e l'Italia di oggi. Anche allora, una classe dirigente corrotta mascherava dietro nobili parole sul «bene comune» la difesa dei propri privilegi; anche allora, la ricchezza e il potere avevano preso il posto dei valori morali; anche allora, la legge e le regole della democrazia venivano prostituite alle convenienze di parte. Più volte Catilina tentò la via legale del consolato: ne fu sempre respinto con ogni genere di trucchi e di brogli. Allora decise che ne aveva abbastanza di questi giochi e giochetti «democratici». E prese le armi: affrontò lo scontro con forze enormemente inferiori, sapendo di soccombere. E morì, pagando con la vita la fedeltà a se stesso.

Massimo Fini, di madre russa e padre pisano, è nato a Cremeno (Como) nel 1944. Lucido «bastian contrario» del giornalismo italiano, ha cominciato all'«Europeo» di Tommaso Giglio e Oriana Fallaci dove è stato inviato speciale e poi editorialista. Ha partecipato alla fondazione di «Repubblica» e ha collaborato al «Giorno», al «Tempo» e all'«Indipendente». Con Aldo Canale è stato l'animatore del mensile di politica e cultura «Pagina», dove si sono formati alcuni dei più notevoli giornalisti e intellettuali d'oggi. Ha pubblicato: La Ragione aveva Torto? (Camunia 1985 e Sperling & Kupfer 1993), Elogio della guerra (Mondadori 1989), Il conformista (Mondadori 1990) e Nerone, duemila anni di calunnie (Mondadori 1993).

«Mi sono assunto, com'è mio costume, la causa generale dei disgraziati.» Lucio Sergio Catilina

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I.Infanzia di un capo

«Lucio Catilina, nato da illustre famiglia, era fortissimo di animo e di corpo, ma di indole trista e malvagia. Fin dall'adolescenza trovò piacere nelle stragi, nelle rapine, nelle discordie civili e fra esse passò i suoi anni giovanili. Corpo resistente alla fame, al freddo, alla veglia fino all'inverosimile; animo audace, subdolo, incostante, simulatore e dissimulatore in qualsiasi materia, cupido dell'altrui, scialacquatore del suo, sfrenato nelle passioni, buona parlantina, nessuna saggezza, la mente vasta correva sempre verso lo smisurato, l'incredibile, l'irraggiungibile.» (1) Con queste parole, quasi altrettanto celebri di quelle con cui Cicerone apre la prima Catilinaria («Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?»), (2) Sallustio inizia il ritratto di Lucio Sergio Catilina, il protagonista della famosa, esecratissima e fallita congiura. E fra l'opera di Cicerone e quella di Sallustio corre quasi tutto ciò che sappiamo del personaggio perché le altre fonti (Plutarco, Asconio, Appiano, Svetonio, Dione Cassio) sono frammentarie, episodiche o troppo lontane dai fatti. Tanto che si è molto spesso sostenuto che se Cicerone non avesse gonfiato a dismisura l'importanza della congiura per farsi bello e Sallustio non fosse stato mosso dall'esigenza pamphlettistica di scagionare Cesare dall'accusa di avervi partecipato, non solo Catilina non sarebbe passato alla Storia ma l'avvenimento che lo vide protagonista sarebbe stato ricondotto a ciò che realmente fu: un modesto episodio di cronaca nera inserito in ben altri eventi di cui il primo secolo avanti Cristo fu ricchissimo. (3) Tesi di comodo che nasconde un imbarazzo. Quello consueto di molti storici e studiosi della latinità di fronte a personaggi che subirono la più severa e infamante condanna morale da parte dei loro contemporanei ma che se li si va a guardare più da vicino e con occhio moderno, badando ai fatti e meno alle parole, risaltano in tutt'altra luce ridimensionando contemporaneamente i loro accusatori. Di questi anzi emergono nel raffronto, con un effetto boomerang, la miopia politica e proprio la miseria morale. Ed è fastidioso ammetterlo se fra gli accusatori ci sono autori illustri e assai stimati, come per l'appunto Cicerone e Sallustio, le cui austere e gravi parole sono state inculcate a generazioni di studenti, da quegli stessi studiosi o dai loro precettori e maestri, senza il minimo cenno di critica e quindi di autocritica. Allora, per uscir d'imbarazzo e salvare capra e cavoli, si afferma che quei personaggi quand'anche fossero stati esecrati a torto furono comunque di poco conto e che solo la capacità letteraria dei loro biografi li rese, sia pur in negativo, grandi (anche di Nerone si è detto che senza Tacito sarebbe un imperatore qualunque). (4) Nel caso di Catilina, Cicerone e Sallustio questa communis opinio benpensante è efficacemente sintetizzata dal grande storico francese Jérôme Carcopino che scrive: «Assegnare alla congiura di Catilina un posto nella storia romana equivalente a quello che giustamente occupano nella letteratura i capolavori di Sallustio e le Catilinarie sarebbe veramente farle troppo onore». (5) L'impressione è che il piacere letterario offuschi il senso critico non solo, com'è comprensibile, dei professori di latino ma anche dello storico. Perché le cose non stanno come le mette Carcopino (o chi per lui). Infatti i primi a rendersi conto che la congiura di Catilina era un fatto di grande portata, nuovo e potenzialmente devastante per la società romana, furono proprio i contemporanei. Cicerone, che la scoprì e la debellò, fu insignito, per la prima

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volta nella storia di Roma, del titolo di «Padre della Patria». Segno evidente che il pericolo era stato grande. Anche Sallustio, introducendo la congiura, parla di novità del pericolo e del delitto (sceleris atque periculi novitate), (6) ben consapevole, come l'oligarchia dominante che ferocemente lo avversò, che il tentativo di Catilina non era un semplice putsch per sostituire un gruppo di potere a un altro, come ce n'erano già stati, per esempio con Mario e Silla. E Plutarco, in più parti delle Vite parallele, scritte fra il I e il Ii secolo dopo Cristo, parla della congiura di Catilina come del più grave attacco portato allo Stato romano e al suo assetto sociale e istituzionale dalla nascita dell'Urbe ai tempi suoi: (7) eppure c'erano già stati la dittatura di Cesare, l'Impero di Augusto e addirittura la monarchia di origine semidivina instaurata da Domiziano. Perché, d'altronde, nessun autore latino si occupa delle ribellioni di Sertorio, di Lepido, di Spartaco che precedono di pochi anni quella di Catilina? Perché ancora due secoli dopo non c'era storico dell'aristocrazia che non la maledicesse e bonus vir che al nome di Catilina non fosse colto da sdegno e da orrore (8) mentre quelli di Sertorio, di Lepido e dello stesso Spartaco erano stati dimenticati o metabolizzati? Una ragione c'è. E buona: la cosiddetta congiura di Catilina è la prima, anche se fallita, rivoluzione della Storia.

Lucio Sergio Catilina era nato a Roma nel 108 a'C' (9) dal senatore Lucio Sergio Silo e da Belliena che ebbero altri due figli, un maschio e una femmina. Apparteneva alla gens Sergia, una delle cento familiae che, secondo la leggenda, avevano fondato Roma. I Sergi, come facevano spesso le familiae romane di più alto lignaggio che amavano fabbricarsi alberi genealogici fantastici, (10) pretendevano di discendere da Sergesto, il mitico compagno di Enea. Per quanto illustre e antica la gens Sergia non aveva però dato grandi personaggi, almeno nei tempi recenti. L'ultimo Sergio di una qualche notorietà risaliva a più di un secolo prima: era il pretore Marco Sergio che si era distinto nella seconda guerra punica, era stato fatto prigioniero due volte da Annibale, due volte gli era sfuggito e aveva collezionato ventitré ferite in battaglia. Poi più nulla. Quella Sergia era una stirpe che si stava lentamente estinguendo. Non sappiamo da dove venisse il cognomen Catilina che è unico nella storia di Roma. Quasi certamente era un soprannome e alludeva alla sua straordinaria resistenza fisica. (11) Ne è conferma un'epigrafe dell'89 in cui si parla di un L' Sergius, L' fil (12) e basta. «Catilina» è ancora di là da venire. Dell'infanzia e dell'adolescenza di Catilina non sappiamo nulla. Quando appare sulla scena, a diciannove anni, è un giovane alto, asciutto, atletico, nevrile. Il volto è pallido e un po' fosco, i capelli, che porta corti secondo l'usanza degli aristocratici romani, sono scuri come gli occhi ora alteri ora seducenti ma più spesso infiammati da una qualche passione. E' il classico «bel tenebroso». Ha fascino sulle donne e ascendente sui coetanei e conserverà sempre una grande presa sui giovani che infatti accorreranno in massa nel suo movimento. Che fosse un uomo fuori del comune lo ammette, sia pur a qualche anno dalla sua morte, lo stesso Cicerone che scrive: «Non credo sia esistito mai al mondo un individuo più singolare che riunisse in sé doti diverse e contraddittorie e opposte inclinazioni e desideri». (13) E più avanti ne abbozza questo ritratto: «Sapeva comportarsi austeramente con le persone serie e allegramente con i gaudenti, grave con gli uomini d'età, gioviale con i giovani,

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temerario con i facinorosi, scostumato con i lascivi». (14) Era avvincente, eloquente, duttile, si trovava a suo agio in qualsiasi ambiente e situazione, gli piaceva mischiarsi a ogni sorta di persone, era avido di esperienze anche, e forse soprattutto, quelle limite. Con linguaggio moderno lo chiameremmo un border line. Ma ciò che più colpiva in Catilina erano una spavalderia, un'audacia, un coraggio spinti fino alla temerarietà, di cui diede prova per tutta la vita, in guerra e in pace. Giovanissimo aveva sedotto più di una nobile vergine sfidando le ire delle loro potenti familiae e la morale della buona società romana. (15) La sua fama di tombeur de femmes era tale che nel 73 fu accusato da Publio Clodio (16) di aver violato una Vestale, sacrilegio e reato gravissimi per i quali la donna veniva sepolta viva e il seduttore ucciso a nerbate. La Vestale si chiamava Fabia, era sorella di Terenzia la prima moglie di Cicerone poi sposa, in terze nozze, di Sallustio. (17) Catilina venne trovato in atteggiamento sospetto presso la cella di Fabia. Processato fu assolto, (18) ma il dubbio rimase ed è quindi comprensibile che Cicerone e Sallustio, al di là delle ragioni politiche, avessero il dente avvelenato con lui. In realtà Catilina dopo le seconde nozze con la bellissima, ricca e appassionata Aurelia Orestilla (19) (era rimasto vedovo della prima moglie, Gratidia, da cui aveva avuto l'unico figlio) aveva messo la testa a posto, almeno sentimentalmente, perché amava teneramente quella donna. (20) Cicerone e Sallustio arriveranno alla suprema carogneria di accusarlo, sia pur in modo allusivo, con l'arte del dire e non dire, di aver ucciso il figlio proprio per poter sposare Orestilla che non voleva avere per casa quel ragazzo ormai adolescente. E' un'accusa assurda adombrata al solo scopo di mettere in una luce ancora più sinistra l'avversario. Nessun processo fu mai intentato per un delitto così orrendo, che sarebbe avvenuto in anni in cui Catilina, morto da tempo Silla, il suo antico comandante, non godeva di alcuna protezione. E non fu inquisita nemmeno Orestilla, anche dopo le pubbliche insinuazioni di Cicerone e quando, ucciso il marito, era una vedova indifesa. Inoltre Catilina, in una lettera scritta prima di andare a morire in battaglia all'amico Quinto Catulo, gli raccomanda la moglie pregandolo di proteggerla dalle prevedibili vessazioni «in nome dei tuoi figli». (21) Catulo, ex censore e princeps del Senato, era un uomo di indiscussa integrità morale e ovviamente Catilina non avrebbe potuto rivolgersi a lui, tantomeno in quei termini, se fosse stato conosciuto come parricida. La verità che emerge da questa vicenda è forse più spregevole dello stesso delitto accollato a Catilina: Cicerone strumentalizzò una tragedia familiare, la morte della moglie e dell'unico figlio, per infangare il ribelle. Nell'89, a diciannove anni, Catilina si arruola, probabilmente come tribunus legionis, nelle milizie del console Pompeo Strabone che combatte gli ex alleati italici in lotta per ottenere la cittadinanza romana. Ha come compagno d'armi il figlio di Strabone, il futuro Pompeo Magno, che ha due anni meno di lui. Nell'88 passa agli ordini di Silla, console quell'anno, che sta partendo per l'Asia per muovere guerra a Mitridate, re del Ponto. Ma quando Silla ha già raggiunto le sue truppe, a Roma il tribuno della plebe Sulpicio Rufo fa votare una legge che gli toglie il comando della spedizione per affidarlo a Mario che, pur onusto di gloria per le vittorie sui Cimbri e i Teutoni, in quel momento era un privato cittadino. Fu la scintilla della guerra civile che covava da tempo. Silla infatti era, o si considerava, il campione degli aristocratici (optimates), Mario invece il leader del partito democratico (populares), nato una

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settantina di anni prima dalle ceneri dei Gracchi, che difendeva, in teoria, gli interessi della plebe. Ma in quella lotta c'era ben poco di ideologico e ancor meno di sociale, era lo scontro fra due grandi personalità. Silla, al quale si era unito anche l'altro console, Pompeo Rufo, marciò immediatamente sulla capitale e la prese con la forza. Poi fece approvare dal Senato un Senatus consultum ultimum che dichiarava i suoi avversari hostes, nemici della patria. Sulpicio Rufo fu ucciso, Mario dovette fuggire da Roma. Solo allora Silla partì per l'Asia. E Catilina andò con lui. Al seguito del grande generale, Catilina si trovò a fianco altri giovani e brillanti ufficiali: Cornelio Dolabella, Antonio Ibrida, Lucio Licinio Lucullo. Di questi Lucullo, che aveva allora ventisette anni, era senz'altro il più notevole. Passato alla storia, more solito, per le ragioni più banali e sciocche, per la raffinatezza delle sue cene, Lucullo fu in realtà un grande generale, un valoroso soldato, un notevole oratore, un romano coltissimo, sostenitore, e in ciò antesignano, delle lettere greche e soprattutto, cosa assai rara per non dire unica nella Roma del tempo, un uomo moralmente e materialmente onesto. (22) Mandato come proquestore in Asia Minore per riordinare le dissestate finanze di quella provincia si astenne dalle spoliazioni sistematiche cui si dedicava quasi ogni governatore anche perché questo era il modo, tacitamente tollerato, con cui gli uomini politici romani autofinanziavano le proprie carriere. Quando nel 74, console, fu rimandato in Asia dove era ripresa la guerra contro Mitridate cercò di limitare gli immensi e rapinosi profitti del potente ordine equestre (appaltatori delle imposte, banchieri, grandi commercianti) che erano causa di molti malumori fra gli abitanti di quelle regioni. (23) Ridusse tra l'altro il tasso di interesse legale al 12 per cento e proibì ai creditori di esigere arretrati eccedenti il capitale, misure eque che però danneggiavano i trafficanti romani. (24) Costoro cominciarono a brigare per togliergli il comando. E alla fine ci riuscirono approfittando anche dell'ostilità dei soldati cui Lucullo, in varie occasioni, aveva proibito il saccheggio. (25) Nella manovra ebbe una parte di rilievo Cicerone, difensore degli interessi dei cavalieri, il quale appoggiò la lex Gabinia (26) che affidava il comando a Pompeo. Così nel 67, dopo sette anni di campagna vittoriosa contro l'astuto e irriducibile Mitridate, e proprio mentre stava per assestare al nemico il colpo decisivo, Lucullo dovette lasciare il posto a Pompeo il quale, come spesso gli accadde nella sua fortunata esistenza, colse i frutti di un trionfo che l'altro aveva preparato. Amareggiato Lucullo rientrò a Roma e si ritirò a vita privata dandosi, oltre che agli studi, a quelle raffinatezze per cui è rimasto famoso. Lucullo, Catilina, Dolabella, Ibrida costituivano la «pattuglia di mischia» di cui Silla si serviva per le missioni più difficili e pericolose. Fu in questo periodo che il giovane Lucio Sergio diede prova di quella resistenza alla fatica, di quella capacità di soffrire «spinta fino all'inverosimile» (27) che divenne leggendaria a Roma e gli valse il soprannome di Catilina. La prima guerra mitridatica durò cinque lunghi anni e si concluse con una pace incerta perché Silla aveva fretta di rientrare in Italia per regolare i conti con i nemici interni. A Roma infatti, dopo la sua partenza, Mario e il console Cornelio Cinna, suo seguace, si erano abbandonati con inaudita violenza alle più feroci e spietate vendette sui sillani, trucidandoli a centinaia (fine 87). Morto Mario nell'86, Cinna, eletto ripetutamente console, governò Roma da padrone assoluto. Alla notizia, per loro terrorizzante, del ritorno di Silla i

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mariani cercarono di bloccarlo sul mare, ma ci riuscirono solo per qualche mese. Nella primavera dell'83 Silla sbarcò a Brindisi con un esercito di cinque legioni composte da ufficiali e soldati a lui fedelissimi. Lucullo, che non aveva voluto partecipare alla imminente guerra civile, se n'era andato a fare il proquestore in Asia Minore. Ma a Brindisi giunsero a rafforzare l'esercito di Silla Marco Crasso dall'Africa, Metello Pio dalla Liguria e Gneo Pompeo con una milizia personale reclutata nei suoi immensi possedimenti del Piceno. Erano presenti due dei tre futuri triumviri. Silla impiegò più di un anno per arrivare a Roma ma la sua avanzata non conobbe sconfitte. I mariani furono sbaragliati al Volturno, a Chiusi, a Preneste. La battaglia decisiva si svolse nell'ottobre dell'82 sotto le mura di Roma, a Porta Collina. (28) E qui furono determinanti Crasso e Catilina che Silla aveva schierato sull'ala destra del suo esercito riservandosi il comando della sinistra. Silla fu schiacciato sulle mura dai mariani, che erano stati rinforzati da reparti di sanniti, guerrieri famosi, e stava per soccombere quando Crasso e Catilina sfondarono sulla destra inseguendo i nemici per chilometri fino ad Antemnae. Silla poté così disimpegnarsi e un'ora dopo il tramonto era in grado di tornare all'attacco. La battaglia durò tutta la notte, feroce, spietata. L'esercito dei mariani venne completamente distrutto e i morti furono decine di migliaia. Tremila superstiti, fra cui i generali Damasippo, Carina e Ponzio, fatti prigionieri, furono portati per ordine di Silla al Campo Marzio e qui massacrati. Con la lex Valeria il Senato, totalmente succube, nominò Silla dittatore a tempo indeterminato, in aperta violazione della costituzione repubblicana la quale prevedeva che questa magistratura straordinaria non potesse durare più di sei mesi. E per la prima volta nella storia di Roma furono compilate delle liste di proscrizione, cioè liste di avversari politici da eliminare. Per la verità i sillani non facevano che rendere la pariglia ai mariani per quanto avevano subìto nell'87. E anche il comando a tempo indeterminato non era proprio una novità perché Mario aveva tenuto il consolato per sette volte, di cui cinque consecutive, e Cinna per quattro, mentre il mandato dei consoli era annuale e non rinnovabile se non dopo dieci anni. Ma insomma liste di proscrizione emanate con bando e affisse al Foro non se ne erano ancora viste a Roma. In passato, fra romani, ci si era ammazzati e scannati a volontà ma senza dare alla caccia all'uomo una veste ufficiale e quasi scientifica. Furono organizzate delle squadre punitive agli ordini degli ufficiali di Silla. Fra questi c'erano Crasso e Catilina che comandava una squadra di guerrieri celti. (29) Vennero uccisi 90 senatori, 15 consolari e 2600 cavalieri. (30) Una carneficina che valse a Catilina una cattiva fama che, abilmente strumentalizzata dai suoi avversari, si sarebbe portato dietro tutta la vita e oltre. La stessa fama però non perseguitò altri protagonisti di quelle convulse giornate, come Crasso che salì tranquillamente alle più alte cariche della Repubblica fino al triumvirato con Cesare e Pompeo il quale, a sua volta, nella guerra civile ci aveva dato dentro di brutto anche se non risulta che abbia partecipato direttamente alle proscrizioni. Crasso, già ricco di suo, incrementò ulteriormente il proprio patrimonio incamerando, tramite confisca, i beni dei proscritti. Del resto quasi tutti i seguaci di Silla, quelli almeno di un certo peso, si arricchirono in questo modo. (31) Catilina, a quanto se ne sa, no. Si è discusso se Crasso, Catilina e gli altri ufficiali di Silla avessero il dovere di obbedire agli ordini sanguinari del dittatore. (32) Dal punto di vista giuridico la risposta dipende dalla costituzionalità o meno della lex Valeria. In un caso Crasso e

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Catilina avrebbero obbedito a ordini del legittimo governo di Roma, nell'altro si sarebbe trattato di esecuzioni sommarie. In ogni modo sono questioni di lana caprina. Crasso, Catilina e Pompeo, come tutti coloro che parteciparono a quei torbidi, si immersero con ardore nel clima della guerra civile e non stavano certo a badare se ciò che facevano fosse legale oppure no. Per gli eccessi durante le proscrizioni sillane ci furono, cambiato il clima politico, dei processi. Catilina ne subì uno per l'uccisione del cognato, (33) il pretore Mario Gratidiano, che era anche zio di Cicerone e nipote adottivo di Mario e per questo odiatissimo da Silla. Secondo l'accusa Catilina, dopo aver inseguito e trucidato Gratidiano sulla tomba di Quinto Lutazio Catulo, una delle vittime più illustri delle persecuzioni mariane, avrebbe attraversato mezza Roma tenendone per i capelli la testa mozza e sanguinante per depositarla nel Foro ai piedi di Silla. (34) Poi si sarebbe lavato le mani nell'acqua sacrale del vicino tempio di Apollo. Catilina fu assolto da queste accuse in un processo che si tenne diciotto anni dopo i fatti, (35) ma poiché presidente del tribunale era Cesare, che in quel momento era legato politicamente a Catilina, può essere stato un verdetto di comodo. Finite le guerre e le discordie civili Catilina, ventiseienne, si dedicò alla carriera politica che fu rapida e brillante. Nel 78 è questore ed entra così a far parte del Senato, nel 74 legato in Macedonia, nel 70 edile, nel 68 pretore, nel 67 propretore, cioè governatore, in Africa. Per accedere alle magistrature c'era un limite minimo d'età (30 per la questura, 37 per l'edilità, 40 per la pretura, 43 per il consolato) e Catilina le centrò tutte al primo anno utile: fu questore a trent'anni, edile a 37, pretore a 40. Si può notare che percorse l'intero cursus honorum quando Silla, il suo protettore, era morto e lui, ormai staccatosi dal partito aristocratico senza approdare a quello democratico, un isolato. Proprio la regolarità della carriera di Catilina, il fatto che abbia raggiunto le varie magistrature ai limiti di età ma non prima, ci dice che il suo fascino e le sue doti politiche erano notevoli, perché appena si presentava veniva eletto, ma ci dice anche che correva da solo e con mezzi finanziari che dovevano essere relativamente modesti. Infatti quando un uomo politico era appoggiato da cricche influenti, dell'uno o dell'altro partito, e possedeva grandi ricchezze poteva, aggirando in qualche modo la legge, arrivare alle magistrature anche prima dell'età canonica, come accadde a Pompeo che fu console a soli 36 anni. Era il 66, Catilina aveva 42 anni. Era venuto per lui il momento di puntare al consolato. Nella primavera rientrò dall'Africa per partecipare ai comizi che avrebbero eletto i consoli per il 65, anno in cui avrebbe avuto l'età richiesta. Ma sulla sua strada trovò l'ostilità feroce dell'oligarchia aristocratica e a farsene interprete un uomo che, per temperamento, abitudini, attitudini, carattere, concezione della vita, era diversissimo da lui, anzi proprio l'opposto: Marco Tullio Cicerone.

Note (1) Sallustio, La congiura di Catilina, V. (2) Cicerone, Catilinarie, I, 1. (3) Così si esprime («episode») W' Hoffmann, Catilina und die Römische Revolution, Gymnasium, Lxvi, pp' 459-77. Una bibliografia abbastanza esauriente, anche se purtroppo non ragionata, degli studi su Catilina e la congiura, aggiornata al 1966 e comprendente 356 titoli, è quella di N' Criniti, Aevum, 1967, Iii-Iv. Fondante è l'opera, radicalmente avversa al ribelle e ripresa poi da quasi tutti

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gli autori successivi, dell'accademico francese G' Boissier, La conjuration de Catilina, «Revue des Deux Mondes», Xxxv, 1905, tradotta in italiano (La congiura di Catilina, Milano 1929). Anche letteratura e teatro si sono occupati di Catilina. Cominciò Ben Jonson nel 1616 con una tragedia intitolata Catilina, seguito nel 1748 da P' Crébillon e da Voltaire (Rome sauvée, tragedia nella quale il grande scrittore fu anche attore nella parte di Cicerone), A' Dumas (1848), Ibsen (1850), P' Merimée. Fra i moderni si possono ricordare i romanzi di B' Brecht, Die Geschäfte des Herrn Julius Cäsar, Berlino 1949, (Gli affari del signor Giulio Cesare, Torino 1959), di R' Warner, The Young Caesar, Londra, 1958 (Il giovane Cesare, autobiografia immaginaria, Milano 1960) e il dramma di G' Prosperi, La congiura (Premio Marzotto 1959). L'imperatore Napoleone Iii ha trattato il personaggio di Catilina nella sua incompleta Histoire de Jules César, ovviamente favorevole al dittatore e ostile al congiurato. Tutti gli autori, specialisti, divulgatori, letterati, si occupano di Catilina o esclusivamente in relazione alla congiura o nell'ambito di studi dedicati a Cicerone, Cesare o più in generale alle guerre civili del primo secolo a'C' oppure fanno della saggistica politica (vedi in proposito la nota 30 del Cap' Iv). Non esistono, almeno per quanto a nostra conoscenza, vere e proprie biografie di Catilina. (4) Vedi il mio Nerone, duemila anni di calunnie, Mondadori, 1993. (5) J' Carcopino, Giulio Cesare, Rusconi, 1993, p' 180. (6) Sallustio, op' cit', Iv. (7) Plutarco, Vite parallele, Vita di Bruto, 5; Vita di Catone, 22; Vita di Cesare, 7; Vita di Cicerone, passim; Vita di Crasso, 13. (8) Nell'Eneide Virgilio fa apparire a Enea, nel Tartaro, lo spirito di Catilina e ne dà quest'immagine «dantesca»: «E quivi appeso@ stavi tu, scellerato Catilina@ sopra un ruinoso acuto scoglio@ agli spaventi delle Furie esposto@» (traduzione di Annibal Caro). Virgilio, Eneide, Viii, vv' 666-670. (9) Quinto Asconio Pediano, Orationum Ciceronis quinque enarratio (d'ora in poi semplicemente Asconio), 85-89. Nel prosieguo tutte le date, salvo diversa indicazione, si intendono prima di Cristo. (10) I Giuli, la gens di Cesare, pretendevano di discendere da Enea e Cesare da Venere in persona. (11) L' Pareti, Catilina, Studi minori di storia antica, Iii, Roma 1965, p' 292. Catilina, starebbe per catulina: «carne di cane». (12) Corpus Inscriptionum Latinarum (Cil), I, 709, 11. (13) Cicerone, Pro Caelio, 5, 12. (14) Cicerone, Pro Caelio, 6, 13. (15) Sallustio, op' cit', Xv. (16) Publio Clodio nella parte del moralista sessuofobo è pochissimo credibile. Clodio era un ragazzaccio, un simpatico ribaldo, un impunito, un delatore pronto, come in questo caso, a vendersi al miglior offerente e nella sua vita ne combinò di tutti i colori. Nel 61 durante le cerimonie della Bona Dea, rigorosamente precluse agli uomini, che in quell'anno si svolgevano in casa di Giulio Cesare, pretore e Pontefice massimo, e sotto la direzione della moglie Pompeia, fu pescato, travestito da suonatrice d'arpa, mentre cercava di raggiungere la stanza di Aura, una serva della padrona che era il vero obiettivo di quell'incursione. Lo scandalo fu enorme. Cesare dovette ripudiare Pompeia. E' in questa occasione che avrebbe detto la famosa frase «la moglie di Cesare non solo deve essere onesta ma anche apparire tale» (Plutarco, op' cit', Vita di Cesare, 10; Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, Lxxiv). Poiché allora Cesare non era nessuno la frase rivela in quale alta considerazione si tenesse. Sull'episodio di Clodio travestito da donna vedi Dione

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Cassio, Storia romana, 37, 45; Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 28 e lo Scoliaste a Giovenale, Vi, 114 che dà per certa la relazione fra Clodio e Pompeia. (17) In seconde nozze Terenzia aveva sposato Ortensio, il grande avvocato rivale di Cicerone. (18) Catilina era difeso dall'oratore M' Pisone ma decisiva fu la testimonianza di Lutazio Catulo la cui parola, in quanto censore, princeps del Senato e uomo di notoria integrità, aveva un valore particolare in un processo per «immoralità». Sallustio, op' cit', Xv; Plutarco, op' cit', Vita di Catone, 19; Orosio, Historiarum adversus paganos, Vi, 3, 1. (19) Figlia del pretore Gneo Aurelio Oreste. (20) Sallustio, op' cit', Xxxv. (21) Ibidem. (22) Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, passim. (23) Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 7. (24) Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 10; Cicerone, Academica, Ii, 1, 13. (25) Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 33. (26) P' Grimal, Cicerone, Garzanti, 1987, pp' 113-115. (27) Sallustio, op' cit', V. (28) La moderna Porta Pia. (29) Quinto Cicerone, De petitione consulatus, 2, 9. (30) Appiano, Storia delle guerre civili, I, 103. Secondo Valerio Massimo le vittime furono 4600, Factorum et dictorum memorabilium, Ix, 2, 1; secondo Floro i proscritti furono 2000, Epitome de Tito Livio omnium annorum, 2, 9; secondo Plutarco nei primi giorni furono messi in lista 520 nomi, op' cit', Vita di Silla, 31; secondo Orosio, sempre nei primi giorni, le liste comprendevano 580 nomi, op' cit', 5, 21. Per Theodor Mommsen la discrepanza fra le varie cifre è spiegabile col fatto che le liste rimasero aperte alcuni mesi, Storia di Roma, Dall'Oglio, 1964, vol' Vi, p' 106, nota 1. (31) Sallustio, op' cit', Li. (32) Vedi, tra gli altri, Mario Trezzi, Catilina, Sindacato italiano arti grafiche, Roma 1923, pp' 72-73. (33) Il fratello della prima moglie di Catilina, Gratidia. (34) Cicerone, In toga candida, 29; Plutarco, op' cit', Vita di Silla, 32. (35) Dione Cassio, op' cit', 37, 10, 3; Cicerone, In Pisonem, 69, 95 e Ad Atticum, I, 16, 9.

II.Un protodemocristiano

Marco Tullio Cicerone era nato ad Arpino il 3 gennaio del 106, due anni dopo Catilina, da una famiglia benestante della piccola borghesia provinciale. Pare che il suo cognome derivasse da un avo che aveva sul naso una protuberanza molliccia a forma di cece (cicer). Questo cognome procurava al piccolo Marco Tullio facili canzonature da parte dei coetanei, soprattutto a scuola dove andò assai presto rivelandosi subito un primo della classe, studiosissimo, diligentissimo, dieci in condotta. E come ogni primo della classe che si rispetti leccava il culo al maestro e non dava da copiare i compiti ai compagni che si vendicavano facendogli scherzi feroci e sadici come usano i ragazzini. Però era talmente bravo che i professori e i padri degli altri alunni lo segnavano a dito e capitava spesso di vedere il piccolo Marco Tullio che teneva banco in mezzo a un cerchio di adulti sciorinando la sua erudizione. (1) Insomma era la tipica secchia detestata dai compagni ma portata ad

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esempio dai genitori. Come ogni enfant prodige compose, poco più che decenne, un poemetto, Ponticus Glaucus, di cui ci è rimasto solo il titolo. (2) Crebbe magro, esile, gracile, con una salute cagionevole che si porterà dietro tutta la vita. Il torace stretto ne limitava le capacità respiratorie e gli dette qualche problema anche come oratore. Ma era lo stomaco in particolare a farlo soffrire e doveva usarsi molti riguardi. Sarà sempre attentissimo a non sottoporsi a strapazzi e a evitare eccessi di sorta. Non beveva vino e per rimediare in qualche modo alla sua vita sedentaria si faceva massaggiare più volte al giorno e, dopo i pasti, camminava nei suoi orti contando il numero dei passi. (3) Verso i vent'anni, dopo aver perfezionato gli studi in giurisprudenza, retorica e filosofia, si trasferì stabilmente a Roma andando ad abitare in una casetta che il padre aveva comprato alle Carene, un quartiere periferico dell'Urbe. Era intenzionato a intraprendere la carriera di avvocato. Dopo un periodo di apprendistato piuttosto lungo, dovuto anche all'infuriare della guerra civile, esordisce nel Foro nell'81 con una causa civile di poco conto. (4) La possibilità del colpo grosso si presenta l'anno successivo. Un giovane, Sesto Roscio, si era messo in urto col potente liberto di Silla, Crisogono, il quale pur di incamerare i beni che Roscio aveva avuto in eredità dal padre lo aveva accusato di parricidio. Nessun avvocato di grido voleva difendere il giovane, temendo di inimicarsi il clan del dittatore. Gli amici incitarono Cicerone ad assumere la difesa di Roscio: era un'occasione unica per farsi un nome. Cicerone tentennava fra dubbi e comprensibili paure. Pur tenendo conto che Roscio era protetto dalla potente famiglia dei Metelli, la cosa presentava rischi evidenti. Alla fine l'ambizione prevalse. Difese Roscio e vinse la causa. Fu l'unico atto di coraggio della sua vita. E infatti gliene venne una tal paura postuma che fece circolare la voce che era malato e aveva bisogno di cure, partendo immediatamente per la Grecia. Voleva mettere il mare e un buon numero di chilometri fra sé e il dittatore. Ritornò a Roma solo nel 77, dopo la morte di Silla. Rientrato nella capitale Cicerone, di cui non si conoscono fin qui storie con donne, si sposò. La moglie, Terenzia, era ricca, avida, gretta, bigotta, arcigna, energica, una virago che dominò sempre il debole e irresoluto marito e che, nonostante lui la chiamasse «suavissima atque optatissima» (dolcissima e desideratissima), gli rese la vita impossibile. (5) La ripudierà trent'anni dopo per questioni di quattrini. In parallelo con quella forense inizia la carriera politica che è rapida e brillante perché, come Catilina, centra al primo anno utile le varie magistrature, ma il fatto che non «sfori» questo limite dimostra che Cicerone, homo novus, non ha, come Catilina, aristocratico decaduto, santi in paradiso. E' questore a trent'anni (76), edile a trentasette (70), pretore a quaranta (66) e console a quarantatré, nel 63, l'anno del drammatico scontro con Catilina, l'apogeo della sua vita. Politicamente appoggiò all'inizio i democratici, senza troppa convinzione e più che altro perché, avendo difeso Roscio contro i sillani, aveva acquistato la simpatia dei populares che lo avevano scambiato per quello che non era. Cicerone aveva infatti un genuino e istintivo orrore per la plebe («la feccia di Romolo» come la chiamava) ed era dell'idea, peraltro assai diffusa all'epoca, che se i poveri sono tali è solo per colpa loro. Lasciati quindi presto i democratici, per un certo tempo meditò di costituire un partito di Centro (il problema, evidentemente, esisteva anche allora) che avesse

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come base il ceto da cui proveniva, i cavalieri, e come duplice scopo di allearsi con gli optimates contro la plebe e di difendere gli interessi della borghesia degli affari, che si stava affermando proprio in quei decenni, nei confronti dell'aristocrazia del sangue e della terra. Ma quando, nel 64, gli aristocratici gli proposero la candidatura al consolato (6) passò dalla loro parte con armi e bagagli e un pericoloso eccesso di zelo. Quello che doveva essere un centro-destra divenne subito una destra-destra. Il consolato di Cicerone fu uno dei più reazionari della storia della Repubblica. Lo inaugurò buttandosi a testa bassa, con quattro successive orazioni, contro la legge agraria del tribuno Servio Rullo che prevedeva una più equa distribuzione delle terre. Esibizione superflua perché gli aristocratici avevano già provveduto per conto loro prezzolando un tribuno e facendo interporre il veto. Si batté contro la proposta di restituire i diritti civili ai figli dei proscritti, che erano stati spossessati di tutto, (7) col solo risultato di farli accorrere sotto le bandiere di Catilina. Osteggiò qualsiasi cosa avesse anche solo l'odore di una riforma. Difese ogni sorta di privilegio anche quelli più minuti e ridicoli e arrivò al grottesco di pronunciare, lui console, un'orazione (Pro Othone) perché a teatro fossero mantenute ai cavalieri quattordici file di posti riservati. (8) Pur vivendo in un'epoca di grandi rivolgimenti economici e sociali fu ottuso a qualsiasi istanza provenisse dalla povera gente, verso la quale dimostrò sempre il più totale e cieco disprezzo. Una chiusura mentale abbastanza stupefacente in un uomo che certo stupido non era. Per lui la concordia ordinum significava puramente e semplicemente l'immutabilità della gerarchia sociale e la conservazione del potere dell'oligarchia aristocratica nelle cui file Cicerone, da buon borghese, ambiva ad inserirsi stabilmente per condividerne status e privilegi. La difesa della legalità era da lui intesa come il mantenimento a oltranza dello statu quo, salvo cambiare idea quando la legge era d'intralcio a qualche manovra di potere o affaruccio poco pulito. In questo caso si trova ogni sorta di cavillo per disattenderla e la si viola con la massima disinvoltura. Naturalmente questo strenuo arrocco a difesa dei propri interessi è mascherato, come sempre, con nobili parole sulla humanitas, la dignitas, la virtus, l'amor di Patria, delle tradizioni, dei penati, degli Dei. Cicerone è davvero il campione dei campioni del benpensantismo ipocrita e sostanzialmente violento. Ha scritto lo storico Luigi Pareti: «Cicerone non è che un miope rappresentante guadagnato dalla fazione dei plutocrati: pronto a ogni astuzia, a ogni larvata illegalità, a ogni violenza, che non implicasse la sua sola responsabilità, contro gli avversari democratici». (9) «Uomo di notoria doppiezza», come lo definisce Mommsen, Cicerone quando si aprì lo scontro fra Cesare e Pompeo parteggiò ora per l'uno ora per l'altro, voltando e rivoltando gabbana mille volte, adulando ambedue in modo sfacciato e impudico, piegandosi alle più umilianti ritrattazioni. Era un politicante di terz'ordine, maneggione e intrigante, a livello di portaborse. E infatti nonostante si fosse profferto più volte a Pompeo e a Cesare come consigliere i due non lo degnarono di alcuna considerazione trattandolo in una maniera molto vicina al disprezzo. (10) La sua vanagloria è rimasta proverbiale. Lo stesso Plutarco, che pur ne fa un ritratto complessivamente favorevole anche se non privo di qualche punzecchiatura, scrive che «provava un compiacimento smodato a sentirsi lodare». (11) A furia di menarla con la congiura di Catilina, che aveva scoperto e sventato, finì per venire a noia a tutti. Racconta ancora Plutarco: «Non era possibile recarsi in Senato, a una seduta dell'assemblea o in un tribunale senza dover

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sentire Cicerone che tirava in ballo Catilina e Lentulo. Finì col riempire di elogi personali anche i libri e i trattati che scrisse e la sua parola così dolce e ricca di grazia divenne molesta e pesante per gli ascoltatori; sembrava che per una sorta di fatalità gli si fosse appiccicata questa prerogativa di infastidire gli altri». (12) E' Cicerone l'autore dello sciagurato verso «O fortunatam natam me consule Romam!@». Si autocelebrò in tutti i modi e scrisse anche, in tre volumi, un poemetto, fortunatamente perduto, sulla sua impresa e, in greco, una Storia del suo consolato che pure non ci è pervenuta (13). Chiese agli amici Attico e Archia, a Posidonio, a Lucceio di scrivere racconti, monografie, poemi sulla congiura e poiché Attico ebbe la compiacenza e la dabbenaggine di assecondarlo manipolò il testo da cima a fondo per enfatizzare ancor più il ruolo che aveva avuto. (14) Senza ombra di ironia si paragonò a Pompeo, a Mario, a Scipione l'Africano e persino a Romolo. Fu avido di onorificenze in modo infantile e quasi patetico. Per aver disperso, quando era in Cilicia, una banda di predoni pretese il titolo di imperator e avrebbe voluto anche il trionfo. Del resto è tipico del personaggio maramaldeggiare con i deboli e i vinti e appiattirsi come una sogliola ai piedi dei potenti. E' ancora Mommsen a notare come le famosissime orazioni contro Verre e le ancora più celebri Catilinarie furono pronunciate quando gli avversari erano già sconfitti. (15) E per i complici di Catilina, ormai inermi, volle a tutti i costi la pena di morte. Ma alla fine fu proprio la vanità a perderlo. Dopo aver dribblato per decenni rischi e pericoli non seppe resistere all'invito del giovane Ottaviano che, per combattere Antonio, lo voleva accanto a sé in quel ruolo di consigliere che Cesare e Pompeo gli avevano sempre negato. Questa volta, proprio come all'inizio della carriera quando aveva difeso Roscio contro il potente liberto di Silla, l'amor proprio poté più della paura. Giocava anche il comprensibile desiderio senile di rientrare, a sessantatré anni suonati, nel «grande giro». Accorse al grido «Non posso restare assente quando mi si chiede di salvare per la seconda volta la Patria!». Pronunciò quindi, a imitazione di Demostene, le quattordici Filippiche contro Antonio in cui volle vedere, ossessivamente, «un nuovo Catilina». Ma gli andò male perché l'anno successivo Antonio e Ottaviano si accordarono per formare, con Lepido, il secondo triumvirato. E Antonio, che aveva il dente avvelenato con Cicerone non tanto per le Filippiche ma perché aveva sputato sul cadavere ancora caldo di Cesare, a cui, vivo, aveva leccato entrambi i piedi, ne volle la testa. (16) Fu uomo vilissimo, di una viltà, fisica e morale, patologica e caricaturale. La paura gli giocava dei brutti scherzi anche nel campo in cui veramente eccelse, l'oratoria, paralizzandolo. Racconta Plutarco: «Ora pare che Cicerone, oltre a essere poco coraggioso in guerra, anche come oratore, quando cominciava a parlare, era sempre pervaso da una grande paura, e in molte cause continuò a palpitare e a tremare anche dopo aver raggiunto l'apice del discorso. Una volta''' nel perorare la causa di Milone, a vedere Pompeo seduto in alto come se si fosse in un accampamento, e le armi che brillavano tutt'in giro alla piazza, si turbò e riuscì a stento a iniziare il discorso, mentre il suo corpo era scosso da brividi e la voce gli rimaneva soffocata in gola». (17) Quando, dopo averlo utilizzato come boia in una vicenda dove c'era da sporcarsi le mani con il sangue di concittadini, gli aristocratici lo mollarono e restò isolato, il giovane, arrogante e ribaldo tribuno Publio Clodio, che agiva agli ordini di Cesare, prese gusto a umiliarlo in tutti i modi, affrontandolo per la pubblica via,

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insultandolo, schernendolo, prendendolo a pedate nel sedere, facendolo inseguire da bande di ragazzetti che gli davan la baia e gli gettavano addosso fango e pietre. (18) E lui, il «Padre della Patria», alzava la sottana e se la dava a gambe. In una società come quella romana in cui si faceva un conto relativo della vita e si riteneva che fosse la morte e il modo in cui la si affrontava a dare il significato conclusivo a un'esistenza, si assiste allo spettacolo penoso di questo vecchio che, sapendo di essere stato condannato da Antonio, tenta una fuga disperata e grottesca alla ricerca di una impossibile salvezza. Quando viene informato che il triumviro, nonostante le resistenze, per la verità blande, di Ottaviano, l'ha messo in cima alle liste di proscrizione, Cicerone si trova nella sua villa di Tuscolo insieme al fratello Quinto. Decidono di partire subito per Astira, una città della costa dove Cicerone aveva delle terre, e, via mare, cercare di raggiungere l'amico Bruto che si trovava in Macedonia. Scrive Plutarco: «Partirono in lettiga, disfatti dal dolore. Lungo la strada di quando in quando si fermavano e, accostando le lettighe, lamentavano insieme le proprie sventure». (19) Ma, fra un pianto e l'altro, si accorgono che, nella furia della partenza, hanno dimenticato «la roba». Quinto torna indietro a prenderla, Cicerone prosegue la fuga. Arrivato a Ostia si imbarca e, costeggiando, raggiunge il Circeo. I marinai vorrebbero prendere il largo immediatamente, ma il mare si è alzato, Cicerone ha paura, decide di sbarcare. Non sa che fare, percorre qualche chilometro a piedi in direzione di Roma, ci ripensa e torna indietro, ad Astira «dove passa la notte in pensieri terribili e disperati». (20) Medita il suicidio. Fantastica di raggiungere Ottaviano e di pugnalarsi platealmente e stoicamente davanti a lui per attirare sul triumviro la vendetta degli Dei. Ma lascia subito perdere. Non son cose per lui. Plutarco: «Nella sua mente si susseguirono un gran numero di propositi affannosi e contrastanti, finché si affidò ai suoi servi: voleva essere portato, via mare, a Gaeta. Là possedeva delle terre'''». (21) Approda a Gaeta, entra nella sua villa, si stende sul letto a riposare un poco coprendosi il capo con la veste per dimenticare, almeno per un momento, l'incubo che sta vivendo. Ma degli uccellacci del malaugurio lo svegliano. I sicari incalzano e i servi lo caricano sulla lettiga quasi di forza. Via, di nuovo, verso il mare. Appena in tempo: gli uomini di Antonio, il centurione Erennio e il tribuno militare Popillio, con la soldataglia, sono ormai alla villa. Sfondano la porta. Interrogati, i servi dicono di non sapere dove sia il padrone. Ma un giovinetto, un liberto di nome Filologo, che era stato allevato e istruito personalmente da Cicerone, indica un viottolo alberato che scende verso il mare dietro le cui curve si è appena dileguata la lettiga. (22) Mentre il tribuno fa circondare la casa, Erennio si precipita fuori di corsa. Cicerone sente dietro di sé i passi affrettati, fa fermare la lettiga, sporge tremante il capo canuto e arruffato, protende il collo e «presenta ai sicari un volto disfatto». (23) Fu scannato senza pietà. Secondo le crudeli usanze del tempo gli vennero mozzate le mani e la testa che, portata a Roma, fu appesa ai rostri del Foro. Qualcuno, per dileggio, gli infilò uno spillone nella lingua a significare che era stato bravo solo con quella. A metà dell'Ottocento il grande storico della latinità, Theodor Mommsen, tutt'altro che tenero con i catilinari ma evidentemente stufo di diciotto secoli di enfatizzazione del ciceronismo e del suo protagonista, lo liquidò così: «Da uomo di Stato senza acutezza, senza opinioni e senza fini, Cicerone ha successivamente figurato come democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchici,

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e non fu mai altro che un egoista di vista corta». (24) E' difficile dargli torto. Come uomo politico fu un mediocre pasticcione, come filosofo un modestissimo riciclatore di idee altrui, come poeta pessimo e anche come autore deve la sua fortuna soprattutto al fatto che i suoi scritti sono una specie di riepilogo, di epitome, di résumé delle regole della lingua latina e quindi utilissimi alla scuola, ma il suo stile ridondante, enfatico, retorico, pur tenendo conto che si tratta spesso di orazioni pronunciate in pubblico, suona ad un orecchio moderno irrimediabilmente fastidioso, soprattutto se raffrontato con l'asciuttezza ellittica di un Tacito o anche con la concisione incalzante del più modesto Sallustio. Fu invece, questo sì, un grande, grandissimo avvocato, il migliore, con Demostene, dell'antichità. Ma quelle che sono le sue doti di avvocato sono anche il suo deficit di uomo: la mancanza di convinzioni, il cinismo, l'opportunismo, l'ambiguità. Per il carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto. In realtà Cicerone è forse il primo romano non romano della Storia ed è in un certo senso, soprattutto per le sue umane debolezze, un personaggio molto moderno, molto attuale. Il contrasto con Catilina, che invece del romano antico è il prototipo, anche retorico se si vuole, una specie di preforma romantica di Cesare, non potrebbe essere più stridente. Cicerone non era assolutamente in grado di capire il suo antagonista: gli era troppo agli antipodi. E il suo sconcerto è documentato dagli scritti posteriori alla morte di Catilina quando, passati gli anni, si sforza di valutarlo in modo più equanime. Così nell'orazione Pro Caelio, a sette anni dalla congiura, scrive: «Chi, in un certo momento, fu più ben visto dalle personalità eminenti e chi più intimo dei malfattori? Chi più di lui parteggiò a volte per la parte degli onesti e fu al tempo stesso più nefasto a questa città? Chi immerso in piaceri più turpi e più resistente alla fatica? Chi di lui più rapace e al tempo stesso più generoso? Queste furono doti veramente eccezionali in quell'uomo, la capacità di legarsi d'amicizia con tante persone, di conservarla con la deferenza, e far parte a tutti di ciò che possedeva, prestar servizio ai bisogni di tutti i suoi con il denaro, con le aderenze, con le più faticose prestazioni e, se era necessario, persino con il delitto''' Io stesso, lo dico, per poco non fui un tempo tratto da lui in inganno». (25) Lo stupore di Cicerone è, una volta tanto, sincero. Uomo dai limitati orizzonti non può capire l'animo idealista e un po' folle di Catilina. Proiettando sull'altro la sua ombra scambia l'impegno di Catilina a favore dei miseri, e quindi a scapito dei ricchi, per pura cupidigia personale. Uomo gretto non concepisce che si possa condividere i propri averi con gli amici e spendersi generosamente per loro «con le più faticose prestazioni» e, se occorre, anche a rischio della vita. Piccolo borghese, gelosissimo dei propri privilegi, ansioso di essere ammesso nei salotti buoni, guarda con meraviglia questo patrizio, bello, affascinante, che si mischia ai diseredati e ai reietti mentre potrebbe avere la Roma-bene ai suoi piedi. Uomo d'ordine, timoroso d'ogni stormir di foglia, nemico di ogni eccesso, attento alla salute e al «tengo famiglia», rimane attonito di fronte alla sfrenata vitalità di Catilina e al modo in cui dilapida la sua esistenza. Per lui prova un istintivo orrore e l'uomo gli suscita un altrettanto genuino terrore. Le reprimende che gli rovescerà addosso nelle Catilinarie provengono da un sentimento autentico. Ma, sotto sotto, si avverte che Cicerone ha una confusa,

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inconfessabile ma a volte trasparente, ammirazione per il suo avversario. Cicerone invidia a Catilina quello che a lui più di tutto manca e che l'altro più di tutto ha: il coraggio. Ed è il primo a stupirsi di aver battuto un simile avversario. E' ancora Mommsen a far notare il paradosso per cui sarà «il più vile degli uomini di Stato romani» (26) a sconfiggere l'uomo che portò contro il potere oligarchico l'attacco più radicale e pericoloso.

Note (1) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 2. (2) P' Grimal, op' cit', p' 29. (3) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 3. (4) Pro Quinctio. (5) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 20. (6) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 11. (7) Plinio il Vecchio, Storia naturale, Vii, 117; Quintiliano, op' cit', Xi, 1, 85. (8) P' Grimal, op' cit', p' 133. (9) L' Pareti, op' cit', p' 420. (10) Vedi, tra l'altro, Cicerone, Lettera al comandante generale Cneo Pompeo Magno (aprile 62), Ad familiares, V, 4. (11) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 6. (12) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 24. (13) Il poemetto si intitolava De consulatu suo. (14) Vedi questa lettera a Lucceio: «Ho l'ambizione vivissima, che non mi pare riprovevole, di veder illustrato e celebrato il mio nome per opera della tua penna». Cicerone, Lettera a Lucceio (marzo 56), Ad familiares, I, 6. (15) T' Mommsen, op' cit', vol' Viii, p' 348. In realtà con le Verrine Cicerone difende gli interessati della grande borghesia degli affari e in particolare del già potentissimo Pompeo. Cfr' J' Carcopino, op' cit', p' 105. (16) Subito dopo la morte di Cesare, Cicerone lo accusò apertamente, nel De consiliis suis, di essere stato complice della congiura di Catilina. (17) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 35. (18) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 30. (19) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 47. (20) Ibidem. (21) Ibidem. (22) Filologo fece una brutta fine. Consegnato a Pomponia, la moglie di Quinto Cicerone, anch'egli catturato e trucidato dai sicari, fu costretto dalla gentildonna a tagliarsi la carne a brani, ad arrostirli e a mangiarli. Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 48. (23) Ibidem. (24) T' Mommsen, op' cit', vol' Viii, p' 345. (25) Cicerone, Pro Caelio, 6, 13, 14. (26) T' Mommsen, op' cit', vol' Vii, p' 183.

III.La questione sociale

Lo scontro fra Catilina e Cicerone e gli interessi che rappresenta si inserisce in un quadro di vasto malessere economico e sociale e di discordie interne che erano esplose una settantina di anni prima con i Gracchi ma le cui radici profonde pescavano più lontano. (1) Lo snodo è la vittoria su Cartagine. Prima delle guerre puniche Roma non aveva conosciuto dei veri e propri conflitti sociali perché

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l'eterna diatriba fra patrizi e plebei non era uno scontro fra classi ma fra ordini dal momento che la distinzione si basava sulla nascita e non sulla ricchezza. (2) Con la sconfitta di Cartagine Roma divenne padrona del Mediterraneo e si aprì le porte alla conquista. Nel secolo che va dall'inizio della prima guerra punica (241) alla distruzione di Cartagine (146) Roma ridusse a province la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, iniziò la conquista della Gallia Cisalpina, della Dalmazia e della Spagna, mise saldamente piede in Macedonia, in Grecia e nel Nordafrica. Immense ricchezze affluirono nelle mani degli aristocratici insieme a decine di migliaia di schiavi. E, come sempre accade, queste ricchezze invece di risolvere i problemi della società romana li acuirono e li portarono alla luce. Per quanto si sfogassero in lussi che prima non avrebbero nemmeno potuto concepire, gli aristocratici avevano il problema di impiegare l'enorme surplus di denaro che si ritrovavano in cassa. Erano proprietari terrieri e investirono nella terra. Non puntarono su migliorie che ne aumentassero la produttività, perché la scarsa tecnologia agraria dell'epoca non consentiva progressi significativi, ma sull'acquisto di altre terre dai piccoli proprietari che, all'opposto, subivano gravi danni dalla politica di conquista. Infatti possedendo un appezzamento di terra, per quanto modesto, erano catalogati fra gli assidui, coloro cioè che erano tenuti a prestare servizio nell'esercito. (3) Ma i loro poderi vivevano su margini troppo risicati per poter sopportare l'assenza dei capifamiglia per i lunghi anni delle campagne militari. Perciò i piccoli proprietari finivano fatalmente per indebitarsi, per costituire ipoteche sulle loro terre e diventavano facile preda dei latifondisti. I quali non disdegnavano nemmeno, come ci dicono le fonti, (4) di ricorrere alla violenza per impadronirsi della terra dei contadini, cosa non difficile per chi disponeva di numerosi famigli, clientes e schiavi che potevano diventare, all'occorrenza, delle vere e proprie bande armate. Inoltre era lo stesso meccanismo del latifondo e dell'oligopolio a rendere sempre meno concorrenziali i piccoli possidenti innescando così il circolo vizioso, ben noto, per cui tanto più grande diventava il latifondo tanto più fragile si faceva la piccola e anche la media proprietà. Plinio il Vecchio scrisse che il latifondo aveva rovinato l'agricoltura italiana. (5) Infatti possedendo terre a volontà i grandi proprietari, diversamente dai piccoli, non si curavano di farle rendere al massimo, inoltre le facevano lavorare dagli schiavi i quali, com'è ovvio, ci mettevano un impegno relativo. (6) Il risultato fu che si dovette ricorrere sempre più spesso a massicce importazioni, soprattutto di grano che era l'alimento base, prima dalla Sicilia e dalla Sardegna e in seguito dall'Africa e dall'Egitto. L'uso su vasta scala della manodopera servile finì per togliere il lavoro anche ai fittavoli e ai braccianti che spesso erano proprio ex proprietari ridotti a salariati. La conseguenza fu l'inurbamento. Tutti correvano a Roma in cerca di un lavoro e la capitale assunse in pochi decenni le dimensioni di una metropoli moderna con una popolazione di oltre 300 mila abitanti. Ma anche a Roma era difficile trovare occupazione se non per qualche impiego stagionale come quello nei cantieri navali del Tevere. Si formò quindi una plebe urbana malcontenta la cui vocazione parassitaria si accentuò dopo che i Gracchi introdussero le distribuzioni gratuite o semigratuite di grano che riguardarono, a seconda dei momenti, dalle 40 mila alle 120 mila persone. Nel contempo nasceva una nuova classe di ricchi, diversa dagli aristocratici latifondisti, che aveva come suo perno («il fiore

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dell'ordine» lo chiamava Cicerone) gli appaltatori delle tasse nelle province detti anche publicani. Infatti i senatori, cioè gli aristocratici, non potevano essere i publicani perché al Senato e ai suoi membri, fra cui c'erano anche i governatori delle province, spettava il controllo sull'attività degli appaltatori delle tasse. Intorno a questo nucleo si formò una borghesia degli affari. Gli appaltatori si costituivano quasi sempre in Compagnie sul tipo di quelle moderne. E Compagnie di appalto, per le quali era necessario possedere ingenti capitali da investire, dato che si trattava di anticipare all'erario una somma fissa per lo sfruttamento di questo o quel bene pubblico trattenendo poi il surplus, vennero create anche per le esazioni doganali, i contratti di forniture militari, la costruzione e la riparazione di edifici dello Stato, le miniere. (7) L'acquisizione delle province incrementò moltissimo il commercio. Spuntarono quindi banchieri, finanzieri e affaristi di ogni genere. Tutti coloro che esercitavano queste attività e non erano aristocratici (i quali o ne erano esclusi per legge oppure, spesso, se ne escludevano perché non consideravano tali mestieri degni del loro rango) venivano chiamati cavalieri, nome che traeva origine dal fatto che, in antiquo, per far parte del corpo militare della cavalleria bisognava fornire armi e cavallo e quindi essere benestanti. I cavalieri divennero la borghesia della società romana, una classe intermedia fra l'aristocrazia e la plebe cui venne data anche una configurazione giuridica autonoma. Per appartenere all'ordine equestre bisognava possedere almeno 400 mila sesterzi. Furono i cavalieri a sviluppare il credito e il prestito a usura cui partecipavano però, senza farsi in questo caso alcuno scrupolo, anche gli aristocratici. Il prestito a usura, che poteva raggiungere anche l'interesse del 50 per cento, (8) strangolava un po' tutti i cittadini romani: i piccoli proprietari terrieri, i negozianti, la plebe urbana in perenne arretrato con gli affitti, ma anche gli stessi aristocratici che per finanziare le proprie carriere politiche e conseguire le magistrature più ambite e prestigiose, in primis il consolato, erano costretti a ricorrervi sistematicamente. La società romana dell'ultimo secolo della Repubblica era una società di debitori, grandi e piccoli. Aristocratici e cavalieri avevano interessi simili ma non del tutto coincidenti. A parte questioni di politica estera che li vedevano spesso in contrasto per motivi legati alle loro diverse attività economiche e alla diversa origine della loro ricchezza, aristocratici e cavalieri erano soprattutto divisi dal problema del controllo dei tribunali, in particolare di quelli che si occupavano dei reati di estorsione, che per lungo tempo era stato appannaggio dei senatori e che poi fu trasferito agli equites. La massima aspirazione dei cavalieri era comunque di entrare a far parte a pieno titolo dell'aristocrazia attraverso il conseguimento di quelle magistrature che ne davano il diritto. Quando ciò avveniva gli ex cavalieri diventavano strenui difensori dei privilegi dell'oligarchia dominante, più degli stessi aristocratici. Cicerone è un esempio caricaturale ma emblematico di questo tipo di percorso. In ogni caso tutte le volte che aristocratici e cavalieri si trovarono davanti rivendicazioni della plebe fecero fronte comune. E nel 70, cioè pochi anni prima della congiura o per meglio dire della rivolta di Catilina, la lex Aurelia, disponendo che i principali tribunali fossero composti da giurati scelti in proporzioni uguali fra senatori, cavalieri e tribuni aerarii, mise in pratica fine a ogni serio contrasto fra queste due classi compattandole del tutto. Fin dal Iv secolo erano poi avvenute profonde trasformazioni nella stessa classe aristocratica. Poiché i patrizi (la nobiltà originaria,

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le famiglie che avevano fatto Roma) continuavano a diminuire (nel 366 erano rimasti solo ventuno clan), (9) vennero ammessi nell'aristocrazia, dopo qualche decennio di lotta, i plebei ricchi che in tal modo si nobilitarono. Ma costoro, così come i nouveaux riches rappresentati dai cavalieri, avevano una mentalità molto diversa dagli antichi patrizi la cui primazìa era fondata sul sangue, la tradizione, l'auctoritas, l'onore, l'onestà, la fedeltà alla parola data, la lealtà, il coraggio, il valore guerriero, cioè su quel complesso di caratteristiche che i romani riassumevano nel termine dignitas. La dignitas, in origine, non aveva avuto a che fare con il patrimonio. Invece con l'avvento della neoaristocrazia e dei cavalieri la ricchezza divenne il solo metro di misura del valore di un uomo perché con essa si poteva avere tutto il resto: il potere, l'autorità, la stessa dignitas e addirittura quella gloria alla quale i pagani affidavano le loro speranze di immortalità. E i neoricchi, che conoscevano unicamente la dimensione del denaro da cui erano legittimati, tendevano a far valere il proprio potere economico in un modo taccagno, avido, spietato che non era appartenuto all'antica Roma patrizia dove esisteva il senso di solidarietà verso i più deboli e miseri la cui protezione era un punto d'onore per ogni buon aristocratico. Così nella nuova società, mentre la ricchezza si elevava a stella polare, la povertà divenne invece un disvalore assoluto, una colpa e Cicerone arrivò a considerarla quasi un delitto, un crimine, un reato o qualcosa che gli era stretto parente. (10) In una lettera ad Attico, un cavaliere suo grande amico, parlerà della «plebe miserabile e affamata che frequenta le assemblee e succhia il sangue alle casse dello Stato». (11) Per Cicerone la plebe non è degna di esercitare nemmeno l'unico diritto che le resta: il voto. Nel De officiis, solo un poco più sorvegliato perché l'opera è destinata al pubblico, scriverà che «se i più deboli non devono essere rovinati a causa della loro misera condizione, ai ricchi l'invidia non deve impedire di conservare il proprio patrimonio». (12) E per l'oratore massimamente stolto è colui che, per generosità, intacca le proprie sostanze perché dovere di ogni uomo è arricchirsi. (13) In più passi della sua Congiura di Catilina Sallustio testimonia questo clima culturale, psicologico e sociale e lo condanna severamente senza peraltro rendersi conto, o perlomeno senza darne mostra, che le sue denunce, che peraltro rimangono sempre e solo sul piano moralistico della facile e sterile invettiva, riguardano proprio i fatti che sono all'origine della rivolta di Catilina e di coloro che lo seguirono e che in lui credettero. Scrive Sallustio: «Cominciò a intensificarsi la passione per il denaro, poi quella per il potere: furono esse la causa di ogni male. Perché l'avidità del denaro sovvertì la lealtà e tutte le altre virtù e fu maestra, in vece loro, di superbia, di crudeltà, di indifferenza verso gli Dei, di venalità universale. E l'ambizione indusse molti a diventare falsi, a pensare in un modo e a parlare in un altro, a giudicare delle amicizie e delle inimicizie non per se stesse ma secondo il tornaconto, ad avere più cara l'apparenza dell'onestà che non l'onestà''' Salita la ricchezza a grado di onore, perché gloria, autorità, potere le correvano appresso, la virtù andò perdendo splendore, la povertà cominciò a essere considerata un disonore». (14) Naturalmente l'oligarchia dominante continuava a richiamarsi alle antiche virtù e all'amor di patria nel cui nome chiedeva ogni sorta di sacrifici al popolo, a cominciare da quello, fondamentale, di combattere e morire per gli eterni destini di Roma, ma nel concreto era animata solo da sete di potere personale e praticava la

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corruzione sistematica. Il tribuno della plebe Tiberio Gracco, aristocratico di alto sentire, centra con spietata lucidità la situazione: «Le fiere che sono per l'Italia hanno un covo, e ognuna di esse ha un ricetto e un giaciglio, ma quelli che combattono e muoiono per l'Italia partecipano di aria e di luce ma non di altro; e randagi e privi di dimora vagano con i figli e con le donne. I generali mentono quando incitano i soldati a difendere le are e le tombe dai nemici, perché nessuno di tali cittadini ha un ara famigliare, non una tomba avita, ed essi combattono per l'altrui ricchezza e corruttela dicendo di essere i signori del mondo e non avendo per sé una zolla di terra». (15) Quelli che Cicerone chiamava i boni, timorati degli Dei e dei buoni costumi, in contrapposizione ai perdidi, gli uomini perduti, nei quali ricomprendeva chiunque non avesse, diremmo oggi, un solido conto in banca, erano in realtà, tranne rare eccezioni, degli sfruttatori e dei parassiti, marci fino al midollo. Si era instaurato il classico regime, tipico delle società in decadenza e in decomposizione, della doppia morale: una pubblica, buona per la «gente comune» e per i gonzi che ci volevano credere, l'altra privata e affatto diversa che si faceva beffe della prima. Lo stesso Sallustio, plebeo nobilitato, ne è un tipico esempio. L'uomo che nella Congiura di Catilina e nella Guerra di Giugurta fa grandi tirate moralistiche, sferza i cattivi costumi, rimpiange le antiche virtù, si indigna con coloro che pensano in un modo e parlano in un altro è lo stesso che «si abbandonò alla vita scioperata e dissoluta di molta parte della gioventù di allora, sperperando il patrimonio paterno, prendendo parte a turbolenze, incendi, malversazioni». (16) Che sono esattamente le cose che addebita a Catilina. Con la differenza che a Sallustio, e non a Catilina, toccò l'ignominia di essere espulso dal Senato per «indegnità». Questo accadde nel 50. Lo salvò la potente protezione di Cesare il quale, per compensarlo dei bassi servigi che gli aveva reso nella lotta contro i pompeiani, gli donò graziosamente il governo della Numidia «che tenne circa un anno e mezzo; breve spazio ma che gli bastò per ammassare, con rapine, saccheggi ed estorsioni, una ricchezza immensa». (17) Venne accusato di concussione. Fu ancora Cesare, che era già dittatore dopo la vittoria su Pompeo a Farsalo, a tirarlo fuori dai guai ma in un modo assai curioso e del tutto degno del «divo Giulio»: pretese da Sallustio un milione e duecentomila sesterzi per tacitare i giudici. (18) Nel 44, dopo la morte del dittatore, Sallustio, bruciato politicamente, si ritirò a vita privata nella sua splendida villa immersa nei famosi orti e solo allora scoprì la degenerazione dei costumi del suo tempo e, per dirla con Fabrizio De André, «si mise a dare buoni consigli perché non poteva più dare cattivo esempio». Lo stesso discorso vale, più o meno, per Cicerone. Il moralista che nella Prima Catilinaria tuona il famosissimo «O tempora! O mores!» (19) e che esalta, mettendosi in prima fila, i boni, i timorati degli Dei, i virtuosi, i benpensanti, è lo stesso uomo miserabile, intrigante, meschino, avido, corrotto, che spurga fuori dalle lettere private. Il malcontento e lo stato di frustrazione che covavano da decenni negli strati più poveri della popolazione romana, vale a dire nella sua stragrande maggioranza, trovarono sfogo, per la prima volta, con i Gracchi. Nel 133 il tribuno della plebe Tiberio Gracco propose una legge agraria che prevedeva la redistribuzione ai nullatenenti delle terre pubbliche che erano state occupate arbitrariamente dai latifondisti. Era una legge per certi versi più radicale di quella che Catilina, come vedremo, (20) cercherà di far approvare, attraverso il tribuno Servio Rullo, nel 64. Infatti, a differenza

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della lex Servilia, metteva in discussione i possessi in Italia che, per quanto abusivi, erano ormai considerati titoli di proprietà. (21) Gli antichi possessori sarebbero stati espropriati e avrebbero potuto conservare soltanto 500 iugeri, il resto sarebbe stato diviso fra i proletari in lotti di 30 iugeri. (22) Tiberio non era mosso solo da ragioni di equità sociale ma anche da preoccupazioni di ordine demografico e militare. Il costante impoverimento dei ceti medi restringeva infatti la base degli assidui, cioè di coloro su cui poteva essere fatta la leva, e diminuiva anche la popolazione perché i poveri riluttavano a fare figli non sapendo come mantenerli. Problema che non si poneva per gli schiavi e i liberti dato che i loro figli erano allevati dai padroni per i quali costituivano forza lavoro (all'epoca di Cicerone e Catilina gli schiavi e i liberti avevano superato i cittadini romani liberi). (23) Nonostante l'aspro contrasto degli aristocratici la legge agraria di Tiberio Gracco passò perché masse di contadini, di fittavoli, di braccianti accorsero a Roma per votarla. Ma i problemi arrivarono quando si trattò di espropriare materialmente i terreni. Una fazione di senatori, guidata dal pontefice massimo Scipione Nasica, inseguì Tiberio, lo circondò e lo linciò. Sorte che sarebbe toccata in seguito a tutti coloro che tenteranno di risolvere il problema della terra, a cominciare dal fratello di Tiberio, Caio Gracco, per proseguire con i tribuni della plebe Apuleio Saturnino e Marco Druso e finire con lo stesso Catilina anche se questi non si lasciò massacrare «a guisa di bestiame» (24) e si ritagliò almeno una morte in battaglia. Caio Gracco, divenuto tribuno nel 124, riprese l'opera del fratello e si provò a riproporre la legge agraria di Tiberio inserendola in un più vasto programma che comprendeva anche la distribuzione gratuita o semigratuita di grano alla plebe urbana più povera e l'estensione del servizio militare a tutti i cittadini indipendentemente dal loro censo. Benché avesse cercato di accattivarsi i cavalieri, trasferendo a tribunali da loro controllati la competenza per i reati di estorsione, anche Caio Gracco fu assassinato per mano dello stesso console, Opimio. Tutte le leggi varate dai Gracchi furono abrogate tranne le peggiori e cioè quella che prevedeva la distribuzione di grano, che contribuì ad aumentare l'inurbamento e a creare ceti totalmente parassitari, e quella che estendeva il servizio militare a tutti, che finì di rovinare i contadini italici. La vicenda dei Gracchi costituì una rottura. Da allora per quasi un secolo, fino all'estinzione della Repubblica e all'avvento del principato, la politica romana si divise in due partiti: gli optimates e i populares. I primi difendevano gli interessi dell'aristocrazia, i secondi quelli della plebe. A parole. Infatti anche i capi dei populares erano dei senatori e degli aristocratici e fu presto chiaro che si servivano del nome dei Gracchi, e dell'appoggio della plebe che esso garantiva, solo per combattere la fazione avversa. Raramente, per non dir mai, in settant'anni i leader dei populares fecero alcunché per affrontare in modo serio la questione sociale, limitandosi a qualche concessione marginale e strumentale o a quelle distribuzioni gratuite di grano che peraltro erano viste con favore anche dagli optimates perché servivano a tenere buono per un po' il popolo senza dover rinunciare a nulla. La plebe non riusciva a trovare un leader che si facesse realmente paladino dei suoi interessi perché era troppo povera, incolta e priva di quella che oggi chiameremmo coscienza di classe per partorirlo dalle sue file. D'altro canto gli aristocratici, anche quelli che si dicevano populares, avevano a cuore solo le proprie ambizioni

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personali e si guardavano bene dal tagliare i ponti con la propria classe. Del resto la brutale ed esemplare fine dei Gracchi era stata un eloquente monito per tutti e paralizzava anche i più sinceri, qualora ve ne fossero stati. Spiega lo storico inglese P.A. Brunt: «Tra i membri della classe dirigente ben pochi erano disposti a essere accusati di irresponsabilità e violenza, a essere chiamati dai loro pari agitatori sediziosi e ad affidare la loro carriera all'effimero favore delle masse». (25) In settant'anni se ne trovò uno solo: Catilina.

Note (1) Per uno sguardo d'insieme e sintetico sul periodo vedi M' Rostovtzeff, Storia del mondo antico, Sansoni, 1975, pp' 488-586. (2) P'A' Brunt, Classi e conflitti sociali nella Roma repubblicana, Laterza, 1972, pp' 69-91. (3) P'A' Brunt, op' cit', p' 27. (4) Appiano, op' cit', 1, 7. (5) Plinio il Vecchio, op' cit', Xviii, 351. (6) P'A' Brunt, op' cit', p' 43. (7) P'A' Brunt, op' cit', p' 106. (8) Nella Roma dell'ultimo secolo della Repubblica era ritenuto equo un tasso del 12 per cento (Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 10; sull'argomento vedi anche Appiano, Mitridate, 83). (9) P'A' Brunt, op' cit', p' 76. (10) P'A' Brunt, op' cit', p' 187. (11) Cicerone, Ad Atticum, I, 19, 4. (12) Cicerone, De officiis, Ii, 72-87. Come si vede, la convinzione, tanto spesso esternata di questi tempi, che le classi meno abbienti siano mosse esclusivamente dall'invidia, non è poi così nuova. (13) Cicerone, De officiis, I, 52. (14) Sallustio, op' cit', Xxiii-Xxv. (15) Plutarco, op' cit', Vita di Tiberio e Caio Gracco, 9. (16) Prefazione di Carlo Vitali a La congiura di Catilina, Rizzoli (Bur), 1957, p' 5. Leneo, un liberto di Pompeo, definisce Sallustio «bordelliere, sprecone, impostore, sguattero, schifoso nella vita e negli scritti». Leneo, Satira contro Sallustio (in Svetonio, De grammaticis, 15). Vedi anche Didio, Invettiva di Cicerone contro Sallustio. Sallustio fu tra l'altro protagonista di un grottesco episodio: sorpreso a letto con la figlia di Silla, Fausta, moglie del focoso Annio Milone (l'uomo che uccise il facinoroso Publio Clodio), fu bastonato di santa ragione dal marito e ricattato. T' Varrone in Aulo Gellio, Notti attiche, Xvii, 18. (17) C' Vitali, op' cit', p' 5. (18) Didio, op' cit'. (19) Cicerone, Catilinarie, I, 2. (20) Vedi cap' Iv, pp' 91-95, primo vol' Braille. (21) P'A' Brunt, op' cit', p' 119. (22) Lo iugero corrispondeva a circa 2600 mq256 (23) P'A' Brunt, op' cit', p' 120. (24) Vedi il discorso di Catilina ai soldati prima della battaglia, pp' 85-87, secondo vol' Braille. (25) P'A' Brunt, op' cit', pp' 142-143.

IV.Un rivoluzionario reazionario

Pochi sanno che prima di ricorrere alla violenza Catilina tentò tre volte la via legale del consolato e che in almeno due occasioni fu

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respinto con trucchi e brogli. Nel 66 si presentavano alle elezioni della suprema carica della Repubblica Lucio Torquato e Lucio Cotta per gli aristocratici, Publio Autronio e Publio Cornelio Silla per i democratici. Si trattava di candidati assai sbiaditi e non c'erano conflitti di politiche né tantomeno di programmi ma solo ambizioni di persone. Il popolo di Roma seguiva la competizione con scarsissimo interesse. Il ritorno di Catilina dall'Africa e la presentazione della sua candidatura furono un fulmine a ciel sereno che surriscaldò improvvisamente il clima elettorale. L'esito della competizione pareva scontato. Da una parte c'erano quattro personaggi insignificanti senza idee né progetti tranne quello, consueto, di ruminare un tranquillo anno di consolato per poi andare a rapinare qualche provincia, dall'altra un uomo affascinante, di grande comunicativa, di trascinante eloquenza, un passato di guerriero, fama di duro e, soprattutto, con un programma o meglio solo ancora un abbozzo nel quale però si intravedeva netta l'intenzione di por mano a quelle riforme politiche e sociali che il popolo aspettava da più di sessant'anni, dall'epoca dell'assassinio dei Gracchi. Attesa vana perché il partito democratico, che dei Gracchi avrebbe dovuto essere il continuatore, si era rivelato nulla più che una cricca di potere: ottimati ricchi sfondati che si appoggiavano alla plebe solo per combattere altri ottimati. Anche Catilina era un aristocratico, anzi un grande aristocratico, ma non era straricco, non possedeva terre immense, non aveva particolari interessi da difendere e la plebe sentì istintivamente, così come lo avvertirono i senatori latifondisti, che stava davvero dalla sua parte. Non sappiamo perché Catilina, che in gioventù aveva militato con l'iperreazionario Silla, quindici anni dopo avesse cambiato così radicalmente posizione. Per screditare le idee di cui si era fatto portatore, riducendo il movimento catilinario a una vicenda personale, Cicerone e Sallustio scrivono che era un uomo rovinato economicamente e quindi disposto a tutto. Mentono. Catilina non era certo ricco alla maniera di Crasso o di Pompeo e nemmeno di Cesare, che veniva da una famiglia in grande spolvero, perché la sua era una gens in decadenza e anche perché, a differenza di altri, non aveva visto nella guerra civile e nelle proscrizioni sillane un pretesto per procurarsi un bottino personale. Ma tornava pur sempre da una propretura in Africa dove, anche senza dover pensare ad abusi, aveva sicuramente avuto modo di incrementare il suo patrimonio perché questa era la ricompensa che spettava ad un governatore romano in provincia. (1) Se poi fosse vera l'accusa che gli muovono gli stessi Cicerone e Sallustio di essersi comportato in Africa con spirito di rapina, accumulando indebite ricchezze ai danni della popolazione locale, allora a maggior ragione non potrebbe contemporaneamente essere vero che era sul lastrico. Inoltre i nobili si indebitavano, in genere, proprio per raggiungere il consolato, la magistratura più prestigiosa, che comportava una dispendiosa campagna elettorale. Ma poiché Catilina vi concorreva per la prima volta, e anzi, come vedremo, gli fu addirittura impedito di partecipare, non poteva essere rovinato prima di cominciare. Infine aveva appena sposato, o stava per farlo, (2) una ricca ereditiera. Aveva perciò di che vivere comodamente. Catilina si rovinerà in seguito, per finanziare la congiura. Non è quindi per un dissesto finanziario che Catilina era diventato filopopolare. Certamente queste idee erano maturate in lui da tempo se da anni teneva esposta in casa sua, come cimelio e come simbolo, la famosa Aquila di Mario, il grande antagonista di Silla, che era stato considerato, anche per le sue umili origini, l'alfiere delle

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aspirazioni popolari. E' molto probabile che quando Catilina, ventenne, aveva seguito Silla lo avesse fatto più per spirito d'avventura e impetuosità giovanile che perché ne condividesse le convinzioni e i programmi politici alla cui attuazione, peraltro, non partecipò. Catilina a quell'epoca era un soldato e stette agli ordini del suo comandante. Gli aristocratici, preoccupati di quel déraciné, transfuga dalla propria classe, corsero subito ai ripari. E convinsero il console Lucio Volcatio Tullio, che presiedeva i comizi elettorali, a respingere la candidatura col pretesto che era stata presentata in ritardo. (3) Non sappiamo se la prassi romana consentisse ricorso contro simili provvedimenti e se Catilina lo abbia presentato. (4) Certo è che per metterlo definitivamente fuori gioco gli aristocratici indussero il giovane Publio Clodio a sporgere contro Catilina una denuncia di concussione per la sua attività di governatore in Africa, strumentalizzando le lamentele, che erano d'assoluta routine, di alcuni delegati di quella provincia. (5) E la legge escludeva tassativamente che chi era sotto processo potesse candidarsi a una magistratura. Ciò faceva sì che l'arma della denuncia penale fosse usata spessissimo come strumento di lotta politica per togliere di mezzo gli avversari. Negli anni 60 e 50 ci furono un centinaio di processi del genere. (6) Catilina fu processato nel novembre del 65 quando, essendosi delineato il suo programma di radicali riforme sociali, era considerato dall'aristocrazia un «pericolo pubblico». Nonostante il clima a lui totalmente ostile Catilina, difeso dal grande Ortensio, fu assolto da ogni addebito. (7) Del resto lo stesso Clodio aveva provveduto a ritirare la denuncia nel corso del processo: l'obiettivo, che era quello di paralizzarne la candidatura, era già stato raggiunto. L'assoluzione dimostra che in Africa Catilina, contrariamente a quanto affermano Cicerone e Sallustio, si era comportato con correttezza, senza commettere abusi per arricchirsi illecitamente, perché se fosse esistito un qualsiasi appiglio il Tribunale non se lo sarebbe lasciato certamente sfuggire. Con la fedina penale pulita Catilina, che aveva in questo modo perso due anni, poté presentarsi nel giugno del 64 alle elezioni consolari per il 63. Questa volta non fu stoppato da manovre truffaldine ma dall'abilità e dai maneggi di Cicerone. I candidati erano sette: Marco Tullio Cicerone, Publio Sulpicio Galba, Caio Licinio Sacerdote per gli aristocratici, Lucio Sergio Catilina, Caio Antonio Ibrida, Lucio Cassio Longino e Quinto Cornificio per i democratici. Cassio Longino si ritirò subito per non danneggiare, con una dispersione di voti, la cordata dei democratici. Galba, Sacerdote e Cornificio erano personaggi di nessun conto, per cui la lotta si restringeva a tre nomi: Cicerone, appoggiato da gran parte del Senato e dai cavalieri, Catilina e Ibrida che godevano del sostegno di Crasso e Cesare, i leader del partito democratico, e del favore della plebe. Ibrida era un uomo debole, ambiguo, manovrabile e ricattabile, anche perché nel 70 era stato espulso dal Senato per «indegnità», e non preoccupava minimamente gli aristocratici. Il pericolo era Catilina. Cicerone strinse quindi un patto segreto con Ibrida accordandosi in modo che i rispettivi elettorati facessero convergere i voti oltre che sul proprio candidato anche su quello avversario. (8) Manovra possibile perché il voto era segreto e ogni elettore aveva a disposizione due preferenze essendo due i consoli da nominare. In questa maniera Cicerone, che per parte sua era già praticamente sicuro della vittoria dato che era l'unico candidato di peso nel campo aristocratico e poteva contare sull'appoggio compatto dei cavalieri, offriva a Ibrida l'insperata chance di battere il

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compagno-rivale, di lui tanto più affascinante e popolare presso la plebe e quindi favoritissimo. E' probabile che anche Crasso e soprattutto Cesare abbiano fatto mancare qualche voto a Catilina. I motivi che spingevano i due a diffidare di Catilina erano più o meno gli stessi che avevano convinto gli aristocratici a favorire, fra i due, Antonio Ibrida: il suo programma era troppo radicale. Inoltre avevano capito che Catilina, a differenza di Ibrida, non era quella docile e gestibile marionetta di cui, come vedremo meglio in seguito, avevano pensato di servirsi per i loro piani di conquista del potere. Risultato: Cicerone fu primo, Ibrida secondo per pochissimi voti su Catilina che risultò terzo, primo dei non eletti. Catilina si candidò al consolato, per la terza e ultima volta, nel 63 (per il 62). Correva da isolato. Crasso, Cesare e i democratici lo avevano definitivamente mollato. Aveva solo l'appoggio della plebe che difficilmente poteva bastare. Per capire perché è bene chiarire come funzionava il sistema elettorale romano, che era piuttosto complicato. (9) Non valeva il principio «one manone vote», ma le 193 centurie in cui era suddivisa la popolazione romana avevano ciascuna, quale che fosse la sua consistenza numerica, un solo voto. Le centurie erano a loro volta ripartite in cinque classi e in una sorta di superclasse. La superclasse, che era l'unica a non essere basata sul censo ma sul sangue (anche se le due cose col tempo finirono per coincidere o quasi), comprendeva l'intera aristocrazia, vale a dire gli antichi patrizi e i plebei ricchi che si erano nobilitati, e disponeva di diciotto centurie. Le altre cinque classi, basate sul censo, si spartivano le rimanenti 175 centurie, il resto della società romana. La prima, in cui rientravano coloro che possedevano un patrimonio di almeno 400 mila sesterzi, cioè i cavalieri, contava su 80 centurie mentre le altre quattro classi, a reddito via via decrescente, avevano ognuna dalle venti alle trenta centurie. (10) In tal modo aristocrazia e cavalieri, che avevano interessi comuni, si assicuravano, facendo blocco, la maggioranza assoluta (98 contro 95) pur rappresentando, dal punto di vista quantitativo, una minoranza della popolazione. E' un trucco noto di cui le classi dominanti si sono servite spesso in passato, basterà ricordare la Francia regia dove negli Stati generali, per quelle poche volte che furono convocati nel corso dei secoli, nobiltà e clero, contando due voti, prevalevano sempre sul Terzo Stato che ne aveva uno. Ma ai tempi di Catilina e Cicerone una legge di riforma, introdotta a metà del Iii secolo, aveva profondamente modificato la situazione. La legge aveva tolto alla prima classe dieci centurie e le aveva attribuite alla seconda. Aristocrazia e borghesia non avevano più la maggioranza garantita. La conseguenza fu di scatenare fra i candidati, che erano sempre, di fatto anche se non di diritto, degli aristocratici, una lotta feroce per assicurarsi il consenso delle centurie plebee. La campagna elettorale divenne costosissima e veniva fatta a colpi di spettacoli, banchetti, regalie di varia natura quando non con la corruzione vera e propria che era tanto più facile quanto più si dirigeva verso le classi più povere. Le leggi sempre più severe contro la corruzione elettorale (leges de ambitu) testimoniano che ai tempi di Cicerone e Catilina questa era diventata una piaga molto diffusa. E mentre prima poteva capitare che un aristocratico non particolarmente ricco ma prestigioso conquistasse le supreme magistrature, ora la cosa si era fatta molto più difficile. Nelle elezioni del 63 Cicerone, che in quanto console presiedeva le operazioni, giocò un primo tiro mancino a Catilina rinviando con un

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pretesto i comizi proprio il giorno prima del voto e spostandoli dalla seconda metà di luglio alla prima metà di agosto. (11) Ciò comportava un allungamento dei tempi della propaganda che favoriva i candidati ricchi. Inoltre Catilina aveva una larga fetta di sostenitori fra gli agricoltori delle campagne italiche che non potevano permettersi un soggiorno prolungato a Roma. Vinsero Decimo Giunio Silano, appoggiato da Cesare, e Lucio Murena, appoggiato da Crasso. Catilina, ancora una volta, fu il primo dei non eletti. Che fosse stato completamente abbandonato dai democratici è confermato non solo dal fatto che Crasso e Cesare, leader di quel partito, sostennero altri candidati ma dall'ulteriore constatazione che lo stesso Cesare e Metello, altro esponente dei populares, furono eletti facilmente l'uno pretore e l'altro tribuno della plebe. Pochi giorni dopo uno dei candidati trombati, Servio Sulpicio, e l'austero moralista Marco Porcio Catone accusarono Murena di brogli elettorali: i suoi galoppini (divisores) erano stati pescati sul fatto mentre prezzolavano gli elettori. (12) Al processo, che si svolse verso la fine di novembre del 63, Murena fu difeso da un tris d'assi: Cicerone, Ortensio e Crasso. Catone, che sosteneva l'accusa, sottolineò l'anomalia, anzi la grave scorrettezza, di un console il quale difendeva «da privato», come avvocato, un imputato per brogli che erano avvenuti proprio durante i comizi elettorali da lui presieduti e sulla cui regolarità era tenuto a vigilare. Fece anche notare il paradosso in cui Cicerone si veniva a trovare perché dopo aver fatto approvare in quell'anno, come console, la legge più severa che fosse mai stata emanata in materia di brogli (lex Tullia) si schierava adesso, come patrono, contro di essa. Ma non ci fu nulla da fare. Nonostante le evidenti incompatibilità e sovrapposizioni di ruoli Cicerone rimase al suo posto. Murena venne assolto. Fu un verdetto scandalo, una sentenza politica. Al momento del processo infatti Catilina, stufo di essere preso in giro, aveva già lasciato Roma deciso a farsi giustizia con le armi. In teoria, se Murena fosse stato condannato, a subentrargli avrebbe dovuto essere proprio Catilina come primo dei non eletti. Una eventualità del genere era però esclusa perché Catilina era stato dichiarato hostis («nemico della patria») e aveva quindi perduto tutti i diritti, politici e civili. Però l'annullamento parziale delle elezioni avrebbe lasciato in carica, in attesa dei nuovi comizi, un solo console proprio nel momento in cui il governo correva il massimo pericolo. Cicerone nella sua arringa conclusiva parlerà pochissimo, per non dir niente, del merito della causa, se cioè Murena avesse o no commesso i brogli di cui era accusato, e insisterà solo sulla necessità della sua assoluzione «per il bene di Roma», perché l'Urbe non fosse lasciata senza un console in un frangente tanto grave. (13) E che quella sentenza sia stata sfacciatamente politica lo ammetterà pubblicamente, qualche anno dopo, lo stesso Cicerone quando, difendendo un imputato, dirà: «Quand'ero console difesi L. Murena console designato: nessuno di quei giudici ritenne di dover stare ad ascoltare questioni di broglio elettorale (neppure se erano presenti come accusatori illustri personaggi), quando tutti sapevano bene, e questo per opera mia, che dal momento che Catilina ci faceva guerra era assolutamente necessario che il primo gennaio fossero in carica due consoli». (14) Ma Catilina «faceva guerra» proprio perché, con i trucchi e con i brogli, gli era stato impedito di arrivare legalmente al consolato. Come mai Catilina spaventava l'aristocrazia a tal punto da indurla a ostacolarlo, fin dall'inizio, con tutti i mezzi, leciti e illeciti? Cicerone e Sallustio lo hanno dipinto come un criminale comune, un delinquente, assassino del figlio, del fratello, della moglie e di

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chissà quanti altri. Ma se fosse stato tutto questo non avrebbe potuto percorrere con assoluta regolarità l'intero cursus honorum e tantomeno candidarsi al consolato, né per fermarlo ci sarebbe stato bisogno di un'accusa, poi rivelatasi infondata, di concussione. Ma c'è di più. Nel 70, pochi anni prima di questi avvenimenti, fu ripristinata la censura, magistratura che fra gli altri suoi compiti aveva quello di vigilare sulla moralità dei senatori e che Silla aveva abolito dieci anni prima. Ci fu un repulisti generale e 64 senatori su 300 (più di un quinto dell'assemblea) vennero espulsi dalla Curia per «indegnità». (15) Catilina non fu tra questi. Nel 70 quindi non solo non era un criminale ma era considerato un cittadino, un senatore, con tutte le carte in regola. Quando nel novembre del 65 fu processato per concussione Catilina ebbe come testimoni a favore molti personaggi illustri, anche a lui politicamente avversi, fra cui il console di quell'anno, Lucio Torquato, un iperconservatore. (16) Dunque nemmeno alla fine del 65 l'establishment considerava Catilina un delinquente. Lo stesso Cicerone poco prima del processo aveva proposto a Catilina di assumerne la difesa come avvocato. Voleva accattivarselo in vista delle elezioni del 64 alle quali entrambi si sarebbero presentati in campi contrapposti (17) (meditava di fare con Catilina contro Ibrida il giochetto che avrebbe poi effettivamente fatto con Ibrida contro Catilina). Catilina rifiutò l'offerta perché disprezzava profondamente l'oratore, lo considerava «uno zero». (18) Resta però che l'«avance» fu fatta, il che dimostra che persino per Cicerone Catilina era un uomo rispettabile. La verità è che il Catilina del 66, del 65 e ancora del 64 e finanche di parte del 63 era ritenuto un avversario politico certamente pericoloso, col quale peraltro si potevano all'occorrenza anche stringere accordi, ma niente affatto un criminale. Catilina aveva partecipato diciotto anni prima ai torbidi della guerra civile ma quelli erano fatti politici, comuni a un'intera generazione. Solo dopo il settembre del 63, con la congiura, diventerà il «mostro» dipinto da Sallustio e da Cicerone. Se non era la fedina penale di Catilina a far paura all'oligarchia aristocratica, che cosa allora? Era il suo programma politico, economico e sociale. Questo programma appena abbozzato nel 66 si venne via via precisando nei quattro anni in cui Catilina tentò inutilmente di arrivare al potere per vie legali. Per ricostruirlo con sufficiente precisione abbiamo questi documenti: alcuni discorsi elettorali riportati da Cicerone e Sallustio, la lettera che Catilina scrisse all'amico Catulo prima di lasciare Roma, la lettera che il suo luogotenente, Caio Manlio, inviò a uno dei comandanti dell'esercito romano, Marcio Re, esponendogli le ragioni della rivolta, la legge agraria proposta verso la fine del 64, su diretto impulso di Catilina, dal tribuno Servio Rullo che conosciamo nei dettagli perché contro di essa Cicerone pronunciò ben quattro orazioni. (19) Ed è da questa che conviene cominciare. La lex Servilia, dal nome del tribuno, composta di almeno 40 articoli, era un progetto assai complesso di riforma agraria. Ma benché andasse a intaccare in modo consistente gli interessi dell'oligarchia non era una legge rivoluzionaria. Tanto per cominciare, a differenza delle leggi agrarie dei Gracchi, ribadiva l'intangibilità del diritto di proprietà e anzi, per por fine ad annose dispute, sanava anche le dubbie acquisizioni che erano avvenute in Italia durante le proscrizioni sillane. Messi questi paletti, la legge prevedeva una vastissima redistribuzione di terre ai nullatenenti: alla plebe urbana ma anche ai piccoli proprietari rovinati dall'espansione del latifondo e ai veterani che, spesso insediati su campi aridi e poco produttivi, non erano riusciti a conservare i poderi che avevano avuto a titolo di liquidazione alla

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fine del servizio. Il provvedimento aveva tre obiettivi: 1) Garantire una più equa suddivisione delle risorse. 2) Rilanciare, grazie a una migliore razionalizzazione produttiva, l'agricoltura italiana che era stata fortemente impoverita dal latifondo. 3) Sfoltire in modo drastico i ranghi della plebe della capitale che con l'andar degli anni, la crisi della piccola proprietà, l'utilizzazione del lavoro servile, si era fatta sempre più numerosa e sempre più oziosa, poiché viveva delle distribuzioni gratuite di grano, e quindi anche sempre più turbolenta fino a costituire un grave problema di ordine pubblico. Come sarebbe avvenuta la redistribuzione? Attraverso il demanio, cioè le terre di proprietà dello Stato. In Italia però di demanio ne rimaneva pochissimo, solo alcuni territori appaltati in Campania. Sarebbero stati i primi a essere distribuiti ma, per quanto molto fertili, rappresentavano una goccia nel mare delle necessità. Lo Stato romano possedeva però un vastissimo demanio all'estero, frutto della conquista. Avrebbe quindi venduto le sue proprietà in Macedonia, in Bitinia, nel Chersoneso tracico, nel Ponto, in Cirenaica, in Spagna, in Africa, in Cilicia, in Grecia e con le somme ricavate avrebbe comprato terre in Italia, a cominciare dalle proprietà più recenti e più dubbie, distribuendole in lotti ai cittadini più poveri. Nessun esproprio quindi: lo Stato vendeva terre sue all'estero e riacquistava in Italia dai privati e sempre che fossero d'accordo (la legge non contemplava nessuna vendita forzosa). Dove stava allora il problema? Nel fatto che le terre demaniali all'estero erano state occupate abusivamente, come al solito, dai grandi latifondisti romani che vi facevano lavorare i propri schiavi. Era un arbitrio puro e semplice perché quelle terre erano state conquistate dai soldati romani e cioè proprio da coloro che, come aveva ricordato Tiberio Gracco, non ne possedevano alcuna. Ma non erano queste buone ragioni che potevano commuovere gli aristocratici latifondisti e i borghesi arricchiti. Costoro si opposero quindi ferocemente alla lex Servilia perché non erano disposti a comprare terre che occupavano già gratis e sulle quali oltretutto non pagavano nemmeno tasse perché non le possedevano a titolo di proprietà. Ma di ciò diremo più avanti. Per dare esecuzione a questo grande piano la lex Servilia prevedeva l'elezione di dieci uomini (Decemviri), che sarebbero rimasti in carica cinque anni, coadiuvati da 200 funzionari scelti fra i cavalieri. I Decemviri, dotati di propria giurisdizione, oltre a realizzare le compravendite, dovevano decidere - e questa naturalmente era la questione più spinosa - quali terre fossero demaniali e quali no. La lex Servilia prevedeva infine che non potesse essere eletto fra i Decemviri chi era assente dall'Italia, ma questo codicillo, del tutto logico, fece imbufalire ancor più i cavalieri perché escludeva dalla carica Pompeo, il loro leader, che in quel momento stava guerreggiando in Asia. (20) Fin qui la lex Servilia. Ma il programma economico dei catilinari comprendeva altre proposte, la più importante delle quali era la cancellazione dei debiti e l'abrogazione delle leggi che disponevano l'arresto e la carcerazione dell'insolvente. (21) Come abbiamo visto nel Iii capitolo, una larga parte della società romana, aristocratici compresi, era oberata di debiti dai quali non riusciva più a rientrare perché su di essi gravavano pesantissimi interessi usurari. Se la legge agraria colpiva i latifondisti, cioè innanzitutto gli aristocratici, la cancellazione dei debiti colpiva i banchieri e i finanzieri, cioè innanzitutto i cavalieri. Per quanto scioccante la misura non era nuova: una ventina di anni prima, nell'86, la lex Valeria (dal nome del console che l'aveva proposta,

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Valerio Flacco) aveva ridotto del 75 per cento quanto dovuto ai creditori in termini di capitale prestato facendo però salvi gli interessi. Sappiamo che Catilina avrebbe voluto, per il futuro, abbassare in modo rilevante gli interessi debitori portandone il limite legale intorno al 12 per cento. Non abbiamo invece informazioni sufficienti per dire se si proponesse la cancellazione totale dei debiti o solo parziale. Ma è molto probabile che fosse orientato verso questa seconda ipotesi perché la prima avrebbe significato lo sfascio del sistema creditizio romano, mentre la lex Valeria dimostrava che una riduzione parziale dei debiti, anche consistente, facendo salvi gli interessi, poteva essere assorbita senza eccessivi traumi. Altra richiesta economica era il ripristino delle leggi suntuarie che limitavano le spese eccessive e sfacciatamente voluttuarie. (22) La parte politica e costituzionale del programma di Catilina propugnava un ritorno alle origini di quella Repubblica che gli ottimati, e i loro tromboni, avevano sempre in bocca ma che si mettevano disinvoltamente sotto i piedi. Proclamatosi a più riprese difensore dei miseri, degli oppressi, dei deboli, dei malati, Catilina era per un riequilibrio fra l'oligarchia aristocratica, che deteneva di fatto tutto il potere istituzionale, e la plebe, e per un ridimensionamento drastico dell'influenza dei cavalieri che, con la potenza del denaro contante, tiranneggiavano l'una e l'altra. Perché tutti potessero concorrere realmente alla vita politica Catilina chiedeva innanzitutto «l'abolizione del privilegio ereditario che, dietro il sipario di elezioni mendaci, riservava a un piccolo numero di famiglie, sempre le stesse, le magistrature, i comandi e le giurisdizioni». (23) Il fatto poi che nel movimento catilinario ci fossero moltissime donne (ed era la prima volta che accadeva) e numerosi schiavi fa ritenere che si volesse dare dignità politica alle prime e almeno giuridica ai secondi. Le donne infatti, pur avendo una posizione di rilievo nella società romana e godendo di grande rispetto e considerazione, (24) erano prive dei diritti politici, non votavano e non potevano essere elette alle cariche pubbliche. Gli schiavi erano considerati, dal punto di vista giuridico, delle cose. (25) E' probabile che se il movimento catilinario avesse prevalso si sarebbe voltato in una dittatura personale perché questo era l'andazzo dei tempi, come dimostreranno di lì a poco, dopo le ambigue esperienze dei triumvirati, Cesare e Ottaviano. (26) E Catilina aveva le qualità carismatiche che sono necessarie al dispotismo. Ma a parte che, a differenza di Cesare, per non dire di Ottaviano, Catilina era un generoso e un idealista, e ciò che gli mancò sempre fu il cinismo, non possiamo fare un processo alle intenzioni ma dobbiamo attenerci ai fatti. E i fatti dicono che nel programma catilinario non c'è traccia di autoritarismo e di cesarismo, al contrario si delinea una Repubblica basata sul bilanciamento dei poteri fra il Senato, le magistrature e le assemblee popolari (comizi centuriati, curiati e tributi) cui dovevano essere restituiti la dignità e soprattutto i poteri effettivi che col tempo avevano perduto. Coloro che hanno individuato nei Decemviri il tarlo ereditario del programma di Catilina, il segno dell'aspirazione a un potere assoluto fanno torto all'evidenza. (27) I Decemviri erano, appunto, dieci e già il numero sembra escludere intenzioni di dittatura personale. Ciò a parte, avevano poteri indubbiamente eccezionali ma limitati nel tempo, nello spazio e nella competenza che era circoscritta alla questione agraria mentre per tutto il resto rimanevano pienamente operanti le consuete istituzioni repubblicane. Più in generale quello di Catilina è un tentativo di rivoluzione

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culturale tesa al riscatto economico e sociale ma anche morale dei ceti deboli ed emarginati in una società che, perduti gli antichi valori della virtus ridotti ormai a mere giaculatorie, era diventata ferocemente materialista e dove i poveri erano disprezzati e i ricchi e i «vincenti» onorati e rispettati in quanto tali, a prescindere dai loro effettivi meriti. Nei discorsi di Catilina è costante, quasi ossessiva, la rivendicazione del diritto di tutti a una pari dignità sociale e alla libertà, che è tale se è anche libertà dal bisogno («Eccola, eccola la libertà che tante volte avete invocato» dirà in un appassionato discorso ai suoi). (28) Il suo potente richiamo alla Repubblica delle origini è il richiamo a un tempo in cui a tutti i cittadini, ricchi e poveri, patrizi e plebei, era dovuto il rispetto e l'esibizione di arroganti disuguaglianze economiche era considerata un'offesa al costume e alla stessa legge al punto che «il ricco e il nobile, come il povero e quello di oscuri natali, non potevano comparire in pubblico che nella stessa semplice toga di lana bianca». (29) Se qualcuno meritava maggior considerazione era per quanto aveva fatto (o perlomeno i suoi avi avevano fatto), in pace e in guerra, non per quanto possedeva e ostentava. La dignitas era fondata su valori morali, di coerenza di vita, e non materiali. Sbaglia però chi, alla luce della storia recente, interpreta Catilina come un precursore della lotta di classe. (30) Catilina non guarda, né può, verso un futuro lontano diciotto secoli e per lui inconcepibile, ma dietro di sé verso quella prima Roma in cui la sua gens, la gens Sergia, era stata importante e rispettata e le doti che contavano erano la forza, il coraggio fisico e morale, l'onore, la lealtà, il rispetto della parola data, lo spendersi generosamente, cioè le sue doti che adesso erano invece sommerse dalle virtù borghesi della doppiezza, della sottigliezza, dell'ambiguità, dell'intrigo, dell'avidità, le virtù volgari che Cicerone incarnerà così esemplarmente aggiungendovi di suo una viltà sconosciuta al mondo romano di allora. Catilina è un déraciné della sua classe e della sua epoca, è totalmente in controtempo: non è un borghese, non è un plebeo, non si riconosce nemmeno in un'aristocrazia che non è più intesa, né si intende, come élite del valore. Catilina è un aristocratico di un'aristocrazia scomparsa e perduta, è un patrizio delle origini e il suo assumersi, come dirà, «la causa generale dei disgraziati» (31) non ha a che vedere con la lotta di classe ma proprio col suo essere aristocratico. Perché è della nobiltà autentica, quella del valore e dell'animo, e non del denaro e del privilegio, la generosità verso i deboli, i perdenti, i vinti. Catilina il gladiatore, Catilina il criminale, Catilina l'avventuriero, Catilina il violatore di Vestali è un uomo intrinsecamente morale se per moralità non si intende quella ipocrita, bacchettona, baciapile, sessuofoba, borghese del suo secolo ma la moralità profonda di chi è disposto ad andare incontro alla sua storia fino alle estreme conseguenze e a far fronte, a qualunque prezzo, alle responsabilità che si è assunto verso di sé e verso gli altri. In una società in cui si dice una cosa e se ne pensa un'altra, Catilina dice ciò che pensa, fa ciò che dice e sogna un mondo dove alle parole corrispondano i fatti. E' per questo che Catilina il forte, il duro, il resistente, il coraggioso, il valoroso, il guerriero soccomberà a avversari tanto più piccini di lui e sarà l'uomo di tutte le sconfitte.

Note (1) L'arricchimento di un governatore in provincia, grazie agli estesi diritti di requisizione, era scontato e considerato legittimo

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a meno che non si commettessero abusi particolari. Cicerone, per esempio, tornò dalla Cilicia, dove era stato governatore nel 51, con notevoli ricchezze ma nessuno si sognò di accusarlo di malversazione. (2) Il matrimonio con Aurelia Orestilla non è databile in modo certo. Da Cicerone sappiamo solo che era di qualche tempo precedente al 63. Cicerone, Catilinarie, I, 14. (3) Sallustio, op' cit', Xviii. (4) L'ipotesi formulata da Piero Zullino che Catilina abbia presentato ricorso e che lo abbia vinto, anche se inutilmente, è di pura fantasia e non trova riscontro nelle fonti, neppure stiracchiandole, né appoggio nel diritto pubblico romano. P' Zullino, Catilina, Rizzoli, 1985, pp' 72, 73. (5) Asconio, op' cit', 85. La questione dell'esclusione di Catilina dalle elezioni consolari del 66 è una delle più complesse e controverse dell'intera vicenda catilinaria perché le fonti discordano. Sallustio infatti afferma che Catilina fu escluso perché non presentò la candidatura «intra legitimos dies», cioè entro i termini prescritti (Sallustio, op' cit', Xviii) epperò dice anche che era sotto processo. Invece Cicerone e Asconio, che lo commenta, sembrano attribuire l'esclusione alla denuncia di Clodio (Asconio, op' cit', 85). Secondo Mommsen, Catilina fu escluso sia perché presentò la candidatura in ritardo sia perché sotto processo, ma la sua ricostruzione si basa sulla tesi che nel 66 i comizi elettorali siano stati ripetuti dopo che i vincitori, Autronio e Silla, furono condannati per brogli. Tesi che trova scarso credito negli storici più recenti perché troppo macchinosa. Quale che sia la ragione per cui fu escluso dalle elezioni del 66 (candidatura presentata in ritardo o processo oppure tutte e due), è certo che Catilina si trovò davanti sia lo stop di Volcatio Tullo sia la denuncia di Clodio. Sull'intricata questione vedi lo studio di M' Mello, Sallustio e le elezioni consolari del 66 a'C', «La parola del passato», 1963, Xviii, pp' 36-54 e anche L' Pareti, op' cit', pp' 53-54. (6) «In un periodo di violenti conflitti fra le fazioni aristocratiche essere chiamati a rispondere di una qualche accusa non è per niente un fatto eccezionale nella carriera di un uomo politico. Anzi la cosa ha una frequenza quasi istituzionale.» B' Narducci, Processi politici nella Roma antica, Laterza, 1995, p' 39. (7) Cicerone, In toga candida, 3. Fu un verdetto contrastato, i senatori votarono per la condanna, i cavalieri e i tribuni aerarii per l'assoluzione. Asconio, op' cit', 90. Naturalmente gli avversari di Catilina sostennero che era stato un processo-farsa: che Clodio era stato comprato, che aveva fatto una scelta pilotata dei giurati i quali, per soprammercato, erano stati corrotti insieme a molti testimoni, che alcuni giudici ne erano usciti ricchi, che le udienze si erano svolte in un ambiente disturbato, che l'assoluzione a mala pena poteva dirsi tale e aveva lasciato molto scontento il patrono della provincia d'Africa, Quinto Metello Pio. (Cicerone, In toga candida, 8, De haruspicum responsis, 42, In Pisonem, 23; Asconio, op' cit', 87; Quinto Cicerone, op' cit', 10.) Di vero c'è solo l'ovvio malumore di Metello Pio. Il resto sono fandonie, come ha puntualmente dimostrato L' Pareti, op' cit', pp' 315-316. (8) Cicerone, De lege agraria, Ii, 37, 103. Vedi anche M' Trozzi, op' cit', p' 105. (9) Sul sistema elettorale romano vedi la classica opera di A' Burdese, Diritto pubblico romano, Utet, 1977, pp' 78-94. Per il diritto pubblico romano, fondamentale per capire la mentalità dei latini e la stessa storia di Roma, particolarmente in questo periodo in cui la battaglia istituzionale e legale fa da sfondo e premessa allo scontro armato, resta basilare la monumentale opera di T'

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Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3 volumi, Lipsia 1871-1888 (rist' Basilea 1952) di cui esiste una sintesi dello stesso Mommsen tradotta in italiano, Disegni del diritto pubblico romano, Milano 1973. (10) Per l'esattezza: 20 alla seconda, terza e quarta, 30 alla quinta. Completavano il numero cinque centurie formate da categorie speciali basate né sul sangue né sul censo ma sulle professioni. A' Burdese, op' cit', pp' 82-83. (11) Cicerone, Pro Murena, 51. C'è incertezza sulla durata del rinvio. Per alcuni si tratta di pochi giorni (L' Pareti, op' cit', p' 341; E' Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, Milano-Roma-Napoli 1926-1930, p' 202, n' 2), per altri (J' Carcopino, op' cit', p' 245, n' 180) i comizi sarebbero stati spostati a settembre (cosa fatale per Catilina perché gli agricoltori sarebbero stati impegnati nella vendemmia), per altri ancora addirittura a novembre. (12) Cicerone, Pro Murena, 54. (13) Cicerone, Pro Murena, 79, 81, 82, 83, 85, 86. (14) Cicerone, Pro Flacco, 98. (15) Livio, Periochae, Xlviii. Fra gli espulsi c'erano Cornelio Lentulo, Antonio Ibrida e Quinto Curio. (16) Cicerone, In toga candida, 8. (17) Cicerone, Ad Atticum, I, 2, 1. (18) Cicerone, In toga candida, 19. (19) Cicerone, De lege agraria. Ce ne rimangono solo tre. (20) Sulla lex Servilia vedi T' Mommsen, op' cit', vol' Vi, pp' 171-173 e M' Rostovtzeff, op' cit', pp' 521-522. (21) L' Pareti, op' cit', pp' 339-340. (22) Ibidem. (23) J' Carcopino, op' cit', p' 175. (24) L'emancipazione femminile era iniziata un secolo prima di questi avvenimenti quando la donna romana aveva avuto la possibilità di contrarre matrimonio senza manus cioè senza rientrare sotto la tutela del marito. Questo aveva creato, nelle classi superiori, un ceto di donne economicamente autosufficienti, colte, raffinate e disinvolte. I divorzi erano diventati frequenti fra le coppie romane.

(25) E' Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Edizioni Ricerche, Roma 1960, pp' 51-61. (26) Peraltro un potere forte, che si ponesse al di sopra delle parti per fare opera di mediazione fra le classi, era necessario. La cosa, dopo i triumvirati e la breve esperienza dittatoriale di Cesare, si realizzò compiutamente con Augusto, massimo teorico della «concordia ordinum», e l'Impero. Ma si trattava di un'impostura. L'imperatore governava in nome del popolo ma sostanzialmente a favore dell'oligarchia aristocratica da cui proveniva. Gli imperatori che tentarono una politica realmente filopopolare, come Caligola e Nerone, furono fatti fuori, infamati dagli storici dell'aristocrazia e portano ancora oggi i segni di quelle interessate calunnie. Vedi M' Fini, Nerone, duemila anni di calunnie, op' cit'. (27) J' Carcopino, op' cit', p' 166. (28) Sallustio, op' cit', Xx. (29) T' Mommsen, op' cit', vol' I, p' 97. (30) Hanno interpretato Catilina in questo modo, tra gli altri, Max Weber, Vilfredo Pareto, il Gramsci dei Quaderni dal carcere e Curzio Malaparte in quello splendido saggio che è Tecnica del colpo di Stato dove instaura un parallelo fra Trotzkij e Catilina (C' Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, Vallecchi, 1973). Vedi, da ultimo, l'interessante pamphlet di Piero Zullino, Catilina, op' cit', nel quale, forzando peraltro i testi oltre ogni limite e lavorando parecchio di fantasia, si fa di Catilina addirittura un antesignano

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delle Brigate rosse e un teorico del doppio livello dell'azione rivoluzionaria: quello visibile, legale, in cui si sfruttano gli strumenti giuridici della società «borghese», e quello clandestino, terrorista, armato. Un recentissimo libriccino paragona Silvio Berlusconi a Catilina. A parte le diversissime contingenze storiche, un accostamento che fa torto a entrambi. M' Blondet, Elogio di Catilina e Berlusconi, Il Cerchio, 1995. (31) Sallustio, op' cit', Xxxv.

V.'''e due opportunisti

Nell'estate del 66, dopo essere stato bloccato con espedienti truffaldini alle elezioni consolari e pendendogli sulla testa un insidioso processo, Catilina si rese conto che da solo non poteva farcela e che aveva bisogno di qualche appoggio. Si avvicinò quindi ai leader del partito democratico che in quel momento erano Marco Crasso e Giulio Cesare. Crasso, detto Dives, il ricco, di sette anni più anziano, era una vecchia conoscenza fin dai tempi delle lotte civili. Erano entrambi due sillani convertiti, anche se per motivi diversi. Cesare, che aveva otto anni di meno, era invece una novità per Catilina. Le loro strade non si erano mai incrociate e per Cesare era stato meglio perché all'epoca di Silla stava dall'altra parte o, per essere più precisi, il dittatore lo aveva ritenuto un nemico per il solo fatto che aveva sposato una figlia del mariano Cinna, Cornelia. Cesare si era salvato per la giovanissima età e perché sua madre, Aurelia, e autorevoli esponenti della gens Giulia avevano intercesso per lui. (1) Tramite Crasso i due si incontrarono, si fiutarono e non si presero. Il giovane Cesare aveva un'ambiguissima fama sessuale da quando, ventenne, si era fatto inchiappettare da Nicomede Iv re di Bitinia (2) presso il quale era andato ospite, ed era diventato una favola a Roma. Curione lo chiamava Bithynica regina, il console Dolabella, in modo più articolato, «sposa segreta della lettiga reale», mentre il poeta Calvo Licinio andava per le spicce definendo Nicomede paedicator Caesaris, l'inculatore di Cesare. E anche quando, molti anni dopo, il grande generale conquistò la gloria nelle Gallie, passò il Rubicone e marciò trionfalmente su Roma, i suoi soldati non si facevano scrupolo a intonare una canzonaccia che diceva «Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem» (Cesare sottomise la Gallia, Nicomede Cesare). Ma naturalmente non erano queste le cose che potevano impressionare un libertino come Catilina che a sua volta, da giovane, fra le sue tante esperienze non aveva disdegnato quella pederasta anche se non, per dirla in gergo, nella parte della «corolla», come Cesare, ma in quella, a lui più congeniale, del «pistillo». Il fatto è che i due avevano personalità troppo forti e, per certi versi, simili perché fra loro non scattasse immediatamente un riflesso di rivalità. Cosa che non accadeva con Crasso e perché di un'altra generazione e perché il Dives, gran tessitore di trame di ogni genere, non si lasciava sviare da alcun impulso e sentimento, nemmeno di vanità, pur di raggiungere i suoi scopi. E quindi, con paterna indulgenza, lasciava che «i ragazzi» se la sbattessero fra loro. L'importante era che fossero utili ai casi suoi. Comunque in quel momento Cesare e Catilina avevano interessi comuni e abbozzarono un'amicizia che non c'era e che non era destinata a durare. (3) Certo doveva essere un bel vedere quando erano insieme: entrambi alti, magri, aitanti, eleganti nei movimenti, più azzimato Cesare più naturale Catilina, entrambi ugualmente pallidi e

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ugualmente fascinosi, anche se la bocca un po' troppo larga alterava la regolarità del viso di Cesare e la calvizie precoce lo invecchiava mentre Catilina, nonostante avesse superato i quaranta e a onta di una vita di dissipatezze, conservava intatti i tratti aristocratici e perfetti del patrizio e tutti i suoi capelli fra i quali non si era ancora insinuato un filo bianco. Crasso e Cesare avevano un piano molto semplice: assassinare i consoli e impadronirsi del potere. Il loro incubo era infatti Pompeo che da un momento all'altro poteva rientrare dall'Asia con le sue legioni. I democratici temevano che avrebbe fatto fare loro la fine che Silla aveva riservato ai mariani sedici anni prima. Non c'era in Cesare e tantomeno in Crasso alcuna intenzione di por mano a concrete riforme economiche e sociali e probabilmente, fra di loro, guardavano con ironica sufficienza l'utopico programma del loro compagno di strada. Ma ne avevano bisogno perché Catilina cominciava ad avere un forte seguito fra la plebe, che per quanto contasse poco era sempre meglio avere a favore che contro, e perché avevano individuato in lui l'uomo di mano che serviva ai loro piani e che si sarebbe esposto per loro. Una volta arrivati al potere pensavano che non sarebbe stato difficile gestire l'improvvisato sodale o liquidarlo. In quanto a Catilina, molto probabilmente era stato indotto a entrare nella cospirazione dal fatto che in quel momento, paralizzato da un processo che non si sapeva come sarebbe andato a finire e che poteva stroncargli la carriera politica, non aveva altra strada per arrivare al potere. In ogni modo quella dell'inverno 66-65 è impropriamente chiamata la «prima congiura di Catilina». Catilina era solo un comprimario. I capi erano Crasso e Cesare, come si ricava sia dagli storici contemporanei, Tanusio Gemino e Marco Bibulo, (4) sia da quelli posteriori e più noti come Svetonio, (5) sia da testimoni del tempo come Nasone, Curione e lo stesso Cicerone. La compagnia era piuttosto nutrita e comprendeva, oltre a Crasso, Cesare e Catilina, il giovane, promettente e ambiziosissimo questore Gneo Pisone, un protetto del Dives, Publio Autronio e Publio Silla, due populares che erano stati eletti consoli per il 65 ma che, condannati per brogli, erano stati esautorati e sostituiti con i primi dei non eletti (gli optimates Lucio Cotta e Lucio Torquato), il consolare Cornelio Lentulo, i senatori Caio Cetego, Antonio Ibrida, Lucio Vergunteio e il giovane Publio Sittio Nocerino. Tutta gente inquieta che ritroveremo nella congiura del 63. Dopo alcuni abboccamenti i congiurati tennero la riunione operativa il 5 dicembre del 66 in casa di Crasso. Fu deciso che alle calende di gennaio, il primo dell'anno, durante la cerimonia per il passaggio delle consegne fra i consoli, che si svolgeva in Campidoglio, una squadra armata al comando di Catilina, spalleggiato da Pisone e Autronio, avrebbe assalito e ucciso i quattro consoli, quelli uscenti e quelli designati, e i senatori più ostili al partito democratico. A missione compiuta i congiurati se ne sarebbero spartiti i frutti. Crasso sarebbe stato nominato dittatore. Cesare ne sarebbe divenuto il vice con la carica di magister equitum (maestro di cavalleria), cosa abbastanza paradossale per uno che aveva cominciato la sua carriera pubblica come flamine diale, (6) un sacerdozio che aveva fra i suoi interdetti quello di salire a cavallo. Ma da allora molta acqua era passata sotto i ponti e Cesare aveva certamente imparato a cavalcare; del resto lo scopo di quell'incarico era di creare reparti scelti in grado di fronteggiare Pompeo quando fosse tornato e, se le cose fossero andate per il verso giusto, di organizzare in seguito una spedizione in Egitto, un'ambizione antica che Cesare realizzerà ma molti anni più tardi. Per Pisone c'era invece un comando in Spagna. La condanna di Autronio e Silla sarebbe stata annullata e i

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due reintegrati nel consolato. Catilina si accontentò della promessa che gli amici lo avrebbero sostenuto nella campagna elettorale del 65. (7) Il 29 dicembre, ultimo dell'anno, (8) ci fu una specie di prova generale: Catilina irruppe con una banda nel Tribunale dove, presidente Cicerone, allora pretore, si stava giudicando Manilio, un ex tribuno della plebe, e impedì che il processo fosse celebrato. (9) La reazione del governo fu inesistente. Ci si poteva spingere oltre. Il giorno seguente Catilina portò i suoi uomini in Campidoglio aspettando il segnale convenuto che doveva venire da Cesare il quale si sarebbe lasciato cadere la toga dalle spalle. La cerimonia si inoltrava, gli àuguri avevano fatto i sacrifici, le preghiere erano state dette, si avvicinava il momento delle consegne, Catilina fremeva d'impazienza ma Cesare non si muoveva. Attendeva a sua volta un cenno da Crasso e Crasso non si era ancora fatto vedere. Lo aspettarono invano. Non si è mai saputo per quale ragione Crasso, quel giorno, si sia dato. Svetonio (10) dice che fu per una crisi di coscienza, cosa da escludere dato il tipo, o per paura e anche questo è difficile da credere perché il Dives, se occorreva, sapeva prendere i suoi rischi. E' molto più probabile che abbia fatto qualche calcolo che però si tenne per sé e che noi non potremo quindi mai conoscere. Cesare giudicò poco prudente agire senza il capo della congiura e si guardò bene dal lasciar cadere la toga fatale, se la tenne anzi ben stretta al corpo a scanso di pericolosi equivoci. La cerimonia si concluse senza incidenti. Riunitisi di nuovo i congiurati decisero di ritentare il colpo il 5 febbraio quando il Senato si sarebbe riunito alla Curia Ostilia. Ma fu un altro fallimento. Per colpa di Catilina questa volta: diede il segnale prima che i congiurati fossero in numero sufficiente. Ne nacque un tumulto che servì soltanto a far scoprire la macchinazione. (11) Chi si attendeva dal Senato una dura reazione e punizioni esemplari rimase deluso. Per la verità il Senato si trovava in una posizione piuttosto difficile. Temeva certamente i democratici golpisti ma temeva anche Pompeo. Riteneva che se fosse tornato a Roma senza trovarvi alcun contraltare avrebbe instaurato una dittatura riducendo drasticamente i poteri della stessa oligarchia, come aveva fatto Silla il cui nome, a destra e a sinistra, suscitava ancora terrore. Per il Senato si trattava di stare in un precario equilibrio fra generali che erano sostanzialmente schierati dalla parte dell'oligarchia aristocratica e della borghesia, (12) ma che, disponendo dell'esercito, coltivavano mire di dittatura personale, e democratici che cercavano di minare il potere senatoriale dall'interno. Il gioco riuscirà per qualche anno ancora, Cesare verrà fermato dai pugnali di Bruto e di Cassio ma si tratterà solo di un rinvio, di uno stop momentaneo a un processo ormai inarrestabile. Ottaviano Augusto chiuderà la partita. Da allora il Senato perderà ogni seria funzione politica anche se l'oligarchia aristocratica da esso rappresentata conserverà i privilegi economici e sociali di sempre e gli imperatori potranno governare a loro piacimento a patto di non intaccarli. Di fronte a una cospirazione di uomini come Crasso e Cesare il Senato poteva fare poco, erano troppo influenti perché si ardisse perseguirli. Crasso in particolare teneva in pugno mezza Roma perché non c'era aristocratico, ottimate o popolare, che non fosse indebitato con lui. Ci si limitò dunque a dare un corpo di guardia ai due consoli. Se Crasso e Cesare erano intoccabili, Catilina era invece vulnerabile anche perché era quello che, come sempre, si era esposto

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più di tutti. Il Senato cercava un personaggio autorevole e prestigioso cui far sporgere l'insidiosa denuncia contro Catilina e trovò l'uomo adatto in Lucullo che accettò ben volentieri. Non agiva per astio personale o per calcoli politici trasversali ai quali, da buon soldato, era estraneo, ma per convinzione: era uno dei pochi conservatori conseguenti e integri e riteneva che non si potesse far passare come se nulla fosse un episodio così grave e preoccupante. Un esempio doveva essere dato. Partì quindi la denuncia ma Cesare, su istruzione di Crasso, mobilitò i tribuni della plebe e riuscì a far insabbiare il procedimento. Fu invece processato Publio Silla ma venne assolto da un tribunale compiacente. (13) Crasso riuscì addirittura ad ottenere che il Senato conferisse al suo giovane protetto, Pisone, il governo della Spagna nonostante Pisone, che era solo questore, non avesse i titoli per un incarico del genere. Peraltro il Senato, e probabilmente non solo il Senato, aveva un certo interesse a tenere lontano da Roma quel giovane ambizioso e turbolento. (14) Il favore non portò fortuna a Pisone. Partito per la Spagna, durante il viaggio fu trucidato dalle sue stesse truppe, chi dice da cavalieri spagnoli esasperati dalla sua arroganza, chi da soldati fedeli a Pompeo che avevano agito su ordine di emissari del generale. (15) Finì l'inverno, passò un'altra estate, a novembre del 65 Catilina fu assolto dall'accusa di concussione e riprese la propria agibilità politica. Nella primavera del 64 presentò la candidatura al consolato. Il primo giugno tenne una riunione dei propri simpatizzanti nella sua casa al Palatino, il quartiere più «in» di Roma. Erano presenti i senatori Publio Lentulo, Publio Autronio, Lucio Cassio Longino, Caio Cetego, Publio e Servio Silla (nipoti del defunto dittatore), Lucio Vergunteio, Quinto Annio Chilone, Marco Porcio Leca, Lucio Bestia, Quinto Curio, i cavalieri Marco Fulvio Nobiliore, Lucio Statilio, Publio Gabinio Capitone, Caio Cornelio, molti giovani della capitale, sia nobili che plebei, e agricoltori provenienti da diverse province italiane. Sallustio la spaccia per un'adunata di cospiratori, la prima che i catilinari avrebbero tenuto, e non esita a riferire, sia pure come voce, che durante la serata Catilina avrebbe fatto circolare fra i congiurati sangue umano misto a vino con lo scopo di cementare, con quell'orrore, la loro unione. Alla fine del brano però Sallustio è costretto ad ammettere che si tratta di una notizia inventata di sana pianta. (16) Nella realtà quella del primo giugno del 64 fu una classica riunione preelettorale («contio domestica» per dirla in latino) e il discorso che tenne Catilina, per quanto infuocato, fu un tipico discorso elettorale. Disse fra l'altro: «Ora che il governo della Repubblica è caduto nel pieno arbitrio di pochi prepotenti, re e tetrarchi sono divenuti vassalli loro, a loro popoli e nazioni pagano tributi: gli altri tutti, valorosi, valenti, nobili e plebei, non fummo che volgo, senza considerazione, senza autorità, schiavi di coloro cui faremmo paura sol che la Repubblica esistesse davvero. Ma chi, chi se è un uomo, può ammettere che essi sprofondino nelle ricchezze e che sperperino nel costruire sul mare e nel livellare i monti, e che a noi manchi il necessario per vivere? Che essi si vadan costruendo case e case l'una appresso all'altra e che noi non si abbia in nessun angolo un tetto per la nostra famiglia? Per quanto comprino dipinti, statue, vasellame cesellato, per quanto abbattano edifici appena costruiti per ricostruirne altri, insomma per quanto dilapidino e maltrattino il denaro in tutti i modi pure non riescono a esaurire la loro ricchezza con i loro infiniti capricci. Per noi la miseria in casa, i debiti fuori, triste l'oggi, spaventoso il domani.

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Che abbiamo, insomma, se non l'infelicità del vivere?». (17) Promise inoltre l'annullamento dei debiti e concluse: «Queste cose, io lo spero, tratterò con voi da console». (18) Dopo il discorso esortò i convenuti ad adoperarsi per la sua elezione. Ora, che senso aveva cospirare se Catilina intendeva farsi eleggere console? Da console avrebbe potuto mettere in atto le misure che aveva in mente in modo del tutto legale. E se, come sostiene Sallustio, quella riunione fu operativa, si presero accordi, si distribuirono armi e altre vennero inviate in varie parti d'Italia, non si capisce che cosa mai abbiano fatto in quindici mesi i congiurati visto che non presero alcuna iniziativa fino al settembre del 63. Sallustio riferisce che ci fu un progetto di assassinare i consoli e che i congiurati cercarono di attuarlo durante i comizi elettorali del 63. Ma a parte il fatto che di questo tentativo non c'è nessuna traccia se non nelle parole di Sallustio, (19) che senso avrebbe avuto riunirsi prima dei comizi del 64 (quando oltretutto i congiurati non potevano sapere che Catilina sarebbe stato sconfitto) per assassinare i consoli nel 63, un anno dopo? Le incongruenze del Sallustio storico mettono in imbarazzo anche il Sallustio scrittore il quale, non sapendo come riempire lo spazio di un anno in cui non accadde assolutamente nulla, è costretto a fare una lunga divagazione su una certa Sempronia, un personaggio marginale della congiura. In ogni caso che Sallustio, equivocando, non si sa se per errore o per malizia, su una frase di Cicerone, abbia anticipato di un anno la congiura è un dato accertato dalla storiografia moderna sulla base del raffronto con le altre fonti e della stessa impossibilità cronologica della ricostruzione sallustiana. (20) L'infiammato discorso di Catilina allarmò ulteriormente gli aristocratici i quali non avendo quell'anno nessuna candidatura di prestigio puntarono su Cicerone. Non avevano alcuna stima dell'oratore, anzi lo disprezzavano perché era un provinciale, un homo novus, un parvenu, però poteva portare i voti decisivi dei cavalieri e assicurare così la vittoria. Perciò, sia pur turandosi il naso, diedero ordine di votarlo. (21) Durante la campagna elettorale Cicerone pronunciò un'orazione, In toga candida (chi si presentava alle elezioni portava una toga sbiancata a gesso, da cui il nome di candidato), nella quale attaccava con inaudita violenza Catilina (22) alludendo pesantemente alla congiura del 66-65 ma guardandosi bene dal fare i nomi di Crasso e Cesare. (23) Riesumò anche la vecchia storia di Mario Gratidiano e non esitò nemmeno a tirare in ballo lo scandalo che aveva coinvolto la cognata, la vestale Fabia. Attaccò anche l'altro candidato dei democratici, Antonio Ibrida, ma con minor veemenza. (24) Sappiamo che i due risposero per le rime e che già in precedenza lo stesso Catilina e il tribuno della plebe Lucio Orestino avevano coperto Cicerone di scherni atroci e che l'oratore se l'era presa a morte. Ma il contenuto dei loro discorsi non ci è giunto. (25) Poco dopo Cicerone stringeva con Ibrida il patto segreto per scambiarsi i voti e mettere sotto Catilina. (26) Ignaro di questi maneggi Catilina, che aveva, o credeva di avere, l'appoggio di Crasso e Cesare, pareva abbastanza tranquillo, sicuro della vittoria. Il 29 luglio si aprirono le urne: aveva vinto Cicerone con largo margine, Catilina era battuto per pochissimi voti da Ibrida. Deve essere stata una delusione cocente, ma non reagì. Furono invece gli avversari ad attaccarlo nuovamente e sempre con lo strumento del processo. Ma qui bisogna fare qualche passo indietro. All'inizio dell'anno Cesare, che all'epoca di Silla aveva passato qualche guaio, sia pur modesto, aveva rispolverato la

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questione delle liste di proscrizione di diciotto anni prima. Uno degli scopi di Cesare, che in quel momento, al seguito di Crasso, stava dando la scalata al potere come leader del partito democratico, (27) era di acquisire benemerenze presso i populares. Aveva perciò convinto alcuni suoi amici ad avviare un procedimento contro coloro che più si erano esposti in quelle vicende, (28) cancellando così di fatto l'amnistia che era stata concessa da Silla. (29) Quindi, sfruttando la propria posizione di edile, si era fatto nominare presidente dell'apposito tribunale (Quaestio de sicariis). (30) Voleva anche togliersi qualche sfizio ai danni degli ex sillani. Il «divo Giulio» non disdegnava infatti la vendetta. E sapeva che è un piatto che si mangia freddo. Dione Cassio scrive che «la esercitava senza fretta e senza collera, nel momento più opportuno e imprevisto attraverso vie misteriose e in modo tale che nessuno fu mai in grado di prevenirne gli effetti e denunciarne la crudeltà». (31) Non aveva ancora vent'anni quando era stato catturato dai pirati cilici, i più feroci scorridori del Mediterraneo, al largo dell'isola di Farmacussa. Alla richiesta di un riscatto di venti talenti Cesare era scoppiato a ridere: «Voi non sapete chi avete preso, ve ne darò cinquanta». (32) Nei trentotto giorni in cui fu tenuto prigioniero partecipò con grande tranquillità agli allenamenti e ai passatempi dei pirati facendoseli amici. Giocava e si divertiva con loro. «Ogni tanto, per scherzo, minacciava che li avrebbe fatti impiccare.» (33) E i pirati ridevano, estasiati da quello sfrontato giovane burlone. Arrivò il denaro e Cesare fu liberato. Equipaggiò una piccola flotta e andò a cercare i suoi carcerieri. Li scovò, li fece prigionieri e «li impalò tutti quanti». (34) Ma queste erano crudeltà di un giovane molto conscio di sé. Il Cesare maturo preferiva le vendette per via legale e a scoppio ritardato. Una la consumò, qualche anno dopo gli avvenimenti di cui ci occupiamo, proprio ai danni di Cicerone cui non perdonava di non averlo spontaneamente difeso dall'accusa di aver partecipato alla congiura di Catilina e di averlo costretto a «implorare» (35) la sua testimonianza a favore. Così nel 58, a cinque anni dalla congiura, manovrando il tribuno Publio Clodio perché presentasse una legge che condannava l'oratore all'esilio, lo cacciò da Roma e fece saccheggiare la sua casa. Un'altra l'aveva attuata, sia pure per conto terzi, nel 63, un anno dopo la Quaestio de sicariis, trascinando in tribunale un esponente degli optimates, il vecchio senatore Rabirio che trentasette anni prima, nel 100, aveva partecipato al linciaggio del tribuno della plebe Apuleio Saturnino. Era un'iniziativa palesemente assurda: fosse o no colpevole Rabirio era ormai un ectoplasma inoffensivo e comunque i fatti erano troppo lontani. Ma Cesare aveva un paio di obiettivi precisi. Uno era compiacere il giustizialismo della plebe, la sua voglia di rivincita, perché Rabirio, col tempo, era diventato un simbolo dell'aristocrazia più dura e reazionaria. L'altro era minare l'autorità del Senato perché l'azione di Rabirio aveva avuto come base legale un Senatus consultum ultimum. Cesare fece quindi presentare dal tribuno della plebe Tito Labieno, un suo fedelissimo, un'accusa contro Rabirio di perduellio (alto tradimento) per la quale era competente un tribunale speciale formato da due giudici estratti a sorte (Duoviri). La sorte, affidata al pretore Valerio Flacco, favorì, guarda caso, lo stesso Cesare e suo cugino, Caio Cesare. I Duoviri non ci stettero a pensar su e, riesumando una vecchia legge, condannarono l'anziano senatore a essere battuto a morte con le verghe e quindi decapitato, una pena caduta in disuso da tempo immemorabile. Rabirio, com'era suo diritto, fece appello al popolo, cioè ai comizi centuriati. Per quanto fosse tutto grottesco c'era

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poco da star tranquilli perché Rabirio era detestato dalla plebe e i comizi centuriati, in genere di manica larga, avrebbero potuto farsi trascinare dalla voglia di vendetta. A questo punto intervenne il Senato, sia per difendere uno dei suoi membri, per quanto ormai in disarmo, sia perché aveva intuito la manovra di Cesare e dove voleva andare a parare. Ordinò quindi a Cicerone, che in quel momento era console e che era il più grande avvocato del suo tempo, di difendere Rabirio davanti ai comizi. Nonostante motivi di opportunità, dovuti alla sua carica in teoria super partes, lo sconsigliassero, Cicerone accettò di buon grado: difendere un vecchio reazionario contro la demagogia della plebe era qualcosa che stava nelle sue corde. Coadiuvato dall'altro grande principe del foro, Ortensio, si lanciò nell'arringa. Ma lo tradì l'eccesso di zelo perché invece di appellarsi al tempo trascorso, all'età dell'accusato, all'eccezionalità del momento in cui erano avvenuti i fatti, insomma invece di sfumare, volle affrontare puntigliosamente la questione nel merito e sostenne il diritto di Rabirio a uccidere Saturnino. Il tribunale popolare si irrigidì immediatamente. Le cose si mettevano male. Le risolse Quinto Metello Celere, il pretore che presiedeva l'assemblea, facendo cadere lo stendardo (vexillum) che doveva obbligatoriamente sventolare durante questi solenni giudizi. Senza vexillum l'assemblea doveva considerarsi sciolta e tutto finì in una farsa. Ma Cesare aveva ottenuto quello che voleva e anche qualcosa di più: mettere in dubbio la legittimità del Senatus consultum ultimum, un istituto di cui il Senato si era servito negli ultimi decenni per bloccare qualsiasi tentativo di ribellione alla sua autorità, e preparare così il terreno alle proprie mire golpiste e dittatoriali; accreditarsi, con poca spesa, presso la plebe come suo amico e paladino dandole in pasto, almeno per un po', Rabirio; sputtanare Cicerone che si era esposto in modo ridicolo. (36) Ma riprendiamo il filo della nostra storia e ritorniamo ai primi mesi del 64, al processo che Cesare aveva fatto avviare contro i «sicari» di Silla. Anche questo processo, come quello a Rabirio, era una farsa. E non solo perché erano passati diciotto anni dai fatti. Se fosse stato una cosa seria i primi ad andare alla sbarra avrebbero dovuto essere Catilina e soprattutto Crasso che sulle proscrizioni si era vergognosamente arricchito. Ma Crasso era il sodale di Cesare, colui che ne finanziava la carriera politica, e la Bithynica regina gli doveva la bellezza di 20 milioni di sesterzi. In quanto a Catilina, quali che fossero i suoi sentimenti verso di lui, Cesare doveva stare agli ordini di Crasso. E gli ordini del Dives erano che, per il momento, Catilina doveva essere considerato uno del clan. Crasso e Catilina non vennero dunque denunciati. Ma con la Quaestio de sicariis, che rimase aperta per alcuni mesi, Cesare lanciava ai due un pesante avvertimento: in un'epoca in cui la lotta politica più che nelle sedi istituzionali si svolgeva nelle aule dei tribunali faceva capir loro che li teneva sotto tiro e che poteva colpirli in qualsiasi momento. In tal modo Cesare, che vedeva in Catilina un rivale e che stava già meditando di scavare la fossa a Crasso, di cui pativa la leadership, preparava le basi per impadronirsi del partito democratico, prima tappa verso quel potere assoluto cui sarebbe arrivato pochi anni dopo. Intanto un risultato immediato l'aveva comunque raggiunto: indebolire oggettivamente la candidatura di Catilina alle elezioni consolari del 64, pur continuando a figurare come uno dei suoi sostenitori. (37) Faceva lo sgambetto al rivale senza disobbedire a Crasso. Un tipo di acrobazia in cui il «divo Giulio» era maestro. E quella improvvisa riesumazione, in cruda luce, dei torbidi dell'82, che avevano impressionato moltissimo la popolazione romana, danneggiò effettivamente Catilina e diede un

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ulteriore spinta alla sua sconfitta elettorale già così abilmente preparata da Cicerone. Per la Quaestio de sicariis furono processati e condannati due personaggi minori, il centurione L' Luscio e lo zio materno di Catilina, L' Bellieno, oltre ad alcune spie che avevano denunciato i proscritti e incassato le taglie dall'erario. (38) Tutto ciò si svolse fra marzo e giugno del 64. Poi vennero i comizi, la vittoria di Cicerone e Ibrida, la sconfitta di Catilina. Quando Cesare aveva aperto la Quaestio de sicariis gli aristocratici non avevano potuto inserirsi nel gioco e denunciare per proprio conto Catilina: lo avevano già bloccato due volte, nel 66 e nel 65, con cavilli legali, provarci una terza, per le elezioni del 64, sarebbe stata un po' troppo sporca e poteva provocare una sollevazione popolare, inoltre avrebbe consentito ai democratici, di cui Catilina era formalmente un candidato, di atteggiarsi a vittime. Ma passati i comizi queste cautele non avevano più ragion d'essere e Cicerone, forte del trionfo elettorale, pensò che era il momento buono per liberarsi una volta per tutte di Catilina secondo i desiderata dell'oligarchia. Indusse un amico, lo scrittore Lucceio, a denunciare Catilina davanti alla Quaestio de sicariis. (39) Ma il tribunale era ancora presieduto da Cesare e Catilina fu assolto con grande dispetto dell'oratore e del suo entourage. (40) Non è detto però che Catilina ne sia uscito fuori esclusivamente per un favoritismo di Cesare teleguidato da Crasso. Se ci fossero state delle prove inequivocabili contro Catilina, Cesare avrebbe avuto buon gioco a condannarlo e poi, di fronte a Crasso, allargare le braccia dicendogli: «Che altro potevo fare?». Inoltre se si va a guardare il processo di qualche mese prima a Luscio e agli altri si nota che furono condannati uomini che avevano approfittato delle proscrizioni sillane per arricchirsi. Mentre a Catilina questo non poteva essere addebitato. L'autunno del 64 si consumò quindi con l'ennesimo processo e l'ennesima assoluzione di Catilina. A dicembre il tribuno della plebe Servio Rullo presentò la proposta di riforma agraria (lex Servilia). Alcuni storici ritengono che l'ispiratore della legge fosse Cesare. (41) Invece era Catilina. Sia perché la lex Servilia ricalcava, nelle sue linee generali, il programma dei catilinari nel quale era comunque compresa, come sappiamo da Dione Cassio, la redistribuzione delle terre. (42) Sia perché la mano di Catilina si avverte in alcuni dettagli molto precisi e significativi. Fra le terre di proprietà dello Stato da vendere e redistribuire la legge escludeva espressamente quelle che nel 75 erano state assegnate in usufrutto al re di Numidia, Jempsale, col quale Catilina, quando era in Africa, aveva stretto rapporti di amicizia e quelle d'Etruria dove i catilinari avevano il più forte nucleo di simpatizzanti. (43) Tanto che Cicerone parlerà in proposito di «eccezioni sospette» dando a divedere di sapere benissimo chi ci fosse dietro la legge. (44) Ma che Cesare non c'entrasse nulla con la lex Servilia lo dice il fatto che quando ebbe il potere non pose mai mano a una riforma del genere. La legge agraria varata sotto il suo consolato, nel 59, fu una semplice distribuzione di terre ai veterani, come ce n'erano state tante, concessa soprattutto per tener buono Pompeo. Ma anche quando fu dittatore, ed ebbe quindi mano libera, Cesare di tutto si occupò, di rafforzare i confini, di riorganizzare l'esercito, di raddoppiare la paga ai suoi soldati, di inasprire l'apparato poliziesco, di rendere più severi i tribunali soprattutto nei confronti della povera gente, di defalcare le sovvenzioni alla plebe, di varare leggi moralistiche contro il divorzio e l'adulterio, di regolare il traffico delle lettighe, di riformare il calendario, di chiamare Julius il mese che prima era Quintilis, di limitare l'uso della toga

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di porpora e persino di proibire alcuni cibi prelibati (tranne che a sé e ai suoi amici, of course), ma non attuò alcuna riforma economica e sociale di qualche significato e intimidì a tal punto il tribunato della plebe (oltre che le altre magistrature che peraltro cumulò quasi tutte nella sua persona) che questa magistratura, deputata a difendere gli interessi del popolo, durante il suo regno «non dette mai alcun segno di vita». (45) Un'altra prova che la lex Servilia era legata a Catilina viene dal fatto che il progetto era stato preparato prima delle elezioni del luglio del 64. (46) Evidentemente si contava che Catilina, da console, avrebbe fatto passare la legge. Catilina fu sconfitto ma i catilinari, quando Rullo ai primi di dicembre fu eletto tribuno della plebe, decisero di presentare ugualmente il progetto per tastare il terreno. Cicerone fin dall'estate, cioè dalla sua elezione a console, aveva tentato in tutti i modi di venire in possesso del testo della proposta di legge. Ne aveva fatta anche esplicita richiesta ai tribuni «impegnandosi» disse «ad appoggiare la legge se l'avesse ritenuta utile allo Stato». (47) In quell'occasione aveva anche affermato che sarebbe stato un console «popolare». Ma i tribuni lo avevano schienato. Poté venire a conoscenza del testo solo il 10 dicembre quando, insediatisi da qualche giorno i tribuni, fu pubblicato ufficialmente e affisso nel Foro. Allora mandò in tutta fretta i suoi segretari a ricopiarlo. La proposta di legge di Rullo non aveva alcuna possibilità di passare perché gli aristocratici, per mettersi al sicuro, avevano prezzolato il tribuno della plebe L. Cecilio che aveva annunciato il veto. Cicerone non aveva alcun bisogno di esporsi. Ma per far vedere agli aristocratici quanto era bravo e pronto a rendere servigi, il 1o gennaio inaugurò il suo consolato con una violenta requisitoria contro la legge agraria (De lege agraria) cui fece seguire altre tre orazioni dello stesso tenore. L'oratore non esita a ricorrere a qualunque tipo di argomentazione, anche le più abbiette. Come si sa uno degli obiettivi della legge agraria era dare un impiego e un impegno alla plebe urbana di Roma che viveva di puro assistenzialismo. Cicerone ricorda al popolino che se passa la legge gli toccherà andare a lavorare, fuori Roma per giunta, e perderà le feste, gli spettacoli, i giochi e soprattutto il commercio delle schede elettorali e le elargizioni gratuite di grano. (48) Usando una serie di argomenti speciosi attacca poi la legge sotto ogni profilo, anche costituzionale, e si aggrappa a qualche errore tecnico della complessa normativa (peraltro facilmente emendabile se il console fosse stato minimamente in buona fede e quel «vero difensore degli interessi della plebe» come ebbe la faccia tosta di presentarsi nelle due orazioni che tenne davanti al popolo) per dichiarare improponibile la lex Servilia. Il suo discorso, molto abile anche se assolutamente scoperto agli occhi di un osservatore moderno, dovette far breccia nell'animo di una parte del popolino se Rullo decise di ritirare la proposta prima ancora che andasse a cozzare contro il veto del suo collega. E' in questo periodo che Crasso e Cesare prendono definitivamente le distanze da Catilina. Il suo programma si sta rivelando troppo radicale per i loro gusti (49) e, ciò che è peggio, Catilina sembra prenderlo sul serio. Le riforme catilinarie vanno infatti a colpire sia gli interessi dei grandi latifondisti che quelli dei banchieri. E Crasso è l'uno e l'altro. In quanto a Cesare poteva forse avere un certo interesse alla cancellazione dei debiti visto che ne aveva un po' con tutti, ma giudicava comunque che Catilina si fosse spinto troppo in là sulla via dei cambiamenti e che, battuto nella corsa al consolato e battuto sulla lex Servilia, fosse ormai un uomo bruciato.

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Fece quindi quello che sempre aveva fatto e sempre farà nella sua vita: tenne il piede in due scarpe. (50) Continuò ad avere contatti con Catilina anche quando questi si mise davvero a cospirare ma intanto passava a Cicerone tutto quanto veniva a sapere sulla congiura. E nel 62, dopo la morte del ribelle, poiché c'era chi lo accusava di aver simpatizzato per la congiura, pretese che Cicerone attestasse pubblicamente questa sua benemerita attività di spione. (51) Passò anche quell'inverno e nel giugno del 63, a tre anni dal suo ritorno dall'Africa, Catilina ripropose la sua candidatura al consolato. La parola d'ordine dell'oligarchia era una sola: fermarlo. E la passò a Cicerone, console, che si mise subito all'opera. Per prima cosa si assicurò la neutralità del collega, Antonio Ibrida, cedendogli per l'anno successivo il proconsolato della ricca provincia di Macedonia e tenendo per sé la molto meno remunerativa Gallia Cisalpina. Era inteso, naturalmente, che Ibrida gli avrebbe passato una tangente sui profitti. Di questo patto fra gentiluomini c'è testimonianza in tre lettere ad Attico e in una allo stesso Ibrida in cui Cicerone si lamenta che il collega non è stato ai patti. (52) Cicerone convinse poi il Senato a decretare a Lucullo quel trionfo che aspettava da tempo e che gli era stato fin lì rifiutato per non dispiacere Pompeo. Ciò significava che uno dei candidati, Lucio Murena, già legato di Lucullo in Asia, avrebbe potuto contare sui voti dei 1600 legionari che sarebbero entrati in Roma per celebrare il trionfo del loro generale. (53) Murena si presentava per i democratici ed era quindi in diretta concorrenza con Catilina. Il console sa che Pompeo, che invidia e teme Lucullo cui ha sottratto, grazie anche all'aiuto di Cicerone, il comando in Asia, non sarà contento. Ma Pompeo per il momento è lontano''' Intanto Catilina ha dato inizio alla sua campagna elettorale, che è violentissima anche perché non deve più tener conto delle remore di Crasso e Cesare. In un discorso, che fece grande impressione sugli aristocratici e sui borghesi, disse tra l'altro che «fedele difensore dei miseri non poteva essere se non chi fosse egli stesso misero, i malati e i bisognosi non dovevano credere alle promesse dei ricchi e dei fortunati». (54) Il leader di coloro che cercavano un riscatto, aggiunse, doveva essere un uomo, oltre che audace, altrettanto sventurato e lui, che non possedeva quasi più nulla, lo era. (55) E concluse: «Nella Repubblica romana ci sono due corpi, uno è gracile e infermo con una testa senza cervello, l'altro è vigoroso e sano ma senza capo. Se saprò meritarmelo sarò quel capo finché io viva». (56) Erano dichiarazioni-bomba, con quelle allusioni così trasparenti all'aristocrazia e alla plebe. L'oligarchia senatoria si spaventò a morte. E giustamente. Era la prima volta che un patrizio, uno dei loro, parlava un simile linguaggio dimostrando di aver tagliato completamente i ponti con la propria classe per assumere «in toto» la causa del popolo. Neanche i Gracchi si erano spinti a tanto, conservando sempre un certo margine di ambiguità. La plebe aveva trovato il capo che non aveva mai avuto. L'entusiasmo salì alle stelle. «Tutta la plebe» scrive Sallustio «era per Catilina.» (57) La città pullulava di agricoltori venuti dalle campagne italiche, soprattutto dall'Etruria, per sostenere il loro leader con il voto. Il clima era rovente. Una vittoria storica, da tempo sognata, era a portata di mano. Alla disperata i conservatori si misero a cercare le prove che Catilina corrompeva gli elettori. (58) Ma, nonostante la nuova legge de ambitu, fatta votare proprio quell'anno da Cicerone, (59) fosse severissima e vietasse persino i banchetti, (60) non riuscirono a trovare nulla. (61)

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Allora il giorno prima del voto Cicerone, che presiedeva i comizi, rinviò le elezioni prendendo a pretesto gravi motivi di ordine pubblico. (62) E convocò per l'indomani il Senato perché ratificasse il suo provvedimento e decidesse i termini del rinvio. Durante la seduta il console chiese conto a Catilina delle sue dichiarazioni. «Sfrontato come sempre» scrive Cicerone «Catilina non si giustificò» (63) ma ripeté punto per punto, lì nella Curia, davanti all'élite dello Stato romano, quanto aveva detto nelle riunioni private. Quando, guardando spavaldo i senatori, parlò di «un corpo gracile e infermo con una testa senza cervello» un mormorio si levò dall'assemblea sferzata da quell'ingiuria sanguinosa, sgomenta che si osasse tanto. Ma Catilina non se ne curò. Col suo solito fare irridente uscì di scatto dal Senato ammutolito. (64) Pochi giorni prima Catilina era stato affrontato a muso duro da Catone il quale aveva minacciato di denunciarlo per i suoi discorsi che considerava «eversivi». (65) Marco Porcio Catone, torturato dalla memoria e dall'esempio del suo mitico avo (il famoso Censore del «Chartago delenda est») che si riteneva obbligato a copiare, era «una singolare caricatura del suo antenato», (66) secondo Mommsen che lo definisce anche «un pazzo sistematico». Legalista ad oltranza, integralista, moralista, privo di passioni se non quella per la Patria, onestissimo, Catone cercava di far corrispondere la propria vita ai princìpi dello stoicismo e ai costumi dell'antica Roma. Andava a piedi, rifiutava le onorificenze, non prestava denaro a usura, non indossava la camicia secondo l'uso di Romolo, girava perennemente con un libro in mano, non perdeva una seduta del Senato, sempre puntuale, sempre primo, sempre inappuntabile. C'era effettivamente in lui, nella ostentazione narcisistica delle proprie virtù, qualcosa di parodistico e comunque di eccessivo. Ma Catone, a differenza della stragrande maggioranza degli aristocratici e dei borghesi del suo tempo, ormai completamente immersi nel comodo, viscido e truffaldino gioco della doppia morale, era un uomo che credeva ai princìpi che professava, per essi visse e per essi seppe morire mettendo in atto un suicidio, per così dire, esemplare. Anche Catone era uno di quelli che ritenevano che i pensieri dovessero corrispondere alle parole e le parole ai fatti. Per un curioso paradosso, che poi è tale solo in apparenza, i rappresentanti della destra e della sinistra più estreme, per usare categorie moderne, della società romana non erano così diversi come sembravano e come credevano. Erano entrambi uomini tutti di un pezzo, incapaci di mediazioni e di compromessi, nostalgici di una Repubblica dai costumi più semplici e più franchi. Ed erano quindi entrambi fuori dal loro tempo. Dunque il giovane Catone, che aveva allora 32 anni, affrontò coraggiosamente Catilina e lo apostrofò con durezza. L'altro, guardandolo fisso negli occhi, rispose: «Se cercherete di appiccare un qualsiasi incendio contro di me non lo spegnerò con l'acqua ma con le rovine». (67) Le elezioni furono rinviate di una quindicina di giorni, meno di quanto sperasse Cicerone che voleva arrivare a settembre quando gli agricoltori, sostenitori di Catilina, avrebbero dovuto necessariamente tornare sui campi per la vendemmia. Il rinvio fu comunque sufficiente a sfoltire i ranghi dell'elettorato catilinario e, soprattutto, a permettere a Murena di corrompere, con i soldi di Crasso, gli elettori, soprattutto, com'è ovvio, i plebei. Cicerone sapeva di averla fatta sporca. E aveva paura. Andava in giro protetto dalla scorta indossando una grande e vistosa corazza che, sul suo corpo gracile e già da vecchio, lo rendeva grottesco. (68) Tutta Roma ne rideva, anche perché era una precauzione inutile

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essendo notorio che Catilina, che aveva fama di grande spadaccino, non mirava a quello che in termini pugilistici si chiama il «bersaglio grosso» ma usava colpire i suoi avversari di precisione al capo o al collo. (69) Ma Catilina sembrava pensare a tutt'altro. Era allegro e fiducioso nella vittoria. Così lo ricorda lo stesso Cicerone: «Catilina, tutto vibrante, lieto, circondato da una schiera di giovani, protetto da informatori e da sicari, esaltato dalla speranza che poneva nei militari e anche, a suo dire, dalla promessa del mio collega in consolato, aveva intorno a sé un esercito di coloni aretini e fiesolani. In mezzo a questa folla spiccavano tipi di tutt'altro genere, vittime dello sciagurato tempo di Silla. E lui, il volto acceso, gli occhi da criminale, le parole arroganti, pareva avesse già in tasca il consolato, anzi che se lo fosse chiuso in casa». (70) Ma, ancora una volta, si illudeva. Lucio Murena fu primo, Giunio Silano secondo, lui, come sempre, terzo. Poco dopo Catone e Servio Sulpicio formalizzarono contro Murena l'accusa di brogli di cui si era già vociferato durante la campagna elettorale provocando il ritiro, per protesta, dello stesso Sulpicio. Si venne a sapere che pure Silano, anche se non era stato incriminato, aveva vinto con la corruzione. (71) Allora Catilina decise che ne aveva abbastanza di questi giochi e giochetti «democratici». E prese le armi. (72)

Note (1) Svetonio, op' cit', Cesare, I. la leggenda vuole che Silla, cedendo a malincuore alle suppliche dei difensori di Cesare, esclamasse: «Abbiatela pure vinta, ma sappiate che in Cesare vi sono molti Marii!». Mario, leader del partito democratico, era stato il grande antagonista di Silla. (2) Svetonio, op' cit', Cesare, Ii. (3) In tutta la sua opera di scrittore Cesare non nominerà mai, nemmeno indirettamente, Catilina. Cesare, Opera omnia, Einaudi, 1993.

(4) Svetonio, op' cit', Cesare, Ix. (5) Ibidem. (6) Svetonio, op' cit', Cesare, I. (7) L' Pareti, op' cit', p' 313; E' Meyer, Caesar's Monarchie und das Principat des Pompeius, Stoccarda-Berlino 1918, p' 17. (8) Nel calendario romano, di derivazione lunare, i mesi erano di 29 e 30 giorni. L'ultimo dell'anno cadeva il 29 dicembre. Prima del 153 a'C' l'anno iniziava a marzo e finiva a febbraio. (9) Asconio, op' cit', 60. (10) Svetonio, op' cit', Cesare, Ix. (11) La maggioranza degli storici moderni è convinta che la cosiddetta «prima congiura di Catilina» non sia mai esistita e sia un'invenzione tardiva per screditare Cesare e Crasso (vedi, tra gli altri, L' Perelli, Il movimento popolare nell'ultimo secolo della Repubblica, Paravia, 1982, p' 180; H' Waters, Cicero, Sallust and Catilina, «Historia», 1970, pp' 195-215; E'J' Phillips, Catilina's Conspiracy, Historia, 1976, pp' 441-448). A me non pare. Sallustio, che scrive a vent'anni dai fatti, ne parla diffusamente e l'intento del suo pamphlet è di scagionare Cesare dall'accusa di aver parteggiato per Catilina. E' vero che per la cosiddetta «prima congiura» Sallustio si guarda bene dal fare il nome di Cesare e cita solo Crasso. Però se la «prima congiura» fosse stata un'invenzione (e di chi poi in epoca così vicina ai fatti?) avrebbe avuto tutto l'interesse a denunziarla come tale o a non menzionarla nemmeno. Sulla «prima congiura» vedi anche H' Firsch, The First Catilinarian

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Conspiracy, «Classica et Mediaevalia», 1948, Ix, p' 10-36; C'E' Stevens, The «plotting» of B'C' 66-65, «Latomus», Xii, 1963, pp' 397-435; R' Seager, The First Catilinarian Conspiracy, «Historia», Xiii, 1964, pp' 338-347. (12) In verità la posizione di Pompeo era estremamente ambigua: era il leader dei cavalieri, flirtava con l'aristocrazia, per le vittorie ottenute in Asia godeva di un vasto consenso fra la plebe e, sia pur fra molti tentennamenti, puntava alla monarchia. Solo i democratici, vale a dire Crasso e Cesare, gli erano avversi. Quando nel 60 i tre troveranno un accordo ci sarà il primo triumvirato che aprirà la strada alla dittatura, non di Pompeo però, ma di Cesare. (13) Dione Cassio, op' cit', 36, 44, 4. (14) Dione Cassio, op' cit', 36, 44, 5; Cil, Vi, 1276. (15) Sallustio, op' cit', Xix. (16) Sallustio, op' cit', Xxii. La diceria viene ripresa secoli dopo, come vera, da Dione Cassio, op' cit', 37, 30, 2 e Floro, op' cit', Iv, 1. (17) Sallustio, op' cit', Xx. (18) Ibidem. (19) In realtà Sallustio retrodata il tentativo di assassinio di Cicerone messo in atto il 7 novembre del 63. L' Pareti, op' cit', p' 443. (20) Vedi, per tutti, L' Pareti, op' cit', p' 332. (21) Sallustio, op' cit', Xxiii. (22) Lo scambiarsi le accuse più feroci nelle arringhe e nelle orazioni politiche era una consuetudine a Roma. E, come ricorda lo stesso Cicerone, si dava per scontato che ci fossero molte esagerazioni. Cicerone, Orator, 36, 127; cfr' L' Pareti, op' cit', p' 424. (23) Cicerone, In toga candida, 22. (24) Cicerone, In toga candida, passim. (25) Asconio, op' cit', 95. (26) Ai tempi di Catilina e Cicerone il voto era segreto e consentiva quindi tutti i consueti giochi di questo tipo di suffragio. In epoca anteriore si votava per alzata di mano. (27) J' Carcopino, op' cit', pp' 151-238. (28) Dione Cassio, op' cit', 37, 10, 2; Asconio, op' cit', 91. (29) Svetonio, op' cit', Cesare, Xi. (30) J' Carcopino, op' cit', p' 159. (31) Dione Cassio, op' cit', 38, 11, 1. Per vendetta Cesare fu anche mandante di un torbido delitto. Nel 59, quando era console, fece arrestare L' Vettio che quattro anni prima lo aveva accusato di complicità nella congiura di Catilina. Quell'arresto sembrava un atto di giustizia disinteressato perché Vettio, che era un delatore di professione, aveva falsamente accusato due nemici giurati di Cesare: Lucullo e Domizio Enobarbo. Pochi giorni dopo Vettio venne trovato morto in cella, avvelenato. Furono sospettati Pompeo e Vatinio. Solo molto più tardi si scoprì che il mandante era Cesare; Svetonio, op' cit', Cesare, Xx. (32) Plutarco, op' cit', Vita di Cesare, 2. (33) Ibidem. (34) Ibidem. (35) Svetonio, op' cit', Xvii. (36) Sul caso Rabirio vedi P' Grimal, op' cit', pp' 134-35 e P' Zullino, op' cit', pp' 151-53. (37) J' Carcopino, op' cit', p' 159. (38) Cicerone, In toga candida, 21 e Asconio, op' cit', 92. (39) Asconio, op' cit', 92. (40) Dione Cassio, op' cit', 37, 10, 3.

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(41) Vedi G'U' Sumner, Cicero, Pompeius et Rullus, Tapa, pp' 569-82 e J' Carcopino, op' cit', p' 164. (42) Dione Cassio, op' cit', 37, 30, 2. (43) Cicerone, De lege agraria, I, 4, 10 e Ii, 21, 57. Cfr' anche l'analisi di P' Zullino, op' cit', pp' 89, 98-99. (44) Cicerone, De lege agraria, I, 5, 18. (45) M' Rostovtzeff, op' cit', p' 535. (46) Che la lex Rullia fosse in elaborazione perlomeno da luglio lo sappiamo attraverso lo stesso Cicerone: fin dal giorno dopo la sua elezione (29 luglio) tentò vanamente di venire in possesso del testo. P'G' Grimal, op' cit', p' 130. (47) Ibidem. (48) Cicerone, De lege agraria, Ii, 27, 51. (49) Sulle differenze fra il programma di Catilina e quello di Crasso e Cesare si veda in particolare L' Pareti, op' cit', pp' 333-35. (50) Anche durante la rivolta di Lepido, nel 77, Cesare aveva tenuto contatti segreti con i ribelli in attesa di vedere come andava a finire. Svetonio, op' cit', Cesare, Iii. Ed è molto probabile che sia stato Cesare a far fallire la cosiddetta «prima congiura di Catilina» cui aveva aderito con poca convinzione per obbedienza al suo capo e finanziatore Crasso. J' Carcopino, op' cit', p' 154. (51) Svetonio, op' cit', Cesare, Xvii. Fra gli accusatori di Cesare c'era anche Quinto Curio, ringalluzzito dal perdono e dalle laute ricompense che il Senato gli aveva concesso per le notizie che aveva fornito sulla congiura, consentendo di sventarla, e ormai scatenato nella delazione (vedi il prossimo capitolo). (52) Cicerone, Ad Atticum, 12, 13, 14 e Ad familiares, V, 5. (53) Cicerone, Pro Murena, 69; Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 36. (54) Cicerone, Pro Murena, 50. (55) Ibidem. Dopo una campagna elettorale per il consolato andata a vuoto, una in corso, le spese per la difesa nei due processi che gli aristocratici gli avevano intentato, Catilina era effettivamente alle strette, anche se poteva contare sui beni della moglie. (56) Ibidem. (57) Sallustio, op' cit', Xxxvii. (58) Cicerone, Pro Murena, 49. (59) Scoliaste di Bobbio a Cicerone, pp' 269, 309, 324, 362 (a Pro Plancio, Pro Sestio, In Vatinium, Pro Sulla). (60) Dione Cassio, op' cit', 37, 29, 1. (61) Cicerone, Pro Murena, 49. (62) Cicerone, Pro Murena, 51. (63) Ibidem. (64) Ibidem. (65) Ibidem. (66) T' Mommsen, op' cit', vol' Vii, pp' 153-54. (67) Cicerone, Pro Murena, 51; Valerio Massimo, op' cit', Ix, Ii, 3. (68) Cicerone, Pro Murena, 52. (69) Ibidem. (70) Cicerone, Pro Murena, 49. (71) Plutarco, op' cit', Vita di Catone, 21. (72) Che Catilina abbia ordito la congiura solo dopo essere stato sconfitto per la terza volta, con ogni genere di brogli, nelle elezioni è opinione pressoché unanime fra gli storici moderni, anche quelli più prevenuti nei suoi confronti. Vedi la classica opera di G' Boissier, op' cit', p' 112 e J' Carcopino, op' cit', p' 245 n' 180.

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VI.La congiura

Nelle Catilinarie Cicerone afferma che i congiurati sono avvelenatori, assassini, banditi, sicari, parricidi, truffatori, falsificatori di testamenti, oberati di debiti, falliti, gladiatori, attori, depravati, adulteri e naturalmente, se donne, puttane. (1) Più o meno sullo stesso registro è Sallustio che scrive: «Catilina aveva intorno a sé, quasi una scorta, i campioni di tutte le scelleratezze e di tutti i delitti; e la cosa era facile. Gli svergognati adulteri, i gozzovigliatori, quelli che avevano dilapidato il patrimonio nel gioco o nelle raffinatezze della mensa, quelli che si erano indebitati fuor di misura per comprare l'impunità da malefatte o da delitti; e ancora i rei di assassinio, di sacrilegio, o già sotto accusa o che l'accusa temevano; e ancora i sicari e gli spergiuri, i faziosi che vivevano del sangue civile, tutti quelli che erano sotto l'assillo della colpa, della miseria o del rimorso erano gli amici intimi di Catilina». (2) La base più consistente del movimento catilinario era costituita dalla plebe rurale italica: piccoli proprietari schiacciati dal latifondo e ridotti spesso alla condizione bracciantile, cui si aggiungevano i veterani di Silla che erano stati anch'essi spossessati o che si erano caricati di debiti perché le terre loro assegnate erano troppo povere per consentire la sussistenza. In quanto alla plebe urbana non tutta stava con Catilina. La parte più oziosa e sfaccendata del popolino era indifferente o addirittura ostile perché temeva che la riforma agraria l'avrebbe costretta a lavorare. (3) Simpatizzavano invece quei plebei che in passato avevano avuto un'occupazione e uno status, sia pur modesti. Erano in genere, anche qui, ex contadini espropriati e braccianti estromessi dal lavoro servile che avevano dovuto inurbarsi e che sognavano un riscatto sociale. C'era poi quella parte della plebe, che noi oggi definiremmo piccola borghesia, formata da artigiani, bottegai, tabernarii costretti anch'essi a indebitarsi fortemente e a pagare salatissimi prezzi all'usura imperante per sostenere le proprie attività. Appoggiavano il movimento tutti quelli che erano stati rovinati dalle proscrizioni di Silla perché Catilina aveva promesso che avrebbero riacquistato se non i beni almeno i diritti civili e politici che erano stati loro tolti. Nella più ristretta cerchia dei congiurati figuravano anche alcuni aristocratici e qualche cavaliere. Sallustio fa il nome di undici senatori (quelli che abbiamo elencato alle pagine 121-122, primo vol' Braille). A questi vanno aggiunti Publio Sittio Nocerino che era ambasciatore presso il re di Mauritania e disponeva di milizie proprie e, almeno come simpatizzanti, i senatori Caio Metello e Tiberio Nerone, avo del futuro imperatore. Nell'ordine equestre Catilina pescava pochissimo perché la proposta di cancellazione, totale o parziale, dei debiti colpiva soprattutto questo ceto formato in gran parte da banchieri e finanzieri. In ogni caso Sallustio ci informa che almeno quattro cavalieri facevano parte del summit dei congiurati. Non tutti questi nobili e questi borghesi erano rovinati, lo stesso Cicerone, ed è tutto dire, ammette che fra i congiurati ve n'erano parecchi che non avevano preoccupazioni economiche e che egli giudica «rispettabili perché sono ricchi». (4) C'erano poi moltissimi giovani, sia proletari sia, soprattutto, rampolli della grande nobiltà. Sulla partecipazione in massa della gioventù romana al movimento catilinario insistono, scandalizzandosene, tanto Sallustio che Cicerone. (5) Scrive il

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primo: «Molti fra i giovani, specialmente nobili, vedevano di buon occhio l'iniziativa di Catilina». (6) E nemmeno questi erano spiantati o rovinati tanto che Sallustio aggiunge stupito: «Avevano tutte le possibilità di spassarsela in mezzo al lusso e agli agi, senza far nulla, eppure preferivano l'incerto al certo, la guerra alla pace». (7) Si sa che in ogni tempo i giovani hanno il sangue caldo e amano partecipare ai trambusti. La jeunesse dorée, poi, è specialista nel giocare alla rivoluzione salvo, quando le cose si mettono male, tornare a casina di papà. Ma quello non era il Sessantotto e non c'erano genitori trepidanti, compiacenti, e in fondo orgogliosi dei loro pargoletti tanto rivoluzionari, pronti a tutto giustificare e ad accogliere i figliol prodighi a braccia aperte. Quella era la Roma antica. Aulo Fulvio, un giovane aristocratico che cercava di raggiungere il campo di Catilina, fu fatto intercettare ed arrestare dal padre e, per suo ordine, giustiziato sul posto. (8) A chi gli chiedeva spiegazioni il vecchio senatore Fulvio disse: «Io non l'ho generato perché combattesse per Catilina contro la Patria, ma per la Patria contro Catilina». Alla congiura aderirono molte donne. E questa è una novità assoluta perché a Roma le donne erano rigorosamente escluse dalla vita politica. Non era mai avvenuto prima di allora, e non accadrà più per molti secoli a venire, che un numero significativo di donne partecipasse a un movimento insurrezionale. Quelle che aderirono alla congiura erano matrone della migliore società, le più colte ed intellettuali. Al di là delle motivazioni politiche, che c'erano perché Catilina propugnava l'uguaglianza nei diritti di tutti i cittadini, senza distinzioni, è molto probabile che le donne abbiano subìto lo straordinario fascino virile del «beau Serge». Nel movimento affluirono infine numerosi schiavi, anche se Catilina, per le ragioni che vedremo, li respinse. Che in mezzo a tutti costoro, agricoltori, veterani di Silla, contadini inurbati, figli dei proscritti, artigiani, tabernarii, plebe senza nome, aristocratici, cavalieri, giovani nobili e plebei, donne e schiavi, si trovassero dei delinquenti, degli avventurieri, degli ambiziosi, dei falliti, è possibilissimo, anzi è certo perché i movimenti di questo tipo portano a galla ogni sorta di persone, ma pensare che l'intera compagine catilinaria fosse composta da criminali e da debosciati è assurdo oltre che ridicolo. A ogni buon conto se era la feccia di Roma, come sostengono Cicerone e Sallustio, era ben strana. Tranne il caso particolare del senatore Quinto Curio non ce ne fu uno solo che abbandonò il campo di Catilina, uno solo che tradì nonostante il Senato per ben due volte avesse promesso premi e un'amnistia per chi avesse dato notizie sulla congiura e per chi avesse lasciato cadere in tempo utile le armi. I premi erano l'affrancamento e 100 mila sesterzi se si trattava di uno schiavo, 200 mila sesterzi se di un libero. L'amnistia garantiva a tutti l'impunità anche per i delitti commessi al di fuori della congiura purché non comportassero la pena capitale. Benché fossero ricompense notevolissime, anche dal punto di vista economico, le autorità non riuscirono a scovare fra quei poveracci, fra quei pezzenti, fra quei falliti, fra quei criminali, fra quei depravati, fra quei damerini azzimati ed esausti, per usare sempre le parole di Cicerone, un solo delatore, un solo «pentito». (9) Come in tutte le compagnie di quel genere c'era però un fanfarone, sconclusionato e imbecille. Era Quinto Curio, un ex senatore, espulso dall'ordine nel 70 per «indegnità», che si era rovinato col gioco d'azzardo. Aveva per amante una certa Fulvia che da parecchio tempo lo trattava con freddezza perché lui la teneva a stecchetto. Di punto

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in bianco Curio cominciò a concepire progetti grandiosi e a Fulvia non fu difficile venire a sapere le ragioni di tanta ingiustificata baldanza. Era un'informatrice della polizia e, dopo aver scucito a Curio, nel corso di varie nottate, tutto quel che poteva, la sera del 23 settembre del 63 (10) si presentò a casa di Cicerone e riferì al console quel che sapeva. Che era parecchio. Catilina, da quando aveva deciso di passare all'azione, si era mosso febbrilmente. Come prima cosa, per procurarsi il denaro necessario, aveva impegnato i suoi beni e quelli degli amici più intimi. Aveva quindi tenuto una serie di riunioni ristrette con i suoi seguaci per esporre il suo progetto. Col denaro raggranellato, grazie anche alla generosità delle matrone, aveva comprato innanzitutto le armi, parte le aveva distribuite ai congiurati e parte nascoste in depositi segreti qua e là per l'Italia ma soprattutto in Etruria dove il movimento catilinario era particolarmente forte. In Etruria aveva mandato il suo luogotenente Caio Manlio, un centurione a fianco del quale aveva combattuto in Asia all'epoca di Silla. Inviò Settimio nel Piceno, Caio Giulio in Apulia, Caio Marcello a Capua dove già contava sull'appoggio del tribuno militare Caio Mevulano, (11) e altri emissari in Umbria e nelle Gallie, perché organizzassero i simpatizzanti che il movimento contava in quelle regioni. Inoltre Catilina aveva già alcune teste di ponte nelle vicinanze di Roma: Cepario nel basso Lazio, Caio Flaminio ad Arezzo. In Mauritania era stato allertato Sittio. Quando la notte del 23 settembre Fulvia esce dalla casa di Cicerone il console ha già in mano tutti gli elementi necessari per agire e stroncare la congiura. Anche perché altre informazioni gli vengono da Cesare. Ci vorrebbe però un'azione di forza, come in circostanze analoghe hanno fatto altri consoli. Ma Cicerone non cerca la soluzione militare, non è roba per lui, vuole quella legale e giudiziaria. E su questo piano è ancora debole. Cesare non ha alcuna intenzione di esporsi e Fulvia non è del tutto presentabile. Il console convocò una seduta del Senato dove si limitò a dare notizie vaghe su un generico pericolo di sedizione, troppo poco perché i patres potessero prendere qualche provvedimento. Cicerone si tormentò per un mese, invano pungolato dalla moglie Terenzia, una bigotta reazionaria che odiava, come il marito, gli «straccioni» e ce l'aveva a morte con Catilina perché le aveva disonorato la sorella. Terenzia incitava Cicerone a denunciare il complotto in Senato, con nomi e cognomi, e a farla finita. Ma il console non se la sentiva di prendere l'iniziativa. Intanto Catilina, per non destare sospetti, continuava a mostrarsi in pubblico, nel Foro e in Senato, sereno e tranquillo. A tirar fuori Cicerone dalle secche dei suoi dubbi ci pensò Crasso, spazientito e intimorito perché le titubanze del console stavano consentendo alla congiura di prendere corpo. La notte del 20 ottobre Crasso, accompagnato dai senatori Marco Marcello e Scipione Metello, si presentò a casa di Cicerone con un pacco di lettere che, disse, erano state consegnate quella sera stessa, dopo cena, alla sua servitù da uno sconosciuto. Le lettere erano indirizzate a vari membri del Senato e Crasso aveva aperto solo la sua. Era anonima: avvertiva che era imminente, forse l'indomani stesso, un massacro degli ottimati ed esortava Crasso a lasciare subito Roma. (12) Crasso invitò il console ad aprire anche le altre missive e a convocare immediatamente il Senato. Cicerone si disse d'accordo, le lettere le avrebbe però dissigillate solo in Senato perché nessuno potesse sospettare che fossero state manipolate. Chi aveva scritto quelle misteriose lettere? Crasso. Chi gli aveva fornito le informazioni necessarie? Cesare. Il 22 ottobre ci fu la seduta. Con un coup de théâtre Cicerone

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consegnò le lettere ai destinatari e chiese loro di leggerle davanti all'assemblea: erano tutte dello stesso tenore di quella ricevuta da Crasso. L'impressione fu enorme. Cicerone aggiunse di essere in possesso di informazioni che confermavano quanto era scritto nelle missive. Benché si trattasse di denunce anonime il Senato decretò il Senatus consultum ultimum che concedeva ai consoli i pieni poteri. Cicerone adottò alcune misure di polizia, la più importante delle quali fu di attribuirsi una scorta così numerosa che, riferisce Plutarco, «quando entrava lui nel Foro lo riempiva quasi tutto col proprio seguito». (13) Un paio di giorni dopo il senatore di origine etrusca Lucio Senio (14) lesse nella Curia una lettera, che disse di aver ricevuto da Fiesole, nella quale lo si informava che il 27 ottobre il centurione Caio Manlio avrebbe dato il via all'insurrezione armata. Il Senato decretò immediatamente che Quinto Marcio Re fosse mandato a Fiesole e Quinto Metello Cretico (15) in Apulia. Erano due generali in attesa del trionfo, con le loro truppe, alle porte di Roma e quindi disponevano di forze pronte all'impiego. I pretori Quinto Metello Celere e Quinto Pompeo Rufo furono inviati l'uno nel Piceno, per gli arruolamenti, l'altro a Capua dove c'erano le scuole dei gladiatori di cui si temeva la rivolta. Per buona misura molte scuole della città campana, antica e sempre temuta rivale di Roma, furono chiuse e i gladiatori sparpagliati in altre località. A chi desse informazioni sulla congiura e deponesse le armi furono promessi ingenti premi in denaro, l'impunità e, se schiavi, la libertà. (16) La congiura era denunziata, i suoi piani scoperti e paralizzati. Catilina continuava a farsi vedere in città ostentando tranquillità. Ma adesso girava armato. Gli avvenimenti precipitano. Lucio Paolo, su mandato del Senato, denuncia Catilina per il reato di violenza pubblica (de vi) previsto dalla lex Plautia. Il capo dei congiurati può essere arrestato da un momento all'altro. Catilina gioca d'anticipo: si propone lui stesso prigioniero, fino a quando non saranno chiarite le cose, nella casa del senatore Marco Lepido. Era infatti consuetudine presso i romani che per gli imputati di alto rango la custodia cautelare consistesse nell'affidamento dell'indagato a un cittadino autorevole che ne rispondeva. Con questa mossa plateale Catilina giocava la carta dell'innocente che non ha nulla da temere. Ma Lepido rifiuta di accoglierlo. Allora Catilina, con un gesto di aperta e beffarda provocazione, si presenta all'abitazione di Cicerone: sia lo stesso console a tenerlo prigioniero. Cicerone, terrorizzato, si barrica in casa. (17) Alla fine viene ospitato da M. Marcello, un suo amico e forse addirittura uno dei congiurati. In ogni caso la sorveglianza di costui doveva essere piuttosto lasca perché anche dalla casa del suo custode Catilina continua a guidare la congiura. La situazione dei catilinari è disperata. La città è presidiata e i punti strategici controllati. Sperare in una sollevazione spontanea della plebe è inutile. La plebe può dare il suo appoggio a un putsch, non provocarlo. Inoltre gli aristocratici hanno fatto due mosse semplici ed efficaci. Per tenere buono il popolino hanno organizzato distribuzioni straordinarie e gratuite di grano. Per gettare odiosità sui congiurati hanno fatto correre insistentemente la voce che nei loro piani c'è di incendiare la città. E' un'accusa che gli ottimati hanno già utilizzato in passato (e useranno anche in futuro: esattamente un secolo dopo questi avvenimenti costerà la reputazione a Nerone), con successo perché la plebe di Roma, che vive in catapecchie di legno, ha il terrore degli incendi. La voce ha un violento impatto soprattutto sui negozianti e i tabernarii, i più

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esposti, che sostengono i congiurati. Catilina decide di tentare comunque la sorte ma, poiché la città è sorvegliatissima, sceglie un obiettivo fuori Roma: l'importante fortezza di Preneste, a 24 miglia dall'Urbe, in quel momento debolmente presidiata perché tutti gli occhi e gli sforzi sono concentrati sulla capitale e in Etruria. Preneste può costituire una decisiva testa di ponte per l'esercito di Manlio. L'attacco è previsto per il primo novembre. Ma quando gli uomini di Catilina, all'alba, arrivano alla fortezza la trovano munitissima. Ormai Cicerone è informato dei movimenti dei catilinari momento per momento, in tempo reale diremmo oggi. Infatti Curio non si limita più a farsi sfuggire, per vanagloria, qualche brandello di verità nelle sue notti con l'amante: ricattato, nelle mani dell'autorità, riferisce puntualmente a Fulvia e questa a Cicerone. Ciò farà dire all'oratore nella prima Catilinaria quell'omnia comperi («io so tutto») (18) che, detto con troppa sicumera, gli varrà le ironie dei contemporanei a cominciare da Sallustio che non amava Cicerone e nella sua opera sminuisce un po' troppo la parte che ebbe nel debellare la congiura. L'attacco a Preneste fallisce. Per Catilina era difficile sospettare di Curio: era uno dei suoi amici più intimi (19) e, con la consueta prodigalità, lo aveva anche aiutato più volte a ripianare i debiti di gioco. Però a questo punto dovrebbe capire che qualcosa non quadra, che fra i suoi c'è una spia. Invece ormai completamente preso dal suo sogno generoso, spinto da un impulso che non può più dominare, va avanti, fino in fondo. Nella notte fra il 6 e il 7 novembre riunisce i congiurati nella casa del senatore Marco Porcio Leca in via delle Falci, un quartiere fuori mano di Roma. E' un vertice ristretto cui partecipano, oltre al padrone di casa e a Catilina, che si è facilmente svincolato dal suo custode, Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio, Cepario, Vergunteio, Cornelio e pochissimi altri fra cui Quinto Curio. Fu davvero una notte «tenebrosa e terribile» come ebbe a definirla Cicerone. I congiurati decidono di assassinare il console. Due di loro l'indomani di buon mattino, all'ora in cui Cicerone riceve, si mescoleranno alla folla dei clientes e una volta avutolo a tiro estrarranno i pugnali da sotto le toghe e lo trucideranno. Ci vogliono dei kamikaze perché, anche ammesso che il colpo riesca, saranno a loro volta uccisi dalle guardie del corpo del console o, nella migliore delle ipotesi, arrestati. Si offrono il senatore Lucio Vergunteio e il cavaliere Caio Cornelio. L'assassinio del console sarà il segnale della rivolta. I catilinari, guidati da Lentulo e da Cetego, occuperanno i punti nevralgici della città che è stata divisa in dodici settori ognuno dei quali è affidato a un gruppo di ribelli. Contemporaneamente Catilina partirà da Roma e raggiungerà l'esercito in Etruria per marciare sull'Urbe. Bisogna infatti affrettare i tempi dell'azione militare per non trovarsi di fronte oltre agli eserciti di Marcio Re e di Metello Cretico quelli che i pretori Rufo e Metello Celere stanno arruolando. L'indomani Vergunteio e Cornelio si recano da Cicerone stringendo i pugnali sotto la toga. Ma la casa del console è sbarrata. Dall'interno giungono grida ostili. Ancora una volta Curio e Fulvia hanno fatto il loro mestiere. I due sicari devono rinunciare e lasciare immediatamente la città. Cicerone convocò il Senato il giorno dopo, 8 novembre, al tempio di Giove Statore sull'inizio della via Sacra ai piedi del Palatino. Il posto è ben scelto perché, appoggiato al monte, può essere difeso facilmente. Il console lo ha fatto circondare da uno stuolo di guardie armate. Con un folle gesto di sfida Catilina si presentò in Senato. Al suo

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ingresso tutti i senatori si scansarono e nessuno andò a sedersi accanto a lui, nemmeno i suoi pochi amici perché temevano in questo modo di denunciarsi. Catilina restò solo, seduto su uno degli scranni. Intorno a lui si era fatto il vuoto. Possiamo immaginarlo così come l'ha dipinto Cesare Maccari nel suo celebre quadro Orazione di Cicerone contro Catilina: (20) sdegnoso e altero, il corpo nervoso sotto la lunga toga che gli scende fino ai piedi, mentre ascolta in silenzio il «j'accuse» del console. Cicerone pubblicò le Catilinarie tre anni dopo averle pronunciate. (21) E' certo che le ritoccò, le modificò, le abbellì secondo quanto gli conveniva. (22) Alla Prima Catilinaria diede un tono molto più veemente di quello che ebbe nella realtà, lì in Senato, alla presenza inquietante di Lucio Sergio Catilina. Perché quel giorno Cicerone aveva, come sempre, paura. Ne aveva più di quanto ne avesse mai avuta in vita sua. (23) Non per niente la parola che più ricorre nella sua orazione, per quanto purgata e infiocchettata a sua maggior gloria presente e futura, è metus, paura. Tutta l'arringa è un'esortazione, un'invocazione, quasi un'implorazione a Catilina perché lasci la città e metta le mura fra sé e gli avversari. (24) Come mai se questa era già l'intenzione di Catilina e il console lo sapeva benissimo? (25) Perché Cicerone non arrestò Catilina sul posto? Ne aveva tutti gli strumenti. Il 20 ottobre il Senato gli aveva dato i pieni poteri e lo stesso Cicerone, in un passaggio della sua arringa, riconosce che avrebbe dovuto prendere il provvedimento «già da venti giorni». (26) E se prima ci poteva essere qualche perplessità sulla consistenza del complotto e sulle reali intenzioni dei congiurati adesso, dopo il fallito attentato al console, ogni dubbio è fugato. E che fosse Catilina il mandante era fuori discussione. In quanto alla possibilità pratica di procedere all'arresto, be' Catilina era lì, in un tempio circondato e presidiato da centinaia di soldati, e al console sarebbe bastato fare un cenno. Ma non lo fece. Le ragioni di questo singolare comportamento noi non le conosciamo. Possiamo solo fare delle supposizioni, ben appoggiate però a quanto lo stesso Cicerone dice nelle Catilinarie e a ciò che lasciò trasparire negli scritti successivi. Forse Cicerone temeva che un plateale arresto di Catilina in aula avrebbe provocato una sollevazione della plebe. Ma se questo era il timore era infondato e comunque eccessivo: la città era da giorni sotto controllo, le ronde la percorrevano in lungo e in largo, almeno un esercito stazionava alle porte di Roma pronto a intervenire. E poi lo stesso Cicerone sapeva, come dirà nella Terza Catilinaria, che i congiurati non valevano nulla senza il loro capo. (27) E' molto più probabile che il console abbia voluto far apparire che il ribelle lasciava la città per le sue esortazioni, mascherando così come un gesto di obbedienza alla sua autorità una decisione che Catilina aveva già preso. Questo gli consentiva di salvare la faccia e di passare al collega Antonio Ibrida la liquidazione della pratica Catilina. Il Senato infatti, per quell'emergenza, aveva affidato a Cicerone il comando in Roma e a Ibrida quello extramoenia. (28) Se Catilina avesse raggiunto il suo esercito a Fiesole sarebbe stato Ibrida a doversela vedere con lui in una battaglia sul cui esito, data la sproporzione delle forze in campo, non era lecito avere dubbi. Liquidare poi i catilinari rimasti in città sarebbe stato un gioco da ragazzi. Arrestare Catilina in aula poneva invece qualche problema. Che farne dopo averlo arrestato? Mandarlo a morte, certo. Ma con processo o senza? Questo era il problema. Il Senato non poteva costituirsi in Alta Corte di Giustizia e in ogni caso un cittadino romano condannato

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alla pena capitale per un delitto politico aveva sempre il diritto di appellarsi al popolo e di essere giudicato, in seconda istanza, dai comizi centuriati. Questo Cicerone, avvocato, lo sapeva bene e non era del tutto sicuro che i poteri conferitigli dal Senato consentissero di bypassare anche queste garanzie fondamentali. Ma d'altro canto rinviare Catilina ai comizi centuriati era troppo rischioso. La soluzione migliore era quindi arrestare Catilina e mandarlo a morte immediatamente. Ci sarebbero poi stati il tempo, il modo e le ragioni per far passare l'eccezionale procedura come legittima perché eccezionale era il momento. Ma a Cicerone ripugnava proprio il fatto stesso dell'arresto in aula. Si fosse trattato di qualcun altro non ci sarebbe stato problema. Ma con un tipo come Catilina non si poteva essere sicuri di nulla. Avrebbe anche potuto reagire, tentare di lanciarsi sul console''' Era un uomo capace di tutto o almeno così lo percepiva Cicerone che aveva orrore anzi terrore dello scontro fisico. Guardò l'atletica, integra figura del suo avversario, il suo aspetto fosco, lo sguardo da «criminale», come diceva lui, (29) che si incupiva sempre più. Meglio non rischiare. Può essere infine che abbia giocato il notorio inferiority complex che Cicerone nutriva nei confronti dell'aristocrazia in generale e di Catilina in particolare. Non osò metter le mani personalmente su quel grande patrizio, superbo, altero, fiero, sprezzante. L'idolo era lì, nelle sue mani, ormai sconfitto. Ma gli mancò il fiato per infrangerlo. Fatto sta che per qualcuna di queste ragioni, o forse per tutte insieme, Cicerone non arrestò Catilina e per due ore e passa menò il can per l'aia in un'orazione ridondante, retorica, inconcludente che doveva diventare l'incubo di un centinaio di generazioni di studenti e che per una buona parte fu pronunciata (o forse nemmeno pronunciata ma scritta dopo) quando Catilina, stufo, se n'era già andato. (30) Catilina infatti ascoltò per un po' in silenzio, lo sguardo sempre più fosco. Probabilmente aveva una gran voglia di strangolare il console con le sue stesse mani. Se fosse riuscito ad acciuffarlo non ci sarebbe voluto molto. Interruppe l'oratore e chiese la parola. Disse le sole cose che potevano essere comprese da quei razzisti sociali. E precisamente che «non credessero con troppa facilità a ogni voce sul suo conto; la famiglia da cui era nato, il genere di vita tenuto fin dall'adolescenza erano tali da autorizzare le migliori speranze; non dovevano pensare che un patrizio pari suo, tanto benemerito del popolo romano per la propria opera personale e per quella dei suoi maggiori, avesse bisogno di ricorrere alla rovina della Repubblica quando specialmente vigilava sulla sua salvezza Marco Tullio, inquilino dell'Urbe». (31) Era uno schiaffo in piena faccia a Cicerone perché richiamava la sua origine provinciale e borghesuccia. Ma poiché, riferisce Sallustio, «a questa aggiunse altre insolenze» (32) scoppiò una protesta generale. Gli gridarono «nemico della Patria» e «parricida». La Curia era una bolgia. Tutti i senatori avevano le braccia levate contro di lui. Allora Catilina si alzò furente e volgendosi verso la canea urlante ripeté la frase che aveva detto pochi giorni prima a Catone: «Dal momento che, stretto tutto intorno da nemici, mi si vuole ridurre alla disperazione, estinguerò sotto un cumulo di rovine l'incendio acceso contro di me». (33) Uscì dal Senato imprecando senza che nessuno osasse fermarlo.

Note (1) Cicerone, Catilinarie, Ii, 7. (2) Sallustio, op' cit', Xiv. (3) Cicerone, De lege agraria, I, 27, 71; L' Perelli, op' cit', p' 185.

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(4) Cicerone, Catilinarie, Ii, 18. (5) Cicerone, Pro Caelio, 10. (6) Sallustio, op' cit', Xvii. (7) Ibidem. (8) Sallustio, op' cit', Xxxiv. (9) «Non uno disertò dal campo di Catilina», Sallustio, op' cit', Xxxvi. (10) Svetonio, op' cit', Augusto, Xciv. (11) Cicerone, Pro Sestio, 9. (12) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 15. (13) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 16. (14) Così Sallustio, op' cit', Xxx; per Plutarco si tratterebbe invece del pretore Quinto Arrio, op' cit', Vita di Cicerone, 15. (15) Così chiamato perché nel 68, all'epoca della lotta contro i pirati, aveva sconfitto i cretesi. (16) Sallustio, op' cit', Xxx. (17) Cicerone, Catilinarie, I, 19. (18) Cicerone, Catilinarie, I, 4. (19) Il fratello di Cicerone, Quinto, indica sei amici strettissimi di Catilina: i senatori Curio e Annio, i cavalieri Vettio e Pompilio; Sapala e Carvilio che erano gli intimi di casa e, forse, gli amici più veri. Q' Cicerone, op' cit', 3, 10. (20) Attualmente esposto a Palazzo Madama. (21) Risulta da una lettera ad Attico. Cicerone, Ad Atticum, Ii, I, 30. (22) Vedi, per tutti, L' Pareti, op' cit', p' 347. In vari punti delle Catilinarie Cicerone fa mostra di una singolare chiaroveggenza riferendosi a fatti che non poteva conoscere perché avvenuti dopo. (23) Sallustio, op' cit', Xxxi. (24) Cicerone, Catilinarie, I, 4. (25) Cicerone, Catilinarie, I, 9. (26) Cicerone, Catilinarie, I, 4. (27) Cicerone, Catilinarie, Iii, 16. (28) Cicerone, Pro Murena, 84 e Filippiche, Xii, 10, 24-25. (29) Cicerone, Pro Murena, 49. (30) Diodoro, Biblioteca, 40, 5 a. Gli studiosi ritengono che l'orazione originaria si fermasse a quel passo che nella versione pubblicata corrisponde al paragrafo 23 (in totale sono 32). Ma anche la prima parte dell'orazione era molto più asciutta e non conteneva, fra l'altro, le denunce circostanziate dei presunti delitti di Catilina né, evidentemente, le profezie di Cicerone. L' Pareti, op' cit', pp' 426 e 428 nota 6. (31) Sallustio, op' cit', Xxxi. (32) Ibidem. (33) Ibidem.

VII.Intermezzo crudele

Uscito come una furia dal Senato Catilina si precipitò a casa. E si mise a riflettere. A questo punto lasciare Roma significava dichiarare pubblicamente la propria colpevolezza e fare un favore a Cicerone. Inoltre raggiungere l'esercito di Manlio e scendere in campo aperto era suicida. Infatti, fallito il tentativo di assassinare il console, era caduta anche la possibilità dell'insurrezione a sorpresa in città. L'esercito di Catilina si sarebbe trovato a fronteggiare forze preponderanti senza poter contare su un secondo fronte aperto a Roma. (1) Anche rimanere in città era pericoloso. Ma si poteva giocare sulle

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esitazioni del console. Era chiaro che Cicerone voleva mandarlo fuori dalla città perché questo gli semplificava le cose. Se rimaneva a Roma il console era costretto a battere la via giudiziaria sulla quale evidentemente non si sentiva sicuro. In fondo, pensò Catilina, su di lui non c'erano prove certe, documentate, in questo era stato abbastanza accorto. C'erano solo sospetti, forse spie che però Cicerone, per qualche motivo, esitava a portare allo scoperto. Se il console non lo aveva arrestato in Senato, quando ne aveva tutte le possibilità, si poteva pensare che non avrebbe osato farlo in una situazione più difficile, mandandogli a casa i centurioni in una città che pullulava di suoi seguaci. Sì, rimanere a Roma, riorganizzando con cautela e col tempo le fila della congiura, era decisamente la cosa migliore per lui. Ma in questo modo si sarebbero abbandonati Manlio e i suoi, che avevano già proclamato la rivolta, al massacro. Convocò i principali congiurati: Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio, Servio Silla, i fratelli Leca. Curio questa volta non c'era. Aveva ritenuto più prudente girare al largo. Tanto ormai il più era fatto. Catilina comunicò che aveva cambiato programma. Sarebbe partito per raggiungere Manlio, come previsto, ma invece di restare in Etruria avrebbe puntato sulle Gallie dove c'era una forte base del movimento e dove non sarebbe stato difficile arruolare truppe fresche e valide in mezzo a quelle popolazioni sottomesse da poco e fra le quali serpeggiava un diffuso malcontento per la dominazione romana. La via verso nord era ancora libera: gli eserciti romani erano concentrati a difesa dell'Urbe o impegnati a controllare i focolai di rivolta che si erano accesi al sud. Nel frattempo i congiurati avrebbero avuto il modo di riorganizzarsi a Roma. Quando Catilina avesse raccolto un grosso esercito in Gallia, sufficiente per affrontare le forze governative, avrebbe marciato su Roma dove i congiurati sarebbero insorti, così da mettere la città fra due fuochi. Lentulo obiettò che se Catilina si fosse allontanato troppo, loro a Roma sarebbero rimasti senza copertura così come le forze catilinarie basate nel sud Italia. Fra Catilina e gli altri si sarebbe creato un pericoloso scollamento. Catilina riconobbe che l'obiezione era fondata. Si decise quindi di tornare al piano originario: Catilina sarebbe andato in Etruria e sarebbe restato in zona in attesa che i compagni rimasti a Roma gli dessero il segnale che erano pronti a insorgere. Era implicito che Lentulo e i suoi dovessero muoversi molto rapidamente perché per il piccolo esercito di Catilina e Manlio sarebbe stato sempre più difficile tener testa ai governativi, via via rinforzati dagli arruolamenti che erano stati decisi col Senatus consultum ultimum. Proprio perché a Roma potessero operare al meglio e alla svelta Catilina decise di lasciare nella città tutte le forze disponibili e di partire per l'Etruria da solo. In questo modo, tra l'altro, avrebbe potuto far credere, almeno per qualche tempo, che se ne andava in esilio volontario, che era la via d'uscita lasciatagli da Cicerone. (2) Affidato quindi il comando a Lentulo abbandonò Roma quella notte stessa accompagnato da tre giovani. (3) Il più valido dei catilinari che rimanevano a Roma era Cetego. Antisillano e antiaristocratico da sempre Cetego era stato un «numero uno» a Roma negli anni successivi alla morte di Silla. Ma nel 74 aveva perso l'occasione della sua vita rinunciando, per amore di una donna, Precia, al governo della Cilicia in favore di Lucullo che ne aveva fatto il trampolino di lancio della sua carriera. (4) Probabilmente Cetego era anche il più affine a Catilina, legato come lui al mito della Roma delle origini. Ancora giovane era un uomo d'azione, deciso, coraggioso anche se, forse, un po' troppo

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impetuoso. Ma Catilina gli aveva preferito Lentulo facendo prevalere il rango e la gerarchia perché Lentulo era stato console ed era pretore in carica. Fu una scelta sbagliata. Publio Cornelio Lentulo detto Sura apparteneva alla più ragguardevole famiglia romana, quella gens Cornelia che, soprattutto nei primi secoli della Repubblica, aveva dato decine di consoli e centinaia di altri magistrati surclassando anche i Valeri, i Claudi, i Fabi, gli Emili. (5) Lentulo aveva però avuto molte traversie nella sua vita. Dopo essere stato console e presidente di tribunale, nel 70 era stato espulso dal Senato per «indegnità». Per rientrare nella Curia aveva dovuto ricominciare la carriera da capo ed era arrivato al rango di pretore. Per ritentare il consolato avrebbe dovuto aspettare almeno tre anni (6) e con scarsissime probabilità di farcela perché l'oligarchia romana, molto «prude», moralista e attenta alle forme, non perdonava. Fra tanti idealisti, sognatori e disperati Lentulo era certamente uno di quelli entrati nella congiura solo per ambizioni personali. Anche perché si era messo in testa di essere chiamato a grandi destini. I Libri Sibillini (7) avevano predetto che tre C avrebbero regnato a Roma e gli àuguri gli avevano fatto credere che le tre C si riferissero a tre Corneli. Poiché c'erano già stati Cornelio Silla e Cornelio Cinna, Lentulo si era convinto che il terzo Cornelio non poteva essere che lui. Tanto più che gli àuguri avevano aggiunto che nel 62 sarebbe scoppiata a Roma una guerra civile. Lentulo meditava di soppiantare Catilina a capo della congiura (8) e invece di seguire i suoi ordini fece di testa propria. Innanzi tutto costituì una specie di triumvirato con Autronio e Cassio, un grassone astuto ma imbelle, (9) per emarginare Cetego. Poi, contravvenendo a un esplicito divieto di Catilina, si mise a reclutare schiavi, cosa che non poteva essere vista di buon occhio dalla plebe, base del movimento catilinario, perché il solo, povero, orgoglio dei plebei era di essere cittadini romani liberi e, come sempre accade fra i miseri, non volevano essere mischiati e confusi con chi stava peggio di loro. Per la mentalità della Roma di allora reclutare gli schiavi significava far perdere al movimento catilinario ogni dimensione e dignità politica riducendolo a pura rivolta banditesca e dando così fiato alla propaganda degli avversari. La mossa di Lentulo indebolì quindi i catilinari sia presso la plebe sia in quegli ambienti dell'aristocrazia che simpatizzavano, sia pure al coperto, per l'iniziativa. Inoltre la plebe era già turbata dalle voci che il governo aveva messo in giro, e che continuava ossessivamente ad alimentare, secondo le quali era intenzione dei congiurati incendiare la città e massacrare l'intera cittadinanza. Voci inverosimili, assurde, se non altro perché cose del genere andavano contro gli interessi degli stessi congiurati, ma che Lentulo non fece nulla per smentire e anzi, in un certo senso, col suo comportamento, incoraggiò. Lentulo concepì un piano megalomane, impari alle forze di cui disponeva e che in ogni caso richiedeva una lunga preparazione. Aveva fissato l'insurrezione per la vigilia dei Saturnali, il 16 dicembre. (10) Il giorno prima il tribuno della plebe Lucio Bestia, affiliato alla congiura, avrebbe dovuto convocare il popolo e aizzarlo contro Cicerone accusandolo di aver espulso dalla città Catilina e di essere quindi il responsabile della guerra civile. La notte seguente i congiurati avrebbero occupato i punti strategici della città, dato inizio alla sommossa, ucciso il console e i senatori più conservatori, sequestrato i figli di Pompeo per premunirsi contro il ritorno del generale. Ma per fare tutto questo occorrevano molti più uomini di quanti ne avessero i congiurati anche perché il fallito

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tentativo di assassinare Cicerone aveva sfoltito i loro ranghi, almeno a Roma. Quelli che avevano deciso di buttarsi nella mischia andavano direttamente a Fiesole attratti dal fascino di Catilina. Inutilmente Lentulo cercava di reclutare nuovi adepti. Fra tanti preparativi, riunioni, abboccamenti, piani particolareggiati e inattuabili si stava perdendo del tempo prezioso. La situazione era indubbiamente difficile ma l'indeciso e «sonnacchioso» Lentulo, come lo definì Cicerone, (11) faceva del suo meglio per peggiorarla. Invano Cetego esortava i compagni a far presto, invece di perdersi in chiacchiere, perché più passava il tempo più la posizione di Catilina, incalzato dagli eserciti governativi, diventava insostenibile. Cetego riteneva che non si potesse aspettare il 16 dicembre, cioè ancora un mese, e che sarebbe bastato un manipolo di uomini decisi per dare l'assalto alla Curia e vincere la partita. (12) A queste incertezze contribuì anche un grave equivoco che pare si sia creato fra i catilinari di Roma e quelli d'Etruria: Catilina aspettava l'insurrezione per marciare sulla città, Lentulo e gli altri aspettavano che Catilina si avvicinasse a Roma per insorgere. E' probabile che tale misunderstanding dipendesse dal fatto che le comunicazioni fra i due gruppi si erano ormai fatte difficili. Già da qualche tempo i ribelli che cercavano di raggiungere il campo di Catilina venivano sistematicamente catturati. (13) All'inerzia dei congiurati corrispondeva però quella di Cicerone. Il console, che grazie alle sue spie conosceva i nomi di tutti i principali congiurati e i loro piani, avrebbe potuto benissimo sgominarli. Ma ancora una volta esitava davanti all'azione militare. Non se la sentiva nemmeno di arrestarli: i capi erano tutti, o quasi, patrizi di alto lignaggio, imparentati con le maggiori famiglie romane, gli indizi, per quanto abbondantemente disseminati da tutte le parti, non raggiungevano la certezza della prova provata, cosa del resto ovvia in ogni cospirazione che si svela compiutamente solo quando passa all'azione diretta e allora è spesso troppo tardi per intervenire come dirà in un suo discorso al Senato un indispettito Catone. In ogni modo Cicerone temeva che qualcuno, passato il pericolo, gli avrebbe fatto pagare la sua audacia di homo novus che si era permesso di mettere le mani su dei nobili. E non aveva tutti i torti, come vedremo. Insomma Cicerone, al solito, non voleva grane o voleva comunque ridurle al minimo e aspettava che fosse Ibrida a togliergli le castagne dal fuoco sconfiggendo Catilina sul campo di battaglia. Una volta eliminato il capo la congiura si sarebbe liquefatta come neve al sole. Di questo Cicerone era sicuro. A cose fatte dirà: «Mi rendevo ben conto che allontanando Catilina non avrei avuto molto da temere dall'indolenza di Lentulo, dalla obesità di Cassio e nemmeno dall'insensata temerarietà di Cetego. Tra tutti costoro uno solo faceva paura, Catilina, ma soltanto finché rimaneva entro le mura dell'Urbe. Conosceva tutti, si insinuava dappertutto, poteva rivolgersi a chiunque, tentarlo, sobillarlo, e osava farlo; era portato al malaffare e a tale attitudine non gli mancavano né il braccio né la parola. Disponeva di persone adatte, scelte, addestrate per determinate azioni. Affidato un incarico però non lo riteneva già fatto: non c'era cosa di cui non si occupasse personalmente, non c'era luogo dove non fosse presente, vigile, instancabile, pronto a sopportare freddo, fame, sete. Un uomo di tal fatta, sveglio, ardito, audace, pronto a tutto, cauto nel commettere il delitto, preciso nel pianificarlo, se non lo avessi escluso dalle insidie tramate in città per costringerlo al banditismo armato non mi sarebbe stato facile stornare da Roma un pericolo così grande». (14)

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Avendo rinunciato, per il momento, all'azione di forza Cicerone passò le settimane successive alla partenza di Catilina da Roma a fare ciò che sapeva meglio: parlare. Il 9 novembre, il giorno dopo il discorso pronunciato in Senato, aveva tenuto un'orazione nel Foro davanti al popolo (Seconda Catilinaria). A differenza della prima era stata un'arringa tonitruante, violenta, coraggiosissima, tanto Catilina non c'era. Aveva definito i congiurati con i termini più spregevoli: assassini, lestofanti, briganti, ladroni. Un manipolo di vecchi finiti e di giovani debosciati, depravati, lustri d'olio, slombati dalle orge, che gli eserciti romani avrebbero spazzato via in un battibaleno. (15) A ogni buon conto dava ai catilinari rimasti a Roma lo stesso consiglio che aveva dato al loro capo: andarsene, raggiungere Fiesole. Il resto del tempo Cicerone lo impiegò in operazioni di disinformatia in cui era maestro. Seminò quindi notizie, voci, boatos, palabras che confermavano ciò che lui aveva già denunciato nelle orazioni in Senato e al Foro: i congiurati volevano incendiare Roma e uccidere tutta la popolazione. Cicerone naturalmente sapeva, come confessò ridendone ad Attico, (16) che erano accuse false, calunnie, come sapeva che queste esagerazioni per quanto incredibili avevano sempre il loro effetto. Lo preoccupò di più il processo a Murena, il console designato accusato di brogli, che si svolse verso la fine di novembre. A volerlo era stato soprattutto quell'insopportabile pignolo di Catone, ossessionato dalla legalità e privo di qualsiasi senso politico. Una grana in più che proprio non ci voleva in quei giorni già così convulsi. La notte prima del processo Cicerone non dormì e si arrovellò a tal punto che il giorno dopo la sua arringa fu meno efficace del solito. (17) Ma la sentenza era già scritta e non ci furono problemi. Intanto Lentulo era sempre alla ricerca di rinforzi. Ed ebbe una pensata che avrebbe anche potuto essere buona se non avesse condotto le cose nel più sciagurato dei modi. In città erano arrivati da qualche giorno due ambasciatori degli Allobrogi, una popolazione che viveva nella Gallia Narbonense, fra il Rodano e le Alpi. (18) Gli ambasciatori erano in attesa di essere ricevuti dal governo di Roma per lamentare le angherie cui la loro popolazione era stata sottoposta l'anno prima dal governatore romano, Lucio Murena. Gli Allobrogi, sottomessi solo cinquant'anni prima, erano palesemente scontenti del loro rapporto con Roma. Lentulo pensò che si poteva approfittarne. Ordinò a Publio Umbreno, un liberto che era stato a lungo fra i Galli per affari e ne conosceva lingua e psicologia, di contattarli. Umbreno li agganciò nel Foro. Dopo i convenevoli di rito chiese agli Allobrogi come andassero le cose dalle loro parti sapendo benissimo quale sarebbe stata la risposta. Quelli, naturalmente, non si fecero pregare. Allora Umbreno disse che forse aveva la soluzione per i loro problemi. Dopo alcuni abboccamenti con personaggi minori della congiura, come Annio Chilone e un certo Furio, li condusse nella casa di Sempronia che era vicina al Foro. Sempronia, sposa di Decimo Bruto in quel momento assente da Roma, era una delle tante donne che gravitavano intorno a Catilina e al suo movimento. Umbreno fece venire Gabinio e quindi rivelò il complotto, i suoi scopi, i nomi di quelli che vi partecipavano e, per dare maggior forza alle sue parole, anche di altri che non c'entravano per niente. Gli Allobrogi stettero ad ascoltare quindi si congedarono. Quando furono soli si consultarono fra di loro. Prevalse l'opinione che quella combriccola non dava alcun affidamento e che era molto meglio denunciare tutto al governo di Roma e chiedere una lauta ricompensa per la loro collaborazione.

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Si rivolsero quindi a Quinto Fabio Sanga che, secondo la tradizione romana, era il patrocinatore dei loro interessi presso il Senato. (19) E Sanga avvertì Murena che li condusse da Cicerone. Il console capì al volo che gli si offriva un'occasione unica per avere quelle prove certe, documentate, irrefutabili, che cercava da tempo e che lo avrebbero messo al riparo da qualunque contestazione. Suggerisce perciò agli Allobrogi di fingere il massimo interesse, di promettere l'appoggio del loro popolo, di cercare di conoscere quanti più congiurati possibile e, soprattutto, di farsi dare qualcosa di scritto. I due chiedono allora a Gabinio di procurar loro un abboccamento con i capi. L'incontro avviene. Ci sono tutti: Lentulo, Cetego, Statilio, Cassio oltre allo stesso Gabinio e a Umbreno. Gli Allobrogi sollecitano un documento scritto in modo che lo possano consegnare ai propri concittadini a dimostrazione che si tratta di una cosa seria. Lentulo, Cetego, Statilio scrivono ciascuno una lettera e la sottoscrivono firmando così la propria condanna a morte. Solo Cassio, fiutato il pericolo, si defila con una scusa: partirà immediatamente per la Gallia Narbonense e tratterà direttamente con i capi Allobrogi. Si allontanò infatti subito dalla città e nessuno saprà mai che fine abbia fatto. Non andò in Gallia, non raggiunse l'esercito di Catilina e il suo nome non compare nemmeno fra quelli dei congiurati che, soffocato il complotto e sfuggiti alle prime esecuzioni sommarie, furono condannati all'esilio. (20) Lentulo dà quindi disposizione agli Allobrogi di passare, sulla strada del ritorno, dal campo di Catilina in modo che possano confermare col capo della congiura gli impegni presi reciprocamente. Ai congiurati interessa in particolare che gli Allobrogi inviino subito degli squadroni di cavalleria perché l'esercito catilinario ne è privo. Poi affida ad un certo Tito Volturcio di Crotone, da pochissimo entrato a far parte della congiura, il compito di accompagnare gli Allobrogi al campo di Fiesole. Aggiunge una lettera per Catilina. Questa: «Chi io sia potrai saperlo dal latore. Pensa bene alla grave situazione in cui ti trovi e ricordati di essere uomo: rifletti a quello che ti è imposto dal tuo interesse, procurati l'aiuto di tutti, anche degli infimi». (21) Istruisce quindi Volturcio: chieda a Catilina perché mai, visto oltretutto che è stato dichiarato «nemico della Patria», non vuol saperne di ricorrere agli schiavi. Volturcio deve anche informare Catilina che a Roma ormai quasi tutto è pronto per l'insurrezione e che aspettano solo che lui si avvicini alla città. E' una lettera insolente, quella di Lentulo, che dimostra che il «terzo Cornelio» si considerava ormai il vero capo della congiura. Ma Catilina non la riceverà mai. Cicerone infatti ha già preparato l'agguato al Ponte Milvio dove la comitiva deve necessariamente passare. Ha incaricato i pretori Lucio Valerio Flacco e Caio Pomptino di risolvere la faccenda e i due al calar delle tenebre hanno appostato un congruo numero di uomini ai due lati del ponte. All'arrivo degli Allobrogi col loro modesto seguito i romani gli piombano addosso. Non c'è, ovviamente, alcuna resistenza. Solo Volturcio sguaina la spada per onor di firma. Ma subito si getta ai piedi di Pomptino, che conosceva, implorandolo di aver salva la pelle. Gli Allobrogi vengono catturati, le lettere sequestrate. Era la notte del 2 dicembre 63. Racconta Sallustio che quando Cicerone apprese la notizia «fu colto da grande gioia e da grande preoccupazione». (22) Gioia perché aveva in mano le prove del complotto e preoccupazione per lo stesso motivo. Adesso cominciavano i guai seri. Adesso doveva decidere sulla sorte dei congiurati. Non poteva più sottrarsi. E prendere delle decisioni di così grave portata non era cosa che piacesse al console.

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All'alba i due Allobrogi e Volturcio gli vennero portati a casa. Cicerone ordinò che fossero chiamati immediatamente Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario, l'emissario di Catilina nel basso Lazio che era rientrato a Roma. Proprio Cepario lì per lì riuscì a fuggire, ma fu catturato poco dopo appena fuori città, sulla via Appia. Quello stesso pomeriggio Cicerone convoca il Senato al Tempio della Concordia. Egli stesso vi conduce Lentulo tenendolo per mano in omaggio alla sua carica di pretore. Gli altri seguono sotto buona scorta. E' la seduta, altamente drammatica, del 3 dicembre cui ne seguirà due giorni dopo un'altra ancor più drammatica. In un Senato affollato fino all'inverosimile Cicerone fece introdurre il pretore Flacco che consegnò uno scrigno dove erano custodite le lettere sequestrate. Furono portati anche reperti della perquisizione che, su suggerimento degli Allobrogi, Cicerone aveva fatto eseguire quella mattina stessa nella casa di Cetego. C'erano spade, daghe, pugnali, armature, proiettili di varia natura, ma non stoppa o zolfo o altro materiale incendiario. (23) Per premunirsi Cicerone aveva affidato il resoconto stenografico della seduta al pretore Caio Casconio e ai senatori Publio Nigidio e Appio Claudio che erano suoi amici carissimi. Iniziò la seduta. Fu fatto entrare per primo Volturcio. Autorizzato dal Senato Cicerone gli promise l'impunità e un premio in denaro se avesse parlato. Volturcio non si fece pregare. Raccontò che, agganciato pochi giorni prima da Gabinio e Cepario, era stato incaricato di accompagnare i due Allobrogi al campo di Catilina. Della congiura non sapeva molto di più tranne che ne facevano parte - glielo aveva detto Gabinio - anche Autronio, Vergunteio e Servio Silla. E' la volta degli Allobrogi. Raccontano dei vari contatti e degli impegni presi, in particolare della richiesta di Lentulo di inviare subito reparti di cavalleria. Indicano altri congiurati fra cui Cassio e Publio Silla. Ma il nome di quest'ultimo, che Cicerone difenderà l'anno dopo proprio dall'accusa di aver partecipato alla congiura, sparirà misteriosamente dai verbali. Anche ad altri congiurati Cicerone venderà il suo silenzio in cambio di un paio di ville, la «Pompeiana» e il «Tuscolano». Così, almeno, Sallustio. (24)

Vengono introdotti gli accusati. Il primo è Cetego. E' interrogato innanzi tutto su quanto è stato trovato a casa sua. Si difende dicendo di essere sempre stato un amatore di belle armi. Gli portano una delle lettere sequestrate. Riconosce come suo il sigillo. Vengono sciolti i fili che tengono insieme le tavolette. Anche la scrittura è sua. Si dà lettura del contenuto davanti al Senato. In verità la lettera, redatta in termini alquanto sibillini, non dice granché. E' indirizzata al Senato e al popolo degli Allobrogi e conferma che il mittente avrebbe fatto ciò che aveva promesso agli ambasciatori, parimenti chiede agli Allobrogi che facciano ciò che gli ambasciatori hanno promesso a lui. Sul contenuto di tali promesse, nulla. Cetego, interrogato in proposito, si chiude in un mutismo assoluto. Viene chiamato Statilio. La procedura è identica. Il contenuto della lettera anche. Ma Statilio, racconterà poi Cicerone, «confessò». (25) Che cosa? Di aver avuto contatti con gli Allobrogi, perché non poteva negare l'evidenza, ma non le stragi né tantomeno gli incendi. (26) E' l'ora di Lentulo. Cicerone esibisce la lettera e gli chiede di riconoscere il sigillo. «Per la verità è un sigillo assai noto» lo sbeffeggia. (27) Infatti è quello dei Corneli. Un mormorio corre fra i senatori. Letta la missiva, che non contiene novità, Cicerone dà a Lentulo la facoltà di parlare. Lentulo non risponde. Ma quando è già

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stato redatto il verbale cambia idea, si alza in piedi e chiede a gran voce ai due Allobrogi di dire quali siano stati i loro rapporti e la ragione per cui si erano recati da lui. Lentulo infatti non sa, anche se dovrebbe intuirlo, che gli Allobrogi sono d'accordo fin dall'inizio con Cicerone. Crede siano degli imputati come lui e spera che gli diano una mano per tirarsi fuori insieme dai pasticci. Gli Allobrogi confermano tutto, aggiungono anzi dei particolari e raccontano anche che Lentulo si era vantato della profezia dei Libri Sibillini. Lentulo sbianca in volto, balbetta, si smarrisce, abbassa la cresta, crolla. E' uno spettacolo penoso cui l'intero Senato assiste muto e allibito, umiliato dell'umiliazione di lui. Volturcio dà il calcio dell'asino: chiede che sia prodotta e aperta la lettera di Lentulo a Catilina. In preda a un'agitazione irrefrenabile Lentulo riconosce ancora una volta i sigilli. La lettera non ha firma né intestazione ma la scrittura e il contenuto sono inequivocabili. Quando viene ascoltato Gabinio non è più il caso di negare, anche se lui di lettere non ne ha scritte. Gabinio confessò. Cosa le fonti non ce lo dicono. In ogni caso il tentativo di trattare, all'insaputa del Senato, con una potenza alleata e i contatti con Catilina, che in quel momento è già hostis, sono sufficienti per configurare l'accusa di alto tradimento. Dirà Cicerone: «Benché tavolette, sigilli e infine le confessioni di tutti mi apparissero prove certe, testimonianze innegabili del delitto, quanto più gravi mi parvero il loro pallore, lo sguardo, l'espressione dei volti, i silenzi. Gli occhi a terra, si scambiavano sguardi furtivi, tanto che sembravano denunciarsi da se stessi più che dagli altri. Erano schiantati». (28)

A questo punto si aprirono le cateratte. Giunio Silano, console designato, raccontò di aver sentito dire che Cetego si era vantato di voler uccidere tre consoli e quattro pretori. Anche il consolare Cneo Pisone riferì di episodi simili attribuendoli ad altri congiurati. (29) Il Senato decretò la degradazione all'istante di Lentulo. Dovette deporre, lì nella Curia, la toga di porpora e cambiarla con un'altra. I congiurati sono affidati in custodia cautelare: Lentulo all'edile Publio Lentulo Spintere, Cetego a Quinto Cornificio, Cepario al senatore Cneo Terenzio, Gabinio a Crasso, Statilio a Cesare. Lo stesso provvedimento viene preso a carico del liberto Umbreno, di Furio, di Annio Chilone e di Cassio che però è uccel di bosco. Il Senato decretò un plauso ai due pretori che avevano catturato gli Allobrogi. In onore di Cicerone ci fu invece una solenne cerimonia di ringraziamento e fu proclamato «Padre della Patria». (30) Se l'era meritato. In quei giorni Cicerone fu frenetico. La sera stessa parlò al popolo, nel Foro (Terza Catilinaria). Rifece un po' la storia della seduta del Senato, ma si adoperò soprattutto per convincere la plebe del leit motiv che aveva suonato in tutti quei giorni: i congiurati volevano incendiare Roma e massacrare tutta la popolazione. Circostanze che non erano affatto emerse durante l'istruttoria e che anzi, visto che non ne era stato trovato alcun riscontro, potevano essere escluse. La plebe però gli credette. Ma non fu tanto l'eloquenza del console a convincerla quanto la sconfitta dei congiurati. Il vento era cambiato. Adesso la folla non inneggiava più a Catilina, lontano e braccato, ma a Cicerone. Un tentativo dei servi e dei clientes di Lentulo e Cetego di liberare i loro padroni fallì anche per l'ostilità della folla. Cicerone convocò il Senato per il giorno dopo. La seduta del 4 dicembre fu interlocutoria. Venne ascoltato un certo Lucio Tarquinio

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che era stato catturato mentre tentava di raggiungere il campo di Catilina. Si dichiarò subito disposto a collaborare in cambio dell'impunità. Cicerone lo invitò a dire ciò che sapeva. Tarquinio ripeté, più o meno, quello che aveva detto Volturcio. Ma al Senato ovviamente non bastava, erano cose risapute. Tarquinio aveva il problema, diremmo oggi, del «secondo pentito» e quindi, per aver salva la pelle, la sparò grossa: inventò che a mandarlo da Catilina era stato Crasso. Cosa del tutto inverosimile sulla quale Sallustio si sofferma malignamente e a lungo per esaltare indirettamente l'estraneità di Cesare a spese del Dives. (31) Il Senato non credette una parola e spedì il malaccorto Tarquinio in gattabuia. Prese quindi provvedimenti minori e stabilì l'ammontare dei premi da attribuire agli Allobrogi e a Volturcio per la loro collaborazione. La seduta decisiva doveva essere quella del 5 dicembre che Cicerone aveva convocato al Tempio della Concordia. Il console era tormentato dai dubbi: quale pena infliggere ai congiurati, l'esilio, il carcere, la morte? Di suo Cicerone sarebbe stato per la pena di morte. Se non altro per una questione di immagine: aveva bisogno di dare l'impressione di essere un uomo deciso dato che, come scrive Plutarco, «già allora non passava per essere coraggiosissimo». (32) Ma si ripresentava il dilemma che si era già posto con Catilina: esistevano delle leggi le quali vietavano che un cittadino romano potesse essere messo a morte per reati di tipo politico senza che gli fosse concesso di fare appello (provocatio) al popolo che su questioni del genere doveva avere l'ultima parola. E Cicerone non aveva alcuna intenzione di dargliela perché diffidava delle giurie popolari e del mutevole umore della folla. Il giorno prima della seduta Cicerone, accompagnato dal fratello Quinto, si rifugiò in casa dell'amico Nigidio per trovare un po' di tranquillità, meditare sul da farsi e sfuggire a Terenzia che gli stava addosso perché non lasciasse scampo ai congiurati. Aveva la scusa buona per stare lontano dalla consorte: quella sera, nella sua qualità di moglie del console, Terenzia officiava nella loro abitazione, insieme alle Vestali, i riti segreti in onore della Bona Dea dai quali erano esclusi gli uomini. Ma anche questa volta Terenzia riuscì a imporre la propria volontà al marito. Con uno stratagemma. Corse a casa di Nigidio tutta eccitata gridando che durante la cerimonia religiosa era avvenuto un grande prodigio: quando il fuoco sembrava ormai spento dall'altare si era sprigionata una fulgida fiamma e le Vestali avevano interpretato l'avvenimento come il chiaro segno che Cicerone doveva agire con la massima decisione se voleva salvare la Patria e assurgere a gloria imperitura. Cicerone non era religioso, ma era superstizioso. Il resto lo fecero Quinto e gli amici. (33) La mattina del 5 dicembre Cicerone si presentò in Senato deciso a chiedere la condanna a morte dei congiurati. Si iniziò con la relatio del console che fece il riassunto delle puntate precedenti mettendo in evidenza l'esito degli interrogatori, le confessioni e il giudizio di colpevolezza che il Senato aveva già espresso. Ora si trattava di decidere la pena. Il primo a intervenire, secondo la prassi, fu uno dei consoli designati, Silano, il quale, istruito da Cicerone, chiese per i congiurati «l'estremo supplizio». (34) Seguì una lunga serie di interventi. Parlarono Cicerone, l'altro console designato, Murena, i Servili, i fratelli Lucio e Marco Lucullo, durissimi, Curio, Torquato, Lepido, Gellio, Volcatio, Figulo, Cotta, Lucio Cesare, zio del più noto Giulio, Pisone, Glabrione, (35) che chiesero tutti la pena di morte. La musica si interruppe solo quando intervenne Tiberio Nerone: disse che per pronunciarsi occorreva attendere che Catilina

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fosse definitivamente sconfitto così da avere in modo chiaro l'intero quadro della congiura. Ma il discorso che mutò il trend della seduta fu quello di Giulio Cesare. Cesare, che aveva allora trentotto anni, non era ancora il Cesare del mito, non aveva ancora conquistato le Gallie, ma era un grande oratore e, soprattutto, aveva il carisma naturale del leader. Fece un lungo discorso, che Sallustio riporta integralmente, (36) centrato proprio sulla questione che angustiava Cicerone: l'illegittimità della condanna a morte senza concedere la provocatio al popolo. Cesare lanciò anche un ammonimento che dovette suonare sinistramente alle orecchie del console: «Certo, anch'io giudico, o padri coscritti, che ogni forma di tormento è poca cosa se guardiamo alle loro colpe, ma gli uomini, per la maggior parte, conservano solo il ricordo della conclusione e quando si tratta di malvagi dimenticano il delitto ma discutono il castigo per poco che si sia ecceduto in severità». (37) Propose quindi il sequestro dei beni e il carcere a vita per i congiurati che dovevano essere custoditi in municipi lontani da Roma e ben vigilati. Sottolineò anche, per convincere la parte più oltranzista del Senato, che, a conti fatti, quella era una pena peggiore della morte stessa. A Cesare, in realtà, della sorte dei congiurati non importava assolutamente nulla. Il suo intervento aveva altri fini: precostituire la base giuridica e politica per mettere in seguito alle corde Cicerone di cui intendeva sbarazzarsi e tenersi buona la plebe del cui appoggio aveva bisogno per contrastare gli optimates. Il discorso di Cesare fece grande impressione. Silano chiese nuovamente la parola e sostenne di essere stato frainteso: «l'estremo supplizio» per un senatore romano era la detenzione. (38) Anche altri senatori ritornarono sui loro passi. Cicerone non sapendo che pesci pigliare «quando si alzò a parlare esaminò entrambe le soluzioni sostenendo ora la prima ora quella di Cesare» (Quarta Catilinaria). (39) Si attendevano ora gli interventi del princeps del Senato Quinto Lutazio Catulo e di Marco Porcio Catone, i più stimati per la loro integrità ma anche, proprio per ciò, i più detestati. Catulo era un amico di Catilina cui doveva anche riconoscenza perché uccidendo Gratidiano sulla tomba del suo avo, Lutazio Catulo, ne aveva vendicato l'onore. Ma era un conservatore coerente e onesto abituato, come aveva più volte dimostrato nella sua ormai lunga vita, (40) a passare sui propri sentimenti in nome degli interessi superiori dello Stato, o di quelli che riteneva tali. Quindi il suo fu pollice verso: non si poteva dare una risposta debole e fiacca ad un delitto così grave che, se non punito adeguatamente, avrebbe potuto trovare imitatori in futuro. Toccava a Catone il quale, tra l'altro, era stato protagonista poco prima di un curioso incidente che aveva allentato per un momento la tensione dell'assemblea. Catone e Cesare sedevano uno vicino all'altro. A un certo punto fu consegnato a Cesare un bigliettino che gli veniva inviato dall'esterno e Cesare si mise a leggerlo in silenzio. Catone scattò in piedi gridando al fatto inaudito: Cesare riceveva istruzioni scritte direttamente da Catilina. Allora Cesare senza dire una parola passò il biglietto a Catone: era una letterina sconcia di Servilia, sorella di Catone e notoria amante di Cesare oltre che moglie di Lucullo. Catone infatti, come spesso capita ai moralisti, aveva la sfortuna di avere due sorelle, entrambe di nome Servilia, una più puttana dell'altra. Restituì sdegnosamente il biglietto a Cesare dicendogli: «Tieni, pazzoide». (41) Poi si alzò a parlare. Il suo fu un discorso violentissimo e, una volta tanto, per nulla moralista ma molto pratico. Disse che in quella vicenda non si trattava solo di questioni di diritto ma di difendere le proprietà e

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i privilegi degli ottimati oppure di arretrare davanti all'avanzata della plebe che bisognava invece spaventare con una sentenza esemplare. Disse che non si doveva star lì ad arzigogolare troppo sugli aspetti giuridici e a tormentarsi perché non c'era la prova provata che i congiurati volessero davvero incendiare Roma e massacrare la maggioranza dei cittadini «perché i delitti ordinari si puniscono dopo che sono stati commessi ma un delitto di questo genere o si impedisce che accada o, quando è stato commesso, vano è il ricorso alla legge». (42) Era vero, aggiunse, che i delitti non erano stati portati a compimento, ma il tentativo c'era stato e quindi era come se i congiurati fossero stati colti in flagrante. La pena non poteva essere che la morte. (43) Quando Catone finì il suo discorso e si sedette, ancora vibrante, fu sommerso dagli applausi: «Catone è grande! Catone è illustre!» si gridava. (44) Cesare tentò invano di sollecitare i tribuni della plebe presenti in aula ad interporre il veto; questi, intimiditi dal clima che si era creato, non si mossero. (45) Cicerone tirò le fila. Accolse un emendamento di Cesare il quale aveva sostenuto, in subordine, che se si condannavano i congiurati alla pena capitale andava allora esclusa la confisca dei beni. Poi propose all'assemblea la formula del verdetto: pena di morte. Il Senato approvò a larghissima maggioranza. (46) Questa sentenza costò cara a Cicerone. I contemporanei non gliela perdonarono. O per meglio dire Cesare e i suoi la sfruttarono propagandisticamente per iniziare, poco dopo, una violenta campagna di delegittimazione dell'ex console che, isolato e privato della scorta, fu più volte umiliato, e nel modo più vergognoso, dal tribuno Publio Clodio. Cicerone ebbe una vera e propria crisi depressiva e di identità. Andava in giro vestito da straccione, si era fatto crescere i capelli lunghi e mendicava inutilmente aiuto da quella plebe che aveva sempre disprezzato. (47) Finché Clodio nel 58 fece approvare una legge che puniva con l'esilio i magistrati che avessero condannato a morte cittadini romani senza concedere l'appello al popolo. La legge, fatta su misura per Cicerone, aveva effetto retroattivo. E il «Padre della Patria», in lacrime, dovette prendere la via dell'esilio. Ma anche qualche moderno rimprovera a Cicerone quella condanna. A torto, a parer mio. E' vero che nella procedura messa in atto dal console c'erano alcune anomalie. La prima è che il Senato si fosse costituito in Alta Corte di Giustizia mentre, di norma, non aveva poteri giurisdizionali. In secondo luogo, come Cesare aveva ammonito in Senato, erano state disattese le leggi che garantivano al cittadino la provocatio. Si trattava di una lunga serie che cominciava con le Xii Tavole, che era un po' la Costituzione dei romani anche se flessibile e non rigida come la nostra, e proseguiva con la lex Valeria de provocatione, votata agli albori della Repubblica, la lex Porcia, la lex Sempronia, voluta dai Gracchi, la lex Cornelia. Cicerone, al quale lo scombussolamento aveva fatto perdere anche l'abilità di avvocato, si difese assai male sostenendo che dato che i congiurati erano stati riconosciuti colpevoli di alto tradimento (perduellio) non erano più cittadini romani ma hostes e quindi non potevano godere delle garanzie dei cives. Era un argomento quanto mai specioso perché il tribunale popolare, per decidere se la sentenza di morte era giusta, doveva appunto giudicare se c'era l'alto tradimento e quindi gli estremi per dichiarare il cittadino hostis. Però Cicerone aveva dalla sua il Senatus consultum ultimum che gli conferiva pieni poteri e che già in passato aveva consentito ai consoli, in diverse occasioni, di considerare momentaneamente sospese le garanzie fondamentali del cittadino romano. (48) C'erano

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insomma dei precedenti. La differenza stava nel fatto che negli altri casi i consoli avevano agito manu militari passando direttamente per le armi i «traditori» e assumendosene l'intera responsabilità, mentre Cicerone aveva voluto scaricarla sul Senato inventandosi una procedura giudiziaria che non esisteva. Fu giocato, come gli accadde altre volte, dalla sua mancanza di decisione, dalla sua titubanza, dal suo orrore per le azioni armate e insomma dal demone della sua vita: la paura. Chiusa la seduta Cesare, uscendo dal Senato, fu aggredito da alcuni cavalieri della scorta di Cicerone i quali, snudata la spada, cercarono di colpirlo. E forse il futuro conquistatore delle Gallie non sarebbe mai diventato tale se Curio non si fosse coraggiosamente interposto e lo stesso Cicerone non avesse richiamato all'ordine i suoi riportando la calma. Cesare se la cavò con un grande spavento, ma per un mese non si fece più vedere in Senato. (49) Si era fatta sera. Cicerone aveva una gran fretta di concludere. Ordinò ai triumviri capitales di approntare nel carcere Mamertino le misure necessarie per l'esecuzione. Dispose quindi che i pretori andassero a prendere i congiurati nelle case dove erano custoditi e li conducessero al carcere, badando bene di non farsi vedere dalla plebe. Lui stesso si mise alla testa del mesto corteo. Il Mamertino, che era situato sul dorso del Campidoglio, aveva un reparto, il Tulliano, adibito alle esecuzioni. Si trattava di un sotterraneo posto quattro, cinque metri sotto il livello stradale cui si accedeva attraverso una botola. Era costruito con grossi blocchi di pietra che ne costituivano le pareti e anche la volta ad arcate era in pietra. Un posto che non lasciava vie di scampo. Scrive Sallustio: «L'abbandono, l'oscurità, il fetore ne rendevano l'aspetto spaventoso». (50) La botola fu aperta. A uno a uno i congiurati vennero calati nel sotterraneo: prima Lentulo, poi Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario. Sotto li attendeva il boia. Furono strangolati alla luce delle torce. Intorno al carcere si era radunata una piccola folla di parenti, di amici, di servi, di clientes, di semplici curiosi. E a quella folla ansiosa che chiedeva notizie Cicerone rispose ambiguamente e cinicamente: «Vissero». (51)

Note (1) T' Mommsen, op' cit', vol' Vii, p' 130. (2) Cicerone, Catilinarie, I, 13. (3) Cicerone, Catilinarie, Ii, 4. In Plutarco, per scambio paleografico, i tre compagni di Catilina diventano 300. Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 16. Vedi L' Pareti, op' cit', p' 361. (4) Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 5, 6. (5) Dal 581 al 388 i Cornelii avevano dato 30 consoli e 14 edili curuli. I Valerii, che li seguono in questa classifica, 18 consoli e 4 edili. I Giulii, la famiglia di Cesare, sono solo quindicesimi con un console e un edile. T' Mommsen, op' cit', vol' Iv, p' 101. (6) Fra pretura e consolato dovevano passare almeno tre anni. (7) Gli oracoli sibillini erano regole rituali vendute a Tarquinio il Superbo dalla Sibilla cumana nel 461 a'C'. Così almeno la racconta Tito Livio, Ab urbe condita, Iii, 10. (8) Cfr' la lettera che gli spedì al campo di Fiesole. Sallustio, op' cit', Xliv. (9) Asconio, op' cit', 82. (10) Cicerone, Catilinarie, Iii, 16, 17. (11) Ibidem. (12) Sallustio, op' cit', Xliii. (13) L' Pareti, op' cit', pp' 367 e ss'. Secondo questo autore

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c'era anche una notevole diversità di programmi fra Catilina e il gruppo di Lentulo. Riformista quello del primo, estremista e sanguinario quello del secondo. (14) Cicerone, Catilinarie, Iii, 16, 17. (15) Cicerone, Catilinarie, Ii, 22. (16) Cicerone, Ad Atticum, I, 14. (17) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 35. (18) Gli odierni Delfinato e Savoia. (19) Un avo di Sanga, Quinto Fabio Massimo, aveva sottomesso gli Allobrogi mezzo secolo prima ed era chiamato per ciò «Allobrogico». (20) Furono condannati all'esilio: Autronio, Vergunteio, Servio Silla, Paolo e Marco Leca, Cornelio, Sittio e i due Marcelli. Cicerone, Pro Sulla. Vedi anche L' Pareti, op' cit', pp' 414, 415. (21) Sallustio, op' cit', Xliv. (22) Sallustio, op' cit', Xlvi. (23) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 19. (24) Sallustio, Invettiva contro Cicerone, 2, 3, scritta nel 54. (25) Cicerone, Catilinarie, Iii, 10. (26) L' Pareti, op' cit', p' 387. (27) Cicerone, Catilinarie, Iii, 10. (28) Cicerone, Catilinarie, Iii, 13. (29) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 19. (30) «Parens Patriae». Cicerone, Catilinarie, Iv, 3-5; Pro Sulla, 13-14; In Pisonem, Iii, 6; Pro Sestio, 121; Filippiche, Ii, 6-13 e in decine di altri passi; Aulo Gellio, op' cit', V, 6, 12. (31) Sallustio, op' cit', Xlviii e Xlix. (32) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 19. (33) Naturalmente nella Quarta Catilinaria Cicerone si descriverà fortissimo in mezzo ai familiari e agli amici angosciati. Cicerone, Catilinarie, Iv, 3. Plutarco invece la racconta in maniera completamente diversa. Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 20. (34) Cicerone, Catilinarie, Iv, 7 e ss'; Sallustio, op' cit'; L' Appiano, op' cit', Ii, 5. Sallustio dice supplicium che, senza altra specificazione significa, appunto, supplizio estremo, pena capitale. (35) La lista ci è fornita dallo stesso Cicerone in una lettera ad Attico. Ad Atticum, Xii, 21. (36) Sallustio, op' cit', Li. (37) Ibidem. (38) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 21. (39) Ibidem. Cicerone in quella seduta parlò almeno quattro volte: per la relatio preliminare, dopo Silano, dopo Cesare, in conclusione, e radunò poi questi discorsi nella Quarta Catilinaria. (40) J' Carcopino, op' cit', p' 15. Pur essendo un aristocratico oltranzista era stato uno dei pochi senatori a opporsi alle proscrizioni di Silla rischiando la vita. Orosio, op' cit', V, 21, 6. (41) Plutarco, op' cit', Vita di Bruto, 5. Se Catone era sfortunato con le sorelle, Lucullo lo fu con le mogli. In prime nozze aveva sposato, per amore poiché la donna portava una dote modesta, la bellissima Clodia che lo fece impazzire di gelosia andando a letto con tutta Roma compreso il fratello, il futuro tribuno Publio Clodio. Era talmente affascinante Clodia da turbare anche un uomo sessualmente inerte come Cicerone il quale, approfittando del fatto che erano vicini di casa, tentò qualche timida avance suscitando le ire di Terenzia. Clodia, che si era nel frattempo risposata con un altro militare, Metello Celere, e alla quale piaceva un ben diverso tipo d'uomo, non degnò l'oratore di uno sguardo e Cicerone, per lenire il brucio, si vendicò definendola «una ragazza da quattro soldi» (Quintiliano, op' cit', Viii, 6, 53). Clodia è la Lesbia cantata e amata da Catullo, uno dei tanti per lei che lo tradiva col

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più giovane Celio. (42) Sallustio, op' cit', Lii. (43) Ibidem e Appiano, op' cit', Ii, 6. (44) Sallustio, op' cit', Liii; Velleio Patercolo, op' cit', 2, 354. (45) Plutarco, op' cit', Vita di Cesare, 21. (46) Appiano, op' cit', Ii, 6. (47) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 30. (48) In realtà quello del Senatus consultum ultimum è uno dei problemi più spinosi del diritto pubblico romano. Si tratta di una rottura costituzionale che gli ottimati utilizzarono a partire dall'epoca dei Gracchi per reprimere con la violenza i movimenti che mettevano in pericolo la loro supremazia. E' un circolo vizioso: col Senatus consultum ultimum si proclama il rivoluzionario, o presunto tale, hostis privandolo così delle garanzie di cui godeva il cittadino romano (civis) a cominciare dalla provocatio al popolo, ma tutte le leggi sulla provocatio stabiliscono che solo il popolo può decidere se un cittadino si è messo nelle condizioni di essere dichiarato hostis. Il problema del Senatus consultum ultimum, sullo sfondo del quale c'è l'irrisolta questione di dove vadano situati i limiti di autodifesa nello Stato di diritto, ha appassionato giuristi e storici, antichi e moderni. Per Mommsen è un atto incostituzionale che non può trovare giustificazione nello stato di necessità. Per Von Lübtow è invece legittimo perché suprema funzione del Senato è di garantire l'ordine pubblico (Von Lübtow, Das röm' Volk. Sein Stadt u' Sein Recht, Berlino 1955, pp' 339 e ss'). Polibio afferma che il cittadino anche rivoluzionario resta sempre civis (Polibio, Storie, 6, 10, 2). E' chiaro che le varie interpretazioni dipendono dalle posizioni ideologiche degli autori. La trattazione più completa del problema del Senatus consultum ultimum si trova in Jurgen Baron Ungern-Sternberg Von Pürkel, Untersuchungen zum spätrepublikanischen Notstandsrecht Senatus consultum ultimum und hostis-Erklarung, H' Becksche, Verlags-buchandlung, Monaco 1970, pp' X-153. Poiché dubitiamo che il lettore italiano, per quanto eventualmente interessato, intenda cimentarsi con una simile lettura in tedesco consigliamo a chi voglia saperne di più la ricerca storico-giuridica di Betti, La rivoluzione dei tribuni in Roma dal 133 all'88, «Labeo», 9, 1963, pp' 57 e ss' e G' Crifò, In tema di Senatus consultum ultimum, «Studia et documenta historiae et iuris», Xxxvi, 1970, pp' 420-434. (49) Svetonio, op' cit', Cesare, Xiv. (50) Sallustio, op' cit', Lv. (51) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 22.

VIII.Morte a Pistoia

Quando Catilina lascia Roma sa che va a morire. E scrive questa lettera a Quinto Lutazio Catulo: «Lucio Catilina a Quinto Catulo. Dà fiducia a questa mia lettera di raccomandazione il tuo grande attaccamento a me, conosciuto per esperienza, tanto utile nelle mie grandi peripezie. Non è quindi mia intenzione fare la difesa del mio nuovo progetto, bensì volli sottoporre a te la giustificazione che a me viene dalla consapevolezza di non essere in colpa e che tu, per tutti gli Dèi, dovrai riconoscere sincera. Inasprito da ingiustizie e da oltraggi, alla constatazione che, defraudato dei frutti delle mie fatiche e della mia abilità, non posso conseguire il grado conveniente alla mia dignità, mi sono assunto, com'è mio costume, la causa generale dei

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disgraziati. Non già che io non possa far fronte ai miei impegni personali con i miei averi - e la liberalità di Orestilla basterebbe con le sue ricchezze e con quelle della figlia a soddisfare i debiti contratti in nome altrui - ma perché vedo uomini indegni nobilitati dalle pubbliche cariche e me escluso da esse per ingiusti sospetti. Per questi motivi tengo dietro alla speranza, ben onorevole nel mio caso, di conservare quel tanto di dignità che mi è stato lasciato. Vorrei scriverti più a lungo, ma mi giunge notizia che si sta per ricorrere contro di me alla violenza. E ora ti raccomando Orestilla e la affido alla tua leale amicizia. Proteggila da ogni vessazione, te ne prego per i tuoi figlioli. Sta bene». (1) E' questo l'unico documento scritto che possediamo di Catilina. Catulo infatti ne diede lettura in Senato e il testo venne stenografato. Sallustio, che scrive solo vent'anni dopo i fatti e lo riproduce nella sua opera, ne aveva sottomano, come riferisce egli stesso, una copia autentica. E possiamo pensare che in questa lettera Catilina sia sincero. E' una sorta di testamento e all'amico non vuole mentire. Scriverà altre lettere in quei giorni e a tutti dirà, per tentare un depistaggio, che sta partendo per Marsiglia in esilio volontario. Qui invece svela a Catulo i suoi reali propositi: si accinge alla battaglia decisiva. Da queste poche righe possiamo quindi farci un'idea, sia pur sommaria, del mondo morale di Catilina. Partito da Roma col suo piccolo seguito di giovani prese la via Aurelia, direzione mare, per far credere che andava davvero a Marsiglia. Un manipolo di ribelli, proveniente dall'Etruria, lo raggiunse al Forum Aurelium, a ovest di Tarquinia, per scortarlo. Era diventato troppo pericoloso che viaggiasse da solo. Il giorno dopo, arrivato a Tarquinia, cambiò bruscamente direzione, piegò verso l'interno, risalì il fiume Marta, costeggiò il lago di Bolsena, riprese la Cassia verso nord e si fermò ad Arezzo dove lo aspettava Caio Flaminio, una delle sue teste di ponte. Ad Arezzo passò alcuni giorni per inquadrare militarmente gli uomini che Flaminio aveva raccolto. Con questi si diresse verso gli accampamenti di Manlio, il suo fedele luogotenente, nei pressi di Fiesole. Adesso cavalcava preceduto dai fasci littori e dall'Aquila di Mario, simbolo del riscatto popolare. I fasci littori erano l'insegna ufficiale dei consoli quando assumevano il comando militare. C'era qualcosa di patetico in questa esibizione. Catilina si appropriava del simbolo di ciò che aveva inseguito per tanto tempo e non aveva potuto avere: il consolato, «il grado confacente alla mia dignità» come aveva scritto all'amico. Il consolato aveva perduto molta della sua importanza e da tempo finiva in mano a uomini mediocri che lo raggiungevano grazie al denaro e, spesso, alla corruzione. Passeranno pochissimi anni, meno di dieci, e i triumvirati prima, l'Impero poi, toglieranno ai consoli ogni funzione. Ma, evidentemente, per Catilina quella magistratura, così carica di simbologia e di echi, aveva ancora un senso e un valore. In ogni caso inalberare i fasci littori voleva dire ribellione aperta. Catilina si era ormai tagliato tutti i ponti alle spalle. E infatti quando ne ebbe notizia il Senato, su proposta di Cicerone, lo dichiarò, insieme a Manlio, «nemico della Patria», cosa che comportava la perdita, oltre che di ogni carica e diritto, della cittadinanza romana. Catilina era «wanted», ricercato. C'era licenza di ucciderlo. Per lo Stato romano era un uomo morto. Il Senato deliberò anche che l'altro console, l'ambiguo Antonio Ibrida, ex commilitone di Catilina e per un certo periodo suo compagno di strada anche nell'avventura politica, che fin lì era riuscito a defilarsi, prendesse il comando delle operazioni militari. Ibrida sostituì Marcio Re alla guida dell'esercito stanziato in

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Etruria e a metà novembre, con le altre legioni che stavano sopraggiungendo, si dispose a dare la caccia al ribelle. Ma prudentemente Cicerone, che ne diffidava, gli mise alle costole, come una sorta di commissario politico, un suo uomo, il questore Publio Sestio. (2) Il Senato promise ancora una volta l'amnistia per chi avesse deposto le armi entro un giorno prefissato. (3) Al campo di Manlio Catilina trovò appena 2000 uomini, il terzo di una legione. Nessuno però aveva disertato accogliendo la favorevolissima offerta del Senato. (4) Anzi nel mese di novembre continuarono ad arrivare uomini, un afflusso massiccio che portò l'esercito catilinario a 12'000 effettivi. (5) Ma solo un quarto era armato in modo regolare, (6) gli altri avevano delle lance e molti nemmeno quelle ma roncole e pertiche appuntite. Catilina organizzò al meglio questa massa disordinata dividendola in due legioni e venti coorti secondo il tradizionale schema romano. Fra gli ultimi arrivati c'erano moltissimi schiavi fuggiti dai loro padroni. Catilina li esortò ad approfittare del bando del Senato finché erano in tempo, ma quelli rifiutarono. Ricordò allora agli schiavi che non aveva promesso l'affrancamento ma solo un trattamento più umano e che nemmeno in quell'estremo momento se la sentiva di concedere nulla di più. Quindi, disse, non gli pareva giusto che essi morissero combattendo per una causa non loro. Per il momento li avrebbe tenuti volentieri con sé ma se ci fosse stata battaglia li avrebbe congedati. Rimaneva un romano fino in fondo e, come scrive Sallustio, «non volle confondere la causa di cittadini romani liberi con quella di schiavi evasi». (7) Catilina non era Spartaco, che con i suoi gladiatori aveva insanguinato la penisola pochi anni prima, non combatteva contro Roma ma per Roma, la Roma delle origini che si portava nella testa. Intanto al campo di Fiesole giungevano notizie di sollevazioni in Gallia, a Capua, nel Piceno, nel Bruttio, in Apulia, cioè in tutte le regioni in cui Catilina un paio di mesi prima aveva mandato i suoi emissari. La ribellione era viva. Si poteva ancora sperare. Ma Catilina attendeva notizie soprattutto da Roma, da Lentulo e i suoi. Nel frattempo tenne in scacco per tutto il mese di novembre gli eserciti governativi, ora puntando verso Roma ora fingendo di dirigersi nelle Gallie, senza mai accettare battaglia. Ma più il tempo passava più per i catilinari la posizione si faceva indifendibile. Gli eserciti romani stavano stringendo il cerchio. Catilina avrebbe forse potuto ancora salvarsi con i suoi uomini se si fosse immediatamente diretto in Gallia: la via verso nord rimaneva libera. Una volta in Gallia avrebbe potuto attrezzare un esercito un po' più competitivo di quello di cui ora disponeva. E, per un momento, deve averci pensato. (8) Ma c'era l'impegno preso con i compagni di Roma: stare in zona e attendere il loro segnale. E lo rispettò. Il segnale arrivò ai primi di dicembre, disastroso: Lentulo, Cetego e gli altri erano stati scoperti, processati, condannati e uccisi. La plebe di Roma inneggiava ora a Cicerone che, su proposta di Catone e Catulo, era stato proclamato «Padre della Patria». A queste notizie se ne aggiunsero altre: Metello Celere aveva schiacciato l'insurrezione a sud e il legato Caio Murena nella Gallia Transalpina. A questo punto anche l'esercito di Catilina sbandò. Moltissimi se ne andarono, molti altri, quelli che non avevano armi, li congedò lui stesso insieme agli schiavi. Rimasero in tremila, i catilinari «duri e puri», gli irriducibili decisi ad andare fino in fondo. Catilina, con gli uomini rimasti, puntò sulla Gallia Cisalpina dove

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la rivolta non era ancora stata schiacciata. A marce forzate per l'Appennino toscano, nel freddo atroce dell'inverno, giunse nei pressi di Pistoia. Da lì, scavalcando l'ultimo tratto di Appennino, contava di scendere nella pianura padana. Decise di seguire la via valico delle Piastre, valle del Reno, valle del Bardalone, valle del Lima, Abetone. Dall'Abetone avrebbe avuto due possibilità: scendere su Modena o deviare per l'alta Garfagnana. (9) Ma era troppo tardi. Al di là degli Appennini un esercito romano forte di 18 mila uomini lo attendeva armi al piede sbarrandogli il passo. Era l'esercito di Quinto Metello Celere che era giunto dalle Marche per più agevole via e si era attestato poco oltre Modena da dove poteva agevolmente controllare tutti i movimenti dei ribelli se avessero tentato di valicare gli Appennini. Quando Catilina fu informato della presenza di Metello aveva da poco ripreso la marcia. Ora era in trappola. Alle sue spalle incalzava Antonio Ibrida. Rimanere ancora sulle montagne, quand'anche fossero bastate le vettovaglie, non era possibile: l'inverno avanzava, Catilina e i suoi uomini potevano vedere le cime tutte innevate dell'Abetone, del Cimone, del Libro Aperto. Non restava che battersi. O con Metello o con Ibrida. Catilina scelse Ibrida. Da un punto di vista strategico una soluzione valeva l'altra. Decise per Ibrida perché lo considerava inferiore, come capacità militare, a Metello. Nessuna delle fonti riferisce con precisione quale fosse la consistenza dell'esercito di Ibrida. Sallustio parla solo di un «grosso esercito». (10) Doveva essere perlomeno pari a quello di Metello, se non più numeroso perché se Catilina avesse sfondato a nord avrebbe raggiunto la Gallia ma se avesse sfondato a sud avrebbe potuto puntare su Roma''' Catilina ritornò quindi sui suoi passi ridiscendendo i monti. Per dare battaglia si attestò in una piccola radura, chiamata Campo di Zoro, (11) chiusa a sinistra dai monti che culminano nel poggio Madonnina e a destra da un'altissima rupe. Alle spalle la catena dell'Abetone lo metteva al riparo, almeno per il momento, da brutte sorprese. Il posto era ben scelto perché il piccolo esercito di Catilina, protetto su tre lati, avrebbe potuto combattere su un fronte limitato, di circa mezzo chilometro, dove la superiorità numerica del nemico, costretto in quell'imbuto, si sarebbe fatta sentire di meno. Prima della battaglia Catilina radunò i suoi soldati e tenne loro questo discorso: «Soldati, so benissimo che le parole non valgono a creare il coraggio e che il discorso di un capo non rende ardimentoso un esercito imbelle né forte un esercito pavido. Tutta l'audacia che natura o educazione hanno posto nel cuore di ciascuno appare evidente in un combattimento; inutilmente esorteresti colui che non è scosso dal desiderio di gloria e dalla grandezza del pericolo, la paura gli impedisce di sentire. Io invece vi ho radunati per richiamarvi alcune poche cose e insieme per mettervi a parte delle ragioni che mi hanno portato a questa decisione. Voi siete al corrente, o soldati, di quale disastro abbia causato a lui e a noi l'inettitudine e l'indolenza di Lentulo, sapete come io nella vana attesa di rinforzi dalla città non sia potuto partire per la Gallia, voi dunque siete in grado quanto me di giudicare sulla nostra situazione. Due eserciti nemici, uno da Roma, l'altro dalla Gallia, ci sbarrano il passo; rimanere ancora in queste posizioni, quand'anche ce ne bastasse l'animo, ci è reso impossibile dalla mancanza di grano e di tutto il resto, ovunque si voglia andare dobbiamo aprirci la via con le armi. «Per questo, dunque, vi esorto a star forti e preparati e, quando

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verrà il momento della battaglia, ricordatevi che ricchezza, onore, gloria e insieme la libertà e la patria li tenete voi nelle vostre mani. Se si vince tutto diventa sicuro: abbondanza di vettovaglie, accoglienza aperta da colonie e municipi. Se la paura ci farà ripiegare tutto ci diventerà contrario: nessun luogo, nessun amico proteggerà colui che non seppe proteggersi con le armi. Inoltre, o soldati, essi non si trovano nella necessità di combattere in cui ci troviamo noi: noi si lotta per la patria, per la libertà, per la vita, per essi è completamente indifferente combattere per lo strapotere di pochi. E dunque piombate loro addosso tanto più audacemente memori dell'antica virtù. «Molti di voi avrebbero potuto trascinare la vita in un esilio infamante, altri dopo la perdita dei loro beni avrebbero potuto attendere in Roma l'elemosina altrui, ma l'una e l'altra soluzione giudicaste disonorevole e intollerabile per un vero uomo, perciò avete scelto di seguir questa. Ma occorre audacia per uscirne: solo chi vince cambia la guerra con la pace. Sperare di salvarsi con la fuga, distogliere dal nemico le armi che ci proteggono, è il colmo della follia. In un combattimento il pericolo maggiore è sempre per chi maggiormente teme: l'audacia è come un baluardo. «Quando io guardo a voi, o soldati, quando considero il vostro passato, l'animo mio si riempie di speranza nella vittoria. Me ne stanno garanti i vostri sentimenti, l'età, il vostro merito e in più la necessità che rende forti anche i pavidi. Del resto l'angustia dello spazio in cui siamo ci premunisce da un accerchiamento da parte del nemico tanto più numeroso. E se la sorte sarà malignamente avversa al vostro valore, procurate di non morire invendicati, di non lasciarvi catturare e massacrare a guisa di bestiame, e invece, combattendo da forti, di lasciare al nemico una vittoria che costi lacrime e sangue.» (12) «Fece quindi ritirare i cavalli perché» scrive Sallustio «l'uguaglianza nel pericolo desse maggior fiducia ai soldati.» (13) Lui stesso avrebbe combattuto a piedi. (14) Portò il suo cavallo sul limitare del campo. La bestia era inquieta. Sentiva forse la presenza del nemico vicino. Era un bell'animale, nobile e fiero. Il ricordo di Catilina andò ad altri cavalli che aveva montato in gioventù, quando, poco più che un ragazzo, aveva combattuto con Pompeo Strabone contro gli italici o quando aveva seguito Silla in Asia e poi nella vittoriosa galoppata verso Roma. Forse pensò anche ai vecchi genitori ancora in vita e alla loro angoscia. Sicuramente pensò a Orestilla e ai figli che non c'era stato il tempo di avere. Non avrebbe avuto eredi. Il cavallo lanciò un nitrito acutissimo. Non lontano si vedevano brillare gli elmi nudi, gli scudi, le spade dei nemici. Avevano tolto le armi dai foderi di cuoio. «Questo luccichio indica che si preparano alla battaglia.» (15) Il momento era venuto. Catilina accarezzò il muso dell'animale e con una vigorosa manata sulla groppa lo incitò al galoppo. Lo guardò allontanarsi. Sapeva che non gli sarebbe servito più. Tornato verso gli accampamenti Catilina dispose il suo esercito. Mise in prima fila otto coorti formate dagli uomini meglio equipaggiati, anche per non dare al nemico il vantaggio psicologico di trovarsi davanti un esercito costretto a ricorrere ad armi di fortuna. Su una seconda linea schierò le altre dodici coorti. Diede il comando dell'ala sinistra a Manlio e della destra a un soldato senza nome ricordato come «il Fiesolano». Catilina con un manipolo di soldati scelti, armati alla leggera, si mise al centro, un po' arretrato rispetto alla prima linea e in collegamento con la seconda, in una posizione di «libero», pronto a

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intervenire dove ce ne fosse bisogno. Anche l'esercito romano è ormai in linea di combattimento. Ma al comando non c'è Antonio Ibrida. E' rimasto negli accampamenti accusando un attacco di podagra. Forse è una malattia diplomatica: non vuole trovarsi vis-à-vis, in uno scontro per la vita o per la morte, con l'amico di un tempo. O forse alla rinuncia l'ha convinto, o costretto, Publio Sestio, l'uomo di Cicerone. Il forfait di Ibrida è un altro brutto colpo per i ribelli. Il suo luogotenente, Marco Petreio, è un valoroso e rude soldato con trent'anni di milizia alle spalle. Anch'egli ha disposto l'esercito mettendo davanti otto coorti e il resto di rincalzo. A cavallo fa il giro delle truppe. Conosce i soldati a uno a uno e salutandoli rievoca ora a questo ora a quello le imprese in cui si sono distinti per spronarli e per esaltarli. Disse che combattevano contro dei briganti per la Patria, i figli, il focolare, gli Dei. E a ogni buon conto ricordò che avevano di fronte dei nemici inermi. Il 5 gennaio del 62, (16) in una livida alba, il cielo basso e uniformemente grigio, ebbe inizio la battaglia. Allo squillo delle trombe i due eserciti avanzarono l'uno verso l'altro. Quando le prime linee furono a tiro iniziò il lancio dei giavellotti. Ma l'impeto da entrambe le parti è tale che, fra grida altissime, si arriva subito a un furioso corpo a corpo. I ribelli fan muro, resistono. «Catilina, con una squadra volante, è sempre in prima linea. Dà mano a quelli che duran fatica, sostituisce ai feriti gente valida, ha occhio a tutto, combatte egli stesso senza posa, colpisce spesso nel segno, compie insieme il dovere del soldato valoroso e del generale abile.» (17) Sospinti da Catilina, che a quarantacinque anni offre una performance atletica memorabile, i ribelli contrattaccano. Disperatamente. Furiosamente. L'esercito governativo, che non si aspettava una simile resistenza, è colto di sorpresa, ripiega, potrebbe sbandarsi. Come in un tiro alla fune le forze contrapposte sono in equilibrio alla massima tensione. Ma il nemico ha ampie riserve. Petreio getta nella mischia la coorte pretoria, le truppe scelte. Lo scontro è durissimo. I catilinari, al centro, non mollano, non arretrano di un passo. Sono le ali a cedere di schianto. Manlio e il Fiesolano cadono quasi contemporaneamente «combattendo in prima fila». (18) Dai fianchi i soldati di Petreio si rovesciano sul centro dei catilinari tagliando i collegamenti fra i reparti. E' il massacro. Tentando un'ultima sortita Catilina si getta con quelli che gli sono rimasti nel più folto dei nemici puntando su Petreio. I suoi gli cadono attorno a uno a uno. Si vede la sua alta, slanciata, vibrante figura sovrastare ancora per un attimo, spada in pugno, la mischia. Poi viene sommerso. «Dopo la battaglia si poté constatare quanta audacia e quanta energia regnassero fra i soldati di Catilina: ognuno di essi copriva dopo morto con il proprio cadavere il posto che, vivo, aveva tenuto in battaglia.» (19) Anche i pochi che furono trovati a distanza dal campo, dispersi dalla furia dei nemici, erano caduti a fronte alta, «feriti al petto». (20) Nessuno aveva cercato di fuggire. Nessuno aveva voltato le spalle al nemico. Erano in tremila e tanti ne caddero. (21) «Anche l'esercito romano però non aveva riportato una vittoria facile e incruenta: i più valorosi o erano caduti in battaglia o ne erano usciti gravemente feriti.» (22) Come aveva chiesto il loro capo, i ribelli non erano morti invendicati.

«Catilina venne trovato lungi dai suoi fra i cadaveri dei nemici; respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa

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espressione di indomita fierezza che aveva da vivo.» (23)

Note (1) Sallustio, op' cit', Xxxv. (2) Cicerone, Pro Sestio, 8. (3) Sallustio, op' cit', Xxxvi. (4) Ibidem. (5) Plutarco, op' cit', Vita di Cicerone, 16 e Appiano, op' cit', Ii, 7, a causa di un calcolo errato sulla composizione delle legioni, parlano di 20'000 uomini. Vedi L' Pareti, op' cit', p' 407. (6) Sallustio, op' cit', Lvi; Appiano, op' cit', Ii, 7. (7) Sallustio, op' cit', Lvi. (8) Sallustio, op' cit', Lviii. Nel discorso finale ai soldati dirà infatti: «Sapete come io, nella vana attesa di rinforzi dalla città, non sia potuto partire per la Gallia». (9) Sull'itinerario dell'esercito di Catilina ci sono varie versioni. Noi seguiamo quella del Pareti che, anche per cognizione dei luoghi, ci sembra la più convincente. L' Pareti, op' cit', p' 410. (10) Sallustio, op' cit', Lvii. Per Dione Cassio era la più forte armata senatoriale di quelle in campo. Dione Cassio, op' cit', 34, 33, 3. (11) Vedi C' Romanelli, «Bollettino associazione archeologica romana», Ii, 1913, pp' 256 e ss' e L' Pareti, op' cit', 411. Per alcuni la località si chiamerebbe «Campo Tizzoro». Altri autori individuano il luogo della battaglia a Campo Vaioni; D' Cini, Osservazioni storiche sopra l'antico stato della montagna pistoiese, Firenze 1737, pp' 135 e ss'. (12) Sallustio, op' cit', Lviii. (13) Sallustio, op' cit', Lix. (14) Ibidem. (15) Plutarco, op' cit', Vita di Lucullo, 27. (16) La data non è certa. Si sa comunque che la battaglia si svolse ai primi di gennaio. (17) Sallustio, op' cit', Lx. (18) Ibidem. (19) Sallustio, op' cit', Lxi. (20) Ibidem. (21) Dione Cassio, 37, 40, 3. (22) Sallustio, op' cit', Lxi. (23) Ibidem. Dice Floro: «Bella morte se fosse morto per la Patria!». Floro, op' cit', Ii, 12, 12. Sulla morte di Catilina anche Appiano, op' cit', Ii, 7; Dione Cassio, op' cit', 37, 33 e 39-40; Scoliaste di Bobbio a Cicerone, p' 229. L'atteggiamento prevenuto di molti autori moderni nei confronti di Catilina si può cogliere anche dal particolare che nel passo di Sallustio traducono ferocia con ferocia (vedi, fra gli altri, Carlo Vitali, op' cit', p' 82). Ma in latino ferocia vuol dire fierezza e in nessun caso ferocia. E infatti la grande latinista Lidia Storoni Mazzolani nella riedizione della Bur comparsa nel 1976, vent'anni dopo quella a cura di Vitali, traduce così il passo di Sallustio: «Respirava ancora un poco, nel volto l'indomita fierezza che aveva da vivo» («Catilina vero longe a suis inter hostium cadavera repertus est, paululum etiam spirans ferociamque animi, quam habuerat vivus, in voltu retinens»).

Appendice

Cronologia

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08 a'C': Nasce dal senatore Lucio Sergio Silo e da Belliena.107 a'C': Primo consolato di Caio Mario. 106 a'C': Si conclude vittoriosamente la guerra contro Giugurta che era iniziata nel 112. Nascono Pompeo e Cicerone.102 a'C': Mario sconfigge i Teutoni ad Aquae Sextiae (Aix-les-Bains).

101 a'C': Mario sconfigge i Cimbri a Vercelli. 100 a'C': Nasce Giulio Cesare. 91 a'C': Inizio della guerra contro gli Italici che chiedono la cittadinanza romana. 89 a'C': Catilina si arruola nelle milizie del console Pompeo Strabone che combatte gli Italici. Ha come compagno d'armi il figlio di Strabone, il futuro Pompeo Magno. Alla fine dell'anno la cittadinanza romana viene concessa a tutti gli Italici a sud del Rubicone. 88 a'C': Catilina passa agli ordini del nuovo console, Cornelio Silla, che sta per partire per l'Asia a combattere Mitridate re del Ponto. Il tribuno Sulpicio Rufo fa approvare una legge che toglie il comando a Silla e lo affida a Mario. Silla marcia su Roma e la prende con la forza. Rufo viene ucciso, Mario fugge. Silla parte per l'Oriente. Catilina è uno dei suoi ufficiali, insieme a Lucullo, Dolabella, Ibrida. 87 a'C': Vendetta dei mariani. Centinaia di seguaci di Silla vengono trucidati. 86 a'C': Morte di Mario. Il suo vice, Cornelio Cinna, governa Roma da padrone assoluto. 84 a'C': Dopo cinque anni di guerra Silla conclude la pace con Mitridate e rientra in Italia per regolare i conti con i nemici interni. 83 a'C': L'esercito sillano sbarca a Brindisi ed è raggiunto da Marco Crasso, Quinto Metello Pio e Cneo Pompeo che ha arruolato una milizia personale. 82 a'C': Marcia vittoriosa dell'esercito di Silla. Battaglia decisiva a Porta Collina. Silla è nominato dittatore. Liste di proscrizione. Catilina, al comando di un gruppo di guerrieri celti, guida una delle squadre punitive come altri ufficiali di Silla fra cui Crasso. Vengono uccisi più di cento senatori e 2600 cavalieri. Nuova Costituzione promulgata da Silla. 80 a'C': Inizia la guerra contro Sertorio in Spagna. 79 a'C': Silla abdica volontariamente e si ritira a vita privata.78 a'C': Consolato di Quinto Lutazio Catulo, «colomba» dello schieramento sillano, e Marco Emilio Lepido. Catilina è eletto questore ed entra a far parte del Senato. Morte di Silla. 77 a'C': Pompeo viene inviato contro Sertorio. In Italia insurrezione di Lepido che dà voce al diffuso malcontento sociale. Lepido, sconfitto, si ammala e muore. 74 a'C': Catilina è legato in Macedonia. 73 a'C': Inizio della seconda guerra mitridatica. Il comando è affidato a Lucullo. Rivolta dei gladiatori guidata da Spartaco. Catilina viene accusato di aver violato la vestale Fabia, cognata di Cicerone. Processato è assolto. 72 a'C': Dopo nove anni di guerriglia contro Roma Sertorio, sconfitto da Pompeo e Metello Pio, è ucciso dal proprio luogotenente Perperna. 71 a'C': La rivolta di Spartaco è annientata da Pompeo e Crasso. 70 a'C': Consolato di Crasso e Pompeo. Catilina è eletto edile. 64 senatori (su 300) vengono espulsi dal Senato per «indegnità»: Catilina non è fra questi. 68 a'C': Catilina è eletto pretore. 67 a'C': E' propretore (governatore) in Africa. Grazie alla lex

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Gabinia, appoggiata anche da Cicerone, Pompeo toglie il comando in Asia a Lucullo proprio mentre sta per assestare il colpo decisivo a Mitridate. 66 a'C': Catilina rientrato dall'Africa propone la candidatura al consolato con un programma di riforme sociali. La candidatura è respinta perché presentata in ritardo. Viene anche accusato di presunte concussioni commesse in Africa. Il processo blocca la sua candidatura anche per il 65. Catilina si avvicina a Crasso e Cesare, i leader del partito democratico, i quali lo cooptano in una congiura che ha l'obiettivo di portare Crasso alla dittatura con Cesare suo vice. La congiura fallisce. 65 a'C': Processato per le presunte malversazioni in Africa, Catilina è assolto. 64 a'C': Ripresenta la propria candidatura al consolato. In un infuocato discorso preelettorale delinea un programma di radicali riforme economiche e sociali che allarma l'oligarchia e i suoi stessi alleati, Crasso e Cesare. Gli aristocratici fanno convergere i loro voti su Marco Tullio Cicerone che, in assenza di Pompeo, è il portavoce dei cavalieri. L'oratore per battere Catilina stringe un patto segreto con l'altro candidato dei democratici, Antonio Ibrida. Cicerone vince a larga maggioranza, Ibrida è secondo con un lievissimo scarto su Catilina, che è terzo, primo dei non eletti. Cesare fa attivare un processo (Quaestio de sicariis) contro i protagonisti delle proscrizioni sillane di diciotto anni prima. Catilina è assolto, vengono condannati alcuni personaggi minori. Il tribuno della plebe Servio Rullo si fa latore di una proposta di legge agraria (lex Servilia) che prevede una vasta redistribuzione di terre ai nullatenenti e ai meno abbienti. L'ispiratore della proposta è Catilina. Gli aristocratici corrompono un altro tribuno che si impegna a porre il veto. 63 a'C': Cicerone inaugura il suo consolato con quattro orazioni contro la legge agraria (De lege agraria). Rullo ritira la proposta. Crasso e Cesare abbandonano definitivamente Catilina considerando il suo programma troppo radicale. Catilina presenta per la terza volta la candidatura al consolato. Nel suo programma ci sono la legge agraria, la cancellazione parziale dei debiti, la fine dei privilegi aristocratici, una riforma istituzionale in senso democratico. Tutta la plebe è con lui e dalle campagne italiche convergono nell'Urbe per appoggiarlo agricoltori, braccianti, piccoli proprietari rovinati dal latifondo. Cicerone chiede e ottiene dal Senato il rinvio delle elezioni «per motivi di ordine pubblico». I comizi si svolgono una quindicina di giorni dopo in un clima tesissimo. Catilina è ancora battuto, sono eletti Lucio Murena e Giunio Silano. Catone denuncia Murena per brogli. Risulta che anche Silano è ricorso alla corruzione. Catilina decide di passare all'azione violenta e comincia ad organizzare la congiura procurandosi il denaro necessario, le armi e inviando emissari in varie zone d'Italia. 23 settembre. Fulvia, l'amante di uno dei congiurati, svela il complotto a Cicerone che riceve informazioni anche da Cesare. 24 settembre. Il console convoca il Senato e dà notizia di un generico pericolo. Il Senato non adotta alcuna misura. In questo giorno nasce Ottaviano, il futuro Augusto. 20 ottobre. Crasso si presenta a casa di Cicerone con un pacco di lettere anonime in cui è annunciata un'imminente strage di aristocratici. 22 ottobre. Il Senato delibera il Senatus consultum ultimum che concede ai consoli i pieni poteri. 27 ottobre. Caio Manlio, luogotenente di Catilina, che ha raccolto

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un piccolo esercito in Etruria, proclama l'insurrezione. Il Senato allerta i generali Marcio Re e Metello Cretico e ordina nuovi arruolamenti. Lucio Paolo Lepido denuncia Catilina per il reato di violenza pubblica. Catilina si offre prigioniero nella casa di Cicerone. Il console, terrorizzato, si barrica nella propria abitazione. 1 novembre. I catilinari assaltano la fortezza di Preneste, ma l'attacco fallisce perché il governo è stato informato. Notte fra il 6 e il 7 novembre. I congiurati si riuniscono nella casa del senatore Marco Porcio Leca e decidono di assassinare il console l'indomani mattina quando riceve i clientes. 7 novembre. Cicerone, avvertito, sventa l'aggressione. 8 novembre. In Senato Cicerone accusa Catilina, che è presente, di attacco alla sicurezza dello Stato (Prima Catilinaria). A metà discorso Catilina abbandona imprecando l'assemblea. Lasciato il comando a uno dei congiurati, Cornelio Lentulo, esce da Roma la notte stessa per raggiungere il campo di Manlio a Fiesole. Prima di partire scrive una lettera-testamento all'amico Lutazio Catulo, princeps del Senato. 9 novembre. Nel Foro Cicerone denuncia al popolo la congiura e accusa i catilinari di voler incendiare Roma e massacrare l'intera popolazione (Seconda Catilinaria). Metà novembre. Catilina, dopo aver finto di andare in esilio volontario a Marsiglia, si ricongiunge con Manlio a Fiesole. Migliaia di uomini accorrono al campo di Catilina, fra cui moltissimi schiavi. Catilina accoglie gli schiavi ma rifiuta di impiegarli in battaglia. Nonostante le laute ricompense offerte dal Senato e la promessa di impunità, nessuno diserta il campo dei ribelli. Catilina tiene in scacco gli eserciti romani che gli danno la caccia. Murena, processato per brogli elettorali, è assolto. Lo stesso Cicerone, che difende Murena, ammette che si tratta di una sentenza politica. A Roma Lentulo avvicina due ambasciatori degli Allobrogi, una popolazione della Gallia, perché convincano il loro governo a dar man forte ai ribelli. I due riferiscono tutto a Cicerone che consiglia loro di far sottoscrivere ai congiurati gli impegni assunti. Lentulo, Cetego, Statilio scrivono delle lettere al governo degli Allobrogi. 2 dicembre. Gli Allobrogi vengono arrestati al Ponte Milvio, le lettere sequestrate. 3 dicembre. Lentulo, Cetego, Statilio e altri congiurati, condotti in Senato e messi a confronto con gli Allobrogi, confessano (Terza Catilinaria). Cicerone, per la prima volta nella storia di Roma, è proclamato «Padre della Patria». 5 dicembre. Dopo interventi di Cicerone (Quarta Catilinaria), Silano, Murena, Lucullo, Cesare, Catulo, Catone e altri il Senato decreta la condanna a morte dei congiurati che viene eseguita la sera stessa nel carcere Mamertino. Alla notizia dell'esecuzione e del fallimento dell'insurrezione nel sud Italia molti lasciano il campo di Catilina. Lui stesso congeda gli uomini male armati e gli schiavi. Rimasti in tremila i ribelli cercano di raggiungere la Gallia Cisalpina. A marce forzate per l'Appennino, nel freddo dell'inverno, arrivano sopra Pistoia. Ma al di là dei monti li attende l'esercito di Quinto Metello Celere forte di 18 mila uomini. Alle spalle incalza l'esercito, ancora più consistente, del console Antonio Ibrida. 62 a'C': 5 gennaio. Catilina muore in battaglia nei pressi di Pistoia insieme a tutti i suoi.'bd^

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Vocabolarietto(Breve corso di Diritto pubblico romano)

Ager publicus. Terra di proprietà dello Stato romano. Poteva essere concessa in sfruttamento ai privati a titolo di possesso (possessio).

Ambitus. Broglio elettorale.Aqua et igni interdictio. Condanna all'esilio che aveva, come dice la formula, un carattere sacrale perché escludeva il soggetto da ogni comunione di vita con gli altri associati. Comportava la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni. Il cittadino romano processato per un crimine che prevedeva la pena di morte poteva, prima della sentenza, scegliere volontariamente l'esilio.Aristocrazia. Comprendeva l'intera nobiltà, cioè sia gli antichi patrizi sia i plebei ricchi che, intorno alla metà del Iv secolo, erano stati nobilitati.Assidui. Coloro che posseggono un pezzo di terra e in quanto tali sono tenuti al servizio militare. Una legge di Caio Gracco, nel 123, estese la leva a tutti i cittadini senza distinzione di censo.àuguri. Sacerdoti che, tramite l'interpretazione dei segni, hanno il compito di investigare la volontà divina. Se il responso era sfavorevole si rinviava l'atto pubblico a cui si doveva procedere.Cavalieri (Ordine equestre). Sono tutti coloro che, senza appartenere all'aristocrazia, hanno un patrimonio di almeno 400 mila sesterzi. Avevano una loro configurazione giuridica con relativi diritti e privilegi. Dal punto di vista sociale si situano fra aristocrazia e plebe e costituiscono la borghesia degli affari distinta dalla piccola borghesia del commercio minuto che non raggiunge il censo necessario per entrare nell'ordine equestre. Censori. Sono due. Procedono al censo, hanno cioè il compito di iscrivere i cittadini nelle varie classi economiche, giuridiche e sociali in cui era suddivisa la società romana. Funzione importante perché l'appartenenza all'una o all'altra rileva sulla capacità politica del cittadino. A questa si aggiunge, nel tempo, la sorveglianza della condotta morale dei cittadini con la facoltà di comminare sanzioni che vanno dall'ammonizione (nota censoria) al declassamento all'espulsione dall'ordine equestre o dal Senato. Civis. Il cittadino romano a pieno titolo.Clientes. Sono persone libere, estranee, in origine, alla gens e aggregate a essa in base a un atto di deditio in fidem che fonda un rapporto reciproco di soggezione e protezione.Coercitio. Potere del magistrato di comminare sanzioni a garanzia dell'esecuzione dei propri ordini.Colonie. Piccoli aggregati romani (dalle 300 alle 2600 persone) in territorio straniero con la funzione di presidio militare.Comizi centuriati. Assemblea popolare basata sulla divisione della società romana in 193 centurie raggruppate a loro volta in sei classi determinate la prima dall'appartenenza all'aristocrazia, dal censo le altre. Ogni centuria, quale che sia la sua consistenza numerica, ha diritto a esprimere un voto. Ha funzioni legislative, elettive e, in particolari casi, giudiziarie. Doveva essere indetta da un magistrato e non poteva autoconvocarsi. Potevano partecipare ai comizi centuriati (come ai curiati e ai tributi) tutti i cittadini (cives) dai 17 ai 60 anni.Comizi curiati. Assemblea popolare basata sulla divisione, di derivazione militare, in 30 curie. Inizialmente avevano funzioni militari e religiose poi perdutesi. Nel I secolo a'C' la loro sopravvivenza è puramente formale.Comizi tributi. Assemblea popolare organizzata sulla divisione, a

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base territoriale (non etnica), in 35 tribù di cui 4 urbane e 31 rustiche. Elegge i magistrati minori e ha la stessa competenza legislativa dei comizi centuriati a esclusione di deliberazioni di particolare importanza come la dichiarazione di guerra.Consolare. Chi aveva ricoperto la carica di console. Console designato. I consoli venivano eletti (dai comizi centuriati) in primavera-estate ed entravano in carica il primo gennaio dell'anno successivo. In questo intervallo erano consoli designati.Consoli. Massima magistratura della Repubblica. Sono due e durano in carica un anno. Hanno il supremo comando militare, convocano il Senato e le assemblee popolari, fanno proposte di legge, esercitano funzioni amministrative e tributarie, hanno un potere coercitivo ampiamente discrezionale (imperium). Crimen repetundarum. Concussione. Il magistrato riconosciuto colpevole era condannato a pagare il doppio del maltolto (pecuniae repetundae). Crimen vis. Costituzione di banda armata. E' un reato di grado inferiore alla perduellio (alto tradimento).Curia Ostilia. Luogo in cui si tenevano solitamente le sedute del Senato che però poteva essere convocato anche in qualsiasi altro tempio consacrato.Damnatio memoriae. Comporta il divieto di sepoltura e la cancellazione di ogni ricordo del defunto.Deditio. Sottoposizione di un popolo straniero al potere sovrano di Roma.Delatore. Il diritto penale romano non aveva una figura simile al nostro Pubblico ministero, l'accusa poteva essere avviata e sostenuta da qualsiasi cittadino che si chiamava, per ciò, delatore. Dittatore (dictator e, più anticamente, magister populi). Magistratura straordinaria cui si ricorre per evenienze eccezionali non necessariamente militari. Dura in carica sei mesi. Non sostituisce i consoli ma si pone al di sopra di essi con un imperium più ampio. Ha funzioni militari, politiche e religiose, ma non amministrative e giurisdizionali che continuano a essere esercitate dai magistrati ordinari. E' scelto, in genere, fra i consolari.Divisores. Galoppini di un candidato che elargivano denaro agli elettori comprandone i voti.Duoviri perduellionis. Tribunale speciale, che in antico giudica il reato di alto tradimento, formato da due cittadini scelti a sorte dal pretore. Edili. Oltre ad assicurare l'approvvigionamento della città (cura annonae) hanno la cura delle strade e degli edifici pubblici con relativi poteri di polizia. Organizzano i giochi. Di rango inferiore al pretore e superiore al questore sono eletti due dai comizi tributi scegliendoli ad anni alterni fra i patrizi o fra i plebei (edili curuli) e due, di più antica origine, dai concili plebei e scelti esclusivamente fra gli humiliores. Familia (communi iure). Famiglia allargata formata dalle persone libere che sarebbero sotto la potestà del medesimo pater se questi fosse ancora vivo. E' un istituto teso a impedire la frantumazione della familia alla morte del pater. Familia (proprio iure). Composta dalle persone libere soggette alla potestà del medesimo pater (essenzialmente la moglie, i figli e gli altri discendenti di lui in linea maschile).Flamen Dialis, Martialis, Quirinalis. Antichi sacerdoti del tempo della monarchia che in età repubblicana avevano funzioni puramente decorative.Foedera. Trattati conclusi da Roma con altri Stati. Si distinguono in foedera aequa se i due Stati sono su un piano di parità, e iniqua,

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che riguardano soprattutto le città italiche, in cui Roma ha una posizione di supremazia e si riserva in particolare ogni decisione di politica estera.Foro. Piazza lastricata fra il Campidoglio e il Palatino. Nel Foro si svolgeva gran parte della vita politica di Roma, ma non quella istituzionale dato che il Senato doveva essere convocato in un tempio consacrato e le assemblee popolari si facevano, in genere, al Campo Marzio. Si tenevano orazioni al popolo, ma soprattutto si faceva molta flanella politica. Può essere assimilato, in un certo senso, al nostro Transatlantico.Gens. Il complesso dei cittadini che si dicono discendenti da un unico, e spesso mitico, capostipite e hanno in comune il nomen gentilizio.Honestiores. Sono gli aristocratici e i cavalieri contrapposti agli humiliores, come vengono anche chiamati i plebei. Hospitium. E' il diritto di ospitalità e di tutela giuridica che Roma concede ai cittadini di uno Stato straniero. E' di grado superiore alla amicitia che si risolve nel mantenimento della pace e di relazioni diplomatiche fra i due Stati con l'obbligo reciproco di non prestare aiuto al nemico della controparte.Hostis. Nemico della patria. E' lo Stato o il cittadino straniero con cui non ci sono relazioni di amicitia. Anche un cittadino romano, con determinate procedure, poteva essere dichiarato hostis e perdeva la cittadinanza con tutti i diritti connessi.Imperium. E' il comando con potere coercitivo, di derivazione militare, che spetta alle magistrature più elevate, come i consoli e i pretori. Ma non a tutte: il censore, di rango superiore al pretore, non ne dispone.Intercessio. Diritto di veto dei tribuni della plebe avverso gli atti di qualunque magistrato. Anche i due consoli hanno un reciproco diritto di veto.Interrex. In epoca monarchica, in una situazione di vacanza del re, i patres nominano un interrex che governa fino alla consacrazione del nuovo re. L'istituto resiste durante la Repubblica e viene utilizzato in caso di vacanza di entrambi i consoli.Italici. Sono gli abitanti dell'Italia che non fanno parte dello Stato romano. Nell'88 a'C' venne concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti della penisola fino, a nord, all'Arno e all'Eusino. Dopo di allora per Italici si intendono gli abitanti della penisola che non risiedono a Roma e dintorni.Legati. Coadiuvano nel comando militare il governatore di una provincia e hanno svariate altre funzioni anche giurisdizionali.Liberti. Schiavi liberati dai loro padroni. Hanno personalità giuridica ma non sono cittadini romani. Hanno capacità patrimoniale.Magister equitum. Magistratura straordinaria legata alla dittatura. E' nominato dal dittatore e, come questi, dura in carica sei mesi. Ha le funzioni di comandante in seconda dell'esercito e di comandante della cavalleria. E' di rango pretorio.Magistrature. In ordine di importanza le magistrature ordinarie sono: consolato, censura, pretura, edilità, questura. Nel loro complesso costituiscono il potere esecutivo. A esse si aggiunge, in una posizione un po' particolare, il tribunato della plebe. Sono elettive, annuali ed esercitate a titolo gratuito.Manus. La patria potestà che il paterfamilias ha su tutti i membri, anche adulti, della familia. Solo il paterfamilias ha piena capacità giuridica, i filiifamilias e la moglie, se soggetta a manus, non hanno, tra l'altro, capacità patrimoniale.Municipi. Centri locali che fanno parte del territorio romano e sono abitati da cittadini romani ma conservano, per tradizione e ricordo

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di quando erano città libere, una propria autonomia amministrativa.Optimates. I rappresentanti dell'aristocrazia. Palatino. Il colle su cui si insediarono i primi agglomerati che diedero origine a Roma. In seguito divenne il quartiere più esclusivo della città.Patres. In origine sono i paterfamilias dei gruppi gentilizi e nominano il re. In età repubblicana sono i senatori patrizi; quando infatti in Senato vengono ammessi anche individui di origine plebea costoro vengono chiamati conscripti. Di qui la formula patres et conscripti per indicare i membri del Senato. Patrizi. I discendenti delle antiche famiglie che avevano fondato Roma. La nobiltà originaria.Peculatus. Sottrazione di denaro pubblico. Il responsabile era condannato a pagare il quadruplo di quanto aveva peculato.Perduellio. Delitto di alto tradimento detto anche praeditio. Plebei. Possono essere definiti solo in negativo: sono coloro che gentes non habent, non possono cioè vantare una discendenza da un capostipite gentilizio. Quando compaiono i cavalieri, i plebei diventano coloro che non appartengono né all'aristocrazia né all'ordine equestre e vengono per ciò chiamati humiliores. Pontefice Massimo. Presiede il collegio dei pontefici formato da cinque sacerdoti. Suprema autorità religiosa romana. Conserva una certa importanza per tutta la Repubblica, poi la carica verrà assorbita dall'imperatore.Populares. Sono i rappresentanti del partito democratico nato dopo l'esperienza dei Gracchi.Pretori. Hanno le stesse funzioni dei consoli e sono ad essi subordinati. In più, come specifica competenza, hanno la giurisdizione civile.Princeps del Senato. Era il senatore più anziano che avesse ricoperto la carica di censore. Proconsole. Dopo aver esercitato il suo mandato il console andava a governare una provincia col titolo di proconsole. Proletari. Coloro che non possiedono terre né altri beni e la cui unica ricchezza è costituita dalla prole. Fino alle leggi gracchiane non avevano l'obbligo del servizio militare.Propretore. Dopo aver esercitato il suo mandato il pretore poteva essere inviato a governare una provincia col titolo di propretore. Proquestore. In mancanza di un proconsole o di un propretore la provincia è governata da un questore con il titolo di proquestore. Province. Territori extraitalici assoggettati da Roma e governati da un magistrato romano (proconsole, propretore, proquestore) il quale esercita poteri militari, amministrativi e la giurisdizione criminale. Alle province viene lasciata un'ampia autonomia nell'ambito del diritto privato e della giurisdizione civile che è esercitata da magistrati locali. L'Italia romana va dall'Appennino emiliano alla punta dello Stivale, per cui sono province la Sicilia, la Sardegna e la Padania chiamata Gallia Cisalpina per distinguerla dai territori al di là delle Alpi (Gallia Transalpina). Provocatio. Il diritto del cittadino romano di appellarsi al popolo (comizi centuriati) in caso di condanna alla pena capitale (morte o esilio) per reati a sfondo politico.Publicani. Appaltatori delle tasse. Presenti soprattutto nelle province che erano soggette a tributo nell'ordine della decima parte dei prodotti del suolo (decima). Poiché ai senatori, e quindi agli aristocratici, era proibita questa attività i publicani costituivano il nerbo dell'ordine dei cavalieri. Quaestiones perpetuae. Tribunali permanenti per reati di particolare gravità sia politico-amministrativi (alto tradimento, attentato alla

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sicurezza dello Stato, concussione, peculato, sacrilegio, broglio elettorale) che di diritto comune (omicidio, violazione di domicilio, bastonate, percosse, adulterio, falso, plagio).Questori. Hanno la cura e la sorveglianza dell'Erario. Ma col tempo sviluppano come funzione principale la giurisdizione criminale per reati comuni. Sono otto.Relatio. Relazione introduttiva con la quale il magistrato che presiede l'assemblea mette in discussione le proposte all'ordine del giorno.Rogatio. Testo del progetto di legge.Schiavi. Non hanno personalità giuridica. Sono, per il diritto, delle cose.Senato. Pur avendo dal punto di vista formale funzioni quasi esclusivamente consultive e di controllo ha la direzione politica della società ed è il vero governo di Roma. I consoli, che hanno il potere esecutivo, lo esercitano, di fatto se non di diritto, su direttiva del Senato. I senatori sono 300 (per qualche breve periodo 600) e la carica è vitalizia. In Senato si entra dopo aver esercitato una magistratura e le magistrature, anche se teoricamente aperte a tutti, sono appannaggio degli aristocratici e dei ricchi poiché comportano una dispendiosa campagna elettorale.Senatus consultum. Deliberazione del Senato. Senatus consultum ultimum. Provvedimento straordinario con cui il Senato conferisce i pieni poteri ai consoli. Socii. Alleati dei romani. Di qui la denominazione di guerra sociale, che può indurre in equivoco, data alle lotte degli alleati italici per ottenere la cittadinanza romana.Tribù. Ha due significati. Uno etnico e indica le tre leggendarie tribù dei Tities, dei Ramnes e dei Luceres in cui in origine sarebbe stato suddiviso il popolo romano. Uno giuridico, più importante, e indica la suddivisione, su base territoriale, della società romana in 35 tribù di cui quattro urbane (Suburana, Esquilina, Palatina, Collina) e 31 rustiche nelle quali ultime venivano soprattutto inglobati i nuovi cittadini romani che diventavano tali a seguito delle conquiste.Tribuni aerarii. Scelti fra le tribù di censo elevato, in origine hanno il compito di pagare lo stipendio ai soldati della propria tribù. In seguito vengono chiamati a far parte dei tribunali affiancando, nel ruolo di giudici, senatori e cavalieri. Tribuni della plebe. Inizialmente hanno il compito di difendere il singolo cittadino da atti arbitrari del magistrato. In seguito questa tutela si estende ai più generali interessi del popolo. Il loro strumento è il diritto di veto (intercessio) che possono opporre a qualunque magistrato, ordinario e straordinario e anche a un altro tribuno. Hanno iniziativa legislativa. Sono dieci e questo, con il gioco dei veti incrociati, è il loro tallone di Achille.Triumviri capitales. Presiedono alle esecuzioni capitali.Vestali. Sacerdotesse addette al culto di Vesta, dea del focolare sia domestico sia dello Stato. Sono sei. Scelte dal Pontefice Massimo fra le bambine nobili dai sei ai dieci anni avevano come compito principale quello di mantenere acceso il fuoco sacro. Servivano il culto per trent'anni durante i quali avevano l'obbligo della castità. Solo dopo potevano sposarsi.'bd^

Fonti antiche

Appiano, Mitridate.Appiano, Storia delle guerre civili.

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Asconio Pediano Quinto, Orationum Ciceronis quinque enarratio.Cicerone, Catilinarie.Cicerone, Altre orazioni (Academica, De lege agraria, De haruspicum responsis, Filippiche, In Pisonem, In toga candida, In Vatinium, Pro Caelio, Pro Flacco, Pro Murena, Pro Plancio, Pro Sestio, Pro Sulla).Cicerone, Dialoghi (De consiliis suis, De officiis, Orator).Cicerone, Lettere (Ad Atticum, Ad familiares).Cicerone Quinto, De petitione consulatus.Corpus Inscriptionum Latinarum (Cil). Didio, Invettiva di Cicerone contro Sallustio.Diodoro, Biblioteca.Dione Cassio, Storia romana.Floro, Epitome de Tito Livio omnium annorum.Aulo Gellio, Notti attiche.Leneo, Satira contro Sallustio.Livio, Ab Urbe condita.Livio, Periochae.Orosio, Historiarum adversus paganos libri Vii.Plinio il Vecchio, Storia naturale.Plutarco, Vite parallele (Vite di Antonio, Bruto, Catone il Giovane, Cesare, Cicerone, Crasso, Gracchi, Lucullo, Silla).Polibio, Storie.Quintiliano, Institutionis oratoriae libri Xii.Sallustio, Storie.Sallustio, Invettiva contro Cicerone.Sallustio, La congiura di Catilina.Sallustio, La guerra di Giugurta.Scoliaste di Bobbio a Cicerone. Scoliaste a Giovenale. Svetonio, De Grammaticis.Svetonio, Vite dei Cesari (Vite di Augusto e Cesare). Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium.Velleio Patercolo, Storia romana.Virgilio, Eneide.par

Fine