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Dentro il medioevo. Temi e ricerche di storia economica e sociale Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena diretta da Giovanni Cherubini, Franco Franceschi e Gabriella Piccinni 2 La grafica del logo è di Augusto Mazzini, libera rielaborazione dell’immagine del mese di otto- bre, di anonimo, in Salterio, The Hague, conservato nella Bibliote- ca Reale del Belgio.

Piccolomini a Siena, XIII-XIV secolo. Ritratti possibili, Pisa 2005

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Dentro il medioevo.Temi e ricerche di storia economica e sociale

Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena

diretta da Giovanni Cherubini, Franco Franceschi e Gabriella Piccinni

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La grafica del logo è di Augusto Mazzini, libera rielaborazione dell’immagine del mese di otto-bre, di anonimo, in Salterio, The Hague, conservato nella Bibliote-ca Reale del Belgio.

Dentro il medioevo.Temi e ricerche di storia economica e sociale

Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena

diretta da Giovanni Cherubini, Franco Franceschi e Gabriella Piccinni

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La grafica del logo è di Augusto Mazzini, libera rielaborazione dell’immagine del mese di otto-bre, di anonimo, in Salterio, The Hague, conservato nella Bibliote-ca Reale del Belgio.

Volumi pubblicati

1. Duccio Balestracci, Cilastro che sapeva leggere. Alfabetizzazione e istru-zione nelle campagne toscane alla fine del Medioevo (xiv-xvi secolo)

Dentro il MeDioevo. teMi e ricerche Di storia econoMica e sociale

Dentro il Medioevo. Temi e ricerche di storia economica e sociale, è una collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena, diretta da Giovanni Cherubi-ni, Franco Franceschi e Gabriella Piccinni, nella quale vengono pubblicati tanto i risultati di ricerche originali quanto rivisitazioni tematiche relative alla società medievale, alle sue articolazioni e ai conflitti interni, alle sue idealità e aspirazioni, alla fisionomia economica delle città e delle campagne.

Roberta Mucciarelli

Piccolomini a siena XIII-XIV secolo

Ritratti possibili

Pacinieditore

© Copyright 2005 by Pacini Editore SpA

ISBN 88-7781-669-4

Realizzazione editoriale

Pacini Editore SpAVia A. Gherardesca56121 Ospedaletto (Pisa)

Responsabile tecnicoMauro Pucciani

Responsabile editorialeElena Tangheroni Amatori

Progetto graficoFabrizio Sodini

Fotolito e StampaIndustrie Grafiche Pacini

Volume pubblicato con il contributo del Ministero dell’Università e della Ricerca, cofin 2001

In I e in IV di copertinaDescendenze tratte dall’arbore della famiglia Piccolominea ristrette alli soli stipiti dei viventi nell’anno MDCLXXXIII, Archivio di Stato di Siena, Collezioni stampe (autoriz-zazione n. 618/2005)

Sono vietate ulteriori duplicazioni o riproduzioni con qualsiasi mezzo

Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fa-scicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000.Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall’editore.

Per Oliver, Ollie suo padre

- Agente Starling, crede davvero di potermi sezionare con un piccolo strumento spuntato?

- No. Credo che lei possa fornire indicazioni utili a far progredire questo studio

- E quale ragione dovrei avere?- La curiosità

- Per che cosa?- Per la ragione per cui è qui. Per ciò che le è successo

- A me non è successo niente, agente Starling. Io esisto e basta.

(T. Harris, Il silenzio degli innocenti)

INDICE

Introduzione Piccolomini a Siena: una proposta . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. pag. 9 Fra ritratti arbitrari e biografie impossibili. Intorno a storia, narrazione e biografia .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 23

I - Trionfi. L’epopea dei mercanti

1. Ranieri di Rustichino La via della salvezza . . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 73 Orizzonti ideali, terreni politici, qualifiche professionali. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 86 Post mortem. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 93

2. Piccolomo di Oltremonte Avventure e ‘preziosi torselli’.. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 115

3. I discendenti di Ranieri di Rustichino 3.1 Ranieri di Rustichino il giovane . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 138 Gli affari: Ranieri e il patriarca . . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 138 A Venezia . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 143 Uomini nuovi in compagnia. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 144 Ragioni di una presenza .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 147 A Siena . . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 150 Nel commercio di panni .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 152 La politica. Lo slittamento: dalla fedeltà all’impero al grembo di Urbano IV .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 157 La mediazione: Ranieri entra in città .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 167

3.2 Enea di Rinaldo Il costo della pace.. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 171

II - Equilibri. Fra terra e mercatura, la politica

1. Rinaldo di Turchio Violenza magnatizia . . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 211 Rituali visibili come creatori di prove.

L’Indice dei nomi è consultabile on line, sulle pagine del sito web del Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Siena (www.storia.unisi.it)

Definizione di un ceto .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 220 Tra legge, pragmatismo e propaganda. L’azione del governo popolare .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 237 La strategia perdente di Rinaldo. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 251

2. Guglielmino di Guglielmo e suo figlio Meuccio “Maladette ricchezze”: i crediti politici .. . .. . .. . .. . .. . .. » 293 L’usura, la terra, l’impresa .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 311 Ultime volontà. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 323

III - Disordini. Sventure, ribelli, resistenze

1. Agnese di Manno Agnese la madre: un ritratto nel ritratto . . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 363

2. Pietro di Salomone e i suoi fratelli Il pupillo .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 391 Nella lotta politica (1355-1385).

Viva la rivoluzione . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 393 Le proposte di Pietro . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 397 Giochi di specchi. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 406 Il trattato e la trattativa .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 408 Consoli e farsetti . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 415 Il braccio di ferro: la guerra di Pietro e Spinello. .. . .. » 419 Il braccio di ferro: il lodo della pace . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 422 Rapito .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 425 Una formale obbedienza.. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 427 La danza dei regimi .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 429 Eredità.. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 432 Patrimoni e discendenze .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 435

Conclusioni. La metamorfosi e la memoria . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 481 Abbreviazioni . . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 512 Indice delle fonti utilizzate .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 515 Indice dei manoscritti .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 518 Indice delle opere citate. .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. . .. » 520

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RobeRta MucciaRelli

introDuzione

Piccolomini a Siena: una proposta

1. Questo libro racconta la storia, nel corso di due secoli circa, di un lignaggio magnatizio. E la racconta a partire dalla vi-cenda in città, nella città comunale, di alcuni uomini e donne. Pochi protagonisti cui viene affidato il compito di narrare i fat-ti, le relazioni, gli interessi, le strategie di affermazione di una famiglia dall’epoca del suo primo ingresso nel teatro urbano, fissato tra gli ultimi decenni del XII secolo e l’inizio del XIII, fino a quei decenni centrali del secolo XV quando l’ascesa al soglio pontificio di un suo esponente innesca vistose smaglia-ture nella tradizione: è il 1458 e il sistema famiglia-città con i suoi consolidati meccanismi, i rituali, le formalizzazioni, non resiste all’urto imposto dall’elevazione di Enea Silvio al seggio romano.Alcune precisazioni si impongono. Una prima riguarda il signi-ficato con cui utilizzo nel testo il termine di ‘strategie’: opzioni, all’interno di più vasti campi di possibilità, che hanno in sé tanto il carattere del progetto (della libertà, della volontà indi-viduale) quanto quello della necessità. Poiché la strategia nasce in relazione alle risorse di ciascun attore in un contesto dato, non sempre e non soltanto definisce comportamenti fortunati e risultati di successo, a cui invece spesso il termine viene associa-to. Ma c’è di più. La prospettiva biografica mette in rilievo una pluralità di soggetti, una pluralità di contesti, una pluralità di strategie; individua le interazioni tra comportamenti individua-li e tra comportamenti individuali e comportamenti familiari; scopre che ciò che si traduce in un saldo attivo o passivo per l’attore individuale può non esserlo per l’attore collettivo.Inoltre. La periodizzazione proposta, che abbraccia circa due secoli e mezzo, individua un coerente blocco di indagine: il rap-

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PiccoloMini a Siena (Xiii-XiV Secolo) - RitRatti PoSSibili

porto, o meglio il problema dei rapporti, con il potere politi-co e le sue ricadute a livello sociale, economico, istituzionale. Trattando di potere risulterà chiaro come la rappresentazio-ne della società secondo il modello marxista e strutturalista, spartiacque metodologico che ha delimitato due grandi aree del discorso storico diviso nella lettura della società come, sem-plificando, corpo diviso in due o come insieme funzionale, ha anche qui ceduto il posto a qualcosa d’altro: lo studio del caso senese nei secoli finali del Medioevo mi induce infatti ad ipotiz-zare che è nella dialettica del conflitto, sociale 1, politico 2, non sempre e non solo dualistico e non sempre e non solo incom-ponibile alla maniera salveminiana – ma al contrario capace di produrre equilibri di faticoso compromesso più o meno du-raturi – il miglior grimaldello interpretativo 3. Richiamo sche-matico, addirittura scheletrico per chiarire qual è stato il modo con cui ho scelto di interrogare le fonti e il perché del ricorso tanto consueto, nell’esposizione, a termini come conflitto, ne-goziazione, contratto ecc.Non è qui il caso di una rassegna circostanziata delle peripezie che hanno partorito questo ‘modello’ del conflitto, come incau-tamente provo a chiamarlo, e che coprono la storia istituziona-le, sociale, economica della città e del suo ceto dirigente duran-te i secoli che costituiscono l’arco cronologico della ricerca. Ma alcuni passaggi essenziali vanno richiamati.Il Duecento introduce a Siena, e in tutti i comuni italiani, una complicazione nella ripartizione del potere: la volontà popolare di presenza politica. L’informe populus dell’XI secolo è diven-tato, per il tramite di processi espansivi di segno demografico, economico, sociale, una multiforme e vigorosa organizzazione di interessi che adesso, in opposizione ai milites, rivendica il governo della città, avoca a sé la gestione della cosa pubblica, pretende che le antiche e grandi famiglie si facciano da parte. Portato di questa evoluzione, e delle inedite tensioni che essa scatena, è un vasto complesso normativo di sapore antima-gnatizio che presenta caratteri differenti a seconda delle città

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RobeRta MucciaRelli

ma che ovunque ha l’effetto di far emergere, anche se a diversi livelli di precisione e rigore, una pars populi decisa ad inter-venire anche duramente per realizzare un contenimento dello strapotere e del ruolo istituzionale dei nobiles. La costruzione degli argini è variamente interpretata e perseguita: limitando o vietando l’accesso ad uffici e magistrature comunali, instau-rando un controllo dei comportamenti sociali, prospettando sanzioni speciali in caso di turbolenze ed eccessi o prevenendoli con l’imposizione di fideiussioni personali e reali 4. Come già faceva notare Paolo Cammarosano alcuni anni fa, una visione “rigidamente classista” ha ricondotto per lungo tempo la storia senese dei secoli XIII e XIV entro lo schema lineare di un’ascesa della borghesia contro il ceto nobiliare, senza coglierne la reale evoluzione sociale e politica assai più complessa del mito di “un Popolo che avanza e una nobiltà che deve acconciarsi ad una passiva resistenza” 5. I fatti rivelano una dinamica più articolata e meno dicotomica: il ruolo delle componenti nobiliari nelle vicende di questi anni non può es-sere schiacciato e compreso nei termini di ‘resistenza’, prima, e ‘reazione’ signorile dopo; la mancata aderenza fra la funzione ricoperta da molti aristocratici e la loro fisionomia cetuale 6 scopre larghi cedimenti nel tessuto tutt’altro che levigato della dialettica sociale e affonda l’illusione di una facile rappresen-tazione delle forze nobiliari come ceto perennemente opposto al popolo e implacabilmente egemone nei suoi confronti 7, sug-gerendo l’esigenza di elaborare visioni meno (ideologicamente) semplificatrici.Il traghettamento ad un Comune di Popolo così come l’appia-namento del ‘problema magnati’, ristretto gruppo di famiglie potenti e ricche non perfettamente sovrapponibile al composito ceto dei milites del primo Duecento, avviene a Siena attraver-so la mediazione di alcuni segmenti magnatizi e la soluzione alle esigenze di pacificazione sociale da un lato e costruzione statuale dall’altro è sperimentata in un governo assai longevo, espressione dei ceti mercantili, che riuscì a realizzare i suoi pro-

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positi grazie al concorso, variamente dosato, delle forze nobi-liari alla gestione della cosa pubblica. Ma la permanenza in un ruolo di primo piano di molti esponenti dell’élite magnatizia, che sembra contraddire l’efficacia di una normativa operan-te, non deve essere tradotta come segno di una anacronistica permanenza nobiliare. La presenza, al contrario, di esponenti dei potenti ‘casati’, come a Siena vengono definiti dagli anni Settanta i magnati, in molti gangli dell’amministrazione e del governo fu piuttosto frutto di un inedito compromesso, difficile e mai definitivo, su cui si misurarono e scontrarono interessi spesso, ma non sempre, divergenti 8. I governanti popolari in-vitarono gli uomini e le famiglie di ‘grandi’ a dislocare le loro attitudini e le loro capacità a servizio dello stato e a livellare le loro aspirazioni a un grado compatibile con gli sviluppi in atto, ma questa dislocazione fu a tratti perturbante, persino doloro-sa: il che spiega taluni fenomeni di resistenza e di conflitto più o meno manifesto. Ogni processo di mutamento scatena inerzie fortissime. Ma, generalmente, il sistema consociativo di potere che si realizza sulle braci spente della lotta milites-populares e dello scontro guelfi-ghibellini che si imbricò in quella e che aveva ammantato buona parte del secolo XIII, è destinato a reggere fino a Trecento inoltrato: a prezzo di assestamenti con-tinui, estenuanti trattative, faticose convergenze.

2. Affrontare la storia di una famiglia magnatizia, i cui membri vengono indicati nelle fonti come nobiles viri, presuppone di-chiarare il proprio debito nei confronti di una storiografia che da molto tempo riflette sul problema della nobiltà – e del suo collegamento con la cavalleria – sul valore da attribuire a quel-la definizione, nonché sul carattere delle forze sociali comprese in quel contenitore. Si sa: la fluidità e la vischiosità del quadro medievale farebbe venir voglia di dire che, poiché rispetto ad interrogativi che pongono il problema della data di nascita di una nobiltà ‘di diritto’, delle sue articolazioni, dei suoi canali di

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trasmissione, delle forme in cui tale principio si affermò nella so-cietà, di sicuro non c’è che il punto di arrivo, ovvero la ‘chiusura’ della nobiltà formalmente sancita dalla normativa delle monar-chie nazionali, una storia della nobiltà come ceto non ha senso se non in epoca moderna, quando diventa osservabile a livello europeo un’omogeneità di situazioni che non a caso ha fatto parlare di ‘nobiltà internazionale’, dappertutto fondata su uno statuto giuridico particolare e perpetuata per via di sangue.Alla luce infatti dei valori fondanti di tale nobiltà rappresentati dai natali e dalla famiglia, dal senso dell’onore e dal servizio militare, dai titoli e dallo stile di vita, dall’autorità e dagli in-carichi esercitati, dalla ricchezza fondiaria posseduta 9, lo sce-nario medievale appare molto più sfumato: eppure è proprio qui, nella cornice della cronica instabilità istituzionale che lo avvolge, che Marc Bloch individuò l’origine e lo sviluppo di quegli elementi il cui incontro porterà alla trasformazione di una generica aristocrazia in nobiltà.Come è noto, la distinzione fra i due concetti già formulata da Guilhiermoz nel 1902 fu poi ripresa nel 1940 dallo storico che definì le condizioni-base perché una nobiltà potesse dirsi tale: il possesso di uno statuto giuridico proprio che formalmente con-fermi la sua superiorità o comunque le sue caratteristiche speci-fiche nei confronti di altre componenti della società, e l’eredita-rietà delle prerogative in tal modo sancite trasmessa attraverso la linea del sangue 10. Una nobiltà con queste caratteristiche si sviluppò in Europa non prima del XII secolo, per essere ricono-sciuta nel corso del successivo: prima, propone Bloch, occorre parlare di aristocrazia, o noblesse de fait, la cui legittimazione come noblesse de droit avviene attraverso il ricorso agli istituti cavallereschi. L’instabilità delle fortune che generava repentine ascese e altrettanto rapidi crolli, la scarsa memoria genealogica, l’origine talvolta oscura dei creatori delle fortune familiari, la mancanza di una gerarchia giuridica fra i ceti nel periodo più antico, facevano ricercare allo storico l’elemento generatore di tale identificazione nel momento in cui la crescita di forze

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sociali nuove, legate al mondo della città e al capitale mobi-liare, misero a dura prova la posizione egemonica dell’antica aristocrazia; ecco allora l’addobbamento cavalleresco assunto a simbolo di uno stile di vita diverso rispetto a quello borghese, in cui il ceto dirigente tradizionale avrebbe rintracciato lo stru-mento per preservare una posizione sociale eminente, non solo per i suoi membri ma anche per i discendenti di chi a quel rito e a quegli obblighi si sottometteva.In altre parole la cavalleria e l’adeguamento al suo statuto giu-ridico privilegiato avevano determinato, per Bloch, la nascita della nobiltà come ceto ereditario: un ceto eterogeneo per an-tichità e per origine accomunato però da una condizione di ricchezza, prestigio e potere ritenuta necessaria per accedere al titolo di miles; titolo che poteva essere acquisito sia da uomini appartenenti a famiglie potenti già nell’alto medioevo sia da uomini ascesi a fortune più recenti 11.Ripercorrendo gli sviluppi storiografici francesi e tedeschi 12, nel 1979 Giovanni Tabacco parlava di un “ritorno a Marc Bloch” da parte della medievistica più recente che a ben vedere riconosceva al secolo XI la funzione di corridoio verso l’assun-zione di una coscienza cavalleresca da parte dell’aristocrazia militare; ceto che solo alla fine del secolo successivo si sarebbe trasformato in nobiltà giuridica tramite il titolo cavalleresco. L’intervento di Tabacco, di poco successivo ad altri scritti del-lo stesso autore su milites bolognesi e fiorentini, misurava in quegli anni il crescere anche in Italia dell’interesse e del fervore intorno alla tematica relativa alla nobiltà e al suo rapporto con la cavalleria 13: a molti anni di distanza dal lavoro di Gaetano Salvemini che vedeva nella dignità cavalleresca il primo gradi-no della gerarchia feudale e il segno distintivo della nobiltà di nascita, dopo i brevi interventi sull’argomento di Gina Fasoli e Carlo Guido Mor, Tabacco apriva la strada a una ripresa de-gli studi nel settore attraverso la puntualizzazione dell’intero rapporto fra servizio militare a cavallo, istituzioni comunali e cavalleria di rito 14.

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In quel solco si inserirono nel corso degli anni Ottanta e Novanta i lavori di Maurice Keen 15; di Maire Vigueur che, nel quadro di un’analisi relativa all’Italia centrale, sottolineò con decisione il ruolo dei milites e la diffusione di ideali e pratiche cavalleresche anche durante gli anni dell’antimagnatismo 16; gli studi di Cardini che affrontò il problema per l’area to-scana: la dignità cavalleresca è per lui un elemento fondante dell’avanzare e dell’affermarsi di una coscienza nobiliare da parte dell’aristocrazia comunale i cui segni distintivi – ravvi-sati nel possesso di case fortificate in città, nella pratica della vendetta e nel possesso della dignità cavalleresca – offrono di questi nobiles un’immagine molto lontana dall’idea chiusa di una nobiltà di sangue, quale invece prospettava Salvemini 17. A Stefano Gasparri si deve la precisa puntualizzazione del nesso esistente tra cavalleria e nobiltà: è l’intero complesso delle ri-tualità cavalleresche e non solo l’addobbamento a disegnare i confini del ceto aristocratico nelle città italiane rafforzando la consapevolezza interna di un ceto che tendeva, senza peraltro mai riuscire a chiudersi, a porsi come vera e propria nobiltà. Una nobiltà lungi dall’essere una istituzione formale in sé chia-ramente definita sulla base del sangue o su quella delle istitu-zioni feudo-vassallatiche 18.È evidente infatti come nell’ambiente cittadino italiano il pro-blema si ponga in maniera differente rispetto ai paesi d’oltral-pe. Se si volge lo sguardo alla militia cittadina dei comuni due-centeschi ci si accorge che ad essa hanno avuto accesso tanto famiglie ricche e non nobili quanto stirpi di antica tradizione cavalleresca che le esigenze militari del Comune – dotato di un proprio esercito articolato in milites e pedites – hanno contri-buito ad assimilare: con lo sviluppo del Comune si inurbano i signori locali, presumibilmente addobbati, che militando a cavallo favoriscono un avvicinamento sociale con il ceto emi-nentemente cittadino e sollecitano una sua presa di coscien-za in senso cavalleresco anche con la diffusione nell’ambiente urbano dei riti della cavalleria. Un rituale dai confini molto

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ampi – dall’addobbamento, al torneo, dalla festa alla brigata cortese – che viene assunto e fatto proprio da quel composito ceto di milites che a diversi livelli di ricchezza e potenza com-batte a cavallo per il Comune; che, nella vita interna della città, manifesta la sua attitudine alla violenza nelle guerre private su base consortile; e i cui argini cetuali sono tracciati, verso il basso, dallo stile di vita cavalleresco, e verso l’alto dalla tradi-zione familiare che è tradizione di potenza economica e milita-re basata sulla pubblica fama ma anche tradizione di servizio armato per il Comune esercitato da generazioni. Una cavalleria ‘larga’ dunque, che rispecchia nella sua fluidità il concetto di nobiltà quale si riscontra nell’Italia delle città: un contenitore aperto “alla penetrazione di elementi economicamente dotati e socialmente prestigiosi non ancora rigidamente ereditari per-ché individuabili prevalentemente sulla base dell’auto ed ete-rovalutazione” 19.L’assimilazione sociale fra famiglie di diversa antichità e di di-versa fisionomia, che annullò le differenze tra le une e le altre e dette vita a un gruppo dirigente solido e duraturo, al cui in-terno furono via via ammessi anche nuovi membri, si realizzò tra la fine del XII secolo e le prime decadi del Duecento: forbice temporale che taglia e seleziona il corpo sociale in modo deci-sivo, con l’esito di far emergere, in luoghi diversi e con diverse modalità, élite nobiliari frutto di una operazione di scrematura ai vertici della società 20.All’età podestarile, si allaccia anche la prima storia, ancorché molto crepuscolare, dei Piccolomini, destinati a svolgere un ruolo precipuo nella vita comunale dei decenni successivi: la storia del lignaggio si avvia dentro questa nicchia cronologica che corrisponde dunque a un tornante decisivo nel processo di selezione delle famiglie costituenti i vertici economico-sociali urbani ma il cui apprezzamento è reso possibile soltanto grazie ad un punto di vista posteriore, un balzo in avanti sulla scala del tempo che conduce direttamente all’ultima generazione del Duecento, e più specificamente in quell’anno 1277, quando a

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RobeRta MucciaRelli

Siena un provvedimento normativo toglie il velo ai cinquanta-tré lignaggi ormai stabilizzati alla punta della piramide socia-le. Una storia che sta dentro una più ampia storia: quella del rapporto tra fenomeni di mobilità, stabilizzazione, regressione sociale e il complesso dell’evoluzione politica, istituzionale ed economica cittadina. Porre infatti al centro dell’analisi i secoli XIII e XIV, che sono gli anni della vorticosa ascesa politica ed economica di Siena e insieme del rapido tracollo che condanna-rono la città alla perdita del suo peso sul raggio internazionale e a un forte ridimensionamento su quello regionale, significa non sfuggire al nodo della ‘crisi’ tardo medievale e penetrare al cuore dei problemi aperti, da un lato, dalla ruralizzazione dell’economia cittadina e dalla riconversione delle risorse e, dall’altro, da una forte instabilità istituzionale che indirizza la formazione dei governi verso soluzioni di coalizione tra gruppi politici sociali che si irrigidiranno via via in vere e proprie fa-zioni – i cosiddetti ‘monti’ – la cui appartenenza stabilisce per il singolo e la sua famiglia l’ammissibilità o meno alle cariche politiche e amministrative del Comune.

3. Perché frammentare la storia familiare in una serie di ritratti individuali, ancorché il passo dalla prosopografia alla biografia non sia molto grande? Il dato di partenza è stato il desiderio di sottoporre a verifica l’ipotesi che questa via potesse aprire una prospettiva più articolata, un metro di indagine e di lettu-ra più aderente, più sensibile, rispetto al modo un po’ troppo sbrigativo a cui talvolta spinge l’uso della nozione di ‘famiglia’: con i rischi di obliterazione e omologazione conseguente. E po-trei anche aggiungere che, in sottofondo, quell’odore di carne umana, con cui Marc Bloch traduceva mezzo secolo fa meta-foricamente un senso metodologico ed esegetico, non cessava evidentemente di esercitare un grande fascino orientativo, spin-gendomi ad una piccola forzatura dell’interpretazione 21. Ma la scelta dell’approccio biografico doveva ben presto rivelarmisi

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assai ricca di implicazioni, e complicazioni, che avevano a che fare con i modi e le forme della scrittura storica ed arrivavano ad investire lo stesso orizzonte epistemologico della disciplina, obbligandomi a fare i conti con un dibattito che vedeva misu-rarsi storici, teorici della storiografia, filosofi della storia, let-terati. La biografia era insomma ben più del ferro vecchio del mestiere. Era semmai un ferro incandescente. Un termometro sensibilissimo capace di registrare, decennio dopo decennio, variazioni tematiche, teoriche, metodologiche del fare storia.

L’archivio della famiglia Piccolomini è costituito da scritture e registri pressoché riferibili all’età moderna e contemporanea 22. La documentazione quindi su cui la ricerca si basa è per gran parte di matrice pubblica e comunale (scritture finanziarie, esti-mi, atti deliberativi e normativi, cui si aggiungono fonti cro-nachistiche) per sua natura dunque riluttante a ricostruire ca-ratteri e personalità individuali. Se non per frammenti. Questo condizionamento avrebbe dovuto sconsigliare un approccio biografico? Ho ritenuto evidentemente di no. Non soltanto perché, sul piano del metodo, la letteratura storiografica ha dimostrato che anche una documentazione esigua può essere messa a frutto per ricomporre delle biografie 23, quanto perché, nella concretezza del caso, il materiale documentario che avevo a disposizione si rivelava capace di parlare.Ma che cosa chiedevo ai protagonisti? Prima di tutto di essere figli più del loro tempo che dei loro padri: di agganciare la loro esperienza, individuale e pertanto unica e irripetibile alla società in cui vivevano, di farsi autori di un gesto che sollevas-se problemi, di essere strumento e veicolo di una aggressione, concreta e non generica, dello storico ai nodi del tempo di cui erano parte. I personaggi che mi interessavano, potevano così anche emergere dalla retrovie, dai territori meno nobili del-la storia familiare, potevano essere uomini o donne che mai avrebbero trovato posto in una delle molte gallerie arredate dagli eruditi d’età moderna con i ritratti degli uomini illustri

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di cui è pieno l’archivio familiare, potevano anche venir fuori dagli strati meno densi dal punto di vista della sedimentazione documentaria: ma dovevano essere di prima fila per le que-stioni che sollevavano e che lasciavano ben trasparire le tracce impresse dallo scorrere delle vicende politiche ed economiche. Che sempre suggeriscono e sostengono i destini individuali.L’assunzione di questa prospettiva discriminante ha indirizzato di conseguenza la scelta (e la critica) delle vite presenti nello schedario prosopografico, e dentro le vite, la valorizzazione di alcune notizie. In questa misura i ritratti biografici sono frutto di una duplice operazione di selezione: la prima, costitutiva, di cui si è detto, che affonda le sue radici nei modi originari della produzione di scritture e della tradizione documentaria, la seconda, che ho sovrapposto a quella, dipendente dal metro metodologico di chi, come la sottoscritta, è molto lontana dal credere che ogni particolare di una vita sia significante per lo storico. Il risultato è un prodotto che non cela le discontinuità: le biografie, o meglio le minibiografie, ritagliate sul calco di una documentazione più ricca o più avara, non si codificano secon-do frequenze costanti e medesimo ritmo e la trama delle stesse storie individuali forma un insieme nebuloso di zone d’ombra e di luce. Le zone luminose sono i ‘crateri’ della storia: è lì che la vita precipita e si fa incandescente, e lì che si trova la mag-gior concentrazione di materia, il gancio che unisce l’esperien-za del protagonista ai problemi del suo tempo (e ai problemi del nostro tempo storiografico). A differenza di quanto accade in letteratura, dove Proust può indugiare molte pagine su fatti esiziali e spalmare di tempi morti le sue pagine, indugi, pause, minima la cui funzione ha a che fare con lo stile, l’estetica, la psicologia 24, credo che lo sforzo dello storico-biografo debba invece essere quello di individuare e concentrarsi sui momenti-cratere, momenti in cui accadono cose che giustificano la storia, quelle cose che danno senso a ciò che, separato da tali crateri, non avrebbe per l’appunto molto senso.

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Tra il destino dell’uomo e la vita del biografato esistono, dun-que, com’è ovvio, delle discrasie. Il filo dell’itinerario biografico non risponde al filo della vita, e non solo perché a volte la trava-lica: andando ad interrogare le generazioni precedenti o quelle future. Il tempo cronologico dell’esistenza, dall’andamento ret-tilineo e necessario (si nasce, si cresce, si muore), è qui sovver-tito, frammentato, ricomposto in virtù di una gerarchizzazione imposta dallo storico (e allo storico imposta): se la storia di Ranieri di Rustichino, con cui si apre il volume, si spalanca violentemente sul cielo notturno della morte, è perché l’atto te-stamentario costituisce il momento documentario-ermeneutico più rilevante, il perno attorno a cui ruota la possibilità di acce-dere all’uomo-personaggio-problema: ultima immagine di una vita che dà la possibilità allo storico di srotolarla a ritroso e recuperare, ancorché sul percorso accidentato e friabile delle tracce, delle ipotesi, delle interpretazioni, delle analogie, gli an-tecedenti di quel momento. L’inizio in medias res, cui segue un flash back esplicativo è uno dei topoi fondamentali del genere epico e romanzesco. Ma l’uso di questo artificio, le manovre di “prolessi” e “analessi” come Gérard Genette ha chiamato gli sguardi in avanti e all’indietro che anticipano o evocano fatti anteriori o posteriori al punto della storia, tecnica tanto usata nei testi narrativi 25, così come gli sguardi laterali, o se si prefe-risce, il campo lungo cinematografico che ingloba nello spettro di osservazione anche attori non protagonisti ed ha il compito, almeno nelle intenzioni, di fare della biografia un sistema aper-to (che attraverso l’evocazione di un ambiente, la ricostruzione dei molteplici fili che legano un individuo a una nicchia sociale, l’individuazione del reticolo dei rapporti familiari e interper-sonali distende le piste della narrazione e allarga l’indagine sul contesto), non sono qui escamotage narrativi. Bensì forme della narrazione che traducono una gerarchia di problemi, un punto di vista. E rispecchiano le potenzialità cognitive del personag-gio.Una caratteristica che contraddistingue il genere biografico è

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comunemente indicata nella “rappresentatività o tipicità sto-rica” del biografato 26. Presupposta o attribuita, in maggiore o minore misura, in modo più o meno esplicito. Mi sono spesso chiesta nel corso del lavoro quanto i miei protagonisti vantas-sero questa qualità. Le esperienze di alcuni soggetti manife-stano senza dubbio una affinità e una convergenza con coeve esperienze di uomini del loro ambiente più o meno latamente inteso (famiglia, città, società) e in questi casi mi è sembrato importante sottolineare il tratto comune che rende quell’uomo in qualche modo emblematico (di una categoria, di una dina-mica): ciò è particolarmente evidente ad esempio nel fortunato collegamento che molti uomini del lignaggio stabiliscono con il Comune – a partire dai primi decenni del Duecento – attraver-so il canale della loro competenza negli affari (la vita di Ranieri di Rustichino il vecchio è vistosamente paradigmatica di una modalità praticata diffusamente dalla sua famiglia), o ancora nel circuito, ben conosciuto nella società urbana del basso me-dioevo, che si realizza fra ricchezza e investimenti fondiari di cui Guglielmino di Guglielmo ci appare campione agli inizi del Trecento. Ma non sempre la relazione di rappresentatività è di segno positivo: quando l’individuo appare un “caso limite”, quando il suo profilo non aderisce ad un’area più vasta, quan-do la sua parabola non è inscrivibile nel tracciato del compor-tamento ‘più frequente’, quando si fa portavoce di una anoma-lia, che fare allora? Nella pratica della ricerca ho scoperto che è lì che la storia diventa più interessante perché ‘il caso’ offre l’occasione preziosa di incontrare lo scarto, di conoscere un cosmo quasi sempre buio e sotterraneo, costringendo a inda-gare il rapporto nuovo e possibile fra l’individuo e il sistema (sociale, economico, politico, culturale).C’è infine una terza possibilità: quando il biografato assume un valore che chiamerei ‘ricostruttivo’ o ‘integrativo’. È il caso del mercante Piccolomo di Oltremonte. Non possediamo per Siena niente di simile a un Benedetto Zaccaria: simbolo fortu-nato e insuperato dell’epopea degli uomini d’affari genovesi del

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Duecento attraverso la cui impetuosa vicenda biografica, tanto ricca di mari, di navi, di traffici, di guerre, di monete, Roberto Sabatino Lopez dette un volto all’esplosione commerciale e marittima di una delle grandi potenze del Mediterraneo me-dievale 27. L’importanza della banca e del commercio nella loro proiezione internazionale per la storia e lo sviluppo di Siena è un dato concordemente accettato dagli storici: ma il naufragio di quelle fonti di matrice aziendale che avrebbero potuto for-nire base per ricostruire concretamente attività e giro di affari, ha profuso di “ombre” più che di “luci” 28 il profilo del mercan-te banchiere dell’età aurea senese. Che rischia di diventare un idealtipo storiografico tanto ingombrante quanto sfuggente 29. Per questo motivo, pur a fronte di importanti messe a punto, non si è esaurita la necessità di integrazione delle conoscenze: e il recupero delle scorie e dei frammenti (biografici), che quel naufragio documentario ha depositato dietro all’onda cancel-latrice, può apportare a mio parere un contributo utilmente ricostruttivo 30.Infine. A proposito di naufragio. Piccolomini a Siena, è un mo-saico di minibiografie, piccole biografie, schegge biografiche, possibili biografie: sono parabole fulminee a volte quasi impal-pabili, brevi schizzi dedicati a piccoli particolari, che, stante il vizio di nascita, non si lasciano risolvere in un ritratto compiu-to. Di questa amputazione tuttavia vorrei sottolineare non solo il dato limitante – che coarta la possibilità di una ricostruzione a tutto tondo del personaggio e certamente della sua vita psi-cologica: le speranze, i segreti pensieri, le angosce che lo agita-vano – quanto la dimensione rivelatrice: la luce obliqua delle scritture che taglia il ritratto rifrange esattamente la memoria del potere ed è in questa rifrazione che può trovarsi un di più di conoscenza. Che il dato reagisce in maniera sensibile al proble-ma posto: così l’individuazione dei criteri di definizione e rap-presentazione del ceto magnatizio da parte del ceto dirigente popolare trova nel magnate Rinaldo di Turchio un osservatorio privilegiato per lo studio di quelle dinamiche.

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Vorrei paragonare le biografie che compongono questo libro ai fili colorati di una tela che, solo alla fine di una paziente tessitura, si compongono in una trama. Una stoffa dalla trama di seta decorata con disegni geometrici che corrono almeno in tre direzioni: verticalmente, la storia dell’individuo, orizzontal-mente, la storia del lignaggio, diagonalmente, la storia della città. Ma il rovescio dell’immagine potrebbe portare impressa anche un’altra storia: quella dei meccanismi e delle modalità di costruzione della memoria, dei bisogni e dei significati di legittimazione ad essa sottesi. A questo livello di lettura, la con-clusione del volume nel ‘secolo della memorialistica familiare’ com’è indicato il Quattrocento, con il problema che apre la re-dazione del primo superstite libro di ricordi redatto da Andrea, nipote del pontefice Pio II – ancorché di un libro di ricordi dalla fisionomia assai peculiare si tratti –, rappresenta la conclusione ideale, ma anche l’unica possibile, per chi si muove, almeno con lo sguardo, sui due livelli: con l’ingresso della famiglia nel campo della (auto)produzione di memoria si chiude un’epoca e comincia un tempo nuovo.

Fra ritratti arbitrari e biografie impossibili. Intorno a storia, biografia e narrazione

1. Fare storia utilizzando l’approccio biografico non è privo di aspetti problematici. Nel V secolo avanti Cristo Tucidide non nascondeva il suo aristocratico disprezzo per quello che consi-derava un genere troppo popolare, e due secoli più tardi Polibio insisteva sulla necessità di distinguere fra biografia e storia, convinto che l’obiettivo della seconda non potesse ridursi alla monografia, né alla drammatizzazione del racconto, ma mirare alle sintesi generali e applicarsi a stabilire la verità 31.Ancora nel 1968 uno scrittore americano, destinato ad essere canonizzato fra le icone della letteratura contemporanea, deci-deva di raccontare la storia della guerra in Vietnam, o meglio

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un episodio della contestazione contro la guerra in Vietnam, attraverso la (auto)biografia di Norman Mailer, ma non po-teva e sapeva esimersi dal sottolineare i rischi e le ambiguità dell’operazione perché, ammetteva lo scrittore già in aura di atteggiamenti estremi e provocatori, “scrivere la storia di un avvenimento accentrandola su un protagonista che non è al centro dell’avvenimento stesso non può ispirare che dubbi immediati sulla competenza dello storico o sulla rispettabilità delle sue motivazioni”. The Armies of the Night è una potente allegoria della difficoltà risolta o se si preferisce della risoluzio-ne difficile di far interagire lo ‘stile’ del narratore (e un critico eminente aveva detto che Mailer “teneva al proprio stile quan-to un tenore italiano alle proprie corde vocali”) e il proposito storico. La natura dell’episodio che Mailer voleva raccontare, la prima Marcia sul Pentagono del 21 ottobre 1967, era forse troppo arida, troppo dignitosa, troppo evidentemente lontana dal panache per far contento il romanziere e, del resto, la scelta della lente biografica, o se si vuole autobiografica (ma di una autobiografia negata attraverso il distacco imposto dall’uso della terza persona singolare), che immetteva nel racconto materia vitale e tumultuosa mostrava tutta la sua strutturale debolezza dal momento che si sarebbe potuto obiettare “che il personaggio che lo scrittore ha scelto è conveniente per lui, anziché essenziale alla storia”. Eppure il romanziere non aveva altra scelta: un’esegesi attenta del carattere “ambiguo” e “as-surdo” della marcia sul Pentagono del 1967 richiedeva che a parlare di quella marcia

non fossero i veri protagonisti, gli ideatori, gli organizzatori… tutte persone serie, dedite a un lavoro difficile e minuzioso… perché la loro posizione in questa faccenda, proprio perché era centrale, non può risolvere il problema dell’ambiguità. Per questo ci vuole un testimone oculare che abbia partecipa-to alla Marcia… che sia non solo coinvolto, ma ambiguo nel-le sue proporzioni, un eroe comico, insomma… o una figura ridicola con pretese di pseudo-eroismo, o un individuo non

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del tutto antieroico, che racchiude pertanto nella sua comici-tà qualcosa di tragico, o le due cose insieme, e tutte contem-poraneamente. Queste questioni che probabilmente non sono molto più risolvibili delle ambiguità stesse dell’avvenimento, servono se non altro a ritrovare il senso preciso dell’ambi-guità dell’avvenimento e delle sue sproporzioni monumen-tali. Mailer è un personaggio di sproporzioni monumentali e serve quindi, volente o nolente, come ponte, molti diranno come ‘pons asinorum’ per raggiungere il manicomio di quel momento storico… 32.

Icastico, brutale, provocatorio, originale, Mailer si buttava nella palta di un dibattito mai sopito, mai risolto, risolvendo e ribadendo alla sua maniera la possibilità per l’individuo, di farsi interprete dei fatti, ponte per la comprensione della storia: e la storia era chiaramente per Mailer l’evento. George Duby non aveva ancora scritto La domenica di Bouvines, ma quel 21 ottobre 1967 si poneva allo stesso livello euristico del 27 luglio 1214, “terreno privilegiato per analizzare intrecci”, scoprire tendenze, sollevare problemi 33. La storia è problema e prota-gonista colui che, pur dalla seconda fila, proprio perché dalla seconda fila, poteva farsene veicolo narrativo e cognitivo.Era il 1968. E a guardare oggi a quegli avvenimenti non pare strano, nella pluralità delle utopie, delle ipotesi rivoluziona-rie, delle speranze, dei radicalismi in cui in quegli anni (e in quell’anno) si declinava ‘il sogno’ alternativo dell’Occidente, trovare calato fra i sogni di quella generazione il desiderio di un romanziere di riempire la fossa scavata da Polibio, restituendo all’uomo dignità di gesto storico, capacità di parola. E proprio nel momento in cui i tentacoli di una annunciata, gigantesca, metastasi massmediale e tecnologica rischiavano di ghermirlo in un abbraccio distruttivo e disumano: non è insignificante che in quello stesso anno Philip Dick, con il suo occhio allucinato e preveggente, paventasse un futuro prossimo carico di rovine, polveroso paesaggio arredato di uomini-elettrodomestici, esseri inanimati e protesi mediali 34.

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Era il 1968. L’America offriva la luna. Ennesima terra promessa e primo sdoganamento per l’ultima frontiera. E Mailer serviva su un piatto d’argento La storia come un romanzo, il romanzo come storia.Le armate della notte ottenne il Pulitzer Prize.

2. In Italia, da due anni l’editore Einaudi aveva deciso di pro-porre al pubblico italiano il libro della storica anglosassone Eileen Power, Medieval People. Vita nel Medioevo: uomini e donne, qualunque, una serie di bozzetti, Bodo il contadi-no, Marco Polo, Madama Eglentyne, la Moglie del parigino Ménagier, Thomas Betson il commerciante di lana e Thomas Paycocke pannaiolo dell’Essex che incarnano, rifrangono, rac-contano, nel loro privato alfabeto quotidiano, della giornata rustica in un manso ai tempi di Carlo Magno, il grande viaggio verso Oriente di un mercante veneziano, la scelta monastica di una fanciulla di condizione elevata, le affettuose preoccupazio-ni di un anziano borghese colto e con grande esperienza degli affari e della vita che vuol istruire la giovane moglie ai doveri coniugali, i pensieri di un commerciante di lana in cui affari e amore si mescolano ai conti da pagare nelle lettere vergate di sua mano, l’ascesa sociale di un artigiano tessile nato da un pa-dre macellaio e morto carico d’anni e d’onori grazie a una vita dedicata alla fabbricazione della stoffa 35.Una galleria di uomini e donne “comuni”, capaci di esprimere la storia in quanto vita: la storia vale solo “in quanto vive” e “qui non ci sono morti” – avvertiva l’autrice nella stringata in-troduzione – si tolgano gli storici quella divisa che impone loro di lodare solo “gli uomini famosi” e le “classi dominanti”! E una citazione epigrafica, tratta dalle Ecclesiastiche, ammoniva e richiamava in apertura del libro al debito che l’umanità aveva contratto verso tutti quegli uomini che erano “morti come se non fossero mai esistiti”:

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Lodiamo ora gli uomini famosi e i padri nostri che ci hanno generato… Alcuni ve ne sono che hanno lasciato un nome dietro di sé, per cui se ne possono tramandare le lodi. E altri ve ne sono che non hanno lasciato un ricordo; che sono morti come se non fossero mai esistiti; e sono divenuti come se non fossero mai nati; e non avessero lasciato figli dietro di sé… Ma la loro gloria non sarà cancellata… il loro nome vive per sempre.

Prima di allora la Power aveva scritto e pubblicato saggi di sto-ria economica medievale e aveva avuto una parte di primo pia-no nella redazione della monumentale Cambridge Economic History of Europe: se la scelta di indirizzarsi e misurarsi con la storia economica rinviava, anche nello specchio dell’autori-tratto, l’immagine di una studiosa “moderna” rispetto a quan-ti continuavano a coltivare la storia politica e istituzionale 36, l’urgenza avvertita di “una visione migliore e più ravvicina-ta” 37 che l’aveva convinta a scendere i gradini e varcare l’in-gresso della “cucina della storia”, laddove lo studioso si mac-chia delle “fatiche e delle passioni della carne e del sangue” e rintraccia il “calore della vita vissuta” 38, facevano di lei anche e soprattutto un’esponente convinta della “nuova” storiografia del Novecento:

Oggi la nuova storia … è venuta. Il nostro tempo si diffe-renzia dai secoli precedenti per la sua viva attenzione a quel personaggio tanto negletto che è l’uomo della strada; o l’uo-mo … dei campi. Oggi lo storico si interessa alla vita sociale del passato, e non solo alle guerre … Noi [abbiamo] presente che non solo i grandi personaggi, ma anche il popolo nel suo complesso, le masse anonime e indistinte del popolo che ora dormono in tombe sconosciute, hanno avuto la loro parte 39.

Le biografie della Power, saldandosi alla pratica e alla valo-rizzazione della storia sociale, offrivano al pubblico alcuni fe-nomeni generali che proprio grazie alle storie di vita dei sei protagonisti, chiamati a “rappresentare” vari aspetti della so-

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cietà e dell’economia di un Medioevo che abbracciava i secoli IX-XVI 40, sfuggivano alla vaghezza e alla indeterminazione. Rappresentare: ma che possibilità aveva Marco Polo, figura ab-bastanza eccezionale del suo tempo, di essere rappresentativo di quel larghissimo strato di operatori e mercanti che in quel determinato periodo svolgevano i loro affari nella repubblica di Venezia? Ciò che la Power buttava là, ma come mostrava nel-la prefazione perfettamente consapevole dell’eccezione (“tutta gente molto comune, sconosciuta e senza fama, ad eccezione di Marco Polo”) avrebbe suscitato negli anni a venire tra i fautori e detrattori del metodo biografico accesi dibattiti e dubbi me-todologici.Dalle pagine delle Annales, era il 1963, François Furet stabiliva una rigida equazione tra oggetto e metodo: quelle masse ano-nime e indistinte del popolo, come le aveva indicate la storica anglosassone, quelle “classi inferiori” come lui le aveva defini-te con un termine che – osservava – evocava immediatamente un’idea di numero e di anonimato, potevano essere oggetto di ricerca, ritrovare uno spazio nel grande libro della storia e ri-salire dai gorghi del silenzio che le aveva inghiottite, soltanto attraverso l’applicazione di indagini seriali e analisi quantitati-ve 41. Demografia e sociologia erano dunque chiamate ad assu-mere il ruolo di angelo vendicatore. L’idea non era peregrina: fra 1966 e 1972 David Herlihy a Christiane Klapisch dimo-strarono la bontà di interrogare una fonte catastale utilizzan-do il linguaggio informatico e il procedimento statistico: i due avviarono, guidarono, condussero in porto un’impresa impo-nente che si dipanò fra Stati Uniti, Francia, Italia e che mirava a ricostituire – attraverso l’analisi del Catasto fiorentino del 1427, lo spoglio dei dati, la codificazione su schede perforate e la sua elaborazione attraverso tecniche di analisi statistica – composizione demografica e distribuzione della ricchezza dello stato fiorentino 42. Fu uno dei primi frutti, citato oggi come un piccolo classico, del matrimonio fra ricerca storica e appli-cazioni informatiche 43. E la conoscenza della famiglia e della

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società toscana del XV secolo se ne avvantaggiò. Nel momento in cui storici di mezzo mondo si davano all’assalto di quelle che adesso in molti, in un’onda di voci che si alza in un dialogo ap-passionato, preferivano chiamare “classi subalterne” di gram-sciana memoria 44, puntando a raggiungere e toccare i fondali più profondi della storia, ‘l’economia’ e ‘la società’, e mentre un terzo livello, dal fondo, iniziava a smuovere le acque della ricerca, era la scoperta de ‘la mentalità’ che si spalancava come un nuovo, affascinante terreno da percorrere 45, toccò a Carlo Ginzburg affrontare e risolvere la questione riassunta dalla la-pidaria affermazione di Le Roy Ladurie: “lo storico di domani dovrà essere un programmatore o non sarà affatto” 46.L’occasione era offerta, imposta quasi, dall’uscita de Il formag-gio e i vermi, la vicenda di un mugnaio friulano del Cinquecento e del suo incontro con il Santo Uffizio.

che rilevanza possano avere, su un piano generale, le idee e le credenze di un individuo singolo del suo livello sociale? In un momento in cui intere équipe di studiosi si lanciano in imprese vastissime di storia quantitativa delle idee o di storia religio-sa seriale, proporre un’indagine capillare su un mugnaio può sembrare paradossale o assurdo: quasi un ritorno al telaio a mano in un’età di telai automatici… Ma se la documentazione ci offre la possibilità di ricostruire non solo masse indistinte ma personalità individuali scartarla sarebbe assurdo 47.

Insomma, la partita, per quanto gustose potessero essere tante sue mosse, meritava o no di essere giocata? Menocchio non era l’individuo mediocre e privo di rilievo, il contadino tipico, “nel senso di medio, statisticamente più frequente” del suo tempo e proprio per questo rappresentativo di un microcosmo socia-le 48. Né era il materiale inerte che la civiltà e la storia aveva-no plasmato a loro piacere, depositandovi come in un’anfora vuota le loro scorie. Al contrario, il mugnaio di Montereale era portatore di una originalità di riflessione e di pensiero e la sua visione del mondo un groppo in cui si annodavano e scioglie-

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vano tradizione orale, libri a stampa, fantasie e idee personalis-sime. Una originalità che aveva tuttavia dei confini precisi. La cultura di cui Menocchio era intriso e che Menocchio intrideva era, per dirla con Ginzburg, una “gabbia flessibile e invisibile entro cui esercitare la propria libertà condizionata”, un’archi-tettura che restringeva le possibilità di viaggio del mugnaio ma a cui il mugnaio-viaggiatore apportava delle pietre, sebbene sembrasse non tanto uno che costruiva edifici quanto uno che li smontava: la razionalità di Menocchio, affatto sovrapponibi-le alla razionalità del costruttore (alla “nostra razionalità” dice Ginzburg), tanto pervasa e attraversata da un substrato arcaico di credenze, elementi oscuri, lontane mitologie, era pur sempre una razionalità, ed era proprio la considerazione di questa forte componente (anche se di segno diverso, come l’arte di decostru-ire) a trasportare il suo caso sul terreno della storia della cultu-ra piuttosto che su quello della mentalità. Insomma era proprio l’eccezionalità confinata di Menocchio (come del Marco Polo per la Power io credo) a consentire a Ginzburg di navigare il filo di una corrente che dentro il mare magnum della “cultura popolare” di quel tempo, disegnava un rivolo fra i rivoli, e nelle indefinite peripezie di ogni viaggio, additava gli scarti, le fughe, gli irriducibili residui di mistero e di indecifrabilità del mondo: per esempio il come e il perché della circolazione culturale 49.

In conclusione anche un caso limite (e Menocchio lo è cer-tamente), può rivelarsi rappresentativo. Sia negativamente – perché aiuta a precisare che cosa si debba intendere in una situazione data, per statisticamente più frequente. Sia posi-tivamente – perché consente di circoscrivere le possibilità la-tenti di qualcosa (la cultura popolare) che ci è noto soltanto attraverso documenti frammentari e deformati… Con questo non si vuol certo contrapporre indagini qualitative e quan-titative. Semplicemente si vuol sottolineare che per quanto riguarda la storia delle classi subalterne, il rigore esibito dalle seconde non può fare a meno (se si vuole, non può ancora fare a meno) del famigerato impressionismo delle prime 50.

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Impressionismo: bagliore che siamo di volta in volta chiamati a scorgere riflesso nella vita di un individuo? “Non [se] ne può ancora fare a meno”. Non ancora. In quell’avverbio, nel 1976, Ginzburg ancorava il compromesso.Ma durò poco. Era il 1979, quando decise di tornare sul pro-blema con un saggio che esplicitando la giustificazione gene-rale, epistemologica, ad un modo di fare ricerca, superava la negoziazione di tre anni prima: la strategia conoscitiva dello storico, scriverà, così come i suoi codici espressivi, “sono in-trinsecamente individualizzanti”. La conoscenza storica, come la medicina e il sapere dei cacciatori, è sempre una “conoscenza indiretta, indiziaria, congetturale”: dunque costitutivamente, ineliminabilmente, qualitativa 51.

3. Su un altro elemento, lo studioso aveva richiamato l’atten-zione: il rischio deviante insito nell’uso storico di certe cate-gorie interpretative. Categorie collettive, per la precisione. L’occasione critica era fornita da un lavoro di Lucien Febvre su Rabelais 52, di cui Ginzburg respingeva certo automatismo: come è possibile applicare i risultati dell’indagine su un indi-viduo, pur grande ed affascinante come Rabelais, ad un largo strato della società francese passando per la generalizzante e confusa nozione-scorciatoia di “mentalità collettiva”? Come può la ricognizione su un percorso intellettuale e spirituale di un individuo diventare lettura delle coordinate mentali di un’epoca? Quando ci si spinge sul terreno della psicologia col-lettiva sostenendo che “la religione esercitava sugli uomini del Cinquecento un influsso insieme capillare e schiacciante a cui era impossibile sottrarsi, come non poté sottrarvisi Rabelais, allora l’argomentazione diventa inaccettabile. Chi erano questi non meglio identificati uomini del Cinquecento”? 53.‘Uomini del Cinquecento’, ‘borghesi’, ‘contadini’, ‘povera gen-te’ qual è il valore analitico di questi raggruppamenti? Quali i nessi tra identità individuale e collettiva? E, quanto nel discorso

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storico, le identità collettive rappresentano costruzioni retori-che deformanti? Il dibattito su questi temi è ancora aperto 54. E tuttavia nel 1967 un giovane Giovanni Cherubini mostra-va già un’accesa sensibilità al problema. Pubblicando la breve biografia di Ghisola, vedova di Giovanni, e dei suoi figli Betta e Giovanni di Castrocaro, Cherubini ovviava al pericolo di ge-neralizzazioni in cui cadeva una storiografia troppo abituata a parlare ‘dei contadini’ o dei ‘ciompi’, e dimentica di descrivere, concretamente, almeno “qualche volta”, le condizioni di vita di un contadino, o di un ciompo 55. Nella cornice militante e impegnata di una storiografia che andava facendo dello studio della vita nelle campagne e dell’agricoltura il suo baricentro 56, egli inseguiva le orme di quelle folle anonime, di “quei poveri diavoli” dall’esistenza in larga misura sconosciuta, cogliendo nelle tracce documentarie i segni del loro passaggio. Con scrit-tura vigorosa e sobria tratteggiava il ritratto della contadina e dei suoi figli, la loro casa, l’orto, i tre ettari di terra coltivata a vigna e cereali sulle pendici di Castrocaro, nella frangia set-tentrionale della Romagna, soffermandosi a descrivere il pa-esaggio tutt’intorno, la struttura della proprietà, le forme del popolamento e poi progressivamente avvicinandosi al soggetto studiato bussava alla dimora di Ghisola, misurava gli spazi, contava i mobili e le suppellettili ridotte al minimo. La docu-mentazione, un inventario di beni e qualche altro atto notarile relativi agli anni 1383-1384, ben si prestava a penetrare nelle crepe del domestico e negli arredi del quotidiano – microcosmi che di solito non entravano nella pagine di storia –, a raccon-tare alcuni episodi della non facile vita della vedova, la dote per la figlia da sposare, i campi da coltivare, “non si va certo lontani dal vero a immaginarla curva sulla zappa a lavorare nel campo” 57, le quattro pecore nell’ovile, “ma in lana, for-maggio, latte, agnelli, che cosa si poteva ricavare da un gregge così minuscolo” 58?: poi, laddove la documentazione taceva, Cherubini andava a interrogare le coeve fonti letterarie e ico-nografiche, scorreva altri inventari di beni, chiamava in causa

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altre realtà per proporre quadri analogico-comparativi, sempre attento a contestualizzare, a non dare “un valore troppo ge-nerale a quei documenti”, ma ben determinato a “illuminare” quell’ambiente sociale – tanto speculare “agli splendori” urbani del Rinascimento – con tutte le armi a sua disposizione.Cherubini non propone saggi di metodo. Quel che egli fa è piuttosto discutere di metodologia attraverso gli esempi: al po-sto di specifici interventi metodologici, un lavoro, un saggio, che propone, esemplarmente, un’intensa, tenace riflessione su forme e contenuti della storia. Non era la prima volta che lo studioso si misurava con la biografia: in un ampliamento dello spettro di studio e di osservazione due anni prima aveva pub-blicato sulla Rivista di Storia dell’Agricoltura, la vicenda di un mercante aretino, Simo d’Ubertino, e ancora nel corso degli anni successivi sarebbe tornato con profitto ad utilizzare quella prospettiva per raccontare la vita di un notaio senese 59. Il no-taio Cristoforo di Gano e il mercante Simo d’Ubertino hanno in comune la redazione di un libro di memorie 60: è il libro, e dunque la fonte, tanto ricca, tanto gremita di fatti, a catturare l’interesse dello storico e a indicargli la strada della biografia. Poco importa analizzare dettagliatamente le due vite, quel che importa è registrare che in entrambi i casi il taglio prospettico si rivela funzionale alla messa a punto di un problema che è cen-trale in questi anni nella riflessione dello studioso: il problema della proprietà nella società italiana del basso medioevo, le mo-dalità della penetrazione cittadina in campagna, la relazione tra ricchezza e investimento fondiario, i criteri di conduzione della terra, i rapporti tra proprietario e contadino 61. L’opzione di metodo e di scala, il micro-osservatorio biografico e la Toscana – scelta dall’autore non solo in ragione della sua biografia ma nella consapevolezza del “ruolo pilota” che essa assolveva nella società europea del XIV e XV secolo – consentono un’analisi intensiva di queste dinamiche, funzionando anche da bussola e termometro della ricerca:

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[Io ho] la convinzione che ai quadri generali debbano sempre accompagnarsi indagini monografiche per rendere quei qua-dri il più possibile concreti, per verificare, integrare o modifi-care le convinzioni acquisite e le stesse ipotesi di partenza di chi si accinge ad una ricerca. Ho sempre avuto, d’altra parte, ferma convinzione, ed a questa convinzione ho sempre cerca-to di mantenermi fedele, che ogni indagine, anche molto par-ticolare, deve contribuire a risolvere problemi generali, che anzi non esiste utile indagine del ‘particolare’ se non orientata a queste finalità… 62.

Nella prefazione al volume che nel 1974 avrebbe riunito le tre biografie nella cornice ideale delle Ricerche sulla società italia-na del Basso Medioevo, Cherubini enuncia con grande chia-rezza il rapporto fra generale e particolare: la biografia (e/o la monografia), come indagine del particolare è storia, fa storia, soltanto se si pone grandi domande ed è capace di interagire con un problema di ampio respiro. La concezione tradizionale della monografia che misura a livello locale/particolare, ipotesi e risultati, è ribaltata: la verifica è spinta sul terreno generale.

4. Gli influssi sono forze irresistibili e spesso sotterranee. Non so quanto abbia influito nell’orientamento di questo studioso, il clima che in Italia si respirava in quegli anni, quanto il vento storiografico che scompigliava certezze e faceva respirare aria nuova, quanto egli stesso abbia contribuito a quello scompi-glio. Certo è che nel 1967 Giovanni Cherubini mi appare anti-cipatore di tendenze di ricerca e prospettive metodologiche che, incardinate in inediti quadri teorici di riferimento, avrebbero segnato la storiografia degli anni a venire. In quel 1967, anno a cui risale la biografia di Ghisola, proliferavano, continuavano a proliferare quasi soltanto vite di re e di grandi mercanti 63. Vite di re: la prima metà del Novecento aveva visto venire alla luce sensazionali resoconti del regno di Federico II (uno dei sovrani medievali che insieme al Barbarossa, Carlo Magno e pochi al-

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tri, non cessava – né ancora cessa – di suscitare l’interesse degli storici) 64: nel 1927 era uscito a Berlino, accompagnato da una tempesta di polemiche, il poderoso Kaiser Friedrich der Zwite di Ernst Kantorowicz, miscuglio di erudizione e profetismo ca-pace di veicolare, ancora molti anni dopo, come è dimostrato dall’avvincente biografia composta a Londra nel 1957 da una vivace signora esperta di giardini all’italiana di nome Georgina Masson, l’immagine di un Federico “bambino prodigioso” e “uomo almeno in parte fuori dal suo tempo” 65. Non che, natu-ralmente, in quel settore non fossero spuntate anche importanti novità: fra le ‘vite’ dei mercanti, nel 1933, il Benedetto Zaccaria di Sabatino Lopez provocava al suo apparire una piccola rivolu-zione in un ambiente di studi ancorato in gran parte ai temi tra-dizionali d’istanza istituzionale. Legando la vicenda di un eroico mercante guerriero, “naufrago della storia”, alla vicenda di una città aperta sul mondo, il giovanissimo Lopez proponeva l’idea di un medioevo “degli orizzonti aperti” in chiave mediterranea, in cui l’impegno dell’individuo era assunto, nel contesto di una Europa in movimento, a fondamento della storia 66.Ma se si scendeva verso il basso di quella storia, in quel 1967 Giovanni Cherubini era l’unico pioniere a battere la via: per trovare un progenitore nel genere della biografia dell’uomo co-mune occorreva tornare indietro, a un ventennio prima nell’In-ghilterra della Power – la cui opera però da poco uscita in Italia era stata salutata “con gioia” dallo studioso 67 – e oltre, risa-lendo la corrente genealogica di questa famiglia di biografi ‘dal basso’, forse addirittura all’Ottocento e più precisamente alla voce di Thomas Carlyle, la cui ombra è chiaramente ravvisabile dietro la figura di Bodo il contadino: ciò che voglio conoscere non sono gli annuari araldici, i calendari di corte o i registri del parlamento, ma la vita dell’uomo in Inghilterra. Come vivono e come sono gli uomini? Che cosa guadagnano e che cosa com-prano coi loro guadagni? 68. Nel 1841 questa voce si era però persa nei fumi del cielo di Londra e fino all’arrivo della Power era destinata a rimanere un grido nel deserto.

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Per restare fedeli alla metafora dell’albero genealogico occor-re dire però delle molte fronde che nei decenni centrali del Novecento, tornando all’Italia, frastagliavano l’aria, e chiedersi quanto può aver influito la conoscenza o forse solo l’uscita a stampa di certe biografie divulgative di buona qualità – come per esempio il Marco Polo di Giotto Dainelli 69 – che negli anni Quaranta alimentavano la fame di avventure e di sapere dei più giovani, e quanto può aver agito, in questo riuso innovativo e dirompente del genere biografico, che nel 1939 Maria Bellonci esordisse con la biografia di Lucrezia Borgia – che certo non era una donna comune, ma donna sì certamente e per di più nep-pure santa – in cui ricerca d’archivio e racconto drammatico si fondevano in un unico avvolgente linguaggio narrativo 70: ma la domanda è destinata a rimanere almeno per ora senza rispo-sta. Le contaminazioni (simmetrie, circolarità) tra letteratura, divulgazione e terreno scientifico rimangono, nel caleidoscopio biografico, ancora quasi tutte da esplorare.La lezione di Cherubini che interpreterei come reazione non all’uso, ma all’uso incondizionato dello strumento quantitati-vo e seriale 71 che annulla il diritto all’immagine per i ceti più bassi e finisce, implicitamente, per legittimare, anche su questo piano, l’egemonia dei grandi, sovrani, élite dirigente, mercanti, uomini di lettere che siano, ha l’effetto di rompere gli argini. Se Ghisola è la prima donna vedova di umile condizione a entrare nella storia, nel corso degli anni successivi molti altri arriveran-no a farle compagnia 72.Nel 1971 Girolamo Arnaldi promuove e cura l’edizione italia-na di un’opera, nata nella Spagna monarchica e reazionaria de-gli anni Venti e ripubblicata a Madrid nel 1966 (stesso anno in cui Bodo sbarca in Italia), di Claudio Sánchez Albornoz: non si tratta di biografie, ma di una piccola monografia dedicata alla città cristiana di León nel X secolo 73, la più importante città della Spagna cristiana di quel periodo, la cui storia procede dal-la successione di raffinate ‘stampe’ che ritraggono la vita quoti-diana – “la monotonia del vivere quotidiano” – di quei remoti

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giorni che precedono il millennio. Sánchez Albornoz descrive, con la minuzia del miniaturista, una città agricola e guerriera, mistica e sensuale che misura il suo tempo tra la preghiera e il campo, l’amore e la guerra: ma quel che è notevole è che i leonesi che vivono in quelle stampe hanno un nome e un volto, parlano, discutono, mangiano, lavorano, vanno al mercato, a dormire, a fare la guerra. C’era una volta un re diranno i miei piccoli lettori… e invece no: León non è la favola bella del re don Ramiro e dei suoi due figli Sancho e Ordoño, la caccia con le reti, i lacci e i cani sulle scoscese montagne di Oseja, la spedi-zione contro i terribili saraceni, perché se trovano spazio nella città-miniatura sovrani e dignitari, cavalieri e conti, don Arias e donna Adosinda, accanto a loro si muove nelle strade, nelle chiese, tutta una schiera di monaci, chierici, suore, mercanti di sete, operai a giornata, coloni, vasai e tornitori, bottegaie, nelle viuzze, nelle piazze del mercato, nei fondaci, nelle cantine, nei refettori dei palazzi magnatizi, tutta una folla di servi, di fanti, di ragazzi dalle mani nere, di ladri, di disperati.

Oggi, giorno delle idi di ottobre… nella via un gruppo di uo-mini, donne e bambini circonda un disgraziato a cui sono stati tolti il saio e le brache. Porta una corda al collo, e copre le sue nudità con una camicia sudicia e lisa, mentre in mez-zo all’ostile e ripugnante curiosità del gruppo viene sferzato da Abolkacem, il sayon, con un duro nerbo di bue. È stato sorpreso mentre derubava alcuni pescatori del territorio che recavano a León trote del Porma e del Bernesga, e subisce il castigo che ricevono tutti coloro che interrompono il norma-le approvvigionamento della città. Non appena l’ultimo dei cento colpi, con i quali, fin da tempo antico, vengono fusti-gati coloro che incorrono in un simile reato, è caduto sopra le sue spalle, vergognoso e sanguinante, fugge trascinandosi lontano dai crudeli testimoni della sua infamia, ed esce dalla città per la porta vicina. Il sayon abbandona il luogo del ca-stigo e s’inoltra per la strada che reca da Santa Maria a San Michele per continuare a esercitare il suo odiato e miserabile mestiere. Non è molto che Abolkacem è scomparso dalla via

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che si stende dalla Porta del Vescovo alla Cauriense, quando da essa spunta una carovana di asini… Gli asini guidati dai loro padroni, procedono carichi di sacchi di segala, d’orzo, di grano e di miglio e di canestri d’uva… 74.

Non è solo un bell’esercizio descrittivo. Esso traduce lo sguar-do dell’autore sulla città, uno sguardo dal basso, che conosce i luoghi, le strade, che scivola rasente ai muri, potrebbe conta-re i mattoni crudi, le crepe degli edifici, i ciottoli sul selciato, le incrostazioni d’osso e di chiodi d’argento che incastonano il trono del re 75. Una visione ravvicinata sugli ambienti, uno zoom sui volti delle persone, sui loro abiti, sulle loro mani, sulle camicie lise e sudate, sugli animali che si incontrano per la via. Non è una città qualsiasi: è la città che sta nella retina di un uomo. Quel che Sánchez Albornoz sta narrando e mettendo in scena non è la storia di León ma la storia della gente di León. Raramente lo studioso assume un punto di vista superiore, e anche quando lo fa, abbracciando in un’apertura alare l’antico perimetro della città, il “rettangolo quasi perfetto” che apre il volume, la visione abbandona immediatamente la dimensione aerea per entrare nella dimensione topografica, che riconduce León a scala umana, a portata di individuo, laddove si può cominciare a scorgere il castello, le terme, gli edifici, le chiese e, fuori da quel perimetro urbano, appena la luce del mattino lo consente, distinguere “a sinistra della strada percorsa dai ca-valieri alcuni poveri villaggi… e vicino alla strada un gruppo di contadini [che] cosparge di semente vari terreni circostanti, mentre altri agricoltori con una coppia di buoi per ciascuno affondano il vomere nel terreno e coprono il grano coi nuovi solchi” 76.La finezza metodologica, l’incastro pregiato di fonti diverse 77, lo scavo filologico nella lingua del tempo, si saldano in una scrittura che apre il campo ad un potente effetto di realtà cui concorre sia l’assunzione di un tempo scandito sul quotidiano, sia l’inserzione dell’idioma romanzo e del latino solenne e sco-lastico pronunciato della gente di Chiesa – “in nomine domini

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nostri Ihesu Christi ite in pace” – che vivifica i dialoghi e fa delle stampe leonesi molto più di impressioni visive: una specie di mosaico sonoro composto da tante minuscole tessere biogra-fiche. In cui anche il pettegolezzo può diventare storia.

Nelle varie stanze della corte risuonano dieci discorsi diver-si. Nella cucina due ragazze ben piantate, l’una bruna, bian-ca, coi fianchi ampi e il petto rigonfio, e l’altra più giovane, anch’essa bruna, ma giallina, minuta e vivacissima, chiacchie-rano allegre… La più brutta di fisico, gran lingua lunga, co-noscitrice di intrighi e di notizie, accorta vedetta di quanto accade o si dice alla portata della sua vista o del suo udito, riferisce alla sua collega ciò che sa intorno alle nozze di Elvira figlia di Paterno e di Galaza, padroni e signori della corte di fronte. Non ignorava che le nozze erano concertate da tempo, ma ardeva dal desiderio di conoscere particolari della caparra o dote, come don Arias dice si chiamino i regali dello sposo. Dalla confidenza della mora Mariame, che serve nella casa della sposa, è riuscita infine, all’ora terza, ad assodare che Elvira aveva ricevuto diversi poderi, servi, gioielli, pelli, vestiti e capi di bestiame. In Fenestrosa il futuro marito le concede una terra dove si possono seminare fino a duecento moggi di grano; vigne, pomari e mulini in Liébana, e così in Castiglia, e in altri dieci luoghi che la mora non conosceva. Altrettanto sembra che riceva in bestiame, gioielli e vestiti. A credere a Mariame, lo sposo le regala dieci paia di buoi, cinquanta vac-che, cento pecore, tre servi, un cavallo con la sella da cavaliere e il suo freno d’argento, della lussuosa biancheria da letto, una collana o collare, due anelli, varie adorras o tuniche di seta, un lussuoso vestito da matrona, un copo o tazza e una scodella d’argento che hanno il valore di trenta soldi, nume-rose pelli agninas cioè d’agnello, una alhaguma arintea… 78.

Si è visto: l’autore si concede qualche pennellata di libertà nella costruzione del quadro. Ma mettere in bocca a una loquace, probabilmente inesistente, eppure del tutto verosimile Mariame alcuni documenti dotali del secolo X (di cui una nota a fondo pagina rende conto), non riferibili dunque né ad Elvira né al

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suo promesso, ma senza dubbio ad altre donne e ad altri uomi-ni dello stesso tempo, non era ciò che in un’ottica ricostruttiva della società leonese ci si poteva attendere da uno studioso che aveva in mano solo poche “notizie pallide e disperse”? La scel-ta espositiva, la costruzione di un meccanismo narrativo che fa del ‘verosimile’ e del ‘possibile’ un terreno storiografico anche attraverso l’integrazione dei vuoti – quegli “abissi che l’estrema povertà delle fonti apre nella conoscenza della società” – con elementi desunti da paesaggi documentari paralleli (la biografia di altre spose nel caso di Elvira), e tutto nella distinzione rigo-rosa dei due piani 79, avvicina questo volume al “laboratorio storiografico” dove molti decenni dopo Natalie Zemon Davis realizzerà la ricostruzione della vicenda “straordinaria e quasi prodigiosa” di Martin Guerre, contadino di Linguadoca, e di sua moglie Bertrande.Nel metodo della Davis però nessuna opposizione tra il posi-tivo del reale e il negativo della congettura. La consacrazione, piuttosto, di un modello esplicativo 80.Non è un caso, credo, che Una città della Spagna cristiana nato nel 1926 trovasse nell’Italia dei primi anni Settanta il clima e l’ambiente più adatto alla sua ricezione.

5. Anni Settanta: il modello eclettico e interdisciplinare delle Annales, che ha introdotto dentro la ricerca storica metodi e prospettive delle scienze sociali portatori di nuovi quadri te-orici e inediti strumenti interpretativi, solleva un polverone d’oro e con la polvere si alzano numerose le reazioni al mo-dello macroscopico-quantitativo. Malgrado l’assenza di un manifesto programmatico, Ginzburg e gli altri (anime di una pratica storiografica il cui periodo migliore si colloca proprio tra 1976 e 1983) si fanno apertamente sostenitori di un para-digma imperniato sulla conoscenza dell’individuale: con loro, fatto anomalo, evento, emergenza, congiuntura, sistema di cre-denze o individuo che sia, l’eccezionale normale, per usare il

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noto ossimoro coniato da Edoardo Grendi 81, troverà spazio e occasione di essere formalizzato, agganciato alla realtà dei fatti, compreso. Grazie alla costruzione di quello che Jacques Revel, in una lettura del fascinoso concetto grendiano, chiama “modello generativo, ossia modelli che consentono di integrare a tutti gli effetti, e non più come eccezioni o casi di devianza, i percorsi e le scelte individuali” 82, il destino individuale, da Menocchio a Martin Guerre, è catapultato al centro della pro-spettiva dello storico.Gli storici francesi, vicini alle Annales, arretrano sul fronte della biografia, lasciando libero il campo ai romanzieri e a una po-polosa schiera di scrittori, spesso non specialisti, che invade il mercato editoriale con “opere psicologicamente anacronistiche (o che usano in modo troppo facile l’idea di mentalità per sfrut-tare, senza vera spiegazione l’esotismo del passato), retoriche, su-perficiali, troppo spesso aneddotiche”: è il giudizio di Le Goff 83. È vero. Nella cornice della biografia si mette, si è messo, di tut-to. Nel 1985 Hobsbawm si chiede: chi può mai leggere certe “voluminose biografie neovittoriane di politici tornate di recente moda”? Non certamente le masse. A parte una manciata di stori-ci, sono gli stessi politici, “posto che sappiano leggere, a divorarle come popcorn” 84: è la biografia a gloria ed uso dei governanti. Il boom editoriale colpisce anche gli studiosi italiani che pochi anni prima si erano riuniti intorno ad un tavolo per discutere del rap-porto tra Biografia e Storiografia: il proliferare di biografie “del più vario livello e da parte di autori dalle provenienze più di-sparate”, profane incursioni da parte di una colorita e chiassosa umanità 85, impone un ripensamento della definizione, del ruolo e del significato del genere 86, una riflessione su alcune questioni di metodo dello studio biografico scientificamente inteso: la pos-sibilità o meno di una biografia totale, il rapporto tra biografia e storia generale, tra biografia come studio dell’individualità o del “tipo”, il nesso tra intenzioni e risultati, tra sfera privata e sfera pubblica del biografato. La diagnosi non è, fra i contemporaneisti riuniti, positiva. Dal punto di vista metodologico l’impressione è

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che si proceda “alla cieca” 87, il genere si lamenta “in Italia… ha vita stentata e grama” 88. È il problema dell’uovo e della gallina. Le indebite incursioni da parte di quell’umanità colorita quanto profana, di cui si diceva, nella zona della biografia hanno scorag-giato gli storici a misurarsi con questo tipo di narrazione, o non è stato piuttosto l’abbandono di un terreno ad aprire la via alle invasioni? Certo è che, in quella sede, non si sfugge alla sensazio-ne che il genere biografico continui ad essere un sottoprodotto culturale. O almeno a pagare il prezzo di un debito remoto. Chi di questi tempi vorrà scrivere la storia di un uomo, per quanto importante quest’uomo sia stato, si dice, dovrà combattere con i luoghi comuni e le diffidenze, sopportare gli atteggiamenti di de-gnazione di varie scuole storiografiche, difendersi dalle accuse di aver offerto un prodotto in più di histoire événementielle… 89.Non erano invece mancate belle prove di studio biografico. Dal versante dello storicismo a quello marxista 90, per arrivare al lavoro delle studiose e degli studiosi di storia delle donne: im-pegno che la critica femminista aveva potentemente contribu-ito a promuovere e indirizzare 91 e che proprio in quegli anni iniziava a produrre l’effetto di popolare il paesaggio storiogra-fico di figure che avevano vissuto in precedenza una esistenza umbratile e marginale: sante e streghe, monache, mistiche e di-smesse, letterate, balie, contadine, madri, nonne, vedove, figlie, spose aristocratiche 92. Un campionario di esistenze femminili, indagate spesso attraverso la tecnica espositiva del ritratto bio-grafico 93. La tendenza a focalizzare l’attenzione su fisionomie precise, fisionomie di categoria ma anche fisionomie individua-li, elemento “caratterizzante di una storiografia impegnata a individuare le proprie protagoniste e a delineare specifici mo-delli di riferimento” 94, predispone alla scelta dell’approccio biografico in cui, di volta in volta, il problema generale viene calato nella concretezza di una vicenda o di una figura rappre-sentativa. Il ritratto, competentemente selezionato, conferisce alla trattazione maggiore concretezza, mentre dal punto di vi-sta comunicativo, la scelta del caso particolare ha l’effetto di

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attivare la componente narrativa: una delle principali risorse del linguaggio storiografico.Tra dimenticanze e diffidenze, la storia di genere aveva iniziato il suo viaggio 95.Diffidenze e accuse. Nel 1985, nella solenne e prestigiosa cor-nice dei colloqui che la Sorbona dedica a Problèmes et métho-des de la biographie, la biografia ne usciva con le ossa rotte: ripiego, segno di una stanchezza, “modesto attrezzo che aiuta a meglio osservare o illustrare le lunghe tendenze, le strutture, le pesantezze”: in nessun caso “leva intellettuale”, principio teori-co ordinatore 96. La storia di vita assumeva semplicemente una funzione suggestiva, di indagine preliminare di un problema, o illustrativa: l’aneddoto personale è, al massimo,un piacevole corollario al tutto. Ancora, nel 1986 Pierre Bourdieu rimpro-verava duramente alle scienze sociali di essere prigioniere di un’illusione (biografica) che “descrive la vita come un cammi-no, un viaggio, una carriera, con i suoi incroci-crocevia, le sue insidie… e comporta un inizio, delle tappe e una fine, nel dop-pio senso di termine e mèta” 97: un eccesso di senso e di coeren-za, interno ad ogni approccio biografico, che denuncerà anni dopo anche Jean Claude Passeron per il quale gli storici rimasti impigliati nel canto della sirena dell’“utopia biografica”, si per-dono a sognare il sogno che un racconto biografico ricostruisca autenticamente un destino 98.Gli anni Ottanta segnano insomma una zona calda nel dibatti-to. Menocchio, per usare un’icona, fa scorrere fiumi di inchio-stro, polarizza l’attenzione sull’individuo, ravviva la riflessione sul metodo biografico.Se François Furet aveva criticato lo slittamento da una storia-problema, identificata nell’approccio seriale ed etnografico, alla storia cronologica o storia-racconto incarnata dalla bio-grafia 99, espressione tipica dell’histoire evénementielle, sul re-vival of narrative lo storico inglese Lawrence Stone costruirà la sua celebre interpretazione sulla crisi della storia “scientifica”, responsabile della ripresa, fra le altre espressioni, delle ricerche

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biografiche: lo scarto eccessivo tra metodologia impiegata e ri-sultati ottenuti dei modelli storiografici rigidi e monocasuali ha spinto, dice Stone, gli storici verso la scelta del modulo narrati-vo in modo spesso tacito e perfino inconsapevole. Il tramonto della “storia scientifica” (ovvero della interpretazione marxista, del modello strutturale e dell’analisi quantitativa) fondata sui concetti totalizzanti di classe sociale o di mentalità, che ten-deva a ridurre il senso dell’azione umana a nient’altro che un sottoprodotto delle forze produttive e del milieu culturale, ha incitato a estendere ed approfondire la nozione storica di indi-viduo. Delusi e insoddisfatti dall’uso di categorie interpretative predeterminate, gli storici sociali stessi, tradizionalmente più attenti alla dimensione collettiva dell’esperienza storica, hanno cominciato a riflettere sui destini individuali 100. Ma con quali risultati? L’approdo alla storia narrativa decreta, per lo studio-so, “la fine del tentativo di arrivare ad una spiegazione coerente e scientifica del cambiamento del passato”: il problema, dice, del ricorso “alla narrazione descrittiva e minuziosa, o alla bio-grafia individuale… è sempre lo stesso, che cioè una tesi soste-nuta sulla scorta di questi esempi selettivi non è persuasiva sul piano filosofico: si tratta di un espediente retorico, non di una dimostrazione scientifica” 101.La risposta di Hobsbawm, sulle pagine della stessa rivista, non si fa attendere: “Lawrence Stone ritiene che vi sia una rinascita della ‘storia racconto’ perché c’è stato un declino della storia consacrata ai grandi ‘perché’ … [io credo invece che] questi storici, che continuano a credere nella possibilità di giungere a generalizzazioni a proposito delle società umane e del loro sviluppo, seguitano a essere interessati ai ‘grandi perché’, anche se talvolta possono concentrarsi su ‘perché’ diversi rispetto a quelli di venti o trent’anni or sono” 102: insomma l’assunzione di un punto di vista (micro piuttosto che macro, una situazione piuttosto che una struttura, un microscopio piuttosto che un telescopio) rinvia per Hobsbawm solo a una valutazione del mezzo più adeguato, talvolta l’unico e indispensabile, per co-

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gliere i fenomeni di uno stesso cosmo e non implica affatto una scelta – necessaria – fra monocausalità e pluricausalità.Nel frattempo anche un altro storico, e uno dei più eminenti annalisti, andava preparando la sua risposta. Nei primi anni Ottanta Jacques Le Goff aveva già cominciato a lavorare alla biografia di San Luigi: un lavoro che avrebbe impegnato più di dieci anni della sua vita e si sarebbe rivelato come l’impresa più difficile 103. Stone aveva definito la biografia come narrazione distesa sul filo della cronologia, organizzata in trame coerenti, anche se secondarie, incentrata sull’uomo e non sulle circostan-ze. Le Goff dichiara: l’oggetto di questo studio “non è il regno di san Luigi”, o “san Luigi e la sua epoca”, o “san Luigi è la cri-stianità”, o addirittura “il XIII secolo”; questo mio libro si oc-cupa “di un uomo” e parla del suo tempo “solo nella misura in cui” questo suo tempo “permette di gettare luce sull’uomo” 104. Ma si badi bene: non è la rinuncia ad ogni aspirazione a fare ‘storia globale’ quanto, al contrario, la rivendicazione di un va-lore e di una funzione euristica ‘globale’ della biografia. Luigi, re e santo, è una sorta di grumo in cui il popolo cristiano e civile della Francia della sua epoca condensa e sintetizza i propri mo-delli religiosi e nazionali. San Luigi è il “soggetto globalizzante” intorno a cui Le Goff organizza il proprio campo di ricerca.

Ora quale oggetto, più e meglio di un personaggio, cristal-lizza intorno a sé la totalità del suo ambiente e l’insieme de-gli ambiti che lo storico è abituato a suddividere nel campo del sapere storico? San Luigi partecipa al tempo stesso della realtà economica, sociale, politica, religiosa, culturale; opera in ciascuno di questi ambiti, pensandoli in un modo che lo storico deve analizzare e spiegare, anche se la ricerca di una conoscenza integrale dell’individuo in questione rimane una “ricerca utopica”. È necessario infatti… saper rispettare le lacune documentarie, non voler ricostruire quel che nascon-dono i silenzi di e su san Luigi… le sconnessioni che rompono la trama e l’unità apparente di una vita 105.

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La biografia di san Luigi è ben lontana dall’essere la superficie levigata, ordinata e chiusa di Stone: lo storico non teme le cre-pe, le smagliature nella trama della vita, non teme di rompere il filo dell’itinerario biografico con i “problemi” che balzano fuo-ri, improvvisamente, dalla vita di Luigi (la cui individuazione è una delle fatiche dello storico) e che Luigi si trovò ad affrontare nel suo cammino. Un cammino fatto di casualità, esitazioni, scelte, contraddizioni – mai razionalizzate dal suo biografo – che fanno di quel viaggio qualcosa di profondamente differen-te dell’incedere regale e imperturbabile, predeterminato, di un uomo verso il suo destino di santo e di monarca: quel viaggio è piuttosto, per Le Goff-san Luigi, una faticosa costruzione di sé e dell’epoca in cui si trovò a vivere, nella esatta misura in cui era costruito da essa.

6. Il dialogo Stone-Hobsbawm è uno spartiacque: esso indivi-dua il limes di un approccio ideologico – c’è un che di parti-to preso nota lucidamente Hobsbawm – e fortemente “auto-biografico” al problema 106. Il San Luigi di Le Goff, uscito nel 1996, è un esempio della trasposizione, dello slittamento felice, direi, del dibattito a livello di pratica della ricerca. Anche la falsa opposizione fra una ‘storia narrativa’ e una ‘storia scienti-fica’, strutturalista, sociologica, ecc, è stata svelata: ogni storia è narrativa, perché collocandosi per definizione nel tempo, cioè nella successione temporale, è necessariamente legata al raccon-to. E il racconto non ha nulla di immediato. Ma è il risultato di tutta una serie di operazioni intellettuali che costruiscono, e nel caso della biografia ri-costruiscono una vita 107. La scrittura di ogni biografia (di ogni libro di storia) presuppone la messa in ordine, di un nuovo ordine, dei fatti. Anche quando si attiene ai fatti documentati, il racconto li articola in un modo nuovo, li corregge, li ritocca. Se ogni biografia è una vita ritoccata, il racconto di una vita è sempre una biografia imperfetta. Questa consapevolezza, che ormai si è fatta largamente strada tra gli

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studiosi, impedisce a mio parere di cadere nel trappola alluci-nogena di cui parlava Jean Claude Passeron: l’illusione che una biografia ricostruisca autenticamente un destino.Ma l’acquisizione della fondamentale componente narrativa dei resoconti storici ha condotto, anche, per altro verso, ad una interpretazione inedita e radicale del rapporto fra sto-ria e narratività. La sfida più impegnativa è quella posta dal cosiddetto linguistic turn, o “svolta linguistica”, che trova in Hayden White una delle voci più autorevoli. Con l’autore di Metahistory – libro simbolo che nel 1978 sembrò innescare una rivoluzione all’interno della disciplina storica 108 – la sto-riografia è ricondotta alla sua dimensione testuale. Il tempo dei documenti è finito: la temporalità, in cui accadono gli eventi, di per sé è inattingibile; accessibile e interpretabile è invece il livel-lo delle descrizioni degli eventi stessi 109. Non voglio spingermi oltre su questo terreno se non per dire che alla provocazione scettica di chi ha svuotato e depotenziato del suo contenuto di realtà e di verità la scrittura storica, ha reagito, tra gli altri, Carlo Ginzburg che trasferendo invece opportunamente nel “vivo della ricerca… le tensioni fra documento e narrazione” ha introdotto nel dibattito, ancora in corso, una correzione di non poco conto, almeno ai fini del discorso che qui ci interessa. Modelli e forme narrative non intervengono nella narrazione storiografica alla fine, per organizzare retoricamente il mate-riale raccolto, esse sono piuttosto “istanze mediatrici tra le do-mande e le fonti”: elementi che influiscono profondamente sui modi originari in cui i dati storici vengono “raccolti, eliminati, interpretati, e infine, soltanto infine, naturalmente, narrati” 110.La narrazione, dunque, come riflesso, parte attiva, del percorso di ricerca e strumento per attingere alla realtà 111.

7. Da Omero la letteratura ci insegna che non è possibile, non è immaginabile alcuna ricostruzione a tutto tondo di un per-sonaggio o di un destino. La sua natura stratificata e irrisolta

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rendono arduo ogni tentativo di ricomposizione. I romantici e dopo di loro la grande letteratura moderna dissipano l’ottimi-smo di Wilhelm Meister, eroe prediletto del classicismo tedesco, incarnazione della compiuta formazione dell’uomo o quanto meno della possibilità di realizzare la propria personalità. Sul day after della Rivoluzione Francese soffia un vento che spazza via ogni speranza. I romantici sono dei rivoluzionari delusi: e se la vita compiuta ed armoniosa non è realizzabile, tanto meno lo è la biografia. Chi pretende di averne una priva di buchi e smagliature è destinato a diventare un gatto. Il gatto Murr di Hoffmann: ovvero una caricatura.

L’armonia fra l’individuo e il contesto sociale in cui egli vive – una armonia necessaria non solo per lo sviluppo della sua per-sonalità ma anche per la sua compiuta rappresentazione ossia per una compiuta biografia – appare a Hoffmann, ma anche a molti scrittori europei venuti dopo di lui, definitivamente per-duta nell’epoca moderna, in un’epoca nella quale il rapporto fra l’individuo e la società appare caratterizzato essenzialmen-te da scissione, lacerazione… incomunicabilità 112.

Claudio Magris ripercorre efficacemente la crisi dell’individuo – la lacerazione dell’io, il venir meno del rapporto dell’indivi-duo con se stesso, la rinuncia alla vita e alla costruzione positi-va della propria personalità, la negazione di ogni ruolo sociale – quale affiora nella letteratura moderna e poi contemporanea e non solo della Mitteleuropa: da Dostoewskij a Hoffmann, da Musil a Canetti, da Strindberg a Melville, in un crescendo e in una radicalizzazione che travolge molti scrittori e li porta ad interrogarsi sul rapporto tra vita e opera, tra vita e scrittura. Lo scrittore contemporaneo non ha alcuna vera e propria bio-grafia, almeno nel senso tradizionale del genere, non ha alcuna storia, perché una storia che voglia raccontare la sua vita non può che essere frammentata e disconnessa come il suo Io – non ho alcun Io, non è alcun Io Clarisse la protagonista de L’Uomo senza qualità –, e anche l’atto della scrittura che avrebbe potuto

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funzionare da principio ordinatore e identitario si trasforma in un viaggio agli inferi: discesa nei meandri della molteplicità ca-otica e disgregante che rende assolutamente problematica ogni rappresentazione compiuta dell’individuo e del suo rapporto con il mondo 113.La novella di Hoffmann, la storia del gatto Murr e del suo pa-drone il direttore di orchestra Kreisler, la cui vita non può esse-re conosciuta nel suo bell’ordine perché lo scrittore che avrebbe dovuto scriverla ha a disposizione soltanto brandelli, tessere scomposte, che finiscono per confondere e aggrovigliare, più che costruire, le trame della sua esistenza, è, in qualche modo, il manifesto ironico e amaro dello spezzettamento di ogni io individuale e della sua impermeabilità alla camicia di forza di una identità compatta. Il doloroso manifesto di una biografia impossibile.La letteratura del Novecento è ricca di esempi. Lo stesso nar-ratore-Magris, esegeta attento e interprete sensibile di questa scomoda posizione esistenziale e intellettuale, non sfugge, per sua stessa ammissione, alle maglie della dissoluzione. Se il suo viaggiatore danubiano è un io labile e acquoso come il lungo fiume di cui segue il percorso, il lungo Danubio trasporta e trascina, può soltanto trasportare e trascinare, fin sotto i no-stri occhi, mormorii di voci, frammenti di storie, bocconi di vite 114. Frammenti di storie: il romanzo breve, Un altro mare è manifestamente “la impossibile biografia” di un uomo (e del suo tentativo di scomparire e sottrarsi alla vita) ricostruita at-traverso la paziente raccolta di “quei pochi dati” sull’esisten-za del professore Enrico Mreule: pochi dati, che il narratore Magris raccoglie, e soprattutto labili tracce – una casa senza luce né acqua, le povere suppellettili, un baule pieno di classici greci – poche tracce scalcagnate, uniche orme di una esistenza terremotata 115.Ora però quel che è significativo, e nuovo, è che come le piccole esistenze che il fiume restituisce e che il viaggiatore raccoglie sul suo ciglio sanno ricomporsi in un mosaico capace di raccontare

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la Mitteleuropa danubiana e di evocare la sua storia e le sue atmosfere, così i pochi frammenti della vita di Ernico Mreule diventano pietre capaci di brillare, fatti e cose capaci di narrare l’epifania di una esistenza. Sono infatti quei

piccoli dettagli che spesso possono svelare, come una rivela-zione, il senso, lo stile, la melodia di una vita, così come uno sguardo o un gesto ci possono svelare l’atteggiamento verso la vita di una persona, ci possono far balenare il senso della sua esistenza e indurci a tracciare il disegno di quest’ultima sulla base di quel baleno… In certi casi si tratta dell’unica biografia possibile.

Non voglio avventurarmi oltre… Ma, ciò che mi pare interes-sante sottolineare è che Magris proprio nella ricerca di una ‘impossibile biografia’, nello sforzo di strappare a quell’io frammentato, a quell’esistenza dispersa di cui vuole tracciare la storia, quanti più frammenti possibili che lascino intravede-re e che evochino una vita e il suo significato, a differenza di Hoffmann, proclama la sua non arrendevolezza, la sua impos-sibile rinuncia ad attraversare quell’arcipelago acquoso da cui emergono, come tanti relitti, tronconi di vita. Ed è nella con-sapevolezza amara di questa insolubile difficoltà, eppure nel tentativo obbligatorio di attraversare il deserto per giungere alla terra promessa, sapendo che non esiste nessuna promessa di successo, che la letteratura non approda al nichilismo e che l’uomo salva se stesso.La frammentazione dell’io si traduce in una scoperta delle sue potenzialità. La condizione esistenziale dell’uomo-narratore si fa, per utilizzare il linguaggio dello storico, ‘metodo’. Cos’era del resto Menocchio se non il “frammento sperduto, giuntoci casualmente, di un mondo oscuro, opaco” che solo attraverso un gesto “arbitrario” dello storico veniva ricondotto “alla no-stra storia”? 116.Magris è cantore convincente di questa, se posso chiamarla così, poetica del frammento. Se ogni vita, se ogni biografia si

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frantuma in schegge, scrive infatti, “ogni scheggia possiede in misura addirittura accentuata una sua propria, incancellabile, realtà. Che andrebbe irrimediabilmente perduta se la scheggia venisse integrata, come un mattone, nell’armonioso edificio di una biografia a tutto tondo” 117, quelle “biografie tradizionali”, che peraltro proprio grazie all’assunzione di questa ottica di scomposizione, di valorizzazione del dettaglio, diventeranno una “miniera di materiali”, architetture di mattoni-frammenti, ciascuna delle quali, come un riflesso, può evocare “altre possi-bilità” di quel personaggio e aspetti della sua figura fino a quel momento rimasti in ombra 118.Se ho indugiato a lungo su una strada che può apparire tanto laterale, è perché a mio avviso sul tavolo del romanziere si sono posati temi e problemi non estranei agli storici. E la direzione-soluzione che il romanziere ha additato costituisce una risposta non scettica alla possibilità di trasformare le costrizioni, esi-stenziali in questo caso, in sfide, le sfide in scelte.

8. L’esplosione dell’individuo (personaggio storico), la dicotomia tra biografia a tutto tondo e biografia-frammento, la capacità del frammento di indicare delle possibilità biografiche. Per altre strade gli storici, la cui consuetudine con il frammento è genetica – cosa sono le fonti se non il resto, ovvero ciò che rimane di un universo originario? – avevano affrontato gli stessi nodi.Si era negli anni Cinquanta, una stagione assai singolare della medievistica italiana che si dibatteva nel tentativo di togliersi di dosso il pesante fardello di scuole ideologiche che ancora si stavano fronteggiando e trovare strade autonome ed originali che non ricalcassero le impostazioni cattolica, crociana, mar-xista. Era il 1954, per essere precisi, quando Arsenio Frugoni decise di affrontare, come racconta nella prefazione, il “caso Arnaldo”: una strada che conduceva direttamente al cuore di quel secolo XII, punto caldo di un “Medioevo cristiano” in cui gli studiosi di storia dello spirito andavano concentrando i loro

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sforzi. Il libro “fu subito salutato come veramente nuovo”: un “autentico capolavoro” 119. Non è necessario indugiare molto sui contenuti dell’Arnaldo da Brescia, testo ben conosciuto che ha suscitato attente letture e sollevato più di una riflessione. Se non per dire che di quella dispersa esplosione dell’individuo, di quella dissoluzione del personaggio storico, di cui sopra si diceva, l’opera di Frugoni è specchio e punto di partenza per una operazione ardua quanto innovativa.

Tutti sanno come niente, scritto da Arnaldo, ci sia pervenuto, ma come un piccolo manipolo di biografie e di documenti di varia … natura lo riguardino… Orbene quel manipolo è stato più volte sottoposto ai più svariati sforzi combinatori. Come se si trattasse di tessere perfette di un mosaico, si sono acco-state le testimonianze… con una infinita fiducia nella prov-videnza, tanto benevola nel confronto degli storici da offrire loro, sempre, tutti gli elementi per una soddisfacente ricostru-zione biografica… Dunque le fonti sono state ordinatamente disposte… poi ogni storico ha aggiunto il suo connettivo. C’è chi ha abbondato nelle ipotesi di fatti integrativi: ci si pone una domanda, le si danno due o tre risposte, si sceglie la più probabile e quell’opinione…diventa… quasi una testimo-nianza, sulla quale rispuntano altre domande e così via: un curioso stemma di ipotesi… C’è chi ha adoperato connettivo più pregevole. Sono le storie che inquadrano Arnaldo nelle vicende, nei sentimenti, nelle idee del tempo… Ma quell’Ar-naldo è ancora sempre quella figura costruita con la tecnica combinatoria che abbiamo lamentata. Dunque vero come at-mosfera… ma personalità per se stessa affatto storicamente consistente” 120.

Lo strale polemico di Frugoni va a colpire quegli sforzi combi-natori, quella più o meno elegante cucitura di tessuti “connet-tivi”, quei “restauri” integrativi e ricostruttivi che hanno avuto l’effetto di contraffare e appesantire la figura del predicatore facendone un mosaico dalle tessere perfette: una soddisfacente ricostruzione biografica. Lo storico invece, nelle vesti di giudice – habitus che anticipa e suggerisce quanto quarant’anni dopo,

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sul clamore e l’urgenza di un fatto di cronaca, Ginzburg avreb-be scritto 121 –, si volgerà ora ad interrogare le fonti chiedendo loro di farsi testimoni e sollecitandole con le armi di raffinate tecniche filologiche ed esegetiche, a confessare i loro interessi, i loro ideali, le loro conoscenze, per poi ascoltarle finalmen-te, attentamente, quando parleranno di Arnaldo: Bernardo di Chiaravalle, Ottone di Frisinga, Giovanni di Salisbury, l’Ano-nimo lombardo e molti altri saliranno sul banco, uno dopo l’altro, nello sguardo di ogni testimone il giudice-storico scor-gerà il personaggio osservato, e in una rifrazione reciproca, in un gioco di specchi l’Arnaldo osservato rimanderà all’occhio dei suoi osservatori che nell’osservare Arnaldo rinvieranno al loro tempo. Il giudice storico esaminerà “in controluce” la loro deposizione, non cercando di “adattare” le affermazioni di un testimone a quelle di un altro testimone, magari lontanissimo da lui, o a “una situazione tracciata per generalità” ma solo a quanto egli sa “della fonte che sta interrogando”. E finalmente, il risultato di quest’opera paziente, di questo processo alle fonti “in controluce”, restituirà una figura nuova.È un “restauro” – metafora assai cara allo studioso – ma di se-gno diverso da quello che l’ha preceduto. Un restauro che libe-ra la figura del predicatore, espressione tipica dell’evangelismo del XII secolo, dalle “incrostazioni” con cui pseudo-problemi, griglie ideologiche lo hanno camuffato. Certo: sul piatto della bilancia, il primo Arnaldo, gravato e dissolto dalle tante, diver-se, perfette compiute rappresentazioni di Arnaldo, era molto più pesante. L’Arnaldo di Frugoni è invece solo un “ritratto ridotto a frammento”, ma uno “di quei frammenti di scultura antica, dai tratti…di una suggestività vigorosa”, di cui l’autore cerca di cogliere “il significato dell’esperienza”. Un frammento: “poco”, certo, conclude Frugoni: ma proprio perché Arnaldo è un personaggio di cui poco sappiamo; e tuttavia perché questo “poco” possa parlare, possa tornare a funzionare come una lente, questo storicamente accertabile esiguo personaggio, deve tornare a riappropriarsi del suo esiguo consistente.

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Un ritratto “ridotto a frammento”. Dotato di una propria, in-cancellabile, vigorosa, realtà. Che ne fa la parte maggiore del tutto. Ho la sensazione che il Frugoni dell’Arnaldo avvertisse molto la forza del frammento, ne fosse come sedotto, senten-done tutta la fisicità, la corposa concretezza. Insieme al dovere di una fedeltà. La proposta metodologica, l’avversione per gli sbandamenti ideologici, gli eccessi costruttivi, le iperboli con-nettive, le “esuberanze interpretative”, come le chiama Sergi 122, sono certo frutto degli umori di quegli anni, di quel clima plu-ralistico, destrutturante, di quell’accesa sensibilità di una ge-nerazione di medievisti, “in crisi”, come qualcuno ha detto 123, ma se ancora oggi l’opera dello storico la sentiamo tanto vicina alla nostra sensibilità, è forse (anche) perché essa richiama ad un’etica del mestiere di storico, al suo senso profondo, e invita ad aver coraggio, a non temere i vuoti, a non guardare con so-spetto una realtà che ci si presenta fluida e atomizzata. Arnaldo da Brescia mette in guardia sul compito difficile, ma ineludibile, per lo storico (anche quando, soprattutto quando egli studia un individuo) di operare un allargamento della prospettiva rispet-to al soggetto studiato sforzandosi però di dare polpa, “con-cretezza storica” a quell’allargamento, ed evitare di cadere nel trabocchetto dell’astrazione.Il contesto, insomma, come paesaggio vivo, magmatico, e non trascendente al divenire delle cose 124. Arnaldo da Brescia è an-che questo: una scommessa difficile. E molto altro. Una para-bola sul difficile maneggio delle fonti. Una condanna dell’ansia deterministica. Un anelito a liberarsi dalle gabbie. Un monito contro l’eccessiva ricerca di sistematicità. Un grido di allarme per le soddisfacenti ricostruzioni biografiche, stemmi di ipotesi, troppo perfette.La fonte, lo storico, il filtro. Anche nella biografia, a questa altitudine, il percorso – Frugoni ci ha insegnato – si mostra scosceso. Ma possibile.

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Il libro nasce, come ogni libro, con un peso di gratitudine. Verso altri libri (in Bibliografia) e verso molte persone: occa-sioni, incontri, parole, personalità, influssi, che sarebbe lungo e difficile elencare. Del sapere e del sostegno di maestri, colle-ghi, amici, ho approfittato: il primo grazie dunque a Gabriella Piccinni che da molti anni segue, non senza fatiche, il mio lavoro; con lei e Giovanni Cherubini ho discusso la prima idea di questo libro che poi è stato accolto nella collana che essi dirigono insieme a Franco Franceschi. Anche di questo sono loro grata. A Michele Pellegrini, che ha dato bellezza, nel lavoro e nell’amicizia, alla reciprocità; a Sergio Raveggi, a Maria Ginatempo, a Tommaso Detti per l’attenzione, i sug-gerimenti, le critiche, va la mia riconoscenza. È una gran cosa avere accanto persone che hanno voglia di parlare e discu-tere con te. La lunga frequentazione delle sale dell’Archivio di Stato di Siena ha acceso poi un debito per la gentilezza e la professionalità di cui ho goduto e godo. Infine: a chi nella sgranatura del quotidiano c’è stato sempre, a suo modo, quel-lo giusto; a Daniela; a Franca, Sestilio, grazie.

1 Da alcuni anni torna alla ribalta e si propone alla riflessione degli studiosi un Medioevo come luogo del conflitto fra ceti, prospettiva che per lungo tempo era scomparsa, o fatta meno visibile, negli orientamenti storiografici. Nel 1991 Giovanni Cherubini lamentava “quello che ormai si è un po’, ed anche più che un po’ attenuato è … l’interesse per i conflitti sociali in quanto tali, per le ragioni materiali e ideali che li muovevano e soprattutto per i conflitti, diciamo così di classe contro classe o di gruppo sociale con-tro gruppo sociale”: Cherubini, Movimenti e sommosse popolari del XIV secolo, 1991, pp. 41-59, cit. p. 42. Del riaprirsi di un orizzonte di studi è se-gnale importante il volume dedicato a Protesta e rivolta contadina nell’Ita-lia medievale, a cura di G. Cherubini, pubblicato negli “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, 16 (1994) che pone al centro dell’attenzione i rapporti e le frizioni tra proprietario/contadino; signori/comunità rurali; politica cittadi-na/campagna, grazie ad analisi distese su tutto il millennio medievale nelle diverse regioni o formazioni statali della penisola. In quella sede Gabriella Piccinni (con il concorso della sottoscritta) inseriva nella rappresentazione del conflitto un terzo attore dimostrando la necessità di leggere il rapporto (non privo di comunanze di interessi) tra mezzadri e proprietari cittadini in

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una prospettiva triangolare che contemplasse anche le comunità contadine: Mucciarelli, Piccinni, Un’Italia senza rivolte? Il conflitto sociale nelle aree mezzadrili, in Protesta e rivolta, pp. 173-205.

2 Sulla diffusione e le forme del conflitto tra nobiltà e popolo, denominatore comune a tutti gli svolgimenti comunali, ma differente nelle tappe del suo sviluppo e nell’intensità, esiste una corposa bibliografia che è impossibi-le citare: per brevità, a scopo esemplificativo, si veda Grillo, Milano in età comunale, 2001, che interpreta gli anni 1183-1277 come “un secolo di conflitto politico”, pp. 643 sgg. Recentemente Jean Claude Maire Vigueur, affrontando la storia della società comunale italiana attraverso il problema della militia e della guerra cittadina, fra XII e XIII secolo, ha precisato il rapporto che intercorre tra i conflitti (di età consolare e podestarile) e co-mune: “lungi dal manifestarsi sotto forma di una esplosione incontrollata di odio e violenza, quei conflitti si svolgono o meglio operano secondo regole che sono connaturate al regime comunale … Forzando un po’ le cose po-tremmo dire che la società comunale gestisce … i suoi conflitti allo stesso modo in cui l’individuo gestisce le sue nevrosi: in modo da non subire … un trauma irreversibile”. L’autore dedica ampio spazio ai modi, alla mor-fologia, alla gestione dei conflitti sia intrafamiliari sia tra milites e popolo: così “l’avvento del podestà” diventa “il tempo dei grandi scontri”: Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comuna-le, 2004, pp. 460 sgg. Che l’avvento del regime podestarile non si connotas-se neutralmente, in chiave istituzionalistica, ma al contrario dovesse essere inquadrato in una visione ‘conflittuale’ in sintonia, del resto, con quanto le scritture storiografiche duecentesche proponevano: Cammarosano, Il ri-cambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo, in Magnati e popolani, pp. 25-28. Sulle forme del conflitto popolo-milites, i contribu-ti raccolti in Magnati e popolani nell’Italia comunale, 1997; per la realtà non urbana, può vedersi tra gli altri Castagnetti, Il potere sui contadini. Dalla signoria fondiaria alla signoria territoriale. Comunità rurali e comuni cittadini in Le campagne italiane prima e dopo il Mille. Una società in tra-sformazione, a cura di B. Andreolli, V. Fumagalli, M. Montanari, 1985, pp. 217-251 (pp. 228 sgg.).

3 Anche nei più recenti e originali sviluppi della storiografia giudiziaria, stu-diosi come Wichkam spostano il baricentro della loro analisi dal terreno della teoria giuridica per privilegiare lo studio dei comportamenti e delle azioni delle parti in conflitto. L’apertura alle influenze del metodo antropo-logico consente allo studioso anglo italiano di inserire l’analisi del conflitto in una cornice più ampia, in un dramma sociale, in cui le norme giuridiche e legali, parte costitutiva del gioco ‘strategico’, divengono regole ‘negoziabili’. Wickham, Legge pratiche e conflitti, 2000, ma dello stesso autore anche il precedente (Idem, Dispute ecclesiastiche e comunità laiche, 1988). Lo stesso approccio connota gli studi di Massimo Vallerani e Andrea Zorzi. Ho ten-tato una lettura più ampia di un caso giudiziario in Mucciarelli, La terra contesa, 2001.

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4 Per un panorama dei caratteri della legislazione antimagnatizia si rinvia al classico Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia, 1939, pp. 86-133, 240-309 e ai più recenti contributi raccolti in Magnati e popolani nell’Italia comunale, 1997.

5 È l’ottica di Mondolfo, Le cause e le vicende della politica del comune di Siena, 1904, p. 29, citato in Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina, 1988, p. 77.

6 I “transfughi”, come li chiama Maire Vigueur, sono un fenomeno costante della storia. Uomini che abbandonano la loro parte per mettersi con il “ne-mico”. Nel caso dell’Italia comunale, fa notare lo studioso, in cui molti no-bili hanno partecipato in veste attiva e spesso nel ruolo di capi al movimen-to popolare, il fenomeno è assai poco studiato: “gli storici, scrive, si sono in genere accontentati di spiegazioni banali: tutti quei nobili ambirebbero solo a consolidare la potenza del loro lignaggio”. Lo studioso francese propone invece una lettura più ampia e lo scollamento affonderebbe le sue ragioni nelle divisioni interne alla nobiltà, direttamente nel fossato che separa le due categorie di milites (la nobiltà capitaneale o signorile dal resto della militia): vedi Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini, pp. 481 sgg.

7 Visione ‘immobilista’ spesso rimproverata a P. Jones che ha tuttavia avuto il merito di sollecitare nuove e contrastanti riflessioni sul peso esercitato dalla componente nobiliare. Mi riferisco alle note posizioni espresse in Jones, Economia e società nell’Italia medievale, 1978, pp. 185-372 e Idem, La sto-ria economica, 1974, pp. 1467-1810. Riserve e critiche sono state espresse da Polica, Basso Medioevo e Rinascimento, 1979, pp. 287-316; Bordone, Tema cittadino e “ritorno alla terra”, 1983, pp. 255-277 (in particolare pp. 255-264); Rossetti, Il comune cittadino, 1988, pp. 25-44. Si vedano anche gli interventi di Cammarosano, Malanima, Mozzarelli e Nobili in “Società e Storia”, 5, 7, 10 (1979-1980).

8 Sulla novità innescata dalle vicende duecentesche nella struttura sta-tuale della res publica valga esemplarmente la considerazione di Paolo Cammarosano: “fu sancita definitivamente l’impossibilità di una ripropo-sizione dello stato cittadino come ‘naturalmente’ retto da un complesso di famiglie: questo fu il vero punto di non ritorno, segnato dalle evoluzioni politiche del Duecento qualunque fosse il loro esito costituzionale, e che im-pedisce ogni minimizzazione ed ogni visione continuista”: Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione, p. 39. Nella lettura del caso senese tende invece ad obliterare questo dato, Waley, Siena e i senesi nel XIII secolo, 2003.

9 Moro, Il tempo dei signori, 1981; Labatut, Le nobiltà europee, 1982; Maravall, Potere, onore, élites, 1984; Kiernan, Il duello, 1991.

10 Bloch, La società feudale, 1962; Guilhiermoz, Essai sur l’origine de la noblesse, 1902.

11 La lettura di Bloch contrastò, da un lato, con la concezione tradizionale del-la nobiltà di antico regime su base razziale, secondo cui essa sarebbe deriva-ta al tempo delle invasioni barbariche dai capi di guerra delle tribù franche conquistatrici: l’idea nata in ambito tedesco e propugnata in Francia dal

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Pasquier nel corso del Cinquecento era che “i nobili avevano ricevuto il proprio stato giuridico privilegiato quando i re franchi distribuirono loro le terre galliche conquistate” (Labatut, Le nobiltà europee, p. 85). Dall’altro lato, si scontrò con gli orientamenti che animavano nel corso degli anni Trenta e Quaranta il dibattito storiografico in area tedesca, impegnato a valorizzare una presunta millenaria nobiltà di sangue di ascendenza antico-germanica perdurante immutata o quasi per tutto il medioevo e oltre. Alla realtà descritta dai sostenitori della cosiddetta scuola della “Neue Lehre” non era necessaria l’esperienza cavalleresca sostenuta da Bloch per presen-tarsi come nobiltà di sangue: la nobiltà germanica, per la quale la virtus connessa con la nascita svolgeva un ruolo fondamentale, individuava un gruppo sociale vocato al dominio sul territorio nel quale svolgeva un diritto di difesa armata pressoché illimitato, che proprio in virtù di tale potere eser-citato in via permanente era depositaria di una sovranità non molto diversa da quella del re (sugli orientamenti della Neue Lehre a proposito di famiglia e nobiltà possono vedersi gli spunti in Tabacco, Il tema della famiglia e del suo funzionamento nella società medievale, 1976, pp. 901-928). Esemplari a cogliere gli sviluppi di quella posizione dottrinaria le visioni signorili del-la società medievale di Brunner, Storia sociale dell’Europa nel medioevo, 1980; Bosl, Modelli di società medievale, 1975. Per una più ampia riflessio-ne su questo tema si veda Bordone, L’aristocrazia: ricambi e convergenze ai vertici della scala sociale, 1988, pp. 145-175: 147 sgg.

12 L’interesse per le vicende familiari delle grandi stirpi nobiliari germaniche collegandosi con una tradizione di studi genealogici anteriore alla Neue Lehre ma che da essa riceveva nuovi stimoli, condusse in Germania a un’im-plicita revisione delle affermazioni di quella scuola, attraverso un’ampia ri-costruzione dei gruppi parentali secondo il metodo prosopografico attivato da Gerd Tellenbach e dai suoi allievi. Sulle linee di sviluppo della ricerca condotta da Tellenbach e dalla sua scuola, nonché sui riflessi che tale im-postazione ha avuto nella produzione italiana – ad esempio nei lavori di Vito Fumagalli – vedi Carocci, Genealogie nobiliari e storia demografica. Aspetti e problemi (Italia centro settentrionale, XI-XIII secolo), 1994, pp. 87 sgg. A Bloch – più o meno contemporaneamente all’avvicinamento di Tellenbach – si accostava indirettamente anche Duby. Fu soprattutto in-torno al tema della cavalleria e al suo significato che Duby concentrò la sua attenzione: partito dall’idea di un irrigidirsi in senso ereditario della cavalleria durante l’XI secolo per resistere ai nuovi poteri di banno svilup-patisi in conseguenza della crisi del potere centrale, giunse alla conclusione che soltanto nel corso del XII secolo la cavalleria diventò uno strumento di nobilitazione grazie alla valorizzazione che ne fece la cultura ecclesiastica con l’elaborazione della dottrina dei tre ordini e dell’esaltazione del ruolo di protezione della comunità cristiana svolto dalla militia cavalleresca (Duby, Lo specchio del feudalesimo, 1981. Dello stesso autore vedi anche il saggio La diffusion du titre cheveleresque sur le versant méditerranéen, comparso in La noblesse au Moyen Age, a cura di P. Contamine, 1976. Sulle posizioni

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espresse da Duby in materia di cavalleria rinvio ad Albertoni, Alla ricerca del miglior cavaliere del mondo, 1999, pp. 119-136).

13 Tabacco, Su nobiltà e cavalleria nel Medioevo. Un ritorno a Marc Bloch?, 1979, pp. 5-25; Idem, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze tra XII e XIII secolo, 1976, pp. 41-76; Idem, Nobiltà e potere ad Arezzo in età comunale, 1974, pp. 1-24.

14 Salvemini, La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, 1896 (ried. 1972); Fasoli, Lineamenti di una storia della cavalleria, 1958, pp. 89-93; Mor, La cavalleria in Nuove questioni di storia medievale, 1964, pp. 129-143, Cfr. anche il breve intervento di Cristiani, Sul valore politico del ca-valierato nella Firenze dei secoli XIII e XIV, 1962, pp. 365-371.

15 Keen, La cavalleria, 1986. L’autore mise in evidenza l’importanza dei va-lori aristocratici nella vita cittadina e la natura particolare, non puramente “borghese”, del ceto dominante delle città italiane.

16 Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, 1987, so-prattutto pp. 397-415. Lo studioso è tornato recentemente sul tema della militia in età comunale per sottolineare la vicinanza tra le due categorie di milites, chi combatte a cavallo e chi è decorato del cingolo cavalleresco: Idem, Cavalieri e cittadini, 2004.

17 Fra i molti interventi dell’autore sull’argomento si vedano soprattutto Cardini, “Nobiltà” e cavalleria nei centri urbani: problemi e interpreta-zioni, 1982, pp. 13-28; Idem, Vita comunale e dignità cavalleresca a Siena, 1989, pp. 269-288; molti dei saggi sull’argomento sono editi in Guerre di Primavera. Studi sulla cavalleria e la tradizione cavalleresca, 1992.

18 Gasparri, I milites cittadini. Studi sulla cavalleria in Italia, 1992.19 La definizione è di Bordone, L’aristocrazia, p. 170; sul significato ‘largo’

del termine milites Gasparri, I milites cittadini, 1992; Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini.

20 Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione. Questa linea interpretativa è stata verificata grazie alle analisi svolte sulle città di Siena (Giorgi, I ‘casati’ senesi e la terra. Definizione di un gruppo di famiglie magnatizie ed evolu-zione dei loro patrimoni immobiliari, 1993), Asti (Artifoni, Una società di “popolo”, 1983, pp. 545-616), Mantova (Torelli, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, 1952), Vicenza (Cracco, Da Comune di famiglie a città-satellite, 1987, pp. 73-138), Padova (Hyde, Padua in the Age of Dante, 1966; Bortolami, Fra “alte domus” e “populares homines”, 1985, pp. 3-74), Firenze (Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella secon-da metà del Dugento, 1978).

21 A Bloch, che definiva la storia come scienza degli uomini nel tempo, è stata spesso attribuita un’ostilità verso il genere biografico: la posizione dello sto-rico, commenta invece Jacques Le Goff, era piuttosto quella di un “ramma-rico… [perché secondo lui] la biografia come la storia politica non era pron-ta ad accogliere il rinnovamento del pensiero e della pratica storiografici” (Le Goff, San Luigi, 1996 p. xix). Una nota esplicativa prevista da Marc

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Bloch ad un passaggio della sua Apologia, è utile a chiarire la sua posizione “È da gran tempo invero che i nostri ‘maggiori’, un Michelet, un Fustel de Coulanges, ci avevano insegnato a riconoscerlo: l’oggetto della storia è, per natura l’uomo”. La nota, riportata nell’edizione critica del 1993 (uscito in Italia nel 1998) recita: “Fustel de Coulanges … lezione di apertura del 1862 … ‘Noi ci occupiamo sia dello studio dell’uomo singolo, e sarà filosofia, sia dello studio dell’uomo sociale, e sarà storia’. Conviene aggiungere che Fustel, più tardi, ha enunciato con una formula più stringata e più pregnan-te, della quale il passo appena letto non fa altro, alla fin fine, che fornire un commento: ‘La storia non è l’accumulazione degli eventi di qualsiasi genere che si sono verificati nel passato. Essa è la scienza delle società umane’. Ma ciò significa forse, lo vedremo in seguito, ridurre eccessivamente nella storia la parte che vi ha l’individuo”. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di Storico, 1998, p. 22 e nota.

22 Per una storia dell’archivio familiare e la descrizione del suo contenuto rin-vio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, 1996, pp. xv-xix.

23 Tra i molti possibili, mi piace citare per il grande esempio metodologico che fornisce il bel profilo di Ruggieri Appugliese ricostruito con finezza da Gabriella Piccinni: Piccinni, Un intellettuale ghibellino nell’Italia del Duecento: Ruggieri Apugliese, dottore e giullare in Siena, 2003, pp. 53-85.

24 “Perché un testo indigua, rallenta, prende tempo? … Indugiare non signi-fica perdere tempo … Nella narrativa accade che il testo presenti dei veri e propri segnali di suspense, quasi come se il discorso rallentasse o addirittura frenasse”: Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, 1997 (soprattutto pp. 61 sgg.: Indugiare nel bosco, dove l’autore esemplifica la tecnica degli indu-gi ne il Manzoni de I promessi sposi, Flaubert, L’educazione sentimentale); Vedi anche il caso proposto da Ginzburg: accelerazione, prodotta da uno spazio bianco, e rallentamento, improvvisa digressione, che si trova verso la fine dell’opera flaubertiana citata (Ginzburg, Decifrare uno spazio bianco, in Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, 2000, pp. 109-126). Sulle tec-niche letterarie dell’indugio (iterazione ecc.), e molti esempi letterari della “relatività” del tempo narrativo in Calvino, Lezioni americane, 1993, pp. 39-62 (Rapidità).

25 Genette, Figure III. Discorso del racconto, 1976, pp. 81-134, vedi pp. 84 e 87-88 (ed. orig. 1972).

26 Sgambati, Le lusinghe della biografia, 1995.27 Lopez, Genova marinara nel Duecento. Benedetto Zaccaria ammiraglio e

mercante, 1933.28 Delle ombre più che delle luci che circondavano la storia economica della

città parlava nel 1987 Carlo Maria Cipolla nell’introdurre il volume col-lettaneo su Banchieri e mercanti senesi, che dopo un lungo silenzio riaf-frontava il tema dello sviluppo bancario e mercantile di Siena (Cipolla, Introduzione a Banchieri e mercanti, p. 9). Da allora molti contributi hanno arricchito il quadro delle conoscenze e tuttavia un fastidioso senso di im-pressionismo pesa ancora sulla valutazione delle forme e dei risultati di quel

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potente dispiegarsi di risorse e di energie imprenditoriali. Per una bibliogra-fia su questi temi vedi ultra (Piccolomo di Oltremonte).

29 Il Duecento senese, in cui si compendia la fortunata parabola economi-ca cittadina, diventa un “convitato di pietra” per ogni analisi successiva: Tognetti, ‘Fra li compagni palesi et li ladri occulti’. Banchieri senesi del Quattrocento, 2004, pp. 27-100: 31.

30 La ricostruzione della vicenda, emblematica, perché assai simile a quella di altri, di due fratelli e mercanti senesi, Beringhieri e Dietisalvi di Guadagnolo, a partire dalle disposizioni testamentarie e dalle pratiche restitutorie lì contemplate, consente a Michele Pellegrini di ricostruire l’orizzonte etico e sociale dei protagonisti, e dunque di ampliare le conoscenze relative al mondo della mercatura cittadina, ancorché qui si tratti di rappresentanti di medi mercatores, nonché penetrare nei problemi dell’incontro tra pra-tiche usurarie, morale cattolica, iniziativa pastorale, evoluzione economi-ca: Pellegrini, Attorno all’’economia della salvezza’. Note su restituzione d’usura, pratica pastorale ed esercizio della carità in una vicenda senese del primo Duecento, 2004, pp. 59-102.

31 Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca, 1974. Alcuni appunti sulla storiografia dell’antica Grecia in Loriga, La biographie comme problème, 1996, pp. 209-231: 212.

32 Mailer, Le armate della notte. La storia come un romanzo, il romanzo come storia, 2001, citazioni alle pp. 87-88 (ed. orig. 1968).

33 Duby, La domenica di Bouvines, 1977 (ed. orig. Paris 1973). La citazione, riferita alla “riscoperta dell’evento” da parte degli storici, è di Ginzburg, Prove e possibilità. In margine a Il ritorno di Martin Guerre di Natalie Zemon Davis, 1984, pp. 131-154, citazione p. 132. Di contro, una lettura dissacrante e scettica, che frantuma e annulla l’evento, minando un presup-posto fondante del fare storia, l’opposizione fra fatto e finzione in White, L’evento modernista, in Storia e narrazione, 1999, pp. 117-140 (l’evento analizzato è l’uccisione di J.F. Kennedy).

34 Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, 2000 (ed. orig. 1968). Per un inquadramento dell’opera nel contesto di quegli anni si veda l’utile postfazione di G. Frasca, pp. 275-286. La biografia e l’opera dello scrittore in Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, 1989.

35 Power, Vita nel Medioevo, 1974 (1a ed. 1966).36 “La storia economica come oggi è intesa è la più moderna di tutte le bran-

che della storia”: ibidem, p. 11.37 Ibidem, p. 116.38 Ibidem, p. 149.39 Ibidem, p. 12.40 “Bodo rappresenta la vita rustica e un tipico fondo medievale in un momen-

to di prosperità; Marco Polo il commercio veneziano con l’Oriente; mada-ma Eglentyne, la vita monastica; la moglie del Ménagier, la vita domestica in una famiglia della classe media e la concezione medievale della donna; Thomas Betson, il commercio della lana e le attività della grande compagnia

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inglese dei Merchants of the Staple; Thomas Paycocke, l’industria della lana nell’East Anglia”: ibidem, pp. 7-8.

41 Furet, Pour une définition des classes inferieures à l’époque moderne, 1963, pp. 459-474.

42 L’analisi dei due studiosi culminò nel volume Herlihy, Klapisch Zuber, I Toscani e le loro famiglie. Uno studio sul Catasto fiorentino del 1427, 1988 (ed. orig. Paris 1978).

43 Vitali, Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, 2004, p. 13.

44 La questione sviluppata fra gli altri in Hobsbawm, Per lo studio delle clas-si subalterne, 1960, pp. 436-449. Più tardi affronta di nuovo il problema in History from Below: Studies in Popular Protest and Popular Ideology (1988), tradotto in italiano La storia dal basso, in De Historia, 1997, pp. 237-253. Utilizza il termine “cultura delle classi subalterne” o “classi popo-lari” Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, 1976 (nella prefazione, p. xi, e nota in cui si accenna al dibattito tra De Martino, Fortini ed altri).

45 Revel, Histoire et sciences sociales: les paradigmes des Annales, 1979, pp. 1360-1376.

46 Le Roy Ladurie, Lo storico e il calcolatore elettronico, in Le frontiere dello storico, 1976, p. 7.

47 Ginzburg, Il formaggio, p. xix.48 Esattamente l’opposto di Lippo di Fede del Sega studiato da C. De La

Ronciere: “son auteur en effet est parfaitement inconnu, il n’a joué dans sa ville auan role politique, il n’à appartenu à aucun société commerciale importante et l’histoire s’est bien gardé de retenir son nom… Sa médiocri-té meme est riche d’enseignements elle est significative au sens fort”: così nelle Avvertenze dell’autore, in de la Ronciere, Un Changeur florentin du Trecento. Lippo di Fede del Sega, 1973. Vedi ultra.

49 Vedi quanto scrive a proposito della stupefacente convergenza fra le po-sizioni di Menocchio e quelle dei gruppi intellettuali più raffinati del suo tempo: Ginzburg, Il formaggio, pp. xviii-xix.

50 Ibidem, p. xx.51 Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, riedito in Miti, emble-

mi, spie. Morfologia e storia, 1986, pp. 158-209, cit. p. 171 (1a ed. in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, 1979, pp. 59-106).

52 Febrve, Le problème de l’incroyance au XVIe siècle. La religion de Rabelais, 1968 (1a ed. 1942).

53 Ginzburg, Il formaggio, pp. xxiii-xxiv.54 Sui problemi e le conseguenze innescate dai processi di costruzione culturale

delle identità di gruppo, sulle operazioni politiche, sui rapporti di forza che stanno dietro a quei processi, può vedersi, per un approccio antropologico, molto legato alle inquietudini e ai malesseri odierni Aime, Eccessi di culture, 2004, che fornisce tuttavia utili spunti per l’analisi e il significato di termini, e del loro controverso rapporto, come identità, culture, conflitti.

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55 Cherubini, Una famiglia di piccoli proprietari contadini del territorio di Castrocaro (1383-1384), in “Rivista di Storia dell’Agricoltura” VII (1967), pp. 244-270, poi in Signori contadini borghesi. Ricerche sulla società italia-na del basso medioevo, 1974, pp. 467-500.

56 Per un profilo storiografico degli interessi e degli indirizzi di ricerca italiani, Medievistica italiana e storia agraria. Risultati e prospettive di una stagione storiografica, 2001.

57 Cherubini, Una famiglia, 1974, p. 479.58 Ibidem, p. 484.59 Cherubini, La proprietà fondiaria di un mercante toscano del Trecento

(Simo d’Ubertino di Arezzo), in “Rivista di storia dell’agricoltura” V (1965), pp. 49, 94, 143, 169 poi in Signori contadini, pp. 313-392: in questo stesso volume pubblicava per la prima volta il saggio Dal libro di ricordi di un notaio senese del Trecento, pp. 393-425.

60 “Qui de sotto e innanzi in questo libro scriverò… e farò memoria d’ongni mio fatto, cioè d’ongni mio traffecho ch’io farò, e scriverò apresso tutte le possessioni e generalmente ogni altra chosa de che io ne dovesse fare memoria”: il libro di memorie del mercante aretino, il Memoriale Rosso, come volle chiamarlo, è un registro abbastanza voluminoso che copre circa trent’anni (1361-1393); le “memorie” di ser Cristofano di Gano di Guidino, che non usa mai questo titolo per qualificare il suo libricino, ma afferma pure trattarsi di “memorie di certi… fatti… a fede, chiareçça e memoria de fatti miei”, è invece un registro di poco più di trenta carte: in entrambi i sag-gi Cherubini analizza struttura e potenzialità dei libri: Cherubini, Signori contadini, pp. 313-315 e 393-394. Su ser Cristoforo vedi ora Bonelli, Ser Cristofano di Gano Guidini. Biografia di un notaio senese del Basso Medioevo (1342-1410), 2004-2005.

61 Esplicito il nucleo di interesse intorno a cui ruota la vita di Simo d’Ubertino di Arezzo: il saggio titola infatti La proprietà fondiaria di un mercante to-scano del Trecento. Lo studioso indaga la relazione fra le attività mercantili e imprenditoriali di Simo di Ubertino (pp. 326-336) e gli investimenti im-mobiliari (pp. 337-338) e fondiari (pp. 338-345); le forme di gestione (pp. 345-352), la struttura della proprietà (pp. 352-358), la contrattualistica (pp. 358-364), il paesaggio agrario e le scelte colturali (pp. 364-373), i redditi (pp. 378-383) per chiudere con uno sguardo sulle condizioni dei contadini (pp. 383-392). Nella biografia di Cristoforo di Gano Cherubini sceglie di concentrarsi fra le altre cose su La costituzione del patrimonio fondiario (pp. 415-419), I rapporti di ser Cristofano con i mezzadri (pp. 419-425).

62 Così si esprimeva l’autore nella prefazione al volume Cherubini, Signori contadini, p. xii.

63 Lo stesso Cherubini faceva notare come gli storici si erano “molto spes-so preoccupati per mille buone ragioni di inseguire i personaggi illustri … gli operatori economici e le classi dirigenti”: Cherubini, Una famiglia, p. 467.

64 Il ‘mito’ di Federico e degli Hohenstaufen ripercorso da Wies, Federico

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Barbarossa. Ritratto di un imperatore e di un’epoca, 2001 (ed. orig. 1990). Su Federico II rinvio al libro di Abulafia, Federico II. Un imperatore me-dievale, 1990 (ed. orig. London 1988), e all’accurata disamina delle biogra-fie a lui dedicate a partire dal XIX secolo alle pp. 379-380. Su Carlo Magno è ora apparso in edizione italiana Hagermann, Carlo Magno. Il signore dell’Occidente medievale, 2004 (ed. orig. 2000), che riaffronta la vita del sovrano franco attraverso la lettura, quasi annalistica, delle fonti su Carlo e in particolare della Vita Karoli di Eginardo. La figura di questo sovrano è stata di nuovo recentemente catapultata al centro dell’interesse storiografi-co in virtù e in contemporanea al processo di unificazione europea: gli stori-ci individuano infatti nel periodo storico che trova una propria omogeneità nel nome e nella persona dell’imperatore franco, le “fondamenta di una storia che ha condizionato il processo storico moderno dell’Europa fino a oggi” (ibidem, p. xi). In questa visione si inquadra Barbero, Carlo Magno: un padre dell’Europa, 2000. Negli ultimi anni la medievistica italiana ha vi-sto misurare sul terreno della biografia, almeno della grande biografia, stu-diosi dalla più o meno consolidata, ma comunque indiscutibile vocazione divulgativa e letteraria – Cardini, Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I, 1985; e dello stesso autore Francesco d’Assisi, 1990 e Giovanna d’Arco: la vergine guerriera, 1999; Balestracci, Le armi, i cavalli, l’oro. Giovanni Acuto, 2003 –.

65 Masson, Frederick II of Hohenstaufen. A life, 1957 (cit. in Abulafia, Federico II, p. 380, nota). Il giudizio è di David Abulafia.

66 Una bella lettura dell’opera in Airaldi, Roberto S. Lopez: un ritratto, intro-duzione a Lopez, Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante nella Genova del Duecento, 1996, pp. vii-xxiv. Fra le biografie dei mercanti ricordo che nel 1958 usciva Origo, Il mercante di Prato Francesco di Marco Datini, 1958.

67 “Salutiamo con gioia la traduzione di questo avvincente volumetto…”: così inizia la recensione di Cherubini al volume della Power in occasio-ne dell’edizione italiana di Medieval People: Cherubini, Recensione a E. Power, Vita nel Medioevo, 1966, pp. 29-31.

68 Parafraso quanto in Power, Vita nel Medioevo, pp. 11-12. Thomas Carlyle aveva pubblicato nel 1841 On Heroes, Hero-Worship, and the Heroic in History: sull’importanza dell’opera del Carlyle vedi quanto scrive Sabina Loriga: Loriga, La biographie, pp. 216-220.

69 Dainelli, Marco Polo, 1941.70 Bellonci, Lucrezia Borgia, 1939. Un’interessante messa a punto dell’uso

delle fonti nel romanzo storico della Bellonci è fornito da Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di Maria Bellonci (che analizza specifica-mente la Lucrezia Borgia e Rinascimento Privato), relazione presentata al convegno “Narrare la storia. Dal documento al racconto” (Mantova, 22-24 novembre 2002) a cura di A. Barbero, che ringrazio per aver consentito la visione degli atti, in corso di stampa.

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71 Nel volume del 1974 accanto alle biografie di Simo d’Ubertino e Cristoforo di Gano Cherubini pubblicava infatti due saggi su Siena e Pisa che avevano a base indagini statistiche condotte su fonti catastali: Cherubini, Proprietari, contadini e campagne senesi all’inizio del Trecento, e Idem, Pisani ricchi e pisani poveri nel terzo decennio del Quattrocento, in Signori contadini borghesi, pp. 231-311 e pp. 430-465. “Ecco un chiodo fisso di Cherubini, rintracciabile in tutta la sua ormai molto ampia produzione storiografica, quello dei numeri che parlano… Cherubini appare affascinato dalla sfida della misurabilità di fenomeni…”: così si esprimeva l’allieva recensendo il più recente lavoro dello storico: Piccinni, Recensione a G. Cherubini, Città comunali di Toscana, 2004, pp. 359-365.

72 Nei primi anni Settanta Charles Marie de la Ronciere pubblica la vita di un cambiatore fiorentino: de la Ronciere, Un Changeur florentin, 1973.

73 Sanchez Albornoz, Una città della Spagna cristiana mille anni fa (stampe della vita di Leon nel secolo X), 1971 (ed. orig. Madrid 1926).

74 Ibidem, p. 118.75 Ibidem, p. 85.76 Ibidem, p. 39. La descrizione del perimetro urbano, gli assi viari, le porte

della città a p. 32.77 Vedi quanto scrive nella sua prefazione: ibidem, pp. 21-23.78 Ibidem, pp. 133-134.79 “Ciononostante, non tema il lettore gli eccessi della mia fantasia. Non vo-

glio fare favola ma storia, e come i filologi pubblicano i testi ricostruiti in forma tale che si possa sempre distinguere il nuovo dal vecchio, così procurerò di offrire in calce ad ogni pagina le testimonianze necessarie a dimostrare passo per passo le basi delle mie asserzioni”: ibidem, p. 24.

80 È la lettura di Ginzburg, Prove e possibilità, Postfazione a Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre, pp. 131-154 (citazione pp. 131 e 132). Sull’uso delle fonti da parte della studiosa: “quando non trovavo l’uomo o la donna di cui ero in cerca, mi sono rivolta per quanto possibile, ad altre fonti dello stesso tempo e luogo per scoprire il mondo che essi dovettero conoscere e le reazioni che poterono avere. Se quanto offro è in parte di mia invenzione, è però saldamente ancorato alle voci del passato”: Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre, 1984, p. 6.

81 Grendi, Microanalisi e storia sociale, 1977, pp. 506-520.82 Revel, Microanalisi e costruzione del sociale, 1994, pp. 549-572, cit. p.

567.83 Le Goff, San Luigi, p. XVIII.84 Hobsbawm, La storia del basso, pp. 237-253: 237 (il saggio uscì nel 1985

in onore di George Rudé).85 “La biografia costituisce una sorta di campo di caccia riservato ai letterati

nel caso migliore, ai giornalisti, ai saggisti di varia umanità per il resto; gli uni e gli altri in larga misura alla ricerca dell’effetto sul pubblico prima che dell’accertamento rigoroso di quanto raccontano. Gli ingredienti sono pur

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sempre gli stessi, anche se mischiati diversamente: gusto per il clamoroso, per gli aspetti più morbosi delle vicende intime, tendenza a subordinare la sfera pubblica a quella privata, restituendo – attraverso l’immagine del biografato che così offrono – una visione della storia fondata sul capriccio dell’individuo, sui suoi meccanismi psicologici, sui suoi traumi infantili e chi più ne ha più ne metta…”: così si esprimeva Alceo Riosa il 9 ottobre 1981 nell’introdurre il seminario, promosso dalla Fondazione G. Brodolini e dall’Istituto di diritto del lavoro e di politica sociale dell’Università degli studi di Milano, su Biografia e Storiografia, 1983, cit. a p. 12.

86 In uno sforzo di definizione del genere, dei suoi contenuti, dei suoi obiet-tivi, Sergio Romano propone la distinzione tra “biografia pedagogica” e “biografia romantica”, esortativa, propositiva, modello ideale da cui il let-tore deve trarre esempio di vita, la prima, tanto in auge fra Settecento e Ottocento, e potenzialmente storica, invece, la seconda. È infatti la biografia romantica che colloca l’uomo nel suo tempo e cerca di scomporre “l’irri-producibile dosaggio” che fa di lui un unicum: due sono i suoi obiettivi: il primo di ordine estetico, spingere il lettore a vestire una identità diversa, il secondo, storico, “servirsi della vita di un uomo come dell’unico luogo storico in cui si diano convegno… tutte le forze che concorrono a fare la storia”: Dentro il genere delle biografie romantiche e storiche egli vede una articolazione che distingue la “biografia ‘mostruosa’”, quella in cui il per-sonaggio si stacca dalla storia del suo tempo nel bene e nel male come una stravagante escrescenza, una vistosa disarmonia”, dalla “biografia aneddo-tica e chiacchierata”; la “biografia… in cui l’autore si colloca all’interno del protagonista per raccontarne la vita… in una sorta di cinguettio interiore”, come in quegli anni Pietro Citati andava facendo per alcuni grandi della letteratura (da Goethe a Manzoni), dal “grande saggio politico-biografico” in cui la storiografia italiana del secondo dopoguerra aveva dato il meglio di sé. Per Romano queste opere sono “’fondi d’oro’ in cui la figura del protagonista è appena rilevata su quella del contesto politico e culturale in cui egli ha vissuto”: a prevalere è quello che lui chiama “linguaggio ester-no e oggettivo”, contrapposto ad un punto di vista “interno e narrativo”: Biografia e Storiografia, pp. 16-20.

87 Ibidem, p. 10.88 Ibidem, p. 17.89 Ibidem, p. 11.90 Nonostante le riserve di Benedetto Croce verso il genere biografico, studiosi

che in misura differente si rifanno alla lezione crociana hanno dato, a parere di Riosa, un contributo in quella direzione: il riferimento è ad esempio alla vita di Cavour di Rosario Romeo (ibidem, p. 12). Sull’altro versante ricor-do, tra le altre cose, che fra 1975 e 1979 uscivano i volumi dedicati a Il mo-vimento operaio: dizionario biografico, 1853-1943, a cura di F. Andreucci e T. Detti, 1975-79.

91 Il debito nei confronti della critica femminista espresso da Georges Duby e Michelle Perrot in Per una storia delle donne, in Storia delle donne, a cura

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di G. Duby, M. Perrot, I, 1990, p. 12. Storica e femminista, la Buttafuoco nel 1975 aveva messo il dito nella piaga: “la lotta per la sua liberazione [della donna] non risulterà realmente efficace fino a quando essa stessa non avrà acquisito una lucida coscienza della sua reale funzione di nodo della cultura … perché priva di identità propria, inconsapevole portatrice di contenuti altrui, totalmente aliena da sé, si è fatta paradossalmente trasmettitrice e garante dei pregiudizi che stanno alla base della sua immagine culturale e che determinano la sua condizione esistenziale”: Buttafuoco, Appunti sul problema storico dell’inculturazione femminile. Note sul Medioevo, 1975, pp. 21-22.

92 Molti volumi apparsi nell’ultimo ventennio hanno contribuito a gettare luce sulla presenza e sul ruolo della donna nel mondo economico, sociale, filoso-fico, religioso, privato, del Medioevo. Non è qui possibile una rassegna. Mi limito a indicare alcuni contributi: raccolte di saggi specialistici corredati da ricca bibliografia, Storia delle donne, a cura di C. Klapisch Zuber, 1990; Il lavoro delle donne, a cura di A. Groppi, 1996 (si veda Piccinni, Le donne nella vita economica, sociale e politica dell’Italia medievale, in Il lavoro delle donne, pp. 5-46); sulla divisione del lavoro nelle campagne: Piccinni, Le donne nella mezzadria toscana delle origini: materiali per la definizione del ruolo femminile nelle campagne, 1985, pp. 127-182; una serie di illumi-nanti biografie di balie ricostruite da Sandri, L’ospedale di S. Maria della Scala di San Gimignano nel Quattrocento: contributo alla storia dell’infan-zia abbandonata, 1982, pp. 191-194. Su altro versante: Né Eva né Maria. Condizione femminile e immagine della donna nel Medioevo, a cura di M. Pereira, 1981; Pereira, Maternità e sessualità femminile in Ildegarda di Bingen: proposte di lettura, 1980, pp. 564-579; Klapisch Zuber, La fami-glia e le donne nel Rinascimento a Firenze, 1988.

93 A metà anni Settanta venivano pubblicati, postumi, i ritratti femminili di Power, Donne del Medioevo, a cura di M. Postan, 1978 (ed. orig. 1975), Pernoud, Eleonora di Aquitania, 1983. Nel 1989 usciva una raccolta di biografie al femminile i cui autori si proponevano di “restituire la voce alle donne medievali”, produttrici di cultura: Medioevo al femminile a cura di F. Bertini, F. Cardini, C. Leonardi, Mt. Fumagalli Beonio Brocchieri, 1989, che comprendeva: Cardini, Egeria la pellegrina; Leonardi, Baudonivia, la biografa; Cardini, Dhuoda la madre; Bertini, Rosvita la poetessa; Idem, Trotula il medico; Fumagalli Beonio Brocchieri, Eloisa, l’intellettuale; Idem, Ildegarda, la profetessa; Leonardi, Caterina la mistica. In quella de-cade alle scrittrici medievali (II-XIV secolo), Peter Dronke aveva consacrato il suo studio Dronke, Donne e cultura nel Medioevo, 1986 e K.M. Wilson coordinava il lavoro di alcuni storici impegnati a raccontare la vita e le opere di quindici scrittrici vissute fra il IX e il XIV secolo: Medieval Women Writers, 1984.

94 Seidel Menchi, A titolo di introduzione, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di S. Seidel Menchi et al., 1999, pp. 7-22: 17.

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95 Un percorso in Zarri, La memoria di lei. Storia delle donne, storia di gene-re, 1996. Alcune messe a punto storiografiche in Muzzarelli, Tematiche della storiografia italiana recente dedicata alla donna medievale, 1989, pp. 883-908; Cilento, Medioevo delle donne. Le conquiste della storiografia femminista, 1998, pp. 130-144; A che punto è la storia delle donne in Italia, a cura di A. Rossi-Doria, 2003.

96 Loriga, La biographie, p. 211.97 Bourdieu, L’illusion biographique, 1986, pp. 69-72.98 Passeron, Lo scénario et le corpus. Biographies, flux, intinéraires, trajecto-

res, 1991, pp. 185-206.99 La definizione di histoire-récit di François Furet, contrapposta a l’histoire-

probléme in Furet, De l’histoire-récit à l’histoire-probléme, 1975, cit. da Loriga, La biographie, nota a p. 210.

100 Sulle cause dell’approdo alla dimensione narrativa, e quindi anche alla bio-grafia, da parte dei ‘nuovi storici’, Stone ravvisava l’improvviso diffondersi dell’interesse per i senimenti, le emozioni, i modelli comportamentali, i va-lori, gli stati d’animo: “il fatto di essersi posti questi interrogativi, scrive, di tipo diverso è forse legato anche all’atmosfera predominante negli anni Settanta. È un decennio in cui gli interessi e gli ideali più personalizzati sono prioritari rispetto alle questioni pubbliche, dato il diffuso scetticismo sulla possibilità di conseguire un cambiamento attraverso l’azione politica…” Sulla stessa lunghezza d’onda si muoveva Alceso Riosa allorché osservava che la “biografia ha un peso relativo maggiore degli altri generi ora come ora, forse perché c’è stata una certa diminuzione di studi che fino a poco tempo fa avevano tenuto il campo, di storia dei movimenti collettivi per esempio […] A me pare che non sia del tutto casuale che il successo della biografia si manifesti proprio in un momento in cui sono cadute non poche fedi e certezze politiche e quanto vi stava dietro in termini di ottimismo storico […]” (Biografia e storiografia, p. 10). Il saggio di Stone, Il ritorno al racconto. Riflessioni su una vecchia nuova storia, in Viaggio nella sto-ria, 1987, pp. 81-106 (cit. p. 95) (il saggio uscì sulle pagine di “Past and Present”, 1979).

101 Ibidem, p. 100 e 102.102 Hobsbawm, La rinascita del racconto, in De historia, pp. 220-226 [pubbli-

cato originariamente su “Past and Present”, 86 (1980), pp. 2-8], cit. pp. 220 e 221.

103 “Quando – lentamente, più di dieci anni fa – decisi di metter mano a un’in-dagine su un grande personaggio dell’Occidente medievale e di dare al ri-sultato delle mie ricerche la forma di una biografia, pensai che fosse un’im-presa difficile per uno storico e che rispetto al modo di fare storia da me praticato fino a quel momento ne sarei rimasto disorientato. Avevo ragione sul primo punto e mi sbagliavo sul secondo… Mi sono convinto… di una verità che lascia intimiditi: la biografia storica è uno dei modi più difficili di fare storia”: Le Goff, San Luigi, p. xviii. Del difficile e lungo percorso

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intellettuale che ha impegnato Le Goff durante il decennio dedicato alla scrittura della biografia rimane traccia in Saint Luis a-t-il existé?, 1981, pp. 90-99; Idem, Comment écrire une biographie historique aujourd’hui?, 1989, pp. 49-50.

104 Idem, San Luigi, p. xvii.105 Ibidem, p. xix.106 Hobsbawm, La rinascita, p. 220.107 Utile strumento il volume dedicato a L’analisi strutturale del racconto, 1969

(soprattutto i saggi di R. Barthes, Introduzione all’analisi strutturale del racconto, pp. 5-46 e di G. Genette, il quale scrive: “definire positivamente il racconto è accreditare, forse pericolosamente, l’idea o la sensazione che il racconto va da sé, che niente è più naturale di raccontare una storia o combinare un insieme di azioni in un mito, un racconto, un’epopea, un romanzo… L’evoluzione della … coscienza letteraria da oltre mezzo secolo ha avuto proprio al contrario, tra altre fortunate conseguenze, quella di attirare la nostra attenzione sull’aspetto artificiale e problematico dell’at-to narrativo…”: Frontiere del racconto, pp. 273-290: 273). Dello stesso Genette, Figure III.

108 White, Retorica e storia, 1978 (ed. orig. 1973).109 White rivisita il topos dell’affinità tra storico e poeta mirando a fondare

una teoria formale dell’opera storica, in grado di decodificare la retorica della storiografia, e dietro questa retorica, le rappresentazioni ideologiche che conducono lo storico a disporre i fatti secondo un certo modello narra-tivo. L’accertamento di una contiguità fra storia e retorica porta White ad una visione del passato come costruzione più che ricostruzione: la storia è sempre una forma di consapevolezza che trova espressione nel linguaggio e nel discorso: è sempre un testo rispetto al quale lo storico si pone in modo critico. White, La questione della narrazione nella teoria contemporanea della storiografia, 1983, pp. 33-78; Idem, Storia e narrazione, 1999 (soprat-tutto i saggi Il valore della narratività nella rappresentazione della realtà, pp. 37-63; L’intramazione storica e il problema della verità, pp. 97-116). Per un inquadramento dell’opera dell’autore è utile Carpi, Introduzione a White, Storia e narrazione, pp. 11-33.

110 Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, 2000, pp. 122-123.111 Idem, Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, pp. 520-

548.112 Magris, Tra biografia e romanzo, 1997, pp. 41-52, citazione p. 43.113 Idem, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moder-

na, 1999.114 Idem, Danubio, 1990; Microcosmi, 1998.115 Idem, Un altro mare, 1991.116 Ginzburg, Il formaggio, p. xxv.117 Magris, Tra biografia, p. 47.118 Loc. cit.119 Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, 1989 (1a ed. 1954).

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Le citazioni sono tratte da Sergi, Arsenio Frugoni e la storiografia del re-stauro, che introduce il volume, pp. vii-xx, a cui rinvio per una attenta disa-mina contenutistica e metodologica. Per un inquadramento dell’autore nel contesto storiografico di quegli anni Capitani, Medioevo passato prossimo. Appunti storiografici: fra due guerre e molte crisi, 1975. Fra le recensioni, Zerbi, A proposito di tre recenti libri di storia. Riflessioni sopra alcuni problemi di metodo, 1957, pp. 494-507. Un utile profilo dello studioso: Manselli, Arsenio Frugoni storico, 1979.

120 Frugoni, Arnaldo, p. xxi.121 Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo

Sofri, 1991: sulle affinità e le disparità tra giudice e storico, sull’uso della prova da parte degli uni e gli altri, sulla nozione di ‘prova’ vedi le conside-razioni a pp. 8-14.

122 Frugoni, Arnaldo, p. xvii (introduzione).123 Definizione di Ovidio Capitani, citato da Sergi, Arsenio Frugoni e la storio-

grafia del restauro, introduzione all’edizione einaudiana del 1989, Frugoni, Arnaldo, p. viii, nota.

124 Si misura in questa conclusione una totale asimmetria rispetto alle tesi pro-pugnate da Ankersmit, il quale ha sostenuto che la tendenza a concentrare l’attenzione sui frammenti minuscoli del passato, indagati in maniera isolata, anziché su insiemi più vasti è l’espressione più tipica della storiografia post moderna. Allo studioso olandese aveva ribattuto Ginzburg, Microstoria: due o tre cose che so di lei, 1994, pp. 511-539, pp. 530 sgg.

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I

TRIONFI

l’epopea Dei Mercanti

ranieri Di rustichino

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La via della salvezza

1. Si chiamava Ranieri di Rustichino e abitava nel borgo di Santa Maria Maddalena quando, il 19 settembre 1239, veden-do forse approssimarsi l’ora della morte, decise di fare testa-mento. Chiamò, insieme ad alcuni conoscenti e congiunti, il no-taio Compagno che di fronte a quegli stessi a far da testimoni così cominciò a scrivere

ego Ranerius quondam Rustichini per nuncupationem testari et de bonis et rebus meis disponere cupiens, in primis relin-quo pro anima mea et pro remissione et indulgentia omnium delictorum meorum et pro restitutione et satisfactione usu-rarum et omnium meorum maleacquisitorum et ablatorum, totum podere meum positum ad Rigoscellum … 1,

e in tal forma continuò a scrivere, meticolosamente, tutto ciò che Ranieri in previsione della sua partenza meticolosamente andava passando in rassegna e sistemando, i beni da destinare alla salvezza del suo spirito e quelli da lasciare agli eredi, le modalità che i fidecommissari dovevano seguire per la restitu-zione del maltolto e quelle che dovevano guidare la spartizione dell’asse ereditario, la dote per le figlie, la destinazione delle suppellettili di casa, e tutto secondo un dettato e un formulario che recita più o meno così:

… per la remissione dei miei peccati … tutto il podere che si trova a Rigoscello e che comprai dal figlio del fu Verziere, e un altro podere che si trova nel medesimo luogo di Rigoscello e che comprai dai figli di Bigotto, e due pezzi di vigna che sono in Valli e che furono di donna Lucia, moglie di Grimaldo, con tutte le loro pertinenze e diritti, e poi ancora lascio per salvez-za dell’anima mia 200 lire di denari senesi che saranno spesi entro un anno dalla mia morte nell’acquisto di possessioni e beni immobili, e ancora, per salvezza della mia anima, lascio la parte delle case che possiedo in Porrione e Malcucinato, con questa clausola, e cioè che i miei figli, se vorranno, po-

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tranno riscattare la proprietà entro dieci anni dal giorno della mia morte pagando 300 lire di denari, e in quel caso, in luogo di quegli immobili, ne saranno acquistati altri per il detto va-lore di 300 lire … Dispongo inoltre che mai, in nessun caso e in nessun tempo, queste case, poderi e beni immobili saranno venduti o alienati ma in perpetuo le loro rendite e i loro frut-ti distribuiti per la remissione dei miei peccati e restituzione delle usure a quelle persone che decideranno Guglielmo di Ugone Piccolomini e Fortarrigo di Magalotto, che sono qui presenti e consenzienti, e che nomino miei fidecommissari, i quali per portare a buon fine il loro compito si consiglieran-no con certi prudenti religiosi … E ancora dico che nel caso in cui, Dio non voglia!, uno dei due predetti fidecommissari morisse prima di aver condotto a termine ciò che deve, colui che gli sopravviverà sostituirà il defunto con chi dei miei fra-telli carnali, o altro della mia famiglia, gli sembrerà più sag-gio ed adeguato a fare tutto ciò che è necessario per salvezza dell’anima mia … 2.

Ma fermiamo per il momento la lettura dell’atto testamentario. Che non presenta tratti di particolare originalità. L’architettura formale e strutturale che presiede alle ultime volontà di Ranieri le incardina infatti entro un registro stilistico e una prassi che accomuna gran parte delle scritture testamentarie bassomedie-vali. Disposizioni successorie e patrimoniali assise sul principio di agnazione, ovvero nel riconoscimento del privilegio accor-dato alla linea maschile di discendenza, esclusione delle don-ne dalla partecipazione all’asse ereditario attraverso la regola dell’exclusio propter dotem, dettagliate clausole restitutorie di beni e denari, immancabili quando siamo di fronte a testatori in odor di usura, legati devozionali, lasciti caritatevoli in favore di poveri, chiese e luoghi pii pro remedio anime, sono i conte-nuti che inseriscono in uno schema lineare la pratica testamen-taria toscana, e non solo, degli ultimi secoli del Medioevo 3. E in questo il testamento di Ranieri non fa eccezione.La decisione di dividere il patrimonio familiare equali parti fra i quattro figli maschi, la garanzia data alle figlie Rocchegiana,

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Ruggerotta Adalagia e Benvenuta di poter contare su una dote e in caso di vedovanza o difficoltà economica di fare ritorno alla casa paterna, ed infine quell’accesa preoccupazione di sal-vezza ultraterrena e di purificazione, su cui ruota tutto il te-stamento, quel timore tanto ben individuabile oltre la cortina del formulario notarile di finire di lì a breve direttamente fra le braccia di Satana che spinge il banchiere, dopo una vita spe-sa ad arricchirsi illecitamente nel traffico del denaro come egli stesso denuncia, a pentirsi e a soddisfare sul letto di morte con offerte e restituzioni la richiesta di moralità e di ordine posta dalla dottrina cattolica e dal suo personale sentire 4, sono tutte immagini che proiettano la parabola di un uomo al suo tra-monto, che pare essere assolutamente comune nell’ambiente, urbano e mercantile, da cui Ranieri proveniva 5.Ciò che invece è forse meno usuale è che simili preoccupazioni etiche abbiano orientato, ben prima della vecchiaia, le azioni di questo figlio di Rustichino: non furono infatti le donazioni e le restituzioni stabilite in punto di morte – che sopraggiungerà in-fatti meno di due anni dopo 6 – l’unico atto che Ranieri fece per la remissione dei suoi peccati usurari. A un quarto di secolo pri-ma circa, rispetto all’anno di redazione del testamento, risale la fondazione di un ospedale dedicato a Santa Maria Maddalena che egli fece edificare ad honorem Dei et pauperum, in un ter-reno che possedeva fuori porta San Maurizio, e alla cui origi-ne non è arbitrario ravvisare un imperativo o almeno anche un imperativo di tipo morale 7. Una attenzione, uno scrupolo, una cura per il destino della propria anima che è chiaramente esplicitato nel primo atto, datato 5 marzo 1213, in cui Ranieri è definito patrono dell’ospedale noviter hedificatum e nel quale dichiarando di agire pro remedio anime donava a Bonoalbergo oblato 10 moggia di grano, alcune case e certi beni fondiari situati lì nei pressi, che egli aveva acquistato tempo indietro dall’abbazia di Alfiano 8.Il fondatore e patrono Ranieri quando decide la sua opera di carità è all’apice della carriera professionale e politica e al cen-

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tro di una fitta rete di rapporti e relazioni, su cui tra breve torneremo. I contatti che egli ebbe, in quell’occasione, con al-cuni membri della famiglia consolare dei Sansedoni, detentori di beni fondiari nella zona di Porta San Maurizio e proprietari confinanti di parte del suolo su cui venne decisa la fabbrica 9, ne sono in qualche modo spia. Sansedoni è quel Tacca di Guittone che il 5 marzo del 1213 nella chiesa di San Vigilio – dove solo due giorni prima, in sua presenza, Bonoalbergo faceva atto di oblazione – donava pro remedio anime all’ospedale appena nato tutti i suoi beni di Cerreto Grosso, in questo seguendo l’esempio pietoso di Ranieri che lo stesso giorno, sotto lo sguar-do attento di Tacca, devolveva al Santa Maria Maddalena il piccolo patrimonio di terre e case a cui abbiamo già accen-nato 10. La morte di Tacca, sopraggiunta pochi anni dopo la donazione, segnò probabilmente l’ingresso della vedova Imilia al governo del luogo, dove la troviamo in veste di hospitalaria, domina et rectricis negli anni 1215-1227 11, e favorì un rinno-vato ruolo a fianco della madre dei figli, Bonatacha filio Tacche che è fra i presenti alla presa di possesso di un terreno da parte dell’ospedale 12 e Ranerio Tacche e Ranuccio filio Tacche che compaiono in qualità di testimoni all’importante atto di dona-zione del febbraio 1221 con cui il patrono Ranieri conferiva il possesso del luogo ai frati predicatori 13.Non è chiaro se e come i rapporti con alcuni membri del ramo di Tacca, e soprattutto con Imilia, abbiano favorito la costru-zione di un legame privilegiato che il fondatore stabilì con l’ordine dei frati domenicani con cui, ma questa è storia nota, per il tramite di Ambrogio, figlio del Bonatacca di cui sopra, i Sansedoni intratterranno nel corso dei decenni successivi una liaison del tutto speciale 14. Quel che è certo è che all’epoca in cui si svolgono i fatti Ambrogio era un lattante tenuto a balia, i predicatori cominciavano proprio allora ad agire in città e ai loro occhi la donazione dell’ospedaletto suburbano avvenuta il 16 febbraio 1221 doveva o poteva prefigurare una occasione assai favorevole in prospettiva di uno stabile insediamento 15.

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Tale era infatti l’idea che muoveva Ranieri quando in veste di patrono, in quel giorno d’inverno, per mano della rettrice Imilia trasferiva agli epigoni di Domenico ogni diritto, ad ec-cezione dello “iure patronatus sibi et posteris suis reservato”, sulla chiesa di Santa Maria Maddalena con tutte le sue perti-nenze ed adiacenze, ospedale, terre, case e vigna compresa, e con l’obbligo per l’ordine, fra le altre cose, di fissare presso quel luogo la loro casa. Pena la decadenza di ogni diritto 16.La retrocessione dei beni donati nelle mani di Ranieri e del-la prioressa Imilia compiuta il 18 dicembre 1227 da parte di Gualtieri monaco, priore della congregazione, con il consen-so di tutti i suoi fratelli, frate Niccolò, frate Orlando, frate Gregorio, frate Guidone, frate Buonpietro, frate Ildebrandino, frate Angelo, frate Guido, frate Bono e frate Bartolomeo 17, era destinata a risolversi a favore del monastero cistercense di San Galgano che, senza nessuno strepito, era riuscito frattan-to a inserirsi nel cuore e nell’orizzonte del patrono e agli inizi dell’anno 1228 subentrava ai predicatori nel possesso di chiesa, ospedale “et omnes terras et possessiones, poderia, et bona ad predictum hospitale et ecclesia pertinentes” con le stesse garan-zie e le medesime riserve 18.Il formale e solenne insediamento dei religiosi domenicani nell’ospedale della Maddalena era durato sette anni. Poi qual-cosa era successo. Probabilmente qualcosa nelle clausole della donazione strideva con i loro progetti: probabilmente quell’im-pegno a mantenere per sempre in quel luogo la sede centrale del loro ordine sottomettendo eventualmente a questa prima fondazione ogni altro monastero che essi avessero voluto co-struire in città, era un impegno che sentivano sempre più stretto e cui non potevano proprio aderire 19 viste anche le novità, e le novità adesso erano le simpatie di certi esponenti di un’altra famiglia di grandi, destinata a legare il suo nome all’episcopio senese 20, la cui interferenza nella prima vicenda dei domeni-cani senesi si sarebbe vistosamente palesata in questo torno tempo nella forma della donazione di un terrenum nella zona

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di Campo Reggio a favore dei fratelli di Domenico 21, con il ri-sultato di deviare le attenzioni dei predicatori verso un nuovo e più ambizioso progetto insediativo. E di affossare le aspettative di Ranieri.Difficile penetrare le ragioni di quelle aspettative e i pensieri che spinsero Ranieri ad abbracciare la causa dei domenicani, creando le condizioni per uno stabile collegamento con l’or-dine, oltre quella straordinaria aderenza, su cui molto è stato detto, fra tensione spirituale dei nuovi ceti urbani e le forme della religiosità mendicante. Che la scelta di Ranieri perfetta-mente incarna.Una scelta che non scopre dunque nulla di nuovo, costituendo semmai prova ulteriore e piccolo esempio della fortuna che gli ordini mendicanti incontrarono nella società italiana dei secoli finali del medioevo e che può essere collegata ai motivi di ordi-ne generale che determinarono il successo delle congregazioni mendicanti. Alla crisi dei più antichi e consolidati istituti del monachesimo o della chiesa secolare i mendicanti opposero una griglia organizzativa e rituale formalizzata in un serie di riti associativi che furono punto di riferimento importante per i laici; le scuole, le dottrine economiche da essi propugnati of-frirono uno schema ideale e culturale che fu veicolo e tramite di collegamento con larghi settori della società civile; il loro influsso nelle città del basso medioevo, fu decisivo nell’interpre-tare e risolvere il disagio di chi, arricchitosi grazie al commercio e soprattutto al commercio del denaro non poteva rassegnarsi a vivere, e soprattutto a morire, nel peccato: di fronte all’inca-pacità delle strutture e delle dottrine ecclesiastiche tradizionali essi furono in grado di elaborare un’etica più tollerante e più ‘moderna’ offrendosi come risposta ai nuovi problemi posti alla coscienza dai valori emergenti del profitto e del denaro. Cartina di tornasole fu la potente forza di attrazione che esercitarono sui ceti dirigenti, grazie alla quale monasteri e conventi andaro-no man mano ad arricchirsi di beni e proprietà e si avviarono ad accogliere al loro interno, man mano che il secolo avanzava,

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i nomi più prestigiosi della nuova élite urbana, quella che pur politicamente discriminata dalla leggi antimagnatizie promul-gate un po’ dappertutto nelle città dell’Italia comunale intorno agli anni Settanta del Duecento, era una componente prima-ria dell’aristocrazia comunale e, per usare gli esempi addotti da Roberto Bizzocchi, portava a Firenze i nomi degli Adimari, Buondelmonti, Visdomini, Medici, Strozzi e Rucellai e a Pisa dei Visconti, Sismondi e Buonconti e a Pistoia dei Riccardi, dei Taviani e dei Cellesi 22.È dunque a una composita consonanza ideale e spirituale che si stabilì tra gli ordini mendicanti e molte cospicue famiglie citta-dine, ed entro uno schema interpretativo dai confini geografici assai ampi, la Toscana studiata da Roberto Bizzocchi ma anche la Francia di Jacques Le Goff 23, che deve essere ricondotta la scelta di Ranieri di Rustichino.Una scelta precoce, che anticipava quella di altre famiglie di grandi impegnate a promuovere e sostenere l’inserimento dei mendicanti in città, quella dei Malavolti, che come ormai sap-piamo donarono ai predicatori di San Domenico il terreno su cui sarebbe sorto il loro imponente convento, e quella dei Tolomei che trasferirono nel 1259 ai serviti di Santa Maria un appezzamento di loro proprietà in San Clemente perché vi co-struissero la chiesa 24.Una scelta che probabilmente, mentre additava un possibile futuro sviluppo per l’ordine, arrivava ad ufficializzare anche uno stato di fatto: la chiesa e l’ospedale della Maddalena do-vevano configurarsi ben prima dell’inverno 1221 come il cuore pulsante della piccola congregazione domenicana urbana. Ne è tenue indizio la tradizione che affiora dietro il velo di una tarda erudizione agiografica che riecheggia temi e motivi della Vita del celebre predicatore senese: il piccolo Ambrogio nasce storpio, le braccia attaccate ai fianchi e le gambe alle cosce, la madre madonna Giustina piange la triste sventura, misera me, me infelice, come ardirò io più di uscir di casa?, deciso di dare il bambino a balia la scelta cade su una buona donna che abita

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vicino alla porta romana, la quale è molto pia e solita frequen-tare la chiesa di Santa Maria Maddalena per le sue orazioni, ed è qui, in un giorno in cui la balia si è recata a messa che il miracolo si compie, e il piccolo è guarito delle sue deformità. Questo, in estrema sintesi, il fatto prodigioso. Ma ciò che è per noi più interessante è la descrizione del luogo in cui esso sarebbe avvenuto. Ricalcando precisamente la narrazione della Vita e dei miracoli del santo redatta poco dopo la sua morte da alcuni frati predicatori per ordine di papa Onorio IV 25, scrive-va dunque agli inizi del XVII secolo Giulio Sansedoni, vescovo di Grosseto, nella sua Vita del Beato Ambrosio Sansedoni da Siena:

era in quel tempo in Siena vicino alla detta porta nella stra-da romana, un monasterio dei primi dopo la confermatione dell’ordine de’ predicatori fatta da papa Honorio III, ove è co-stante fama giunta fino all’età della mia fanciullezza, che fosse il patriarca San Domenico solito fermarsi ad hospitio nell’an-dare e tornare che egli faceva da Roma, et era il detto luogo chiamato la Maddalena, il qual nome ancor hoggi ritiene, come che hora i padri predicatori non vi stiano più da molto tempo … e forse che in quei tempi ancora poterono essere in Siena due loro conventi, l’uno chiamato San Domenico, l’altro la Maddalena et in questo luogo ho veduto io stesso certe antiche habitationi con diverse dipinture sotto le scale della chiesa, hoggi delle monache d’ogni santi, verso la porta Romana, nelle quali è cosa credibile aparisse qualche memo-ria del sopradetto santo hospitio: … ove già stettero li monaci di Santo Galgano, dell’ordine di Cisterzio, dopo la partita dei domenicani, i quali nel tempo che abitavano in detta chiesa della Maddalena, il popolo vi aveva grandissima divotione, sì per l’odore di santità, che spirava da quell’ordine, quasi nella sua fioritissima primavera, che ha poi nella sua maturità di frutti santissimi arricchita la chiesa universale, come ancora per le venerande reliquie dei santi, che quivi in un tabernacolo molto religiosamente si conservavano… Di questo santo luo-go era molto divota la buona balia, et avendovi la casa vicina,

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vi andava a messa, et a dire sue orazioni, portando in collo e sempre coperto il contraffatto fanciullo … 26.

La rievocazione dello stupendo miracolo che Gesù compie sul piccolo Ambrogio, che secondo la tradizione non aveva anco-ra un anno di vita, e la descrizione del luogo in cui avvenne è forgiata sullo stile narrativo della Vita duecentesca: anche nella Vita scritta dai quattro predicatori, nel tempo in cui si manifesta il fatto prodigioso – dunque poiché Ambrogio nasce il 16 aprile 1220, fra il febbraio e l’aprile 1221 – i domenica-ni appaiono già insediati nella chiesa della Maddalena e sono anzi proprio loro a far togliere le fasce al neonato e a scoprire, di fronte al tabernacolum multis pretiosis repletum reliquis, la guarigione miracolosa 27, gesti e sguardi non ripresi nella nar-razione di Giulio Sansedoni, che mette in scena solo una folla di anonime persone 28, ma arricchisce invece di altri particolari il quadro: intanto, il primato di fondazione della casa nel luogo della Maddalena – “un monasterio dei primi dopo la confer-matione dell’ordine” data da papa Onorio –, e poi le frequen-ti soste di Domenico di Caleruega fra un viaggio e l’altro, e ancora la notizia della nascita di un nuovo polo insediativo presso Camporegio, che fa presupporre al vescovo quasi la contemporanea presenza di due monasteri urbani, ed infine la venuta dei cistercensi dopo la partenza dei predicatori. Giulio Sansedoni integra e registra nella sua Vita esperienze personali, fatti appurati, memoria cittadina, con una attenzione continua a distinguere fra i vari piani: passato, presente, notizie meno certe (“forse in quei tempi poterono essere in Siena due loro conventi”), fatti plausibili (“ho veduto io stesso certe antiche habitationi con diverse dipinture … nelle quali è cosa credibile aparisse qualche memoria del sopradetto santo hospitio”), no-tizie di sicura attendibilità: “è costante fama giunta fino all’età della mia fanciullezza che fosse il patriarca … solito fermarsi ad hospitio”: la pubblica fama non si discute: rivoli di parole dette e ascoltate che giorno dopo giorno, anno dopo anno, de-

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cennio dopo decennio, lungo quattro secoli, depositano nella memoria della città alcune inossidabili immagini 29.In ogni società dove la cultura orale ha una grande forza, la me-moria della comunità tende ad opporre alla relativa plasticità della vita materiale una statica cristallizzazione dell’immagine del passato 30: quattro secoli dopo la fondazione dell’ospeda-le fuori porta san Maurizio, l’autore della Vita poteva ancora incastonare, come in un cammeo, il fortunato e felice incon-tro fra l’esperienza dei primi domenicani e la chiesetta della Maddalena, retrodatando, in qualche modo, i tempi dell’incon-tro grazie alla figura di Domenico che in cammino verso Roma era solito fermarsi a Santa Maddalena e lì predicare … 31.Non è difficile immaginare sotto la luce di questa tarda tradi-zione agiografica la figura di Ranieri di Rustichino negli anni al centro di quel passo che rievoca il miracolo su Ambrogio e che vanno all’incirca dal 1216 – data di conferma dell’ordine da parte del pontefice – a quel 1221 in cui viene rogato l’atto di donazione e che coincide con la morte di Domenico (6 agosto) e la guarigione del piccolo Ambrogio 32: cinque anni che vedo-no la chiesa e l’ospedale al centro di una rapida crescita patri-moniale, per effetto delle donazioni e degli acquisti che vanno ad ingrossare la sua dotazione di beni 33, e di una esplosione della sua fama come luogo devozionale, alimentata certamente dai transiti di Domenico, dal giovane e fiorito fervore dei pre-dicatori, dal tabernacolo delle venerande reliquie dei santi che molto religiosamente si conservavano sull’altare. La chiesa e l’adiacente ospedale della Maddalena al centro di una rete di relazioni, mèta di un viavai continuo di gente. Non è difficile, si diceva, immaginare il fondatore Ranieri di Rustichino nella sua quotidiana opera di infaticabile architetto costruttore.L’edificazione di strutture assistenziali e caritatevoli da parte di uomini agiati a scopo spirituale non era, nella Siena del tem-po, un fatto eccezionale: alle spalle di Ranieri tutta una scia di xenodochia in cui si era rappresa e solidificata la pietas di eminenti personaggi cittadini che tra XI e XII secolo avevano

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destinato le loro ricchezze alla istituzione di centri assistenziali: da quel Guido visconte salico che nel 1070 diede ai preti di San Basilio beni e compito di costruire un ospedale a fianco della loro chiesa, a quel Pietro Fastello che pochi anni dopo insieme alla moglie Bellicca fondava un ospedale nella zona di Peragna “ad subsidium peregrinorum et pauperum” 34, e così via attra-verso una catena ininterrotta di anelli, un atto di carità dopo l’altro, un ospedaletto dietro l’altro, rapida fioritura in prossi-mità dei borghi che spuntano lungo la spada della Francigena che taglia e divide la città, un ospedaletto dietro l’altro sui colli prospicienti la via Romea, San Martino, San Donato, Camollia, fino ad arrivare, un anello dopo l’altro della lunga catena di esempi, a quello dedicato, quando ormai Ranieri è già morto, a Sant’Andrea o Santa Maria della Stella come si sarebbe in realtà chiamato, in via Camollia, per mano dei Salimbeni 35 e ai quattro ospedali “pro refugio et substentatione pauperum, infirmorum et peregrinorum et miserabilium personarum” alla cui costruzione Biagio di Tolomeo Tolomei, sul finire del XIII secolo, vincolò tutta la sua eredità 36.Alla spinta religiosa e alla motivazione penitenziale di chi si attendeva un riconoscimento della corte celeste, sempre pronta a premiare gli atti di carità, si univano in Ranieri e si intrec-ciavano, senza contrapporsi, anche ragioni di altra natura, ra-gioni che avevano a che fare con le prerogative che una fonda-zione con riserva di giuspatronato, comprensivo della potestà di scegliere il rettore e di altri molteplici diritti e potenzialità, garantiva al donatore 37. Nel momento in cui egli prefigurava tale riserva per sé e i suoi discendenti maschi, quel che egli pro-babilmente attendeva non era solo il riconoscimento dei pel-legrini, degli indigenti e della corte divina: agiva, nelle pieghe intime della sua volontà, la consapevolezza che la fondazione con godimento dello “ius patronatus”, vale a dire l’istituzione di un legame organico, perenne e formale tra l’istituzione assi-stenziale e la sua famiglia, era uno strumento di affermazione personale e di riconoscimento e coesione per la stirpe, in nulla

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dissimile dai diritti di giuspatronato che molte famiglie vanta-vano su chiese e cappelle urbane 38.L’ospedale di Santa Maria Maddalena si presenta come una via grazie alla quale Ranieri può consolidare il suo onore e con-quistare la durata. Una via che palesa rango, fortuna, denari: ius honorificum et onerosum et utile… Una via che rinsalda legami e offre sponde privilegiate di relazione. Con la gerarchia ecclesiastica, con l’universo mendicante, con le grandi famiglie cittadine, con gli abitanti della zona.Per più anni consecutivi il patrono Ranieri sfrutta e inquadra l’afflato di devozione che i frati domenicani suscitano 39. Per que-sto motivo non interpreterei l’epilogo della donazione del 1221 sotto il segno dell’insuccesso e del fallimento di un progetto personale, propendendo piuttosto a vedere negli atti del 1227-1228 la boa di un periodo che abbraccia all’incirca un decennio (1216-1227) durante il quale Ranieri è capace di modellare e risolvere favorevolmente la sua vicinanza ideale al mondo dei mendicanti, con cui tra l’altro non mancheranno ulteriori e suc-cessivi punti di contatto. Poi, di fronte alla loro virata, Ranieri supera l’empasse indirizzandosi verso i cistercensi dell’abbazia di San Galgano che pur fisicamente collocata in area esterna alla diocesi senese si avviava proprio in questo tempo a giocare un ruolo di tutto rispetto nella scena urbana, stabilendo con l’istitu-zione comunale un rapporto profondo e duraturo 40.Affiorano nelle scelte e nelle iniziative di quest’uomo i segnali di un modo nuovo di vivere la tensione religiosa e spirituale, una visione chiara e lucida in cui pietas e politica si integra-no. Una visione concreta e pragmatica capace di far aderire le pratiche di una professione incessantemente e pericolosamente produttiva, con un sentimento religioso che richiede carità e pentimento, ma che, proprio perché genuinamente interioriz-zato mal si combacia con gesti esteriori oziosi quandanche lo-devoli.Ranieri intrattiene con Dio un rapporto tutto suo. E ha un modo tutto suo di far fruttare la carità. Quando decide la costruzione

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dell’ospedale, l’abbiamo detto, è ancora giovane e non pensa a morire. Sta costruendo la sua carriera. E l’ospedale lo aiuta. A rafforzare il suo ruolo e la sua influenza nel quartiere, in città. L’orizzonte in cui ruota il suo mondo.

Terzo di San Martino, una casa nel borgo di Santa Maria Maddalena, immobili in Malcucinato e Porrione in proprietà indivisa con i suoi fratelli 41, oltre ai beni, terre e orti, dalle parti di porta San Maurizio: qui si svolge il suo vivere quotidiano, qui è la sua residenza. Qui è la residenza della sua famiglia: una serie di scarne scritture amministrative conferma l’esistenza fin dai primi decenni del Duecento di un polo familiare che fa perno su un palatium filiorum Piccolominum, si articola pro-babilmente in diverse domus e plateas ed è tale per omogeneità e consistenza da formare un aggregato che prende la sua speci-ficazione topografica dal nome del casato 42.L’ancoraggio del gruppo consortile in quest’area urbana af-fonderebbe, il condizionale è d’obbligo, lontano nel tempo. Ma per trovarne traccia si deve risalire la china della tra-dizione erudita e storiografica che allaccia la prima storia del casato proprio alle pietre del castrum Montonis. Alcuni secoli più tardi rispetto all’anno 1239 in cui si avvia questa storia, studiosi ed eruditi, non esitarono secondo una pras-si che fu assai ricorrente tra i compilatori di genealogie e scritture memorialistiche familiari, a ricondurre le origini della nobile progenie piccolominea a tempi lontanissimi e a capostipiti favolosi. Nella prosa genealogica svolazza con il più felice battito d’ali della fantasia la leggenda di Bacco Piccolomini, già signore di Castelmontone, che ai tempi del re Porsenna avrebbe militato a fianco di quel re con un eser-cito personale di duecento fanti e cinquanta cavalieri, inalbe-rando un’insegna di color bianco con croce azzurra e mezze lune d’oro, che è poi l’arme della famiglia 43: la leggenda, formatasi nell’ambiente cortigiano e mitopoietico che a fine Quattrocento ruotava attorno a papa Enea Silvio, recepita

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ed accolta dal nobile Orlando Malavolti, estensore di una Historia di Siena data alle stampe sul finire del XVI secolo 44, è uno degli esempi più eclatanti, oltre ad essere cronologica-mente il primo, del nesso che le ricostruzioni a distanza della fase più remota della vicenda familiare, generalmente assai poco affidabili, stabiliscono con il castrum e il suo omonimo antenato/costruttore 45. Un nesso che oltrepassa la chiarezza aurorale della letteratura genealogica per approdare al terre-no storiografico dove una inveterata tradizione di studi in-dividua in un Montone patrimonialmente legato all’area del castello, edificato intorno al 935 sul colle sud-est della città, dunque nella zona dove due secoli dopo la famiglia appare stanziata, il capostipite del lignaggio di Ranieri 46.

Orizzonti ideali, terreni politici, qualifiche professionali

Con sicurezza si può invece affermare che il casato fa la sua comparsa in città fra le ultime decadi del secolo XII e le prime del XIII, e che a quest’epoca i suoi membri sono già parte di quell’éli-te che fonda su basi economiche e politiche la sua qualificazione: in modo non dissimile da quanto, proprio tra l’ultima genera-zione del secolo XII e la prima del XIII, andava svolgendosi in molte città dell’Italia comunale, dove buona parte delle famiglie ricche e potenti, che a fine Duecento sarebbero state compresse dall’iniziativa popolare e antimagnatizia, stava affermando la propria presenza urbana e con una difficoltà, per gran parte di loro, a rintracciare attestazioni antecedenti e a seguire il percor-so più antico 47. La parabola di Ranieri è esemplare. Niente sap-piamo di lui e della sua famiglia – se non che il padre è con tutta probabilità quel “consiliarius” dei consoli senesi che nel 1181 partecipò alla cessione di una parte del territorio di Montieri fatta a Siena dal vescovo di Volterra 48 – finché la sua presenza a una serie di atti pubblici e nelle vesti di pubblico funzionario non svela un ruolo già politicamente e professionalmente consolida-

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to. Dunque: nel 1208 è camarlengo di Biccherna 49, negli anni immediatamente successivi testimone alla stipula di numerosi atti riguardanti il Comune 50 – cessioni di diritti di indennizzo 51, quietanze 52, sottomissioni 53, giuramenti di obbedienza 54, patti di alleanza con i “domini” del contado 55 – poi nel 1223 è consul Mercatorum senensium 56 e due anni più tardi per la seconda volta camerario del Comune 57.L’ascesa socio economica familiare di cui Ranieri è parte pro-tagonista si gioca molto sul palcoscenico urbano, dove l’occhio può scorgere tutta una folla di congiunti assumere funzioni pubbliche e dispiegare le proprie energie per occupare spazi di potere e di rappresentanza.Basterà seguire, dietro le orme paterne, l’attivissimo figlio di Ranieri, Rinaldo, che compare più volte tra gli anni Venti e Quaranta del Duecento in qualità di testimone a rogiti che ve-dono il Comune parte interessata 58, rappresentante di Siena negli accordi firmati nel 1226 con Poggibonsi 59, giudice 60, ambasciatore 61, arbitro dell’ente cittadino 62, membro del Consiglio Generale 63. E basterà seguire nel suo tourbillon di impieghi e privilegi un altro familiare molto vicino a Ranieri, se lui lo volle nominare suo esecutore testamentario, quel Guglielmo di Ugone che nel luglio 1208, in virtù di un atto di procura, si fa pagare dal Comune il risarcimento di alcune spese sostenute in guerra 64, che due anni dopo si presta a far da testimone al contratto con cui l’ente cittadino acquista un ter-reno a Quercegrossa 65, che vediamo poi ricomparire nel 1228 nel ruolo di console dei mercanti, che nel 1230 trova tempo di accompagnare il podestà ad Arezzo pro negotiis comunis e di far parte del novero degli ufficiali incaricati della manutenzione e del rifornimento dei castelli della repubblica, e che infine, un anno più tardi, è presso alcune comunità del contado con man-dato di formare exercitum 66.Sono bagliori, episodi, spezzoni di vita che potrebbero moltipli-carsi – non molto dissimile è la vicenda pubblica quale ci è re-stituita dallo specchio documentario del fratello di Guglielmo,

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Bartolomeo 67 – a cui chiediamo di testimoniare il senso di una presenza e di una storia familiare.Almeno laddove la si può vedere.

È già stata notata la difficoltà a ricostruire le dinamiche in atto nel primo Comune: la fragilità delle fonti – maggiore per il periodo che corre dal 1125, anno di attestazione del primo con-solato, al 1203, anno di redazione del cartulario comunale 68 – non consente, se non a sprazzi, né di stabilire con precisione le caratteristiche dell’élite consolare che fu a capo dell’organi-smo comunale nel periodo 1125-1210 69, né le dinamiche che innescatesi probabilmente negli ultimi decenni del XII secolo condussero alla distinzione di un “commune militum” e di un “commune peditum” documentabile forse fin dagli anni 1201-1203 70. Distinzione che testimonia, per via sintomatica, un processo di strutturazione, ridefinizione e articolazione delle forze sociali e politiche che doveva essere in atto da tempo nella compagine cittadina ma sulle cui tappe è complicato fare luce.Le liste dei consoli che ci sono pervenute, ancorché in modo lacunoso, a partire proprio da quell’anno 1125 71, non autoriz-zano ad inserire gli uomini della famiglia nel novero di questo gruppo aristocratico che Paolo Cammarosano ha qualificato come “nobiltà di fatto”, frutto cioè a Siena come in altre città d’Italia dell’esercizio del potere al vertice del Comune e della continuità genealogica 72, definibile soltanto sulla base di questa prerogativa di governo. Un ruolo del lignaggio nella vita politica cittadina spunta solo alla fine di quel percorso istituzionale, alle soglie del passaggio che vede tramontare l’esperienza consolare a vantaggio di quella podestarile (nel 1212 è attestato il primo podestà forestiero) 73, dà poi alcuni segnali consistenti durante il trentennio successivo, per consolidarsi definitivamente e più chiaramente a partire dagli anni Quaranta del Duecento, quan-do la magistratura dei Ventiquattro Priori apre il campo ad una sperimentazione di governo a cui concorrono forze nobili e popolari, e quando ormai lo stato della documentazione, che

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segue nel suo articolarsi la maggiore articolazione del Comune con la creazione di nuovi uffici ed organi di governo, si avvia a raggiungere una consistenza neanche paragonabile a quella dell’età precedente 74.Lo svolgimento della storia comunale si muove nel primo tren-tennio del Duecento lungo alcune direttrici: da una parte la subordinazione all’impero che se impose alla città contributi finanziari e militari, dall’altra la inserì in un vasto schieramen-to di alleanze ghibelline che a livello regionale si tradussero nell’attuazione di una politica antifiorentina: disegno su cui si concentrarono i sogni e gli sforzi dei senesi che tra primo e secondo decennio del Duecento si impegnarono nella tessitura di patti e alleanze culminati nel 1228 nella costituzione di una societas che riunì contro Firenze, oltre a Siena e Poggibonsi, le città di Pisa e Pistoia. Contemporaneamente, tenuto sotto controllo l’orlo settentrionale, la città avviò in questi anni un progetto di espansione indirizzato al versante orientale e me-ridionale dei suoi confini, nelle zone della Val di Chiana, della Valdorcia, dei territori del contado chiusino. Progetto destinato a provocare, a sua volta, una serie di ostilità con Firenze che si concluderanno soltanto nel 1235 con la pace di Poggibonsi, stipulata nella forma di un arbitrato del cardinale vescovo di Palestrina. Un punto di pausa negli sforzi bellici, eppure al con-tempo cornice di un antagonismo senese-fiorentino che farà da sottofondo ancora per trent’anni alle vicende della città 75.

Ora è in questo susseguirsi di guerre e di accordi diplomatici che molti congiunti di Ranieri fanno la loro comparsa sullo sce-nario cittadino. Non lascia dubbi sulla precisa collocazione ide-ale e politica del gruppo parentale, quella fidem et devotionem dimostrata da due esponenti del lignaggio in occasione della spedizione culminata con l’incoronazione romana di Federico II nel 1220, che viene ripagata il 16 novembre di quell’anno con la concessione del feudo di Montertine in Valdorcia 76, né l’atteggiamento di lealismo imperiale che impronta ogni atto di

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politica estera, incarichi militari e missioni diplomatiche, che i congiunti di Ranieri assumono per conto della repubblica e in cui essa va concretizzando tanto la sua politica antifiorentina che quella espansionistica.La presenza di Ranieri di Rustichino al patto di alleanza con i con-ti Aldobrandeschi del 1221 77, quella del figlio di lui Rinaldo alla lega fra Siena, Pistoia, Pisa e Poggibonsi stipulata il 7 giugno 1228 “in Valle Ere, in domo Mansionis de Templo”, contro fiorentini e lucchesi 78; il viaggio ad Arezzo fatto nel 1230 dall’esecutore testa-mentario Guglielmo di Ugone nel tentativo di portare questa città sul terreno antifiorentino e l’ambasciata che lo stesso compie alle comunità del contado per mettere a punto l’esercito nelle opera-zioni che videro Siena impegnata tra il 1230 e il 1233 sulla frontie-ra del Chianti e poi attorno a Montalcino e Montepulciano 79, per limitarci al protagonista e alla ristretta cerchia dei suoi congiunti più vicini, indicano una tendenza diffusa e generale 80.La storia di Ranieri, pur attraverso l’immagine screziata che ogni vicenda unica e pertanto irripetibile restituisce quando venga chiamata a parlare di vicende generali, allude e si so-vrappone in alcuni punti con singolare precisione alle vicen-de di un lignaggio: la magistratura di Biccherna e il consolato di Mercanzia, sui cui scranni, l’abbiamo visto, Ranieri siede in più occasioni, offrono spazio frequente all’intervento dei Piccolomini la cui presenza, dal significato abbastanza ampio, si fa in questi due settori fondamentali dell’agire politico ammi-nistrativo molto ben visibile 81.Le competenze dei Quattro Provveditori di Biccherna si espli-cavano nel campo della finanza comunale: prima del priorato dei Ventiquattro, la cui prima attestazione è del 1239, la som-ma dell’autorità cittadina riposava infatti oltre che nei Consoli e nella Curia del Placito proprio in questo ufficio a cui era riservata la gestione dell’amministrazione comunale, ma fino agli anni Trenta del Duecento quando fu istituito il Sindaco dei Minori, ebbero autorità anche negli affari riguardanti pupilli, doti, fideiussioni. Il compito principale dei “provvisores” – ter-

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mine con il quale compaiono fin dal 1168 – nominati inizial-mente come balia di “boni homines” a scadenza semestrale per poi diventare magistrati comunali retribuiti, consisteva nel far eseguire attraverso il camarlengo e con mandati di pagamento autorizzati da almeno due di loro, gli stanziamenti deliberati dal consiglio cittadino, e, per altro verso, nel riscuotere le en-trate pubbliche: competenze grazie alle quali la loro presenza risultava necessaria al rogito di molti atti cittadini 82.La capacità nel maneggio del denaro, la conoscenza della con-tabilità di cui un banchiere come Ranieri doveva esser dotato, costituirono probabilmente requisiti non secondari nella scelta degli ufficiali tesorieri, ma è soprattutto, in modo ancor più cogente, il ruolo da lui rivestito, insieme ad altri membri del casato, all’interno della corporazione dei mercanti a rivelare una qualifica professionale già chiaramente definita ai primi decenni del XIII secolo 83.In questo periodo l’ars mercatorum, molte volte in unione con quella dei pizzicaioli a formare le due mercantiae, in vita per lo meno dal 1192 quando è rappresentata ad un atto di quie-tanza rilasciato al Comune 84, appare potentemente strutturata e tale, per numero e rilevanza economica dei suoi iscritti, da sopravanzare gli altri organismi corporativi di pellicciai, cal-zolai, cuoiai, pelacani, fabbri, correggiai, vinaiuoli, marmorai, homines mannarie e carnaiuoli in cui erano andati organizzan-dosi gli artigiani della città 85. Prova della sua preminenza è il ruolo politico che essa riveste in seno al Comune: se nel 1192 i “domini” delle arti avevano partecipato ad un atto che interes-sava il Comune in qualità di testimoni, dieci anni dopo erano loro stessi a ricevere insieme al podestà, in nome dell’organi-smo comunale, la dichiarazione di Ugolino di Rusilio di essere stato interamente soddisfatto dei crediti che vantava contro la città 86, e nel 1208 in occasione della pace tra Siena e Firenze erano ancora i “consoli mercatorum” ad assumersi con i “do-mini militum” e il “camerarius” di Biccherna l’obbligo di far rispettare il lodo 87.

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Ad una funzione di natura strettamente politico-militare eser-citata dalle arti fa poi riferimento un documento del 1226, nel quale il podestà senese Pietro di Monaldo, dopo aver ascoltato la promessa di Leonardo “de Saxo Russo” – castellano di San Quirico e rappresentante del legato imperiale – di non chie-dere indennizzi al Comune di Siena per i danni che esso ave-va arrecato al castello di Orgia, ordina proprio a Bartolomeo Piccolomini e a Vigoroso “consules mercatorum” e a Dono e Ildebrandino “consules pizicariolorum” di “dare et restituere” al suddetto castellano il “castrum et turrim de Orgia”. Dunque ai “domini” delle due arti era stato affidato in custodia il castel-lo occupato dai senesi 88.Alla Mercanzia inoltre il Comune si rivolge fin dai primi anni del Duecento per chiedere ed ottenere prestiti. Ed è infatti del 1231 la registrazione fatta nei libri contabili di Biccherna, alla voce “Adsignationes”, di 3.082 lire che i Quattro ricevono dai consoli Bartolomeo Piccolomini e Gregorio di Palmieri “ex causa mutui” 89: una prassi che dovette essere tanto usuale da dover essere disciplinata da una norma di legge redatta intorno al 1229, che fu poi recepita nel testo statutario del 1262 90. Ed è proprio questo testo normativo a chiarire quali furono le attribuzioni, i compiti e le prerogative spettanti ai “domini” dell’arte a questa data (ma il breve della Mercanzia inserito nel Constituto del 1262 risaliva a tempi precedenti): i consoli face-vano parte ex officio dei Tredici Emendatori del Constituto 91 e del consiglio della Campana, potevano essere chiamati in com-missioni incaricate di questioni politiche, sorvegliavano la lega ufficiale della moneta, nonché in caso di discordia tra capitano e podestà l’andamento degli uffici, con facoltà, in accordo con i consoli dei Cavalieri e i Priori dei Ventiquattro, di convocare adunanze consiliari e promuovere ambasciate a papi e impera-tori 92. Una presenza nella vita e nelle istituzioni cittadine tanto pregnante da far concludere allo Zdekauer che il Comune era “interamente nelle loro mani” 93.

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Post mortem

I morti talvolta, soprattutto se sono usurai, beneficiano di un supplemento di biografia. Ranieri muore fra la fine del 1239 e i primi giorni del 1241. Il 17 gennaio di quell’anno i suoi fidecommissari si mettono al lavoro. Che Ranieri avesse con-tinuato a intrattenere rapporti con i domenicani, anche dopo il loro allontanamento da fuori porta San Maurizio è evidente dal fatto che frate Niccolò, frate Gregorio e frate Monaldo, de ordine predicatorum sono lì, davanti alla cattedrale, a consi-gliare Guglielmo di Ugone e Fortarrigo di Magalotto sul modo migliore di procedere nel delicato compito della restituzione del maltolto 94. Erano loro, dunque, i prudenti religiosi che il te-statore aveva indicato nelle sue ultime volontà 95 e in cui aveva riposto la fiducia ultima ed estrema, chi aveva sofferto delle sue usure sarebbe stato risarcito, il pentimento non è nelle lacrime ma nei gesti, e se è vero che ogni uomo, giusto o peccatore, che muore anche solo con un’ombra di pentimento vedrà Dio, an-che lui, usuraio penitente, dopo la dovuta sosta in Purgatorio sarebbe andato in Paradiso 96.I predicatori, d’accordo i due esecutori, individuano nell’ospe-dale di Santa Maria della Scala lo strumento per la delicata missione della restituzione: al rettore Cacciaconte, Guglielmo e Fortarrigo, alla presenza dei quattro figli del defunto, trasfe-riscono il pacchetto di beni fondiari di Ranieri, comprendente anche gli immobili urbani di Malcucinato e Porrione che gli eredi mantengono tuttavia il diritto a riscattare, per dieci anni, al prezzo di 300 lire di denari, mentre dal canto suo l’ospeda-le, nella figura del suo rettore, non nuovo a questo incarico di amministrazione della penitenza, volano di stretto e profondo collegamento con la più dinamica comunità urbana di agia-ti penitenti, mercanti peccatori, imprenditori caritatevoli, ma anche strumento di espansione nel territorio e consolidamento patrimoniale, entrava in possesso dei due poderi, le vigne e le case con il fine dichiarato di amministrare e gestire pro exsol-

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vendis usuris et male adquisitis et ablatis … et fructus et reddi-tus fideliter recolligere et exigere et ex eis satisfacere omnibus legiptime postulantibus, promettendo di non alienare mai i beni ricevuti. Nel caso di un mancato adempimento degli obblighi e delle promesse, stabilivano infine i due esecutori testamentari, a Santa Maria della Scala sarebbe subentrato il monastero ci-stercense di San Galgano, a cui, ricordiamolo, Ranieri aveva già manifestato le proprie simpatie 97.Con l’ingresso dell’ente assistenziale cittadino nelle faccende che la dipartita di Ranieri lasciò da sbrigare, si chiude il cerchio dell’orizzonte etico e religioso in cui si mosse, anche da morto, il figlio di Rustichino. Ma prima di lasciarlo al suo destino var-rà la pena indugiare ancora un poco fra il manipolo di carte che lo riguarda e tentare di arricchire con qualche altra pennellata il suo parzialissimo ritratto.Torniamo a quel giorno di settembre 1239, fra le mura della sua casa, dove il notaio Compagno sta redigendo il testamento, e guardiamo più da vicino chi sono i congiunti che Ranieri ha chiamato a far da testimoni e chi gli uomini che ha nominato suoi esecutori. Adesso siamo in grado di conoscere chi e che cosa si nasconda dietro i loro nomi, di capire qualcosa di più della trama delle relazioni, della ferrea concatenazione delle cose che lega e avvicina Ranieri a quei personaggi: gli esecu-tori testamentari, Guglielmo di Ugone l’abbiamo già incontra-to, uomo di amministrazione e di diplomazia, e poi Fortarrigo di Magalotto, anche lui attivo nella diplomazia comunale 98, nell’ufficio di Biccherna e nella corporazione dei mercanti 99, uomo inserito nella vita pubblica 100, uomo di successo con tut-ta probabilità nell’attività, un’attività di traffico e mercatura di cui sopravvivono poche tracce e fra queste un atto del 1206 in cui Fortarrigo e Rinaldo di Villano, titolare di una societas che agisce nel settore finanziario 101, si prestano a far da garanti in una dichiarazione di debito ex causa mutui che vede parte obbligata i figli di Ugone Piccolomini, Bartolomeo e Alamanno, fratelli dell’esecutore Guglielmo, attivi nel commercio inter-

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nazionale. A far da testimone all’accensione del prestito c’è Tacca di Guidone Sansedoni 102. Dell’intervento di Tacca, della sua vedova e dei suoi figli nella vicenda dell’ospedale fondato da Ranieri sappiamo. Quel che ancora non era evidente era la quasi costante presenza del banchiere Rinaldo di Villano a molti momenti della prima vita dell’ente assistenziale: dall’at-to di oblazione di Bonoalbergo, alla donazione del patrono Piccolomini 103.Una cerchia di relazioni, una circolarità di rapporti che dise-gnano i confini dell’orizzonte sociale di Ranieri: dalla famiglia alla città attraverso il collante degli affari finanziari e delle tra-me della politica, in una nebulosa che ingloba individui di chia-ra eminenza sociale e di comprovata vocazione bancaria 104. Espressione del medesimo milieu, parte di quello stesso am-biente finanziario sono anche quei Piccolomo di Oltremonte e Turchio di Chiaramontese che Ranieri chiama a far da testimo-ni alla redazione delle sue ultime volontà. Uomo di mercatura il primo, giramondo e fortunato, che frequenta la Champagne, che vanta ambiti di relazione in alte sfere, la nobiltà laica ed ecclesiastica d’Europa è tra i suoi clienti 105, che all’impegno in scala internazione unisce quello locale, il Comune di Siena è suo debitore, che partecipa a pieno titolo alla vita cittadina 106 e ha residenza in San Martino 107. E nel terzo di San Martino vive anche Turchio, figlio di Chiaramontese, con i fratelli possiede degli immobili in Malcucinato, vicino alla casa di Ranieri di Rustichino 108: anche lui dedito agli affari, abbastanza consi-stente il giro che lo vede impegnato insieme ai soci Guido di Beringhieri dei Selvolesi e Guidone di Saracino proprio tra la fine degli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta, nel 1236 i libri contabili del Comune registrano tra le entrate un pre-stito di 2.650 lire a nome suo e dei soci 109, poi i banchieri ri-compaiono nel 1238 creditori della finanza comunale per la somma di 752 lire residuo di un prestito di 900 concesso al predecessore del podestà in carica Pietro Parenzi, il quale in un giorno di dicembre di quell’anno, con la spina nel fianco di

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una minaccia di scomunica lanciata contro di lui e i consiglieri del Comune insolvente dal vescovo Buonfiglio, convoca il con-siglio della Campana nella chiesa di San Cristoforo e propone la soluzione del debito che viene immediatamente votata e ra-tificata dai consiglieri presenti 110, ma un anno più tardi i debiti non sono ancora stati saldati, e quando il 15 dicembre Pietro Parenzi informa il consiglio sulle pendenze comunali, appare di nuovo tra i creditori del Comune la società di Guidone di Beringhieri, Orlando di Saracino e Turchio di Chiaramontese Piccolomini, e dato che il Comune scarseggia in liquidità il po-destà concede ai creditori la riscossione, per il tempo di cinque anni, di tutti i redditi e i proventi comunali della palude del Comune, la palude detta de Lacu 111, ma la storia non finisce qua, anche se a questo punto Ranieri di Rustichino ormai è morto, altri contratti ci dicono che la stessa societas farà un nuovo prestito, e il Comune debitore di 2.800 lire nel 1243 questa volta concederà ai suoi creditori i proventi della dogana del sale, dell’olio e del pesce 112, mutui che si sommano ad altri mutui, interessi e penalità che si cristallizzano sopra mutui ori-ginari, difficile distinguere la natura dei crediti che si spalmano, strato su strato, nelle mani di Turchio, protagonista prepotente nel giro del credito cittadino a cui fornisce un appoggio non secondario il seggio vescovile, qui, nell’alveo della politica e dell’amministrazione cittadina, il collegamento con il potere ecclesiastico è uno strumento prezioso per dipanare situazioni incancrenite, fuori da qui, lo sa bene Turchio, è un dispositi-vo indispensabile per innescare meccanismi di accumulazione e successi economici che esulano ben oltre l’ambito comuna-le. Turchio di Chiaramontese, come il congiunto Piccolomo, ha un’attività di banco internazionale. Nel maggio del 1228 proprio con Piccolomo è presso la curia romana, dal pontefice appena eletto Gregorio IX, a riscuotere un credito dal sovra-no inglese convenuto non nella regale persona ma attraverso i suoi mediatori Walter Crespin e Guglielmo di Grenlawe 113, e nel 1232 un prestito fatto al vescovo di Passau rischierebbe di

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rimanere insoluto se lo stesso papa Gregorio non procedesse ad esortare duramente il prelato all’estinzione di quanto dovuto a Turchio e soci 114.Quando il 19 settembre 1239 Ranieri di Rustichino chiama il congiunto nella sua casa nel borgo di Santa Maria Maddalena perché lo affianchi nella conclusione dell’affare forse più im-portante della sua vita, chiama un personaggio di chiara fama, noto in città – nel 1230 aveva rifornito di grano il Comune, poi aveva fatto parte nel 1231 di una balìa incaricata di raccogliere le prestanze, poi era stato chiamato a fare il testimone al rogito di alcuni atti pubblici, si era seduto nel tra 1235 e 1239 negli scranni del Consiglio della Campana, avviandosi nel contempo a rimpinguare le borse dello stato 115 – ma anche oltralpe, abi-tuato a trattare con i rappresentanti della nobiltà internazio-nale, la curia, gli alti dignitari ecclesiastici: proprio pochi mesi prima, a Siena, Turchio rilasciava saldo di un prestito concesso all’arcivescovo di Colonia 116. E probabilmente non erano man-cate occasioni perché lo stesso Ranieri avesse collaborato con il figlio di Chiaramontese negli affari: potrebbe esserne testimo-nianza postuma una carta del 1243 in cui viene incidentalmente nominata la societas domini Turchii Chiarmontesi et filiorum Ranerii Rustichini, custode di alcune lettere di credito 117, che potrebbe prefigurare, all’indomani della morte del padre, il su-bentro degli eredi nel corpo di compagnia. Ma è null’altro che il baluginare di un’immagine. Fulminea e impalpabile come la parabola che pretende raccontare.Ranieri si era definito, sul finire della vita, banchiere ed usuraio. Una serie di indizi – tra cui la frequentazione con le alte sfera della finanza – ce lo fanno collocare, per via indiretta e sinto-matica, fra gli operatori del grande commercio internazionale. La sua fisionomia di uomo politico e di amministrazione, tanto simile a quella di Turchio di Chiaramontese e altri consorti, legato al Comune e all’arte, ci racconta di come potevano de-clinarsi nella Siena del tempo finanza e politica, di come un qualificato gruppo di mercatores sapeva proporsi come ceto di

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governo, di quanto fosse stretto attraverso il canale dell’arte il collegamento tra i professionisti della banca e il Comune. Ma la vita di Ranieri, per come riemerge casualmente e lacunosa-mente dai fondali della documentazione, non segue un tracciato preciso e rettilineo. Va a zig zag, fa dei salti, procede a singhioz-zo, si mangia tanti anni, tanti luoghi, tanti incontri. Lasciando dietro di sé molte zone d’ombra. E ciò che è sparito, sparisce per sempre. Divorato, dissolto nelle temperie documentarie è quel tratto che forse sarebbe stato il più bello da percorrere. L’epopea avventurosa e fortunata di Ranieri banchiere si può solo immaginare.

1 Diplomatico Santa Maria, 1239 settembre 19.2 Loc. cit.3 Pratiche testamentarie e sistemi di eredità in rapporto alle strutture fami-

liari nel contesto della società urbana europea del pieno e tardo Medioevo analizzate in Owen Hughes, Struttura familiare e sistemi di successione ereditaria nei testamenti dell’Europa medievale, 1976, pp. 929-952. Sulla Toscana oltre ai classici Sapori L’interesse del denaro nel Trecento a Firenze, 1929, pp. 161-186, Fiumi, L’attività usuraria dei mercanti sangimignanesi nell’età comunale, 1961, pp. 145-162, si veda a proposito del Valdarno su-periore la più recente analisi di Ricci, ‘De hac vita transire’. La pratica testamentaria nel Valdarno superiore all’indomani della peste nera, 1998, e per Siena Cohn, Death and Property in Siena, 1205-1800: strategies for the Afterlife, 1988 soprattutto pp. 51 sgg.; English, La prassi testamentaria delle famiglie nobili a Siena e nella Toscana del Tre-Quattrocento, 1987, pp. 463-471; Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, 1993-1996, pp. 409-446, relativo alle scelte testamentarie, maschili e femminili, familiari. Sulla strut-tura, l’utilizzazione e le potenzialità delle fonti testamentarie può vedersi Nolens intestatus decedere. Il testamento come fonte della storia religiosa e sociale, 1985, nonché, anche se riferito a un periodo più tardo, la bella premessa di Prosperi al volume I vivi e i morti, “Quaderni Storici”, 1982, pp. 391-410.

4 La condanna dell’usura da parte della Chiesa e i problemi ivi connessi sono al centro di un’ampia riflessione storiografica di cui si forniscono qui pochi rinvii essenziali: Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, 1987; Todeschini, I mercanti e il tempio, 2002, soprattutto pp. 133-185; Idem, Il prezzo della salvezza, in L’etica economica medievale, 1974 volume antologico che raccoglie, fra gli altri, saggi di Ovidio Capitani e Armando Sapori. Per un inquadramento generale dell’atteggiamento di fronte alla

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morte Aries, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, 1979; Vovelle, La morte e l’occidente dal 1300 ai giorni nostri, 1986.

5 Molti esempi in Pellegrini, Attorno all’‘economia della salvezza’, 2004, pp. 59-102, dove a partire dal caso del mercante usuraio Dietisalvi di Guadagnalo l’autore riflette su temi e problemi in cui si intrecciano, nella Siena duecentesca, attorno al tema dell’usura, pratiche economiche e inizia-tive pastorali.

6 Il 17 gennaio 1241 Ranieri è già morto perché i suoi esecutori testamentari sono all’opera: Diplomatico Santa Maria, 1240 gennaio 17.

7 Della fondazione dell’ospedale ricaviamo notizia indiretta da un atto del 1213 in cui Bonoalbergo di Maccio si fa oblato dell’ospedale “quod noviter est hedificatum extra portam Sancti Mauricii”. Nello stesso Ranieri viene indicato come “fundator et hedificator illius loci”: Conventi 161, cc. 270v-280r.

8 “Ego quidem Ranerius filius quondam Rustichini pro remedio anime mee meorumque parentum, titulo donationis intervivos, dono et trado Deo et pauperibus, et tibi Bonoalbergo Maccii oblato hospitalis quod noviter est hedificatum extra portam Sancti Maurici de Sena, quod hedificavit et hedifi-cari fecit Ranerius Rustichini, recipienti nomine eiusdem hospitalis, integre totum quod emi ab illis de Abbatia de Alafiano ibi iuxta dicum hospitale cum ecclesia que ibi est incepta, et cum domibus que ibi sunt […], et decem modios boni grani, ut de cetero dicta omnia habeas et teneas […]”. Più oltre Ranieri promettendo di mantenere “firma” tale donazione, e di “contra eam non venire” rinuncia a tutti i suoi diritti “salvo [sibi] et [suis] heredibus iure patronatus in infinitum”. Conventi 161, c. 276v.

9 Conventi 161, c. 276v: nell’atto di donazione di Ranieri, il nucleo fondiario e immobiliare che fa perno sull’ospedale presenta i seguenti confini: “qui-bus omnibus est ex uno latere filiorum Salsidonii et Tacche et ex alio latere mei”.

10 Conventi 161, c. 255r: alla donazione di Tacca fa da testimone Aldighiero di Ugo Piccolomini che lo stesso giorno aveva presenziato con Tacca all’atto di donazione del congiunto Ranieri.

11 Conventi 161, cc. 253-255, 275v-280r. Il primo atto in cui Imiglia è definita “uxor quondam Tacche” è datato 18 novembre 1219 (alla carta 276r-v).

12 Conventi 161, c. 278r (11 settembre 1215).13 Conventi 161, cc. 276v-278r. Edito in Die Kirchen von Siena, 1985-1998,

II/1-2, p. 890.14 La biografia di Buonatacca di Tacca e alcuni accenni alla vicenda familiare

in Redon, Le père du bienheureux: Bonatacca Tacche, 1998, pp. 39-51 e il più recente Eadem, Costruire una famiglia nel Medioevo. Banchieri, cavalieri e un santo, 2004, pp. 19-56, soprattutto pp. 24-28. La studiosa che sottolinea la vicinanza di donna Imilia ai frati predicatori ipotizza una influenza esercitata dalla donna nella scelta di pietà domenicana del nipote Ambrogio.

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15 Pellegrini, Chiesa e città. Uomini, comunità e istituzioni nella società se-nese del XII e XIII secolo, 2004, pp. 84 e 144-145.

16 Conventi 161, cc. 276v-278r. Edito in Die Kirchen, II/1-2, p. 890.17 Conventi 161, cc. 277v-278r (18 dicembre 1227).18 Ranieri continuava a riservarsi il diritto di giuspatronato e al monastero era

fatto divieto di alienare i beni ricevuti. Conventi 161, c. 279v (28 febbraio 1221). L’atto è edito in Die Kirchen, II/1-2, p. 891 (28 febbraio 1227). Da notare che fra i testimoni all’atto del 18 dicembre 1227 in cui i domenica-ni rinunciano ai loro diritti sull’ospedale, figura domino Johanne monaco Sancti Gargani.

19 “Item tali condictione et pacto apposito ut perpetuo in omni tempore debe-at ibi esse et stare et mansistare capud et prioratus ordinis vestri et regule, scilicet illorum qui pro tempore Senis erunt de vobis et omnium aliarum ec-clesiarum et religiosorum locorum quas et que pro tempore Senis habebitis. Quod si sic non fieret ad nos ipso iure omnia predicta revertantur pleno iure …”: Die Kirchen, II/1-2, p. 890.

20 Sul ruolo dei Malavolti nell’episcopato senese Pellegrini, Chiesa e città, p. 240; Bowsky, Un comune italiano nel medioevo. Siena sotto il regime dei Nove, 1986, pp. 369-372; Waley, Siena e I Senesi nel XIII secolo, 2003, p. 161.

21 L’atto di donazione di Fortebraccio, Ranuccio, Orlando Malavolti al priore dei frati predicatori, che porta la data del 24 marzo 1226, è edito in Die Kirchen, II/1-2, p. 890. Sulla vicende che portarono all’insediamento in città dei predicatori ampie riflessioni in Pellegrini, Chiesa e città, pp. 145 sgg.

22 Bizzocchi, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento, 1987, pp. 28-29. Sull’argomento la bibliografia è molto vasta, risultato del confronto di storici della Chiesa, della società, dell’urbanistica e dell’architettura. Per un’impo-stazione di tipo generale si vedano i contributi raccolti nel volume Les or-dres mendiants et la ville en Italie centrale, in “Mélanges de l’Ecole française, Moyen Age-Temps Modernes”, 89 (1977); i saggi di Guidoni sul rapporto tra congregazioni e urbanistica riuniti in Guidoni, La città dal medioevo al rinascimento, 1989, e Idem, L’architettura delle città medievali. Rapporto su una metodologia di ricerca (1964-1974), 1974, pp. 481-525; Idem, Città e ordini mendicanti. Il ruolo dei conventi nella crescita e nella progettazione ur-bana del XIII e XIV secolo, in “Quaderni medievali”, 4 (1977), pp. 69-106; i contributi di Vauchez raccolti nel suo Vauchez, Ordini mendicanti e società italiana XII-XV secolo, 1990; per l’ideale di santità e il culto dei santi, Idem, La santità nel Medioevo, 1988. Per il riflesso sulle idee Todeschini, Teorie economiche francescane e presenza ebraica in Italia (1380-1462), 1985, pp. 193-217. Teorie economiche francescane, 1985.

23 Mi riferisco a Le Goff, Apostolat mendiant et fait urbain dans la France médiévale. L’implantation géographique des Ordres Mendiants. Programme-questionnaire pour une enquete, 1968, pp. 335-352; Le Goff, Ordres Mendiants et urbanisation dans la France médiévale. Etat de l’enquete, 1970, pp. 924-946.

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24 Nel 1259 alcuni Tolomei cedono al priore dei frati serviti di Santa Maria un appezzamento di terreno in contrada di San Clemente perché vi sia costruita una chiesa sui cui i donatori eserciteranno il diritto di nomina del rettore con il patto che se i religiosi abbandoneranno quel luogo il terreno dovrà tornare al casato: Mucciarelli, I Tolomei banchieri di Siena. La parabola di un casato nel XIII e XIV secolo, 1995. Per i Malavolti vedi supra.

25 Acta Sanctorum Martii, t. III, 1736, pp. 180-201. La Vita fu compo-sta dai frati Gisberto, alessandrino, Recuperato di Pietramala, aretino, Aldobrandino Paparoni e Oldrado Bisdomini, senesi.

26 Vita del Beato Ambrosio Sansedoni da Siena, raccolta da Giulio Sansedoni, vescovo di Grosseto, 1611.

27 Acta Sanctorum, Martii, III, p. 182.28 “… Perciochè quando la balia si fermava con esso vicin all’altare egli se ne

stava quieto, e riposato ma tosto che ella se ne discostava, egli si torceva e conturbava e si recava dirottamente a piangere … Una volta fra le altre av-venne che la donna avendolo portato alla chiesa in tempo, che vi era grandis-simo concorso e dopo l’esservisi fermata a pigliar la divotione partendosi per tornare a casa incominciò il bambino si fattamente a stridere, e sì compas-sionevolmente a rinforzare il pianto co’l tener sempre la faccia rivolta verso il tabernacolo delle reliquie sante che inteneriva le persone riguardanti, in tanto, che mosse a pietà, costrinsero la balia a riportarlo verso l’altare, dove di nuovo accostatolo, subito dolcemente si racchetò, mostrandosi lieto e fe-stoso. Mà, oh miracolo, subito che fu all’altar ricondotto ecco in un punto si gli disgroppano le picciole gambe dalle coscie, le braccia dai fianchi e trattole fuori dalle fascie, con le mani giunte alzate al cielo in atto d’adoratione, …fu sentito dire Giesù, Giesù, Giesù, proferendo tre volte questo santissimo nome così chiaro et articolato come haverebbe potuto fare qualunque al-tra persona ben parlante. Trasse la voce di tanta novità gran moltitudine di persone, le quali vedendo il bambino disciolto dalle fasce havere tutte le sue membra libere e proporzionate e le carni candide, e tremule, come appreso latte, e la fronte serena, e lieta e gl’occhi lucenti, e scintillanti un non so che d’angelico e divino rimasero piene di stupore e d’allegrezza rendendo gratie affettuose a Dio”, Vita del Beato Ambrosio, pp. 5-6.

29 Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico dei secoli XII-XIII, 1985. Alcune considerazioni sull’uso in sede giudiziaria della ‘pubblica fama’ in Mucciarelli, La terra contesa, pp. 38 sgg.

30 Ginzburg, Il formaggio e i vermi, p. 91.31 “Sanctum Patriarcham Dominicum quoties Romam proficiscens per

Senarum urbem transitum institueret, ad Sanctam Magdalenam hospitari solitum et verbum Dei populo predicare, incolarum traditio est et confir-matur ex lectionibus officii proprii huius Beati”: Ex Monumentis a Julio Episcopo Grossetano collectis, raccolti in Acta Sanctorum, Martii, III, p. 241.

32 Ambrogio Sansedoni nasce il 16 aprile 1220: il miracolo della sua guarigio-

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ne, avvenuto secondo la tradizione quando il fanciullo non ha ancora un anno di vita, sarebbe dunque da collocare nel 1221.

33 Vigne, appezzamenti, boschi, a San Mamiliano, Piscina Nera, Cerreto Grosso: Conventi 161, cc. 255v, 276r, 278r, 280r.

34 Sulle fondazioni di Guido salico e Pietro Fastello, oltre che, più in generale, sul fenomeno di nascita e crescita degli xenodochia in età precomunale e prima età comunale si veda Brogini, Lo sviluppo urbanistico di Siena fino all’età precomunale, 1991-1992, pp. 341-342, 350-352, 355-358. Il feno-meno duecentesco in Pozzi, Siena nel Duecento. Ricerche sullo sviluppo urbano, 2002-2003, pp. 183 sgg. La vicenda, più tarda, dell’ospedale di Monna Agnese è stata studiata da Brunetti, L’Ospedale di Monna Agnese di Siena e la sua filiazione romana, 2003, pp. 37-67.

35 Carniani, I Salimbeni quasi una signoria. Tentativi di affermazione politica nella Siena del ’300, 1995, pp. 119 e 157n.

36 Mucciarelli, I Tolomei, p. 251.37 Ius honorificum, onerosum et utile: così la definizione del giuspatronato. Si

veda la voce relativa in Enciclopedia giuridica italiana, vol. VII, 1914, pp. 1011-1037 e in Enciclopedia del diritto, vol. XIX, 1970, pp. 524-537.

38 Per una esemplificazione del significato che rivestivano i benefici e anche se relativa a un periodo posteriore, è utile la vicenda dei Buondelmonti rico-struita da Bizzocchi, La dissoluzione di un clan familiare: i Buondelmonti di Firenze nei secoli XV e XVI, 1982, pp. 3-43.

39 “… nel tempo che [i predicatori ] abitavano in detta chiesa della Maddalena, il popolo vi aveva grandissima divotione”, vedi supra.

40 Pellegrini, Chiesa e città, p. 225.41 Nel 1239, anno di redazione del suo testamento, Ranieri possiede la terza

parte “pro indiviso domorum positarum Senis, in Porrione et Malcucinato, videlicet domus que fuit Geraldi Scudaris et domus que fuit filii Verzieri, et domus que fuit Oddi Viuole et Ricoveri Guidi Palmerii”: Diplomatico Santa Maria, 1239 settembre 19. Ulteriore descrizione della proprietà di Ranieri in Diplomatico Santa Maria, 1240 gennaio 17.

42 La prima notizia, indiretta, dell’esistenza del palazzo in Biccherna 698, c. 94v (anno 1236: Griffolus qui moratur prope palatium Piccolominum…). Nel gennaio 1247 venivano sborsate dal camerario comunale 9 lire, 8 soldi e 7 denari ai maestri Vivolo e Orlando “pro pretio assidum et ferramen-torum et hostii et sedilium et feudo eorum quia steterunt apud palatium filiorum Picolominum ubi moratur potestas et fecerunt ibi dicta sedilia et hostia” (Libri di Biccherna, VII, p. 19). Una successiva registrazione confer-ma l’utilizzazione del palazzo come residenza del podestà: nel giugno 1247 gli ufficiali di Biccherna pagavano 3 lire, 3 soldi e 2 denari a Piccolomo di Oltremonte che riceveva “pro se et suis consortibus”, “pro complemento pensionis eorum pelatii [sic] ubi moratur potestas” (Ivi, p. 84). All’esistenza di una “domo Piccolominum” nel 1236 fa riferimento una voce in Biccherna 698, c. 96v. Una “domum filiorum Piccoliomini” e una “domum Aldigherii Piccoliomini” è attestata negli anni 1249-1250 (Libri di Biccherna, X, pp.

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27, 110). Nel 1232 compare il riferimento ad una “contrata extra portam fi-liorum Piccolominum” (Biccherna 698, c. 13v). Nelle spese del mese di giu-gno dell’anno 1251 vengono segnati alcuni pagamenti in favore dei custodi “de terzerio Vallis” tra cui 50 lire pagate a Maffeo Arrighi e Giovannino di Beringeri “custodibus a canto filiorum Piccholiomini usque ad portam Sancti Maurizii” (Libri di Biccherna, XI, p. 107). Alcune di queste indica-zioni mi sono state fornite da Filippo Pozzi, che ringrazio.

43 Consorteria Piccolomini, 4, carta sciolta, s.n.44 Malavolti, Dell’historia di Siena, 1599, III, parte prima, p. 23 [rist. anast.

1968].45 Certe pagine dei memoriali familiari dicono aver preso il castrum la sua de-

nominazione “a quodam Picolomineo viro strenuo qui dicebatur Montonis”: Consorteria Piccolomini 8, c. 77r. Altrove invece l’edificazione del castello è attribuita a Piccolomo di Montone: “Piccolomus Montonis […] castrum Montonis edificavit […]”: ibidem, 4, quaderno s.n. “Documenti e memorie in onore dei personaggi illustri della famiglia Piccolomini”. Si veda anche ibidem, 10, c. 43r. Per una analisi della letteratura genealogica e celebrativa delle origini rinvio a Mucciarelli, Discendenze fantastiche, architetture nobilitanti e celebrazione genealogica attraverso le carte della consorteria, 1997, pp. 357-376, in particolare per Bacco Piccolomini pp. 357-364.

46 Secondo Alessandro Lisini e Antonio Liberati che composero alla fine dell’Ottocento una genealogia della famiglia, sarebbero stati Piccolomo, Guidolino, Ranieri e Giovanni, figli di un Montone i cui dati biografici ri-mangono avvolti nell’ombra, a dare origine alle linee di discendenza del casato (Lisini, Liberati, Notizie genealogiche della famiglia Piccolomini, 1895, pp. 201-204; 1896, pp. 17-21, 65-67, 189-196; 1898, pp. 6-14, 38, 47, 77-81, 121-123, 135-148, 159-167; 1895 tav. I). Allo stesso modo Giulio Prunai stabilendo un collegamento tra la famiglia ed alcuni personaggi che compaiono nelle carte notarili del monastero di San Michele di Passignano alla fine dei secoli XI e XII, rinvia ad un capostipite Montone che egli in-dividua nelle pergamene del fondo passignanese (Prunai, Carte mercan-tili dei Piccolomini nel Diplomatico fiorentino, 1962, p. 549) dove tra il 1084 e il 1089 figurano un Ranieri e un Guido figli di Azzo chiamato anche Montone, proprietari di alcune terre “in valle Montonis” (Diplomatico di Passignano, 1084; ibidem, 1084 aprile; ibidem, 1088 gennaio], e dove quasi un secolo dopo, nel 1168, in occasione della liberazione di uno schiavo domestico avvenuta “in castello Montonis”, ricompaiono in qualità di te-stimoni all’atto un “Montone medico”, un “Rainerio quondam Montoni” e i fratelli “Ordelaffo et Martino Montoni” (Diplomatico di Passignano, 1167 gennaio 7). Alcuni di questi uomini e altri con lo stesso patronimi-co, si ritrovano più o meno negli stessi anni anche in altri contratti: nel 1165 un Martino e un Guidolino “de Montone” vendono a certo Giovanni Gadarozzo due pezzi di terra poste a Usinina; l’atto rogato a Siena, “iux-ta ecclesiam Sancti Martini”, è convalidato da alcuni testimoni tra cui “Piccolomo de Montone” (Diplomatico Bigazzi, 1165 luglio 14). Nel 1179

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“in domo Montonis” Mariotto e Manetto cedono a Niccolò di Giovanni la metà dei diritti loro spettanti su certo terreno attraverso il quale, di-cono, “nos et antecessores nostros ivimus ad vineam nostram de Valle de Montone”; al contratto notarile è presente, tra gli altri, “Ranerio Montonis” (Diplomatico Bigazzi, 1178 gennaio 19), il quale ricompare insieme al fra-tello Uggeri nel 1195 (Diplomatico Opera Metropolitana, 1195 ottobre 30), poi ancora tra 1202 e 1203 in atti di natura pubblica (Caleffo Vecchio, I, p. 104) e privata che lo vedono assumere, come parente più prossimo, la tutela dei figli di un Niccolò medico (Diplomatico Archivio Generale, 1202 maggio 26; Diplomatico Bigazzi, 1203 giugno 2. Per Niccolò, Diplomatico Archivio Generale, 1201 maggio 29; Diplomatico Archivio Generale, 1202 aprile 25). Ad un Montone sembrano essere anche contemporaneamente at-tribuibili Guido, Bernardino e Magalotto presenti ai patti stabiliti tra Siena ed Orvieto nel 1202 ed indicati come “filii Montonarii” (Caleffo Vecchio, I, pp. 74-78): agli ultimi due che nel 1193 sono a Roma a vendere una partita di panni all’abate di Passignano (Diplomatico di Passignano, 1193 ottobre 24), Francesco Bandini Piccolomini fa risalire la prima “indubbia” attestazione dell’attività mercantile del casato [Piccolomini Bandini Naldi, Carte mercantili dei Piccolomini del secolo XIII, 1898, pp. 65-77: 69]. Con la cautela necessaria quando ci si muove nel campo scivoloso delle ipotesi, chi verosimilmente è ancorabile al casato è quel “Piccolomo de Montone” del 1165: così lasciano infatti pensare alcuni documenti della prime decadi del secolo successivo che indicano alcuni Piccolomini con que-sto patronimico: vedi per esempio Diplomatico Riformagioni, 1232 aprile 29 (“Gulielmus olim Picchuolomini”); Diplomatico Riformagioni, 1235 febbraio 1 (“Guido Petri Piccuolomini”); Diplomatico Riformagioni, 1237 luglio 28 (“Bartholomeo Picholomini”); e Diplomatico Santa Maria, 1241 novembre 28 e Diplomatico Santa Maria, 1243 aprile 11 (dove si parla di “filii Picholomini”).

47 Sulle dinamiche di accesso al vertice e di amalgama sociale tra famiglia di diversa antichità e origine che avviene tra 1175 e 1220, Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione dei ceti dirigenti nel corso del XIII secolo, 1997, pp. 17-40 in particolare 18-22. Il caso senese, studiato da Giorgi, I ‘casati’ senesi e la terra, 1992-1993.

48 Caleffo Vecchio, I, p. 31.49 Caleffo Vecchio, I, p. 139 (1208 settembre 4). Nell’atto, stipulato alla pre-

senza dei “dominorum militum”, dei “consulum justicie”, dei “consulum mercatorum” e del camarlengo del Comune, Ghiberto di Aldobrandino, si-gnore di Orgiale, concede al Comune di Siena il terreno per edificare in detto castello un palazzo e torre, promettendo insieme agli altri Aldobrandeschi di difenderlo dai nemici di Siena.

50 Tra gli atti in cui compare Ranieri uno è datato 17 ottobre 1213 la cui inter-pretazione non è molto agevole: nel documento i “domini societatis popu-li senensis Salvanus Tolosani, Ildebrandinus Ramoraccii” stipulanti anche per il loro socio “Ugolinus Gualengi”, rilasciano quietanza a Ciampolo di

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Ugone di Ruggeri che stipula a suo nome e per un gruppo di 23 cittadini senesi (“Iacoppo Ildebrandini Ioseppi, Ianne Gallerani, Guidone de Palatio, Alexio Renaldi de Trebio, Gregorio Belli, Ranerio Rustichini, Ildebrando Isimbardi, Orlandino Abrami, Cittadino Bernardi, Manente Lucensis, Pepo Tramazi, Buonsignore Stefani, Bruno Pelacane, Ricciardo fabro, Sinibaldo fabro, Biencivenne Rizzacorno, Torrisiano Burnetti, Rustichello de Fagnano, Ildibrandino Boccacci, Straccio et Luglolo, Johanne Testa, et Vicino Ricciarelli et omnibus aliis hominibus”) i quali si erano impegnati “realiter et personaliter” per i “domini” della societas, “pro pena septingentarum librarum, pro facto turrium, quam penam et turres [dictis dominis societatis populi] petiit Guidus Ranuccii Bernardini tunc potestas senensis”. Mentre lo Zdekauer e il Salvemini interpretarono questo documento come la prova che la societas populi senensis, governata da tre rettori, esercitava in quel periodo giurisdizione sulle torri cittadine (cfr. Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, p. xxxiii; Salvemini, Il Constituto di Siena, 1898, poi in La dignità cavalleresca, 1972, p. 216), Mondolfo espresse i propri dubbi in merito alla loro conclusione (Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, p. 21, in nota), mentre Sestan lo collegò ad un periodo di disordini cittadini durante i quali il “populus” avrebbe saccheggiato le torri nobiliari. Proprio in conseguenza di questi assalti i capi dell’organizzazione popolare sarebbero stati condannati ad una forte ammenda che però, nota lo storico, non fu pagata da loro, ma dalle casse comunali (esiste un documento ante-riore a questo citato, datato 19 settembre 1213, nel quale gli stessi “domini societatis populi” ricevono dal podestà di Siena che agisce “pro universitate comunis Senarum”, 700 lire “pro facto penarum turrium”): cfr. Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, pp. 60-61.

51 Caleffo Vecchio, I, p. 139 (1208 marzo 16).52 Caleffo Vecchio, I, pp. 164-165 (1209 luglio 6), e 171 (1209 maggio 4).53 Nell’agosto 1209 Giacomo di Ildebrandino giura fedeltà a Siena sottopo-

nendo al Comune il castello di Castiglione d’Ombrone. L’atto è stipulato “Senis, in domo domini Bartholomei Renaldini senensis potestatis, coram Ianne Galerani, Ranerio Rustichini, Vigoroso Cittadini, Bertuldo Rugerii et Vitale de Fondaco, rogatis testibus”: cfr. Caleffo Vecchio, I, pp. 176-178 (1209 agosto 8).

54 Caleffo Vecchio, I, pp. 190-191 (1213 agosto 19): giuramento dei conti Scialenghi.

55 Caleffo Vecchio, I, pp. 251-257 (1221 ottobre 2): patto di alleanza fra il Comune di Siena e i conti Aldobrandeschi.

56 Caleffo Vecchio, I, p. 301 (1223 maggio 21).57 Caleffo Vecchio, I, pp. 318 (1255 luglio 12), 321 (1255 dicembre 20). Cfr.

anche Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, c. 63.58 Nel 1222 partecipa all’atto con il quale il conte Ranieri da Travale affida

al Comune i suoi castelli di Elci, Giuncarico e Monte Albano (Diplomatico Riformagioni, 1222 settembre 26); in seguito compare nelle vesti di testi-mone alla stipulazione della lega fra Siena, Pisa, Pistoia e Poggibonsi contro

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fiorentini e lucchesi: l’atto è rogato in data 7 giugno 1228 “in Valle Ere, in domo mansionis de Templo” (Caleffo Vecchio, I, p. 365); testimone il 27 luglio 1235 all’atto con cui il castellano di San Quirico permette che i senesi raccolgano in quel territorio parte delle ottomila lire necessarie alla pace con Firenze (Caleffo Vecchio, II, p. 450); testimone alla quietanza rilasciata il 12 novembre 1241 dal Comune di Scarlino per certi denari tolti agli scar-linesi e restituiti (Caleffo Vecchio, II, pp. 531-532); testimone alla quietanza rilasciata nel gennaio 1240 al Comune cittadino da Iacopo di Lamberto di Gallo per l’ufficio di giudice e assessore tenuto in Siena (Caleffo Vecchio, II, pp. 532-533).

59 Caleffo Vecchio, I, p. 345 (1226 giugno 22).60 Rinaldo ricopre tale incarico il 27 agosto 1230 quando gli ambasciatori

del Comune informano il consiglio cittadino che l’esercito fiorentino stava assediando il castello di Selvole: Diplomatico Riformagioni, 1230 agosto 27.

61 Nell’aprile del 1230 è insieme a Gianni Gallerani ambasciatore del Comune ad Arcidosso “ad loquendum cum Bonifatio comite pro concordia fienda inter [comunem senensem] et eos”; nel 1236 a Perugia, “ad curiam domini Pape”: cfr. Libri di Biccherna, III, p. 126 e ibidem, V, pp. 15, 40, 52.

62 Il 7 giugno 1237 “in ecclesia Santi Stephani, curtis Linari, in loco qui dicitur Anbiano” gli arbirtri del Comune di Siena, Rinaldo di Ranieri di Rustichino e Ranieri di Gualtieri, e quelli fiorentini Rinaldo di Migliore e Ubertino di Pegolotto, stabiliscono il modo per regolare le controversie che nascessero fra i rispettivi cittadini, prevedendo la nomina di due arbitri per ciascun Comune, dei quali uno giurisperito, con il compito di “cognoscere et finire et sedare et terminare et pronuntiare” tutte le liti e le controversie che nasces-sero: Caleffo Vecchio, II, pp. 472-475 (anche in Diplomatico Riformagioni, 1237 giugno 7).

63 È membro del consiglio cittadino nel secondo semestre del 1235: Diplomatico Riformagioni, 1234 marzo 27 e ibidem, 1235 giugno 9.

64 Diplomatico Ricci, 1208 luglio 12. In qualità di procuratore di Falco di Amerigo. L’atto è stipulato a Siena alla presenza di Ottone di Buonafede giudice, Beringhieri di Baroncello notaio, Boninsegna di Viscardino, Ranieri di Ranieri e Ristoro di Buoninsegna.

65 Diplomatico Riformagioni, 1214 dicembre 20.66 Libri di Biccherna, III, p. 75; IV, pp. 85 e 177. Anni 1230-1231.67 Bartolomeo di Ugo ricopre la carica di Console nella corporazione dei

Mercanti [Caleffo Vecchio, I, pp. 330 (1226 novembre 16) e 349 (1226 novembre 15)], arriva all’ufficio di Biccherna (provveditore dal gennaio al luglio 1235: Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], c. 66.), è ambasciatore del Comune (nel 1231 svolge un’ambasciata “ad castellanum Sancti Quirici pro facto comunis”: Libri di Biccherna, IV, p. 178), siede negli scranni del consiglio cittadino [Caleffo Vecchio, II, pp. 456 (1237 luglio 28), 458 (1237 luglio 28), 502 (1239 agosto 22-30)], par-tecipa in qualità di teste a diversi rogiti pubblici (compare tra gli anni 1232-

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1241 a diversi atti del Comune): tra il novembre e il dicembre 1232 assiste a due quietanze rilasciate al Comune rispettivamente da Giovanni di Nicola di Narni e Gherardo di Viterbo per essere stati risarciti dei cavalli perduti in servizio dei senesi (Diplomatico Riformagioni, 1232 novembre 28; ibi-dem, 1232 dicembre 11); il 5 ottobre 1233 assiste “extra civitatem senen-sem” insieme a Incontrato Assaliti, Bonifazio Marescotti, Gianni Gallerani, Gualterotto di Lucchese “et aliis multis rogatis testibus” alla dichiarazione di Ghiavardo di Arnstein, messo imperiale, che autorizza il podestà di Siena a fare guerra ai montalcinesi condannati al pagamento di 4.000 marche d’argento per esser stati contro l’impero (Caleffo Vecchio, I, p. 390. In copia del 1235 anche in Diplomatico Riformagioni, alla data); nel luglio 1235 Bartolomeo, a Perugia per le trattative della pace da farsi con fiorentini e orvietani, partecipa in qualità di teste alla dichiarazione che il delegato di Siena compie davanti al vescovo di Palestrina, di essere venuto a compiere tutto quello che il vescovo ordinerà per la pace da farsi con fiorentini ed or-vietani (Caleffo Vecchio, II, pp. 449-450: 1235 luglio 9) e successivamente testimone all’atto con cui il vescovo di Perugia e il cappellano del vescovo di Palestrina dichiarano che il Comune di Siena ha pagato le 8.000 lire per la ricostruzione della rocca di Montepulciano, fissate negli accordi di pace (Caleffo Vecchio, II, p. 449: 1235 luglio 13). Il 12 novembre 1241 Bartolomeo insieme al consorte Rinaldo di Ranieri di Rustichino è teste alla quietanza rilasciata dal Comune di Scarlino a quello senese (Caleffo Vecchio, II, pp. 531-532). Bartolomeo fa infine parte di commissioni o balie di “boni homines” (nel 1230 è tra i “sex boni homines positis pro guar-niendis castris”: Libri di Biccherna, III, pp. 166, 183, 193, 216, 283, 340. Fanno parte della balìa Altavilla Cavalcanti, Ildebrandino Salvani, Pelacane e Lotterengo Tolomei, Bonifazio Marescotti); riceve la delega di arbitrare: nel 1239 Bartolomeo insieme al priore della chiesa di San Martino è chia-mato ad arbitrare su certe ingiurie fatte contro Pietro Parenzi, podestà di Siena, ad opera di alcuni cittadini: i due assegnano al podestà una indennità di 600 lire. Caleffo Vecchio, II, pp. 482-484 (1238 febbraio 5-11).

68 Per un’ampia panoramica sui criteri di redazione, le caratteristiche struttu-rali, i tempi, i temi del Caleffo Vecchio, rinvio a Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, saggio che fa da introduzione all’edizione del IV volu-me del “Caleffo”.

69 Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, in particolar modo p. 30.70 L’ipotesi è di Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, p. 14. Ma si vedano

i dubbi espressi da Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, pp. 58 e 59 in nota.

71 Vedi Serie dei consoli, 1952, pp. 93-98. I gruppi parentali a cui stato possibi-le annodare l’élite consolare dei secoli XII- XIII sono quelli degli Ugurgieri, Marescotti, Codennacci, Maconi, Maizi, Giuseppi, Malavolti, Squarcialupi, Lambertini, Crescenzi, Sansedoni, Salvani, Palmieri.

72 I Piccolomini venivano invece inseriti tra le famiglie consolari da Ernesto Sestan, forse nella convinzione che quel Rustichino di Orlando console nel

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1176 e nel 1195 appartenesse alla famiglia, come pretenderebbero le carte dell’archivio familiare e come anche Celso Cittadini scriveva nel Seicento. Ma l’ipotesi non è convalidabile. Cfr. Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, p. 57, nota 61; Cittadini, Della nobiltà civile, 1618 [ms.], c. 5v. Ugualmente poco attendibile sembra quella derivazione germanica o franca che alcuni studiosi in questo secolo le hanno attribuito. Vittorio Lusini ha ritenuto i Piccolomini provenire da una famiglia di legge salica, consorte a quella dei Berardenghi, a loro volta discendenti di quel Winigis conte di Siena negli anni 867-868 (Lusini, Notizie storiche, 1921, p. 271), il Cecchini ha sostenuto che essi, al pari dei Tolomei, dei Rinaldini e dei Salvani, derivaro-no dalla grande casata feudale dei Cacciaconti (Cecchini, Ghino di Tacco, 1957, p. 268), mentre Giulio Prunai ha ipotizzato la loro provenienza da qualche consorteria germanica di legge longobarda stanziatasi nel contado e trasferitasi in città alla metà circa dell’XI secolo (Prunai, Carte mercantili, 1962, p. 549), ma documenti che confermino tali ipotesi non ce ne sono. La citazione di Cammarosano è in Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, p. 59.

73 L’introduzione del podestà rappresentò, scrive Cammarosano, un’esigenza di unitarietà della rappresentanza del dominio cittadino, un bisogno di ri-composizione in una fase caratterizzata dal contrasto milites-populares e dall’irrigidirsi della contrapposizione attraverso le compagini ben definite delle rispettive organizzazioni comunitarie o societarie. Se questa istanza di ricomposizione ponendosi nel settore più delicato della vita pubblica, il comando militare e la giustizia criminale, comportò il ricorso a membri dell’aristocrazia cittadina, nel momento in cui apparve chiaro il divario tra l’esigenza di ricomposizione che questa scelta aveva espresso e la parziali-tà che invece la fisionomia “cetuale” dei podestà cittadini rappresentava, si ricorse a ufficiali forestieri. Il primo ad inaugurare la serie fu appunto nel 1212 Guido di Ranuccio di Orvieto. Cfr. Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, p. 60; ma si veda anche Bizzarri, Sull’epoca della introduzione della “lira”, 1937, p. 57, che sottolinea il carattere di indeter-minatezza della magistratura podestarile all’inizio incapace di affrancarsi del tutto da quella consolare.

74 Se a partire dalle prime decadi del Duecento emergono le prime serie ar-chivistiche di provenienza laica, i primi protocolli notarili, è soprattutto ad opera dell’iniziativa pubblica che si produce la massa più ingente della documentazione: si avviano per esempio con gli anni 1220 una serie di registrazioni relative alla contabilità comunale e alla fiscalità, si mette mano a una riforma degli statuti cittadini, si fa scrupoloso verbale delle adunanze consiliari. I registri delle deliberazioni del Consiglio della Campana sono pervenuti a partire dal 1248. Sul tema della crescita e della strutturazione della documentazione comunale a metà Duecento in corrispondenza più o meno all’affermazione politica delle forze popolari, rinvio per una sintesi completa a Cammarosano, Italia Medievale, 1991, pp. 136-138 e 151-193. Alcune considerazioni sul caso di Perugia in Bartoli Langeli, Codice

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diplomatico, vol. I, 1983, pp. xi-xxxiii; e Bartoli Langeli, Le fonti per la storia di un comune, 1988.

75 Si vedano Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, pp. 65-70; Zdekauer, La vita pubblica dei senesi, 1897; Caggese, La repubblica di Siena, 1906, pp. 22-26; Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, pp. 60-65.

76 Federico II ripagava la “fidem et devotionem” dei cittadini senesi Ildebrandino e Inghilberto di Ugone Piccolomini, cedendo loro e ai loro legittimi eredi “in merum et rectum feudum” il castello di “Montem Hertari positum in Valle Urcie”, con l’intimazione fatta ad ogni “civitas” e “comune alicuius terre”, a qualsiasi “persona humilis vel alta, secularis vel ecclesia-sticha” di non “molestare, seu iniurare” i suddetti “fideles” dell’imperatore, “vel eorum heredes”, “in dicta concessione: copia semplice del diploma (da-tabile XIII secolo) in Diplomatico Santa Maria, 1220 novembre 26.

77 Supra, nota 55.78 Supra, e nota 58.79 Supra, nota 66.80 Altri esempi del ruolo svolto da membri del lignaggio, tra cui Bartolomeo di

Ugone, come referenti dell’amministrazione imperiale e della politica filo-ghibellina comunale in Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, 1993, p. 53.

81 Nonostante la lacunosità delle informazioni, oltre a Ranieri, ebbero sicura-mente accesso all’ufficio di Biccherna tra 1208 e 1240, il fratello di Ranieri Falcone, Guido di Pietro, Alamanno di Ugo e il fratello Bartolomeo (Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], cc. 47, 61, 63, 65, 66, 68), il quale rivestì anche per due volte la carica di ufficiale nella corporazione dei mercanti, insieme al congiunto Guglielmo che vi ar-rivò nel 1228. Bartolomeo è console dei mercanti nel 1226 e nel 1231. Per Guglielmo che appare console in data 1228 luglio 6, vedi Copie cavate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico [ms.], c. 152r-v. Nell’atto Guglielmo Piccolomini, Ranieri Codennacci e Bassamonte di Ranuccio “consules mercatorum senensium” e Viviano del Donicato, Gregorio di Gianni e Accattapane, “consules pizzicaiolorum” prendono in prestito per le rispettive corporazioni da Adota di Azzolino, 66 lire e 8 soldi di denari senesi, promettendo restituirglieli “sine alio guiderdone” entro le calende del gennaio successivo. L’atto è rogato da Benvenuto del fu Rodolfo, “Senis, coram Clerico Peruzi, Vinciguerra Galline, Martino Buzzicaglie, Benno Galgani, Gherardo Simpi et Johanne Bachi testibus rogatis”. L’elenco degli ufficiali di Mercanzia redatto da Galgano Bichi nel 1725 è molto lacunoso per la prima metà del Duecento, ma per Bartolomeo Idem, Catalogo e serie de’ consoli di Mercanzia, 1725 [ms.], c. 45r.

82 Per la descrizione delle competenze e della storia di questa magistratura si veda Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, pp. xxi-xxv.

83 Quasi tutte le grandi famiglie cittadine a fisionomia mercantile e bancaria vantano propri esponenti fra i consoli dei mercanti, almeno fino all’ultimo quarto del Duecento: vedi Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, 1997, pp. 149-150, nota.

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84 L’atto datato 1192 novembre 1 è in Caleffo Vecchio, I. p. 295. Traggo la notizia da Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, p. 15.

85 Tale la strutturazione delle corporazioni che appare in un documento del giugno 1212 nel quale i domini delle arti prestano giuramento agli uomini di Asciano. Il documento è trascritto in Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 65-69. Cfr. anche Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, p. 59.

86 L’atto datato 1203 febbraio è in Caleffo Vecchio, I, p. 311. Traggo la notizia da Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, p. 15.

87 Diplomatico Riformagioni, 1208 agosto 8.88 Diplomatico Archivio Generale, 1226 novembre 16. Anche in Caleffo

Vecchio, I, p. 330.89 Libri di Biccherna, IV, p. 73.90 Vedi Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, p. xxxxi.91 Gli Emendatori, balia di tredici uomini eletta annualmente, hanno il com-

pito di riportare nelle distinzioni dello statuto le riforme deliberate dai consigli, ma hanno anche facoltà propositiva. Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, pp. xviii-xix.

92 Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, pp. li-lii. Sulla funzione dell’arte dei mercanti e pizzicaioli vedi anche Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 15-21.

93 Il Constituto del Comune di Siena dell’anno 1262, a cura di L. Zdekauer, Milano, 1897 [rist. anast. 1974], p. lii. Per le competenze attribuite dallo statuto del 1262 ai consoli di Mercanzia vedi dist. I, rub. 128, 173, 178, 197, 220, 408, 443, 484, 525; e dist. III, rub. 387 che documenta la presen-za dei consoli alla ratifica dei patti con Foligno, Todi, Perugia e Volterra. Per un excursus storico della corporazione dei mercanti vedi Ascheri, Una loggia per i mercanti, 1995, pp. 181-194 e per la sua caratterizzazione tre-quattrocentesca Idem, Giustizia ordinaria, 1989, pp. 23-54.

94 Diplomatico Santa Maria, 1240 gennaio 17 e in copia Ospedale 70, cc. 45v-46v.

95 Supra, nota 1.96 Le Goff, La borsa e la vita, p. 85.97 Sul ruolo, nel corso del Duecento, dell’ospedale di Santa Maria della Scala

nell’esecuzione delle disposizioni caritatevoli e restitutorie testamentarie vedi le considerazioni di Pellegrini, Attorno all’economia della salvezza, p. 98.

98 Libri di Biccherna, III, p. 63.99 Nel giugno 1224 Fortarrigo è provveditore del comune: Lira 1 c. 3r.100 Bizzarri, Imbreviature notarili, I, p. 108 (CCLXX): Fortarrigo è testimone

al giuramento di cittadinanza di Accorso di Martinuccio (1221 novembre 25).

101 Lira 2, c. 5r.102 Diplomatico Bigazzi, 1206 dicembre 7.103 Conventi 161 c.279v-80r (3 marzo 1213), 276v (5 marzo 1213). E poi an-

cora: c. 278 r (11 settembre 1215).

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104 La dignità consolare vanta la famiglia di Tacca Sansedoni, fideles dell’impe-ratore sono designati i figli di lui Buonatacca e Ranieri. Redon, Le père, p. 43, nota.

105 Nel novembre 1226 insieme ai soci Alamanno di Ugo, Caponero, Ugo di Bencivenne, Spinello di Cavalca, Ranieri Ponti è a Troyes, dove stipu-la un contratto di mutuo a favore dell’arcivescovo di Colonia (Schulte, Geschichte des Mittelalter, 1900, II, n. 425, p. 286). Nel 1228 è a Roma, in curia, dove rilascia quietanza ai rappresentanti del re d’Inghilterra, per una somma di 300 marche sterlinghe ex causa mutui (Roon Bassermann, Sienische Handelsgeselleswchaften, 1912, p. 35). Nel 1229 Piccolomo è alla fiera di Bar sur Aube a riscuotere un credito fatto alla città di Colonia (Schaube, Storia del commercio, 1915, p. 516). In questo torno di tempo insieme al fratello Roberto et aliis sociis fa de prestiti al conte Guido di Nevers (Roon Bassermann, Sienische Handelsgeselleswachaften, 1912, p. 37). Nel 1258 il suo nome figura tra i nomi dei componenti la compagnia familiare che vanta un credito di 10.000 marche nei confronti dell’arcive-scovo di Colonia (Diplomatico Archivio Generale, 1258 agosto 14) ma su questo vedi ultra.

106 Insieme ai soci Orlando Vencecastelli e Bertoldo di Uggerio, nel 1252 ri-ceve dal comune diversi pagamenti ex causa mutui, per un totale di 2.400 lire: Libri di Biccherna, XIII, pp. 72, 81, 186. Negli anni 1250-1253 è tra i componenti del consiglio cittadino: Caleffo Vecchio, II, pp. 661 (1250 aprile 15), 731 (1250 marzo 3), 766 (1252 marzo 4).

107 Libri di Biccherna, VII, pp. 19 e 84 (1247).108 Diplomatico Santa Maria, 1240 gennaio 17 e in copia Ospedale 70, cc.

45v-46v (i figli di Chiaramontese compaiono proprietari confinanti ex uno latere).

109 Libri di Biccherna, V, p. 8.110 “omnia et singula datia quecumque modo imposita pro comuni senensi

tempore dicti domini [preteriti potestatis] Orlandi Lupi, nondum collecta, et [omnia et singula datia infra medium mensis martii] pro dicto comuni im-ponenda, usque ad plenam dicti debiti satisfactionem”, promettendo di fare in modo che tutti i dazi, tanto quelli imposti dal suo predecessore quanto quelli decisi nella sua podesteria, vengano pagati a partire dal giorno della Natività ed entro la metà del successivo mese di marzo. Nel caso in cui la riscossione di quelli non fosse sufficiente a coprire il debito, il Parenzi si impegna a versare a Turchio e ai suoi soci la prima rata della prima nuova tassa che, entro quei termini, verrà imposta dal comune, ma nel caso di un esito ugualmente negativo promette comunque lo scioglimento del debito entro il mese di aprile, sotto pena di 200 marche d’argento: Diplomatico Riformagioni, 1238 dicembre 20.

111 Il debito ammontava a 900 lire senesi risultato di due vecchi debiti di 2.700 e 752 lire. Oltre ai redditi di Pian del Lago il comune cedeva ai banchieri creditori anche “omnes et singulos censos et redditus quos comune habet in Ardenghesca et Scialengha et Berardengha a quibuscumque personis et

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locis”, precisando trattarsi di 30 lire pagate annualmente dai “domini” di Valcortese, 26 denari “de quolibet massaritia suarum terrarum” da quel-li di Orgiale, 26 denari “per massaritiam quos annuatim dant domini de Montalto de terris suis et de in castro Berardengho” e infine 10 lire paga-te “annuatim” dall’abate e “monasterium Berardinghi”. La riscossione di questi proventi sarebbe stata a totale carico del comune che si impegna-va a mettere a disposizione dei creditori due ufficiali “vel plures” addetti all’esazione, e in caso di necessità, su loro richiesta, a fornire ai banchieri “fortiam et adiutorium […] per nuntios et ambasciatores, cavalcatam et exercitum, ad predicta habenda et recolligenda […] si aliter haberi non possent”: Diplomatico Riformagioni, 1239 dicembre 15. L’atto rogato da Ranieri notaio è stipulato nella chiesa di San Cristoforo dove è convocato il Consiglio della Campana: tra i consiglieri compaiono due membri della famiglia, Ildebrandino di Ugo e Bartolomeo Piccolomini.

112 Il primo contratto del 1243 è la dichiarazione di estinzione del debito rilasciato al comune da Turchio e soci dopo aver ricevuto il pagamento dell’ultima rata, pari a 170 lire, riscossa “pro residuo et complemento totius debiti” da Guglielmo di Ghiberto e Uguccione di Bartolomeo ufficiali “dicte dogane”: Diplomatico Riformagioni, 1243 giugno 13. Un quarto documen-to infine, del 1244, mostra Ranieri di Beringhieri che dichiara di agire per sé e i suoi soci, nell’atto di rilasciare una quietanza al camerario comunale, un Piccolomini, per la somma di 350 lire, parte delle 800 di cui appariva creditrice: Diplomatico Riformagioni, 1244 dicembre 29.

113 Nella sede apostolica i rappresentanti del sovrano inglese saldarono un debito di 300 marche di sterlinghe che era stato contratto con Piccolomo di Oltremonte, Turchio di Chiaramontese, Erminio di Bencivenne, Ugolino Beimitii, Ranieri di Rolando, Ranierio Pontii, Alberto di Pietro, Thomasino Ancontan. Vedi Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 35.

114 Dà notizia del prestito, Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 37. Per i richiami di Gregorio Auvray, Vitte-Clemencet, Les re-gistres de Grégoire IX, 1890-1955, n. 845 e 1465 (1233 luglio 11): ad un primo intervento del 1232 ne seguì un secondo l’anno successivo con l’esor-tazione a rimborsare Turchio di Chiaramontese, Bonaventura di Lupello, Massario e Caponero, mercanti senesi.

115 Libri di Biccherna, III, p. 41 (1230); ibidem, IV, pp. 13-14 (1231); Caleffo Vecchio, II, p. 487 (1236 ottobre 11-14); Diplomatico Riformagioni, 1235 giugno 12; ibidem, 1235 giugno 27; ibidem, 1237 luglio 28 (quest’ultima anche in Caleffo Vecchio, II, p. 456); Caleffo Vecchio, II, pp. 490 (1239 maggio 20) e 503 (1239 agosto 22-30). Per i prestiti supra.

116 Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 34. Sull’affare con l’eletto di Colonia vedi pp. 117-119.

117 Diplomatico Gavazzi, 1243 marzo 31.

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Avventure e preziosi torselli

Il padre amava viaggiare. O almeno, aveva viaggiato, verso nord. E anche lui, che portava nel patronimico l’eredità di que-sto genitore giramondo, avventuroso e coraggioso, non aveva saputo sottrarsi alla sfida. Nel corso del XII secolo un giova-ne senese, “corpo esercitato nelle arti della guerra” e “spirito da cavaliere errante”, inforcando il suo cavallo si avventurò in cerca di fortuna. Seguendo la strada che trapassava la città e la collegava al cuore dell’Europa e della cristianità, che poi non era una ma molte, e che in parte riutilizzava vecchi percorsi e in parte ne creava di nuovi, varcò le Alpi, raggiunse le fiere e i mercati della Champagne, fece affari con vescovi, conti e baro-ni delle terre dell’Impero, poi oltrepassò la Manica portandosi alla corte dei re inglesi e alfine, arricchitosi con laici, prelati e monasteri di mezza Europa, tornò in patria ricco di onori e denari.Quanto Oltremonte, o il figlio di lui Piccolomo, potessero ri-trovarsi nelle pennellate stereotipate ma non prive di romantica suggestione con cui Ludovico Zdekauer tratteggiò nel 1899 il ritratto del mercante senese 1, protagonista ideale della fortu-nata parabola commerciale e bancaria cittadina che avrebbe catapultato Siena e i suoi operatori nelle piazze d’affari inter-nazionali, non è dato sapere. Ciò che è invece certo è che nono-stante alcuni riferimenti consentano, ancorché per via indiretta, di allacciare la presenza della famiglia, in questo caso attra-verso il tenue filo di un segno onomastico, ad una compagine internazionale già dalla fine del XII secolo, in piena consonanza con gli sviluppi della banca senese che appare già pienamente operante all’estero in questo torno di tempo, quando si spinga più a fondo l’indagine, tentando di fissare in un quadro più dettagliato le origini e le forme delle attività, appare difficile e controverso fissarne i termini a causa della notte documentaria che avvolge la prima vicenda di questi banchieri e delle loro societates 2. È soltanto addentrandosi nelle prime decadi del se-

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colo XIII, e man mano che si procede sul tracciato orizzontale del tempo, che emergono le prime e poi via via più consistenti tracce documentarie.Dell’avventuroso Oltremonte e dei suoi viaggi di mercatura ri-mangono pochissimi, incerti, indizi, e tutti a segnare il tratto finale della sua vita: un’immagine ce lo mostra nell’autunno del 1221 nell’atto di concludere una operazione di cambio a nome proprio e dei soci, tra i quali Bartolomeo di Ugone Piccolomini. Oltremonte pagava 150 lire al procuratore di domini Leonardi Blasii per certa quantità di provinesini che essi avevano rice-vuto alla fiera di maggio di Provins 3: a quel punto aveva fatto ritorno a Siena, dove lo ritroviamo pochi anni più tardi come ufficiale comunale incaricato di seguire i lavori di rifacimento delle mura della città 4. Poi più niente.

La vicenda del figlio Piccolomo invece si dipana sullo specchio documentario per circa trent’anni: dal 1226, prima attestazio-ne di un suo inserimento nel circuito della mercatura, fino a quell’anno 1258 quando, ultimo atto documentato della sua esistenza, è ancora il banchiere a parlare.Se il padre sappiamo averla certamente frequentata, per Piccolomo fu perno degli affari: la verde valle della Champagne che con le sue fiere internazionali di Troyes, Lagny, Bar-sur-Aube, Provins funzionanti da piazza europea dei cambi e degli affari commerciali e finanziari, metteva in comunicazione mer-canti, prestatori e banchieri con principi, baroni, sovrani laici ed ecclesiastici di tutta Europa 5. Ma Piccolomo non è solo a frequentare le fiere. Proprio negli anni in cui esse vivono l’epo-ca della loro massima fioritura il fratello ed altri consorti sono su queste piazze: nel 1221 Bartolomeo di Ugone – a questa data socio del padre – e Chiaramontese, sotto la coobbligazione del conte Thibaud IV di Champagne, prestavano al conte di Bar 540 lire di provinesini il cui rimborso fissavano per il maggio dell’anno successivo alla fiera di Provins, la stessa piazza dove Ugone di Chiaramontese e il fratello di Piccolomo, Roberto,

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ottennero la garanzia di essere pagati nel maggio 1231 delle 1.725 lire di moneta di Provins prestate al duca Matteo II di Lorena 6.Probabilmente da queste stesse sedi i banchieri allacciarono sul finire degli anni Venti relazioni creditizie anche con la città di Colonia, per la cui estinzione si fissarono appuntamenti alla fie-ra di Saint’Aigulfo e quella di Bar sur Aube dove nella Pasqua del 1229 lo stesso Piccolomo si recò a riscuotere 7, che furono fatti nuovi prestiti ai conti di Champagne 8, che Piccolomo e il fratello Roberto prestarono a Guido e Matilde di Nevers 9, che il vescovo di Passau si appoggiò a Turchio di Chiaramontese Piccolomini e soci per sopperire ai suoi bisogni di liquidità 10: in ogni caso anche se non furono direttamente il luogo del-la stipula dei contratti è da credere che esse funzionassero da trampolino per lo sviluppo di operazioni la cui stipula soltan-to per esigenze pratiche od operative poteva avvenire altrove. Come capitò per l’affare che collegò il nostro banchiere e i suoi familiari alla chiesa di Colonia: un affare nato nel clima elet-trico della fiera di Troyes e spostatosi nel corso degli anni suc-cessivi prima a Siena poi a Colonia e Viterbo, nella “camera” di un cardinale, per tornare infine circolarmente a chiudersi nella Champagne.L’affare prese avvio alla fiera invernale di Troyes del 1226 quan-do il delegato dell’arcivescovo tedesco, il cavaliere Gerhard Scarfinus, ricevette in prestito da alcuni senesi tra cui figurava-no Piccolomo di Oltremonte e Alamanno di Ugone Piccolomini “tantam pecunie quantitatem” che si obbligava a restituire in denari sterlinghe, per un ammontare di 650 marche, alla suc-cessiva fiera di San Giovanni 11. Un secondo prestito di 110 marche di sterlinghe fatto all’arcivesco probabilmente mol-ti anni dopo, fu saldato a Siena nel marzo 1239 quando lo stesso Alamanno, il consorte Turchio di Chiaramontese e i soci Erminio di Bencivenne e Buonaventura di Lupello ne rilascia-rono quietanza 12. Nel corso degli anni successivi l’arcivesco-vo di Colonia ricorse più volte alla societas senese: tante volte

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da accumulare un debito che nel 1258 aveva ormai raggiun-to le 10.000 marche 13. L’ammontare del debito e la reticen-za dell’eletto Corrado di Hochstaden a pagare resero neces-sario a quel punto il ricorso da parte dei banchieri al ponte-fice Alessandro IV che individuò nel cardinal Pietro Capocci l’arbitro per dirimere la questione: convocati a Viterbo davanti al cardinale il procuratore dell’arcivescovo Corrado, “frater Wolfardus ordinis Sancte Marie Theutonicorum” 14, e Ugo di Chiaramontese e Ranieri di Rinaldo Piccolomini in rappresen-tanza dei soci creditori, si dette la parola ai banchieri che esi-gevano un saldo di 10.000 marche di sterlinghe 15. La richiesta veniva così motivata: la somma era il risultato di vecchi debi-ti, non estinti, e degli interessi maturati nel corso di 18 anni. Il primo mutuo, 4.600 marche, era stato contratto dall’arci-vescovo di Colonia con Bartolomeo di Ugone Piccolomini e Buonaventura di Lupello i quali ad una successiva richiesta di denari da parte dell’eletto “pro suis et ecclesie coloniense negotiis” avevano aggiunto altre 100 marche che andavano a sommarsi alle 40 che lo stesso arcivescovo aveva riconosciuto dover restituire alla compagnia, a causa di un prestito contratto dal suo predecessore. Danni, spese e interessi maturati su un cifra di 4.740 marche di sterlinghe per “decem et octo annis et amplius iam elapsis”avevano gonfiato il debito fino alla somma di 10.000. E tanto esigevano dal debitore.Frate Wolfardus tentò probabilmente di far calare le pretese ma dopo un acceso confronto e “post multas altercationes ha-bitas”, di fronte alla irremovibilità dei banchieri, giudicò es-sere più conveniente per l’arcivescovo e la chiesa di Colonia arrivare ad una “amicabilem compositionem” piuttosto che “iudiciorum subire periculosus eventus” e dunque riconosciuto il debito, passò a trattare con i rappresentanti della compa-gnia e il delegato papale le modalità della sua estinzione. Si impegnò a nome di Corrado a pagare le 10.000 marche entro dieci anni dilazionando l’esborso in più tempi, fissò la sede dei pagamenti a Provins “in quindena festa apostolorum Philyppi

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et Jacobi” e Troyes “in quindena festa beati Martini”, promet-tendo ai senesi in caso di scadenza dei termini un rimborso dei danni causati dal ritardo pari a 1 marca “pro singulis decem marchis” da pagarsi ogni due mesi insieme alle spese che due di loro con due servi e quattro cavalli avrebbero sostenuto per riscuotere i detti pagamenti; poi a garanzia dell’obbligazione dette in pegno ai creditori tutti i beni mobili e immobili, eccle-siastici e mondani, dell’arcivescovado di Colonia impegnandosi a far ratificare l’accordo all’eletto 16. A quel punto intervenne il delegato papale che a ulteriore garanzia degli interessi di Ugo di Chiaramontese e soci fece pesare la minaccia di scomuni-ca contro Corrado dicendo che Alessandro IV si riservava il diritto di promulgarne sentenza nel caso in cui l’arcivescovo di Colonia “in predictis solutionibus seu aliqua ipsarum defi-ceret, aut contrafaceret vel veniret”; i banchieri da parte loro – disse il delegato – dovevano impegnarsi a non molestare nel frattempo l’arcivescovado e a rilasciare nelle mani del prelato, una volta soddisfatto il debito, tutti i rogiti notarili, le lettere e “omnia alia instrumenta” documentanti i loro diritti. A fare da tramite nella consegna dei contratti veniva chiamato l’abate del monastero di San Giacomo di Provins a cui i senesi dovevano affidare i loro documenti dopo il primo pagamento; ma se il debitore fosse stato insolvente l’abate era tenuto a restituirli affinché i mercanti potessero procedere di conseguenza.

La vicenda con l’eletto Corrado illumina su un aspetto che è centrale per capire la fortuna finanziaria e mercantile dei Piccolomini, al pari di molte altre societates senesi: il collega-mento con la santa sede. Che questo collegamento abbia pesa-to nel promuovere lo sviluppo delle attività creditizie di molti esponenti della famiglia appare chiaro: meno facile è indivi-duare la genesi di un incontro destinato a produrre risultati che noi possiamo cogliere solo quando le relazioni – intreccio di interessi e consonanze comuni – sono ormai consolidate: il minaccioso intervento di Innocenzo IV contro il prelato insol-

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vente a difesa degli interessi dei suoi ‘diletti figli’ 17, tra cui il nostro Piccolomo, sintomo certamente vistoso ma ‘tardo’ del connubio esistente tra il vertice ecclesiastico e i banchieri se-nesi, nulla chiarisce riguardo ai modi e ai tempi della sua ori-gine 18. Molto di più, almeno riguardo ai tempi, ci racconta la presenza dello stesso Piccolomo in curia romana in un giorno della tarda primavera del 1228, quando sotto lo sguardo del pontefice da poco eletto, Gregorio IX, celebrava l’ultimo atto di un affare concluso con il sovrano inglese 19. Se a due anni prima risaliva il primo contatto tra i banchieri senesi e l’arcivescovo di Colonia – primo intuitivo segnale dell’aprirsi di un dialogo e di un orizzonte – è nel 1232 che il favore e la protezione di cui questi banchieri godono presso la curia trova formale e solenne enunciazione nella lettera che Gregorio spediva al vescovo di Passau esortandolo a soddisfare quanto prima i debiti che ave-va accumulato verso Turchio di Chiaramontese Piccolomini e il suo socio in affari Bonaventura di Lupello 20.Grazie a queste testimonianze è possibile dunque collocare i primi documentati rapporti dei Piccolomini con la curia pon-tificia nella seconda decade del XIII secolo, più precisamente negli anni a cavallo tra il pontificato di Onorio III e Gregorio IX (1227-1241), il quale, varrà la pena ricordare, vantava con la città di Piccolomo una relazione particolare 21 e in ragione di un particolare legame che lo univa a lui e alla sua famiglia nonché dei vantaggi che sarebbero derivati alla camera apo-stolica dalla collaborazione con esperti e ricchi finanzieri – la camera apostolica necessitava di anticipi di denaro liquido e di banchieri in grado di provvedere alle ramificate necessità di cassa – ne appoggiava e ne sosteneva l’attività 22.Un appoggio e un reciproco sostegno che è ancora in essere negli anni di pontificato di Innocenzo IV (1243-1254) quando si mette in moto una faccenda in cui c’era da rischiare. Molto. E forse molto da guadagnare. In questi anni i Piccolomini, sotto l’occhio vigile e benevolo della santa sede, continuano a prestare agli ec-clesiastici d’Europa: mettono i loro denari al servizio dei patriar-

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chi di Aquileia 23 e concedono mutui ai monaci di Chalons 24, ma la scommessa è un’altra, e non si sa quanto infuocati dalla prospettiva di un lauto guadagno o piuttosto disposti ad arren-dersi ad ogni volontà del pontefice, nel 1253 accettano di esporsi finanziariamente al progetto politico papale che prevede la libe-razione del regno di Sicilia dal perfido Manfredi e il suo passag-gio, in feudo clericale, al sovrano inglese.I finanziamenti per l’impresa di Sicilia partono alla fine del pon-tificato di Innocenzo – nel marzo 1253 Rinaldo di Ranieri di Rinaldo e il congiunto Turchio di Ranieri vengono infatti nomi-nati insieme ad altri banchieri senesi tra i creditori del pontefi-ce 25 – per proseguire sotto Alessandro IV (1255-1261) quando in seguito all’investitura del feudo in favore di Edmondo figlio di Enrico III fatta il 1 aprile 1255, si impartisce l’ordine all’ar-civescovo di Canterbury e al vescovo di Hereford, che risiede a Roma, di contrarre mutui di ogni dimensione impegnando beni e proprietà inglesi del clero e della corona. I mediatori pa-pali svolgono le loro trattative con gli agenti di alcune società commerciali fiorentine e con quelle senesi dei Piccolomini, dei Buonsignori, dei Tolomei, degli Scotti e dei Salimbeni che in misura diversa sovvengono alle necessità finanziarie della san-ta sede unendosi in consorzio, con l’eccezione della “Magna Tavola” che decide di far fronte alle richieste per proprio con-to 26. Non è possibile distinguere con esattezza la parte che nei forti crediti verso il sovrano 27 e il papa ebbero i Piccolomini, documentando i registri papali in genere soltanto la presenza di creditori ‘senesi’ non meglio identificabili: dagli unici due rimborsi nominativi emerge che il 14 maggio 1256 alcuni mo-nasteri inglesi – evidentemente su ingiunzione papale – garanti-rono a Rinaldo di Ranieri Piccolomini “et sociis” la riscossione delle decime ecclesiastiche per una somma di 2.800 marche di sterline, da pagarsi in 4 anni 28 e che poco più tardi di un mese dopo, su mandato del papa, un identico ordine di pagamento di 2.000 marche veniva fatto a favore di Rinaldo di Ranieri, Pietro Scotti, Cristoforo Tolomei e loro soci 29.

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Il coinvolgimento di alcuni congiunti di Piccolomo nell’affare se non consente valutazioni quantitative sulla sua importanza, che dovette essere ingente se i Piccolomini decisero di divide-re rischi e guadagni unendosi ad altre tre compagnie, rivela il suo significato nel marcare il carattere duraturo e solido di una solidarietà fra il seggio papale e la compagine familiare, nata molti anni prima.

Dei modi invece in cui germinò questa alleanza tra esponenti dell’élite mercantile finanziaria cittadina e i pontefici romani, alleanza tessuta su una congiunzione di interessi che avevano le loro radici sia nel terreno politico che in quello economico, e tenuta salda da una fitta trama di relazioni personali e solida-rietà, né la vicenda di Piccolomo, da cui siamo partiti, né quella dei suoi familiari, aiutano a far luce. La piccola incursione nella sua vita professionale e di quei congiunti che gli furono vicini o che sono attivi negli stessi anni, nello stesso ambiente, risulta tuttavia utile per cercare di comprendere meglio le forme in cui il Piccolomini, e i Piccolomini, operarono nello svolgimento dei loro affari, e da lì tentare di cogliere, almeno nel baluginare di un’immagine, alcuni di quei collegamenti e di quei contatti su cui si strutturò e si saldò la relazione con la santa sede.Molte compagnie senesi che animarono il mercato interna-zionale nel corso del Duecento si formarono nell’ambito del-la famiglia, secondo un uso consolidato e caratteristico delle aziende toscane, e più generalmente dell’area peninsulare, che portarono sul piano degli affari e tradussero in spirito impren-ditoriale una solidarietà interna che era l’espressione più stretta dei legami di sangue che riunivano più uomini intorno ad uno stemma, un palazzo, un discendente comune 30. A differenza delle societates dei Tolomei, dei Buonsignori, dei Gallerani, dei Malavolti, degli Squarcialupi, dei Salimbeni che allacciarono da subito la propria fisionomia alla vicenda genealogica del ca-sato, comprendendo nell’azienda familiare, sotto lo stesso co-mune interesse, il padre e il figlio, due o più fratelli, forse anche

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cugini 31, la documentazione disponibile, pur essendo doveroso richiamarne i limiti, esclude che i Piccolomini abbiano dato il via alla loro avventura commerciale costruendo dall’interno ‘una’ azienda finanziaria, ambito domestico in cui apprendere, tramandare e mettere a frutto i rudimenti dell’arte di condurre gli affari 32.All’inizio – prime decadi del XIII secolo – i membri della fa-miglia che vediamo praticare attività creditizia sono i figli di Oltremonte, il nostro Piccolomo e il fratello Roberto, i figli di Ugone, Bartolomeo e Alamanno, e i figli di Chiaramontese, Turchio e Ugo, che agiscono spesso in sedi e in occasioni se-parate, a titolo individuale o in unione societaria con esterni: i sodalizi d’affari cambiano, la minore o maggiore disponibilità economica, la maggiore o minore propensione al rischio, i casi della vita, potevano anche creare consonanze momentanee tra congiunti, ma in questo primo scorcio di secolo nella conduzio-ne di affari internazionali essi appaiono affiancati da partner e soci mutevoli che la mutevolezza delle situazioni e delle oppor-tunità imponeva di cambiare 33.Nel prestito del 1221 al conte di Bar, prima operazione inter-nazionale documentata, Bartolomeo di Ugone Piccolomini era parte di una società in cui insieme al congiunto Chiaramontese stavano “Castellanus Tabernaria” e “Jacobus Machoncini”; nel 1226 quando i giudici e gli scabini della città di Colonia si ri-volsero ad una “societas” senese per un prestito di 300 marche di sterlinghe che si obbligavano a restituire in due rate alla fiera di Sant’Aigulfo di quell’anno e a quella di Bar sur Aube l’anno successivo, i banchieri creditori nominati nell’atto portavano i nomi di Bernardino di Alamanno Piccolomini e Palmerio Donati, Bonincontro di Rogerio, Rogerio Aringhieri, Ildebrandino di Gallerano, Berengario Guadagnoli, Ranieri Salimbeni 34. Il se-condo prestito alla città, documentato nel 1229 vedeva invece uniti Piccolomo di Oltremonte con Ugo di Bencivenne e Ranieri di Rolando; lo stesso Piccolomo compariva poi in occasione del primo prestito all’arcivescovo di Colonia, con il fratello di

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Bartolomeo, Alamanno, insieme ai “socii” esterni Caponero, Ugo di Bencivenne, Spinello Cavalca, Ranieri Ponzi, mentre di tutti i compagni sopra nominati solo quest’ultimo faceva parte del gruppo di sei banchieri che con lo stesso Piccolomo e Turchio di Chiaramontese rilasciavano quietanza nel 1228 al sovrano inglese dopo essere stati soddisfatti di un loro credito. E ancora, nella catena di esempi possibili, se Turchio di Chiaramontese ap-pariva in società insieme a un membro della famiglia e ai molti altri esterni nell’occasione appena citata, nei prestiti al vescovo di Passau tra 1232 e 1233 agiva, unico Piccolomini, in connes-sione con Massario, Caponero di Provenzano e Bonaventura di Lupello – quest’ultimo poi prestatore, a sua volta, insieme a Bartolomeo di Ugone dell’arcivescovado di Colonia nel 1240 – e più o meno in quegli anni si univa ai senesi Guidone di Beringhieri dei Selvolesi e Guidone di Saracino per sovvenzio-nare a più riprese il comune di Siena.Se poi tentiamo di ricostruire, per quanto i frammenti docu-mentari lo consentono, le vicende professionali di quei soci esterni che di volta in volta affiancarono i Piccolomini nello svolgimento degli affari, emerge la stessa flessibilità, lo stesso carattere occasionale delle partecipazioni alle operazioni finan-ziarie 35: Caponero associato nel 1226 con Ugo di Bencivenne, Spinello Cavalca, Ranieri Ponzi e Piccolomo e Bartolomeo Piccolomini, compariva nel 1232 tra i creditori del vescovo di Beauvais insieme ai soci Montanino, Ranieri di Rolando e Contadino di Aldobrandino 36 per tornare un anno dopo ad unirsi ad un Piccolomini insieme a Massario e Bonaventura di Lupello per un prestito al vescovo di Passau, ed essere nel 1236 di nuovo sciolto da ogni contatto con i membri della fa-miglia perché veniva raccomandato da Gregorio IX ad alcuni abati e monasteri per i suoi affari in Francia insieme ai com-pagni Montanino, Crescenzio Bonaccorsi, Ranieri di Rolando, Spinello Cavalca, Tommasino Ancontan 37. I quali Tommasino, Spinello e Ranieri se figuravano tra 1226 e 1228 tra i soci dei Piccolomini, dopo questa data separarono le loro sorti da que-

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sti imboccando, ciascuno per proprio conto, vie diverse, alcune insondabili, quella di Ranieri agganciabile invece nel 1235 al nome del banchiere senese Bernardino Prosperini – che diven-terà tra 1249 e 1256 socio dei Buonsignori – per un mutuo all’arcivescovo di Mainz 38, e nel 1248 a quello degli Scotti la cui compagnia andrà a rappresentare a Marsiglia 39. Alla “Gran Tavola” dei Buonsignori approdò anche un altro vecchio socio dei Piccolomini: quel Bonaventura di Lupello che troviamo in collegamento tra 1232 e 1240 con Turchio di Chiaramontese e i figli di Ugone Piccolomini 40.Seguire i percorsi biografici dei molti altri uomini che nel corso dei primi decenni del XIII secolo furono in connessione socie-taria con i Piccolomini porterebbe troppo lontano dai fini di questa narrazione e comunque i pochi dati offerti rafforzano l’ipotesi di quei caratteri di flessibilità e occasionalità a cui ac-cennavo. A un’altra vicenda, che sale in superficie, vale la pena fare riferimento: quella di Massario, che compariva nel 1233 con Turchio di Chiaramontese creditore del vescovo di Passau portando in dote, se così si può dire, la sua passata apparte-nenza alla “societas” di Angelieri Solafica, il primo banchiere senese conosciuto che assunse la qualifica di campsor domini pape proprio sotto il pontificato di Gregorio IX 41. È un filo, Massario, ma la sua presenza all’interno di un accordo d’affa-ri con i Piccolomini contribuisce a fare chiarezza sull’identità dei referenti e sulla qualità dei rapporti che i componenti del-la famiglia dediti alla banca e alla mercatura ritennero utile allacciare nella prima fase della loro attività, nel momento in cui approfittarono, per farsi largo nel mondo della banca e del-la finanza, dell’esperienza, del prestigio e delle relazioni di cui certamente gli uomini che operavano e ruotavano attorno ai campsores papali erano portatori.

Uno slancio individuale, maturato nell’orbita della santa sede grazie a rapporti d’affari stabiliti con banchieri e uomini colle-gati con il pontefice. Uno slancio, di cui chiediamo a Piccolomo

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di essere esemplare protagonista, fu dunque alle origini dell’at-tività bancaria familiare. Uno slancio che da lì si allargò a mac-chia d’olio, per vie autonome e soluzioni più diverse che videro di volta in volta membri del casato affiancarsi, con un qualche tipo di accordo societario che rimane oscuro, a uomini e opera-tori, senesi e non, per traghettare i loro capitali fuori dai confini di Siena, verso i territori tedeschi, le fiere della Champagne e verso l’Inghilterra di Enrico III attraverso la mediazione di un papa che voleva togliere la Sicilia a Manfredi.In principio Roma, dunque. La santa sede. E con questo tor-niamo al punto di partenza. C’era una strada che andava verso nord e verso sud. E questa strada spalancava orizzonti mentali e commerciali, metteva in comunicazione mondi, faceva intra-vedere tesori e possibilità di ricchezze impensabili. Un giorno un giovane senese vi si avventurò…

Gli studi condotti sulle modalità, la natura e i risultati dell’in-tervento economico dei banchieri senesi fuori patria, dopo il fervore che si registrò tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo XX e che animò i lavori di storici dell’economia e del diritto, hanno subìto nei ultimi decenni una battuta di arre-sto, a parte poche eccezioni 42. Il ruolo assegnato all’attività di ‘banco’ 43 dei senesi come fattore propulsivo di tutta l’econo-mia cittadina è opinione concordemente condivisa: furono le attività di prestito e in senso più ampio di commercio a fare la fama di Siena e a consolidarne la posizione e la competitività in campo europeo. Più controverso appariva decidere quali mo-tivazioni dare alla precedenza che lo sviluppo della mercatura aveva avuto a Siena rispetto ad altre città toscane ed italiane: chi esaltò il ruolo della chiesa e della camera apostolica 44, chi le fiere della Champagne 45, chi la ricchezza mineraria delle ter-re senesi che avrebbe alimentato la trasformazione dei vassalli inurbati in banchieri 46, e chi invece dette una spiegazione di ordine geografico: posta sulla via Francigena, asse centrale nel-le comunicazioni tra i paesi d’oltralpe, il nord e Roma, la città

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avrebbe goduto di una posizione privilegiata che ne avrebbe favorito o comunque anticipato il decollo.Siena sulla strada, Siena dalla strada, insomma, come con un’immagine di rara immediatezza sintetizzò Ernesto Sestan annodando la fortuna della città a quella della Francigena: bi-sogna dunque – ragionava lo storico – seguire questa strada per trovare la ragione del successo di tante famiglie senesi, “e se non la ragione lo spunto almeno, scriveva, per renderci con-to come l’abitante di questa allora modesta città di Toscana, sperduta in un punto della via Romea, si è slanciato nel mondo delle speculazioni bancarie, in paesi lontani” 47. L’immagine del banchiere senese che “giovanissimo lascia la casa paterna” e al pari del “cavaliere errante” “inforca il suo cavallo portando seco, a dorso di mulo, preziosi torselli”, “varca la Manica” e si mette “a trafficare presso i re inglesi e i loro grandi abati e baroni”, “varca le Alpi”, “si arrischia alle fiere di Champagne” “e sulla grande strada, la Francigena, si porta ove maggiore è la richiesta, scoprendo i migliori sbocchi commerciali”, imponen-dosi “per la straordinaria sua abilità, per la padronanza degli affari, per la serietà e la grandiosità delle imprese” 48, per quan-to inveterata e innervata di orgoglioso spirito municipalistico di stampo ottocentesco, contiene un dato inoppugnabile: chi vuol rendere giustizia alla storia di questa città, chi vuol com-prendere la sua fortuna e di quelle eminenti famiglie di impian-to mercantile-finanziario, la cui ascesa al vertice socio economi-co e politico cittadino è pienamente consolidata nella seconda metà del XIII secolo, ma sulla cui genesi grava quasi una notte documentaria, deve immaginare una strada. E una successione di viaggi, pazientemente, costantemente, fatti e rifatti.

Anche Piccolomo ebbe il suo premio. Gli anni trascorsi fuori, quelli passati a fare affari con il denaro, hanno arricchito le sue tasche. Tanti anni di fatiche: da Siena alla Francia, dalla Francia a Roma, da Roma a Siena, nel 1239 è al capezzale di Ranieri di Rustichino a fargli da testimone 49, e di nuovo da Siena alla Francia, dalla

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Francia a Siena. È forse di ritorno da uno dei suoi soliti viaggi che fa edificare un palazzo in città, ora il suo successo è davanti agli oc-chi di tutti, un palatium nel terzo di San Martino, che di quando in quando, Piccolomo, sempre in giro, può affittare al podestà per sua residenza 50. Poi, poiché il commercio del denaro non ha confini presta al Comune di Siena, tra 1250 e 1254 è ancora in città, finan-zia le casse comunali 51 e partecipa attivamente alla vita politica 52. Ormai è vecchio, ma non depone ancora le armi, e pochi anni dopo è nell’affare con l’arcivescovado di Colonia, combattivo, pronto ad andare fino in fondo contro Corrado di Hochstaden.A gestire l’affare è una societas, questa volta, dal carattere rigi-damente familiare che la quasi totale assenza di estranei contri-buisce a marcare: ne fanno parte otto consorti oltre Piccolomo e i loro nomi tradiscono il criterio di una larga rappresentatività dei rami del lignaggio, aggregando in un unico organismo socie-tario i discendenti di Rinaldo – attraverso Ranieri e il figlio – di Chiaramontese – attraverso Ugo e Rustichino e il nipote Giovanni di Turchio – dei figli di Ugone, Bartolomeo e Guglielmo – attraver-so i rispettivi Guglielmo e Bartolomeo – di Rustichino – attraverso Tolomeo, ed infine di Oltremonte attraverso il nostro Piccolomo. Unici soci esterni Erminio di Bencivenne ed Erminuccio suo fi-glio 53. A questa data, il disordinato equilibrio, complesso e mu-tevole intrecciarsi di iniziative individuali che aveva segnato la prima fase delle attività bancarie della famiglia, ha ceduto il posto a una struttura aziendale che ha coartato al suo interno le miglio-ri energie imprenditoriali dei suoi uomini. Processo che appare compiuto nella quarta e quinta decade del secolo. E Piccolomo, che ha avuto la ventura di vivere a cerniera tra le due stagioni, è lì. Con il suo bagaglio di esperienza e di saggezza.Ad uno stesso carattere familiare, nonostante non venga mai nominata espressamente come tale, rimanda anche la fisiono-mia di un’altra compagnia che funzionava, nello stesso periodo e negli stessi anni in cui Piccolomo cessava probabilmente di vivere, fra Trieste, Venezia, il patriarcato di Aquileia, Padova, Firenze, Pisa e Siena.Ne erano a capo i discendenti di Ranieri di Rustichino.

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1 Zdekauer, Il mercante senese, 1925, pp. 5 sgg.2 Considerazioni sulla frammentarietà delle fonti riguardanti l’attività di

banco e di mercatura dei senesi per i secoli XII e XIII sono espresse da Tangheroni, Siena e il commercio internazionale, 1987, pp. 24-25, e da Cassandro, La banca senese, 1987, p. 112. Sulla difficoltà di ricostruire fin dalle origini l’intervento economico sullo scacchiere internazionale delle compagnie Salimbeni e Tolomei rinvio a Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 25-37 e Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 97-135 e soprattutto pp. 110-111.

3 Bizzarri, Imbreviature notarili, I, pp. 87-88 (CCXI), 1221 ottobre 23.4 Libri di Biccherna, III, pp. 22, 227, 263, 363 (1230).5 Almeno per oltre un secolo quelle fiere e quella regione furono il centro

degli scambi commerciali e finanziari più importanti dell’epoca. Esse si svol-gevano numerose durante tutto l’arco dell’anno ma quelle che avevano una portata internazionale erano sei e si concentravano in quattro città: due avevano luogo a Troyes – una estiva nella città vera e propria, una invernale nel sobborgo di Troices – altre due a Provins, quella di maggio nella città alta e quella autunnale nella città bassa, e due infine a Lagny e a Bar sur Aube. All’inizio del XII secolo esse avevano ancora un carattere agricolo ma già alla metà del secolo andarono assumendo un’impronta più marcata-mente mercantile ed un’importanza internazionale che deve essere collegata agli sforzi compiuti in questo senso dai conti di Champagne, che furono capaci di organizzare un sistema fieristico completo ed offrire le condizioni materiali e politiche opportune per assicurare ad esso la grande e lunga fortuna che ebbe, in un periodo in cui il grande commercio internazionale cresceva e si regolarizzava secondo direttrici di scambio e correnti di traffico costanti, e ritmi rapidi e competitivi. In cambio dell’opera di organizza-zione svolta e delle garanzie che offrirono a quanti frequentavano le fiere (i conti non solo garantirono la sicurezza entro i loro domini ma svolsero un’efficace ruolo di protezione anche nei principati territoriali confinanti sollecitando l’intervento della monarchia) essi si assicurarono, ovviamente, molte e cospicue entrate: tasse e dazi non gravosi singolarmente ma cer-to consistenti nel loro complesso. Le ragioni della crescente fortuna delle fiere sono ancora discusse dagli storici, e se probabilmente il giusto ruolo va assegnato alla politica intelligente svolta dai conti di Champagne che ebbero il merito di farle decollare, altrettanto importante fu l’incontro che lì si realizzò nella prima metà del Duecento, tra panni prodotti nei grandi centri tessili delle Fiandre ed i mercanti italiani e del Midi francese che li ac-quistavano sita per i propri mercati sia per la riesportazione verso Levante. Accanto a questi scambi tessili si sviluppò la compravendita delle merci più varie (spezie, cera, cavalli) e soprattutto un cospicuo movimento finanziario che trasformò le fiere in una sede dei regolamenti internazionali, termine e luogo di pagamenti di somme dovute per affari trattati precedentemente, grande piazza europea dei cambi, le cui quotazioni rapidamente comunicate alle altre piazze mercantili condizionavano ovunque scambi e speculazioni

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finanziarie ad essi legati. Nell’amplissima bibliografia sull’argomento si può fare riferimento per una sintesi generale a Verlinden, Mercati e fiere, 1977; mentre per una descrizione più precisa delle operazioni e delle modalità di intervento delle compagnie bancarie senesi nell’area della Champagne si vedano Tangheroni, Siena e il commercio internazionale, 1987, pp. 27-48; Cassandro, La banca senese, 1987, pp. 121-131.

6 Un altro prestito al duca di Lorena, fatto al suo vassallo Geoffroi de Bourlémont, fu stipulato nel 1232 da Roberto di Oltremonte e il suo socio Orlando di Orlandino: Schneider, Les marchands siennois et la Lorraine, 1957, pp. 394-395.

7 Gli scabini e i giudici della città di Colonia si rivolsero ad una società senese di cui faceva parte Bernardino di Alamanno Piccolomini per ottenere un prestito di 300 marche di sterlinghe il cui rimborso scadeva per metà alla fiera di Sant’Aigulfo del 1226 e per metà alla fiera di Bar sur Aube del 1227. Tuttavia la restituzione fu conclusa soltanto nell’ottobre 1228. Un prestito ulteriore la città contrasse con Ugo di Bencivenne, Piccolomo di Oltremonte Piccolomini e Ranieri di Rolando: fu restituito nella somma di 312 marche alla fiera di Pasqua di Bar sur Aube nel 1229. Si veda Schaube, Storia del commercio dei popoli latini, 1915, p. 516.

8 Nell’ottobre 1228 Alamanno di Ugone con il socio Aldobrandino Magnittini risulta creditore del conte di Champagne: Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 35.

9 Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 37: l’autrice purtroppo non data con precisione la notizia e neppure riferisce l’importo del prestito. Soltanto sappiamo che si trattava di Piccolomo di Oltremonte e di suo fratello Roberto in unione con alcuni soci che non vengono men-zionati nel contratto.

10 I soci nominati sono Bonaventura di Lupello, Massario e Caponero: Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 37.

11 Gli altri soci nominati sono: “Caponero, Ugo Bencivegni, Spinello Cavalca, Raenerio Pontii”. Il contratto si trova in Schulte, Geschichte des Mittelalterlichen Handels, 1900, II, n. 425, p. 286.

12 Roon-Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 34.13 Diplomatico Archivio Generale, 1258 agosto 14.14 Con atto del 6 aprile 1258 l’arcivescovo Corrado aveva designato frate

Wolfardus suo procuratore dandogli pieno mandato di decidere e di ese-guire in merito alla faccenda, e obbligandosi a mantenere e svolgere quan-to avrebbe stabilito: “Nos qui […] non possumus personaliter, fratrem Wolfardum ordinis Sancte Marie Theutonicorum nostrum et ecclesie nostre constituimus procuratorem, et in isto negotio pro omnia ponimus in loco nostri; cui damus plenam et liberam potestatem, nostro et ecclesia nostra nomine agendi, defendendi, sententias audendi et sententiis acquiscendi, pa-ciscendi, compromittendi et spetialiter componendi et transigendi cum ipsis mercatoribus tam supra sorte quam supra dampnis, expensis et interesse ac penis, coram quacumque iudice a domino Pape supra hiis dato vel dan-

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do, et obligandi propterea nos et successores nostros et ecclesiam nostram et archiepiscopatum nostrum ac omnia bona nostra et ecclesie nostre et archiepiscopati nostri mobilia et inmobilia, presentia et futura tam eccle-siastica quam mundana mercatoribus antedictis […]. Nos enim ex nunc in verbo veritatis promittimus quod quidcquid dictus procurator tam in modum transactionis quam cuiuscumque alterius compositionis […] cum ipsis mercatoribus coram auditore predicto, finiet, ordinabit vel componet seu iudicium subierit ratum, gratum et firmum habebimus et observabimus inviolabiliter […]”. La lettera è riportata in Diplomatico Archivio Generale, 1258 agosto 14, che contiene gli atti inerenti alla vicenda.

15 Diplomatico Archivio Generale, 1258 agosto 14.16 “Promisit etiam dictus procurator quod ipse archiepiscopus omnia supra-

dicta et singula per suas patentes litteras ratificabit, et rata atque firma ha-bebit, quas in primo termino solutionis ipsius pecunie prefatus archiepisco-pus apud Provinum eisdem mercatoribus mittere teneatur”: loc. cit.

17 Questa la formula usata da Innocenzo IV nella lettera inviata a Ugone di Chiaramontese e Ranieri di Rinaldo per metterli al corrente della nomina di un arbitro per dirimere la controversia con l’arcivescovo di Colonia: loc. cit.

18 Più semplice appare datare e configurare il collegamento tra compagnie bancarie e santa sede laddove i membri delle prime ricevettero la qualifica di “campsores”, qualifica che sottintendeva un rapporto chiaro tra le due parti implicando l’assunsione da parte dei banchieri di una serie di operazioni finanziarie svolte per conto della curia. Prima di queste operazioni la riscos-sione delle imposte straordinarie che dal papato di Innocenzo III a quello di Gregorio X venivano accertate sul reddito dei benefizi ecclesiastici. Queste imposte prelevate in tutte le diocesi di Europa nella moneta locale e talvolta perfino in natura non davano di regola un provento immediatamente utiliz-zabile, perché la chiesa non spendeva le sue entrate nel luogo dove venivano esatte, ma sia per le spese straordinarie che per le necessità della sua ammi-nistrazione doveva cambiare le monete di valore locale con quelle dei luoghi dove effettuava le spese, o quanto meno con altre di valore internazionale (nel XIII secolo questa funzione di moneta internazionale fu assegnata ai tornesi di Francia e alle lire sterlinghe d’Inghilterra a cui si aggiunse, verso la fine del secolo, il fiorino d’oro di Firenze). I “campsorese domini pape” provvedevano appunto a queste operazioni di riscossione e cambio a cui a poco a poco unirono quella del deposito che sostituì quello ‘infruttifero’a cui generalmente i tributi ecclesiastici erano sottoposti presso i monasteri o le case dei templari. È evidente che il fatto di essere cambiatori papali por-tava i banchieri automaticamente nel giro della finanza internazionale, con la necessità spesso di tenere corrispondenze o agenzie sulle principali piazze cointeressate a queste operazioni bancarie, offrendo larghe possibilità di sviluppo ai loro affari. Tra gli uomini che ebbero la qualifica di “campsores domini pape” figurano i Buonsignori: Orlando e Bonifacio dopo aver svol-to la loro attività presso la curia come soci di Angelieri Solafico, indicato

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come l’antesignano di quanti poi a Siena assunsero il ruolo di cambiatori, nel corso del terzo decennio del Duecento ebbero essi stessi tale qualifica. Anche due membri della famiglia Tolomei, Rinaldo e Tolomeo di Giacomo vengono indicati nel 1255 da Alessandro IV come “campsores nostri”. Vedi Arias, I banchieri italiani, 1901; Arias, I contratti dei banchieri, 1901; Senigaglia, Le compagnie bancarie, 1906-1908, pp. 164 sgg.; Jordan, De mercatoribus, 1909; Chiaudano, Le compagnie bancarie senesi, 1930, pp. 1-17.

19 Nella sede apostolica i rappresentanti del sovrano inglese saldarono un debito di 300 marche di sterlinghe che era stato contratto con Piccolomo di Oltremonte, Turchio di Chiaramontese, Erminio di Bencivenne, Ugolino Beimitii, Ranieri di Rolando, Ranierio Pontii, Alberto di Pietro, Thomasino Ancontan. Vedi Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 35.

20 Auvray, Vitte-Clemencet, Les registres de Grégoire IX, 1890-1955, n. 845 e 1465 (1233 luglio 11): ad un primo intervento del 1232 ne seguì un secondo l’anno successivo con l’esortazione a rimborsare Turchio di Chiaramontese, Bonaventura di Lupello, Massario e Caponero, mercanti senesi.

21 Sulla collaborazione stabilita fra alcune famiglie di mercatores senesi e la camera apostolica, che risulta già operante durante il pontificato di Onorio III “per trovare coronamento negli anni di Gregorio IX”, vedi le considera-zioni espresse da Pellegrini, Chiesa e città, pp. 176-178.

22 Più semplice appare datare e configurare il collegamento tra compagnie bancarie e santa sede laddove i membri delle prime ricevettero la qualifica di “campsores”, qualifica che sottintendeva un rapporto chiaro tra le due parti implicando l’assunsione da parte dei banchieri di una serie di operazioni finanziarie svolte per conto della curia. Prima di queste operazioni la riscos-sione delle imposte straordinarie che dal papato di Innocenzo III a quello di Gregorio X venivano accertate sul reddito dei benefizi ecclesiastici. Queste imposte prelevate in tutte le diocesi di Europa nella moneta locale e talvolta perfino in natura non davano di regola un provento immediatamente utiliz-zabile, perché la chiesa non spendeva le sue entrate nel luogo dove venivano esatte, ma sia per le spese straordinarie che per le necessità della sua ammi-nistrazione doveva cambiare le monete di valore locale con quelle dei luoghi dove effettuava le spese, o quanto meno con altre di valore internazionale (nel XIII secolo questa funzione di moneta internazionale fu assegnata ai tornesi di Francia e alle lire sterlinghe d’Inghilterra a cui si aggiunse, verso la fine del secolo, il fiorino d’oro di Firenze). I “campsorese domini pape” provvedevano appunto a queste operazioni di riscossione e cambio a cui a poco a poco unirono quella del deposito che sostituì quello ‘infruttifero’a cui generalmente i tributi ecclesiastici erano sottoposti presso i monasteri o le case dei templari. È evidente che il fatto di essere cambiatori papali por-tava i banchieri automaticamente nel giro della finanza internazionale, con la necessità spesso di tenere corrispondenze o agenzie sulle principali piazze

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cointeressate a queste operazioni bancarie, offrendo larghe possibilità di sviluppo ai loro affari. Tra gli uomini che ebbero la qualifica di “campsores domini pape” figurano i Buonsignori: Orlando e Bonifacio dopo aver svol-to la loro attività presso la curia come soci di Angelieri Solafico, indicato come l’antesignano di quanti poi a Siena assunsero il ruolo di cambiatori, nel corso del terzo decennio del Duecento ebbero essi stessi tale qualifica. Anche due membri della famiglia Tolomei, Rinaldo e Tolomeo di Giacomo vengono indicati nel 1255 da Alessandro IV come “campsores nostri”. Vedi Arias, I banchieri italiani, 1901; Arias, I contratti dei banchieri, 1901; Senigaglia, Le compagnie bancarie, 1906-1908, pp. 164 sgg.; Jordan, De mercatoribus, 1909; Chiaudano, Le compagnie bancarie senesi, 1930, pp. 1-17.

23 Infra, pp. 138 e segg.24 Berger, Les registres d’Innocent IV, 1884-1921, n. 347. Rinaldo di Ranieri

di Rinaldo “e sociis” sono creditori del monastero “Omnium Sanctorum” di Chalons a cui il pontefice intima la soluzione del debito, che però non viene quantificato.

25 Berger, Les registres d’Innocent IV, 1884-1921, n. 6468 (23 marzo 1253).

26 Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, pp. 73-88; per il ruolo dei Tolomei nei prestiti inglesi rinvio al mio, I Tolomei, 1995, pp. 103-109.

27 Nel marzo 1256 Enrico III in una lettera diretta al papa scriveva che il suo debito nei confronti dei banchieri fiorentini e senesi ammontava a 60.000 marche sterline: Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 78; vedi anche Patetta, Caorsini senesi, 1897, p. 336.

28 Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 43.29 Somme comunque che vanno riferite ad una compartecipazione nei pre-

stiti da parte delle tre societates, in quote che rimangono sconosciute. La notizia è riferita dal cronista Matteo Parisiense nella sua Chronica Maiora, edita da Luard nel 1872, citata da Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 43; anche Patetta, Caorsini senesi, 1897, pp. 335-337.

30 Oltre alle considerazioni generali espresse in Aries, Padri e figli, 1968; Herlihy, Family solidarity in medieval italian history, 1969, pp. 173-184; Heers, Il clan familiare, 1976 e Duby, curatore del volume miscellaneo Famiglia e parentela, 1981, alcuni contributi al rapporto tra gruppi fami-liari e attività economica sono venuti dall’interesse che l’antropologia, la sociologia, la demografia hanno riservato al tema: così si veda per esempio la raccolta di studi riguardanti l’ambito europeo, e in minor misura quello americano, a cura degli anglosassoni Leslett, Wall, Household and fa-mily, 1972. Per un’analisi della realtà toscana rinvio ai lavori di Sapori, La responsabilità verso i terzi, 1938, pp. 3-42; Idem, Dalla “compagnia” alla “holding”, 1967, pp. 121-133, e Goldthwaite, Organizzazione economi-ca e struttura familiare, 1983, pp. 1-13; Cassandro, Per una tipologia della

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struttura familiare, 1983, pp. 15-33 che analizza le relazioni interfamiliari nella formazione e nella vita operativa delle società commerciali.

31 La prima compagnia dei Tolomei assunse la denominazione di “societas filiorum Jacobi” a indicare il ramo del casato, quello appunto formato dai discendenti di Giacomo della Piazza, che si dedicò all’attività mercantile e finanziaria; successivamente una seconda compagnia nata nel 1310 prese il nome di “societas Tolomeorum”: la compagnia comprendeva anche membri esterni ma i soci appartenenti alla famiglia erano la parte numericamente maggioritaria e dunque il nome dato era segno di un preciso assetto socie-tario e conseguente apporto di capitali. Anche le compagnie dei Salimbeni e Buonsignori vennero spesso indicate nei documenti con la specificazione genealogica che riconduceva i banchieri ad un capostipite comune: così si parlava della compagnia ‘dei figli di Salimbeni’ o societas Salimbenorum, e di compagnia ‘dei figli di Buonsignore’ insieme alla denominazione poi usata di “Gran Tavola”. Tra Duecento e primo Trecento anche i membri dei Malavolti, Gallerani, Squarcialupi che praticavano l’attività bancaria e com-merciale unirono il nome del casato all’azienda (“societas Malavoltorum”, “societas Squarcialuporum”, “societas Galleranorum”). Cfr. Chiaudano, I Rotschild del Duecento, 1935, passim; English, Enterprise and liability, 1988, passim; Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 25-37; Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 85-96 e 285-297.

32 Sul ruolo svolto dall’azienda domestica nell’educazione dei giovani verso la professione di mercante e sulla forma di tale apprendistato si può fare riferimento agli studi di Melis, Storia della ragioneria, 1950, pp. 429 sgg.; Melis, Aspetti della vita economica medievale, 1962, soprattutto alle pp. 391-405; Sapori, La cultura del mercante medievale, 1955, pp. 35-93; Idem, Il personale delle compagnie mercantili, 1955, pp. 698-699.

33 Per gli esempi, Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, si scorrano in Appendice le tabelle relative, dove ho segnalato accanto all’affare svolto la presenza dei membri della famiglia e dei soci esterni: ‘La Mercatura. Uomini e affari internazionali: operazioni e presenze nel mercato europeo (XIII se-colo)’.

34 La restituzione sarà completata soltanto nel 1228 alla fiera di ottobre di Sant’Aigulfo. Schaube, Storia del commercio, 1915, p. 516.

35 Cfr. per gli esempi che seguono Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, la tabella: La Mercatura. Uomini e affari internazionali: opera-zioni e presenze nel mercato europeo (XIII secolo).

36 Per l’appartenenza di Caponero al gruppo di mercanti senesi creditori del vescovo si veda la lettera di Gregorio indirizzata a un canonico di Troyes che lo invita a indurre il vescovo debitore a restituire 580 marche di sterlin-ghe ai mercanti senesi nominati: Auvray, Vitte, Clemencet, Les registres de Grégoire IX, 1890-1955, n. 844 (21 luglio 1232). Su Caponero si veda anche Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, pp. 37-38.

37 Auvray, Vitte, Clemencet, Les registres de Grégoire IX, 1890-1955, n. 3242

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(17 luglio 1236). Cfr. Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, pp. 38.

38 Schulte, Geschichte des Mittelalterlichen Handels, 1900, I, n. 245.39 Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 40.40 Cfr. Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, la tabella: La

Mercatura. Uomini e affari internazionali: operazioni e presenze nel merca-to europeo (XIII secolo) e per la sua appartenenza ai Buonsignori nel 1252, vedi Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 36.

41 Auvray, Vitte, Clemencet, Les registres de Grégoire IX, 1890-1955, n. 2727; Roon Bassermann, Sienische Handelsgesellschaften, 1912, p. 38.

42 Mi riferisco in particolare a: Zdekauer, Documenti senesi riguardanti le fiere, 1895; Idem, Il mercante senese, 1925; Patetta, Caorsini senesi, 1897; Paoli, Siena alle fiere, 1898; Arias, I banchieri italiani e la Santa Sede, 1901; Arias, I contratti dei banchieri colla Santa Sede, 1901; Gottlob, Kuriale Pralatenanleihen im 13 Jahrhundert, 1903; Senigaglia, Le compa-gnie bancarie, 1907-1908; Jordan, De mercatoribus, 1909; Chiaudano, Note e documenti sulla compagnia dei Bonsignori, 1930; Idem, Le compa-gnie bancarie senesi, 1930; Idem, Contratti di cambio, 1931; Idem, Aspetti dell’espansione mercantile, 1932; Idem, I Rotschild del Duecento, 1935; Idem, Note sul contratto di cambio, 1938; Astuti, Il libro dell’entrata e dell’uscita di una compagnia, 1934; e i saggi di Sapori, Studi di storia eco-nomica, 1955. Le “eccezioni” a cui facevo riferimento sono il miscellaneo Banchieri e mercanti di Siena, 1987; English, Enterprise and liability, 1988.

43 Come ha fatto notare Cassandro, quando si parla di banca nel periodo basso-medievale, a Siena come altrove, ci si riferisce a singoli operatori che individualmente o associandosi con altri svolsero una attività di credito che consentì loro elevati profitti e successivi reinvestimenti. Ma questa attività non fu svolta in modo esclusivo e specialistico, come unico campo operati-vo. I banchieri erano al tempo stesso mercanti e la mobilità o reversibilità delle situazioni e delle fortune li spingeva a privilegiare ora l’uno ora l’altro aspetto: cfr. Cassandro, La banca senese, 1987.

44 Si vedano i lavori di Arias raccolti in Arias, Studi e documenti, 1901, che collega le fortune senesi al rapporto intrattenuto fin dall’inizio con la santa sede e all’assunzione quindi di tutte le complesse e importanti operazioni finanziarie che ne conseguono; e quelli quasi contemporanei di Arcangeli, Gli istituti del diritto, 1906, e Senigaglia, Le compagnie bancarie, 1906-1908, che pur trattando il tema dello sviluppo economico senese da una prospettiva giuridica e giungendo a conclusioni diverse sulla struttura delle compagnie commerciali, riaffermano entrambi il “ruolo primo e primitivo” delle operazioni collegate con la curia. Anche Chiaudano approfondisce il tema dei legami tra le più importanti compagnie senesi (ai Buonsignori dedica alcune monografie) con la curia pontificia in Le compagnie banca-rie, 1930. Rimando inoltre Jordan, Le Saint Siege et les banquiers italiens, 1895, sui rapporti tra società toscane e pontefici, Schneider, Die finanziel-

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len Beziehungen, 1899; Schulte, Geschichte des Mittelalterlichen Handels, 1900, sui rapporti tra Italia e Germania occidentale nel medioevo dove di-mostrò per il primo Duecento il sodalizio tra banchieri senesi e romani nel sistema di riscossione delle imposte ecclesiastiche e nel giro finanziario che ne derivava; Gottlob, Kuriale Pralatenanleihen in 13 Jahrhundert, 1903.

45 Paoli, Siena alle fiere, 1898; Mazzi, Mercanti senesi, 1923; Zdekauer, Il mercante senese, 1925.

46 Gioacchino Volpe prospettò l’eventualità che l’attività speculativa bancaria dei senesi potesse essere in relazione con la ricchezza mineraria del territo-rio, ed infatti scriveva: “vien fatto di domandare, quanto siffatta ricchezza mineraria del territorio senese contribuì a mutare i vassalli inurbati in ban-chieri; ad alimentare il capitalismo senese ed il commercio di denaro; a dare infine a questa città quel particolare carattere economico che la distingue per tutto il ’200 dalle altre di Toscana? Capisco la difficoltà di rispondere […] ma il problema esiste e può essere enunciato”: Volpe, Per la storia giuridica ed economica del medioevo, 1923, p. 307.

47 Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, p. 45.48 Le citazioni tratte da Zdekauer, Il mercante senese, 1925, p. 5; Sestan,

Siena avanti Montaperti, 1961, p. 46.49 Diplomatico Santa Maria, 1239 settembre 19.50 Libri di Biccherna, VII, pp. 19 e 84 (1247).51 Libri di Biccherna, XIII, pp. 72, 81, 186. Piccolomo insieme a Orlando

Vencecastelli e Bertoldo di Uggerio riceve diversi pagamenti dal Comune ex causa mutui, per una somma complessiva di 2.400 lire.

52 Negli anni 1250-1253 è tra i componenti del consiglio cittadino: Caleffo Vecchio, II, pp. 661 (1250 aprile 15), 731 (1250 marzo 3), 766 (1252 mar-zo 4). Nel 1254 è uno dei tre cittadini “positi super emendis equis perditis in servitio Comunis Senarum”: Diplomatico Archivio Generale, 1254 ago-sto 13.

53 Si tratta del citato contratto in Diplomatico Archivio Generale, 1258 agosto 14. Vedi supra.

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i DiscenDenti Di ranieri Di rustichino

Ranieri di Rustichino aveva guardato al futuro attraverso il lignaggio e il suo flusso nella discendenza di sangue maschile. Fondando l’ospedale aveva lasciato lo ius patronatus ai suoi heredibus. E lo stesso aveva fatto per le proprietà immobilia-ri e fondiarie: a più di venti anni dalla sua morte, nella zona di San Martino i figli, Chiaramontese, Rinaldo, Rustichino e Fortarrigo, possiedono ancora in proprietà indivisa un com-plesso immobiliare composto da una torre e diverse case, “que dicitur domus et turris Assassette”; nel popolo di Sant’Angelo a Montone orti e altre terre 1. Ai suoi discendenti maschi Ranieri aveva lasciato in eredità anche il mestiere di banchiere. Nel 1243, i figli compaiono titolari di una societas, incidental-mente nominata come custode di alcune lettere di credito, che porta associato il loro nome a quello del consorte Turchio di Chiaramontese 2.Tempo dopo: sono gli anni di pontificato di Innocenzo IV e mentre da una parte alcuni uomini della famiglia sviluppano le loro attività nel mercato europeo – sono in corso gli affari nell’aria della Champagne, con la sede apostolica e l’Inghilterra attraverso un funzionale collegamento con altre società banca-rie senesi – prendono avvio una serie di operazioni finanziarie nel patriarcato di Aquileia che vedono agire una societas di cui fanno parte i discendenti di Ranieri di Rustichino e i figli di Turchio di Chiaramontese. Ruolo particolarmente attivo ri-veste, fin da subito, un nipote e omonimo dell’ormai defunto Ranieri di Rustichino.

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ranieri Di rustichino (il giovane)

Gli affari

Ranieri e il patriarcaNella villa di Ravosa, il 31 maggio 1249 il giovane Ranieri di Rustichino insieme a Ranieri di Turchio e i loro soci, Gabriello, suo fratello, e Giovanni, stipulava un contratto di credito a favore del patriarca Bertoldo di Andechs per 100 marche di denari aquileiesi: il patriarca precisando che il prestito serviva per i bisogni e gli affari della sua chiesa, e specialmente “ad expendendum Sacili cum milicia ad honore romane ecclesie”, prometteva ai mercanti senesi di restituire la somma in un anno, “in proximo futuro festo Sancti Canciani”, a Venezia, e nel caso in cui non fosse riuscito a sciogliere il debito entro tale termine, di inviare nella città lagunare a tutela degli inte-ressi dei creditori, i suoi ministeriali Adalberto e Conetto di Cuccagna, Pietro di Udine e Federico castaldo di Udine perché si rendessero garanti con le proprie persone e i propri beni fino al saldo della somma dovuta 3.Ma prima ancora che venisse a termine la scadenza stabilita nel contratto Bertoldo era costretto a ricorrere nuovamente alla società. Il 25 gennaio 1250 accendeva infatti un nuovo mutuo con gli stessi mercanti, fra i quali compariva questa volta an-che un fratello di Ranieri, Tolomeo, per la identica somma di 100 marche, il cui rimborso era garantito ai Piccolomini dalla riscossione dei dazi imposti in città per il tempo di tre anni. Bertoldo obbligandosi a pagare il doppio del denaro ricevuto qualora avesse mancato ai patti chiamava alla corresponsabili-tà Ludovico di Villalta e Giovanni di Cuccagna 4.Se il patriarca poté soddisfare il debito e se e come Ranieri e i suoi riuscirono a recuperare la somma prestata non è possibile sapere, perché quando i rogiti notarili aprono un varco nella possibilità di far luce sugli affari della societas nel patriarca-

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to, Bertoldo è già morto e al suo posto si trova Gregorio di Montelongo. Eletto al governo della regione dopo la morte del predecessore avvenuta nel maggio 1251, ma consacrato solo nell’agosto 1256, Gregorio ha davanti agli occhi una situazione finanziaria disastrosa: le casse del patriarcato svilite dalle con-tinue guerre, gravate dai molti debiti che il precedente electus Aquilegensis aveva contratto e penalizzate nelle entrate dalla grave crisi economica e demografica che affligge il Friuli 5. Il quadro era preoccupante. Se i frutti che il principe ecclesiastico ricavava dai suoi beni fondiari dislocati in tutto il territorio, e il fisco patriarchino – a cui competevano i redditi derivanti dall’esercizio della sovranità territoriale che potevano però, in alcuni casi, essere gonfiati con il ricorso alle imposte dirette – non erano ormai più in grado di far fronte alle necessità finan-ziarie di uno stato che, dai tempi di Bertoldo, mirava a conso-lidare il suo potere, rafforzando la propria autonomia rispetto ai vincoli di solidarietà feudali che legavano i presuli agli impe-ratori tedeschi, progetto nel quale confluiva il grosso dei denari e delle risorse, e se né il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, né il collegio cardinalizio a cui Gregorio si era rivolto in cerca di aiuto potevano far altro per la chiesa aquileiese al di fuori di offrire consiglio e compassione 6, l’unico mezzo che Gregorio aveva per tentare di mettere ordine alle sue esauste finanze e tacitare i molti creditori, era quello di cercare, come già aveva fatto il suo predecessore, banchieri e prestatori disponibili.Ranieri di Rustichino, in rappresentanza della societas che ave-va servito Bertoldo, si mostrò disposto ad andargli in aiuto e con un primo atto del 4 febbraio 1252 sborsò 400 marche rilevan-do i proventi della muda di Chiusa per il tempo di due anni con l’impegno del presule a rimborsare il danno economico che po-teva derivare ai mercanti da una mancata esazione delle gabelle “occasione alicuius guerre”, secondo l’arbitrato di due saggi scelti dalle parti 7. Nel giugno dell’anno successivo Gregorio procedette ad una nuova vendita e per 140 marche concesse ai mercatoribus senensibus Ranieri di Rustichino Piccolomini

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e Rinaldo di Rinaldo, “veterem mutam de Tumez cum omni-bus iuribus et rationibus ad ipsam mutam spectantibus […] usque ad annum unum, numerando annum ipsum a feste beate Margarete proximo venturo usque ad annum completum” 8. Due settimane più tardi, a Venezia, infine, una terza locazione. Questa volta il patriarca fu costretto a cedere le mude vecchie e nuove di Chiusa e di Tolmezzo in cambio di un prestito di 150 marche che dava facoltà ai creditori di riscuotere i proventi delle gabelle per un periodo di 9 mesi che vennero computati a partire dalla metà del maggio passato. Ma, e qui era la novità, le “nuove” mude di Chiusa e Tolmezzo comprendevano merci che fino ad allora non erano assoggettate a gabella e cioè vino, sale e ferro. Oltre all’inasprimento fiscale che doveva tradursi in maggiori guadagni per i banchieri, Gregorio concesse ai suoi creditori, sotto pena di 25 marche d’argento, garanzie specifi-che: nel caso in cui guerre o discordie con i veneziani avessero impedito il libero transito sulle strade, oppure nel caso in cui le gabelle “removerentur aliquatenus vel diminuerentur” e i mer-canti non fossero riusciti a ricavare la somma mutuata, avrebbe risarcito ogni perdita economica, “solo et simplici eorum verbo credendo” 9.La seconda delle ipotesi prospettate non tardò a verificarsi. Una delle conseguenze del rinnovo dei patti tra il Friuli e la repubblica di Venezia, patti ratificati il 24 aprile 1254 dopo un’estenuante trattativa condotta con il doge Ranieri di Zeno, fu infatti l’inserimento nel trattato di una clausola che prevede-va l’obbligo per il patriarca di abolire tutti i nuovi dazi imposti su sale, ferro, pegola ed altre mercanzie, con il ritorno in tutto all’antica consuetudine 10. Tuttavia anche se si può ipotizzare che nessun danno economico derivasse a Ranieri e soci dall’as-sottigliamento delle rendite doganali – a quel punto il contratto doveva essere ormai giunto a scadenza –, non è forse un caso se per tutto il 1254 la locazione delle gabelle non fu rinnovata e soltanto nel 1255 il patriarca riuscì a strappare ai banchieri un nuovo contratto che valutava i diritti di riscossione delle due

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mude, vecchie e nuove, per il tempo di due anni, in 600 marche d’argento 11.È questo del 1255 l’ultimo contratto stipulato dai Piccolomini alla corte patriarcale. Dopo quella data, pur essendo testimo-niata la loro presenza nella zona, non è pervenuto nessun rogito che consenta di ipotizzare una prosecuzione del loro intervento finanziario a favore del principato ecclesiastico 12. L’unica occa-sione, dopo l’appalto delle mude del 1255, che collega la socie-tas al patriarca sembra essere piuttosto relativa alla difficoltà dei banchieri di ottenere il saldo delle somme loro dovute, che spinse probabilmente lo stesso Ranieri di Ruschino ad appel-larsi con successo a papa Urbano IV. Il quale scrivendo nel gen-naio 1264 da Orvieto ai vescovi di Mantova, Padova, Ferrara e Treviso imponeva ai prelati di agire “contra patriarcham aqui-legensem” affinché questi soddisfacesse il debito che aveva con Ranieri, suo fratello Gabriello e il figlio Arrigo, e verso i loro soci Rinaldo, Bernardino, Gualtieri e Robbaconte Rinaldini 13: se i crediti che i mercatores senenses ancora a questa data van-tavano contro il presule fossero il risultato di nuovi prestiti o piuttosto, come ipotizzerei, il residuo di vecchi, non è possibile dire con certezza. Certo è che le finanze dello stato patriarchino erano in questo torno di tempo in situazione assai critica 14.Come è stato notato l’inizio di duraturi rapporti di collabo-razione tra i banchieri senesi, e toscani in genere, e la chiesa aquileiese si collocò in una fase cruciale della storia del pa-triarcato che vide i presuli impegnati alla costruzione di un’en-tità politica dotata di autonoma forza 15. A partire dalla metà del Duecento l’azione del principe ecclesiastico si indirizzò su due fronti: su quello interno a ostacolare la doppia offensiva di feudatari rissosi e territori comunali che in modi e tempi diversi premevano per aprirsi dei varchi tra le maglie dello sta-to, rivendicando diritti e sollecitando sempre maggiori autono-mie; sul fronte esterno ad arginare le spinte espansionistiche dei vicini, e soprattutto, in consonanza con gli interessi della chiesa di Roma, a contrastare il predominio della casa imperia-

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le a cui i patriarchi aquileiesi erano legati da trame feudali 16. La necessità di reperire tempestivamente le risorse finanziarie indispensabili per perseguire quei fini politici, e la compagi-ne economica della regione, priva di una tradizione bancaria sviluppata, favorirono dunque, anche su esplicito intervento del patriarca, l’immigrazione di capitali e di energie da Siena, Firenze e altri centri della toscana 17. Capitali che vennero indi-rizzati prevalentemente all’attività creditizia e all’appalto delle imposte che competevano all’electus, giocando ovviamente in questo senso la corte patriarcale un ruolo centrale 18. Ma se il patriarca poteva apparire un cliente appetibile, nella realtà dei fatti i rapporti di affari con le compagnie toscane tesero a risolversi prevalentemente a favore del presule. Nei contratti stipulati con Ranieri di Rustichino e la sua societas, Bertoldo e Gregorio ottennero subito il contante di cui necessitavano ma, nonostante le garanzie offerte ai mercatores senesi di riscuotere le somme mutuate con i proventi delle gabelle, i tempi imposti per il rimborso – dilazionato in uno, due, tre anni – presuppo-nevano una solidità economica non indifferente dell’azienda, costretta come si trovava ad aspettare molto tempo prima di ottenere un vantaggio economico dalla transazione e riscuotere una somma maggiore di quella esitata. In questo senso la stessa vicenda dei Buonsignori fu esemplare: fatto credito a Gregorio di Montelongo nel 1252 della somma di 11.000 marche, nel 1269 il debito non era ancora stato estinto, prevedendo anzi il patriarca che sarebbero occorsi altri tredici anni per la sua soluzione 19.I rapporti d’affari della societas rappresentata da Ranieri con il patriarcato che, sulla base della documentazione disponibile, si dipanarano nel corso di sei anni e per un investimento totale di 1.360 marche, non giocarono probabilmente una parte fonda-mentale nel complesso delle operazioni finanziarie e mercantili della compagnia. Sarei piuttosto portata a relazionare le ope-razioni di prestito e di appalto svolte nello stato patriarchino al rapporto privilegiato che Ranieri e i membri della famiglia

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avevano, e avevano tutto l’interesse a mantenere, con la santa sede, vero referente economico dei banchieri 20. In questo senso se il presule aquileiese diventava solo una pedina nel più vasto scacchiere internazionale e cattolico in cui essi giocavano i loro affari, la presenza alla sua corte era solo una tappa di una più larga trama di attività che la societas sviluppò in area friulana e lagunare e che ebbe i suoi capisaldi nei centri di Venezia e Trieste, per poi prolungarsi, proprio per seguire gli affari della corte, a Cividale, Chiusaforte e Tolmezzo.

A VeneziaNon è incidentale che il primo contratto stipulato da Ranieri di Rustichino e soci con Bertoldo di Andechs nel 1249 fosse rogato a Venezia, nella villa di Ravosa, che a Venezia, nel clima festoso di San Canciano, fosse previsto il saldo del debito e che a Venezia il presule si impegnasse a spedire i suoi ministeriali per offrire in pegno ai mercanti senesi le loro proprietà nel caso in cui le casse statali non fossero state in grado di soddisfarli: evidentemente la societas aveva, fin già da quella data, nella città lagunare una propria sede 21.Dobbiamo dunque immaginare, in questo scorcio di secolo, Ranieri tra i vicoli, lungo i canali liquidi, fra i mercati vario-pinti e i magazzini ricolmi di Rialto, un mercante di terra che incontra mercanti d’acqua, “se ne andavano li Viniziani per mezzo il mare qua e là, e di là il mare, ed in tutti luoghi ac-quistavano mercatanzie e le conducevano in Vinegia da tutte le parti”, Ranieri in questa città crocevia del mondo, in mezzo a un viavai di genti, di merci, di lingue, di attività, uomini che arrivano, uomini che partono, anche i fratelli Polo stanno per intraprendere la loro avventura commerciale 22, e chiedersi che cosa poteva fare un banchiere curioso, avventuroso, intelligen-te, come lui? quali stimoli, quali occasioni, quali relazioni? La documentazione purtroppo è avara e tesse una storia incerta: sappiamo che Ranieri ebbe modo di conoscere e collaborare con alcuni di quei figli del leone di San Marco, dato che nel

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febbraio dell’anno 1252 egli è associato ad alcuni operatori veneziani e trevigiani nell’appalto, per 400 marche, della muda di Chiusaforte, perché infatti in un contratto stipulato poste-riormente a questa data, forse l’anno successivo, dopo aver ri-chiamato gli estremi di quella locazione, le parti associate a Ranieri di Rustichino Piccolomini che procedono alla divisione dei redditi derivanti dall’esazione delle gabelle, portano i nomi di “Matheus trivisinus”, che stipula “pro se et Petro et Marino Zorzani de Venetiis”, e “Marcus Finolo” che agisce anche per il fratello “Jacobum” “de eodem loco” 23. Rapporti d’affari che, almeno con alcuni di loro, non dovettero limitarsi alle mude pa-triarcali se portarono ad un certo punto il Piccolomini a chiede-re l’arbitrato di un suprapartes per una qualche questione che era nata con Matteo, Marino e Pietro, “occasione monete ter-gestine et aquilegensis”, come si legge nella quietanza rilasciata dal trevigiano e dai due veneziani a lui ed alcuni congiunti che avevano dovuto sborsare, dopo il lodo, 105 lire 24.Il carattere ‘occasionale’ della documentazione può solo resti-tuire in frammenti la presenza di Ranieri in area lagunare. Che è ancora attestata nella primavera del 1257 grazie alla stipula di una carta di cambio 25. Altri due contratti dello stesso tipo, aventi ancora per oggetto veneziani grossi, furono rogati a Padova e Venezia tra il maggio e il giugno dell’anno successi-vo, con Bonfiglio di Bolgarino da Siena e Vineldo di Cortona il primo, e un rappresentante della compagnia dei Bonsignori, il secondo 26. Ma a quella data Ranieri non era più in laguna. Aveva fatto ritorno a Siena e inviato qualcuno a sostituirlo.

Uomini nuovi in compagniaToccò a uno dei suoi tre figli maschi subentrare nella gestione degli affari della compagnia: dal primo giugno 1258 rappre-sentava la societas nella zona, con sede a Cividale, Arriguccio di Ranieri, andando a raggiungere Tiberio Altoviti e Folenio Tebaldini che operavano già nella regione come fattori. Rilasciando ad essi – che ricevevano, dicevano, a nome di

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Ranieri di Rustichino – dichiarazione di essere stato preposto “ad omnia et singula negotia facienda, tractanda et procuranda in civitate Venetie et toto patriarcatu aquilegense et aliis qui-buscumque lociis et mundi partibus” Arriguccio prometteva, mani sul vangelo e sul collo una pena di 1.000 marche, di con-durre gli affari “sine fraude et fideliter”, di agire per gli interessi della compagnia ricusando qualsiasi “proprium lucrum” e di rendere ragione della sua gestione ai soci dopo quindici giorni dalla scadenza del mandato 27.Nel corso degli anni successivi due nuovi membri della fami-glia affiancarono Arriguccio nella regione friulana: i figli di Alamanno. Di un primo coinvolgimento di Roma di Alamanno negli affari della compagnia è testimonianza un atto del di-cembre 1262 28 al quale fece seguito quello documentato in un contratto del 1264 del fratello Bernardino: quando infatti a Cividale il fattore della societas, Tiberio Altoviti consegnando “uno quaderno bambagino” a Provenzano di Ranieri che già lavorava per conto dei banchieri senesi, lo autorizzò a riscuote-re “in Foroiulio” i crediti della compagnia che lo stesso Tiberio aveva mandato di esigere a nome e per Ranieri di Rustichino, suo fratello Gabriello “et societate eorum”, fu a Bernardino Piccolomini, in rappresentanza dei consorti, che Provenzano giurò “eorum debita exigere, […] procurare omnia negotia, […] agere ad eorum voluntatem et profictum, et de omnibus reddere rationem” 29.Un’altra presenza, frutto di una nuova immissione nel corpo di società, intervenne nel 1270 a modificare l’organigramma degli uomini che operavano in Friuli. Il nuovo arrivato, esterno al lignaggio, si chiamava Ildebrandino ed era figliolo di Buonfiglio Gallerani. Quattordici anni prima, l’8 febbraio 1256 Ranieri di Rustichino e suo fratello Gabriello, con il consenso del padre, si erano impegnati ad accettare nella loro società il Gallerani con l’accordo che il primo giorno del gennaio successivo egli avreb-be versato una somma di 660 lire nelle casse della societas. Promettendo in tale termine di far ratificare agli altri soci l’av-

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venuto versamento, i Piccolomini avevano giurato a Buonfiglio di far lucrare il suo capitale “ut nos lucrabimur, sicut tetigerit et lucrabitur quilibet pro rata sua”, fissando il suo ingresso nella società ad una data che con tutta probabilità doveva coincidere con la fine di un esercizio sociale e l’inizio di un altro 30. A gen-naio del 1257 Buonfiglio diventò, secondo i patti, socio a tutti gli effetti perché nel settembre di quell’anno si costituì debitore di un mercante senese insieme ai soliti Rustichino di Ranieri e fratello per una somma di 143 lire che dovevano servire, disse-ro, “pro comune negotio societatis nostre” 31.Anni trascorsero: Buonfiglio fece pratica negli affari a Siena 32 e il fratello di lui Gallerano diventò anch’egli parte della com-pagnia 33. Finché fu tempo di partire. Era il settembre 1270 e Ranieri di Rustichino, ormai vecchio, lo invitava a recarsi a Cividale per chiedere a Tiberio Altoviti, l’agente che da tempo seguiva gli affari per la compagnia nella zona, “omnes denarios et specialiter totam pecuniam […] quam [Tiverius] exiguisset in Forumjulii pro dominis Rainerio Rustichini et Gabriello, pro ipso Ildebrandino Bonfilii […] et pro societate eorum”, e lui, raccontava lo stesso Gallerani a Tiberio, aveva garantito che avrebbe ritirato i guadagni e li avrebbe consegnati al vecchio Ranieri di Rustichino e al fratello entro tre giorni dal suo ritor-no a Siena, dunque, continuava, era pronto ad assumersi ogni rischio e pericolo connesso al trasporto dei denari, ma se l’Al-toviti non avesse voluto affidarglieli, pazienza, niente di meglio, ne sarebbe stato ben felice (“de hoc gauderet”), come anche se avesse deciso di inviarli tramite altri agenti (“etiam gauderet”); in quel caso però voleva sapere a chi Tiberio avrebbe affidato il contante e di quanto contante si trattava. Ma che motivo c’era di opporsi alla decisione presa dall’azienda?, che Ildebrandino facesse pure quel che era venuto a fare, rispose l’Altoviti 34. E così andò.

Ragioni di una presenzaCon il dialogo avvenuto in un giorno di fine estate 1270 a

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Cividale fra Ildebrandino di Buonfiglio Gallerani e l’agente, cala il buio documentario sugli affari della compagnia nella re-gione. Affari nella loro complessità refrattari ad ogni tentativo di ricostruzione che miri ad andare oltre la definizione dei rap-porti con il vertice ecclesiastico, ché la rarefazione documen-taria condiziona negativamente la possibilità di esprimere in termini quantitativi il peso e la qualità dell’intervento economi-co dei Piccolomini nel circuito friulano e, più generalmente, la-gunare. A parte le operazioni di prestito svolte con i patriarchi, rimangono dunque oscure le strade che presero i capitali della societas: si può ipotizzare prevalentemente quella finanziaria perché gli unici contratti disponibili a far luce su questo quadro mostrano lo svolgimento di operazioni di cambio, con la pre-ferenza all’acquisto di moneta veneziana da pagare in madre-patria in denari senesi 35; si può ipotizzare perché soci, fattori o agenti appaiono impegnati esclusivamente nella riscossione di crediti e mai vengono menzionate compravendite di merci (ma è anche vero che mai viene esplicitata l’origine di questi diritti di credito) 36; si può ipotizzare infine per analogia, perché tale cioè sembra essere stata la vocazione delle grosse compagnie toscane che stabilirono nel Friuli proprie sedi di rappresentan-za tra Duecento e Trecento.Ma sono, appunto, ipotesi.Gli studiosi che si sono occupati di valutare l’impatto che l’immigrazione toscana di uomini e capitali ebbe sul tessuto friulano 37, hanno distinto due circuiti in cui tale presenza si concretizzò: ad un flusso migratorio che si indirizzò sull’atti-vità finanziaria, feneratizia e commerciale di piccolo e medio raggio con l’attitudine a stanziarsi stabilmente nelle città che lo aveva ospitato, fece riscontro un flusso di diverso marchio che interessato esclusivamente ad agire sui principali cespiti di guadagno del patriarcato (l’appalto delle mude; lo sfruttamen-to di concessioni patriarcali per il legname, la pece, i minerali; le attività di coniazione e di emissione della moneta) ebbe come unico referente economico il presule aquileiese (o grossi enti ec-

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clesiastici), e proprio alla necessità di una presenza più costante alla sua corte – o nelle sedi in cui si dovevano svolgere man-sioni di tipo pratico e organizzativo – sacrificò il carattere di occasionalità che aveva caratterizzato agli inizi la sua presenza nella regione, a favore di uno stanziamento più stabile. Uno stanziamento comunque limitato alla durata delle operazioni che era andato a svolgere 38.Ora se non è dubbio che Ranieri di Rustichino e la sua societas furono parte dell’élite finanziaria che a partire dalla metà del Duecento entrò in rapporti d’affari con il patriarca sfruttando-ne le connesse possibilità di guadagno e che probabilmente a tali rapporti commise la creazione nel territorio di alcuni punti operativi, alcuni elementi suggeriscono un inserimento nel tes-suto socio economico della regione che andò oltre questi confi-ni. Se al 1249, anno del primo contratto con il presule Bertoldo, la societas aveva già una propria sede a Venezia, segno che il suo stabilirsi nell’area fu antecedente all’inizio dei rapporti con il vertice ecclesiastico, sappiamo anche che la fine dei rappor-ti con il presule non comportò lo smantellamento della rap-presentanza commerciale, perché nonostante gli affari con la corte si sviluppassero in un lasso di tempo comprendente gli anni 1249-1255, tracce documentarie successive mostrano che Ranieri, suo figlio Arriguccio, agenti e nuovi soci, erano attivi a Cividale e Venezia ancora certamente fino al 1270.La prospettiva di lauti guadagni con il dignitario ecclesiasti-co agì senza dubbio in maniera prepotente nella decisione del banchiere di partire e di investire lì parte delle sue risorse finan-ziarie, ma la forza di attrazione esercitata dalla regione non si esaurì dunque nell’orizzonte di quella prospettiva e nel giro del ventennio che la vide maturare: arduo tuttavia penetrare nelle minime fessure delle opportunità che una terra priva di concor-renza organizzata, situata in una posizione geografica strategi-ca, così com’era a fare da corridoio fra Adriatico e Germania, sapeva dispensare al banchiere.Ranieri di Rustichino non viaggiò da solo. E a volte la fortuna aiuta a vedere mondi destinati altrimenti a rimanere sconosciu-

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ti: due uomini, suoi congiunti, anche se soltanto a tratti e per poco, anche se sulla cresta di un’onda temporale che ci sbalza in avanti di qualche decennio, qualche decennio che conduce al nuovo secolo, due uomini, dicevo, la cui vicenda interseca la vita di Ranieri esattamente nello stesso punto, il Friuli, ci testi-moniano e ci parlano di come poteva andare a finire in quella terra, l’avventura del mercante. La prima immagine è quella di Ristoro Piccolomini, sta morendo, ha scelto di vivere e di morire a Cividale, niente sappiamo di come è vissuto, adesso è il 1310 e prima di lasciare il mondo dispone cospicui lasciti a favore delle chiese della città, non sappiamo come ha vissuto ma a Cividale deve aver fatto fortuna se alle spalle c’è tanta ric-chezza che rende possibile tanta pietà, tanta pietà che guadagna tanto onore, e lui sarà ricordato come un grande benefattore della Chiesa locale, e poi un altro nome, Bartolomeo, dietro il suo nome un’altra storia, una storia al suo epilogo, è già morto, ha condotto una vita da banchiere, una vita e un lavoro, fra Siena il Friuli, che gli hanno fruttato un credito di oltre 12.000 marche d’argento verso notabili famiglie friulane, adesso però rischia di andar tutto in fumo, è il 1313 e la sua eredità è al centro di un procedimento esecutivo da parte del Comune di Cividale per usure non restituite 39, non sappiamo come andrà a finire, ma al figlio ed erede Salomone, Bartolomeo sarà co-munque in grado di lasciare i suoi immobili e le sue terre, tanti immobili e tante terre, non sappiamo come le ha messe insieme, tante terre e tanti immobili in provincia de Frioli che nel 1318 saranno valutati più di dodicimila lire 40.Frammenti, niente altro che frammenti il cui riverbero accende l’intreccio di possibilità, interessi, legami che potevano sedi-mentarsi in terra friulana, ben più che il desiderio di sfruttare una prospettiva di vantaggio economico a breve o medio ter-mine.

A SienaSiena, durante tutto il periodo in cui sono documentati gli affa-

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ri in quella regione, in zona lagunare e alla corte patriarchina, svolse un ruolo di raccordo tra gli uomini impegnati nelle di-verse piazze: centro operativo, sede degli accordi societari che creavano unioni funzionali con operatori o rappresentanti di compagnie differenti 41, luogo e termine in cui affari trattati altrove arrivavano a conclusione. Se nella prima fase documen-tata delle attività bancarie dei Piccolomini non va sottovalutato il ruolo che in questo senso potrebbe aver giocato Roma, e più esattamente la curia pontificia, cuore e motore delle faccende fi-nanziarie che collegavano i mercatores senesi a prelati e sovrani di tutta Europa, e se nel quadro delle operazioni collegate allo scacchiere internazionale in cui essi si muovevano nelle prime decadi del XIII secolo, la madrepatria ebbe – sia per capacità propulsiva che di raccordo – solo un’importanza secondaria subordinata forse a quella delle fiere stesse, in questo momento è su Siena che fa perno la societas.L’architettura aziendale faceva perno su una sede centrale a Siena, su una direzione 42, su fattori e agenti inviati nelle diver-se piazze dove la compagnia agiva 43; essa su termini periodici veniva rinnovata, nuovi soci potevano entrare a farne parte, altri ritirarsene 44; a seconda del vento che tirava, del tipo di operazioni svolte, del rischio connesso a tali operazioni, veni-vano stabilite connessioni e collegamenti con altre compagnie e con altri operatori che vediamo provenire da Siena, da Venezia o da Rimini 45.I documenti lasciano scorgere un canale di comunicazione tra Siena e i territori del nord, un corridoio percorso nei due sen-si da un flusso intenso e continuo di uomini e denari che an-davano e venivano secondo un programma che trovava il suo punto fermo in città: da qui partivano agenti, fattori e soci per raggiungere le diverse sedi di rappresentanza 46, da qui erano impartite le direttive 47, qui dovevano fare ritorno i guadagni e qui ovviamente si tiravano i bilanci, si scioglievano le com-pagnie al termine di ogni ‘saldamento generale’, si mutavano le ragioni sociali accettando nuove immissioni di soci e capi-

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tali come la vicenda di Ildebrandino e Gallerano Gallerani in-dica 48. La madrepatria era insomma il punto di raccordo di una rete che si era sviluppata in una dimensione interregiona-le, comprendente a mano a mano anche nuove postazioni, che univa Siena a Firenze, Firenze a Pisa, Pisa a Padova, Venezia, Trieste e Cividale.I banchieri alternavano la loro presenza secondo calcoli di op-portunità e di operatività ora nelle sedi della compagnia spar-se nel territorio, ora in città, tornando spesso però a chiudere nella città d’origine molte delle operazioni aperte su piazze esterne con partner senesi: il contratto di cambio stipulato da Ranieri di Rustichino a Venezia nel maggio 1257 con i con-cittadini Buonaventura di Agostino, Aringherio di Orlando e Ranieri Folcacchieri, rappresentanti di due compagnie associa-te, prevedeva che i Piccolomini pagassero a Siena e in mone-ta senese le 25 lire di veneziani grossi che avevano comprato per soddisfare il bisogno di liquidità in laguna 49 e allo stesso modo identiche operazioni cambiarie fatte l’anno successivo con Buonfiglio di Bolgarino e Vineldo di Cortona e i soci di Rolando Buonsignori fissavano il rimborso dei debiti nella co-mune terra d’origine entro termini che variavano da 15 giorni ad un anno 50. Operazioni simili si svolsero sulla piazza di Pisa nel 1260 51, e di nuovo a Venezia due anni più tardi 52.Tra 1255 e 1262, una serie di contratti di mutuo, frutto di sti-pulazioni diverse che indebitavano i soci, “pro comune negozio societatis nostre”, generalmente per piccole somme, stipulati sia dal padre di Ranieri, Rustichino, che evidentemente non aveva mai lasciato la città, sia dallo stesso Ranieri, dopo che ebbe fatto ritorno a Siena, e dai suoi fratelli 53, oltre ad un ma-nipolo di charte chonfessionis attestanti debiti della società che nulla dicono però riguardo all’origine della loro accensione 54, rappresentano il prolungamento su scala cittadina dell’attività della compagnia. Accanto ad essi emergono però alcune tran-sazioni condotte insieme ad altre società mercantili aventi per oggetto l’acquisto di prodotti tessili. Un piccolo, prezioso, ma-

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nipolo di carte che rende possibile attribuire alla societas dei discendenti di Ranieri anche un carattere commerciale.

Nel commercio di panniFino al 1259, data della prima transazione, nessun indizio dello svolgimento di pratiche di mercatura lasciava connotare l’in-tervento dei Piccolomini di un significato mercantile: si poteva ipotizzare perché la presenza alle fiere della Champagne già nei primi anni Venti del Duecento dove confluiva la grande pro-duzione di stoffe fiamminghe, faceva pensare che essi avessero approfittato dell’occasione offerta da questa piazza per la com-pravendita di panni o spezie; si poteva ipotizzare sulla scia di quanto avevano fatto altre compagnie che entrate in relazioni creditizie con i presuli di Aquileia non avevano rinunciato ad intrattenere con la corte anche rapporti squisitamente commer-ciali 55; si poteva ipotizzare perché la presenza nella laguna e gli acquisti di moneta veneziana attestati fino al 1262 facevano pensare che essi avessero còlto tutte le possibili articolazioni finanziarie e commerciali di quella piazza, trampolino verso il mondo austriaco e verso l’Oriente: ma erano appunto soltanto ipotesi.I primi due contratti che invece testimoniano di questo indi-rizzo degli affari datano 6 ottobre 1259 e sono rogati a Siena dove Ranieri di Rustichino e il fratello Tolomeo, in accordo societario con Manno di Giordano e Davanzato di Borgo San Sepolcro abitante a Rimini, comprano da alcuni mercanti una partita di panni: quindici “petias” di diverse fogge e colori pro-venienti da Chalons, Arras, Provins, per un costo totale che sfiora le 400 lire 56. Nell’anno seguente con atto di procura in favore di Buonfiglio di Bolgarino le due società delegavano il mercante “ad emendum et recipiendum pannes cuiuscumque maneriei et coloris et valoris et pretii” tanto da mercanti fioren-tini che pisani e pistoiesi fino ad una spesa di 1.500 lire 57: ma dell’attività di Buonfiglio rimane purtroppo solo una traccia che ce lo mostra tre giorni dopo la sua nomina a Firenze, “in

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fondaco filiorum Falconi”, intento a stipulare un contratto di acquisto da alcuni operatori fiorentini per il prezzo di 98 fiorini piccoli 58.Nella primavera del 1261 Ranieri e i suoi erano rimasti soli nel commercio tessile: a questa data sono il fratello Gabriello e il socio Ildebrandino Gallerani a scegliere e contrattare sul prezzo una partita di 32 “petias” di panni bissi, stamiforti, viri-dis, mosteruoli, verdelli, sanguinis, blavi e bruni provenienti da Parigi, Ypres, Arras, Chalons 59. Probabilmente a questo punto ritenevano di poter fare a meno dell’esperienza e dell’appoggio di altre compagnie per operare con profitto nel settore.

Quale importanza rivestirono gli affari legati allo smercio dei panni nel complesso delle attività e per le tasche di Ranieri di Rustichino e della sua famiglia, queste carte non possono dirlo: troppo magre per tessere una storia quantitativa. Ma rimane il dato. Che se accostato ad una testimonianza molto più tarda può diventare rivelatore.La testimonianza è una lettera inviata ai soci di Siena da un fattore della compagnia che si trovava nella Champagne nel maggio 1294 60. Pietro Dietaiuve, questo il suo nome, indiriz-zando la missiva a Pachino di Ranieri e Cione di Bartolomeo Piccolomini, informava dettagliatamente circa la “vestita di panni” che aveva fatto alla fiera di maggio di Provins per il tramite di una compagnia di Spoleto. Nella lettera il fattore annotava e descriveva in 34 registrazioni tutti i prodotti acqui-stati, il numero dei pezzi, la loro origine, la tipologia, il prezzo d’acquisto, il nome dei venditori.I prodotti comprati – centonovantasette pezzi per un costo complessivo di 1.653 lire tornesi a cui andavano ad aggiun-gersi, in un conto separato, trenta “peze di stamegna” e otto “sargie” pari a un valore di 30 lire tornesi – arrivavano dalla Fiandra fiamminga (Gand, Poperinghe, Ypres), da quella fran-cese e dall’Artois (Arras, Douai, Lilla, Orchies), dai domini regi (Parigi, Montreuil, Beauvais), dalla Champagne (Lagny,

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Chalons, Provins, Reims) ed erano riconducibili a ben 41 tipo-logie. Ce n’erano di tutti i tipi e per tutti i gusti, in un arcoba-leno di tinte e di disegni: fistachini, biffe, stanforti, persi, panni tinti a color di Doagio, marchati, verghati – nelle variazioni locali di Lagny, Gand, Poperinghe, Ypres –, meslati, color chap-pa di cielo, verdoli a vermiglio, morro a dili verde, porpore a vermiglio, sbiadati, bioi – nelle tonalità chiari, “azurini” e “ce-lestrini” –, verdi encri e smiraldini.Una scomposizione per luogo di produzione calcolata in base al numero dei pezzi e al prezzo d’acquisto sul totale della par-tita dei panni (235 pezzi) e sui soli tessuti (197), mostra l’im-portanza rivestita dalla produzione della Champagne che rap-presenta più della metà della merce acquistata 61. Le Fiandre, al contrario, comprendendo in esse anche l’Artois, non ne forni-scono che un terzo ma di una qualità indubbiamente superiore a quella degli altri manufatti tessili: il rapporto tra numero dei pezzi e costo ci dice infatti che i prodotti migliori arrivano dal-la Fiandra francese e l’Artois (con un costo medio al pezzo di 9,8 lire) seguita dalla fiamminga (7,8 lire) per un valore totale che arriva a sfiorare il 40% del totale. Un’occhiata alle cifre relative alla Fiandra fiamminga e al dominio regio è partico-larmente rivelatrice a questo riguardo perché per un numero di panni inferiore (28 contro 33) la prima ha un valore superiore alla seconda del 3% (12,8 % contro 9,7%). All’interno della Fiandra fiamminga è Ypres a giocare la parte del leone (82%) e mentre Gand e Poperinghe sono rappresentate da quantità davvero esili, spicca l’assenza di Bruges che sull’onda di una fortuna crescente, favorita dai più importanti e diretti rapporti con l’Inghilterra, si avviava proprio in questi anni a eclissare gli altri centri.Nella Fiandra francese e nel dominio dei conti di Artois i panni di Douai sono i migliori (costo medio al pezzo di 14,3 lire) seguiti da quelli di Lilla (11,3 lire) che sta in cima alla classifica dei luoghi di produzione con una partita di 13 pezzi, quelli di Orchies, piccolo centro di produzione che conferma qui il

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suo ruolo di grande esportatore, e dagli “stanforti” di Arras. I valori relativi al dominio regio indicano Montreuil, sede di un’industria tessile abbondante ma di qualità medio-bassa (4,5 lire è il valore medio dei panni e a fronte di un’incidenza in ter-mini quantitativi dell’8,8% sul totale, il valore corrispondente si attesta sul 5,1%) di poco inferiore ai prodotti di Beauvais (5,7 lire tornesi il costo medio). Ma ciò che viene fuori con net-tezza è, come dicevo, la grande incidenza in termini quantitativi e qualitativi della produzione della Champagne, che da sola fornisce quasi la metà dei panni acquistati, e particolarmente di quella di Chalons, 65 pezzi (un terzo di tutti i manufatti tessili) per un costo di 539 lire, comprati da undici fornitori di-versi: “Perisone di Churi”, “Raullo di Granvilla”, “Rausino di Ciabarlando”, “Odinotto di Marzone”, “Perisone del Tempio”, “Giasone Piti”, “Robino”, “Giani lo richiuditore”, “Roberto di Suppa”, “Tieri di Villanuova”, “Giachessone Grosso Zano”, con grande varietà di tipologie e prezzi, panni verde inchio-stro, verde smeraldo, verdi-azzurri, turchini e fustagni, per un insieme che pare essere della migliore qualità perché come nel caso di Douai, uno dei migliori centri di Fiandra, anche qui la percentuale in valore è superiore a quella in quantità (3,4% contro 6,8% nel primo caso, 27,6% a fronte di un 32% per Chalons).Il dato va messo in relazione con lo sviluppo dell’industria tessile champenoise attestato in questi decenni di fine secolo: un’industria decollata grazie al contatto con le fiere commer-ciali che consentendole di accedere ad una materia prima – la lana – che scarseggiava nel nord ed era invece abbondante nei mercati del sud della regione, favorirono la sua affermazione fino a farla entrare in concorrenza con l’industria delle Fiandre a cui si sostituì gradatamente a mano a mano che la crisi po-litica che avvolgeva questo paese diradava la sua capacità di penetrazione nei mercati esteri. La lettera di Pietro si colloca cronologicamente al centro di una trasformazione epocale che interessa il mercato europeo, a partire proprio dai mutamenti

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che investono in questo periodo le fiere, diventandone al tem-po stesso, in qualche modo, espressione: la cospicua presenza nella partita comprata dai banchieri senesi della componente imputabile alla produzione locale, avvenuta sostanzialmente a danno delle importazioni dalla Fiandra francese e dall’Artois, se segna infatti il decollo della manifattura di Chalons, Provins, Lagny, tradisce al tempo stesso il venir meno di una dimensione ‘internazionale’ delle fiere stesse e di una loro regionalizzazione sotto l’aspetto mercantile.È il primo segnale della crisi che si farà chiara nelle decadi ini-ziali del Trecento, quando la decadenza della Champagne come centro propulsore e di raccordo degli affari, area privilegiata dei traffici commerciali e finanziari internazionali è fatto com-piuto 62.Ma al di là delle considerazioni più generali a cui la missiva di Pietro spinge, ciò che interessa qui sottolineare è un aspetto che si lega più specificamente all’attività dei Piccolomini. La presenza di un fattore della societas, non meglio determinata ma di cui fanno parte due esponenti del lignaggio 63, alla fiera di maggio di Provins del 1294 permette non solo di fissare una loro presenza nel circuito internazionale lunga almeno un set-tantennio 64, prolungando contemporaneamente almeno fino a questa data i termini di durata di un impegno familiare nel settore – al contrario dell’affermazione comune che indicava negli anni Sessanta del Duecento il ritirarsi dagli affari 65 – ma anche di valutare l’ipotesi che le operazioni nel settore com-merciale, e più propriamente nella compravendita di prodotti tessili, non abbiano costituito solo fatti episodici: è possibile infatti che una linea di congiunzione inserisca in un processo di continuità i primi passi documentati delle attività di com-pravendita, quelli che nel 1259 timidamente muoveva da Siena Ranieri di Rustichino acquistando due panni blu e un panno verde di Chalons, un panno stanforte blu di Provins, un panno camellino e un panno mosterolo bloie di Francia, fino agli ulti-mi e ben più consistenti acquisti di Pietro fattore, nel 1294, che

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suggeriscono un consolidamento degli investimenti nel settore.La “vestita” di cui Pietro dà conto non era stata la prima né sarebbe stata l’ultima di simili operazioni svolte alle fiere: altre, sempre per il tramite della compagnia spoletina, l’avevano pre-ceduta e altre, come raccontava Pietro, l’avrebbero seguita: se-gno che il commercio di panni in madrepatria dava i suoi frutti. In ogni modo niente andava lasciato al caso, meglio salvaguar-dare la fortuna e gli affari, e dunque, ammoniva il fattore nel salutare i compagni, preghiamo lo Nostro Signore Gesù Cristo e la Sua benedetta Madre, madonna santa Maria que questa vestita e quante ne sono fatte e se ne faranno per innanzi, ne conducha tutte a salvamento e diecene guadagno que sia buono per l’anima e per lo corpo. Amen” 66.

La politica

Lo slittamento: dalla fedeltà all’impero al grembo di Urbano IVSu tutto questo, un’attitudine: quella alla mobilità. Se è impossi-bile valutare esattamente i termini di durata dei soggiorni fuori patria di Ranieri di Rustichino e di quei consorti a cui l’attività di banco e di commercio impose temporanee emigrazioni, le indicazioni sul numero delle presenze nelle piazze europee o nelle città della penisola, sono sufficienti a convalidare l’idea di un flusso di uomini che per periodi diversi e variabili lasciò la madrepatria 67. Per loro assentarsi temporaneamente dalla città nel corso della propria vita lavorativa fu la consuetudine, non limitando affatto questa necessità la possibilità di intervento nella dimensione pubblica comunale.Ranieri di Rustichino che aveva trascorso lontano gli anni 1249-1257 fa ritorno a Siena in qualche giorno imprecisato del 1257. E qui trova il padre, che da Siena, invece, probabilmente non si era mai allontanato: Rustichino negli anni in cui il figlio segue gli affari in Friuli, si dedica con grande slancio all’attività

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politica e amministrativa del Comune popolare e ghibellino, è ufficiale, consigliere, emendatore dello statuto comunale, prov-veditore di Biccherna, e ovviamente console della sua arte 68. Ma contemporaneamente tiene in mano le redini della societas familiare e non abbassa la vigilanza sui suoi interessi. Ed è a questi interessi di matrice mercantile finanziaria che dobbiamo guardare, se vogliamo comprendere le ragioni della scelta ma-turata pochi anni più tardi, nel 1262, che porterà Ranieri e suo padre, insieme ai loro congiunti e a molte altre famiglie senesi ad abbandonare la loro tradizione ghibellina, volgendo le spal-le alla patria e al governo popolare dei Ventiquattro.Benché non sia affatto possibile pensare che l’adesione del ca-sato alla politica filoimperiale del Comune fosse dettata du-rante le prime decadi del XIII secolo da una fede incrollabile nell’ideologia ghibellina, che al contrario offriva soltanto, ben più concretamente, alla città l’ambito entro cui tutelare meglio i propri interessi, compresa la necessità di difendersi dalla guel-fa vicina Firenze 69, e ai Piccolomini gli strumenti per afferma-re e incrementare la propria ricchezza e il proprio prestigio, è tuttavia innegabile che la fisionomia della famiglia fino a quel fatidico 1262 si caratterizzò, a livello dell’agire pubblico, per fedeltà e partecipazione al governo ghibellino. Senza ombra di cedimenti.A partire dagli ultimi anni della terza decade del Duecento, ter-mine che coincide più o meno con la nascita della magistratura dei Ventiquattro priori 70, e durante i decenni successivi, anni di affermazione del regime popolare, i Piccolomini benché non risultino aver fatto parte del supremo organo comunale, furono costanti referenti del vertice politico per lo svolgimento degli incarichi più diversi: uffici di Biccherna, ambasciate, commis-sioni incaricate dello svolgimento di affari economici e giudi-ziari, revisioni di statuti comunali e delle arti, rifornimento di vettovaglie, reperimento di denari per il Comune, assoldamen-to di militi e pedoni per l’esercito, alliramento dei beni a sco-po fiscale, revisione dei lavori pubblici, supervisione all’igiene,

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munizione dei castelli dello stato, partecipazione a spedizioni di guerra, capitanati, acquisti di terra per il Comune, riscossione delle tasse nel contado, elezione dei podestà, cancellierato 71.La vicenda pubblica del padre di Ranieri, è esemplare: nel mag-gio 1246 il suo nome è tra gli ufficiali del Comune nominati a rivedere le ragioni degli operai addetti alla smattonatura delle vie cittadine, tre anni più tardi riceve incarico di controllare le fonti comunali, con l’aiuto di quattro maestri, e di sovrintende-re all’ordine e all’igiene pubblica, ruolo che gli concede compe-tenze “super inveniendis furibus et furtis, et super viis siliciatis spaczari faciendis, et super mulieribus filantibus per civitatem, et super fancellis trainantibus pannos, et super illis qui prohi-cerent aquam vel putredinem de palconibus in viis publicis, et super illis personis qui redirent alta voce plangendo postquam mortuus fuerit sepultus, et super illis qui se exmantarent ad mortuos, exceptis qui portarent, et super aliis multis officiis”. Poi, dalle questioni urbanistiche alla parola scritta e alla cultu-ra giuridica: partecipa alla balìa di emendatori del liber iurium e dello statuto, e poi di nuovo dai registri al maneggio del dena-ro: la competenza negli affari è evidentemente veicolo di stretto collegamento con il Comune che gli dà mandato di decidere le modalità con cui affittare la Selva del Lago, di proprietà pubbli-ca, e provvedere alle paghe da darsi ai soldati; nel 1255 arriva alla tesoreria e nel 1258 è tra i quindici sapienti preposti “ad inveniendum et ordinandum quomodo comune senense posse habere pecuniam pro expediendo debitum comunis” 72.Un percorso, parte di un processo di affermazione socioecono-mica che interessa in questo torno di tempo molti uomini della famiglia, e che significativamente troverà il suo approdo e la sua dorata consacrazione nel titolo di miles con cui Rustichino è indicato per la prima volta nel 1257 e di cui ben presto anche il figlio Ranieri e l’altro figlio Gabriello verranno onorati 73.L’ingresso nel cerchio magico della cavalleria cittadina, da parte del vecchio Rustichino e dei due figli, sancisce certamente una posizione di censo ma anche contemporaneamente una aspira-

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zione, una rivendicazione “all’esercizio del potere fondata sulla qualità personale e familiare” che nel giro di pochi anni fornirà base all’esclusione dal vertice di governo del ceto magnatizio individuato proprio grazie al cingolo cavalleresco 74: ma ora la militia cittadina, la cui importanza cresce di pari passo alle necessità belliche del Comune, segna l’ingresso di homines novi al vertice sociale, li assimila e li accomuna agli esponenti an-cora in auge della vecchia nobiltà, funzionando da elemento di precisazione e definizione del ruolo dei gruppi aristocrati-ci all’interno della città, e tutto ciò in forte sincronia con un processo, di segno opposto, che vede crescere l’organizzazione popolare 75.L’istituzione dei Ventiquattro era stato lo sbocco politico di un’istanza di gestione unitaria della cosa pubblica espressa da quanti privi di una fisionomia cetuale, di una discendenza gene-alogica e di un ruolo ab antiquo nel governo della repubblica si andavano strutturando sempre più decisamente in una compa-gine di forte impianto territoriale – le società delle Armi 76 – e professionale – le corporazioni di mestiere – assai diversa dal populus del primo Duecento: contenitore che comprendeva, in un tutto indistinto, il complesso della cittadinanza, ma che in-vece ora venne assumendo una decisa natura politica e si avviò a dare luogo ad un regime parallelo a quello che reggeva la città, con la creazione di propri istituti, propri consigli e propri magistrati. Tra i quali il Capitaneus Populi et Comunis, la cui nascita fissata proprio in questo scorcio di secolo, manifesta fin nel nome la volontà di porsi, al pari del Podestà, a rappresen-tanza degli interessi non di una pars ma dell’intero Comune 77.Crescita del ruolo dei “milites” dunque e, contemporaneamen-te, crescita politica di nuovi gruppi. Ma i primi, il cui numero aumentava mano a mano che il Comune si avocava quell’in-tervento nella creazione del cavalierato che era stata preroga-tiva imperiale, non tradussero il loro consolidamento in una chiusura. Né i secondi pensarono di poter affermare le istanze di cui erano portatori defenestrando la classe dirigente comu-

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nale. Capitanato e Ventiquattro priori aprirono il loro ingresso a elementi della nobiltà 78 e in intimità di rapporti con elementi appartenenti all’élite finanziaria cittadina furono le corporazio-ni di mercanti e cambiatori 79: non costituiva un’eccezione la presenza del padre di Ranieri, il miles Rustichino Piccolomini, tra i consoli dell’arte. In definitiva, parallelamente ad un allar-gamento delle basi del potere a favore di quelle forze nuove che ambivano a presentarsi come forma di rappresentanza politica complessiva, la componente aristocratica giocava un ruolo im-portante nel promuovere tale processo 80.Questa collaborazione, questa spartizione delle cariche comu-nali, questa forma di “equilibrato compromesso” 81 tra gruppi popolari e nobiliari così chiaramente visibile nelle vicende della prima metà del secolo, trovò occasione e strumento di rafforza-mento nelle alleanze matrimoniali la cui attuazione possiamo leggere di nuovo attraverso la vita di Ranieri di Rustichino ed ha il volto dell’unica sua figlia femmina, Lucia, andata in sposa a Baroccino di Bencivenne, figlio di un membro popolare dei Ventiquattro priori 82.Rafforzato da unioni matrimoniali ma non per questo privo di tensioni e di fratture – sbaglieremmo ammonisce Sestan a vedere “tutto in idillio l’emergere del populus” – questo sfor-zo congiunto di costruzione statuale doveva ben presto essere incrinato da una complicazione, conseguenza dello scontro in atto che vedeva opporre nella penisola Papato e Impero e i rela-tivi schieramenti di città e potentati nelle coordinazioni guelfe e ghibelline.Siena aveva riconosciuto in Manfredi di Svevia il legittimo successore alla corona dell’Italia Meridionale. E a Manfredi si era rivolta per ottenere gli aiuti militari necessari a far fronte alle rivolte scoppiate in Maremma, per tornare in possesso dei castelli di Staggia e di Poggibonsi, riprendersi i diritti che ave-va dovuto cedere a Firenze su Montalcino e Montepulciano. Quando poi l’esercito fiorentino, in risposta all’attivismo mi-litare dei senesi, si era volto contro la città nell’agosto 1260

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con una forza di 15.000 armati e l’aiuto degli alleati guelfi di tutta Toscana, provvidenziale si era rivelato l’intervento tattico del condottiero Giordano d’Anglano, cugino e vicario del re, che messosi a capo delle truppe ghibelline senesi rinforzate da una squadra di cavalieri mandati da Manfredi, da molti fuo-rusciti di fede ghibellina e dal contingente al seguito del conte Aldobrandino di Santa Fiora, aveva sbarrato il passo all’avan-zata dei fiorentini dando il via a una battaglia destinata a rima-nere indelebile nel ricordo dei posteri.Ma chi quella mattina del 5 settembre 1260 salutò con entu-siasmo le truppe senesi reduci da Montaperti – il colle poco di-stante dalla città dove l’esercito aveva ottenuto la meglio sulla guelfa Firenze – non poteva indovinare che ciò che sembrava preannunciare tempi memorabili era invece l’inizio di una crisi profonda che avrebbe di lì a poco investito la città 83.Se infatti gli effetti immediati della vittoria furono positivi per-ché Montalcino si piegò al dominio di Siena, Montepulciano le fu donata da Manfredi, Firenze fu costretta ad un trattato di pace ratificato nel gennaio 1261 che prevedeva la cessione di Mensano e Casole e la rinuncia a ogni pretesa su numerosi altri castelli 84, e perché infine grazie a questa vittoria Siena si trovò a capeggiare la lega toscana conclusa il 28 maggio 1261 per consolidare il predominio filoimperiale nella regione, la dura reazione della sede apostolica che esigeva dai senesi il ripudio del giuramento fatto a Manfredi pena l’interdetto, gettò una luce minacciosa sul futuro della città.Il primo monito di papa Alessandro IV, che arrivò il 18 no-vembre 1260, era rimasto inascoltato 85. Ma l’azione del suo successore Urbano IV che salito al soglio pontificio nell’agosto 1261 rinnovò la sentenza di scomunica dando alla sanzione ec-clesiastica un significato economico, fece scoppiare la contrad-dizione. Decretando la cancellazione dei debiti dei mercanti se-nesi 86 Urbano era consapevole di colpire nei loro interessi ban-cari e commerciali larga parte dell’élite economica di impianto internazionale residente in città: esonerando prelati e sovrani

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cattolici dell’Inghilterra, delle Fiandre, della Champagne, della Francia o della regione tedesca dagli obblighi di pagamento verso le compagnie senesi attive in questi paesi, Urbano con-tava di portare dalla sua parte i banchieri e costringere la città alla resa. I banchieri dal canto loro avvertirono immediatamen-te tutta la pericolosità dell’intervento papale. Un membro della societas dei Tolomei che si trovava a svolgere i suoi affari alla fiera di Troyes in quel torno di tempo, descriveva preoccupato la fuga di molti operatori senesi dalle piazze d’oltralpe, le dila-zioni di conventi e monasteri, la difficoltà nell’affrontare viag-gi senza salvacondotti, il timore di sequestri e i Salimbeni che avevano spedito nel 1260, con un contratto di cinque anni, il loro fattore Ugolino a lavorare in mezza Europa, non dovevano essere immuni da simili preoccupazioni 87. Dunque la posta in ballo e i rischi erano enormi. E infatti i mercanti non tardarono a prendere la loro decisione.Dopo gli inutili tentativi fatti nel corso del 1262 dai consoli di Mercanzia che si recarono alla curia pontificia in cerca di un ac-cordo che non venne, il governo dei Ventiquattro ribadì, per boc-ca di uno dei principali fautori della politica filoimperiale senese, Provenzan Salvani, la sua ferma decisione di tener fede ai patti di alleanza con Manfredi “non obstante aliquo processu vel gravami-ne facto vel faciendo a domino pontefice”; gli ufficiali dell’arte dei mercanti e dei pizzicaioli furono ammoniti a non mantenere rap-porti alcuni con persone della curia e incitati al contrario a vigilare affinché la città non cadesse sotto l’arbitrio papale; i mercatores senesi risedenti all’estero richiamati in patria senza indugi 88.Era il segno della rottura. Nel novembre di quell’anno l’uccisio-ne di Baroccino di Bencivenne, figlio di uno dei Ventiquattro, da parte di esponenti di famiglie di mercatores, mostrò a che punto era arrivata la tensione: a Baroccino che in un tentativo di difesa chiedeva la ragione dell’insulto sarebbe stato risposto, secondo quanto narra un erudito di età moderna: “vorremmo tagliare il capo a’ Ventiquattro e a te il naso e cacciartelo in bocca” 89.

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A questo grado era lo scontro fra i banchieri e il vertice co-munale colpevole, agli occhi dei congiurati, di perseguire un politica assolutamente indifferente ai loro interessi.Seguirono disordini e tumulti, il palazzo dei Salimbeni, che era-no tra i congiurati, distrutto, membri dei Tolomei, che erano tra i congiurati, multati. E i Piccolomini? Ranieri di Rustichino e i suoi, che ricordo svolgevano ancora in questi anni i loro affari nella regione veneta e friulana, a stretto contatto con la corte del presule aquileiese che non aveva pienamente soddi-sfatto tutti i suoi debiti, non potevano non essere preoccupati dagli svolgimenti in atto né dovevano essere impermeabili al malcontento che serpeggiava fra i banchieri senesi. Vero è che il loro nome non figurava tra gli assassini del popolare ma i legami parentali stabiliti grazie al matrimonio di Lucia, quando ancora nessun presagio degli avvenimenti futuri pesava sulla città, avevano agito probabilmente da deterrente.E tuttavia quando agli inizi di dicembre un gruppo consistente di famiglie di banchieri abbandonò Siena alla volta del castel-lo pontificio di Radicofani, assieme ai membri degli Accarigi, dei Tolomei, dei Salimbeni, dei Saracini, dei Guastelloni, dei Rinaldini, uomini tutti che si qualificavano per l’esercizio di attività finanziarie collegate direttamente o indirettamente con l’ambiente curiale romano e che di fronte all’intransigenza del governo e alla sua impossibilità di mediare il dissidio e ricu-cire lo strappo con il pontefice si videro costretti, dal giro dei loro affari, dall’importanza che rivestiva la sede apostolica per lo sviluppo e la tutela delle operazioni che facevano la loro ricchezza, a separare la loro sorte da quella della patria ghi-bellina, giurando fedeltà a Urbano IV e alla sua causa 90, c’era anche Ranieri di Rustichino con il figlio Arriguccio e il fratello Gabriello.La vicinanza alla famiglia di Baroccino non aveva impedito, in questo caso, una netta scelta di campo.Nella lettera del 5 gennaio 1263 con la quale Urbano trasmette l’ordine a tutti i re, principi e secolari dei differenti ordini reli-

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giosi d’Europa di soddisfare gli obblighi pecuniari che avessero assunto verso quelli che egli definisce ormai suoi “dilecti filii”, Ranieri, il figlio e il fratello, compaiono in una lista nominati-va di sessanta uomini riferibili a quattordici gruppi parentali, che, come racconta il pontefice, hanno risposto al suo invito di tornare “ad gremium ecclesie” e schierarsi contro Manfredi, “perfidum et sacrilegum invasorem Patrimonii beati Petri”, sce-gliendo “magis acerbitatem exilii pati quam dulcedine natalis”: e lui in cambio della devozione dimostrata, rallegrato “more paterno in reditu filiorum quos error a devotione subduxerat”, è adesso pronto ad accoglierli nel suo seno come “filios specia-les”, proteggerli, assolverli completamente da ogni sentenza di scomunica lanciata sulla città disobbediente 91.I Ventiquattro si agitarono. Pochi giorni dopo l’esodo dei ban-chieri scrissero una lettera a Manfredi additando nel papa il responsabile dell’intrigo: ogni sforzo, dicevano, doveva esser fatto perché i fuorusciti tornassero. Inviarono un’ambasciata a Radicofani per trattare le modalità del rientro in patria, promi-sero un salvacondotto ai guelfi che volessero tornare a Siena, giurarono che avrebbero liberato i Salimbeni fatti prigionieri per l’omicidio di Baroccino, ma quando fu chiaro che ogni sfor-zo era inutile perché i banchieri non sembravano intenzionati a recedere dal patto di alleanza con Urbano e perché Urbano non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire le sue pedine, risposero con la rappresaglia. Il palazzo dei Piccolomini fu dato alle fiamme. Quello dei Tolomei devastato 92. Urbano tranquil-lizzò i fuorusciti. Il 6 marzo 1263 promulgò una bolla con la quale in risposta all’atto di obbedienza e devozione di quanti avevano giurato di operare “pro defensione libertatis ecclesia-stice ac pacifico statu fidelium” rinnovava formalmente la pro-messa di protezione impegnandosi ad impedire che i fuorusciti fossero molestati dai nemici della chiesa offrendo ricetto nel sicuro borgo di Radicofani; prometteva aiuto e sostegno per il recupero o il rimborso dei beni di loro proprietà rubati o dan-neggiati dagli “indevoti” senesi, tanto pervicaci nell’ostinarsi a

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non obbedire alle ingiunzioni papali che preferirebbero morire prima di cedermi lamentava Urbano, che garantiva infine la completa soddisfazione dei crediti e l’indennizzo delle perdite.Le promesse erano indirizzate a 107 uomini espressamente no-minati nei quali è stato giustamente individuato il primo nucleo della nascente pars guelforum senese 93.A questa data figuravano tra i componenti del gruppo, oltre a Ranieri, suo figlio Arrigo e suo fratello Gabriello, quattro nuovi consorti, Rinaldo e Ranieri di Turchio con il figlio di quest’ul-timo Niccolò, e Turchio di Chiaramontese: tutti banchieri, tutti figli di banchieri, tutti dunque a questo punto dentro lo schie-ramento guelfo in aperta contrapposizione al governo senese. La loro vicenda sarà infatti da questo momento intimamente legata alle sorti della parte, seguendo nel suo evolversi le fasi del consolidamento di quella, del suo raccordarsi agli alleati di Toscana, della sua offensiva contro lo schieramento ghibelli-no.Ranieri di Rustichino, a differenza dell’altro Ranieri, figlio di Turchio, che catturato per mano dei soldati teutonici nella battaglia di Badia a Spineta e riscattato dal Comune dovette piegarsi a fare atto di abiura per ritrovare la libertà 94, mani-festa un deciso protagonismo nelle vicende di questi anni: se il 24 giugno 1265 era il figlio Arrigo, in qualità di membro del consiglio della pars et universitas guelforum, ad autorizzare i due capitani, Pietro Tolomei e Notto Salimbeni, a presentarsi al nuovo papa Clemente IV per riceverne i comandi e stringere al-leanze 95, due settimane più tardi era lui a presenziare a Perugia all’atto con il quale il procuratore dei fuorusciti senesi si obbli-gava a pagare uno stipendio di 1.500 lire all’anno al vescovo di Arezzo Guglielmo Tarlati, nominato per volontà papale nuovo capitano dei guelfi senesi 96.Intanto a fare da cornice a questa sequenza discontinua di atti, le azioni di guerra contro Siena condotte dai guelfi, quelle con-tro Radicofani e Orvieto fatte dai senesi, le minacce di annulla-mento della sede episcopale e dei benefici goduti dai chierici se-

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nesi lanciate da Urbano, la sentenza di scomunica contro Siena rinnovata sotto il pontificato del nuovo pontefice Clemente IV, inasprivano la frattura tra gli esuli e il governo ghibellino dei Ventiquattro indirizzandola in una via di non ritorno 97. E il braccio di ferro sarebbe continuato chissà per quanto se l’ina-spettata sconfitta ghibellina sul campo di Benevento, con la morte di Manfredi, non fosse arrivata a smuovere gli equilibri politici. Sull’onda di quanto altre città di Toscana stavano fa-cendo, anche Siena decise dopo la rotta del febbraio 1266 di avvicinarsi al papa. Chiese l’assoluzione dall’interdetto, giurò obbedienza, firmò un trattato di pace con Clemente e i suoi collegati conti di Pitigliano e Santa Fiora, al cui rispetto si ob-bligò sotto pena di 20.000 marche d’argento 98: è il 14 agosto 1266 e nella sala episcopale di Orvieto, dove stanno per essere ratificati e accettati anche dagli esuli i termini della pace, ritro-viamo Ranieri di Rustichino nel ruolo di capitano dei fuorusciti senesi 99.

La mediazione. Ranieri rientra in cittàLa pace tra Siena e i suoi fuorusciti costituì il presupposto per un atto successivo: la stipula delle modalità del rientro in patria dei guelfi allontanatisi dalla città nel dicembre 1262. A conva-lidare il trattato che fu firmato nel palazzo papale di Viterbo il 13 maggio 1267, comparvero il giudice Ranieri di Matteo procuratore del Comune che dichiarava di agire con il consen-so dei priori delle arti manuali a cui il consiglio cittadino aveva delegato – su proposta di Provenzan Salvani – la trattativa, e Giacoppo di Gianni rappresentante della pars guelforum sene-se, autorizzato da trentasei consiglieri tra i cui nomi figurava di nuovo Ranieri di Rustichino con i suoi consorti, oltre a membri dei Tolomei, dei Salimbeni e dei Saracini 100. Le clausole del trattato si articolavano in più punti che avevano al loro centro due temi, quello della riforma del “populus” e quello del rico-noscimento dei diritti dei guelfi, ma l’uno e l’altro aspetto erano strettamente collegati ad un problema di fondo che sottendeva

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entrambi: quello della definizione del ruolo delle famiglie di grandi all’interno della vita politica cittadina.Fu stabilito che l’organizzazione popolare doveva essere sciolta e ricostituita “per rectores artium manualium” in modo tale da non comprendere al suo interno “aliquis de casato nec famosus de parte”, condizione che sarebbe stata appurata e declarata da una commissione composta da tre priori delle arti e tre dei loro consiglieri; a capo del populus venne designato un giu-dice “fidelem et devotum ecclesie romane” scelto dagli stessi rettori, il cui potere si sostanziava della facoltà di annullare gli atti arbitrari del podestà e degli altri ufficiali comunali; al pari di quanto andava fatto per il “populus” si doveva procedere allo scioglimento di tutte le società d’armi esistenti e rifondarle sulla base della stessa esclusione degli appartenenti ai casati e dei “famosos” definibili per partigianeria politica; decadenza di tutte le magistrature comunali, compreso il Consiglio della Campana, le cui nuove nomine erano affidate ai rettori del-le arti manuali, ai consoli di Mercanzia e ai provveditori di Biccherna nuovamente eletti da questi ultimi; licenziamento di tutti i podestà nominati nel territorio e loro sostituzione con rettori eletti dagli abitanti delle comunità.A questi provvedimenti si aggiungevano infine meticolose pro-cedure per l’indennizzo delle perdite sofferte dai guelfi 101.Poco importa che l’attuazione di disposizioni tanto minutamen-te prese non trovasse immediatamente luogo per l’accavallarsi di nuovi avvenimenti che risollevando le speranze ghibelline nella penisola ebbero l’effetto di posticipare ancora di qual-che anno il rientro in patria dei guelfi fuorusciti: l’arrivo di Corradino di Svevia infatti incitò alla rivolta anche i senesi che di nuovo furono avvolti nella spirale della guerra e delle ritor-sioni papali finché le sconfitte di Tagliacozzo (23 agosto 1268) e di Colle Val d’Elsa (12 giugno 1269) non aprirono anche a Siena il passaggio al guelfismo e alle riforme costituzionali pro-spettate nel maggio 1267 102; quello che importa sottolineare è il clima in cui tale riforma nacque. I termini della composizio-

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ne oltre a indirizzare chiaramente il Comune verso la fedeltà papale prospettarono come esigenza centrale la pacificazione sociale. E il prezzo di tale pacificazione esigeva che i grandi di qualsiasi fazione, nessun riguardo avendo all’appartenenza guelfa e ghibellina – essi erano infatti identificati a partire dal concetto di nobiltà consortile (“aliquis de casato”) e solo in se-conda istanza si faceva riferimento ad un ruolo di preminenza dentro la pars guelforum (“famosos de parte”) – fossero estro-messi dalle organizzazioni popolari a cui veniva tacitamente affidato il compito di tutelare la pace interna: il giudice popo-lare aveva potere di controllo su “omnia gravamina” decisi dal podestà e dagli ufficiali comunali.Ranieri di Rustichino e con lui gli altri grandi, accettarono tale limitazione – una limitazione che anticipava e preparava l’esclusione dal vertice istituzionale che sarebbe stata ratificata di lì a poco – probabilmente consapevoli che tale contenimento si inseriva nel quadro dell’avvento di un’egemonia di stampo guelfo che garantiva loro oltre alla possibilità di fare ritorno a Siena, piena soddisfazione riguardo a danni e perdite e piene opportunità di sviluppo dei loro affari sul piano nazionale ed internazionale.I membri di queste consorterie non costituivano parte nume-ricamente maggioritaria all’interno dell’universitas filopapale – ricordo che nella bolla di Urbano IV del marzo 1263 era-no elencati 107 uomini che in grande percentuale non sono riconducibili a casati – essi semmai, come la vicenda di Ranieri insegna, ne erano stati in qualche modo i promotori distinguen-dosi al suo interno per attivismo e ruolo politico: non è privo d’importanza che alla ratifica del trattato venisse espressamen-te richiamato il consenso di Ranieri di Rustichino e di quei con-siglieri della parte identificabili tutti come membri appartenenti alle maggiori consorterie cittadine, ma soprattutto che all’indo-mani del loro rientro in città (agosto 1270), della dedizione di Siena a Carlo d’Angiò (aprile 1271) a cui fece immediatamente seguito l’avvento di un regime di medi mercanti che sostituì il

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governo ghibellino dei Ventiquattro, essi, non cessando mai di lavorare all’interno della pars guelforum, riprendessero da su-bito a ricoprire cariche comunali recuperando pienamente una dimensione politica attiva che è la migliore prova di come del passaggio che si compì in questo scorcio di secolo essi fossero elemento consapevolmente partecipe 103.Un mese prima del rientro formale degli esuli guelfi a Siena, uno dei primi banchieri ad abbandonare la città e ad ottenere da Urbano IV l’esenzione dall’interdetto, veniva nominato ca-merario comunale per il semestre luglio-dicembre 1270 104: è una tra le ultime immagini documentate della vita di Ranieri 105 e probabilmente l’ultimo atto con cui il Piccolomini contribui-va allo sforzo di creazione di uno stato cittadino nuovo.

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enea figlio Di rinalDo

Il costo della pace

Cugino di Ranieri di Rustichino, Enea, figlio di Rinaldo, è l’ulti-mo discendente dell’altro Ranieri la cui biografia merita atten-zione. Richiamarne gli estremi assume rilievo in questo quadro perché su una continuativa collaborazione con il governo cit-tadino, dagli anni di affermazione del comune popolare e fino alla convulsa stagione della stabilizzazione istituzionale sotto il segno guelfo, mercantile e antimagnatizio, Enea impernia la sua traiettoria di vita. Saldamente ancorato alla città e al Comune, Enea ci appare uomo del sistema, delle cariche elettive e tempo-ranee, del rispetto delle leggi, della pace. Incarnazione vivente, quasi, di quel patrimonio ideale, di quei fondamenti culturali, di quei simboli autorevoli che reggono la costituzione comuna-le e che essa propaganda 106.Quando nel 1274 lo statuto cittadino formalizzò gli effetti dei mutamenti politici intervenuti con lo slittamento guelfo e il patto di formale sottomissione di Siena a Carlo d’Angiò 107, sancendo l’esclusione di ‘grandi’ guelfi o ghibellini e cavalie-ri, dalla magistratura collegiale dei Trentasei 108, Enea era un cittadino maturo, con alle spalle un’esperienza politica e pub-blica accumulata nel corso degli anni. Aveva fatto il suo esor-dio nell’arena cittadina ed istituzionale oltre vent’annni prima, in una missione “in Montamiato” che il Comune rimborsava nel 1251 109 e con una ripetuta presenza nel Consiglio della Campana nella decade centrale del secolo 110: in quello stesso periodo era stato eletto a far parte di diverse commissioni 111, aveva prestato al Comune 112, aveva accompagnato Manfredi, Capitano del Popolo della città, a Campagnatico “occasione bladi” 113, era stato scelto per decidere sui salari da darsi ai rettori delle terre comunali 114. Nel 1261, forse il momento più bello del ghibellinismo senese, era stato addobbato dal Comune di spada e sperone 115.

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Del suo coinvolgimento in attività di banco collegate al ramo familiare facente capo al vecchio Ranieri, rimangono poche tracce. Un’obbligazione resa, con lo zio Rustichino di Ranieri e il cugino Gabriello a Stefano di Orlando Saracini loro credi-tore in un contratto di prestito stipulato a Siena nell’ottobre 1257 116 e la sua presenza come testimone ad un ad un rogito del marzo 1258 in cui lo zio e i figli di lui Tolomeo e Gabriello si obbligavano ex causa mutui 117. In un’occasione successiva Enea agiva invece in unione a Bernardino di Alamanno il qua-le, ricordo, già dal 1264 era probabilmente entrato a far parte della societas familiare: adesso è il 1270 e in coincidenza con il suo impegno in Parte Guelfa 118, un prestito al Comune di 1.400 lire veniva rimborsato a lui e al consorte con la cessione in pegno del castello di Castiglion Senese, che entro breve Siena avrebbe riscattato grazie all’intervento finanziario di alcuni esponenti dei Salimbeni 119.Pochi mesi dopo il riscatto del castrum, avvenuto nell’ottobre 1272, Enea fu eletto camerario all’ufficio di Biccherna 120 e più volte, in ragione di tale funzione, fu chiamato a presenziare alla stipula di atti riguardanti il Comune in qualità di vicario del po-destà 121. In Consiglio Generale nel 1274 122, nel 1275 era testi-mone al lodo pronunziato dal Comune di Siena nelle discordie vertenti tra il Comune di Massa, i Pannocchieschi e certi fuo-rusciti massetani 123 e un anno più tardi inviato ambasciatore in quella città per concordare i capitoli che formalizzavano la sovranità senese sulla comunità, atto a cui più tardi era presen-te 124. Di nuovo in Consiglio Generale nel 1277 125, nell’ottobre 1278 fece parte della delegazione mandata alla curia romana a trattare della delicata questione della pace “tractanda et facien-da cum ghibellinis et parte ghibellina” 126, nel 1279 nominato podestà di Massa Marittima 127, nel 1280 il suo nome compare negli atti di ratifica, compromesso e procura che stabiliscono la pace tra famiglie guelfe e ghibelline senesi 128, poi di nuo-vo alla magistratura di Biccherna nel 1282, questa volta come provveditore, fu chiamato nello stesso anno a confermare, in

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rappresentanza di Siena, l’elezione di Guido Salvatico a capi-tano generale della lega guelfa di Toscana impegnandosi finan-ziariamente per il pagamento del suo salario 129. Nel 1284 era delegato di Parte Guelfa per stringere un patto di alleanza con i conti Aldobrandeschi 130, era consigliere nel 1285 131 e anco-ra negli anni 1288 e 1289 132, quando nel giugno, lo troviamo tra i senesi accampati “in exercitu comunis supra Lucignanum” intento a nominare un procuratore per trattare i capitoli di sot-tomissione del borgo 133.Poco altro sappiamo di lui. Oltre questa data e oltre la sfera dell’impegno pubblico. Ma a tentare di arricchire la fisionomia del personaggio aiuta richiamare un dato: nel 1285 con le sue 86 lire e 2 soldi pagati al fisco comunale il Piccolomini si qua-lificava come uno tra i più ricchi contribuenti dello stato 134. Nonostante della sua ricchezza, mobile e immobile, rimanga solo qualche evanescente immagine 135.Il piatto medaglione biografico, tutto incentrato sul profilo pubblico del figlio di Rinaldo, pur con le cautele derivanti dalla consapevole sovraesposizione documentaria data dalla natura delle carte che restituiscono la sua vita, è chiaro nell’indicare non solo il deciso coinvolgimento di Enea nel governo della cit-tà e del territorio, ma anche una straordinaria longevità di pre-senza istituzionale lungo anni che non furono facili e che videro maturare in coincidenza all’affermazione del regime popolare una crisi della politica filoimperiale governativa e il passaggio allo schieramento guelfo.Dal 26 giugno 1271 – data in cui i Trentasei sono ricordati per la prima volta – il supremo potere era confluito nelle mani di un ceto medio di mercanti cha si qualificavano per fedeltà al papa e desiderio di operare per l’onore della città, attraver-so una dinamica che secondo l’interpretazione storiografica di inizio secolo avrebbe visto pagare il maggior scotto all’orga-nizzazione popolare a vantaggio di un’oligarchia di banchieri e mercanti che trovarono in Parte Guelfa il loro referente po-litico, dopo aver messo sbrigativamente da parte – con abile

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colpo di mano quasi – le famiglie più potenti: una visione che centrando l’attenzione sull’evoluzione delle sorti del ‘partito’ popolare dimenticava di valutare il peso e l’influsso che aveva esercitato l’elemento nobiliare contro cui pure tanto palese-mente, a seguire il dettato della legge, si era volta la mutazione istituzionale 136.La più recente letteratura storiografica, più sensibile a cogliere le possibili dissimmetrie tra fisionomia sociale e collocazione politica dei protagonisti di ogni vicenda storica, accenna inve-ce con forza al contributo fornito da molti esponenti dell’élite magnatizia senese a questa fase di storia cittadina. Una parte-cipazione che appare a un primo sguardo assai diffusa e che vide membri appartenenti non solo ai Piccolomini, ma anche ai Tolomei, agli Accarigi, ai Renaldini, ai Saracini, ai Pagliaresi, rivestire in modo abbastanza continuativo ruoli pubblici e isti-tuzionali 137.La rispondenza tra alcuni significativi picchetti cronologici e protagonismi istituzionali magnatizi è esemplarmente rivelatri-ce della parte attiva che alcuni ‘casati’, come a Siena si dissero, giocarono nel processo innescatosi in quegli anni.Dagli anni Settanta del Duecento, l’intrecciarsi di funzioni e di incarichi rivestiti da Enea di Rinaldo, che si collegavano tan-to alle prospettive di governo e di espansione del Comune nel territorio – incentrate soprattutto sulla Maremma – quanto, sul fronte esterno, alle necessità di collegamento con la lega guelfa di Toscana – la tallia – e che arrivavano a toccare il cuore dell’istituzione comunale – quell’ufficio di Biccherna attraverso cui passava la gestione delle finanze – si innervò su due tap-pe fondamentali del percorso istituzionale cittadino. La prima si svolse il 28 maggio 1277 e vide protagonista il Consiglio Generale nell’atto di deliberare l’esclusione degli uomini di ca-sato dal vertice di governo: niente di nuovo rispetto a quanto già lo statuto guelfo del 1274 stabiliva e rispetto ai criteri di nomina del collegio di governo in vigore fin dal 1271, se non per l’elenco nominativo redatto da alcuni “sapientes viros” che

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accompagnava la norma legislativa e che individuava, terzo per terzo, i 53 lignaggi su cui doveva esercitarsi la limitazione 138. La provvisione nasceva in un clima di grande tensione e sca-turiva come risposta ad alcune sommosse cittadine fomenta-te, tempo prima, dai Salimbeni 139. Il 25 maggio il Consiglio Generale, “ut maleficia cessent … et civitas et comune Senarum non destruatur”, aveva discusso sulla necessità di istituire una cassa da tenersi presso il palatium dei priori, secondo una pras-si già in corso almeno dal gennaio di quell’anno, per raccogliere denuntiationes et accusationes contro i responsabili dei male-ficia su cui il podestà aveva obbligo di indagare e procedere, e aveva demandato al podestà e alla curia, al capitano e ai conso-li di Mercanzia la nomina di una commissione formata da nove cittadini con il compito di “invenire viam et modum et ordina-menta facere” affinché il colleggio dei Priori potesse continuare ad esercitare il suo ufficio 140. Enea di Rinaldo fu eletto a far parte di questa commissione e fu questa commissione di sapien-tes a proporre, il 28 maggio, al consiglio in magna quantitate choadunato la lista nominativa dei lignaggi magnatizi colpiti al cuore dei loro diritti politici e l’obbligo per tutti i loro membri, di età compresa fra i 14 e i 70 anni, di prestare giuramenti e garanzie 141. Il motivo sotteso alla risoluzione era chiaramente difensivo: Enea e gli altri saggi che dicevano di agire pro bono et pacifico statu civitatis et comunis Senarum avevano proba-bilmente molto chiari i rischi di perturbazione dell’ordine so-ciale derivanti sia dagli eccessi urbani di alcuni lignaggi, seppur guelfi, come i Salimbeni, sia dalla diffusa agitazione di alcuni casati ghibellini, in perenne rivolta nel contado 142.Alla tutela contro le violenze dei magnati, a cui veniva espli-citamente richiesto di obbligarsi a non dare ricetto o aiuto ai banditi dal Comune pro maleficio, gli ordinamenti del 1277 nella loro estrema sobrietà stilistica e di contenuto, affianca-no la salvaguardia della struttura costituzionale del Comune: le disposizioni per i Priori dei Trentasei e per il podestà, con l’elencazione delle procedure elettorali che riguarda i primi, e

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dei doveri d’ufficio che riguarda entrambi, prospettano, a mio parere, un tentativo di inquadramento etico politico dei due istituti al vertice dell’istituzione comunale di cui si ribadisce l’utilità e la bontà proprio nel momento in cui la loro stabilità è minacciata dagli eventi in corso. Ricordo come i Priori dei Trentasei chiedessero espressamente alla commissione di saggi nominata il 25 maggio di trovare la strada per la sopravviven-za del loro collegio, e come minacciato, non solo nell’istitu-to ma anche nella persona, si sentiva il podestà Giacopino da Rodiglia contro il cui palazzo si erano diretti nel 1276 alcuni facinorosi guidati dai Salimbeni. La serie dei doveri dei Priori, richiamati ad esercitare lealmente il loro mandato (bene, legali-ter, fideliter, sine aliqua corruptione) con quotidiana continuità (quod stent ad eorum offitium continue) e l’elenco dei doveri del podestà, ugualmente tenuto al vincolo della legalità e della diligenza (servat statuta civitatis et diligenter intendat) le cui funzioni militari e giudiziarie si incarnano qui concretamente nelle azioni di maleficia invenire et punire, exbannitos pro ma-leficio non permictere stare in civitate et comitatu, receptatores dictorum exbannitorum punire, esaltano, sull’onda e nella con-tingenza del pericolo di un sovvertimento dell’ordine sociale i ruoli di garanzia degli istituti (sollicitare potestatem ut servat statuta civitatis si dice dei Priori, e punire ita magnum ut par-vum, si dice del podestà) e il legame reciproco di solidarietà che li unisce e che unisce i cittadini, tutti, ita magnum ut par-vum, alle istituzioni: legame affermato, il primo, dall’obbligo dei Trentasei di dare auxilium al podestà, e il secondo dalla decisione presa pochi giorni prima di rinnovare la norma che prevedeva l’installazione nel palazzo dei Priori di una cassa per le denunce anonime.L’obiettivo del ripristino di un ordinato vivere civile, terreno su cui i governanti popolari si avvantaggiarono dell’appoggio di Enea e con lui di uomini e di lignaggi più aperti alla collabo-razione 143, trovò concorde il consiglio cittadino sui cui scranni sedevano molti magnati, e fra loro oltre ad Enea i congiunti

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Cione di Alamanno, Mino di Magliata ed anche l’attivissimo Salomone di Guglielmo 144: magnati i cui nomi, proprio in quell’anno, negli anni immediatamente precedenti, negli anni immediatamente a venire, erano andati a formare le balìe di sapientes incaricate di agire e decidere su delicate questioni di politica estera, interna ed economica 145. Lo stesso Enea che in quel 1277 aveva fatto parte di varie commissioni, era stato scelto nel 1278, come abbiamo visto, per seguire una delle trat-tative più spinose sul piatto della bilancia politica: quella della pacificazione con i ghibellini 146.Alla risoluzione del problema del contenimento del potere ma-gnatizio, si accompagnò infatti ben presto la risoluzione del conflitto guelfi-ghibellini che per anni aveva opposto le famiglie della città: il secondo passaggio fondamentale di questo perio-do. Esso si compie nel corso del 1280 quando con una serie di atti il podestà Giacomo da Bagnorea fissata la modalità della composizione, abolì le fazioni, richiamò i cittadini all’unità e alla concordia, e li obbligò a ratificare il lodo e a stringere patti di amicizia con i nemici del giorno prima 147.Enea di Rinaldo, insieme a venti componenti “de domo filiorum Piccholuomi”, si accinse il 13 ottobre a giurare il compromesso di pace adeguandosi a quanto stabilito dai Quindici governa-tori e dal podestà. Ma non è tanto alla sua presenza, già di per sé significativa a rappresentare il figlio Naddo e la domus nella promessa, sotto pena di 500 marche d’argento, di sottostare a tutti i precetti e ordini dati “super pace et de pace et concordia tractanda et ordinanda et facienda”, aderendo ai termini della pacificazione generale con “ydoneas cautiones” “et etiam iu-ramenta et parentelas et matrimonia” 148, che voglio guardare, quanto al più ampio ruolo che egli rivestì in quei giorni di ini-zio autunno: dal 23 settembre al 1 novembre 1280, una succes-sione continua di rogiti che seguivano e coronavano lunghe set-timane di trattative, di accordi, di incontri. Il lodo del podestà e dei Quindici, a cui Enea partecipò da testimone 149, fu infatti seguito o di poco preceduto da una serie di atti di compromes-

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so, procura e ratifica che lo videro ugualmente impegnato: dal solenne giuramento che si celebrò sotto le volte della chiesa cattedrale della città alla presenza dei canonici della cattedrale e dei rappresentanti dei frati predicatori, minori, eremiti, serviti di Santa Maria e carmeliti, con il quale i rappresentanti del-la pars guelfa e ghibellina stringevano “bonam veram et recta pacem perpetuo duraturam” condonandosi vicendevolmente i danni cagionatisi 150, alla promessa di pace che reciprocamente si prestarono gli uomini dei Tolomei e Salvani 151, Forteguerri, Del Mancino e Incontri 152, Montanini e Ponzi 153.L’attiva presenza di Enea di Rinaldo in una operazione di gran-de significato politico e contemporaneamente di alto livello retorico – il prologo del podestà Giacomo da Bagnorea è un bell’esempio dei frutti che gli sviluppi della riflessione politica-retorica-giuridica innestavano in ambito comunale e sintesi ef-ficace delle più solenni e fiorite dichiarazioni sui rischi della di-visio e la bellezza della pax espresse dall’autogoverno cittadino – ben rappresenta la dialettica in atto. L’evento del 1280 arriva-va a chiudere una lunga fase di crisi e a ricomporre la frattura dell’unità cittadina conseguente alla scomunica di Urbano IV. Se la flessibilità del sistema politico aveva garantito durante il primo Duecento una piena collaborazione tra i poteri e le for-ze sociali, aprendo progressivamente le porte e coinvolgendo nuovi gruppi familiari nella gestione della cosa pubblica, nel 1262 la contraddizione che vedeva opporre gli interessi bancari e mercantili di un’influente fetta della cittadinanza all’orienta-mento ghibellino dei Ventiquattro priori, provocò una lacera-zione nel tessuto del ceto dirigente. Scardinando gli equilibri raggiunti. Per ricomporre la frattura i mercanti di mezzana gente di stampo guelfo saliti al potere grazie soprattutto alle ripercussioni provocate dalle rotte ghibelline in Italia, capirono che condizione necessaria per il ristabilimento di un sistema equilibrato era tenere fuori dal vertice del sistema i principali nuclei parentali: con l’intervento del 1277 impedirono l’acces-so del supremo maestrato a molte eminenti famiglie cittadine e

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restringendo dunque la loro azione ad alcuni settori dell’agire politico minarono alle basi la possibilità che esse si fronteg-giassero, in un gioco di sopraffazione reciproca, in una corsa al potere che avrebbe inevitabilmente coinvolto la città in una spirale di violenza e disordine. Al tempo stesso, con la pacifica-zione del 1280 e il richiamo degli esuli ghibellini che avevano lasciato Siena essi mostrarono decisamente il loro proposito di lavorare per ristabilire una convivenza pacifica delle forze po-litiche e sociali, eliminando ogni strumento di potenziale con-flitto intrafamiliare.La pacificazione del 1280 non conteneva nulla di antimagnati-zio ma affermava, con grande pubblicità e solennità, la capacità del vertice comunale di coartare l’elemento aristocratico in un programma che poneva al centro il benessere della città e del suo autogoverno. Et ut ipsa civitas et iurisdictio civitatis eiu-sdem in comuni regatur et feliciter gubernetur, abolita omnino partium ghibelline et guelfe memoria, quod ipsa pars guelfa et ghibellina que actenus extitit… sint rupte et casse et irrite et inanes: con queste parole che scandivano una chiara identifi-cazione tra la città e il suo governo, che legavano il benessere di quella al benessere dell’istituzione, e che prospettavano il problema della governabilità come obiettivo di tutti, il podestà argomentava ai senesi riuniti in assemblea plenaria l’annulla-mento delle due fazioni 154.Tutta la vita di Enea racconta come l’aspirazione egemonica o almeno teoricamente tale, di un esponente della nuova nobiltà finanziaria cittadina, la cui affermazione tra la fine del XII e il primo ventennio del XIII secolo era stata resa possibile da una accentuata mobilità di vertice, aveva trovato modo di realizzarsi entro l’alveo del governo della cosa pubblica, con l’unica eccezio-ne del decennio circa che corre tra il gli anni Sessanta e Settanta quando, in corrispondenza dell’azione papale, la sua latitanza dalle istituzioni fa pensare, in linea con le dinamiche in atto 155, ad un allontanamento dalla politica cittadina e forse dalla città stessa. Preludio al cambio di rotta ideale che Enea avrebbe di lì

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a poco realizzato. Poi dal 1270, con capacità e rinnovato impe-gno, con gli occhi bene aperti sulla realtà magmatica di quegli anni, Enea andò rafforzando la linea di una piena collabora-zione con il governo della repubblica, e di aperta adesione allo schieramento di Parte Guelfa, impegnato in un dialogo con i go-vernanti che mai pare sopirsi e che lo condurrà a contrastare in prima persona i rischi degenerativi dei poteri familiari e di clan magnatizi di cui lui stesso era esponente di rilievo.Si tratta, come ho già detto, di considerazioni acquisite dalla storiografia e pacifiche se si osservi da vicino la vita di Enea di Rinaldo, la cui grande continuità di presenza sull’arena po-litica rischia tuttavia di essere svilita se letta soltanto alla luce di una camaleontica volontà di sopravvivenza 156 che ignora e scavalca la fatica della mediazione, del quotidiano confronto, della dialettica non priva di tensioni e conflitti con il gruppo dirigente di cui Enea si fece protagonista. Restituendo il senso della non facile e non scontata integrazione dei magnati al pro-cesso di costruzione statuale in atto. E della decisione con cui i governanti popolari e guelfi perseguirono i loro propositi.All’indomani della grande rivolta nel contado incitata dai ghi-bellini Bonsignori, l’attenzione ai castelli del territorio, ambiti di potenziale rivolta armata contro il Comune, e la preoccupa-zione per un’espansione incontrollata dei diritti signorili dete-nuti dai casati, indirizzarono il governo verso una politica di contenimento del fenomeno neo signorile, nel quadro di una strategia di regolamentazione e controllo dei poteri territoriali. Non esitando a colpire quanti ostacolavano i suoi progetti. Il 30 ottobre 1285 veniva approvata in Consiglio Generale una provvisione “super exercitum … contra rebelles et specialiter contra et adversus castrum et homines Podii Sancte Cecilie” che determinava dettagliatamente modalità e tempi della spedizio-ne armata capeggiata dal podestà cittadino contro il castello e tutti i ribelli e i ghibellini che lì si trovassero. Uno degli obietti-vi dichiarati era la distruzione per totum del cassarum domini Henee 157.

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Il mondo comunale luogo di ordinamenti diversi e spesso an-tagonistici, comprende ed accoglie tensioni politiche e sociali. La pax tanto agognata, sognata, desiderata non esclude e non ignora il conflitto. Al contrario, lo ingloba.

1 L’occasione attraverso la quale veniamo a conoscenza di questo complesso immobiliare è data nuovamente dalla sua locazione al comune nel 1266: “dominus Ranerius, dominus Gabriel domini Rustichini, pro se et eorum consortibus debeant habere a Comuni Senarum XL librarum denariorum pro pensione turris et domus comuniter eorundem, que dicitur domus et tur-ris Assassette, et pro domibus propriis dictorum filiorum domini Rustichini; in quibus domibus abitavit et stetis et eas tenuit dominus Inghiramo de Gorzano, capitaneus populi et comunis Senarum pro uno anno”. Biccherna 89, c. 162r. Nel 1255 i discendenti di Ranieri sono proprietari di un orto fuori porta San Maurizio, “in populo Sancti Angeli de Montone”, confinan-te con altri beni loro, e di alcune plateas (Conventi 161, cc. 254r-55r).

2 Diplomatico Gavazzi, 1243 marzo 31.3 Come chiarisce Paolo Cammarosano, la qualifica di “ministeriales” – qua-

lifica maturata in area tedesca fra XI e XII secolo per designare un legame strettissimo di subordinazione di tipo servile al dominus – fu attribuita a molti membri della nobiltà friulana con l’effetto di distinguerne al suo in-terno le due categorie di liberi, e ministeriales. Con il termine si indicarono sia elementi della piccola nobiltà, od anche non nobili, destinati a rimanere nell’ambito di una domesticità curiale, sia elementi che si erano affrancati da queste modeste origini per giungere ad una carriera di grande successo, sia elementi di connotazione nobiliare e potenza già affermata che per la possibilità di allargare la loro potenza nello stato patriarchino si faceva-no ministeriali del principe ecclesiastico: un ceto misto formato dunque da uomini che avevano beni propri, altri in feudo, altri in remunerazione del “ministerium” e dunque soggetti a certi vincoli. Cfr. Cammarosano, L’Alto Medioevo, 1988, pp. 149-150. Il contratto stipulato con Bertoldo è in Diplomatico Archivio Generale, 1249 maggio 31. Erano presenti all’atto magister Beringherio vicedominus, Warnerio e Crafto canonici di Aquileia, Giovanni de Carnia, Enrico di Mels, Odolrico de Treffen. Una copia del 15 dicembre 1676 in Consorteria Piccolomini, 2.

4 Diplomatico Ricci, 1250 gennaio 25. All’atto rogato in Cividale “in domo vicedomini” erano presenti Conone et Artuico di Moruzzo, Enrico di Mels, Marquardo di Soffumbergo, Ludovico di Villalta, Giovanni di Cuccagna.

5 Sulla figura di Gregorio di Montelongo e la sua azione prima in qualità di legato apostolico in Lombardia e poi di patriarca di Aquileia rinvio a Paschini, Gregorio di Montelongo, 1916-1918 e 1921; Marchetti Longhi, Gregorio de Monte Longo patriarca, 1965. Per la storia dello sta-

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to patriarchino fino alla metà del XIII secolo si veda Idem, Il Patriarcato di Aquileia, 1916.

6 Le lettere di Gregorio di Montelongo al cardinale Ubaldini non sono per-venute, ma dalle due che quest’ultimo gli inviò come risposta si deduce la natura della richiesta che il patriarca aveva fatto al suo antico collega di Legazione. Il cardinale scriveva nell’agosto 1252: “Aggravati dai debiti, non bastando a provvedere a noi stessi, non dovete meravigliarvi se non possiamo sobbarcarci secondo il vostro desiderio ai vostri ed ai nostri pesi. Abbiamo appunto presentate ai molesti creditori le vostre ripetute lettere, che promettevano, come di dovere, il pagamento; ma essi, pensando alle ri-petute promesse di pagamento rimaste senza effetto, ci provocano sempre di più, perché vedono tirarsi in lungo ciò, che secondo le promesse, doveva farsi presto”. Poi il cardinale, dopo essersi rammaricato per le angustie che opprimevano Gregorio, lo consigliava di pagare i debiti, perché il paga-mento avrebbe reso entrambi liberi dalle molestie dei creditori, e avrebbe incoraggiato altri banchieri a fare prestiti, in caso di bisogno. Ho tratto la citazione da Paschini, Gregorio di Montelongo, 1916-1918, p. 75.

7 Il testo di questa locazione è riportato in un altro atto, molto lacunoso, da-tabile forse 17 aprile 1253, nel quale i soci della compagnia dividono i pro-venti della muda: cfr. Diplomatico Ricci, 12…, aprile 17. Nel contratto del 4 febbraio 1252 rogato “aput Utinum, in contrada Turris”, i mercanti senesi nominati sono Ranieri di Rustichino Piccolomini e “Reynaldo Reynaldini” stipulanti “pro se et sociis suis”.

8 Diplomatico Ricci, 1253 giugno 24. L’atto è rogato a Cividale, “in domo patriarchatus”: testimoni “domino Rogerino electo Cenetensi, domino Alberto de Collice, Vicedomino Bartholomeo de Padua, senescalco domini Gregori”.

9 Diplomatico Ricci, 1253 luglio 8. Al rogito notarile stipulato “in domo epi-scopii Castellani” erano presenti “Johanne de Cucania, domino Warnerio fratre eius canonico Aquilegensi, Henrico de Quals, socio ipsius, cano-nico Civitatensi, Senisio de Paduo [sic] potestate Polensi, et Rogerino de Mediolano, ostiario”.

10 I punti in cui si articolò il trattato sono in Paschini, Gregorio di Montelongo, 1916-1918, pp. 78-80. Si veda anche Degrassi, I rapporti tra compagnie bancarie toscane e patriarchi, 1992, p. 177.

11 Nell’atto datato 1255 marzo 1, rogato presso Cividale, la decorrenza dei termini veniva stabilita a partire dal 1 giugno successivo: una dilazio-ne forse necessaria al patriarca per ottenere il consenso del capitolo di Aquileia all’alienazione; consenso che Gregorio si impegnava a procura-re. L’alienazione era necessaria, dichiarava il presule, per la “solutionem debitorum et utilitatem ecclesie supradicte”. I soci nominati nel contratto sono Ranieri di Rustichino, Rinaldo di Rinaldino e Giovanni di Turchio. Il contratto si trova all’Archivio Capitolare di Udine, ma il suo regesto è in Zdekauer, Il mercante senese, 1925, doc. 3, p. 51.

12 A differenza della compagnia dei Buonsignori da cui Gregorio di Montelongo

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aveva ricevuto in prestito 11.000 marche all’inizio del suo pontificato e a cui si era rivolto ancora più volte negli anni a venire, fino a dover cede-re ai mercanti della “Magna Tavola” per tredici anni – a partire dal 1270 – a rimborso dei molti crediti a lui accordati, i proventi più lucrosi della chiesa aquileiese cioè le mude di Chiusa e Tolmezzo e i redditi della pece dei boschi carnici Sul ricorso ai Bonsignori da parte dei patriarchi si veda Degrassi, I rapporti tra compagnie bancarie toscane e patriarchi, 1992, pp. 173-184. Studi di carattere più generale: Arias, La compagnia bancaria de’ Bonsignori, 1901, pp. 1-4; Arias, I banchieri italiani e la santa sede, 1901, pp. 75-113; Chiaudano, Le compagnie bancarie senesi, 1930, pp. 1-52; Idem, Note e documenti sulla compagnia dei Bonsignori, 1930, pp. 114-142; Idem, I Rothschild del Duecento, 1935, pp. 103-142; Catoni, Bonsignori, 1970; English, Enterprise and liability, 1988.

13 Dorez, Guiraud, Les registres d’Urbain IV, II, n. 521 (13 gennaio 1264), pp. 259-260.

14 In una lettera indirizzata nel luglio 1263 da Urbano IV a Gregorio per esor-tarlo a soddisfare i debiti che aveva con i Bonsignori, il papa descrive le grandi spese che la chiesa aquileiese aveva dovuto sostenere precipitando in una grave difficoltà finanziaria, come lo stesso Gregorio doveva avergliela dipinta: “Per tuas speciales litteras nobis exponere curavitsti quod, statu aquilensis eccleise fere dudum extincto, tempestatum procellis et tribulatio-num angustiis more fluminis se fulminis insurgentibus contra eam, ita quod vix olim ex eius redditibus percipiens unde per tertiam partem anni cum tua famiglia sustentari valeres, diversos fuisti coactus adinvenire modos et vias per quos ecclesiam ipsam posses ad statum reducere libertatis, et tandem illud inter multa elegisti remedium quod in faciem quorumdam nobilium aliorumque potentum, ecclesiam ipsam opprimentium et infidelitatis vitio infectorum, quedam castra, non sine magnis sumptibus, erexisti, et a nobili muliere comitissa Goritie, castrum Belgradi, tunc spectans ad eam, emisi-sti pro certa pecunie quantitate, firma ductus fiducia quod ex castris huju-smodi eidem ecclesie victoria pervenerit perpetua et finalis […]”. Guiraud, Les registres d’Urbain IV, Camerale, 1900, n.277 (25 luglio 1263), p. 77. Un’analisi della condizione finanziaria del patriarcato, della fisionomia dei redditi dello stato e delle difficoltà di gestione di tali redditi in Degrassi, L’economia del tardo medioevo, 1988, pp. 419-434.

15 Una messa a punto sul tema dei toscani in Friuli, con un’analisi dei momenti e delle cause dell’emigrazione e delle risultanze che tale presenza ebbe sul tessuto della regione dal punto di vista economico e politico, è il volume miscellaneo I Toscani in Friuli, 1992; si vedano in particolare i contributi di Degrassi, I rapporti tra compagnie bancarie toscane e patriarchi, 1992; Tagliaferri, Ruolo dei toscani nell’economia friulana, 1992; Polese, Organizzazione economica e attività di prestito, 1991. Della presenza dei toscani in Friuli si era occupato Battistella, I Toscani in Friuli e un episo-dio della guerra degli Otto santi, 1898; Idem, I Toscani in Friuli. Appunti storici, 1903: lavori utili per i dati che contengono. Riferimenti anche in

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Billiani, Dei toscani ed ebrei prestatori, 1895. Per una ricostruzione della storia politica e delle vicende che interessarono il patriarcato nel periodo altomedievale si veda Cammarosano, L’Alto Medioevo, 1988.

16 Sull’inserimento del Friuli patriarchino nella compagine imperiale, Cammarosano, L’Alto Medioevo, 1988, pp. 59-100.

17 Prendendo in esame 194 nominativi Amelio Tagliaferri scompone la presen-za toscana in questi termini: 152 da Firenze; 20 da Siena; San Gimignano e contado fiorentino 5; Lucca 3; Cortona 2; Arezzo, Incisa, Pietrasanta, Pistoia ed altri centri minori 1 (cfr. Tagliaferri, Ruolo dei toscani nell’eco-nomia friulana, 1992, p. 5). La preminenza fiorentina si fece molto evi-dente dopo il 1270 con l’avvento al patriarcato di Raimondo della Torre che succedendo a Gregorio di Montelongo preferì appoggiarsi ai banchieri fiorentini e in particolare ai Capponi: Degrassi, I rapporti tra compagnie bancarie toscane e patriarchi, 1992, pp. 184-188.

18 Polese, Organizzazione economica e attività di prestito, 1992, pp. 11-60, soprattutto pp. 18-25.

19 La riscossione dei proventi fu complicata fra l’altro anche dalla morte di Gregorio di Montelongo. Infatti il successore di Gregorio designato dal capitolo aquileiese, Filippo di Carinzia, cercò nel 1270 di spossessare i mercanti senesi di una parte degli introiti costringendo i Buonsignori ad appellarsi alla sede apostolica perché intervenisse in suo aiuto. Degrassi, I rapporti tra compagnie bancarie toscane e patriarchi, 1991, pp. 182-183.

20 Infra.21 Diplomatico Archivio Generale, 1249 maggio 31. Cfr. supra.22 Ripercorre il mito e la storia di Venezia il bel volume di Crouzet Pavan,

Venezia trionfante, 2001. La citazione del cronista Martino da Canale tratta da Power, Vita nel Medioevo, 1966, p. 43.

23 Diplomatico Ricci, 12…, aprile 17: nel contratto i banchieri veneziani e trevigiani specificarono “qui in ipsa muta una cum ipso Rustichino suam partem habebant, prout Reynerius Rustichinus confitebatur” dichiarando di essere pervenuti alla divisione delle parti “que ipsos de ipsa muta con-tingebat”. Le quote apparivano così descritte: Rustichino per se e i suoi soci “fuit confessus habuisse nomine societatis predicte mute […] octavam partem ab ipso die in antea a Mafeo trivisino et Petro et Marino Zorzano de Venetiis, quinquaginta marchas monete aquilegensium, et a Finolo de Venetiis et a Jacobo, fratre suo, alias quinquaginta marchas eiusdem mo-nete”; “Mafeus trivisinus una cum sociis suis de Venetiis” [confessus fuit] quartam partem [se contingisse] et Marcus Finolus de eodem loco una cum fratre suoe Iacobo, […] octavam partem”.

24 Diplomatico Ricci, 1254 gennaio 18. Il lodo si era svolto a Trieste. E i con-giunti nominati sono Gabriello e Giovanni.

25 Diplomatico Ricci, 1257 maggio 8: Ranieri di Rustichino e Ranieri di Turchio Piccolomini ricevevano a titolo di cambio da alcuni mercanti senesi 25 lire di veneziani grossi che si impegnavano a restituire entro le calende d’agosto in denari senesi, computando ciascun grosso 12 denari piccoli,

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per la somma corrispondente di 425 lire I mercanti senesi nominati nel contratto sono Bonaventura di Agostino, Aringherio di Orlando, Ranieri Folcacchieri.

26 Diplomatico Ricci, 1258 maggio 15; Diplomatico Ricci, 1258 agosto 5. Nel primo “Bonfijolus de Senis” e “Wineldus de Orlando de Cortona”, compra-no 3 lire di veneziani grossi da Manno di Giordano da Siena, Mannello detto “Bojohanne”stipulanti per se e soci, e da Ranieri di Rustichino Piccolomini e fratelli, al prezzo di 48 lire e mezzo di denari senesi che promettono re-stituire ai suddetti entro le calende di giugno.L’atto è rogato a Padova “in domo creditoris”. Nel successivo il mercante senese Tagliapane Altoviti, “socius Rainerii Rustichini” compra 12 lire di veneziani grossi da Dietaviva di Benello e Buonristoro di Siena, soci di Rolando Bonsignori, promettendo pagargli il prezzo dovuto – 201 lire di denari senesi – a Siena entro dieci giorni (“hinc ad festam Sancte Marie proximi de mense augusti”), sotto pena del doppio della cifra.

27 Diplomatico Ricci, 1258 agosto 8.28 Diplomatico Ricci, 1262 dicembre 15. Nell’atto, parte lacunoso, stipulato a

Cividale, Roma riceve da Ardimaro di Altiveto, mercante senese, che agisce per Ranieri di Rustichino, Gabriello e loro soci, 200 lire di veneziani picco-li.

29 Diplomatico Ricci, 1264 luglio 31. Si capisce che “Provencianus quondam Raynerii de Senis” a questa data operava già per la compagnia, ma proba-bilmente in un ruolo inferiore, perché il quaderno bambagino che gli viene consegnato dove sono segnati i conti della societas, è “mano Proventiani, sigillato sigillo cereis pendentis Tiverii et Proventiani”.

30 Diplomatico Ricci, 1255 febbraio 8. “Nos Ranerius et Gabriellus filii domi-ni Rustichini in presentia et mandato dicti domini Rustichini patris nostri confitemur tibi Ildebrandino Buonfilii Gallerani te habere debere in proxi-mis venturis kalendis Januarii CCCCCCLX libras denariorum senensium in sotietate nostra, et promittimus taliter facere et curare quod omnes sotii nostre sotietatis in dictis kalendis Januarii confitebuntur tibi quod predic-tam quantitatem tu habes in dicta nostra et eorum sotietate, et a dictis ka-lendis Januarii proximis venturis in antea si tibi habere et lucrari cum dictis denariis ut nos lucrabimur, sicut tetigerit et lucrabitur quilibet pro rata sua, et sint dicti denarii a rischium et fortuna ut nostri denarii, et contra predicta vel aliquod predictorum promittimus tibi nullam exceptionem facere vel facti obicere vel opponere, sub pena dupli dicte illius rei de qua ageretur vel molestia moveretur, quam tibi dabimus et dare promittimus si commissa fuerit et ea soluta vel non, predicta servare et reficere omnia dapna et ex-pensas tibi promittimus […]”.

31 Diplomatico Ricci, 1257 settembre 10: il prestito era fatto da Buonaventura del fu Buonadota Vinciguerra e da suo figlio Guerra. I tre promettevano restituire la somma entro due mesi.

32 Diplomatico Ricci, 1261 aprile 7; Diplomatico Ricci, 1261 settembre 17. Nel primo atto Ildebrandino e Gabriello di Rustichino “occasione nego-

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tii societatis nostre” si costituiscono debitori di Provenzano di Albertino e Ildebrandino detto Carnesca in 917 lire di denari senesi, prezzo di cer-ti panni acquistati. Nell’altro rogito Ildebrandino prende in prestito con Ranieri di Rustichino 26 lire “ob negotium nostre societatis et mercature” da Guinigi di Ildebrandino di Giunta.

33 Diplomatico Ricci, 1259 luglio 5. L’appartenenza a questa data dei fra-telli Gallerani alla compagnia dei Piccolomini risulta dalla dichiarazione rilasciata ai due da Ranieri e Tolomeo di Rustichino, probabilmente in occasione di una ricostituzione della compagnia dopo un saldamento ge-nerale. Ildebrandino e Gallerano proprio in virtù delle 1.200 lire versate nelle casse della compagnia ottengono la garanzia che il loro interesse sarà curato e svolto onestamente da tutti i soci e che saranno partecipi dei gua-dagni secondo il capitale apportato: “Nos Ranerius et Talomeus filii do-mini Rustichini a dicto patre nostro emancipati, nostro proprio nomine et nomine Gabrielis fratris nostri carnalis absentis, promittentes de rato pro eo et etiam nomine sotiorum nostrorum, in veritate et non future spe numerationis confitemur vobis Ildebrandino et Gallerano quondam Bonfilii Gallerani sotiis nostris et dicti fratris nostri, vos habere et misisse de vestro et puro capitali in sotietatem nostram et dicti nostri fratris, et vos habere et misisse recognoscimus duodecim centinaia librarum denariorum senen-sium minutorum, cum qua pecunia et omni alia dicte sotietatis promittimus vobis quousque dicta sotietas durabit studere lucrari bona fide sine fraude, et facere vobis bonum iter et non malum, et nihil fraudare vel substrahere aut in proprios usus convertere de bonis et rebus dicte sotietatis, aut frau-dare vel substrahi permittere, sed totum et quicquid lucrati fuerimus nos vel dictus frater noster aut alia persona pro nobis cum dicta pecunia et alia dicte sotietatis sive ad nos vel aliquem nostrum aut ad aliam personam pro nobis sive ad dictum fratrem nostrum pervenerit occasione ipsius pecunie in corpore dicte sotietatis reducere et dare vobis rectam et equalem partem indivisam sicut tetigerit pro centinario et libra et solido vestro. Et vos so-tios nostros esse profitemur et asserimus. Et hec omnia vobis attendere et observare et adimplere promittimus sub pena centum librarum denariorum senensium […]”. Questo contratto fu interpretato da Senigaglia in modo più restrittivo: secondo lo studioso i due Piccolomini nell’atto di promettere di trafficare a parità di condizione i loro denari, investiti nella compagnia, e quelli dei soci Gallerani, riserverebbero soltanto a se stessi la decisione delle operazioni da concludere. “Ildebrandino e Gallerano, scrive, sono compresi tra i membri della compagnia Piccolomini quando essa si consideri come l’insieme di coloro che vi hanno interesse diretto; ma ciò nonostante ad essi non sono deferiti tutti i diritti e tutti i doveri dei soci responsabili illimita-tamente: conferiscono solo un certo capitale, hanno la garanzia che pure con quello verrà trafficato dagli amministratori e che loro verrà conferita la quota parte dei lucri; ma essi non hanno e non possono avere il diritto di gestione della società, non vien loro riconosciuta la facoltà di obbligare al rendiconto i capi della compagnia, che restano tali e quali erano, senza

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che nulla abbia mutato la loro posizione; non si fa ai nuovi soci neppur l’obbligo di non prendere parte ad altre società, che si impone generalmen-te, a coloro che in una hanno impegnato illimitatamente il loro patrimonio […]. Sono soci ma con responsabilità limitata”. Da questa lettura dissen-tì Sapori: cfr. Senigaglia; Le compagnie bancarie senesi, 1907-1908, pp. 189-190. Sapori, La responsabilità verso i terzi, 1938, pp. 16-17.

34 “quod faceret […] omne quod haberet ad faciendum”: Diplomatico Ricci, 1270 settembre 17. L’atto è rogato a Cividale.

35 Si vedano i contratti: Diplomatico Ricci, 1257 maggio 8 (rogato a Venezia); Diplomatico Ricci, 1258 maggio 15 (rogato a Padova); Diplomatico Ricci, 258 agosto 5 (Venezia); Diplomatico Ricci, 1262 febbraio 6 (Venezia). E, Diplomatico Ricci, 1254 gennaio 8 (Trieste), dove ricordo la causa di lite tra alcuni Piccolomini e i loro soci veneziani e trevigiani era “occasione monete tergestine et aquilegensis”.

36 Quando Tiberio Altoviti dà a Provenzano di Ranieri il mandato di riscuo-tere i crediti della società a Cividale gli consegna un quaderno bambagino dove “scripta erant […] iura et rationes de debitis exigendis et aliis iuribus”: Diplomatico Ricci, 1264 luglio 31.

37 Non esistono censimenti anagrafici che permettano di stabilire esattamente il numero di famiglie venute dalla Toscana in Friuli. Per il Trecento è pos-sibile arrivare a qualche risultato per nuclei di un certo censo, nonostante i numeri vadano presi con beneficio d’inventario: le fonti parlano di 87 famiglie residenti a Gemona, 28 ad Udine, 35 a Cividale, 7 a Pordenone, 6 a Spilimbergo, 5 ad Aquileia, 3 a Tolmezzo. Alcuni nuclei sono attestati in centri più piccoli, come San Vito, Venzone, Chiusa, Fagagna, Pontebba. Traggo i dati da Polese, Organizzazione economica e attività di prestito, 1992, p. 27, in nota.

38 Si vedano i contributi di Tagliaferri, Polese, Bernardi e Bruni, Cargnelutti, Tilatti, Zenarola Pastore, Del Basso, De Biasio, Casella, Degrassi, riuniti nel volume miscellaneo curato da A. Malcangi, I Toscani in Friuli, 1991; e oltre a questi Degrassi, L’economia del tardo medioevo, 1988, una puntuale ricostruzione delle condizioni dell’economia friulana, soprattutto capitolo VI (Aspetti e problemi della gestione finanziaria), pp. 419-434.

39 Fornisce le notizie, traendole da fonti friulane, su Ristoro e Bartolomeo Zenarola Pastore, L’altra faccia della luna, 1992, p. 126.

40 “Salamone Bartolomei de Piccholominibus habet in provincia de Frioli pos-sessiones extimatas in duodecim milibus sexcentis sexagintasex libris, tre-decim soldis et quactuor denaris; ut patet in libro seu quaterno extimationis fortilitiarum et aliarum possessionis existenti penes offitium dominorum Novem Gubernatorum et Defensorum Comunis et Populi Senarum”: que-sta la descrizione dei beni del figlio di Bartolomeo che gli ufficiali addetti alla compilazione del catasto cittadino redassero nel 1318. A questa data, oltre ai beni friulani, Salamone, che è registrato nella posta del congiunto Guglielmino di Guglielmo, suo tutore, appariva proprietario soltanto di un appezzamento valutato 33 lire e 12 soldi. Estimo 114, c. 55r. e cc. 121r-

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129v la posta del consorte. Per la vicenda in relazione a Guglielmino, vedi infra, pp. 324 sgg.

41 Ricordo che nel 1253 i Piccolomini erano in collegamento di affari con alcuni mercanti di Venezia e di Treviso (Diplomatico Ricci, 1253 aprile 17); nel 1258 la società stipulava un contratto di cambio a Padova in unione con “Manno Zordano de Sena et Mannello dicto Bojohanne” e la loro società (Diplomatico Ricci, 1258 maggio 15); per l’acquisto di panni fu stipula-to un accordo con Davanzato di Alberto di Borgo San Sepolcro abitante a Rimini, che appariva consorziato a Manno di Giordano (Diplomatico Ricci, 1259 ottobre 6).

42 Un ruolo di direzione all’interno della società dovette essere svolto per certo tempo da Rustichino di Ranieri che dagli atti risulta risiedere a Siena per tutto il tempo in cui la compagnia sviluppò i suoi affari in area friulana e veneta, figurando sempre come obbligato principale in tutti i contratti di mutuo che vennero stipulati in città per gli affari della società fino al 1259 (cfr. Diplomatico Ricci, 1254 gennaio 23; 1255 febbraio 8; 1255 marzo 6; 1257 giugno 1; 1257 giugno 2; 1257 settembre 10; 1257 ottobre 15; 1257 gennaio 9; 1257 marzo 6; 1258 aprile 4; 1258 agosto 20; 1258 ottobre 17; 1258 gennaio 7; 1259 maggio 3; 1259 maggio 29). Non a caso quan-do nel febbraio 1256 i figli Ranieri e Gabriello accettavano nella società a nome dei soci della compagnia il nuovo membro Ildebrandino Gallerani essi dichiaravano di agire “de mandato Rustichini” (Diplomatico Ricci, 1256 febbraio 8). In seguito la direzione passò nelle mani dei figli: quando Arriguccio di Ranieri di Rustichino arrivò a Cividale per svolgere in quella sede gli affari fece dichiarazione di lavorare “sine fraude et fideliter” al socio Tiberio che riceveva “pro Ranerio et Talomeo et Gabriello”, figli appunto di Rustichino (Diplomatico Ricci, 1258 agosto 8); e nel 1262 quando a Venezia il mercante Azzolino di Bartolomeo stipulava un contratto di cam-bio con Frangipane Squarcialupi e altri banchieri senesi, diceva di essere socio di Ranieri, Gabriello e Tolomeo “et omnium sociorum societatis”: i tre erano, non a caso, gli unici soci nominati (Diplomatico Ricci, 1262 febbraio 6); infine nel 1270 Ildebrandino presentandosi a Tiberio a Cividale per ritirare i guadagni della compagnia “dicebat esse paratus eiisdem do-mino Rainerio et Gabriello ac societate eorum portare dictos denarios in termine trium dierum post quam in partibus Scene [sic] venturus esset” (Diplomatico Ricci, 1270 settembre 17).

43 Oltre a Tiberio Altoviti che partecipava alla compagnia in qualità di “so-cius” (menzionato come tale in Diplomatico Ricci, 1258 agosto 8) ope-ravano al nord, in posizione sembra di agenti o fattori, Folenio Tebaldini e Provenzano di Ranieri (Diplomatico Ricci, 1258 agosto 8; 1264 luglio 31).

44 Dalla documentazione risultano farne parte i seguenti soci: Rinaldo Rinaldini negli anni 1253-1255 (Diplomatico Ricci, 1253 giugno 24; 1253 luglio 8; 1254 marzo 1); Ildebrandino di Buonfiglio Gallerani dal 1256 al 1270 (Diplomatico Ricci, 1255 febbraio; 1257 settembre 10; 1259 mag-

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gio 29; 1259 luglio 5; 1261 aprile 7; 1261 settembre 17; 1269 ottobre 7; 1270 settembre 17); Tagliapane Altoviti nel 1258 (Diplomatico Ricci, 1258 agosto 5); Gallerano di Buonfiglio Gallerani nel 1259 (Diplomatico Ricci, 1259 luglio 5); Ranuccio di Brunetto nel 1260 (Diplomatico Ricci, 1260 ottobre 13); Buonfiglio di Bolgarino nel 1260 (Diplomatico Ricci, 1260 novembre 9); Baldo di Buonfiglio nel 1261 (Diplomatico Ricci, 1261 aprile 7 e 1261 luglio 27); Azzolino di Bartolomeo nel 1262 (Diplomatico Ricci, 1262 febbraio 6); Ardimaro di Altiveto nel 1262 (Diplomatico Ricci, 1262 dicembre 15); Rinaldo, Bernardino, Gualterio e Robbaconte Rinaldini nel 1264 (Dorez, Guiraud, Les registres d’Urbain IV, II, n. 521, pp. 259-260); Ranieri di Priore giudice, Leone di Bonaguida di Mencarello nel 1269 (ma la loro appartenenza potrebbe essere anteriore a questa data perché l’atto si riferisce ad un mutuo da loro contratto tempo prima: Diplomatico Ricci, 1269 ottobre 7).

45 Ricordo che nel 1253 i Piccolomini erano in collegamento di affari con alcuni mercanti di Venezia e di Treviso (Diplomatico Ricci, 1253 aprile 17); nel 1258 la società stipulava un contratto di cambio a Padova in unione con “Manno Zordano de Sena et Mannello dicto Bojohanne” e la loro società (Diplomatico Ricci, 1258 maggio 15); per l’acquisto di panni fu stipula-to un accordo con Davanzato di Alberto di Borgo San Sepolcro abitante a Rimini, che appariva consorziato a Manno di Giordano (Diplomatico Ricci, 1259 ottobre 6).

46 Oltre a Tiberio Altoviti che partecipava alla compagnia in qualità di “so-cius” (menzionato come tale in Diplomatico Ricci, 1258 agosto 8) ope-ravano al nord, in posizione sembra di agenti o fattori, Folenio Tebaldini e Provenzano di Ranieri (Diplomatico Ricci, 1258 agosto 8; 1264 luglio 31).

47 Cfr. nota 42.48 Vedi nota 44.49 “Raynerius Rustichinus et Raynerius Turchius […] sumus confessi quod

recepimus nomine concambii a Bonaventura Augustini, pro eo et domino Aringerio Orlandi et sociis, et Raynerio Focalcherio et sociis suis, XXV libras venecialium grossorum pro quibus denariis Raynerius Rustichini et Raynerius Turchi, pro nobis et sociis nostris, promittimus dare dicto Bonaventure Augustini […] CCCCXXV libras denariorum senensium par-vorum et facere solutionem cum denariis grossis senensis, computandum unum denarium grossum pro XII parvis. Et hanc solutionem facere promit-timus usque ad proximas kalendas mensis augusti in civitate Sene sub pena XXV libras monete senensis […]”: Diplomatico Ricci, 1257 maggio 8.

50 Nel primo contratto rogato a Padova e datato 15 maggio 1258 i Piccolomini comprano da Buonfiglio e Vineldo 3 lire di veneziani grossi al prezzo di 48 lire senesi che si impegnano a pagare in città entro le calende di giu-gno; nel secondo, Venezia, 5 agosto 1258, Tagliapane Altoviti socio dei Piccolomini si obbliga verso Dietaviva di Benello e Buonristoro soci di Rolando Buonsignori per 201 lire quale prezzo di 12 veneziani grossi, il

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cui pagamento sarà fatto entro la festa di metà agosto dell’anno successivo: Diplomatico Ricci, alle date.

51 Un contratto di cambio rogato a Pisa il 13 ottobre 1260 era stipulato se-condo gli stessi schemi: Ranuccio di Brunetto, procuratore di Gabriello di Rustichino Piccolomini e soci, in società con Davanzato di Borgo San Sepolcro e Buonfiglio di Bolgarino senese, si facevano debitori di Cristoforo di Mancino, Bartolomeo di Ildebrandino Saracini, Bencivenne di Asso, Billincione di Cerrentone, Bonaventura di Peloso, e soci, per una somma di 733 lire, 6 soldi, 9 denari novi pisani prezzo di 400 denari genovesi minuti che si impegnavano a pagare a Siena entro le calende di novembre in denari senesi minuti. I contratti in Diplomatico Ricci, alla data.

52 Azzolino di Bartolomeo, a nome suo e dei compagni Ranieri, Gabriello e Tolomeo di Rustichino, appare debitore di Frangipane Squarcialupi, Aringerio di Orlando Marescotti e soci, di 410 lire di denari piccoli senesi da pagare il 21 marzo successivo a Siena a causa di un acquisto di 25 grossi di denari fatto a Venezia: Diplomatico Ricci, 1262 febbraio 6.

53 Diplomatico Ricci, 1254 gennaio 23; 1257 giugno 1; 1257 giugno 2; 1257 gennaio 9; 1257 marzo 6; 1258 aprile 4; 1258 agosto 20; 1258 ottobre 17; 1258 gennaio 7; 1258 marzo 16; 1259 maggio 29; 1259 giugno 26; 1259 luglio 23; 1259 settembre 4; 1260 aprile 14; 1261 agosto 19; 1261 settem-bre 17; 1261 settembre 28; 1262 gennaio 19. Le somme prese in prestito si aggiravano dalle 50 alle 500 lire – soltanto in tre casi superarono questo livello di guardia raggiungendo 600, 900 e 1.000 lire.

54 Diplomatico Ricci 1257 settembre 10; 1257 ottobre 15; 1259 maggio 3; 1259 ottobre 29; 1261 gennaio 29; 1261 marzo 11; 1261 aprile 19; 1261 ottobre 11. Cfr. Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, la tabella relativa: “La Mercatura. Uomini e affari: operazioni e presenze a Siena (XIII secolo)”.

55 Nel 1265 il patriarca Gregorio riceveva a credito dai mercanti Rinaldo Rinaldini, “milite senensi” e Pietro Belino, certa quantità di “pannis de colo-re et pellibus pro fodris” per un valore di 200 marche aquileiesi da utilizzare “in vestibus domini patriarche et familie sue”: il contratto presso l’Archivio Notarile di Udine è pubblicato in Zdekauer, Il mercante senese, 1925, n. 4, pp. 51-52.

56 Diplomatico Ricci, 1259 ottobre 6 (2 pergamene).57 Diplomatico Ricci, 1260 novembre 6.58 Diplomatico Ricci, 1260 novembre 9. La pergamena è purtroppo illeggibile

in molte sue parti, e non si comprende la quantità di panni acquistata.59 Diplomatico Ricci, 1261 aprile 7. La spesa complessiva fu di 917 lire.60 La lettera che fu riunita in una raccolta insieme ad altre, la maggior parte

di natura commerciale, dall’erudito Carlo Strozzi fa parte della collezio-ne Magliabecchana della Biblioteca Nazionale di Firenze (Classe VIII, n. 1392). È stata edita da Bautier, Marchands siennois, 1947, pp. 98-101.

61 Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice la tabella relativa: “La Mercatura. I Piccolomini e il commercio dei panni. La ‘vestita’ alla fiera di

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maggio di Provins del 1294: i prodotti acquistati. Scomposizione per quan-tità e valore in rapporto al luogo di origine”.

62 Tangheroni, Siena e il commercio internazionale, 1986, pp. 27 sgg.63 Potrebbe trattarsi della compagnia familiare che risulta già attiva nel 1266,

denominata ‘dei figli di Bartolomeo’: vedi Diplomatico Ricci, 1266 settem-bre 1.

64 Stima per difetto: ricordo che il primo contratto di mutuo stipulato con il conte di Bar che prevedeva il recupero del credito a Provins è del dicembre 1221. Vedi supra, p. 129 nota 3.

65 Lisini, Genealogia della famiglia Piccolomini, 1898, V, p. 20; Prunai, Carte mercantili, 1962, p. 560; Cassandro, La banca senese, 1987, pp. 131-133.

66 Lettera pubblicata in Bautier, Marchands siennoise, 1947, p. 98.67 I membri della famiglia che si incontrano nelle piazze europee in un periodo

compreso tra 1221 e 1273 sono: Bartolomeo di Ugone, Chiaramontese, Alamanno di Ugone, Piccolomo di Oltremonte, Bernardino di Alamanno di Ugo, Turchio di Chiaramontese, Roberto di Oltremonte, Rinaldo di Ranieri di Rinaldo, Arrigo di Ranieri di Rustichino, Corrado di Tolomeo. Quelli la cui presenza è attestata in una dimensione interregionale: Ranieri di Rustichino, Ranieri di Turchio, Gabriello di Rustichino, Giovanni di Turchio, Arruguccio di Ranieri di Rustichino, Roma di Alamanno, Bernardino di Alamanno, Cione di Alamanno. Vedi Mucciarelli, I Piccolomini di Siena le tabelle relative alle operazioni sul mercato internazionale e interregiona-le.

68 Nel maggio 1246 è rimborsato dal Comune per essere stato tra gli uffi-ciali nominati a rivedere le ragioni di quelli “qui fecerunt silices et vias” (Libri di Biccherna, VII, p. 54), e tre anni più tardi è incaricato dell’ordine e dell’igiene pubblica (Libri di Biccherna, IX, pp. 142-143) e di rivedere le fonti del Comune “cum quatuor magistris” (Libri di Biccherna, X, p. 73). Fa parte del consiglio della Campana nel 1251 [Caleffo Vecchio, II, p. 722 (1251 maggio 17)], nello stesso anno è ricordato come console di Mercanzia [Caleffo Vecchio, II, p. 734 (1251 ottobre 30)], tra gli emen-datori del Caleffo (Libri di Biccherna, XI, p. 80) e dello statuto (Libri di Biccherna, XII, p. 78), tra gli ufficiali posti “qualiter denarios pro facto Silve, acquirerentur et qui ordinaverunt” (Libri di Biccherna, XI, p. 99) e tra quelli incaricati delle paghe dell’esercito (Libri di Biccherna, XI, p. 112). Nel 1254 ufficiale “ad faciendum ordinamento guerre” (Libri di Biccherna, XV, p. 195), nel secondo semestre dell’anno successivo è provveditore di Biccherna (Libri di Biccherna, XVI, e Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, c. 73). Nel 1258 è tra i quindici uomini scelti per ogni terzo “ad inveniendum et ordinandum quomodo comune Senese posse habere pecuniam pro expediendo debitum comunis” (Libri di Biccherna, XX, pp. 144-145).

69 Rispetto alla natura del ghibellinismo senese rimando alle interessanti e sti-molanti considerazioni espresse da Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, pp. 69-72, che spiega perché questa scelta di parte non possa essere inter-

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pretata né in termini di opposizione al guelfismo fiorentino, né in termini di ortodossia politica o patriottismo civico, ma piuttosto come questa at-titudine imperiale si plasmasse e conformasse alle vicende e alle esigenze di Siena. Sul significato dell’adesione della città alla parte imperiale, anche Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, pp. 43, 60-61 e 67 che sot-tolinea come Siena fosse venuta definendo fin dai primi anni del Duecento una relazione nei confronti dell’impero il cui esito era stato una separazione delle sfere effettive di potere – un’alleanza insomma tra poteri autonomi –, come la solidarietà imperial-ghibellina seguisse l’evoluzione dello stato comunale e delle circostanze politiche, come la città, infine, riuscisse a non incrinare tale solidarietà pur perseguendo una politica territoriale – soprat-tutto verso il contado aldobrandesco – potenziale elemento di collisione con l’impero. Sulle vicende del ghibellinismo negli anni 1240-1260 vedi anche Waley, Siena e i senesi, 2003, pp. 147-152.

70 Una delle prime attestazione dell’esistenza di questa magistratura è del 1239 (Caleffo Vecchio, II, p. 482, n. 231), ma alcuni eruditi collocano la sua nascita ad anni anteriori: il Malavolti per esempio faceva risalire l’ori-gine del collegio dei Ventiquattro al 1233 quando il “populus” avrebbe cer-cato di impadronirsi del governo della repubblica. I nobili, racconta, ne ebbero sentore e per evitare lotte stabilirono “di trattar le cose co’ popu-lari civilmente e senza strepito” e d’accordo si radunarono per discutere una riforma: i popolari rinunziarono all’idea “di esser soli nel governo” ma pretesero di avere almeno una metà dei posti in ciascuna magistratura (Malavolti, Dell’historia di Siena, 1599, I, p. 57). Su una composizione paritaria di nobili e popolari concordano anche Cesare Paoli che parla di un governo rappresentante “l’universalità dei cittadini”, e lo Zdekauer, che pur evidenziando come la magistratura rappresentasse “una prima grande conquista del Popolo” afferma non essere credibile che da essa ne rima-nessero esclusi i nobili (Paoli, I ‘Monti’ o fazioni nella repubblica, 1891, p. 405; Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, p. lxv). Per l’erudito Giugurta Tommasi invece essa “componevasi di cittadini che ave-vano giurato al Breve, erano allirati e si dicevan di popolo”: Tommasi, Dell’historie di Siena, 1625-1626, I, p. 244. Allo stesso modo evidenzia il carattere prettamente popolare del priorato, Mondolfo, secondo cui solo in un secondo momento “quando la penetrazione del Popolo nel comune ha riavvicinato le classi sociali” esso si sarebbe aperto anche a elementi popolari: Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 25-27. La magistratura dei Ventiquattro che faceva parte del Consiglio della Campana, mentre i suoi priori, che erano tre, facevano parte del Consiglio del Capitano, si qualifica come consiglio politico: i suoi priori agiscono di comune accordo con i consoli della Mercanzia e con i consoli dei Cavalieri; esso sorveglia la ‘famiglia’ del Podestà; dirigono la elezione del Capitano del Popolo; anche se non partecipa direttamente al lavoro legislativo vi esercita indirettamente un’influenza potente perché non può essere presa decisione di una qualche importanza senza il suo intervento o l’assenso dei priori; può appellarsi alle

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decisioni del Capitano: cfr. Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, pp. lxv-lvii.

71 Esemplificazioni in Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 109 sgg. L’elenco degli uffici e degli incarichi svolti è tratto dalle note biografiche di Alamanno di Ugo, Aldighieri di Ugo, Bartolomeo di Guglielmo det-to Mocata, Chiaramontese di Ranieri di Rustichino, Enea di Rinaldo, Fortarrigo di Ranieri di Rustichino, Gentile di Fortarrigo, Guglielmino di Guglielmo, Martino di Ranieri di Fortarrigo, Ranieri di Chiaramontese, Ranieri di Rinaldo, Rustichino di Ranieri di Rustichino “milex”, Turchio di Chiaramontese di Piccolomo, Ugo di Chiaramontese, Ugo di Alamanno in Appendice a cui rinvio per le indicazioni documentarie. Per la presenza dei Piccolomini nella magistratura di Biccherna: Alamanno provveditore nel secondo semestre del 1240; Chiaramontese di Ranieri provveditore nel primo semestre del 1247; Ugo di Alamanno provveditore nel primo seme-stre del 1250; Rustichino di Ranieri di Rustichino provveditore nel secondo semestre del 1255; Ranieri di Rustichino provveditore nel primo semestre del 1259; Enea di Rinaldo provveditore nel primo semestre del 1260: Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], cc. 68, 70, 71, 73, 74, 78.

72 Libri di Biccherna, VII p. 54; IX pp. 142-143; X p. 73; XI p. 80, 99, 112; XII p. 78; XVI passim; XX pp. 144-145. Vedi supra.

73 Rustichino è ricordato come “milex” in Diplomatico Ricci, 1257 giugno 2. Nell’agosto 1261 Ranieri e il fratello Gabriello sono entrambi qualificati come milites, quando prendono in prestito per la loro società 412 lire da Salvi di Dietisalvi e Bonifacio di Guidone: Diplomatico Bigazzi, 1261 ago-sto 19.

74 Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione, 1997, p. 30.75 Vantano l’appellativo di “miles” Gabriello di Rustichino di Ranieri, Ranieri

di Turchio di Chiaramontese, Rustichino di Ranieri di Rustichino e Ugo di Alamanno decorato del cingolo equestre nel 1247: cfr. Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, le relative note biografiche in Appendice. Sul ruolo della militia come elemento di identificazione del futuro ceto magnatizio senese Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, 1997, pp. 144-147.

76 A proposito di queste “societates” si vedano Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, p. lxiv-lxv; Nardi, I borghi di San Donato, 1966-1968, pp. 39-59; Catoni, La faziosa armonia, 1982, p. 226; Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, p. 65.

77 La creazione del Capitano del Popolo risalirebbe all’anno 1253 (Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, p. 28). Sui poteri e le prerogative di tale magistratura si possono vedere gli ordinamenti recepiti nel testo statutario del 1262 che consente di cogliere quanto fosse ormai avanzato il processo di penetrazio-ne del “populus” in seno all’organismo comunale: il capitano, uno dei più alti ufficiali forestieri è pagato dal Comune (dist. I, 170) e ha alla stregua del Podestà una vacazione di tre anni dalla carica (dist. I, 151); se a quel-lo rimane il supremo potere giudiziario al capitano spettano tuttavia alcune

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funzioni: può punire gli ufficiali del Comune, compresi quelli dei priori dei Ventiquattro colpevoli di frode ai danni del Comune (dist., I, 413), ha fa-coltà di pronunciare bandi che devono essere considerati validi, se hanno il consenso dei Ventiquattro, “tamquam si fieret ex parte potestatis” (dist., II, 59); non c’è appello alle sue sentenze (dist., II, 167). Oltre a queste funzioni altre gli derivano dalla sua funzione originaria di supremo magistrato del popolo: così in caso di discordia tra gli uomini delle arti a lui e ai priori dei Ventiquattro è demandato il compito di “eligere bonos et legales homines sicut eis videbitur qui dictam litem debeant sedare” (dist., I, 172, additio). Cfr. Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, alle rubriche. Su questa figura si può vedere anche, ma per un periodo posteriore, Ciampoli, Il Capitano del Popolo, 1984. Inoltre, sul senso della trasformazione del “po-pulus” e della sua comparsa al governo della città, passaggio che si compie nella prima metà del XIII secolo, cfr. Zdekauer, Il Constituto del Comune di Siena, 1897, pp. lxxvii-xviii; Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 27-37; Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, pp. 65-66.

78 Ricordo tra i capi del movimento popolare Ildebrandino di Guido Cacciaconti, appartenente ad una dinastia del contado di origine comi-tale, seguito poi da un altro celebre esponente dell’aristocrazia urbana: Provenzano di Ildebrandino Salvani. Cfr. per il Cacciaconti Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, p. 63; e Tempesti, Provenzan Salvani, 1936, pp. 3-56. Significativo anche che l’elezione del capitano spettasse nel 1257 a una commissione di sei uomini indicati come nobiles et magni cives senen-ses: vedi Banchi, Breve degli officiali, 1866, p. 54.

79 Si veda quanto scrivevo nel capitolo precedente circa la presenza dei Piccolomini nella corporazione, e più in generale l’elenco dei consoli in Bichi, Catalogo e serie de’ consoli di Mercanzia, 1725 [ms.].

80 Vedi quanto afferma Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, p. 66. Per alcuni esempi concreti dell’intervento dei “nobiles” e del ruolo da essi svolto nell’evoluzione statutale cittadina nonché nell’affermazione del regime popolare cfr. anche Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 37-44; e il mio I Tolomei, 1995, pp. 35-70. Segnala questa collusione anche Tabacco, Egemonie sociali, 1974, pp. 275 sgg. Per una sintesi del ruolo e delle mo-dalità di affermazione degli organismi di popolo nell’Italia comunale si può vedere Artifoni, Tensioni sociali, 1986, pp. 461-491. La bibliografia rela-tiva ai rapporti fra popolo e governo comunale è amplissima perché di tale rapporto parlano si può dire tutti gli studi sulla vita politica urbana del Duecento. Mi limito qui a rinviare ad alcuni lavori ineludibili: Salvemini, Magnati e popolani, 1899, poi 1960; Ottokar, Il comune di Firenze, 1926, poi 1962; Cristiani, Nobiltà e popolo, 1962; Kamp, Istituzioni comunali 1963; Herlihy, Pistoia nel Medioevo, 1967 (trad. it. 1972); Grundman, The Popolo at Perugia, 1974; Koenig, The Popolo of Northern Italy, 1977; Raveggi, Tarassi, Medici, Parenti, Ghibellini, Guelfi e Popolo Grasso, 1978; Artifoni, Una società di “popolo”, 1983; Heers, Partiti e vita poli-tica, 1983.

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81 La definizione è di Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, p. 64, da cui è tratta anche la citazione seguente.

82 L’attestazione dell’unione è tarda, risalendo al 1269 quando Lucia è ormai vedova. Baroccino fu infatti ucciso nel novembre 1262 da alcuni magnati, tra cui Tolomei, Salimbeni, Malavolti, quando lo scontro politico era al culmine. Vedi Conventi 163, cc. 255r-256r (Ranieri restituisce al padre di Baroccino, Bencivenne, 400 lire di denari a titolo di “pro dotibus et lucro donationis”). L’unico altro atto che racconta della vita di Lucia è la scelta dell’oblazione “ad redemptionem pecchatorum suorum et pro salute anime sue et animarum parentium suorum” al monastero di San Galgano, il 30 di-cembre dell’anno 1288, avvenuta nell’ospedale di Santa Maria Maddalena fondato dall’avo: Conventi 163, c. 271. Per l’omicidio di Baroccino Mucciarelli, I Tolomei, 1995, p. 47 e infra.

83 Per una ricostruzione di questi fatti, nonché degli antecedenti, vedi Paoli, La battaglia di Montaperti, 1869; Martini, Siena da Montaperti alla cadu-ta dei Nove, 1961, pp. 75-78; Sestan, Siena avanti Montaperti, 1961, pp. 69-74; Salvini, Montaperti 1260, 1990, pp. 251-276; e la recente messa a punto di Raveggi, La vittoria di Montaperti, 1995, pp. 79-94.

84 Diplomatico Riformagioni, 1261 gennaio 3: testimoni alla ratifica della pace furono, in qualità di consiglieri del Comune, Turchio di Chiaramontese e Ranieri di Turchio di Chiaramontese.

85 L’interdetto era rivolto contro i senesi, i ghibellini di Firenze e tutti i fautori di Manfredi in Toscana. Cfr. Tommasi, Dell’historia di Siena, 1625-1626, II, p. 13; Donati, Lettere politiche del secolo XIII, 1897, pp. 105-106. Un re-soconto della storia senese di questi anni in Martini, Siena da Montaperti alla caduta dei Nove, 1961, pp. 78 sgg.

86 Conosciamo il contenuto della bolla per una allusione fatta nella lettera pontificale del 26 gennaio 1262 spedita da Viterbo con la quale Urbano esclude il mercante Vivolo di Salvanello dalla sentenza di scomunica: “Licet nuper in cives Senenses ex certa causa mandaverimus excommunicationis sententiam generaliter promulgari, ac etiam inhiberi ne quis illis vel eorum alicui de debitis respondeat eorundem, quia temen devotionis tue obse-quium habemus circa nostra et apostolice sedis negotia […] personam tuam huiusmodi includi sententia nolumus […]”: Guiraud, Les registres d’Ur-bain IV, 1900, Camerale, I, n. 71. Sulla politica di Urbano si veda Jordan, Les origines de la domination angevine, 1909, pp. 208-223.

87 Scriveva Andrea Tolomei nel settembre 1262: “[…] In Inghilterra […] i Senesi que vi stavano ne sono tutti venuti e no ve n’osa istare neuno […]. Leonardo Giani si era aparechiato d’andare in Fiandola a n’vestire in dra-peria, ebe letara dai suoi chonpagni que nol dovese fare, unde se n’è rimaso e no ne farà neiente; e neuno altro Senese que ne sia”. Anche lui avrebbe dovuto intraprendere un viaggio ma è dubbioso: “se vedrò que posa andare […] sì lo farò. Ma sed io in questo mezo intendese que i Senesi no ci posono istare si metarei le vostre chose in salvo e veromone chome farano li altri, che pare a me que ciaschuno se ne volia venire, sì pare dubioso lo stalo”. E

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poi, timoroso di ulteriori provvedimenti papali, aggiunge: “E se’l papa man-dase chasuso que i Senesi fusero presi in avere e in persona, sì chome si dicie que vole fare, sì credo que sarà ubidito il suo mandato, per chasgione que ci à ria giente che volontieri dirobarebero altrui, se potrano”. Gli affari della compagnia sono in cattive acque – numerosi prestiti sono stati concessi ai monasteri di S. Benigne di Dijon, S. Pierre di Flavigny, Mont Notre Dame di Provins e alle monache di Jardin lez Pleurs vicino a Troyes ma tutti rifiu-tano i pagamenti adducendo gli ordini del decano di Brioude incaricato di far osservare la bolla di Urbano – e nemmeno prospettive sono buone: “se volete dire di fare diposito in alchuna abadia di Ciestele, sì no mi pare guari buono a fare al tenpo d’ora, perciò qued elino sono sì temorosi dela Chiesa che no vorebero fare chontra a chosciença […] e fano ogi dei denari que dieno dare a noi ed altri que no ne voliono paghare neuno denaro per paura d’esare ischumunichati”: la lettera è pubblicata in Castellani, La prosa italiana, 1982, citazioni alle pp. 277, 287-288; si veda anche Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 109-113. Per le operazioni internazionali in cui erano coinvolti i Salimbeni in questo perioso Carniani, I Salimbeni, 1995, p. 34.

88 In questi termini il testo della deliberazione presa il 5 luglio 1262 dal Consiglio Generale, pubblicata in Tempesti, Provenzan Salvani, 1936, p. 51, doc. 18, da cui è tratta la citazione. Nota il Jordan come la decisione del governo di richiamare a Siena i mercanti residenti in Europa a svolge-re i loro affari avesse forse l’effetto, obbligando anche i cambiatori papali Buonsignori ad abbandonare i traffici in cui erano impegnati, di colpire Urbano IV. Ma ovviamente il peso di tale decisione era tale da estendersi a tutti i banchieri senesi. Cfr. Jordan, Les origines de la domination angevine, 1909, p. 341.

89 Sintetica registrazione dell’omicidio in Cronaca senese di Paolo di Tommaso Montauri, p. 222. Distesamente in Tommasi, Dell’historia di Siena, 1625-1626, II, lib. VI, p. 22 (qui la citazione nel testo); le sanzioni decise a carico dei congiurati in Consiglio Generale 10, c. 95r. Per la ricostruzione dell’as-salto e le conseguenze il mio I Tolomei, 1995, pp. 47-48.

90 “E al tenpo di Girnolo da Padule, potestà di Siena, e ghuelfi furo tutti cha-ciati e mandati a chonfino; e andonne la maggior parte a Radicofani”: così scriveva l’anonimo autore di una cronaca cittadina interpretando l’esodo come un provvedimento imposto dal governo (Cronica senese di autore anonimo, 1931-1939; p. 22). In realtà non c’è alcun dubbio sul fatto che si trattò di un allontanamento volontario, forse addirittura concordato con il pontefice, come dimostrano i fatti immediatamente successivi. Sull’esodo dalla città anche Tommasi, Dell’historie di Siena, 1625-1626, II, lib. VI, p. 22 che fornisce un elenco dei fuorusciti e riferisce sulla nascita della decisio-ne di abbandonare Siena in questi termini: “Molti delle famiglie guelfe co-minciarono a stringersi insieme ed a fare nuovi discorsi che tutti miravano a divisione […] ed hebbero come conclusione che fosse necessario allontanar-si dalla città […]. Così d’improviso si partono e fanno massa a Radicofani all’hora posseduto dal Papa”, e commenta, “furono molto potenti, siche la

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città ne ricevé gravissima ferita”. Vedi anche Bicchi, Radicofani, 1932, pp. 133-134.

91 Gli uomini nominati nella lettera, esclusi dalla scomunica, sono: “Arigolus Acharisii, Andreas et Hugo fratres filii eiusdem Arighi; Chisgius Arigoli, Parisius Ranucci; Raynerius et Gabriellus Rusticini et Henricus filius eiu-sdem Rusticini, Bernardinus Prioris; Hugo Hugolini Gentilis, Gentilis Hugolini; Tesus Paganelli, Tengus Paganelli; Ciampolus Albizi, Bandus et Transmundus eius filii et Giacoppus Giani, Atigolus, Griphus et Gianus filius Giacoppi Giani; Ugo Incontratus, Deus et Guido Luteringi; Tavena Lutteringi, Jacobus et Meus Tavene et Meus et Tengus Incontrati et Geri Bonincontri: Vivianus Detavive; Nottus Giovannus, Alexander, Campolus et Bonutius Salimbene; Palmerius Guidi Sarraceni; Raynerius et Guillielmus Benaki, Guillielmus Raynerii; Hugo Guidonis Sarracenis, Palmerius Guidi Sarracenis; Bonincuntrus Africantis et Jacopinus Guastelloni et Guastellinus Johannis, Johannes Africant et Gualterus Africani; Bernardinus Raynaldini et Lore Paganelli, Crescentius Raynerii et Minus Guidi; Recovarus Bonaguide et Pescone; Mannus Recovari et Vitalionus Viatalioni; Petrus et Andreas Christofori, Fridericus Doni, Tebaldus Alteville et Andreas Christofori”. Dorez-Guiraud, Les registres d’Urbain IV, 1900, II, n. 175 e I. Con suc-cessiva lettera del 20 febbraio 1263 il papa precisò le modalità da seguire nella procedura di assoluzione di questi banchieri, a cui si richiedeva con espresso atto di giuramento di rinunziare da quel momento a prestare aiu-to o appoggio a Manfredi e alla sua parte. Il papa ordinava infatti al suo delegato: “[…] Volumus […] et mandamus quatenus infrascriptam formam circa huiusmodi absolutionem studeas observare. Forma talis est, videlicet quod illi qui debent absolvi, publice ac patenter, presentibus multis probis ydoneisque personis, abjuratis prius cunctis sacramentis, confederationibus, pactis et promissionibus quibus persecutori tenentur eidem, prestent tibi, nostro et ecclesie Romane nomine, juramentum quod super hiis, pro quibus in eos excomunicationis sententia fuit hac occasione per sedem apostolicam promulgata, nostris et ecclesie mandatis que ipsis semel et pluries per nos vel per alios, quibus hoc committendum duxerimus, faciemus, precise pare-bunt, quodque deinceps in dictum Manfredum non habebunt nec assument in dominum nullumque omnino sibi suisque nuntiis officialibus prebebunt consilium, auxilium vel favorem publicum vel occultum, nec eius recipient nuntios, quinimmo nobis et predicte ecclesie contra Manfredum ipsum ad nostrum et nuntiorum nostrorum mandatum potenter et patenter assistent; quibus ut decet, rite peractis, tu eos iuxta formam ecclesie, ab huiusmodi sententia excomunicationis absolvas, faciens exinde fieri publica instrumen-ta […]”: Guiraud, Les registres d’Urbain IV, 1900, Camerale, n. 213.

92 Consiglio Generale 10, cc. 95r-97v (6 dicembre 1263); Diplomatico Riformagioni, 1263 dicembre 12. Una relazione degli sforzi del governo e delle trattative con i fuorusciti in Tommasi, Dell’historie di Siena, 1625-1626, II, lib. VI, pp. 23 sgg., non privo di certa ampollosità retorica; a p. 41 per la distruzione del palazzo. Notizie del saccheggio dei due palazzi, anche

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in un atto posteriore, in cui si promette il rimborso dei danni dati “tempo-re combustionis palatii filiorum Tolomei et Piccholominum” (Diplomatico Riformagioni, 1267 maggio 13) edito da Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 71-81.

93 Gli uomini a cui Urbano indirizza la lettera sono “Petro Christofori de Tholomeis, Ciampolo Albizi, Ricovaro Bonaguide, Ranerio Rusticini, Arigolo Accerigi, Renaldo Renaldini, Notto Salimbene, Hugoni Lutteringi, Bernardino Renaldini, Albizino Boundelmontis, Johanni Salimbene, Salimbene Ranerii, Ranerio Benachi, Gualterio Renaldini, Ciampolo Salimbene, Gabriello Rusticini, Bonincontro Guastelloni, Ranerio Ranerii, Ranerio Turchi, Gullelmo Benachi, Jacopino Guastellone, Benutio Salimbene, Bonifatio Johannis, Griffolo Jacobi iudicis, Jacoppo Johannis, Andree Christofori, Bando Ciampoli, Incontrato Lutteringi, Jacobo Tavene, Segerio Johannis, Frederico Renaldi, Meo Incontrati, Robbaconte Renaldini, Arigo Ranerii, Nicolao Turchi, Deo Incontrati, Stricce Ranaldi, Jacomino Segerii, Renaldo Turchi, Giliberto Frederici, Jacobo Vitaleonis, Guastello Maffei, Divaloro Paganelli, Bonaventure Bonriccovari, Pescioni Riccovari, Tengo Incontrati, Arigolino Ciampoli, Hugoni Accerigi, Meo Tavene, Alexandro Salimbene, Orlando Scotti, Tese Paganelli, Hugoni Guidi Sarraceni, Ugerio Bonincontri, Ugolino Ugolini Gentilis, Caulino Paganelli, Andree Arrigoli, Gullelmo Renaldi, Guide Parabuchi, Guidoni Lutteringi, Meo Renaldi, Tengo Paganelli, Bacche Ranerii, Palmerio Guidi, Mino Folchacherii, Mino Accherigi, Nicolao Accerigi, Tase Roberti, Ugolino Rusticini, Gregorio Jacobi, Cavatorte Scudaccolli, Bartholomeo Cescentii, Renaldo Mainetti, Galobie Ugolini, Viviano Bonamici, Rogerio Bonavogle, Vence Bonaguide, Rodolfo Orlandini, Thure Orlandini, Monteliscario Imigle, Provenzano Johannis, Fede Adote, Ugoni Ranerii Ricchi, Nicolao Bonfilli notarii, Gratiano Ildebranini, Arigo Cenci, Transmundino Ciampoli, Ranutio Pipini, Turre Ferri, Venturelle Gidonis, Gattavaie Cambi, Scaglioncino Iscaglione, Fotarigo Saberii, Ugolino Galterii, Chiavellino Alberti, Jacobo Roberti, Ugolino Bonaguide, Boldroni Ildebrandini, Matheo Ranerii, Bartholomeo Grifuli, Turcio Chiermontesi, Salimbene Giovannis, Ranerio Salimbene, Teste Tebaldi, Neri Stephani Sarraceni, Orlandutio Ranerii, Giovanno Stricche domini Johannis, Bernardino Piciullo et aliis […]”. Dorez-Guiraud, Les registres d’Urbain IV, 1899-1958, II, n. 274.

94 La vicenda in Diplomatico Riformagioni, 1263 settembre 23; Diplomatico Riformagioni, 1263 dicembre 5; 1264 gennaio 25: con il primo atto Ranieri di Turchio e tre Tolomei, Pietro di Cristoforo, Meo di Rinaldo e Meo di Incontrato, liberati dal comune sono costretti a sottostare ad un giuramento di fedeltà verso Manfredi rinnegando l’appartenenza allo schieramento filo-papale e a dare come ostaggi al comune a garanzia dell’osservanza del loro atto di sottomissione – che comporta espressamente l’obbligo di pagar dazi e cavallate in servizio di Manfredi – alcuni beni e persone: il Piccolomini è costretto a concedere in ostaggio il figlio Niccolò, i Tolomei Regolino e Meo, figli di Pietro, oltre al loro castello di Poggio Santa Cecilia. Inoltre

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alcuni amici e consorti dei prigionieri vengono chiamati a garantire l’at-to di resa dei fuorusciti: in particolare Pandolfino di Dainese, Guastellino […], Arminuccio di Arminio, Turchio di Mezzolombardo e Guglielmo di Guglielmo Piccolomini dichiarando di aver ricevuto dal consorte Ranieri 1.000 lire in deposito, promettono obbligandosi personalmente nei beni e nelle persone che se il Piccolomini contravvenisse ai patti essi consegneran-no la detta somma al comune. Dai due atti di quietanza successivi a questa data si desume che il camerario comunale aveva sborsato per la loro libera-zione una somma di 13.000 lire.

95 Diplomatico Riformagioni, 1265 giugno 24.96 Diplomatico Riformagioni, 1265 luglio 2.97 Sulle pressioni esercitate da Urbano IV verso Siena cfr. Guiraud, Les regi-

stres d’Urbain IV, 1900, I, Camerale, n. 161; Dorez-Guiraud, Les regi-stres d’Urbain IV, 1899-1958, II, nn. 779, 780, 781. Notizia della sentenza di scomunica di Clemente IV in Jordan, Les registres de Clément, 1893, n. 1712.

98 Copia autentica della pace in Diplomatico Riformagioni, 1266 agosto 3. Gli atti che la precedettero, giuramento fatto al papa, assoluzione, promessa della ratifica dell’accordo in Diplomatico Riformagioni, 1266 maggio 29 (3 pergamene). Sul clima politico seguito in città all’indomani della bat-taglia di Benevento, in mancanza di riferimenti documentari, può vedersi quanto scrive l’erudito Orlando Malavolti che parla di tumulti e sedizioni riconducendo a questo periodo la costituzione di una commissione detta dei Sessanta, cioè composta da venti cittadini per terzo, incaricata di studiare un piano di riforma costituzionale: cfr. Malavolti, Dell’historia di Siena, 1599, II, p. 32.

99 Diplomatico Riformagioni, 1266 agosto 14. Tra i nomi dei fuorusciti per il quale Ranieri agisce compaiono Ranieri di Turchio e Arrigo di Ranieri Piccolomini.

100 Diplomatico Riformagioni, 1267 maggio 13. Il documento è pubblicato da Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 71-81. I Piccolomini presenti oltre a Ranieri sono suo fratello Gabriello, Ranieri di Turchio e Guglielmino di Guglielmo.

101 Ogni danno dato “quocumque modo in palatiis, turribus, cassaris, castris et hedificiis quibuscumque et molendinis et domibus, terris, vineis, nemoribus, pachuis, silvis et in auro et argento et denariis, pannamentis, armis et equis et aliis animalibus” doveva essere risarcito e in questo senso menzione parti-colare ricevevano i Rinaldini, i Salimbeni, i Piccolomini, i Tolomei i cui beni erano stati colpiti dalle devastazioni; ugualmente andavano indennizzate ai guelfi tutte le perdite economiche derivanti dal mancato sfruttamento di ter-re e poderi e garantiti i pagamenti dei crediti; si concedevano inoltre esen-zioni dal pagamento delle tasse e dei dazi imposti dal Comune dal tempo della podesteria di Gherardino di Lanfranco o la restituzione dei denari nel caso fossero stati versati; ci si impegnava alla cancellazione dei bandi e delle condanne “late vel facte contra eos”. Meticolose clausole regolavano infine

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le modalità per la riparazione dei danni. occorsi ai beni delle famiglie col-pite e ai loro “fautoribus”: entro quindici giorni dalla ratifica dell’accordo ciascuna consortaria riunendo oltre la metà dei suoi uomini di età superiore a vent’anni doveva eleggere due persone “super extimatione dictorum dam-pnorum […] datorum in re comuni unde consortes erant” mentre i nomi di altre due in rappresentanza del Comune erano a discrezione dei rettori delle arti: la commissione così composta doveva “diligenter deliberare” en-tro quindici giorni dalla sua elezione e l’ammontare del danno così deciso doveva essere rimborsato dal Comune entro tre mesi dalla stima; per i danni recati agli altri immobili – immobili non consortili cioè – doveva essere no-minata una simile commissione formata da dodici uomini, sei per ciascuna parte, che aveva due mesi di tempo per dichiarare il valore delle perdite subìte. Il documento è edito in Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 71-81.

102 Sullo svolgimento delle vicende di questi anni Martini, Siena da Montaperti alla caduta dei Nove, 1961, pp. 95 sgg. Un resoconto – non privo di elementi fantastici – della battaglia di Colle dove l’esercito comandato da Provenzan Salvani fu disperso dalle forze riunite delpartito angioino, capitanate da Guido da Monforte vicario generale del re di Sicilia, in Cronaca senese di autore anonimo, p. 67; Tommasi, Dell’historie di Siena, 1625-1626, II, lib. VI, p. 52.

103 Il ruolo di alcuni segmenti nobiliari nel processo di affermazione del regime popolare sia negli svolgimenti che portarono alla emanazione della legisla-zione antimagnatizia è ampiamente accettato dalla storiografia più recente che deve a Paolo Cammarosano una prima lucida lettura del caso senese (vedi infra, p. 204, nota 137). Riduttiva appare l’ipotesi che gli influen-ti esponenti di questo segmento nobiliare siano stati costretti a ratificare l’accordo di Viterbo, preparandosi ad un successivo colpo di mano, come prospettava invece ad esempio Martini che parlava di “ragioni di necessità […] e di opportunità” per le quali i rappresentanti dei casati si sarebbero “acconciati a firmare l’accordo”, pensando che una volta rientrati in città avrebbero riconquistato le antiche posizioni di privilegio: Martini, Siena da Montaperti alla caduta dei Nove, 1961, p. 95. Per un esempio del pieno recupero di una dimensione politica attiva si veda Consiglio Generale 14 (febbraio 1271-dicembre 1271).

104 Vedi Diplomatico Riformagioni, 1270 agosto 20; Diplomatico Riformagioni, 1270 agosto 23: atti nei quali Ranieri in veste di ufficiale di Biccherna è in-caricato di rimborsare la somma di 10.000 lire ad alcuni Salimbeni, credi-tori del Comune, secondo quanto i patti del maggio 1267 stabilivano. Vedi anche Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], c. 78.

105 Dopo questa data Ranieri di Rustichino compare nell’assemblea cittadi-na tra i consiglieri eletti del terzo Valle di San Martino (febbraio-dicembre 1271): Consiglio Generale 14, vedi alle cc. 7r, 28v, 35r, 43r, 45r, 68v.

106 Sulla centralità della parola e del discorso, sul loro strutturarsi retorico nel-

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la vita politica comunale, sul nucleo di idee veicolato, è maturato da alcuni anni un vivo interesse. Rinvio qui almeno ad Artifoni, I podestà professio-nali e la fondazione retorica della politica comunale, in “Quaderni Storici”, 63 (1986), pp. 687-719; Artifoni, Retorica e organizzazione del linguag-gio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Atti del convegno (Trieste, 2-5 marzo 1993), a cura di P. Cammarosano, 1994, pp. 157-182; Artifoni, Sull’eloquenza politica nel Duecento italiano, in “Quaderni Medievali”, 35 (1993), pp. 57-78. Il caso bolognese, con particolare riguardo a Rolandino Passaggeri, in Giansante, Retorica e politica nel Duecento. I notai bolognesi e l’ideologia comunale, 1999.

107 Per i rapporti che Carlo d’Angiò sviluppò con molti dei banchieri senesi che finanziarono la sua impresa e che lui ripagò con il conferimento di feudi, oltre che per l’atto di obbedienza della città all’angioino può vedersi Terlizzi, Documenti delle relazioni tra Carlo d’Angiò e la Toscana, 1950, pp. 44 sgg. Per il racconto degli avvenimenti legati all’arrivo nella penisola dell’angioino rinvio ai lavori di Minieri Riccio, Alcuni fatti riguardanti Carlo d’Angiò, 1874; Minieri Riccio, Il regno di Carlo d’Angiò, 1875; e Jordan, Les origines de la domination angevine, 1909. Per i rapporti del sovrano con Salimbeni e Tolomei rinvio ai più volte citati Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 40-44; e il mio I Tolomei, 1995, pp. 51-52, 58 e per le risultanze economiche 121-126.

108 “Quod officium XXXVI sit firmum et fiat in civitate Senarum per maiores et utiliores homines civitatis qui sunt de numero mercatorum et qui hono-rem civitatis senensis desiderant, et qui sunt zelatores honoris et altitudinis partis guelfe dummodo in numero dictorum mercatorum non intelligantur aliqui de casato seu de casatis civitatis senensis nec illius [sic] qui susceperit honorem militie, nec qui famosus extiterit gibellinus, nec etiam sit de nume-ro iudicum vel notariorum”: con queste parole la rubrica del testo statuta-rio del 1274 individuava i componenti del collegio dei Trentasei: Statuti 3, c. 45r. L’esclusione dei componenti i casati dal governo cittadino era comun-que già stata prospettata nel settembre 1271 quando avvicinandosi il tempo in cui i Trentasei eletti per la prima volta dovevano uscire di carica ed es-sere sostituiti il consiglio della campana dopo aver deliberato di mantenere quella magistratura determinò il modo della sua nomina in questi termini: i capitani di parte guelfa, insieme con la “curia” – cioè camarlengo e quattro provveditori – dovevano eleggere una parte dei Trentasei e precisamente due per ogni terzo cittadino, scegliendoli “de numero mercatorum”, non “milites nec de casatis nec famosos ghibellinos”; quelli così eletti dovevano “alios eligere similes” i quali giurassero “comune senense et partem guelfam manutenere, crescere et defendere”: Consiglio Generale 14, c. 77r-v.

109 I Libri di Biccherna, XII, p. 57.110 Caleffo Vecchio, II, p. 767 (1252 marzo 4); IV, p. 1565 (1257 aprile 30).111 Libri di Biccherna, XVII, p. 177 (nel 1257 è tra gli incaricati “super distri-

buendas terras de comitatu”). Libri di Biccherna, XX, p. 145 (nel 1258

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è uno degli ufficiali posti “ad revidendum rationem operariorum vie de Paterno”).

112 Libri di Biccherna, XVIII, p. 18. (1257).113 Libri di Biiccherna, XVIII, pp. 127-128 (1257).114 Libri di Biccherna, XVIII, p. 192 (1257).115 Biccherna 33, c. 64r. Tra le uscite comunali del mese di ottobre 1261 risul-

tano 100 soldi “pro domino Enee militi novo pro spata et speronibus”.116 Diplomatico Ricci, 1257 ottobre 15.117 Diplomatico Ricci, 1257 marzo 6.118 Diplomatico Riformagioni, 1270 aprile 17. Nel contratto stipulato nel bor-

go di Lucignano d’Arbia, Enea consegna al vicario generale di Carlo d’An-giò in Toscana 407 lire della somma di 900 che la pars guelforum senese si era impegnata a versare per le necessità della guerra.

119 Diplomatico Riformagioni, 1272 ottobre 15: il Comune riesce a riscattare il castello grazie ai prestiti concessigli da alcuni Salimbeni che andavano compattando con il beneplacito della repubblica i loro diritti patrimoniali e signorili in area valdorciana. Per i rapporti creditizi tra i Salimbeni e il Comune relativi a questo castrum Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 66-68.

120 Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], cc. 78, 79 (entra in carica il 1 gennaio 1273).

121 Diplomatico Riformagioni, 1273 giugno 26 (Caleffo Vecchio, III, p. 1053); Diplomatico Riformagioni, luglio 14; Nel primo atto Enea nomina Conte di Rinaldo, uno dei Trentasei, procuratore del Comune per ricevere la sot-tomissione di Neri di Sticciano; nel secondo lo stesso Enea nomina con autorità del consiglio cittadino un sindaco del comune che si presenti a papa Gregorio X per giurargli obbedienza.

122 Consiglio Generale 19, vedi alle carte 18v, 19r, 30r, 38v, 60v-61r, 67v-68r, 71v-72r.

123 Diplomatico Riformagioni, 1275 agosto 10 (Caleffo Vecchio, III, p. 1075).124 Caleffo Vecchio, III, pp. 1081 (1276 aprile 12), 1088 (1276 aprile 20-21),

1101 (1276 aprile 27).125 Consiglio Generale 21, cc. 120v-121. Anche 26r, 27r.126 Della delegazione facevano parte oltre ad Enea, “dominus Ugolinus Rustichi,

dominus Gratia iudex, dominus Jacobus sardus, dominus Ciampolus Albiçi, dominus Bandinus iudex, dominus Griffolus iudex”: Consiglio Generale 22, c. 43v (3 ottobre 1278). La notizia dell’ambasciata a Niccolò III anche in Tommasi, Dell’historie di Siena, II, lib. 7, p. 91.

127 Diplomatico Riformagioni Massa, 1279 novembre 25.128 Caleffo Vecchio, III, pp. 1132 (1280 settembre 29), 1135 (1280 ottobre

17), 1153 (1280 ottobre 23), 1155 (1280 ottobre 31), 1158 e 1160 (1280 novembre 1), 1170 e 1174 (1280 ottobre 13), 1181 (1280 ottobre 13-14), 1229 (1280 ottobre 13-16).

129 Diplomatico Riformagioni, 1281 febbraio 8.130 Diplomatico Riformagioni, 1283 febbraio 28.131 Consiglio Generale 30, vedi carta 6v (luglio-dicembre 1285).

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132 Consiglio Generale 37, c. 111r. Vedi anche cc. 11r-13r.133 Caleffo Vecchio, III, p. 1450 (1289 giugno 22).134 Biccherna 33, c. 64r; vedi anche il pagamento successivo Biccherna, 90, c.

287r. Solo tre cittadini pagarono tasse più elevate: Waley, Siena e i Senesi, 2003, p. 112.

135 Sulle proprietà immobiliari può vedersi Diplomatico Archivio Generale, 1277 … in cui risulta proprietario di alcuni mulini a Montalcino. Nel mag-gio 1255, Enea e il fratello Ermuccio, già orfani del padre, possiedono al-cuni beni comuni fuori porta San Maurizio, “in popolo Sancti Angeli de Montone” confinanti da un lato con la chiesa di Santa Maria Maddalena: vedi Conventi 161, cc. 254r-55r (1255 maggio 25) in cui Enea insieme al fratello Ermuccio, già orfani del padre, in esecuzione del testamento dello zio Fortarrigo, donano insieme agli zii Rustichino e Chiaramontese, gli uni-ci figli viventi del fu Ranieri di Rustichino, a frate Benvenuto dell’ordine dei minori, che riceve per l’ospedale di Santa Maria Maddalena, parte delle piazze poste in “contrata castri de Montone” e un orto.

136 Il Francini analizzando lo statuto guelfo del 1274 sottolineava gli elemen-ti di cesura e di contrasto rispetto al regime popolare del trentennio ap-pena trascorso, notando come le attribuzioni che durante il governo dei Ventiquattro erano affidate al capitano del Popolo e al consiglio furono attribuite sistematicamente ai capitani di parte guelfa e ai Trentasei; la Giannelli parlava di “fine della partecipazione del popolo al governo” con il rientro dei guelfi da Radicofani; il Mondolfo infine descrivendo il pre-dominio dei mercanti parlava della riforma fissata a Viterbo nel maggio 1267 e poi attuata all’indomani del rientro dei fuorusciti in questi termini: “Con l’accettare questa riforma il Popolo segna la propria sentenza di mor-te: diviene strumento nelle mani dell’aristocrazia bancaria guelfa, la quale, non appena si sarà consolidata nel suo dominio torrà al Popolo anche ogni sembianza di partecipazione al governo”. Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, p. 48; Francini, Appunti sulla costituzione guelfa, 1939, pp. 11-28; Giannelli, Un governo di fuorusciti, 1949-1950, p. 81.

137 Vedi quanto scrive Cammarosano, Tradizione documentaria, 1988, p. 73 e nota, che sottolinea la continuità di intervento di alcuni magnati nella vita politica cittadina; considerazione ripresa in Il ricambio e l’evoluzione, 1997, pp. 37-38. Sulla lunga “sopravvivenza” politica e l’assunsione di ruoli di potere da parte di numerosi esponenti dell’élite magnatizia Waley, Siena e i Senesi, 2003, pp. 122-125. Per il ruolo dei Tolomei negli anni dell’anti-magnatismo rinvio a Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 54-62.

138 L’elenco del 1277 comprende: per il terzo di Città, “casamentum filiorum comitis Baroncelli, casamentum de Bostolis, casamentum de Incontratis, casamentum de Forteguerris et Antolinis, casamentum de Mazenghis, ca-samentum de Mainectis, casamentum de Mariscottis, casamentum de Incontratis, casamentum de Gollis, casamentum de Alexis, casamentum de Mastinellis, casamentum de Codenacciis, casamentum de Monteghionsibus, casamentum de Scottis, casamentum filiorum Orlandi Guidi Gregorii, casa-

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mentum filiorum Seracini”; per il terzo di Valle San Martino, “casamentum de Mignianellis, casamentum de Gherardinis et Gotialis, casamentum filio-rum Hugonis Rugerii, casamentum de Maconibus et Abramis, casamentum de Renaldinis, casamentum de Piccoliominis, casamentum de Ranionibus, casamentum de Guastellonibus, casamentum filiorum Ranerii Uliverii, ca-samentum de Arzocchis, casamentum de Palliarensibus et de Arrigoleschiis, casamentum de Caulis”; per il terzo di Camollia, “casamentum de Tolomeis, casamentum de Galleranis, casamentum de Barboctis, casamentum de Acherissis, casamentum de Albizis de Platea, casamentum de Provenzanis et Salvanis, casamentum filiorum Bonsignoris, casamentum de Russis, ca-samentum de Salimbenis, casamentum filiorum Viviani, casamentum fi-liorum Jacoppi, casamentum de Ponzis, casamentum filiorum Montanini, Casamentum de Bolgarinis, casamentum de Malavoltis, casamentum de Rustichettis, casamentum de Cacciacontis, casamentum de Paganucciis, casamentum de Selvolensibus, casamentum de Gazanectis, casamentum de Paparonibus et Bandinellis et Cerretanis, casamentum de Senaulis, ca-samentum comitis Ubertini”: Consiglio Generale 21, cc. 91r-92v. L’elenco è pubblicato in Mondolfo, Il Populus a Siena, 1911, pp. 82-83.

139 “E’ Salinbeni ucisero uno donzello e nipote detto podestà; e detti Salinbeni venero co’ molta gente infino al palazo degli Ugurgeri, presolone. E’ detto podestà che s’era nel detto palazzo e populo e grandi del terzo di Città vi-nero in suo aiuto e cavorlo dal detto palazo ché no’ gli pareva esare sicuro, e fu messo nel palazo Alessi e ine fornì l’ufizio”: così narra i disordini del 1276 la Cronaca senese di Paolo di Tommaso di Montauri, p. 225.

140 Consiglio Generale 21, c. 89r.141 Consiglio Generale 21, cc. 89v-91r.142 Sulle rivolte nel contado promosse dai ghibellini Buonsignori vedi Giorgi,

Il conflitto magnati/popolani, pp. 189-190.143 Della commissione faceva certamente parte il magnate Giacomo Pagliaresi

e probabilmente un Tolomei (Minus Christofani).144 Salomone, poco prima del rientro della pars guelforum a Siena, era stato

incaricato dai suoi aderenti di contrarre un mutuo da un banchiere aretino (Diplomatico Consiglio Generale, 1270 aprile 21), poi si ritrova nel 1272 nella magistatura finanziaria del comune a cui accede ancora nel 1276, 1279 (l’intero anno) e 1286 (Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], cc. 78, 79). Nel 1282 aveva partecipato in qualità di testimone ai rogiti con cui il comune si preparava a ricevere la sottomis-sione di Ranieri di Sticciano, alla ratifica dei capitoli di sottomissione del conte d’Elci, e nel corso del 1289, nello stesso ruolo, agli atti di subordina-zione di Lucignano della Chiana [Caleffo Vecchio, III, pp. 1238 (1282 aprile 19), 1243 (1282 aprile 19); IV, pp. 1450 e 1459 (1289 giugno 22), 1462 (1289 giugno 22)]. A fare corolla a questi incarichi l’attivismo di Salomone nell’assemblea consiliare cittadina in cui compare dal 1271 al 1278 anno in cui viene eletto rettore della comunità di Rigomagno e poi ancora più volte negli anni Ottanta del Duecento [Consiglio Generale 13, 15, 18, 20, 21, 22

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(1278 agosto 24: nomina a rettore di Rigomagno, c. 25v), 23, 25, 28, 30.13, 34, 37, 39]. Nel 1277 Salomone è molto attivo nelle discussioni consiliari e fa parte di alcune commissioni (Consiglio Generale 21, cc. 27r, 29v-30r, 30v, 34r, 42r-43v, 52r-53r, 55r-v, 60r-v, 63r-v, 76r-77r, 83r-84v, 86v-87r). Sulla figura di Salomone così come di altri esponenti del lignaggio attivi in questi anni rinvio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 126-129. Per la presenza dei Piccolomini nel consiglio del 1277, Consiglio Generale 21, cc. 120v-121v.

145 A titolo di esempio valga la vicenda di Ranieri di Turchio Piccolomini, ex fuoruscito, console dei mercanti dal gennaio del 1270 (Bichi, Catalogo e serie de’ consoli di Mercanzia, 1725 [ms.] c. 60r) appena finito il mandato arrivò a sedere in veste di provveditore all’ufficio di Biccherna esattamente nel frangente in cui quei funzionari dovevano, con l’ausilio dei capitani di Parte Guelfa, sostituire il collegio uscente dei Trentasei eleggendo sulla base di una esclusione a danno dei grandi e dunque anche ai suoi danni, i nuovi membri (per la carica di provveditore Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], cc. 78, 79. L’elezione del nuovo collegio Consiglio Generale 14, c. 77r-v). Anche in quel fatidico 1277 Ranieri non fa mancare il suo sostegno al governo: il 4 marzo il suo nome è votato dal Consiglio Generale insieme ai magnati Bartolomeo Saracini, Ildebrandino del Mancino, Ranieri Pagliaresi e a Gratia iudex e Bartolomeo iudex come membro della commissione composta da due sapientes per terzo “super facto habenda pecunie pro solvendo vicarium Regis occasione tallie et pro facendis aliis expensis necessariis”: Consiglio Generale 21, c. 48r.

146 Il 18 gennaio 1277 Enea faceva parte della commissione di 18 uomini, fra cui i magnati Ildebrandino del Mancino, Bartolomeo Saracini, Giacomo Pagliaresi, Meo di Tavena Tolomei, per definire i rapporti con la città di Massa (Consiglio Generale 21, c. 26r); il 5 marzo è eletto in quella di 16 uomini, insieme agli onnipresenti Saracini, Tolomei, Scotti, Pagliaresi super facto Grosseti (Consiglio Generale 21, cc. 49r-50r e c. 53v e 54v); il 1 aprile 1277 il Consiglio Generale demanda alla commissione di cui fa parte Enea, quattro uomini per terzo scelti fra i boni, sapientes et amatores partis guelfe, la soluzione del problema nato in seguito al furto di alcune mercanzie ai danni di Angeluço Salsette da parte di Bernadino di Cinigiano (Consiglio Generale 21, cc. 57v-58r). Sulla trattativa per la pace con i ghibellini, per la quale compì il viaggio a Roma da Niccolò III, vedi supra nota 126. Per una panoramica dell’interventismo dei magnati nelle discussioni consiliari e nelle balìe nominate quell’anno Consiglio Generale 21, passim.

147 “Item volumus precipimus et mandamus et sententialiter diffinimus cum omnis civitas seu comunitas in qua partes existunt et regnant ex hoc ipso in se ipsa divisa noscatur et per divisionem et discordiam ipsa civitas et co-munitas dampnum et periculum patiatur et iacturam, et multe civitates et comunitates per impetuosum lassum partium sunt destructe, et per unitatem et concordiam ipse civitates et comunitates de bono in melius, omni divisione et discordia partium amotis, et in unitate et concordia de cetero perseveret,

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et ut ipsa civitas et iurisdictio civitatis eiusdem in comuni regatur et feliciter gubernetur, abolita omnino partium ghibelline et guelfe memoria, quod ipsa pars guelfa et ghibellina que actenus extitit et regnavit in civitate et comitatu senensi sint rupte et casse et irrite et inanes, et ipsas partes irritamus et cassa-mus omnino et ipsarum nomen et memoriam de civitate et comitatu senensi penitus abolimus […]”: così il podestà motivava ed eseguiva l’abolizione del-le due fazioni. I termini della pacificazione in Caleffo Vecchio, III, pp. 1145-1153 (citazione p. 1151); vedi anche Caleffo Vecchio, III, pp. 1141-1145 atto con cui i rappresentanti delle famiglie guelfe e ghibelline obbedendo alla intimazione fatta dal podestà si promettono pace perpetua.

148 L’atto è in Caleffo Vecchio, III, pp. 1170-1172. I Piccolomini presenti all’at-to sono oltre ad Enea di Rinaldo che agisce anche per il figlio Naddo, Arrigo e Gabriello di Ranieri di Rustichino, Rinaldo di Turchio, Corraduccio e Gabriello di Tolomeo di Rustichino, Neri di Gabriello, Neri di Arrigo di Ranieri, Palmieri di Bartolomeo e Mino, Neri, Meo e Piccolo suoi figli, Bartolomeo di Guglielmo Cencio, Guglielmuccio di Bartolomeo Cencio, Salomone di Guglielmo, Conte di Bartolomeo, Neri di Guglielmo, Guccio di Giacomo, Provenzano di Ranieri, Bernardino di Alamanno. Enea di Rinaldo è chiamato a presenziare anche ad altri atti (di procura e di ratifica) della pacificazione generale: il 29 settembre è testimone al solenne giuramento rogato nella chiesa cattedrale della città, alla presenza dei canonici della cattedrale e dei rappresentanti dei frati predicatori, minori, eremiti, serviti di Santa Maria e carmeliti, con il quale i rappresentanti delle due parti strin-gevano “bonam veram et recta pacem perpetuo duraturam” condonandosi vicendevolmente i danni cagionatisi (Caleffo Vecchio, III, pp. 1130-1132; e a pp. 1132-1134 ratifica dell’accordo da parte dei governanti e del pode-stà); il 23 ottobre è testimone all’atto con il quale il podestà e i Quindici fissano i capitoli della pacificazione (Caleffo Vecchio, III, pp. 1145-1153); il 31 ottobre partecipa al giuramento di pace reciproca fatto da Tolomei e Salvani (Caleffo Vecchio, III, pp. 1153-1156); il 1 novembre a due giu-ramenti che hanno per protagonisti Forteguerri, Del Mancino e Incontri uno, Montanini e Ponzi l’altro (Caleffo Vecchio, III, pp. 1156-1158 e 1158-1160). Fra 13 e 16 ottobre compariva testimone con il consorte Salomone di Guglielmo all’atto di nomina di un procuratore dei Tolomei e Rinaldini (Caleffo Vecchio, III, pp. 1227-1229).

149 Caleffo Vecchio, III, pp. 1132-1134.150 Caleffo Vecchio, III, pp. 1130-1132.151 Caleffo Vecchio, III, pp. 1153-1156. Fra 13 e 16 ottobre compariva testimo-

ne con il consorte Salomone di Guglielmo all’atto di nomina di un procura-tore dei Tolomei e Rinaldini: Caleffo Vecchio, III, pp. 1227-1229.

152 Caleffo Vecchio, III, pp. 1156-1158.153 Caleffo Vecchio, III, pp. 1158-1160.154 La citazione in Caleffo Vecchio, III, p. 1151.155 Nel periodo 1263-1271 nessun membro appartenente alla pars guelfa oc-

cupò il provveditorato di Biccherna, e per lo stesso periodo non rimangono

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atti a documentare l’azione dei consoli dei mercanti: Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, p. 151.

156 La prospettiva di Waley, Siena e i senesi, 2003, p. 124 sgg., che parla di una sostanziale continuità oligarchica a fronte dei mutamenti politici intervenu-ti a partire dagli anni Settanta.

157 Consiglio Generale 30, cc. 33r-34r (30 ottobre 1285). Quell’anno Enea era consigliere eletto.

II

EQUILIBRI

fra terra e Mercatura, la politica

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rinalDo Di turchio

Violenza magnatizia

1. Pian di Caggio, pendici di Montertine. Un giorno d’aprile dell’anno 1277. Immaginiamo della gente che lavora in un campo: con l’aratro preparano la terra alla semina di prima-vera, quando a un tratto arriva uno a cavallo e dietro di lui tre o quattro uomini, a piedi, che tirano dei buoi. Forse quei lavoratori non avranno capito subito chi arrivava e a far che. O forse sì. Una certa consuetudine con le soperchierie e le prepo-tenze dei grandi avrà insegnato loro a riconoscerle. E l’aspetto di quel signore a cavallo, armatus, seguito da alcuni uomini che forse imprecavano per darsi l’aspetto da scellerati e armati anche loro come se dovessero andare alla guerra, non lasciava dubbi su quel che stava per accadere. Il cavaliere si chiamava Rinaldo di Turchio Piccolomini. E non era uno sconosciuto. Possedeva terre nella zona ed apparteneva a un lignaggio di spicco nella vita cittadina. Gli uomini che lo accompagnava-no, per dargli man forte, erano suoi mezzadri: Buccio, Cenne e Stefano, rispettivamente abitanti a Corsignano, Lucignano d’Asso e Pianella, più un quarto, la cui identità è destinata a rimanere oscura.

“Pro quo laboratis vos”?,“Nos laboramus pro hospitali Sancte Marie”,“Ego nolo quod laboretis pro ipso hospitali sed laboretis pro me si vultis” 1.

Rinaldo di Turchio scandì quello che doveva dire, parola per parola, per farsi capire bene. E una volta sola. Che non è molto ma è già abbastanza quando si tratta di cose dette con inten-zione definitiva. E infatti si fece capire bene: famuli, lavoratori e conversi dell’ospedale cittadino di Santa Maria della Scala, che quella mattina si trovavano nel Pian di Caggio, non ebbero

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alcuna incertezza a riferire al giudice, alcuni mesi più tardi, il dialogo avuto con lui e le ripetute aggressioni di cui erano stati oggetto: forte della legittimità del titolo di possesso che riven-dicava su quel lembo di terra, il magnate aveva dato seguito alla sua azione intimidatoria perpetrando ogni sorta di vio-lenze contro uomini e cose dell’ospedale di Santa Maria della Scala, reo, secondo la sua opinione, di usurpazione fondiaria.

… per vim expulit seu expelli fecit famulos et familiares et laboratores dicti hospitalis de dicta terra, et boves cum quibus dicti laboratores laborabant in dicta terra … et … replevit seu repleri fecit quandam foveam quam in dicta terra dictum hospitale fieri fecerat … Quidem qui erat cum dicto Renaldo armatus lancea spontone et tavolaccio et cultello … misit ma-num ad cultellum quem habebat ad latus et evaginavit eum et venit versus Accorsinum conversum dicti hospitalis et voluit eum ferire, et dedit et percussit eum cum pungno … Et ipse Renaldus exterminavit seu extiminare [sic] fecit dictam terram … Et post hoc … de alia die dictus Renaldus cum quibusdam suis sotii et ipsi iidem armati in dapnum et preiudicium dicti hospitalis intraverunt dictam terram et insultum fecerunt in familiares et laboratores dicti hospitalis et per vim expulerunt eos de dicta terra et boves cum quibus arabant, et inciderunt aratra et giuga dicti hospitalis, et abstulerunt dictis laboratori-bus vomeres et dictas fovegias et unum pungnerone et multas et intollerabiles iniurias intulerunt dicti laboratoribus” 2.

I lavoratori scacciati in malo modo, staccati dal giogo e di-spersi i buoi, aratri e vomeri distrutti, il converso Accorsino preso a pugni, tolte le confinazioni in pietre che delimitavano la proprietà della terra, riempite le fosse scavate dai lavoratori dell’ospedale. La dinamica dei fatti che vedono protagonista Rinaldo di Turchio, ricostruita attraverso l’atto di accusa che il procuratore di Santa Maria della Scala presentò di fronte al podestà di Siena e sulla base delle deposizioni testimoniali di 14 uomini a vario titolo informati dei fatti, sentiti dal giudi-ce incaricato di dirimere la controversia fondiaria, illustra a

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meraviglia uno dei topoi che più concorrono a definire l’iden-tità magnatizia: l’ostentata e denunciata protervia, la violenza inestinguibile, la capacità di costrizione e dominio. E violento, sopraffattore, potente di mezzi e di uomini, Rinaldo teatralizza e incarna a perfezione le ragioni dell’antagonismo fra nobili e popolari. L’iconografia documentaria-giudiziaria ce lo mostra arrivare a cavallo, armatus cervelleria, spontone et cultello 3, a capo di una banda armata: dunque in un arredo palesemen-te, visibilmente, aggressivo e bellicoso. Una aggressività che permea e che plasma ogni gesto, ogni parola del magnate: gli ordini minacciosi ai sottoposti dell’ospedale, ego “nolo” quod laboretis pro hospitali, l’uso della forza, per vim expulit … fa-mulos et familiares et…boves, l’esercizio del potere di comando e di coercizione, seu expelli fecit famulos … seu repleri fecit foveam … seu exterminari fecit dictam terram, contribuiscono a disegnare un’immagine che lascia poco spazio all’incertezza. Rinaldo è il volto del magnate iniquo, tracotante, circondato da corti di amici e fedeli che popola le preoccupazioni dei go-verni popolari 4.Buccio di Corsignano, Cenne di Lucignano Valdarbia, Stefano di Pianella e un altro, o forse alios, che però nessuno ha ricono-sciuto, sono meçaioles di Rinaldo nella vita quotidiana – Cenne probabilmente neppure mezzadro, un testimone dice che sta cum eodem Renaldo ad mensem 5 – ma all’occorrenza si fanno sotii, sicari, scherani, uomini armati, e armati con tutta pro-babilità dal loro padrone, di lanceis, trafieriis et spontonibus, cervelleriis et tavolacciis 6, per dargli auxilium et favorem nella spedizione. Se la piccola clientela rurale, per quanto sparuta ma evidentemente commisurata all’obiettivo, rinvia ad una capacità di dominio e di coercizione del magnate-proprietario fondiario sui suoi coloni e contadini dipendenti, il rapporto di forza che sostanzia questa capacità si nutre anche di elementi extracontrattuali che ispirano forme di solidarietà, di alleanza, di subalternità, che travalicano i confini scritti e patrimoniali di quel rapporto. I testimoni, l’abbiamo visto, riferiscono che i

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mezzadri armati arrivano con Rinaldo (venerunt cum Renaldo), uniti nel ribollire di intenzioni violente (iniuriose venerunt), per dargli man forte (iuvando et stando cum eo) 7 mentre il ma-gnate sfoglia il catalogo delle azioni ingiuriose, finché sordi ai richiami e ai divieti del fattore dell’ospedale, uno di loro

qui erat cum dicto Renaldo et qui erat armatus lancea et cul-tello et tavolaccio … ivit irato animo versus Accorsinum con-versum … et eundem percussit in gota cum manu … 8.

Il procuratore dell’ospedale parlerà di una lama sfoderata e dell’intenzione del mezzadro di ferire Accorsino, altri testimoni riferiranno con meno sicurezza e maggior genericità i partico-lari della colluttazione fisica 9. Ma quel che colpisce in questo passaggio, a differenza di altri racconti, è il particolare emoti-vo, la sottolineatura dell’ira che cova nell’animo del contadino e che porta in primo piano qualcosa delle molle più intime che agiscono e che rendono possibile, o almeno più efficace, il con-corso armato dei laboratores all’aggressione decisa da Rinaldo: la condivisione di un sentimento e non soltanto di un proposito. Quell’irato animo sembra tradurre la vicinanza di un sentire, l’assunzione di un carico emotivo e ideologico che fa diventare il torto dell’usurpazione fondiaria subìto da Rinaldo, torto di tutti. Come in un vaso comunicante l’ira di Rinaldo trapassa e trascolora nell’ira dei suoi contadini. Ed è questa capacità non solo di mobilitazione di forze ma direi soprattutto il carattere affidabile e fedele di quelle forze, che fanno di Rinaldo il ma-gnate, ancorché qui declinato in misura poco eclatante, “po-tente d’amici e di seguito” per dirla con le parole del cronista Dino Compagni 10, capace di imporsi e di imporre la propria perturbante temibile presenza. Egli ci appare protagonista di un’azione ‘guerriera’ finalizzata, nella sua strategia, alla riap-propriazione di un bene fondiario di cui vanta legittimo posses-so e che quel possesso pretende pubblicamente e ufficialmente riconosciuto. Gli strumenti di cui si serve sono quelli che la sua storia personale, la sua qualificazione sociale, la sua tradizione

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familiare, e, in senso più lato, il suo mondo, quello urbano e comunale, gli mettono a disposizione. Il gusto e la propensione all’uso della forza rinviano ai privilegi e ai valori di un ceto consapevole che le azioni violente, manifestate pubblicamente, se non ottengono una risposta immediata di maggiore violen-za o un ricorso di tipo giudiziario finiscono per essere “rituali fondanti un diritto” 11. L’occupazione alla luce del giorno della terra in Pian di Caggio, l’aggressione, reiterata, perpetrata con gran dispiegamento di forza e di armi ma anche con l’ausilio di un armamentario fortemente simbolico, la messa in scena insomma di un dramma ricco di colpi di scena, di dialoghi, di gesti destinati a fissarsi nella memoria dei testimoni, era quanto occorreva per dare all’episodio in Pian di Caggio la necessa-ria pubblicità, la giusta risonanza. E dunque quanto occorreva per far esplodere il conflitto il cui risultato, Rinaldo doveva saperlo, poteva essere duplice: ottenere una risposta (positiva o negativa) da parte dell’ospedale o il suo trasferimento, come infatti avvenne, sul tavolo del giudice comunale.Un dramma ricco di violenza ma anche di segni fortemente simbolici: facciamo un passo indietro e fermiamo l’attenzione sulla modalità in cui si compie l’occupazione della terra e, nella lunga sequela di azioni oltraggiose comandate da Rinaldo pun-tiamo l’obiettivo su quel gesto di riempimento della fossa che i lavoratori dell’ospedale avevano scavato pochi giorni prima, e immaginiamo il magnate chino, mentre replevit dictam foveam, e poi guardiamolo mentre poco oltre distrugge i confini della proprietà (exterminavit… dictam terram), come ha fatto? chie-de il giudice al testimone, il testimone vide con i suoi occhi elle-vari lapides a dicto Renaldo 12, dunque anche qui è il magnate stesso, esemplarmente e simbolicamente, a divellere il recinto mobile del limes (aliqua singna lapidura scilicet aliqui lapides simul coadunati et positi in pluribus locis) 13, pietre disposte sul terreno che marcano e rendono visivamente intollerabile l’abuso 14. E infine a chiudere il sipario sul reato che verrà con-testato a Rinaldo andiamo con lo sguardo al momento in cui i

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contadini Buccio e Cenne entrano nel campo con i loro buoi e si mettono ad arare quella terra, intraverunt … et miserunt bo-ves suos in eam ad arandum … pro eo et eo Renaldo presente et volente, gesto simbolico e concreto per eccellenza grazie al quale quella terra soltanto in virtù dell’abbraccio del vomere, viene simbolicamente, praticamente, riconquistata e ricondotta al legittimo proprietario e ai legittimi, autorizzati, fruitori: la titolarità del possesso risiede, Rinaldo lo sa, i presenti lo sanno, negli usi che essa autorizza 15.In breve non furono più solo gli abitanti della Valdorcia a raccontarsi l’un l’altro le prodezze compiute da Rinaldo di Turchio: la sua ‘fama’ aveva varcato i confini delle comunità di Rocca a Tentennano, Vignone, Abbadia San Salvatore, San Quirico d’Orcia, Monticchiello, Crevole, ed era arrivata sul ta-volo del giudice cittadino. Prima di disporsi sulla pagina sotto forma di segni – che la procedura giudiziaria, la cultura e la prassi notarile piegano, deformano, plasmano 16 – quei fatti erano stati raccontati dai testimoni comitatini con una lingua parlata, pescando dal vocabolario di tutti i giorni parole che cercavano di tradurre i fatti. Dall’occhio alla bocca, da una bocca all’altra, l’insultus compiuto dal magnate era diventato di pubblico dominio: i primi testimoni ad essere ascoltati, per corroborare l’accusa mossa dal Santa Maria della Scala – ma lo stesso procuratore dell’ospedale presentando la sua denun-zia al podestà aveva affermato che “de predictis omnibus est publica fama et publice dicunt gentes et homines” 17 – non avranno dubbi nell’appellarsi ad una publica fama dei fatti, e cos’è questa pubblica fama? aveva chiesto il giudice nel corso del dibattimento teso ad appurare la versione dell’ospedale e, in una successiva udienza, la titolarità dei diritti di possesso pretesi da Rinaldo su Pian di Caggio. Definire ciò che il gran-de giurista Bartolo da Sassoferrato giudicava indefinibile non poteva che dar luogo ad un ampio ventaglio di opinioni, anche divergenti 18. Ma ciascun rustico nel momento in cui dichiara-va che il reato, o presunto tale, di cui Ranieri si era macchiato

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era publica fama si riferiva con tutta certezza ad uno stesso intuitivo concetto: spiegare, adeguando le proprie risposte alle esigenze e alle forme richiesta dall’autorità giudiziaria, era tutt’altro problema. Alle domande “quid est”, “ubi est”, “ubi subrexit”, “quot homines faciunt famam”, rispondono che la pubblica fama è quod dicunt masculi et femine de contrata; è il dictum gentium 19, il vulgus gentium 20, la vulgarem oppinio-nem 21, quod publice dicitur ab hominibus de Valle Urcie 22, est id quod dicitur ab hominibus et personis locorum 23, publica fama est quando homines dicunt aliis res ita est 24; un abitante di Crevole preciserà che la pubblica fama dei fatti cui si riferi-sce è quod audivit dici a gentibus et vicinança de contrata de Roccha et de Sancto Quirico et a quibusdam de Montecchiello, e incalzato dal giudice – a quot audivit dici predicta? – conterà ab octo hominibus de Sancto Quirico et decem hominibus de Roccha et a quattuor de Montecchiello 25, più oltre qualcuno affermerà fama esse quod maior pars hominum dicit 26, chi dirà invece quod publica fama est id quod omnes gentes dicunt 27, un altro deciderà che più sono gli uomini che parlano e meglio faciunt famam, in definitiva fama potest dici in magna quanti-tate et in parva 28.

2. La pubblica fama nasce in seno ad una comunità sulla base, più o meno remota, di una prova visibile su cui si cristallizzano, via via che il tempo passa, parole voci, parole, che come ogni concrezione hanno l’effetto di trasformare il grappolo iniziale dei fatti. Il contributo dell’oralità, o meglio del senso uditivo, alla definizione del concetto probatorio di ‘pubblica fama’ è es-senziale: quando i primi testimoni giungono al banco del giudi-ce è il dicembre dell’anno 1277 29 e poiché i fatti su cui vengono interrogati risalgono a otto mesi prima, la ‘pubblica fama’ che li avvolge non è più la vox, la voce della comunità impegnata a dare notizia di un fatto clamoroso di attualità: quegli episodi di ‘cronaca nera’ hanno avuto tempo di sedimentarsi e imprimersi

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nella memoria collettiva trasferendosi a livello di ‘tradizione orale’. Dunque una trasmissione ‘lunga’, passata di bocca in bocca tramite il linguaggio 30 – quando homo incipit dicere ali-quid et postea illud dicitur ab uno et ab alio … 31 – una catena di trasmissione in cui ogni anello è costituito da una testimo-nianza auditiva.In questo viaggio progressivo la tradizione si modifica, si ar-ricchisce: le parole calpestano, smuovono il territorio ogget-tivo dei fatti, lo ribaltano, lo trascolorano, lo traducono in termini di intelligibilità e di armonia con l’universo mentale del locutore: ogni comunicazione viaggia sui binari di categorie comprensibili e condivise. Ma da questo viaggio la tradizione ne esce anche amplificata, arricchita, perché le parole posso-no riempire, integrare, immaginativamente, fantasiosamente, emotivamente, gli spazi bianchi della comunicazione, gli spazi vuoti dell’informazione. Occorre dunque distinguere nel caso dell’aggressione compiuta da Rinaldo, il comitatino portatore di una informazione di prima mano – l’ascendente testimoniale diretto – dalla memoria collettiva, sonora, loquace, in cui l’in-formatore – non più testimone oculare – e il ricevente, destina-to a diventare a sua volta informatore, concorrono a fabbricare insieme la ‘fama’, di quel fatto.Va da sé che a livello testuale non si coglie differenza. L’amalgama della cultura notarile e della prassi giudiziaria stende sull’una e l’altra vox un velo omologante. I notai, i giudici, i testimoni, non fanno differenza, all’atto dello scrivere, all’atto dell’inter-rogare, all’atto del narrare, tra ciò che si è visto (è vero perché vidit et fuit presens) e ciò che si dice (è vero perché de predictis est publica fama): Rinaldo ha invaso la terra di Pian di Caggio e aggredito i lavoratori dell’ospedale (anche) perché qualcuno l’ha detto e lo ha riferito a qualcun altro che ci ha creduto e lo ha riferito. La ‘pubblica fama’ di un evento contribuisce ad al-largare i confini del vero e del reale 32. Ma tra le due voci tutta-via esiste una differenza: la testimonianza oculare resa verbal-mente al giudice cittadino fissa le parole in un cielo immobile,

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in una volta al riparo da successive elaborazioni. La ‘pubblica fama’ invece vive molte vite, attraversa fasi consecutive di for-mazione e funziona da spugna assorbente: dei livelli di cultura, dei giudizi ideologici, della sensibilità, degli universi emotivi e partecipativi degli uomini che via via concorrono a farla.Ma, qui è il problema, cosa sappiamo dei valori culturali, delle idee, del parco immagini mentali a disposizione in questo caso del comitatino-fabbricatore? Della pressione esercitata su quella ‘fabbrica’ dalla cultura diffusa, dai modelli imperanti? Dell’uso a cui la società piega lo strumento della pubblica fama? Della consapevolezza che il comitatino ha di tutto ciò? Non molto. E tuttavia in una visione qualitativa del problema, la risposta fornita da un lavoratore della terra abitante a Monticchiello cattura un bagliore di quelle figure, di quelle nebulose cultu-rali che popolano il suo immaginario. Interrogato sulla genesi della publica fama del reato imputato al magnate egli risponde senza incertezze che la pubblica fama nasce quando aliquis fa-cit malum et ipse est inde infamatus 33: il comitatino sa che la commune opinio ha il potere di marchiare d’infamia. Ovvero di amplificare una riprovazione collettiva. Di stigmatizzare un comportamento deviante. In altre parole di sancire una esclu-sione sociale.Era il 1277 e al di sopra di questi avvenimenti, varrà la pena ricordare, si celebrava la “prima sistemazione unitaria del concetto di infamia”, offerta dalla glossa accursiana – succes-sivamente approfondita da Alberto da Gandino e Bartolo da Sassoferrato – e guidata da precise distinzioni dogmatiche che, superando l’ambiguità di un concetto impermeabile ad ogni univoca determinazione per la sua stessa posizione di confine tra l’ordinamento giuridico ed il complesso delle convinzioni morali di una organizzazione sociale, separavano una infamia facti (o vulgaris o popularis) da una infamia iuris (o legalis): la prima sancita dalla pubblica opinione, la seconda derivante da una condanna penale in pubblico giudizio che menomava la persona sul piano dei diritti effettivi 34. Contemporaneamente

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a Bologna gli Ordinamenti Sacrati e Sacratissimi approvati fra 1282 e 1285 codificavano la celeberrima immagine dei magnati come lupi rapaces, in cui l’uso etico e religioso della metafora evangelica dei lupi e degli agnelli si affiancava ad uno sfrutta-mento dello stereotipo animale in termini di rappresentatività dei comportamenti umani: la bestia rapace e crudele traduce e fa da perfetto corollario alla perniciosa strapotenza magna-tizia 35. Ma l’applicazione di caratteristiche bestiali e feroce-mente disumane non disegnava anche in termini di antitesi, di inconciliabilità, in termini dunque di esclusione, il rapporto del magnate con il corpo sociale (ferocia ≠ civiltà)? Non ne era consapevole, ma il comitatino di Monticchiello rifrangeva nella sua testimonianza ben più di una opinione personale.

Rituali visibili come creatori di prove. La definizione di un ceto

1. Gina Fasoli ripercorrendo origini e caratteri della legisla-zione antimagnatizia nell’Italia centro settentrionale indicava chiaramente l’ordito comune su cui l’identità magnatizia, pur in un miscuglio di distinguo locali, si strutturava: concorrevano a definire magnates e potentiores, nobiles e milites, proceres e potentes, grandi e homines de casatis – e l’arcobaleno di deno-minazioni tradiva la palese assenza di una definizione giuridica – due elementi soprattutto: la qualità di cavaliere e la pubblica fama, concetto quest’ultimo che può parere labile e sfuggevo-le e forse anche ambiguo ma che più di ogni altro andava ad allacciare la condizione di magnate ad una visibilità assai con-creta nello spazio comunale 36. Ma di che si sostanziava questa visibilità? La documentazione offre una casistica illuminante e infinita.Era il 28 ottobre 1236, decimo anno di pontificato di Gregorio IX, quando il papa indirizzò una lettera al prepo-sto di Poggibonsi affinché rendesse esecutiva la sua minaccia

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di scomunica contro alcuni usurpatori dei beni del monaste-ro di Santa Petronilla di Siena. Il padre di Rinaldo, Turchio di Chiaramontese Piccolomini, e certi altri avevano sottratto illecitamente alle monache denaro e altri beni a loro destinati: che si procedesse dunque contro coloro che “contra iustitiam” rifiutavano di restituire il maltolto 37. Sessant’anni più tardi Salomone e Mino Magliata Piccolomini in compagnia di alcuni Tolomei, di un giudice e di un canonico della cattedrale furono accusati di aver occupato case, mulini e possessioni appartenen-ti all’abbazia camaldolese dei Berardenghi, scacciando i famuli a custodia del monastero. La notizia era arrivata alle orecchie del conservatore dell’ordine, abate del monastero di San Pietro di Perugia, che – come scrisse nella lettera inviata al Podestà e al Capitano del Popolo di Siena il 28 settembre 1296 – esigeva immediatamente sotto pena di interdetto che quei nobili e i loro complices et sequaces cessassero ogni molestia e ingiuria e rimettessero il convento nel possesso dei beni. Convocato il Consiglio Generale, discusso il da farsi, si decise con una mag-gioranza di 164 voti a favore e 44 contrari di costringere i nobi-li alla resa entro il termine di tre giorni 38. Più complicato fu nel 1311 persuadere Naddo di Gabriello Piccolomini subentrato con la forza a Guido Buondelmonti nella prebenda di Pieve a Scola a lasciare al legittimo beneficiato il godimento della pievania: ma la reiterazione dei comandi, delle minacce, delle multe comminate dalle competenti autorità ecclesiastiche a cui più volte il Buondelmonti dovette ricorrere ne tradisce la scarsa efficacia rispetto alla decisa volontà del magnate di mantenere a tutti i costi ciò di cui si era appropriato con mezzi non pro-priamente pacifici 39. E ancora un luogo sacro fu al centro di un altro episodio di violenza di cui si rese autore, anni dopo, un altro membro del lignaggio, a indicare quanto beni e possessi ecclesiastici rappresentassero bocconi appetibili: nei pressi del-la pieve di San Vittore di Rapolano Amerigo di Neroccio aveva provocato un grande “rumorem et tumultum maximum” quan-do in un giorno del 1349 “cum armis ad fendibilibus” si era

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lanciato contro Matteo, Giovanni, Niccolò e certi altri preposti “ad custodiam dicte plebis”, aveva ferito uno di loro in più punti provocando “vulnera cum sanguinis effusione”, aveva tenuto prigioniero un altro contro la sua volontà “per spatium duarum orarum” e poi dopo ripetute aggressioni a danno dei malcapitati si era messo a suonare le campane delle pieve “ad sturmam” complici i “sotii” che lo accompagnavano 40.Recentemente Jean Claude Maire Vigueur ha scoperto il livello profondo in cui le espressioni di violenza e cupidigia dei milites cittadini trovavano la loro motivazione: dalle funzioni politi-che alle cariche ecclesiastiche, dagli appalti fiscali alle donne disponibili sul mercato matrimoniale, si trattava “di annettersi la maggior quantità possibile delle risorse della collettività” 41.La cartografia delle competizioni fra lignaggi disegnata dal-la storiografia di età comunale rivela uno dei pilastri su cui si regge la storia delle città italiane durante i secoli finali del Medioevo. Conflitti e faide interfamiliari che punteggiano l’età consolare e podestarile, benché tendano man mano che avanza il secolo XIII a dileguarsi sullo sfondo a vantaggio dell’emerge-re della lotta fra nobili e popolari, continueranno numerose ad accendersi, pur nelle differenti risonanze di peso e di significa-to, sulla disputa di spazi fisici, funzioni politiche, cariche eccle-siastiche, economici. A Siena le cronache, che molto insistono sulle violenze private che insidiano il pacifico stato cittadino, descrivono con ricchezza di particolari l’accendersi dell’odio tra Tolomei e Salimbeni e il suo scivolare in una serie di aggres-sioni e ritorsioni, oltraggi e vendette che si susseguono nella prima metà del XIV secolo per circa un trentennio 42. Se nella scala cittadina dei conflitti tra casati esso occupa indubbiamen-te uno dei gradini più alti, la mano del cronista non manca di registrare le liti e i conflitti che pur a livello inferiore, per durata e bellicosità, coinvolgono i Piccolomini: quella che si accese nel 1302 fra il lignaggio e alcuni casati riguardo a certi sbanditi 43; la briga per loro quistioni con i Tolomei documen-tata nel 1339 44, ed infine, quella, di segno più deciso e cruento,

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che li oppose ai Malavolti a partire da quel giorno di marzo del 1333 quando il ferimento di Naddo di Benuccio Piccolomini per mano di alcuni esponenti di quel lignaggio impose ai paren-ti la vendetta: Giovacchino, Amerigo, Turino e Riccio “entraro nel castellare de’ Malavolti e uccisero Rigolo di misser Cione de’ Malavolti mentre giocava a scachi”, ma il sangue versato si stampò sulla memoria degli offesi che nel 1343, in un rigurgito d’odio e di onore, attentarono alla vita di Niccolò di Salomone Piccolomini che veniva colpito a morte dai suoi avversari men-tre si trovava in Valdorcia 45.In questo clima di lotte sanguinolenti, acceso da una litigio-sità permanente e latente, diverbi, rancori, violenze non ri-sparmiarono l’ambiente familiare. Non è chiaro quale fosse la posta in gioco della discordia nata “inter nobiles viros de domo Pichogliuominum” che il 29 maggio 1292 il Podestà e il Capitano della città portarono a conoscenza del Consiglio pre-occupati perché essa ingenerava tale grave “scandalum”, “peri-culum et iacturam” da minacciare la pace stessa di Siena 46, ma se come è plausibile, collegato alle divisioni interne del casato fu l’omicidio di Provenzano Piccolomini, perpetrato dal consorte Gabriello di Ranieri pochi mesi dopo la denuncia del Podestà, è evidente che il motivo del contendere era di tale importanza da subordinargli il sacrificio di un consorte e le rischiose con-seguenze derivanti da una spaccatura del lignaggio e una dimi-nuzione della sua forza numerica. Lo ‘scandalo’ del 1292 non rimase un’eccezione. Nel 1338 l’omicidio di Giacomo di Carlo Piccolomini suscitò tanto clamore in città allorché “cavato da una fossa morto, che puzzava, portato su’l Campo di Siena” dai fanti del Podestà, si scoprì che “havealo morto” il consorte Giovanni Piccolomini 47.Tutti questi fatti sopra richiamati, tasselli di un mosaico ben più ampio, indicano quanto fosse consuetudinario il ricorso alla violenza da parte dei magnati: una violenza strisciante, pervasiva, utilizzata come strumento di risoluzione di dissidi familiari che sconfinano le mura consortili, inondano le strade

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della città, trascinano con sé la popolazione della contrada con il rischio di far precipitare la comunità tutta in una sorta di guerra civile (questo era il senso della preoccupazione mani-festata dal Podestà nel 1292). Una violenza che appare al ma-gnate come il mezzo più efficace per conquistare beni agognati, accaparrarsi le ricchezze esposte alla cupidigia del suo sguardo. Una violenza che si fa misura e spazio di affronto e confronto con il clan rivale chiamato a mettere in campo la propria forza, fare sfoggio della propria ricchezza e dei funzionali collega-menti con schiere di homines et fideles al suo comando: la lun-ghissima e sanguinosa faida che oppone Tolomei e Salimbeni è proporzionale alla potenza, alla capacità di vendetta, alla forza di mobilitazione dei due lignaggi di cui rimane evidente traccia nell’atto di stipula della pax raggiunta dopo un lungo lavorìo diplomatico nel 1337 e ratificata dai sequaces dell’uno e dell’al-tro casato. Oltre 80 tra cittadini e comitatini per i Salimbeni, oltre 80 per i Tolomei 48.Una violenza infine come atto di spregio della legalità, gesto di soperchia esaltazione del proprio rango e insieme del proprio sesso di cui si è stigmatizzato esempio Barocco dei Malavolti:

Barocco dei Malavolti uno de’ magiori nobili di Siena… quasi non era niuno che per la sua alterigia non volesse soperchiare, e none aveva paura di nisuno. Un dì … chostui [fu visto] fare cierta ingiuria a una contadina che la volse pigliare sforza-tamente e lei cominciò a gridare… e in tanto v’arivò questo misere Roba [de’ Renaldini] e cominciò a monire costui one-stamente, che non faceva bene a fare quello che lui faceva inverso de’ suditi della città, e masime a volere esforzare una donna. E quando Barocco entese miser Robba che l’amuni-va, cominciò a pigliare quistione co’ lui e chacciò mano alla sua dagha per dare a miser Roba; ma miser Roba chacciò mano alla sua spada che gli portava dietro el suo famiglio e andò adosso a Barocco e il ferì per modo che anzi si partisse l’amazò. E molta giente che era a vedere la detta quistione ogniuno diceva ‘be’ gli sta’ … 49.

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Il Comune di Popolo dimostra una chiara esigenza di consolida-re ideologicamente le proprie strutture istituzionali e le proprie politiche: la consapevolezza dell’arditezza di un progetto teso a costringere a vivere pacificamente e nel rispetto delle norme chi per tradizione familiare era portato a vivere di rapina e di sopraffazione, la coscienza delle sue difficoltà di attuazione trovano nella costruzione retorica, nella “parola ordinatrice”, come l’ha chiamata Giansante riferendosi al caso bolognese, un mezzo di rara efficacia 50. In una contrapposizione di parti, quanto più è spregevole e vituperata l’una, tanto più per riflesso appare buona e rispettabile l’altra: non occorre una particolare capacità di analisi della psicologia dei comportamenti collettivi per rendersi conto che una considerazione del genere non po-teva essere estranea alla costruzione dell’immagine dei magnati ‘iniqui e usurpatori’, ‘superbi e tracotanti’, ‘turbatori della quie-te pubblica’, lupi rapaces pronti ad opprimere gli agni mansue-ti per tornare all’imago bolognese destinata ad una rapida e fortunata ricezione in coeve compilazioni statutarie toscane 51. Una rappresentazione a cui concorsero in maniera definitiva le descrizioni che dei loro atteggiamenti resero cronisti e gover-nanti popolari nel momento in cui si prefissero l’obiettivo di biasimare, punire, coartare certe eccessive manifestazioni 52.Ogni punto di vista sulla realtà, oltre ad essere intrinsecamente selettivo e parziale, dipende dai rapporti di forza che condizio-nano, attraverso la possibilità di accesso alla documentazione, l’immagine che una società lascia dietro di sé. Ogni valutazione, ogni tentativo di ricostruzione di un profilo magnatizio, dovrà tener conto che la cultura di Popolo, quale si esprime tra fine Duecento e primo Trecento, è un cultura potente, che potenti sono i suoi strumenti retorici e propagandistici, che se anche i nobili dispongono di una propria cultura nel confronto essa si rivela più debole 53. Di questo è bene essere consapevoli: il magnate è un’immagine appiattita dalla propaganda, come una moneta passata da molte mani. Una immagine liscia, levigata. Non c’è posto nel dettato retorico e normativo per le lacerazio-

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ni. Le distonìe. La dissimmetria. E potremmo anche chiederci, misurando su questo terreno la necessità di analisi e approfon-dimenti, quanta parte abbia avuto nell’appiattimento quell’in-tento “mimetico”, di cui parla Gabrielle Spiegel, che indirizza e guida la mano del cronista medievale allorché si volge alla sto-ria come a un campo da osservare e percepire, non da spiegare o comprendere ma piuttosto da rappresentare con precisione imitativa: la storia come campo di percezione in cui (anche) i magnati sono figure, sembianze, immagini catturate, registrate, definite in conformità e in ossequio alle “tecniche di osservazio-ne pittorica prevalenti nell’Europa prerinascimentale, cioè con un metodo multifocale, ciclico, piuttosto che come un campo unificato” 54. È vero: di fronte a certe miniature descrittive del grande cronista Agnolo di Tura del Grasso o dell’anonimo au-tore senese vissuto nel Trecento, non si sfugge alla sensazione di aver fortunosamente incappato in delle diapositive, mezzi trasparenti e lucidi di trasmissione delle immagini che scorrono sulla pellicola della storia.

Ne l’anno MCCCXXII venne charestia in Siena … i Signori Nove chomandoro che tutte le persone le quai avevano grano da vendare di subito el doveseno metere in Chanpo … miser Benuccio [Salimbeni] ne mandò in sul Chanpo C mogia sotto due ghonfaloni … e stavano sotto questo padiglione III, e’ quai misuravano quanto l’uomo ne voleva, e l’altro giorno ve ne feceno venire ancora … E’ Talomei anchora ne portoro in Chanpo C moggia e misero il detto grano su certe stoia accioché ogni uomo ne potesse avere e vedere chome di loro piacere … 55.

Il detto Benuccio aveva colto grande quantità di d’argento e di rame, ed essendo venuto all’usato el grande merchatante di Soria al porte Ercole con quantità di merchantia di seta, tutte furo conprate per lo detto Benuccio e pagate d’argento e di rame e di scorze e di denari le merchantie qui di sotto, cioè panni di seta, parte con oro di fogli e tutti segnati in foglie e pomanichi e stelle e razi e lune, per cinquanta mila fiorini,

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sciamiti di tutti i colori, parte vergati e parte colori schietti, per fiorini venticinque mila … E tutte le predette mercantie furo condotte a Siena a le case Salimbeni donde il popolo di Siena come cose grandi e nuove andoro a vedere … 56.

Trionfo del visivo. Non solo perché Agnolo e l’anonimo rac-contano come se stessero assistendo ad una proiezione cinema-tografica in cui l’occhio del cronista passa in rassegna le stuoie ricolme di grano con la stessa minuziosa curiosità con cui conta le stelle e le lune ricamate in oro sui panni di seta, ma perché ciò che quell’occhio osserva è lo sguardo di uomini impegnati a vedere: il popolo di Siena che guarda. Questo tipo di regi-strazione sottolinea lo statuto privilegiato della testimonian-za oculare, l’importanza sociale e politica dei rituali visibili: la condizione magnatizia richiede segni di riconoscimento indele-bili e riconoscibili: i gesti dei magnati dunque hanno bisogno di un pubblico per ottenere effetto e non hanno valore senza di esso. Quanto incombono nell’immaginario comune quei segni di riconoscimento? Molto, io credo: non si spiegherebbe altri-menti il criterio della ‘pubblica fama’ stabilito dai legislatori comunali come parametro identificativo.La memoria visiva di un cittadino doveva essere costituita dalle sue esperienze dirette e da un repertorio, più o meno vasto, di immagini riflesse dalla cultura dominante: la possibilità di dar forma ad una rappresentazione del magnate, che ne consentisse il riconoscimento sociale, nasceva dal modo in cui i frammenti di quella memoria personale e di quell’immaginario indiretto si combinavano e si accostavano fra loro. La lotta antimagnati-zia, la costruzione di un pacifico stato popolare – la storiografia lo ha sufficientemente chiarito – aveva nella comunicazione vi-siva un veicolo fondamentale: da una parte dunque entravano nell’universo mnemonico e visionario del singolo le suggestioni emotive e figurative derivanti dal cliché del magnate violento e tracotante, dall’altra i bombardamenti, quotidiani, ordina-ri, dell’esperienza concreta 57: sì perché il cliché del magnate violento e tracotante letto oltre le intenzioni – politiche e pro-

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pagandistiche – di chi lo ha prodotto, è una stenografia della realtà. I magnati si qualificavano, realmente, per un atteggia-mento e un costume che faceva della grandezza e dello sfoggio della potenza i suoi tratti caratteristici – atti di ostentazione, ricchezze, magnificenze, prodigalità, carità, protagonismi ritua-li e pubblici – e della “violenza come stile di vita” il segno di-stintivo della propria identità 58. Ma perché il risultato di quella commistione potesse dar luogo ad una ‘opinione comune’, era necessario che tutti i membri della comunità interpretassero allo stesso modo i fatti, che avessero un senso comune delle cose, che attribuissero lo stesso significato alle stesse azioni: livello su cui agiva e si esercitava l’arte retorica e propagan-distica comunale 59. Quando i comuni di Popolo chiamano in causa la publica opinio a qualificare lo status magnatizio, ciò è indice a mio parere che tra governanti e cittadini esiste un ca-nale di comunicazione funzionante: i governanti forse mirano anche, attraverso un coinvolgimento attivo di tutto il consorzio cittadino, ad allargare o rafforzare il consenso intorno alla loro politica nella consapevolezza che se la ‘pubblica opinione’ è un termometro sensibile, forse il termometro più sensibile, delle modificazioni che si registrano al vertice della piramide sociale, essa contemporaneamente offre al ceto di governo la possibilità di intervenire (se il canale funziona) nei meccanismi stessi di formazione di quella pubblica opinione.Nel 1274 una rubrica dello statuto senese, frutto di nuove sol-lecitazioni ed inediti equilibri politici di stampo guelfo e popo-lare, sancendo l’esclusione dei magnati dal collegio di governo dei Trentasei individuava quel gruppo sociale riferendosi ai mi-lites cittadini e ad “aliqui de casato seu de casatis” 60, termine la cui interpretazione, apparentemente arbitraria, presupponeva evidentemente un sapere pubblico e condiviso. Tre anni dopo tuttavia l’assemblea consiliare votava e ratificava la decisione di una commissione di saggi che, mossa dalla volontà di spaz-zar via qualsivoglia dubbio potesse sorgere circa il significato e l’estensione del termine casata, aveva approntato un elenco no-

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minativo di cinquantatré gruppi parentali a cui vietare l’accesso al vertice del governo comunale 61. La redazione del tassativo catalogo – configurandosi come risposta ‘forte’ e contingente ad un inasprimento del conflitto e passibile di divenire potente arma di pressione e di governo nelle mani popolari 62 – non è da interpretare a mio avviso come frutto di un discredito o una sottovalutazione nei confronti della ‘pubblica fama’ come lente probatoria, perché non se ne comprenderebbe altrimenti il ricorso nel 1336 quando nel merito della proposta presen-tata dai Nove al consesso cittadino di una tregua da farsi tra ‘casati’ nemici, furono definiti ‘uomini di casato’ tutti coloro “qui vulgariter vel secundum vulgi oppinionem de aliquo dic-torum casatorum dicerentur vel appellarentur” 63. Vulgi oppio-nionem: contenitore plastico che ben si prestava a interpretare e esplicitare la mutabilità delle fortune e delle sorti di quelle cinquantatré famiglie senesi che definite magnatizie nel 1277 potevano nel corso degli anni, per qualche tracollo economico, per qualche diminuita capacità di presenza nella vita cittadina o semplicemente per mutato atteggiamento, presentare una fi-sionomia tale da non rendere più necessaria la loro inclusione nel gruppo dei casata messi al bando, al contrario di altre che per sopraggiunta floridezza e connesso stile di vita dovevano esservi inserite. Come infatti avvenne 64.

2. Il cavalierato comparve da subito a qualificare la condizio-ne magnatizia: fu chiamato in causa nel 1271, ratificato for-malmente nello statuto del 1274, ripreso nella deliberazione del 1277, di nuovo sanzionato nel testo legislativo volgare del 1309-1310 e successivamente in quello del 1337 65: su “milites” e “cavalieri de la città di Siena” dovevano esercitarsi le stesse limitazioni e sanzioni previste per i ‘potenti di casato’ senza nessuna ulteriore specificazione riguardo alla differente condi-zione personale che il termine nella sua polivalenza semantica poteva indicare riferendosi ora al cavaliere addobbato, insigni-

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to della dignità cavalleresca, ora più semplicemente a coloro che erano chiamati a prestare servizio armato a cavallo nelle fila dell’esercito cittadino in adempimento ad obblighi di na-tura militare e fiscale 66. Questa persistenza nel dettato di legge dell’onore della milizia come criterio discriminante suggerisce di ipotizzare che i legislatori nello stabilire le frontiere dell’iden-tità magnatizia tracciassero un punto di partenza nell’opinione della collettività, a cui era lasciato il potere di individuare il contenuto della definizione di ‘potenti di casato’, ma poiché da lì si apriva tutto un vasto campo di possibilità di applicazione del giudizio individuale nel raffigurarsi nomi e uomini, si trova-rono costretti a fissare un punto di arrivo nel cavalierato, argi-ne a uno sviluppo potenzialmente sterminato e ingovernabile di raffigurazioni: con la figura del cavaliere addobbato campirono visivamente il territorio discriminato e le pareti delle menti e degli occhi dei cittadini: gli speroni d’oro e la cavalcatura erano perfetti per dare la giusta forza icastica al dettato di legge. A questa geometria sovrapposero le liste nominative la cui genesi necessiterebbe di analisi e ulteriori approfondimenti ma il cui utilizzo lascia poco margine al dubbio: felice strumento di go-verno e di azione e manomissione sulla linea di frontiera 67.Se il legislatore nel momento in cui fissò nel cavalierato uno dei criteri atti ad identificare i membri appartenenti a quello strato sociale che voleva colpire è probabile che avesse pensato al cavaliere addobbato, pubblicamente onorato del titolo di mi-les, e non ai cittadini più abbienti soggetti alle cavallate, nella realtà dei fatti le due categorie tendevano ad unificarsi: infatti nonostante lo statuto del 1262 sembri suggerire una distinzio-ne tra chi deteneva una cavalcatura “pro comuni” (parlando specificamente di “miles qui pro comuni equum tenere consue-verit”) 68 e i “milites” semplicemente detti – che sarebbero dun-que i “milites” addobbati – distinzione che sembra ricalcare, in forma molto più lieve, quella attestata a Bologna dove a una condizione cavalleresca convergente con l’idea di nobiltà (la milicia seu nobilitas) con l’attitudine a chiudersi in un ceto che

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escludesse i nuovi ricchi promossi al servizio di combattimen-to a cavallo si opponeva una milicia tantum che comportava l’obbligo di tenere un cavallo per il Comune 69, a Siena la dif-ferenziazione tra i cavalieri comunali e quelli semplicemente detti non sembra che abbia riprodotto una separazione tra gli appartenenti ad una cavalleria ‘più nobile’ di impianto e ori-gine feudale, imperiale, e quelli appartenenti ad una cavalleria comunale, pallido sottogruppo della prima. Un comune genere di vita teneva insieme i primi – “milites” che vantavano una lunga tradizione di servizio militare illustrata dalla dignità ca-valleresca – e i secondi, che magari vi aspiravano. E forse tal-volta la ottenevano. Nel campo di battaglia o nel più suggestivo scenario urbano 70.Accanto alla prassi mai caduta in disuso da parte dei sovra-ni di armar cavalieri 71, e senza voler sminuire il ruolo svolto prima dalla corte sveva e poi dall’angioina nella diffusione dei riti cavallereschi in tutta la Toscana 72, certo è che nel corso del Duecento il Comune cittadino arrogandosi a sua volta tale diritto svolse un ruolo preminente nell’addobbamento: i libri di Biccherna registrano a partire dal 1226 la larga diffusione di cerimonie tutte regolate dall’autorità comunale anche se con cadenze irregolari che videro anni nei quali sembra che nes-suno fosse insignito dell’honorem militie ad anni nei quali, al contrario, più uomini affrontarono il rituale, come ad esempio nel 1252 quando nove milites novi furono onorati della dignità cavalleresca ricevendo dal Comune “pro spata et speronibus” una somma di 100 soldi che era il contributo usuale sborsa-to dalle finanze pubbliche. Somma a cui poteva aggiungersi, talvolta, un’offerta per la la messa che seguiva e precedeva la cerimonia 73 e che il gusto e la sensibilità cittadina – a marcare il significato che si attribuiva al rituale – facevano generalmente coincidere con il giorno del festeggiamento dell’Assunta, il 15 d’agosto, quando la città si stringeva intorno alla Madonna e nella sua figura ritrovava l’unità civica. Nel 1262 lo statu-to, tanto impregnato di ossequioso spirito verso le tradizio-

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ni che concernevano la cavalleria da prevedere un’offerta di ceri al miles militum san Giorgio, protettore delle armi senesi a Montaperti 74, giunse a regolare la cerimonia dell’addobba-mento:

quicumque homo voluerit novo militie cingulo decorari, ha-beat vel habere possit habilitatem in campo [fori] faciendi et tenendi suam curiam per XV dies, sine aliqua pena, et in dicto campo ligna figiendi et mittendi; et ibi possit se claudere cum omnibus, que fuerint sue curienecessaria 75.

Una festa dunque nel cuore della città, in una piazza del Campo che per l’occasione cambiava volto, si arricchiva di strutture li-gnee – nel 1264 in occasione di un’investitura furono eretti sul-la piazza “papillionem et licteriam” 76 – al cui interno il cavalie-re novello e la sua curia potevano festeggiare ininterrottamente per quindici giorni l’evento. Festeggiamenti e manifestazioni di gioia e di lusso che dovevano oltrepassare il sipario teatra-le della piazza e i limiti consentiti dalla normativa suntuaria comunale, se alcune norme statutarie dovettero esplicitamen-te proibire a cittadini, “cantores” e “ioculatores” di ballare e abbandonarsi a danze esultanti e sfrenate fuori casa “ratione alicuius militie” e di fare donativi, che non fossero vivande, “alicui novo militi vel de novo militanti” 77.Superò probabilmente la misura della consuetudine per qualità e quantità dei triunphi, magnificentie, conviti, desinari e invitati l’addobbamento cavalleresco di Francesco di Sozzo Bandinelli che si celebrò in città tra il 18 e il 25 dicembre 1326 per onora-re il quale Agnolo di Tura del Grasso scrisse essere stata imban-dita “la più nominata corte di Toscana”. Ricchi convivi, tornei e armeggiamenti precedettero la cerimonia celebrata il giorno di natale quando Francesco si recò insieme al padre in duo-mo, ascoltò la messa e si avvicinò al pulpito marmoreo dove il rituale doveva avere luogo: lì il Capitano di guerra conte di Battifolle porse a Sozzo Bandinelli la spada che cinse ai fianchi del figlio, il vicario del duca di Calabria gli calzò lo sperone

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destro, il Capitano del Popolo quello sinistro. A quel punto probabilmente il giovane cavaliere, secondo la formula usuale, ma questo il cronista senese non lo racconta, avrà giurato sul vangelo di essere fedele a Dio e alla chiesa, di prendere la difesa degli inermi e di “facere omnia alia ad quae milites tali deco-rationi digni, tenentur ad laudem Dei” 78. Conclusa la cerimo-nia ebbero inizio i festeggiamenti. Alla tavola allestita in onore del miles novus sedettero 446 invitati rappresentanti di tutte le maggiori famiglie cittadine – Saracini, Scotti, Colombini, Petrucci, Marescotti, Benzi, Piccolomini, Malavolti, Ranuccini, Marzi, Paparoni, Selvolesi, Foscherani – oltre naturalmente alle autorità che avevano presieduto alla sua vestizione e a una nu-trita schiera di ambasciatori. “Giollari”, “sonatori e cantatori” allietarono il convito mentre agli ospiti venivano serviti cin-ghiali e caprioli, cervi e lepri “in grande quantità e gran taglie-ri”, starne e fagiani, con “grande aparechiamento e abondevole che molta robba rimase” e mentre il giovane cavaliere novello era omaggiato di doni d’ogni sorta: coperte, coltri, lenzuola, guanciali di “zendado lavorati”, pettini d’avorio, pianelle “con fibie e puntaletti di rame dorati”, farsetti sciamiti, cappelli di velluto, speroni “ad oro forniti di seta”, selle da palafreno “di-pente a oro”, scudi, pettorali, corazze “coperte di cervio for-nite a oro”, cosciali con velluto, guanti “di piastre”, bandiere e pennoni, coltelli d’avorio e tante “altre robbe e armadure e vestimenta” impossibili a raccontare 79.L’addobbamento di Francesco che dovette essere abbastanza eccezionale per Siena (basti pensare che il 24 dicembre fu fat-to cavaliere messer Stricca Marescotti e a quella cerimonia i cronisti non dedicarono più di una riga) 80, ma non per il suo tempo (si scorrano gli addobbamenti ricchi e fastosi descritti in molte fonti di fine Duecento e primo Trecento di cui Stefano Gasparri rende conto) 81, mostra quale consonanza profonda esistesse tra i rituali della cavalleria e lo stile di vita dell’aristo-crazia cittadina: la scelta del pulpito scolpito da Nicola Pisano quale luogo della cerimonia sottolinea il suo carattere sacrale;

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la scelta dei soggetti incaricati dell’apposizione del cingolo mi-litare ribadiscono come l’honos militie è concesso al giovane Bandinelli dall’autorità del padre – a evocare quasi il carat-tere ereditario della tradizione cavalleresca – e dalla patria – rappresentata in quel momento da uno dei nomi più famosi dell’aristocrazia guelfa toscana e dal membro di uno dei casati di nobiltà imperiale più noti della regione 82; e poi il numero e la qualità degli invitati, i tornei e gli armeggiamenti che in-termezzano – secondo uno scrupoloso cerimoniale preparato con chissà quale attenzione – la corte bandita, la presenza di giocolieri e suonatori, il fasto dei doni e l’abbondanza del cibo sono tutti segnali che collegano l’addobbamento di Francesco alla grande festa, alla curia cortese.Ma se il racconto di Agnolo testimonia in una specie di de-calogo tutto ciò che poteva ruotare intorno all’adoubement, significati materiali e ideali che sottintendevano alla cerimo-nia, a colpire prepotentemente l’attenzione è ancora una volta l’assoluta visibilità del rito celebrato in uno spazio urbano che durante sedici giorni – ché la corte durò “otto dì inanzi e otto dì poi” – vide i cavalieri della città fronteggiarsi nel gioco del torneo dove l’abilità e la forza militare erano offerti in forma spettacolare agli occhi di una popolazione che conobbe lo sfog-gio dell’abbondanza e dell’opulenza attraverso un ventaglio di vivande e di colori, di fogge e di tessuti. Come non notare l’insistito sguardo di Agnolo ai “taglieri” disposti sulla tavola, e poi soprattutto all’abito “d’uno verde d’erba cor una filzaia di bottoni d’oro infino al piè” portato da Sozzo, alla “gonella e capuccio e calze di ligia sanguengna”, al “farsetto di boccarame foderato” ai “panilini nuovi” alla “cuffia nuova” ai guanti e allo “scagiale nuovo” indossati dal cavaliere novello, ai nume-rosi “vestimenta” impreziositi da ricami d’oro e di seta che gli invitati regalano a Francesco? 83; come non notare che proprio le armature, necessarie alla guerra, le finiture equestri per ar-mare il cavallo, e gli abiti di zendado e di seta che si ammas-sano via via in gran copia ai piedi di Francesco sono i simboli

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qualificanti la condizione di miles, rappresentando i suoi segni di riconoscimento?; e come non collegare queste descrizioni a quanto la pittura andava esprimendo quando si trattava di rap-presentare i cavalieri cittadini? Basterà solo citare dall’ampia gamma di esempi possibili il noto affresco del Guidoriccio da Fogliano, con la sua giornea trapunta d’oro ornata di rombi di colore blu scuro ripetuti in sequenza e alternati a verdi foglie di pampino che si prolunga come un’unica sontuosa veste a formare la gualdrappa del suo destriero, o ancora l’altrettanta ben conosciuta coppia di cavalieri, dall’aspetto gentile e aristo-cratico, ornata di copricapo e cintura, che esce dalla città felice di Ambrogio Lorenzetti pronta ad una battuta di caccia 84.Erano queste raffigurazioni fantasmatiche e oniriche di un mon-do che nella pittura astraeva, condensava, esteriorizzava la con-traddittoria fascinazione suscitata dal cavaliere, ad affrescare le pareti visive e mentali dei cittadini? Cittadini di un mondo in perenne oscillazione fra un atteggiamento che mirava a porre limiti e restrizioni ai fasti e agli eccessi connessi alla celebrazio-ne dell’investitura ma che in ossequio a un sentire davvero vivo e a prepotenti suggestioni emotive derogava continuamente a quelle restrizioni, come appare nel caso di Francesco Bandinelli, e garantiva quotidianamente la possibilità ai cavalieri di marca-re la propria distinzione vestendo abiti preziosi e riconoscendo loro il diritto, una volta defunti, di essere omaggiati con tributi speciali vietati agli altri cittadini 85.A questi segni di ricchezza e di prestigio, intimamente uniti all’attitudine bellica che poteva anche pericolosamente scivola-re nello sfoggio di potenza e di forza al di fuori dei circuiti legit-timi della giostra e della guerra, pensarono i legislatori quando indicarono nel cavalierato il criterio atto ad individuare i “po-tentes” destinatari dei provvedimenti antimagnatizi. Una nor-ma che mostrò non solo il trascolorare di un ideale cavallere-sco che da “modello socialmente positivo” – come l’ha definito Gasparri – legato ai concetti di onore e giustizia, espressione di una civiltà cortese veicolo di un modus vivendi a cui l’aristo-

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crazia cittadina mostrava idealmente di voler tendere 86, diven-tava negativo andando ad aderire all’immagine del magnate, ma anche, direi, proprio in conseguenza di questo slittamento, il significato bifronte che l’accesso alla militia comportava 87. Il titolo di “miles” si configurava come un gradino necessario per salire la scala della gerarchia sociale. La sua acquisizione san-civa una raggiunta posizione economica, sanzionava un preci-so stile di vita. L’uomo che entrava a far parte della struttura cavalleresca cittadina combatteva a cavallo per il Comune, ma affermava anche la sua vocazione alla violenza e all’uso della forza nei conflitti e nelle brighe su base consortile, circondan-dosi al tempo stesso di un ethos nobiliare di stampo europeo attraverso l’adozione di costumi e comportamenti quali il tor-neo, la festa, la corte bandita. L’architettura cavalleresca che si andò strutturando nel corso del Duecento con propri capi – i consules militum – si caratterizzò come contenitore aperto: essa non replicò le fila dell’aristocrazia consolare dei secoli XI-XII ma inglobò al suo interno tanto personaggi che vantavano una tradizione militare familiare, quanto cittadini ascesi al rango di miles da una più recente fortuna economica 88.È estrememamente significativo che nel 1277 dei 53 gruppi pa-rentali individuati dalla normativa antimagnatizia soltanto per una piccola porzione di essi manchino attestazioni di un loro diretto collegamento con la militia cittadina 89: questo per dire come senza ombra di dubbio l’accesso alla cavalleria comunale fosse parte viva del processo di grandezza e di costruzione di un potere visibile all’interno della città da parte di gruppi paren-tali che miravano a scalare le vette del successo sociale, e come tale appartenenza, in un rovesciarsi della medaglia, da un certo punto in poi costituì motivo sufficiente e probante per convali-dare l’esclusione dal vertice del governo comunale.

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Tra legge, pragmatismo e propaganda. L’azione del governo popolare

1. La violenza magnatizia, di cui Rinaldo è limpido emblema, fu una preoccupazione costante del governo popolare. Che alla regolamentazione e al contenimento delle sue manifestazioni ri-volse in maniera determinante la sua azione politica attraverso un corpus legislativo mirante a colpire i comportamenti smo-dati ed eccessivi di chi metteva a repentaglio l’ordine pubblico e il bene comune. Quando il ceto mercantile di stampo filopa-pale dei Nove arrivò al governo della città nel 1287 dopo una serie di aggiustamenti istituzionali compiuti sotto il segno del guelfismo che aveva visto esponenti della classe mercantile dare vita a diverse formule istituzionali – che assumendo di volta in volta il nome dal numero dei componenti la suprema magistra-tura si dissero dei Trentasei, dei Quindici, dei Diciotto, dei Sei fino all’assetto definitivo intervenuto con i Nove – l’esclusione dal governo dei casati cittadini era già stata sancita. I Nove la rimarcarono nel Costituto volgare del 1309 90, aggiungendo a questa limitazione delle cariche comunali 91 che si inseriva pa-catamente nel solco di un processo politico nato alcuni decenni prima, alcune incapacità di indole processuale nei confronti dei ‘nobili di casato’ – ai quali veniva concessa possibilità di presta-re fideiussione soltanto a favore di loro pari e agire in qualità di procuratori in sede giudiziaria solo per i membri della propria famiglia 92 –, e una serie di disposizioni volte a punire tutte le manifestazioni, o i tentativi, di ribellione al regime che pur non essendo indirizzate espressamente contro i casata, ponevano un argine penale ai tentativi di sovversione di cui spesso i magnati si rendevano protagonisti o coautori 93.Il problema dell’ordine interno e del mantenimento della quie-te pubblica fu affrontato dal gruppo dirigente con un’ampia revisione dell’organizzazione militare a difesa della città: la ri-organizzazione faceva perno su nove vicariati del contado che

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dovevano fornire un contingente di cinquemila uomini bene armati, e sulle “societates” cittadine dotate di un proprio capi-tano, tre consiglieri e un gonfaloniere che duravano in carica sei mesi e dipendevano dal Capitano del Popolo e dai Nove 94. All’esercito cittadino formato da fedeli popolari 95, “muniti suf-ficienter et honorifice armis opportunis” 96, spettava sorvegliare e garantire la difesa del ‘pacifico stato’ e della magistratura di governo 97.Parallelamente a questo riordinamento della struttura difensi-va fu ripristinata la figura del Capitaneus comunis et populi soppresso durante il passaggio istituzionale degli anni Settanta del Duecento quando le sue competenze furono attribuite ai Trentasei e ai Capitani di parte guelfa, e nuovamente istituito nel 1289 quando fu deciso essere necessario l’ufficio ‘per il buo-no stato del Comune e del Popolo di Siena’ 98. In carica per sei mesi, subordinato abbastanza pesantemente al potere dei Nove, dotato di un proprio consiglio di cinquanta uomini per ognuno dei tre terzi cittadini, se inizialmente le sue competenze riguar-darono la giurisdizione penale ordinaria, in forma abbastanza limitata rispetto a quella del Podestà, e la funzione di giudice d’appello dalle sentenze emesse dalla curia di quest’ultimo il cui operato era sottoposto al suo controllo 99, con il trascorrere degli anni le sue funzioni si allargarono ad altri settori prefi-gurando un ruolo centrale dell’ufficiale nella tutela dell’ordine pubblico e della stabilità di governo. Al dominus Capitaneus qualificato defensor dominorum Novem 100 era dato il potere di accertare che nessun sospettato di tradimento fosse eletto ad una magistratura comunale e che nessuna “coniurationem vel proditionem” si ordisse in città contro lo stato: attraverso l’utilizzazione di spie e delatori ogni tentativo doveva essere scoperto e denunciato; a lui spettava la decisione di mandare “ad confines” per il periodo di tempo che volesse chiunque fos-se sospettato di cospirazione e coinvolgimento in ribellioni, e in particolare specificava la norma statutaria

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si aliquis potens de casato […] esset in civitate Senarum de quo dubitaretur quod subvertere intenderet vel turbare sta-tum pacificum civitatis Senarum, vel coniurationem vel pro-ditionem ordinaret in periculum civitatis Senarum.

il Capitano doveve agire ed “expedire” “pro salute civitatis” come meglio gli paresse. A evidenziare il suo ruolo di tutore della pace, garante della giustizia, difensore della cittadinan-za sottoposta alle angherie e alle violenze dei grandi – quasi ripristinando la sua originaria funzione di ‘protettore del po-polo’ – una norma gli affidò il titolo di defensor pauperum et miserabilium personarum: affinché inermi e deboli non fossero vessati dai potenti egli era tenuto a “defendere” tutti i citta-dini e “maxime miserabiles, debiles et pauperes personas” da “omnibus iniuriis, oppressionibus et violentiis” perpetrate da chiunque e “maxime” dai “potentes de casato” 101. Un compito specifico questo di porsi a tutela dei poveri popolari vessati, che pur inserito nel generale processo di accentramento nelle mani del Capitano di tutte le funzioni connesse alla scoperta, la de-nuncia e la punizione di violenze, furti, rapine contro persone e beni dello stato, si colorava di un aperto significato politico in relazione alle reiterate norme che gli affidavano maggiori e specifiche competenze contro le malversazioni dei nobili, defi-niti ‘violenti ed oppressori’, a danno dei ‘deboli’ e degli apparte-nenti alle compagnie armate della città. Disposizioni – ordinate e recepite poi nel testo statutario del 1337 – che trasferivano nel Capitano pieni poteri di applicare la normativa comuna-le riguardo alla comminazione delle pene previste dagli statuti nei casi di violenze e oppressioni, con autorità di “cognoscere et procedere” nelle cause suddette tanto per denunzia che ex officio 102; che lo dichiaravano unico giudice competente nei processi per violenza commessa dai magnati contro i popolani con facoltà di triplicare la pena e di torturare il reo, senza es-sere sottoposto a sindacato da parte del Maggior Sindaco 103; che accentuarono i suoi compiti di investigazione obbligandolo

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ogni due mesi a fare “diligentem inquisitionem” – con l’ausilio di sei uomini delle società armate – al fine di scoprire

veritatem de omnibus et singulis malefitiis que comitterentur ab aliquo magnate vel de casato seu nobili contra aliquem de sotietatibus vel vicariatibus vel contra alium popularem civitatis vel comitatus Senarum 104.

Nel corso del secolo molte delle prerogative spettanti al Capitano del Popolo confluirono nella figura del Capitano di guerra – magistratura permanente dal 1323 la cui pertinenza investiva tutto ciò che atteneva alla sfera della difesa della cit-tà – ma il quadro delle competenze rimase immutato 105, se si eccettua l’estendersi nel 1341 delle sue prerogative ai casi di violenza perpetrata dai magnati non solo contro i popolari ma anche contro loro pari 106.A queste misure vanno aggiunti, per completare l’analisi, i provvedimenti di tipo sanzionatorio o restrittivo previsti dal-la normativa nei confronti dei magnati. Al divieto loro posto nello statuto del 1309-1310 di essere fideiussori o procuratori nei processi, divieto ripetuto nel 1337 107, si aggiunse la limita-zione di servirsi – nelle cause di violenza in cui fossero impli-cati – del “consilium sapientis” e di associarsi ad altri nobili, avvocati, giudici e procuratori per riceverne aiuto 108; nel caso in cui fossero stati condannati al bando per crimini di violen-za commessi contro membri delle “societates” e dei vicariati e contro “quemcumque popularem” si stabilì che soltanto il consiglio della campana composto da 300 consiglieri, potesse revocare il provvedimento 109; si stabilì che tutte le ingiurie e i maltrattamenti perpetrati contro i popolari dovevano esse-re denunciati al Capitano del Popolo perché questi procedesse contro il reo 110 ma il magnate avrebbe potuto ottenere la pace dall’offeso pagando la metà della pena 111; oltre a prevedere la morte, la distruzione totale dei beni e il bando perenne per i figli di quel nobilis, “potens de casato, vel alius quilibet” che avesse ferito “cum sanguinis effusione” o “mutilatione mem-

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bri” un membro del priorato, una multa di 1.000 lire nel caso di ferita leggera e di 500 per un’offesa fatta a parole, si stabilì che per tutti gli altri casi andavano applicate ai grandi proce-dure e pene usuali 112.La natura e il carattere delle misure antimagnatizie senesi nel più vasto contesto legislativo italiano, al di là delle considera-zioni riguardo alle suggestioni che esse avrebbero tratto da un modello pisano 113, indicano che si trattò di una legislazione niente affatto diretta a minare le basi economiche e patrimo-niali dei casata e assolutamente scevra da propositi vendicativi o punitivi 114: essa si innervò piuttosto sul fermo proposito dei governanti di distogliere i potentes dagli eccessi, dalla smodata violenza, dagli atteggiamenti di tracotanza, dall’attitudine alla sopraffazione verso debiles et inermes, potenziali meccanismi di disordine e di rottura dell’equilibrio politico e sociale citta-dino. Proposito perseguito con misure di polizia urbana e di controllo dirette a prevenire e contrastare tali episodi 115; con i divieti posti a certe manifestazioni – ad esempio il gioco del-la pugna – che potevano avere uno sbocco pericoloso 116; con le limitazioni al porto d’armi 117; con provvedimenti legislativi pesantemente sanzionatori nei casi accertati di infrazione alle norme del pacifico stato o di attacco contro il potere costitui-to – la pena di morte per il magnate che ferisse gravemente un membro dei Nove – e con norme invece più concilianti tese a facilitare il ristabilimento dell’ordine, come nel caso del di-mezzamento della pena quando magnate e popolano avessero raggiunto la pace.A questi strumenti di tipo preventivo, giudiziario e militare i governanti affiancarono le armi della propaganda, per costru-ire una cornice ideale a legittimazione del proprio potere e della propria azione, e l’istituto del pragmatismo politico – il cui impiego tanto assiduo fa pensare di trovarci di fronte ad una struttura portante del ‘sistema’ di governo novesco – che consentiva ai popolari di adattare i propri comportamenti alla fisionomia dei rei e alla contingenza del momento.

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Nella primavera dell’anno 1315, era il mese di aprile, una zuffa di grandi dimensioni tra Tolomei e Salimbeni spinse i Nove a chiudere le porte della città per evitare che segua-ci dell’una e dell’altra parte arrivassero ad ingrossare le fila delle due fazioni. Ma alcuni abitanti del contado “per non sapere”, altri “per amicitia” elusero la sorveglianza e il decre-to: guardie e ufficiali del Podestà furono allora sguinzagliati alla ricerca dei forestieri, ma mentre stavano per procedere contro i sei che erano riusciti a catturare, il popolo si “levò a romore” chiedendo che i malcapitati fossero lasciati anda-re. Cinque di loro approfittando dei disordini riuscirono a fuggire, il sesto, meno pronto o più sfortunato, rimase e fu immediatamente decapitato. Da qui la situazione precipitò, si accese una sommossa e solo a gran fatica si riuscì a ripri-stinare l’ordine 118. Ai primi di maggio il Podestà si presentò al consiglio cittadino con una proposta in merito ai “delictis, mallefitiis sive excessibus commissis, ordinatis vel tractatis de mense aprile proxime preterito per aliquem vel aliquos de domo Thalomeorum sive de domo Salimbenensium, vel aliquem vel aliquos sequaces, complices vel fauctores alicuius dictarum domorum”: chiedeva che la “pena corporalis que secundum formam iuris statutorum debet inferri [predictis]” fosse commutata in “penam pecuniariam” da stabilire a suo arbitrio, a condizione che i rappresentanti dei due casati fir-massero entro il termine di tre giorni una tregua; a chi avesse rifiutato di sottoscrivere la pacificazione dovevano essere ap-plicate le misure giudiziarie previste dalla normativa. I consi-glieri votarono e quasi all’unanimità la richiesta fu accettata e mandata a esecuzione 119. Una decina di giorni più tardi il Podestà si ripresentò all’assemblea:

quod cum de mense aprilis proxime preterito in civitate Senarum pluribus et diversis diebus plures et varii rumores contigerint propter guerram et inimicitias que […] erant tunc temporis inter nobiles de domo Tholomeorum ex una parte et nobiles de domo Salimbenensium ex altera, et contingerit quod illi qui principaliter et enormiter delinquerunt sunt ab-soluti et quasi nullam penam reportant, et nunc per curiam domini potestatis contra aliquos […] procedatur et posset

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etiam […] quod multi debiles indebite opprimerentur et quod multe calupniose denumptiationes procederent unde contin-gerent turpes redemptiones et alia inhonesta […], si videtur et placet […] quod sit iuxta necessaria tam evidens necessitas et comunis Senarum utilitas quod cum predicti de dictis domi-bus Tholomeorum et Salimbenensium sunt absoluti, dominus potestas et capitaneus non possint nec debeant procedere ullo modo per accusationem, denumptiationem vel inquisitionem […] contra aliquos alios qui commisissent aliquod delictum vel excessum in dictis rumoribus …

I magnati, maggiori responsabili dei disordini di aprile, erano riusciti dunque a sottrarsi totalmente alle sanzioni penali e la pena pecuniaria doveva essere stata talmente lieve da far dire al Podestà che essi di fatto erano stati ‘assolti’ da ogni con-danna e quasi ‘nessuna pena’ era stata loro comminata: ma quella risoluzione che era stata proposta all’assise cittadina dieci giorni prima dallo stesso ufficiale che ora lamentava la difficoltà di individuare gli altri colpevoli della sommossa, si era dunque scontrata con l’impossibilità di far procedere la giustizia perché un intreccio di deposizioni, denunce e accuse false – nelle quali immagino un’orchestrazione non estranea ai due casati – rendeva impossibile sapere chi fossero i veri col-pevoli con l’effetto di punire indebite molti poveri innocenti. E dunque, estrema ratio, unica soluzione possibile alla confu-sione in corso era l’annullamento di ogni procedimento.

L’episodio, tratto da un ricco repertorio di esempi possibili, nel quale il Comune rinuncia ad agire contro i potentes che aveva-no attentato al pacifico stato della città macchiandosi di atti di violenza condannati e regolamentati dalla normativa antima-gnatizia, non vuol suggerire l’idea di uno scollamento fra detta-to di legge e prassi politica, e tantomeno impostare il problema della legislazione contro i nobili in termini di efficacia/ineffica-cia, attuazione/inattuazione attraverso una sottolineatura della capacità dei grandi di aprirsi dei varchi di impunità nelle maglie della normativa, favoriti dalla speculare incapacità della magi-stratura dei Nove di ‘governare’ gli eventi. La vicenda va invece

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accostata alle molte altre vicende nelle quali il regime guelfo si fece autore di repressioni durissime contro i rei e applicò se-veramente e senza sconti i provvedimenti statutari: giustiziato sulla pubblica piazza fu Giovanni Piccolomini che aveva ucciso il consorte 120; esiliati e mandati al confino furono i membri del casato che nel 1292 si erano divisi in fazioni a causa di cer-ta discordia 121; giudicati colpevoli Salomone, Mino Magliata Piccolomini e i loro complici che furono costretti a restituire ai camaldolesi di Monastero Berardengo i beni usurpati 122: per citare soltanto alcuni casi in cui furono coinvolti i congiunti di Rinaldo di Turchio. Questo diverso atteggiamento dei Nove nell’esecuzione della normativa riposava su quel deciso empiri-smo, di cui dicevo, che guidò le azioni di un ceto di governo che su considerazioni dettate dalla contingenza politica decideva di volta in volta la rotta da seguire. Senza ripercorrere qui la se-quenza dei tumulti, degli atti di violenza, dei malefici commessi dai magnati e l’arcobaleno di risposte date dai medi mercanti, importa piuttosto evidenziare che se non è possibile pensare che un neutro criterio di imparzialità informasse l’azione dei Nove – perché pesava talora sulla decisione da prendere la con-notazione del gruppo parentale e dunque elemento discrimi-nante poteva essere la sua vicinanza e la fedeltà all’apparato di governo 123 – in genere le ‘deroghe’ al codice antimagnatizio trovavano un’ampia legittimazione nell’essere queste il neces-sario mezzo (necessaria, probabilis tam evidens necessitas et comunis utilitas) per pervenire al giusto fine: il mantenimento del pacifico stato della città e del Comune e dunque del suo regime di governo.Le leggi antimagnatizie, con i loro cataloghi nominativi e i lun-ghi elenchi di condanne e di pene, rappresentavano inoltre per i Nove un’arma di contrattazione e di pressione di non poco conto per costringere i nobili a ricomporre le loro inimicizie, superando i dissidi e le brighe che mettevano gli uni contro gli altri, in uno sforzo di attuazione di tregue e pacificazioni che si inseriva pienamente nell’alveo di un processo più generale e nel

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quadro di un clima che vide i regimi di Popolo porre al centro della loro azione di governo, grazie ad una retorica più o meno attrezzata, l’ideale della Pax 124.

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In Siena era grande controversia fra certi casati di nobili, cioè Malavolti e Salimbeni e Piccolomini e Squarcialupi e Pelacani e spesso faceano romori per cagione di certi sbanditi de la città; e per questo Siena era i’ male stato. I signori Nove che governavano mandaro per li capi principali de’ nobili e ordi-noro che pace facessero fra loro, e così fero pace. E perché la pace fusse ordinoro i detti signori che chi fusse in bando de la testa e avesse la pace dall’offeso pagasse in comuno due milia fiorini […] e anco chi fusse in bando di denari, avendo la pace, pagasse soldi V per libra; e molti ne furono ribanditi e tornoro in Siena. E per questa pace e acordo li signori Nove fero fare in Siena gran festa e falò per tutte le tori. Ogni omo era contento di tale pace e acordo […] e armegiossi per Siena e giostraro e stracciaro bandiere e donaro molte robe, cioé veste 125.

La descrizione che Agnolo di Tura rese della tregua stipulata tra i cinque casati cittadini nel 1302 è ben atta a rappresentare l’attenzione che i priori profusero per la riuscita di tale compo-sizione e il significato che essa assunse con quella festa corale di fuochi e tornei che restituisce appieno il senso di una gioia collettiva cittadina per la ritrovata stabilità, frutto del buongo-verno del regime. Nel corso degli anni tuttavia il ristabilimen-to della pace tra i gruppi consortili oltre all’intervento svolto direttamente dal Comune dovette avvalersi della mediazione di personaggi fuori campo, soprattutto ecclesiastici del cui pre-stigio legato ai rapporti intrattenuti con la curia di Roma e con la corte angioina, si avvalsero i Nove per far cessare gli scontri tra le fazioni parentali: ad una prima tregua stretta nel 1333 tra Tolomei e Salimbeni grazie ai prelati albanese e marsitano, le-

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gati inviati rispettivamente da Carlo re di Sicilia e dal cardinale Giovanni degli Orsini cancelliere della sede apostolica 126, seguì quella del 1337, la più nota delle pacificazioni familiari senesi, che fu resa possibile dalla lunga trattativa svolta dal vescovo fiorentino Francesco Silvestri da Cingoli 127.Nel dicembre 1336 il Consiglio Generale, in una delibera mo-tivata dalla volontà di ristabilire pacem veram et perpetuam fra i casati della città e porre fine a tutte le inimicizie verten-ti che fornivano materia di scandalo e turbamento dell’ordine pubblico, aveva approvato una proposta formulata dallo stes-so vescovo riguardante la modalità per la ratifica delle tregue che, da quel momento, dovevano essere strette e stipulate da “tres partes ad minus hominum dictorum casatorum et utriu-sque ipsorum capud familias maiorum XIII annis” ma che per avere pieno valore dovevano, in un secondo momento, essere ratificate da tutti i componenti dell’uno e l’altro lignaggio 128. Il verbo della procedura, seguito scrupolosamente l’anno suc-cessivo dalla sua promulgazione nella citata pace tra Tolomei e Salimbeni, fu assunto a base anche dell’atto che sancì la fine delle ostilità tra Piccolomini e Malavolti nel 1347. La qualità delle ‘ingiurie, contumelie e offese’ reciprocamente inflitte, la considerazione del punto di non ritorno a cui era arrivata la faida aveva incitato i governanti ad intervenire e nel febbraio di quell’anno le due famiglie giunsero, nel palazzo dei Nove, ad una composizione 129. L’accordo agevolato ancora una volta dalla mediazione dell’episcopum florentinum prevedeva la re-missione di tutti i delitti di cui gli uomini delle due parti si era-no macchiati con l’unica eccezione di Deo di Pierozzo e Ranieri di Guccio Malavolti che dovevano esserne “totaliter exclusi”; sui due “exbampniti et condempnati” dal Comune poteva anzi esercitarsi la repressione dei Piccolomini che “inpune et sine ulla pena” erano autorizzati a perpetrare atti di violenza nei loro confronti nel momento in cui a causa di qualche “benefi-cium” fossero stati riammessi in città; nel caso però in cui la famiglia fosse pervenuta ad una “treguam” con i suddetti per

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nessun modo questi avrebbero potuto essere oggetto di vendet-ta o rappresaglia 130.L’impegno profuso nell’attuazione di una politica di pacifica-zione tra casati nemici a cui corrisposero severissime sanzio-ni per chi avesse rotto i termini delle tregue 131, la possibilità prevista di risoluzione delle dispute intrafamiliari attraverso il meccanismo della vendetta i cui termini furono però stringen-temente regolamentati, il frequente ricorso a sconti di pena, la reiterazione delle assoluzioni, le norme preventive, sono tutti elementi che paiono indicare come la ‘politica’ giudiziaria del governo novesco si caratterizzasse come sistema flessibile dove accanto alle affermazioni statutarie e ai sistemi coercitivi, stet-tero una serie di soluzioni ‘informali’ basate su un atteggiamen-to empirico e grossa chiarezza di intenti. Centrale fu per il fun-zionamento di questo sistema il ruolo svolto dalla propaganda che contribuì in modo sostanziale ad elaborare un concetto ne-gativo del magnate, violento e turbatore, in netta opposizione all’interesse della collettività, in contrasto a quel Bene Comune che veniva a coincidere con l’immagine del ‘pacifico stato’ al cui mantenimento e conservazione erano stati preposti i gover-nanti e il cui insistito riferimento fece da sottofondo ad ogni risoluzione, legittimò qualsiasi intervento, impreziosì di gemme ideali e retoriche tutti i tentativi dei mercanti di mezzana gente di arginare il vortice di sopraffazioni di cui i grandi si resero protagonisti. Si veda a mo’ di esempio l’esaltazione dei frutti derivanti dalla pace e l’enumerazione dei mali ingenerati dalle discordie che costituiscono l’ampia motivazione ideale data al lodo del 1337 dal vescovo Francesco da Cingoli:

Inmensa Dei dilectione testante, relicta est nobis pacis here-ditas ut in sua mira dulcedine militie nostre dura mitescerent et usu eius pace triumphantes gaudia mereremur. Ac livior antiqui et implicabilis hostis humane prosperitati semper collocatus insidias et tanquam leo rugiens circuens querens quem devoret, tot cotidie nova litigia generat, quod nedum inter extraneos vel aliquali carnis consanguineitate coniun-

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ctos, verum etiam inter fratres excitat, ut plurimum guerra-rum et dissensionum turbiginem et materias questionum que facultates exaruunt et cuntorum sunt in continue maiorum et quanto maiore videt imminere pericula tanto durioribus famulis affligit mentes lesas cuius hostis conatibus est per fi-dei fortitudinem, dilectionis constantiam et caritatis ardorem viriliter resistendum ut culsis radicitus cuiuslibet dissensionis veporibus gustare possimus dulcedinem fructus pacis. Sane dudum perducto ad apostolatus auditum sanctissimi patris et domini nostri domini Benedicti […]summi pontificis pa-tris patrum, vices illius gerentis in terris qui pacis est autor […] quod dicti hostis pacem abborentis et discordias sua-dentis nequititiam inter nobiles de domibus Tholomeorum et Salimbenis de Senis qui soliti erant in pacis et caritatis vin-culo unanimiter conversari multa a longis temporibus citra seminavit scandala, hodia seruit, guerrarum pullulari fecit discrimina et discordias suscitavit non sine commotione et scandalo totius civitatis Senarum et circumposite regionis, adeo quod dissidentibus invicem eisdem nobilibus strages personarum, dampna rerum et alia mala innumera quinim-mo animarum amarius deploranda pericula sunt secuta et graviora subsequi verisimiliter credebantur nisi apponerentur remedia apostolice santitatis, cupiens tanquam universalis pastor et pater benivolus quem non pretereunt incommoda filiorum, huiusmodi malis et scandalis ex quibus Deus gra-viter offenditur, proximus leditur et status patrie turbatur pacificus … 132.

Se il messaggio politico affidato al proemio del lodo dovette suscitare vasta impressione quando risuonò ammonitore nella sala maggiore del palazzo comunale dove una ‘copiosa moltitu-dine di popolo’ era accorsa ad assistere alla pacificazione tra le due famiglie, è lecito chiedersi quanto i suoi caratteri intrinseci – l’essere redatto in lingua latina, il far parte di una sentenza scritta destinata ad una lenta evanescenza dopo la sua ratifica – agissero per eroderne la forza comunicativa.Una forza che invece appare sviluppata al massimo grado nelle opere pittoriche, con il loro grande e duraturo impatto visivo,

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che i Nove commissionarono durante il loro regime e che ben si prestavano ad essere còlte tanto da un pubblico dotto, con i sottili e frequenti riferimenti filosofici che sottintendevano per-sonaggi e versi latini, quanto da un pubblico meno avvertito ma immediatamente suggestionabile dalle molte rime volga-ri che incorniciavano gli affreschi e dalla forza espressiva ed evocativa delle figure che li animavano 133. Illuminanti erano le parole poste a mo’ di epigrafe esplicativa sulla base della Maestà dipinta da Simone Martini intorno al 1315 nella sala del Mappamondo del palazzo comunale, messe in bocca alla vergine in risposta ai santi che le fanno ala:

Diletti mie ponete nelle menti che li devoti vostri preghi one-sti come vorrete voi farò contenti, ma se i potenti a’ debil fian molesti gravando loro con vergogne o danni, le vostre orason non son per questi né per qualunche la mia terra inganni.

Il messaggio civile che i Nove affidavano a Maria era chiaro: il comportamento protervo e aggressivo dei potenti verso i deboli andava bollato come inganno perpetrato contro la città; essi utilizzando la loro forza per opprimere gli inermi tradivano lo stato, tradivano la vergine che dello stato era – dai tempi di Montaperti – protettrice e avvocata, si rendevano spregiatori degli ideali di sapienza e giustizia da lei incarnati e dal governo resi prassi amministrativa e politica. Ma se la vergine marti-niana – con gli occhi dolorosamente fissi sui magnati superbi e tracotanti (“talor veggio, dice ancora, chi per proprio stato disprezza me e la mia terra inganna, e quando parla peggio è più lodato”) –, prima tessera di un mosaico mariano che andrà a ricoprire il palazzo del Comune, si fece prima, simbolica, vi-siva, religiosa portavoce del credo politico dei mercanti guelfi, fu nell’altro grande affresco fatto dipingere fra 1338 e 1339 in una sala contigua a quella del concistoro che il contesto reli-gioso lasciò il passo ad una raffigurazione impregnata di laicità in cui i governanti manifestarono assai più chiaramente i loro ideali politici e gli intenti programmatici del loro governo.

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Il racconto ben noto, ad opera di Ambrogio Lorenzetti, illustra-va due storie alternative e contrapposte: alla rappresentazione allegorica del Buon Governo e dei suoi concreti benefici effetti nella vita della città e del suo contado – scene di serenità e di abbondanza, di lavoro e di festa – faceva da contraltare quella del Mal Governo e delle sue devastanti, temibili, concrete, con-seguenze: scene di male e di violenza, di povertà e distruzione. I Nove, rappresentati nell’immagine dell’imponente vegliardo so-vrastato dalle virtù teologali e attorniato da sagge consigliere, si ponevano come garanti del quieto vivere civile: dalla Giustizia, assistita da Sapientia, avevano ricevuto il mandato per concor-rere al bene della città e tale mandato volevano svolgere per il bene dei cittadini. Ecco allora che guidati da lei impiccano e imprigionano, sottomettono chi gli si oppone, tengono a bada i malvagi, danno a ciascuno il posto che gli compete a seconda dei meriti o delle colpe, agiscono perché l’interesse privato sia subordinato a quello pubblico: solo così gli abitanti possono vivere pacificamente e dedicarsi alle loro attività, la città può crescere e tingersi di rosa, le campagne prosperare e colorarsi dell’oro del grano maturo, del verde delle vigne, dell’azzurro dei fiumi che l’attraversano cantando.Tirannide invece, diabolico e immorale reggimento, attorniato da una corte di vizi, fa perire la Giustizia e nega la pace: sotto il suo infernale governo Siena rovina, i suoi palazzi cadono, le campagne diventano preda di facile saccheggio, la popola-zione è prigioniera della fame e della desolazione. I mali che possono far precipitare la città in un abisso di violenza e di morte, i pericoli che rischiano di spezzare l’equilibrato sistema del Buongoverno hanno vesti da cortigiane e portano i nomi di Divisio, Guerra, Proditio, angeli neri che perdono qui ogni senso allegorico per farsi minaccia concreta e ben conosciuta – come ha notato Chiara Frugoni – non la raffigurazione simbo-lica del Male, ma “il male di Siena in quel preciso tempo” 134.Proprio nella stigmatizzazione di questi mali, e nel tacito col-legamento istituito tra i ‘potenti di casato’ e l’aspetto più cla-

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moroso del loro stile di vita che avrebbe potuto sfociare con il concorso di altre forze nell’avvento di Tirannide, si può forse rintracciare una sfumata valenza ‘antinobiliare’ ma l’elemen-to polemico è nell’affresco lorenzettiano subito divorato dal ‘modello positivo’ di nobiltà ravvisabile nei due gentiluomini dall’aspetto biondo e gentile inginocchiati, in atto di obbedien-za, accanto al Bene Comune: figure che tanto evocano l’ari-stocratico del contado impresso in un’altra stanza del palazzo che – spada dentro la guaina – sottomette volontariamente al rappresentante del Comune cittadino il suo castello. È il richia-mo alla subordinazione: subordinazione del Ben proprio al Ben comune, subordinazione della forza dei potenti alla legge supe-riore della Iustitiam:

excellentissima pars iustitiae que virtutes omnes excedit et ad quam magis decet intendere universos dominos, rectores et populus est vendicare ac punire commissores excessium, sed maxime proditionis et rebellionis, in quibus non solum privata, quin imo publica, consistunt pericula, exterminia et offense 135.

Che in altre parole significava – come andavano indicando i cronisti cittadini – far “vivare a ragione” e “sicondo la forma della giustizia e del buon vivare” quanti volevano sottrarvi-si 136.

La strategia perdente di Rinaldo

Fino a quel giorno di aprile dell’anno 1277 quando invase la terra di Pian di Caggio, la sua biografia è un albero spoglio. Attestazioni posteriori ce lo mostrano unito in matrimonio pare senza prole a una non meglio qualificata Contessa di Andrea 137: ma la data dell’unione rimane sconosciuta. Il pa-tronimico riconducendolo a quel Turchio di Chiaramontese, testimone alle ultime volontà di Ranieri di Rustichino, ban-

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chiere attivo nello scacchiere internazionale e uomo di spicco nell’ambiente finanziario e politico cittadino dei primi decenni del Duecento 138 ci racconta che l’alba della sua storia si per-de nel seno di quella folla di mercatores e cambiatores senesi che a metà Ducento disegna profondamente il tessuto sociale della città. Anche i ‘figli di Turchio’ proseguirono nelle attivi-tà di banco avviate dal padre: ne è testimonianza l’azienda in essere fra gli anni Quaranta e Settanta indicata come filiorum domini Turchii ed il coinvolgimento dei due fratelli di Rinaldo, Ranieri e Giovanni, nel corpo dell’azienda anch’essa a carattere familiare che negli anni centrali del secolo sviluppa i suoi affari in area lagunare e veneta 139. Per via indiziaria è ipotizzabile che anche lo stesso Rinaldo abbia raccolto e continuato quella tradizione bancaria se il 5 gennaio 1263, assieme al fratello e al padre, era tra i fuorusciti senesi protetti dal pontefice, qua-si tutti banchieri, che nel dicembre dell’anno precedente ave-vano abbandonato la città alla volta del castello pontificio di Radicofani 140. Ma dell’esercizio di questa sua presunta attività finanziaria e commerciale non rimane alcuna traccia diretta.Dagli atti del processo è possibile invece risalire agli interes-si fondiari di Rinaldo in area valdorciana: il Piccolomini era entrato in possesso del castello di Montem Hertari cum om-nibus suis pertinentiis originariamente concesso a Inghilberto e Ildibrandino Piccolomini dall’imperatore con atto del 26 novembre 1220 141 poi passato nelle mani degli eredi del pri-mo – Bernardino, Cione e Roma di Alamanno – da cui lo ave-va ricevuto 142. Benché nessun atto aiuti a definire la data di acquisizione del castello e del tutto sconosciute siano tempi e modalità che orientarono il processo di accumulazione pa-trimoniale nell’area, certo è che fra 1277 e 1278 egli appare detentore di un complesso fondiario che comprende il castel-lo e si allunga verso la vicina comunità di Corsignano – da dove provenivano almeno due dei laboratores facenti parte dell’armata dei fideles nell’occupazione delle terre di Pian di Caggio – e nella zona circostante la comunità di Monticchiello

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da dove provenivano i due testimoni – dei novantacinque pre-sentati dall’ospedale di Santa Maria della Scala – che, raffor-zando l’immagine di un uomo litigioso e prepotente, avevano affermato di fronte al giudice che Rinaldo a più riprese aveva mosso loro lite per questioni fondiarie 143. L’acquisizione dei diritti sul castello fu dunque preceduta o seguita da un accre-scimento di beni fondiari dislocati nell’area in linea con una tendenza ben documentata tra i maggiori proprietari cittadini e domini terrarum: quella di creare, con alterne fortune, all’in-terno delle curie castrensi, vaste concentrazioni di terre spez-zate e compatti nuclei policolturali da gestire con l’adozione di contratti a breve termine (affitti o parziarie) tali da garan-tire uno stretto controllo sulla terra e una alta redditività 144. Alla data del processo, il Piccolomini ha già avuto tempo e modo di organizzare la sua proprietà nella forma del rappor-to mezzadrile – a differenza di quanto avviene nelle contigue terre dell’ospedale che ricorre alla formula della gestione di-retta 145 e a patti di locazione ad quartum e ad quintum 146 – e che l’incerto esercizio di prerogative giurisdizionali (fiscali, militari) connesse teoricamente alla titolarità di un castrum, di cui non vi è traccia, è controbilanciato da un potere visibile sui laboratores delle sue terre 147.Tra i declivi di quelle terre Rinaldo aveva dunque incontra-to, seguendo i suoi interessi fondiari, gli interessi fondiari del potente ospedale cittadino che percorrendo una precisa diret-trice, quella che da Siena si diramava lungo l’asse viario della Francigena ed abbracciava la Valdarbia e le Crete era arrivato poco a poco fino in Valdorcia: nel 1236 l’ospedale si era an-nesso la domo et hospitalis posta all’altezza di Bagno Vignoni e aveva ricevuto alcuni beni a San Quirico, destinato a divenire di lì a poco, insieme alle domus di Corsignano e di Valdorcia, uno dei perni gestionali e organizzativi delle proprietà ospe-daliere nella zona che l’azione combinata degli acquisti e delle nuove accessioni causa donationis contribuivano progressiva-mente ad ampliare e compattare 148.

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In sede processuale si fecero chiare le ragioni del conflit-to. Rinaldo di Turchio dichiarò che egli era proprietario di Montertine e che Montertine e il suo distretto rappresentavano il perno di un’area che si distendeva fino al letto dei fiumi Triesa ed Orcia, era delimitata dal fossato di Sambuco da un lato e dall’altro dalla comunità di Corsignano. L’ospedale, di contro, rivendicava come propria un’estensione che dall’Orcia risaliva verso il poggio di Montertine fino alla sua base, lambiva, verso est, la Triesa, una strada e i beni della curia di Monticchiello, e arrivava infine a toccare, sull’altro versante, le proprietà di cer-to domino çaccone. Le versioni erano inconciliabili: entrambi i contendenti si attribuivano infatti la proprietà di quel meri-dionale triangolo irregolare di terra la cui base si adagiava, più o meno, sul percorso dell’Orcia per svettare, con la cima, verso un immaginario vertice disegnato dai piedi del castrum. Quel triangolo, affermava il Piccolomini, faceva parte del distretto di Montertine; Montertine era stato dell’impero; l’imperato-re l’aveva concesso a Inghilberto Piccolomini e al fratello; lui l’aveva avuto dagli eredi di Inghilberto, adesso i suoi meçaioli ne lavoravano le terre, egli vi esercitava dunque legittimamente il diritto di proprietà. Quel triangolo, ribadiva il procuratore della Scala, era un pezzo delle terre e delle possessioni che l’ente aveva “in contrata Vallis Urcie”; la Scala era entrato legittima-mente in possesso di quelle terre, da oltre trent’anni pascola-va in quelle terre pecore e mandrie, coltivava e raccoglieva in quelle terre cereali e legumi riscuotendo il terratico dai coloni affittuari. E nessuno mai prima di Rinaldo Piccolomini gli ave-va mosso lite sulla loro proprietà 149.L’insultus perpetrato da Rinaldo con l’aiuto dei suoi mezzadri, esasperando e innalzando il livello del conflitto scoppiato tra i due proprietari confinanti che evidentemente non erano stati capaci di risolverlo nell’ambito di una contrattazione privata e bilaterale, affidò all’autorità pubblica la delicata missione della sua risoluzione. Tra l’aprile e il giugno 1278 il giudice ascoltò 119 testimoni; dopo alcuni giorni due bandi emanati

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dal Podestà diffidarono Rinaldo dal fare novitatem ai danni dell’ospedale 150: il diritto di mietere il grano, ormai maturo, riconosciuto a Santa Maria della Scala dai priori dei Trentasei adunati con il Capitano del Popolo, i Consoli di Mercanzia e trenta sapientes 151, faceva temere una recrudescenza delle mal-versarzioni del magnate. Ma non fu così. Ai precetti e alle deci-sioni delle autorità seguirono due anni di silenzio.Il 3 agosto 1280 Rinaldo nella chiesa di San Paolo, assistito dal consorte Enea di Rinaldo faceva atto di donazione all’ospedale di

omnia et singula iura, actiones, petitiones et pignoris obliga-tiones, reales, personales, utiles, directas, tacitas et expressas seu mistas et omnes alias mihi vel alii pro me competentia et competentes et competitura et que competere videntur vel possunt, in omnibus et singulis terris et possessionibus po-sitis in contrata Vallis Urcie, videlicet a flumine Urcie citra, versus podium de Monterterii, usque pedem dicti podii de Monterterii quibus ex alia parte sunt terre que laborantur pro domino çaccone et nepote esiu, et ex alia via et quorun-dam hominum de Montecchiello et flumen Triese 152.

La ricomposizione della lite per il tramite di un atto di donazio-ne che intervenne in luogo di una sentenza giudiziaria a chiude-re la vicenda è la forma in cui prende corpo e si concretizza la congenita flessibilità, l’assoluta plasticità dei sistemi comunali che accanto alla rigida dialettica del reato/pena includono mol-teplici soluzioni di carattere extragiudiziale per la risoluzione delle dispute: strumenti tutti egualmente efficienti, come la più recente storiografia ha dimostrato, per il funzionamento di un sistema giudiziario assai che appare dunque, anche qui, fon-dato più sulla contrattatazione e la pacificazione che non sulla coercizione 153. Non è difficile immaginare dietro la donazione di Rinaldo la faticosa e lunga opera di negoziazione e di media-zione che dovette mettersi in moto all’indomani della denuncia presentata dal procuratore dell’ospedale e che avrà coinvol-

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to alcuni membri del lignaggio, l’autorità pubblica e il Santa Maria della Scala, con l’esito finale di ricucire lo strappo, ma è anche possibile leggere nel contesto di quelle fitte relazioni, aperte e segrete, che intercorsero fra gli uni e gli altri l’incontro e il confronto di interessi e strategie divergenti e convergenti. Un confronto da cui il magnate uscì perdente: dovendo rinun-ciare, anche se nella dignitosa forma della donazione, al bene fondiario.La Valdorcia era in quegli anni una zona calda. Nel 1275 il Comune di Siena, sull’onda di difficoltà finanziarie contingenti, non riuscendo ad estinguere alcuni debiti contratti con la fami-glia dei Salimbeni aveva determinato a favore di alcuni membri di quel casato l’alienazione definitiva dei castelli di Tintinnano, Monte Cuccari e Castiglioncello del Trinoro, primo nucleo di una dominazione territoriale che si qualificherà come la più importante concentrazione neo-signorile in area senese fra Duecento e Trecento 154. Nella scelta del Comune di alienare questi castelli pesarono non solo imperativi di tipo finanziario ma anche considerazioni di natura politica e militare: in primo luogo la volontà di creare un solido baluardo verso la terra al-dobrandesca non ancora pacificata. All’altro potere impegnato in questo stesso torno di tempo nella corsa all’accaparramen-to di beni fondiari nel territorio – l’ospedale di Santa Maria della Scala – e al suo progressivo processo di consolidamento nell’area, le autorità dovevano poi guardare con tutto il favore derivante non solo dal legame privilegiato che vantavano con esso ma anche, proprio in virtù di quello, dalla valutazione del vantaggio per la repubblica di affiancare l’ente al casato dei Salimbeni nel controllo di una delle più importanti aree agri-cole del territorio 155. Non solo: gli anni Settanta segnano nel rapporto tra le istituzioni comunali e l’ospedale un momento di crescita e maggiore formalizzazione di quell’azione di defen-sio di bona, res et iura hospitalis Sancte Marie che l’istituzione interpretava come proprio irrinunciabile dovere e che di fronte al crescere dei magna et gravia dampna subiti dal Santa Maria

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ad opera di magnates et potentes, vedrà il Comune concedere ai giudici cittadini poteri discrezionali sempre più estesi preve-dendo l’elezione di sindaci capaci di difendere viriliter et po-tenter gli interessi dell’ospedale 156. In quell’anno 1277 infine il Comune popolare era particolarmente impegnato a contra-stare la violenza magnatizia: quando alla fine del mese di aprile Rinaldo invase il Pian di Caggio doveva già essere all’opera la commissione di saggi incaricata di redigere la prima lista di ma-gnati messi al bando. Quella primavera si presentava dunque come la stagione meno indicata per sfidare il governo su quel terreno: né da parte sua il governo poteva sottovalutare le ri-percussioni, anche simboliche, legate ad ogni eventuale azione o non-azione governativa in un momento in cui il problema delle violenze magnatizie era portato vistosamente alla ribalta.Il ruolo giocato da alcuni consorti di Rinaldo fu probabilmente la chiave di volta per la risoluzione pacifica di un conflitto che dunque per molti ragioni mostrava, agli occhi del gruppo diri-gente, risvolti delicati: la fisionomia dei contendenti, il momen-to politico in cui scoppiava, il problema del controllo territoria-le – praticato attraverso il sostegno ai progetti espansionistici di elementi fidati, lignaggi od enti che fossero – ad esso sotteso. Una risoluzione pacifica che piaceva alle autorità, che riconob-be all’ospedale ciò che l’ospedale (lecitamente o illecitamente) pretendeva e che contemporaneamente tacitava il bisogno del Comune di Popolo di veder confermato il proprio ruolo: una dozzina di udienze giudiziarie, per contare solo quelle a noi pervenute, non devono essere state di poco conto in termini di dimostrazione di efficienza e come segni di un forte potere ese-cutivo capace di rispondere alla tracotanza di un magnate. Di per sé si trattava già di una vittoria per il sistema. La presenza di Enea di Rinaldo Piccolomini fra i testimoni a quell’atto di donazione che arrivava a corollare sforzi congiunti è significati-va: essa non era semplicemente un fiore profumato scelto a tra-puntare con eleganza la celebrazione della donatio ma suggel-lava il contenuto vero e proprio di quell’atto come esito di una

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composizione mediata e garantita dal segmento familiare più collaborativo con il ceto dirigente che quella donatio e quella composizione, con gli equilibri ad essa sottostanti, si impegna-va, attraverso Enea, fisicamente, pubblicamente, a garantire.Enea di Rinaldo e Bernardino di Alamanno, già uniti nel 1272 per un prestito al Comune in cambio del quale avevano otte-nuto in pegno il castello di Castiglion Senese 157, e il fratello di Bernardino, Cione – entrambi parte in causa nella vicenda giudiziaria in ragione del loro antico diritto feudale sul castrum di Montertine 158 – appaiono anche alla luce della loro storia successiva come i compositori più probabili e credibili (o alme-no come le figure più capaci di incarnare esemplarmente agli occhi dello storico le ragioni della composizione) di una lite che rischiava di inficiare una personale faticosa tradizione di mediazione e di inquinare una linea politica di adesione al pro-getto guelfo e popolare. Promettendo altresì di provocare an-che spiacevoli conseguenze, agli occhi di Bernardino, a livello di rapporti con Santa Maria della Scala.La fisionomia ‘collaborazionista’ di Enea di Rinaldo in que-sti anni lascia poco margine all’incertezza. E se il profilo di Bernardino di Alamanno fino a quell’anno 1280 configurava un attivo banchiere, legato al Comune da rapporti di credito 159 e connotato dal ruolo di intermediazione rivestito negli accordi stretti, all’indomani del ritorno in patria dei guelfi fuorusciti, tra i magnati – che lo avevano scelto a loro rappresentante – e l’istituzione comunale di cui questi erano creditori 160, la curva-tura successiva della sua vita ci mostra un uomo che abbando-nate le spoglie del finanziere e fattosi proprietario fondiario 161 si è unito all’ospedale per il tramite di una speciale relazione in cui calcolo e devozione si mescolano: è il novembre 1290 quando Bernardino dona alcuni beni fondiari al Santa Maria della Scala 162; luglio 1291 quando si fa oblato dell’ente 163; ot-tobre 1297 quando, dopo una alacre attività svolta per conto dell’ospedale a fianco del suo rettore non disgiunta però dalla gestione dei propri interessi – fronte su cui l’oblato non arretra

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ma che anzi conosce una stagione fortunata proprio grazie a quella particolare condizione che gli assicura, con il godimento dei diritti di usufrutto, una rendita fondiaria immune da grava-mi fiscali e la certezza di una efficace gestione delle sue terre e forse anche di una loro rivalutazione sul mercato 164 – dà il via a una serie di cessioni patrimoniali e pii legati a favore dei po-veri dell’ospedale e delle chiese e conventi cittadini, annullando ogni riserva di usufrutto garantitasi precedentemente sui beni ceduti 165. Epilogo che mostra come nessun patteggiamento con la propria morale fosse, a quel punto, per il vecchio Bernardino, più proponibile.La storia del fratello Cione – che è accanto a Bernardino nell’ul-tima e pietosa scelta del pentimento 166 – osservata attraverso il prisma della vita pubblica e politica addita la vocazione ‘bu-rocratica’ interpretata in senso professionalizzante da questo figlio di Alamanno. Rivelando il ritratto di un miles cittadino capace di destreggiarsi con le armi, le parole, il denaro. Con il denaro: nominato in seno alla corporazione dei mercatores console dell’arte nel 1282, 1284 e poi nel 1292, ricopre la cari-ca di provveditore di Biccherna nel 1288, è ufficiale di Gabella nel 1293 e nel 1296 167. Con le armi: riceve nel 1291 il coman-do delle milizie inviate dalla repubblica contro Montepulciano, nel 1298 è incaricato dal Comune di sedare le discordie fra gli abitanti dei castelli di Campagnatico e Cinigiano per la questione dei confini, dal 1303 al 1329 svolge sette manda-ti come Podestà e Capitano del Popolo in alcuni centri dello stato: Volterra, Massa Marittima, Grosseto, Lucignano Val di Chiana 168. Con le parole: nel 1305 è parte di un’ambasceria a re Carlo di Napoli per chiedere all’angioino di inviare il fi-glio Roberto come capitano della lega guelfa toscana, di nuovo è ambasciatore un anno più tardi, questa volta a Firenze, per aiutare a sedare certi disordini provocati dai ghibellini, e tutto entro la cornice di una presenza abbastanza continuativa negli scranni del Consiglio Generale a partire dal 1290 169. Il risulta-to della sua attività che appare affiancata qua e là da un certo

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fervore mercantile e creditizio 170 è di tutto rispetto: la fonte fiscale del 1318 ce lo mostra con una dotazione patrimoniale stimata oltre 10.000 lire in cui spicca un complesso immobi-liare – sede della sua residenza – costituito da un imponente palatium con fondaci e piazze prospiciente la piazza del Campo che costituendo più della metà del valore dei suoi beni marca, per così dire, ‘l’urbanità’ di Cione, svela il suo forte legame con l’ambiente cittadino 171. Cione è uomo di amministrazione, di governo e di guerra: la città, e il suo gruppo dirigente, valoriz-zano le sue vocazioni, gli garantiscono una ‘professione’ e la professione una forma precisa di identità sociale.Due momenti della parzialissima biografia attraggono l’atten-zione: nel maggio 1280, pochi mesi prima della donazione di Rinaldo a favore dell’ospedale, Cione rilasciava quietanza al camerario del Comune per essere stato interamente risarcito, con l’ultimo esborso di 935 lire, dei numerosi crediti che egli vantava verso gli aderenti alla pars guelforum – quando erano “extra civitatem Senarum” – a causa di prestiti e operazioni di cambio di moneta: debiti che in seguito ai patti stipulati per il rientro in patria dei fuorusciti, il Comune si era accollato 172. Cione si trovava dunque in una (scomoda) posizione creditoria verso il Comune, che poteva fare del debito un’arma di pres-sione nei suoi confronti, quando Rinaldo di Turchio decise di sferrare il suo attacco: la risoluzione del debito, a poche setti-mane dal felice epilogo adombra forse una relazione fra i due fatti non del tutto casuale. D’altra parte non meno decisivo nell’indirizzare verso la scelta della donatio e una pacifica riso-luzione del conflitto, dovette essere la sua appartenenza al ceto dirigente cittadino, quella sua inclinazione – che si sarebbe sve-lata negli anni a seguire – di uomo votato al magistero politico, sensibile al problema della governabilità 173, che nell’habitus podestarile, non meno che nel capitanato, tante volte rivestito, esprimeva tutta la dignità e il prestigio collegato ai poteri at-tribuitigli dagli statuti comunali, rafforzato dal titolo di miles di cui si fregiava e dalla cultura e dalla preparazione di tipo

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giuridico e militare che doveva costituire il retroterra della sua professionalità. E il nerbo della sua personalità.La corda violenta di Rinaldo di Turchio doveva insomma in quell’anno 1277 suonare sgradita non solo a chi, come Enea di Rinaldo, aveva ritenuto di apportare il proprio contributo alla delicata fase di stabilizzazione istituzionale e politica in corso, divenendone uno dei protagonisti, ma anche a chi nella boa di quella collaborazione con il governo popolare avrebbe trova-to gli strumenti per la propria qualificazione personale: come Cione di Alamanno. Un impegno, quello di Cione, che deve essere inserito nel quadro di una sostanziale adesione familiare agli svolgimenti politici cittadini durante il governo novesco: una adesione dal significato bifronte, rappresentando sia lo strumento funzionale alle esigenze di uno stato che nei settori della diplomazia, dell’amministrazione finanziaria e della mili-zia necessitava della collaborazione magnatizia, sia un volano per la crescita e l’affermazione dei singoli 174. A provocare la rotta di collisione fra le due diverse istanze maturate dentro la famiglia agirono dunque io credo l’onda superficiale di motivi contingenti e l’onda lunga di caratteri strutturali che forgia-vano l’identità di un lignaggio che andava connotandosi per la sua ‘vicinanza’ al vertice politico, la sua capacità di integra-zione nel ‘sistema’ di governo, la sua autorevolezza retorica 175 e – non meno importante nella trama dei molti fili che con-corrono a tessere l’epilogo del conflitto – la sua duratura liai-son con la grande comunità religiosa e assistenziale cittadina: quell’ospedale di Santa Maria della Scala che proprio a partire dall’esperienza maturata nel suo seno da Bernardino, il più ce-lebre oblato del casato, si sarebbe posto come solido referente economico-spirituale per molti uomini e donne di famiglia 176.Fu la forza di queste ragioni – solo apparentemente anacro-nistiche rispetto al sottostante piano temporale in cui si svol-ge la disputa – a travolgere Rinaldo. Il quale nell’ottobre del 1280, a pochi mesi dalla donazione fondiaria, era con Enea, Bernardino e gli altri membri del casato a ratificare gli atti di

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pacificazione generale fra guelfi e ghibellini imposta dal pode-stà Giacomo da Bagnorea 177. Poi negli anni successivi qualche atto di procura 178 e l’acquisto di una cava di pietre 179 sono le ultime, innocue, azioni di un magnate.

1 Il corpus documentario, appartenente al fondo Diplomatico Santa Maria, inerente la vicenda giudiziaria è edito in Mucciarelli, La terra contesa, 2001, pp. 83-222 cui rinvio: la citazione nel testo tratta da ibidem, p. 101 (1277 dicembre 28: che contiene l’atto di accusa e le deposizioni testimo-niali - deposizione di Maffeus Guidi).

2 Ibidem, pp. 99-100 (1277 dicembre 28, denunzia da parte dell’ospedale).3 Ibidem, p. 105 (1277 dicembre 28, deposizione di Johanninus Baronis de

Sancto Quirico).4 Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda nel conflitto tra magnati e

popolani, 1994, pp. 468-489, soprattutto alle pp. 473-475 e 482-483 per le caratteristiche stigmatizzate.

5 Mucciarelli, La terra, p. 104 (1277 dicembre 28, deposizione di Accorsinus filius quondam Venture, conversus hospitalis); p. 108 (1277 dicembre 28, deposizione di Ghecçus Pieri de Barcha che parla di altri non identificati oltre ai tre).

6 Ibidem, p. 108 si parla per esempio di “lancea et verrutis et tavolaccio et cervellera et cultello” (1277 dicembre 28, deposizione di Gecçus Pieri de Barcha).

7 Ibidem, p. 102 (deposizione di Ranerius Bretrami) “venerunt… et dederunt dicto Renaldo in predictis auxilium et favorem iuvando eum”; p. 104 (de-posizione di Iohannes Pietri) “vidit meçaioles dicti Renaldi intrare armati cum dicto Renaldo dictam terra, et stare cum eo quando dictam prohibitio-nem fecit laboratoribus dicti hospitalis”.

8 Ibidem, p. 101 (deposizione di Maffeus Guidi).9 Ibidem, p. 100 (atto di accusa); vedi anche p. 102 (deposizione di Ranerius

Bretrami) “Quidem qui erat cum dicto Renaldo nomine Buccius de Corsignano meçaiolus dicti Renaldi armatus lancea, spontone et cultello intravit dictam terram contra prohibitionem eidem et dicto Renaldo factam ne intrarent per Guidonem factorem et conversum … et ivit dictus Buccius versus Accorsinum conversum … sed non vidit quod miserat manum ad cultellum vel dederit eidem de pungnis vel quod voluerit eum ferire”; o an-cora “venit armatus spontone ad latus contra dictum Accorsinum”, p. 106 (deposizione di Assaltus Bonamichi).

10 Compagni, Cronica delle cose occorrenti a’ tempi suoi, a cura di I. Del Lungo, IX/2, 1907-1916.

11 Wickham, Dispute ecclesiastiche e comunità laiche, 1998, p. 72.12 Mucciarelli, La terra, p. 104 (1277 dicembre 28, deposizione di Accorsinus

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filius quondam Venture): “interrogatus quomodo scit quod exterminaverit seu exterminari fecerit dictus Renaldus dictam terram, quia vidit elleva-ri lapides ab dicto Renaldo … qui lapides erant pro terminis dicte terre. Interrogatus quomodo scit quod dicti lapides essent pro terminis, dicit quia iuvit mittere dictos lapides pro terminis dicte terre Vivianum hospitalarium sive fratrem dicti hospitalis … de duobus annis”.

13 Mucciarelli, La terra, p. 112 (1277 dicembre 30).14 L’occupazione delle terre condotta nel mese di aprile inscrive l’insultus di

Rinaldo nella prassi dei reati agrari studiati da Massimo Vallerani. L’analisi del caso perugino mostra un aumento del numero delle cause giudiziarie intentate per esproprio e sconfinamento proprio durante i mesi di aprile-maggio, periodo che coincide con il momento di sistemazione e ridefinizione dei terreni, e diventa più facile confondere le linee di confine: Vallerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, 1991, pp. 73-81.

15 È il concetto di dominio utile: Grossi, Il dominio e le cose. Percezioni me-dievali e moderne dei diritti reali, 1992, pp. 201 sgg. Per la percezione della titolarità del possesso da parte dei comitatini come potere di disposizione e come potere di godimento (uti et frui), rinvio alle considerazioni e alle citazioni documentarie in Mucciarelli, La terra, p. 39.

16 Ho affrontato il problema del filtro in Mucciarelli, La terra (La fonte come problema), pp. 15-21.

17 Ibidem, p. 100 (1277 dicembre 2).18 Per un inquadramento giuridico del problema vedi Migliorino, Fama e in-

famia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico dei secoli XII-XIII, 1985; per la pubblica fama come strumento probatorio, Wickham, Dispute ecclesiastiche, pp. 70-72.

19 Mucciarelli, La terra, p. 105 (1277 dicembre 28, deposizione di Accorsinus filius quondam Venture).

20 Ibidem, p. 96 (1277 dicembre 2, deposizione di Arnolfus Stolido).21 Ibidem, p. 133 (1278 giugno 16, deposizione di Renaldus Vitelli).22 Ibidem, p. 92 (1277 dicembre 2, deposizione di Orlandus Benvenuti).23 Ibidem, p. 92 (1277 dicembre 2, deposizione di Fineguerre Ranerii Rossi).24 Ibidem, p. 91 (1277 dicembre 2, deposizione di Orlandinus Marchi).25 Ibidem, p. 107 (1277 dicembre 28, deposizione di Assaltus Bonamichi).26 Ibidem, p. 90 (1277 dicembre 2, deposizione di Bacone filius Iohannis

Altanieve).27 Ibidem, p. 93 (1277 dicembre 2, deposizione di Griffolus Accherisii).28 Mucciarelli, La terra, p. 100 (1278 giugno 16, deposizione di Iohanninus

Ranuccii: “a centum hominibus supra faciunt famam”); p. 138 (1278 giu-gno 16, deposizione di Rossus Albonecti: “sicut plures sunt melius faciunt famam”); p. 139 (1278 giugno 16, deposizione di Bectus Bonifatii: “quan-do homo incipit dicere aliquid et postea illud dicitur ab uno et ab alio”); p. 141 (1278 giugno 16, deposizione di Fede notarius quondam Ranerii: “quod per famam potest dici in magna quantitate et in parva”).

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29 Mucciarelli, La terra, pp. 99-110 (1277 dicembre 28).30 “Le tradizioni orali sono costituite da tutte le testimonianze verbali e riferite

concernenti il passato”. L’autore tuttavia chiarisce come la definizione sia applicabile solo a “quelle trasmesse di bocca in bocca, tramite il linguaggio. [Infatti] le testimonianze oculari anche se date oralmente non fanno parte dell’ambito della tradizione, perché non sono riferite. La tradizione orale comprende soltanto le testimonianze uditive ossia le testimonianze che co-municano fatti non constatati e registrati dal testimone stesso ma che egli ha appreso da altri”. Più oltre si passa a definire la vox come testimonianza di attualità: Vansina, La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, 1976, pp. 61-62.

31 Mucciarelli, La terra, p. 139 (1278 giugno 16, deposizione di Bectus Bonifatii).

32 Vedi per es. la deposizione di Ranieri di Bertramo, presente insieme a mol-ti altri uomini di San Quirico, Vignone e Rocca alla prima aggressione di Rinaldo, ma assente alla seconda aggressione della quale può riferire solo in virtù di ciò che udivit dici… quod de predictis est publica fama. Ibidem, pp. 102-103 (1277 dicembre 28).

33 Ibidem, p. 110 (1277 dicembre 28, deposizione di Maffeus Michi).34 Ortalli, “… Pingatur in palatio”. La pittura infamante nei secoli XIII-

XVI, 1979, pp. 32-34 (da cui traggo la citazione). Gli effetti lesivi e meno-manti della dichiarazione di infamia risultano esplicitati con grande effica-cia nelle clausole della pace stipulata fra Tolomei e Salimbeni nel 1337. Esse prevedevano che chi rompesse la pace fosse dichiarato ‘infame’, escluso da ogni ufficio ecclesiastico e secolare, inabile ad eleggere, privato della facoltà di testare, tramandare i suoi beni, fare affari di qualsiasi sorta, dichiarati nulli i suoi crediti, escluso dagli ordini cavallereschi, privato della sepol-tura ecclesiastica, confiscati i suoi beni: “in primis quidem quod perpetuo sint infames […] et quod sicut infames ad publica offitia, consilia, honores vel dignitates nec ad eligendum aliquem vel aliquos ad predicta vel eorum aliquod seu ad testimonium vel actum quemcumque legyptimum nullate-nus admictantur nec admitti possint aliqua ratione; sint etiam intestabiles ut nec testandi liberam habeant facultatem […], nullus eis debita reddere nec ipsis super quocumque negotio set ipsi aliis respondere cogantur eorum debitores ab omni obnoxietatis sint penitus absoluti […]; sint etiam ipsi et eorum quilibet patronatibus, dignitatibus, personatibus, officiis et bene-fitiis aliis ecclesiasticis, dominiis, iurisdictionibus, privilegiis, indulgentiis, immunitatibus et feudis privati […]”. Inoltre “si eis et eorum cuilibet ad ordines ecclesiasticos ascensus inhibitus, sit illis ad offitium et benefitium ecclesiasticum denegatus accessus, sit eis denegata ecclesiastica sepultura […]; fiant habitationes eorum deserte et ut non sit qui eas inhabitet, dentur cuncta eorum edificia in ruinam que ex nunc dividi et destrui funditus man-damus […]; eorum que in bonis inveniuntur ipsorum seu alicuius eorum, medietas comunis Senarum et alia medietas partis lese et parentis dominio applicentur […] applicamus et confiscamus; nichil transmictant ad posteros

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set cum eis quodammodo damnentur et sua. Nullus iudex vel advocatus eis patrocinium prebeat, nullus notarius pro eis publica conficiat instrumenta. […] Si quo tempore ipsi vel eorum aliquis in fortiam romane ecclesie […] pervenerint, recluti et carcerari debeat in quodam atro et forti carcere in quo nutriendus donec vixerit pane et aqua […]”. Il vescovo estensore del lodo ordinò poi a tutti gli ufficiali delle varie città di non dare ricetto ai rei sotto pena di scomunica per loro e di interdetto per la città. Il testo edito in Cecchini, La pacificazione fra Tolomei e Salimbeni, 1942, pp. 67-69.

35 Così l’esordio, “volentes et intendentes quod lupi rapaces et agni mansueti am-bulent pari gradu …” della rubrica sulla sicurtà imposta alle quaranta famiglie magnatizie bolognesi individuate nel 1282. La fonte più vicina alla lettera della legge è Isaia: lupus et agnus pascentur simul. Per una dettagliata analisi del significato etico e religioso della metafora evangelica del lupo e dell’agnello così come del suo trascolorare polisemico in relazione al contesto politico e sociale del tempo si veda Giansante, Retorica e politica nel Duecento, 1998, pp. 112-117. Sull’uso retorico dell’immagine del lupo contrapposto all’agnello vedi anche Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda, 1994, pp. 473-475.

36 Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia nei comuni dell’alta e media Italia, “Rivista di storia del diritto italiano”, 12 (1939), pp. 86-133 e 240-309. Sulla fisionomia dei magnati nei comuni cittadini duecenteschi si veda adesso Castelnuovo, L’identità politica delle nobiltà cittadine (inizio XIII-inizio XVI), 2004, pp. 197-243: 209 sgg.

37 Diplomatico Santa Petronilla, 1236 ottobre 28: rifiutavano di corrisponde-re alle monache “quandam pecunie summam et res alias eis datas a Christi fidelibus intervivos et alias in ultima voluntate relictas”. Sulla nascita della comunità di clausura di Santa Petronilla, sui rapporti delle sorores con l’am-biente dei piccoli e medii mercatores cittadini, anche attraverso lo stabile collegamento con i consules mercatorum, che per loro agiscono e gestiscono beni e denari, si veda ora Pellegrini, Chiesa e città, 2004, pp. 159-166 e per la vicenda in questione pp. 169-174.

38 La discussione sull’atteggiamento da tenersi nei confronti degli usurpatori si svolse nella seduta del Consiglio Generale dell’8 ottobre e diversi magnati presero la parola: toccò a Nuccio Bello Saracini convincere l’assemblea che il consiglio doveva votare immediatamente con procedura segreta sull’op-portunità o meno di riconsegnare al legittimo proprietario i beni usurpati, senza indugiare in altre questioni. Consiglio Generale 50, cc. 50r-66v (28 settembre 1296); cc. 68r-69v (8 ottobre 1296).

39 Le competenti autorità ecclesiastiche più volte esse minacciarono coloni, lavoratori, vassalli e parrocchiani della Pieve a conferire frutti e i redditi a domino Guidone, più volte ammonirono il Piccolomini dal perseverare “ab omni inquietationi, molestatione, turbatione seu impedimento dicto domino Guidoni illatis seu illandis super eodem plebanatu”, comminando-gli una multa a risarcimento dei proventi ecclesiastici acquisiti illecitamente: Diplomatico Archivio Generale, 1311… (pergamena assai lacunosa, anche la datazione rimane generica).

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40 Diplomatico Bigazzi, 1348 marzo 2.41 Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini, 2004, citazione a p. 389.42 L’inizio della faida viene fatto risalire dai cronisti cittadini all’anno 1309,

quando in occasione di festeggiamenti e giochi, non si sa per quale motivo, le cronache raccontano che si accese una rissa fra le due famiglie. La pace fu faticosamente raggiunta nel 1337: per un resoconto della vicenda Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 191-197 e Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 257-275.

43 “E ne tempo di miser Nicolino de’ Contessi di Cremona e’ signori Nove veduto che molti ribelli e sbanditi della città e distretto di Siena non poteva-no per nisuno modo ritornare in Siena, e ogni dì si sentiva qualche male, e questo interveniva per le parti de’ nobili di Siena e molte volte e’ Salimbeni e’ Malavolti, e’ Piccolomini e’ Squarcialupi avevano auto di soze parole e anco ale volte erano venuti a’ fatti perché infra loro non avevano achordo di ribandire alchuno esbandito, e stava la città per questo in male stato. E i signori Nove mandoro per tutte le parti e ordinoro di metter pace e unione in tutta la città, e anco ordinoro che tutti gli sbanditi e’ quai avesero la pace da quello el quale era stato offeso fusse ribandito e potesse ritornare nella città e distretto di Siena […], e molti se ne ribandirono […] E di questo per alora ogni uomo ne rimase contento”: Cronaca senese di autore anonimo, p. 82; vedi anche Cronaca senese di Agnolo, p. 266.

44 “Talomei la loro casata e la casata de’ Piccolomini, tutte e due grandi ca-sate de’ nobili di Siena, aveano gran briga e gran nimicitia fra loro e per le loro quistioni; el comuno di Siena condannò molti omini di casa Talomei e anco dela casata de’ Piccolomini per lo capitano dela guerra del comu-no di Siena, e tolse l’arme a ognuno di loro, che non la potessero porta-re”: Cronaca senese di Agnolo, p. 526; secondo il resoconto settecentesco del Bisdomini l’arme sarebbe stata tolta soltanto ai Tolomei: Croniche di Giovanni Bisdomini, 1718 [ms.], c. 116v.

45 Il primo episodio che documenta uno scontro tra le parti data 17 marzo 1333 quando “Naddo di Benuccio Piccolomini fu ferito da Meo di Nicola e da Ranieri di Guccio de’ Malavolti e da Neri d’Agnolo di Neri Ridolfini”; Agnolo di Tura spiega che “fecello ferire e’ Malavolti per denaro dovevano dare al detto Nado e fratelli” e specificamente “fu ferito a petitione di misser Donusdeo de’ Malavolti vescovo di Siena”. Circa un anno dopo, il 17 feb-braio 1334, i Piccolomini operarono la vendetta: “Giovacchino, Amerigo, Turino e Riccio, tutti e quatro dela casata de’ Piccolomini de’ nobili di Siena, entraro nel castellare de’ Malavolti e uccisero Rigolo di misser Cione de Malavolti […] il quale giocava a scachi. Credettervi trovare misser Guasta, e questo féro per vendetta quando fu ferito Naddo”; in conseguenza dell’omi-cidio il Comune “de’ bando a’ sopradetti e fe’ guastare le case del detto Riccio e de’ figlioli di Neroccio Piccolomini”. Le ritorsioni proseguirono e nel gennaio 1343 Deo di Pierozzo e Amerigo di Rigo Malavolti uccise-ro Niccolò di Salomone Piccolomini in Valdorcia, “per vendetta”; soltanto quattro anni dopo si arrivò alla pace per mediazione del vescovo di Firenze. Cronaca senese di Agnolo, pp. 498, 512, 530.

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46 Consiglio Generale 43, cc. 70v-71r (29 maggio 1292). Forse collegato alle di-visioni interne del casato denunciate dal Podestà fu l’omicidio di Provenzano Piccolomini ad opera del consorte Gabriello di Ranieri che nel 1293 fu con-dannato dal Comune alla confisca dei crediti che vantava verso il Comune di Castelnuovo Berzi: Diplomatico Riformagioni, 1293 settembre 20.

47 Croniche di Giovanni Bisdomini, 1718 [ms.], c. 114v. Il resoconto del Bisdomini ricalca quello trecentesco del cronista senese Agnolo di Tura del Grasso: “Jacomo di misser Carlo de’ Piccolomini da Siena fu trovato morto in una fossa, il quale fu recato sul canpo di Siena dala fameglia del podestà il quale puzava; fu tratto di detta fossa cor uno paio di funi. Il quale Jacomo fu morto da Giovanni Cinelli de’ Piccolomini il quale fu preso e a dì 5 di magio li fu tagliata la testa”. Cronaca senese di Agnolo, p. 521.

48 Della grande quantità e varietà delle persone collegate da rapporti di ami-cizia e fedeltà ai due lignaggi abbiamo numerose testimonianze. Il 17 aprile 1315 Salimbeni e Tolomei misero “a romore” la città, i Nove riuscirono a sedare i disordini ma due giorni dopo “ancora in sospetto per la divisione e nimicizia avevano auta e’ Talomei e Salinbeni” fecero un provvedimento teso ad impedire “che nisuno delle masse e del contado non lo’ potesse dare onbra d’amicizia alchuno aiuto” ordinando “che nisuno delle masse e chon-tado e distretto di Siena non fusse tanto ardito di venire a Siena […] sotto la pena del piè”: i governanti erano ben consapevoli che le vaste proprietà di terre e castelli delle due famiglie costituivano un serbatoio di uomini pronti ad essere utilizzati nelle fasi di scontro. Ma collegamenti e relazioni di amicizia si estendevano ben oltre i confini dello stato: in occasione dello scontro del 1315 circolò la voce in città che il vescovo di Arezzo Tarlati fos-se in procinto di entrare a Siena con molta gente armata per portare aiuto a i Tolomei: subito i terzi furono armati, la popolazione mobilitata, e così “detto vescovo udendo sonare ad arme si tornò a casa”; il 20 maggio 1321 i Salimbeni accingendosi a un colpo di mano, “mandoro a Firenze a cierti loro amici che lo’ mandaseno alchuna quantità di fanti e intraseno in Siena a due o tre […]. E chome ebeno ordinato, chosì venero […]”; e poi di nuovo nell’aprile 1322 per dare assalto al palazzo Tolomei “Agnolino Bottone di misser Salimbene ordinò d’avere alquanti fanti da Firenze, li quali venero segretamente […] i quali fanti si disse gli aveva mandato el Baschiera citta-dino di Firenze, come amico de’ Salimbeni”. Del resto testimonianza espli-cita delle trame di rapporti di fedeltà che i due casati vantavano è l’elenco dei rispettivi sequaces chiamati a ratificare la tregua del 1337: oltre 80 tra cittadini e comitatini, per i Salimbeni, oltre 80 per i Tolomei. Cfr. Cronaca senese di autore anonimo, pp. 105-106, 122-123; Cronaca senese di Agnolo di Tura, pp. 349-350, 391. Gli atti di pacificazione del 1337 in Diplomatico Tolomei, 1337 ottobre 4 - novembre 5, editi da Cecchini, La pacificazione: l’elenco dei seguaci delle due consorterie alle pp. 84-87.

49 La vicenda si conclude con l’assoluzione di Robba Renaldini: giunta la no-tizia al Podestà ai Ventiquattro “come era stato morto Barocco e quale era la chagione e chi l’aveva morto, di subito fu mandato a miser Robba che

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non dubitasse di niente […] inperoché di questa morte Baroco se n’era stata chagione”: Cronaca senese di autore anonimo, p. 63. Esemplari a illustrare l’attitudine alla violenza e alla ritorsione dei magnati sono molti episodi descritti nelle cronache. Andrea Dei raccontava per esempio una vicenda che vide protagonista un membro dei Tolomei: “Franceschino di misser Jacomo di misser Meo Tavena de’ Tolomei avendo quistione co’ figlioli di Marcovaldo del Furia da Montalto di Berardenga per certa fanciulla che doveva essere moglie del figliuolo di Franceschino, e avendo molto tempo piatito inseime, e all’ultimo el detto Franceschino de’ Talommei indusse cer-ti testimoni falsi contro di loro [ma questi] furo riprovati di falsità dinnanzi al giudice del malefizio e furono condennati […] di falsità e dovevasi lo’ tagliare la lingua, e’l labro, e molto era solecitato il giudice che lo’ facesse tagliare la lingua da’ figliuoli di Marcovaldo, e dall’altro Franceschino face-va quanto poteva del no […]. E avenne che dapoi del mese di luglio el detto Franceschino co’ suoi fanti, essendo la signoria di chi l’aveva condennato, cioè misser Paolo da Parma podestà […], Franceschino e i suoi fanti l’assalì e percosselo di più ferite e massime d’una sul capo che si disse era mortale”. Vedi Cronaca senese di Andrea Dei, pp. 111-112. Altri esempi in Cronaca senese di Agnolo di Tura, pp. 545-546.

50 Giansante, Retorica e politica, p. 2.51 Ibidem, p. 113: ad esempio Pistoia e Prato. Sull’estensione dell’uso ad altri

contesti vedi anche Raveggi, Appunti sulla propaganda, pp. 473-474.52 La spiegazione delle misure antimagnatizie è a questo riguardo illuminan-

te: i compilatori delle leggi di Cremona legittimavano la legislazione affer-mando che “illi de populo et de paraticis a magnis et potentibus continue contumeliis et violentiis affligantur”, gli aretini dicevano nel 1345 che le misure erano prese “ut superbiam primatum reprimatur”; quelli fiorentini vent’anni dopo, “ut infrenata precipue magnatum et potentum audax pre-sumptio refrenetur”; quelli perugini “a contrastare a l’oppressione le quale se facciono per glie grandi”. L’immagine del magnate come lupo rapace nacque in ambito bolognese, essendo stata codificata la prima volta dagli Ordinamenti Sacrati del 1282 (a cui si riferisce la citazione nel testo) ma da qui si diffuse a Modena e anche a Firenze dove troviamo la metafora appli-cata ad alcuni componenti la famiglia dei Pazzi (“quisti lupi rapaci Grandi […] rodano l’ossa de li orfani e de le vidue e delle maritate popolane”). Sergio Raveggi ha ben chiarito come in opposizione all’immagine diabolica e sanguinaria del magnate-lupo i popolari vollero farsi ritrarre – in maniera diametralmente opposta– nelle vesti di agnelli pacifici e mansueti, costruen-do un linguaggio propagandistico che faceva dei rappresentanti popolari i protettori della città, i custodi della pace e della giustizia, i tutori della citta-dinanza contro violenze e sopraffazioni magnatizie (Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda, pp. 470-489, da cui sono tratte molte delle citazioni sopra riportate, in particolare alle pp. 471-473). Se governanti popolari e cronisti stigmatizzavano la superbia e la potenza smodata di questi maggio-renti sottolineando le vessazioni continue a cui sottoponevano il popolo (un

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cronista bolognese parlava delle “mala opera magnatum que faciebantquo-tidie contra populares, acipiendo sibi mulieres et multa alia mala fatiendo, que videbantur intollerabilia”), e Dino Compagni per Firenze descriveva come “i nobili e grandi cittadini insuperbiti faceano molte ingiurie a’ popo-lani con batterli e altre villanie” (citazioni tratte da Fasoli, Ricerche sulla legislazione, pp. 264-265), si deve notare che anche uno dei più famosi giu-risti del tempo, Bartolo da Sassoferrato, attento osservatore delle vicende politiche di Siena, Firenze e Roma, spiegando le ragioni che stavano alla base delle norme antimagnatizie, giungeva ad una interpretazione negati-va della nobiltà: “A quibusdam removentur nobiles. Et posito quod istud removeri sit malum, tamen causatur ad bonum, quia populus videns eum multum acceptum, dubitat ne, si praeponeretur aliis, opprimetur populus, et ideo nobilis ab offiicio removeretur secundum instantiam”. Dunque i nobili vengono rimossi dagli uffici in vista di un fine giusto perché il popolo vedendo uno molto ben accetto dubita che costui se fosse preposto agli altri opprimerebbe il popolo; così il nobile è rimosso dalla carica conformemente alla richiesta del popolo. “Ex praedictis apparet quod nobilitas habet in se aliqua gravamina annexa, quae per se sunt mala”, concludeva Bartolo. Il testo del De regimine Civitatum in Donati, L’idea di nobiltà in Italia, 1995, p. 5. Sul trattato del giurista perugino si veda anche Quaglioni, Per una edizione critica e un commento moderno del “Tractatus de regimine civitatum” di Bartolo da Sassoferrato, 1976, pp. 70-93.

53 Alla strategia popolare di “detronizzazione” i magnati reagivano piutto-sto sul piano dei comportamenti, perché “sul piano della polemica scritta [se] anch’essi potevano contare su qualche autorevole fautore dal giurista Odofredo che definisce asini i compilatori degli statuti popolani, a Salimbene che giudica una delle massime calamità essere governati da persone di bas-sa estrazione sociale … da Paolino di Piero … al cronista riminese Marco Battagli … a Pietro Faitinelli … all’anonimo perugino che … giudica re-sponsabili della decadenza del proprio comune gli esponenti del popolo al potere, rapaci e irriconoscenti …sono comunque voci che almeno alle soglie del Trecento, nell’epoca in cui le norme antimagnatizie raggiungono la mag-giore diffusione, paiono quantitativamente minoritarie”: Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda, pp. 481-482.

54 Nell’analisi dedicata alla storiografia medievale condotta sotto questa ottica e a partire dalla Francia del XIII secolo, Gabrielle Spiegel individua alcuni elementi essenziali della scrittura della storia: “lo statuto documentario pri-vilegiato della testimonianza oculare, la virtuale assenza di preoccupazioni epistemologiche (giacché più che come è importante cosa si vede e si co-nosce), la costruzione apparentemente dispersiva, paratattica del racconto quando il cronista rivolge il suo sguardo al paesaggio storico, la mancanza di una esplicita analisi delle cause in quanto i modi di rappresentazione han-no la precedenza sui modi di spiegazione”: Spiegel, Il passato come testo. Teoria e pratica della storiografia medievale, 1998, pp. 89-97, citazione a p. 91 (nel testo cit. a p. 90).

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55 Cronaca senese di autore anonimo, p. 125.56 Cronaca senese di Agnolo di Tura, p. 521.57 Segni del rango magnatizio si offrivano quotidianamente allo sguardo della

gente gli stemmi gentilizi: sulla facciata delle chiese su cui questi maggioren-ti esercitavano diritti di patronato, sulla facciata dei palazzi urbani e dei po-deri del contado a marcare il possesso fondiario: nel 1324 Neri di Gabriello Piccolomini concedendo in affitto perpetuo, da rinnovare ogni 29 anni, una possessione vignata e lavorativa dotata di abitazione posta nel popolo di San Mamiliano alle porte della città, si riservava il diritto di apporre sulla casa “[sua] scuda ad illa arma que [sibi] et successoribus [suis] placuerit ad dictam domum ubicumque voluerit” (Diplomatico Archivio Generale, 1324 ottobre 13). Orme onnipresenti e tangibili di una pervasività fisica che diventava palmare nel controllo esercitato da questi gruppi parentali sullo spazio urbano: non doveva essere privo di conseguenze, anche semplice-mente sul piano dell’impressione provocata, che certi nuclei topografici ur-bani prendessero la loro specificazione toponomastica dal nome del casato che in quella zona aveva la propria residenza e che intorno a quegli edifici e a quelle piazze, sotto i cavalcavia che univano in un solo blocco torri e abitazioni consortili, sopra le barricate di legno, all’interno di quei circuiti urbani dove spesso i magnati venivano “inserrati”, si scatenassero guerre e zuffe con il casato rivale. Allora i palazzi e le torri diventavano sentinelle poste a guardia di una contrada che era pericoloso o impossibile percorrere a chi non fosse gradito al clan: certi cittadini abitanti fuori dal terzo di Camollia “i quali ànno per andare per Camollia non possono et non vollio-no passare denanzi alla casa d’alcuni grandi” recita una rubrica dello statu-to del 1309-1310 suggerendo l’impressione come i ‘grandi’ esercitassero un controllo serrato su strade che qui perdono ogni attributo di luogo pubblico per diventare spazio privato, di esercizio della forza consortile. Tale aspetto mi sembra esaltato da alcune disposizioni trecentesche che mentre rinchiu-devano alcune famiglie magnatizie all’interno di un territorio delimitato vietando ai loro appartenenti di varcarne i confini (così è per Forteguerri, Rossi e Incontri) nel tentativo suppongo di limitare l’azione, l’influenza e il propagarsi di disordini e zuffe magnatizie che avevano il loro centro intorno ai palazzi consortili e alle strade adiacenti, dall’altro lato sanzionavano il costituirsi dentro la città di spazi di potere privato. Ricordo che nel 1314 i Nove decisero di “inserrare” Tolomei e Salimbeni, due casati tra i più guer-riglieri, all’interno delle loro contrade (Biccherna 129, cc. 96r e 106r). Sul nesso tra spazio urbano e ceti dirigenti rinvio al saggio di Piccinni, Modelli di organizzazione dello spazio urbano, 1983, pp. 221-236, da cui ho tratto la citazione statutaria del 1309-1310 (p. 235).

58 La definizione di J.C. Maire Vigueur citata da Cardini, Vita comunale e dignità cavalleresca a Siena, 1989, pp. 269-288, a p. 274. Su uno stile di vita violento connotato essenzialmente dall’utilizzazione della pratica della ven-detta, come tratto peculiarmente magnatizio, insistono Cristiani, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei

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Donoratico, 1962 (si vedano soprattutto pp. 78-82); Cardini, “Nobiltà” e cavalleria nei centri urbani, 1982, pp. 13-28; Lansing, The Florentine Magnates. Lineage and Faction in a Medievale Commune, 1991, pp. 164 sgg.; Gasparri, I milites cittadini, 1992, p. 121; Barbero, Frugoni, Dizionario del Medioevo, 1994, ad vocem magnate pp. 162-164. Una cor-rezione di tiro proposta da Zorzi riguardo alla vendetta come criterio pe-culiarmente magnatizio in Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli ordinamenti antimagnatizi, 1995, pp. 105-147: discussa da Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini, pp. 416 sgg. A puro titolo esemplificativo si scorrano i delitti di cui si macchiarono alcuni magnati appartenenti alle famiglie Saracini, Squarcialupi, Malavolti, Tolomei, Salimbeni, Ranuccini, Accarigi, segnalati in un registro del fondo Biccherna, alla voce “Banditi e Carcerati”, risalente all’aprile 1321: Biccherna 731, cc. 3, 12, 40, 68, 137, 138, 170 597, 599, 601. Sui motivi e le occasioni che utilizzano i magnati per imporsi come figure-simbolo della società urbana, vedi ad esempio le considerazioni di Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda, pp. 482 sgg.

59 Su questo aspetto vedi le considerazioni di Wickham, Dispute ecclesiasti-che, p. 71.

60 La rubrica in Statuti 3, c. 45 “quod officium XXXVI sit firmum et fiat in ci-vitate Senarum per maiores et utiliores homines civitatis, qui sunt de nume-ro mercatorum … et qui sunt zelatores honoris et altitudinis partis guelfe de Senis dummodo in numero dictorum mercatorum non intelligantur aliqui de casato seu de casatis civitatis senensis, nec illius qui susceperit honorem militie …”.

61 “Et quia de casatis insurgit dubitatio et error frequenter circa casata, du-xerunt dicti sapientes viri expressis nominibus exprimenda […]”: Consiglio Generale 21, c. 91r (28 maggio 1277).

62 Per il clima in cui nacque vedi la biografia di Enea di Rinaldo, e specifica-mente pp. 174 sgg. Per l’utilizzazione delle ‘liste’ come strumenti di governo è paradigmatico il caso bolognese studiato da Milani, Il governo delle liste nel comune di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizione due-centesco, 1996, pp. 149-229.

63 Consiglio Generale 119, cc. 80v-82r (12 dicembre 1336).64 Rispetto all’elenco del 1277 nel 1337 erano scomparsi i casamenti “de

Alexis, Abramis, Barboctis, Bolgarinis, Paparonibus et Bandinellis et Cerretanis, Senaulis, Comitis Ubertini”, per essere inseriti i componenti “de domo filiorum Turchi, Ricovari Cimarri, Canis, Caccianieve, Ioseppi et Iacoppi, Tebalducci, Ildebrandini et domini Giunte, Belmontis, Meçço Lombardi, Rustichini, Roççi, Ormanni, Amidei et Guicciardi, Ciabatte, Guinisii, Lotterenghi, Guidonis de Palaço, Orlandi, Boccaccii, Ciuccioli, Ranucci et Ranuccini, Cortebrache, Benuccii, Foschi, Bernarduccii, Uscerii, Palaççensium et Crentanorum, de Monasterio Berardengho, de Valcortese, de Suvera”: Statuti 26, dist. IV, cc. 197r-198r. L’elenco dei casati esclusi nel 1337 edito in Siena e il suo territorio nel Rinascimento, 1986, pp. 73-75.

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65 Vedi Consiglio Generale 14, c. 77r (settembre 1271); Statuti 3, c. 45r (1274); Consiglio Generale 21, cc. 91r-v (1277); Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, a cura di M.S. Elsheikh, 2002, dist. VI, rub. 59; Statuti 26, dist. IV, cc. 197r (1337).

66 Sulla ‘cavallata’ Bowsky, Le finanze del comune di Siena, 1976, pp. 65-66 e Idem, Un comune italiano, 1986, pp. 200 sgg.

67 Si conservano tre liste: quella citata del 1277, una successiva del 1313 ed infine quella contenuta nello statuto del 1337: Consiglio Generale 21, c. 91r (1277 maggio 26); Statuti 21, cc. 29r-30r (20 settembre 1313), Statuti 26, dist. IV, cc. 197r-198r (1337). La lista del 1277 edita in Mondolfo, Il Populus, pp. 82-85; quella del 1313 in Malavolti, Dell’historia di Siena, 1599 [rist. anast. 1968], II, pp. 64v-65r elenco molto impreciso; la lista del 1337 in Siena e il suo territorio, a cura di M. Ascheri e D. Ciampoli, pp. 73-75.

68 Vedi ad esempio Il Constituto del Comune, a cura di L. Zdekauer, I, rub. 154, 156, 456, 458.

69 Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e Firenze, 1976, pp. 41-79. Ma una distinzione del genere è attestata anche in ambito romano dove le fonti parlano di “milites” e “cavallarocti” per separare i lignaggi di stirpe cavalle-resca da coloro che possedevano una cavalcatura e la utilizzavano in attività belliche al servizio del Comune: vedi Carocci, Una nobiltà bipartita, 1989, pp. 71-122: 4-5. Contributi importanti, anche italiani, ma soprattutto fran-cesi e tedeschi riguardo al complesso feudalesimo-nobiltà-cavalleria nelle raccolte miscellanee a cura di Contamine, La noblesse au Moyen Age, 1976 (si veda in particolare Duby, La diffusion du titre cheveleresque) Duby, Le Goff, Famiglia e parentela, 1977, trad. it. 1981; Structures féodales et féo-dalisme, 1980. Per l’ambito italiano si veda, rispetto a Firenze Salvemini, Magnati e popolani, 1899, n. ed. 1966 che individuò nel cavalierato uno dei caratteri determinanti la condizione magnatizia; per Pisa e Prato dove emerge la stessa corrispondenza tra appartenenza alla milita e condizio-ne magnatizia vedi rispettivamente Cristiani, Nobiltà e popolo, 1962, e Raveggi, Protagonisti e antagonisti, 1991, pp. 613-736. Più in generale sul-la nascita e lo sviluppo della cavalleria nelle città italiane rinvio alla messa a punto di Gasparri, I milites cittadini, 1992 e al recente Maire Viguer, Cavalieri e cittadini, 2004. Vedi retro, Introduzione, pp. 12-17.

70 L’attitudine a creare cavalieri nel campo di battaglia è confermata da una rubrica dello statuto laddove si stabilisce un pagamento di cento soldi per l’addobbamento dei novi milites distinguendo non solo tra senesi e stranie-ri, ma fra questi ultimi, anche tra coloro che ricevevano l’investitura in città e quelli che l’ottenevano nell’esercito: “novorum militum foretaneorum ex-pense arbitrio meo [del podestà] fiant usque C sol. et non plus si receperint honorem militiae in civitate Senarum vel in exercitu communis Senarum”. Il Constituto del Comune, a cura di L. Zdekauer, I, rub. 30.

71 Nel 1294 Carlo Martello, figlio primogenito di Carlo d’Angiò II, durante una visita alla città concesse l’uso della sua arme araldica a dieci cittadi-

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ni facendoli cavalieri: “… Venne el re Charlo Martello e’l suo figliuolo a Roma, el quale s’era botato d’andare a Roma lui e’l figliuolo per cierta infermità che lui aveva; e andò a Roma e tornò. E nell’andare e nel tornare a Siena gli fu fatto grande onore dal comuno e anco da’ nobili di Siena; e nella sua partita tutti gli ringraziò de la benivoglienza e dell’onore gli era stato fatto da’ nobili e dal comuno, e donò la sua arme e fece di chasa di Francia X de’ nobili e fegli chavalieri”. Nel 1311 in occasione della sua venuta in Italia l’imperatore Arrigo VII “fece LX chavalieri tutti d’Italia e donolli grandi presenti: tra quelli ne fece quattro da Siena: uno di chasa Malavolti, uno di chasa Tolomei, uno di chasa Picolomini, uno di chasa de’ Forteghuerra […]”. Cronaca senese di autore anonimo, pp. 78 e 90.

72 Vedi per esempio Cardini, “Nobiltà” e cavalleria, p. 27 e Gasparri, I mi-lites cittadini, pp. 82-83, che sottolinea l’aspetto politico delle investiture fatte dagli Angiò, come riconoscimento di una supremazia ed espressione palmare di un’alleanza.

73 “Item C soldos Orlandino quos recepit pro spada et speronibus et offerta ad Missam in die sancte Marie de augusto quando honorem et cingulio militie se ornavit” (Libri di Biccherna, I, p. 32). Sulla situazione senese oltre a Lisini, La cavalleria nel Medioevo e l’origine delle decorazioni equestri, Siena, 1929, si vedano Cardini, Vita comunale, pp. 269-288; e soprattutto l’utile analisi comparativa in Gasparri, I milites cittadini, pp. 68-72 (da cui traggo la notizia sui nove cavalieri creati nel 1252).

74 “Cum beatissimum Georgium militem militum, quem in nostrum et comu-nis Senarum vexilliferum precipuum et potissimum defensorem eligimus, in cunctis negotiis civitatis Senarum invocantes ipsius nomen, plenum potentia ac virtute, in prelio noviter habito cum florentina, lucensi, pistoriensi, pra-tensi, aretina, urbevetanaque militia, vulterranis et ceteris undique Vallis Else et aliis ipsorum sequacibus, ipse verus omnipotens, ipsius beatissimi Georgii precibus et meritis, nobis et comuni et populo Senensi contra ho-stes ipsos victoriam tribuerit triumphalem, invocatus clamoribus maximis devotis, et clementer idem vexillifer benedictus respondiderit votis nostris ad placitum, ob reverentiam eiusdem Sancti Georgii et honorem, et ad per-petuam rei memoriam sui nominis reverendi et victorie memorate statuimus …”: si notino gli epiteti attribuiti al protettore dei cavalieri. Il Constituto del Comune, a cura di L. Zdekauer, I, rub. 123.

75 Il Constituto del Comune, a cura di L. Zdekauer, III, rub. 55.76 Nel 1264 il camerario pagò la somma di 22 soldi ad alcuni operai “qui

tendiderunt et distenderunt papillionem Comunis […] et fecerunt licte-riam quando dominus Mozus recepit honorem militie”: citazione tratta da Lisini, La cavalleria nel medioevo, p. 29.

77 Le rubriche sono contenute nello Statuto del Donnaio del 1343 (Statuti 28) edito da Ceppari, Turrini, Il mulino delle vanità. Lusso e cerimonie nella Siena medievale, 1993, pp. 144-209. Le rubriche citate a pp. 144-145: I De non donando novis militibus; II Quod non balletur extra domum ratione alicuius militie ad penam duplam usque ad mane. La multa comminata ai

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contraffacenti era di 25 lire, ma per chi facesse “ballum seu tripudium”fuori di casa durante le ore notturne la pena saliva a 50. Prima di questa data le disposizione statutarie relative alle investiture cavalleresche riguardarono: il salario dei cuochi artefici del banchetto che non potevano pretendere ulte-riori compensi oltre ai 40 soldi stabiliti; il divieto di offrire in dono al “miles novus” indumenti di qualsiasi tipo, oro, argento e altre preziosità; la pos-sibilità per il cavaliere novello di regalare, come era consuetudine, i propri abiti smessi e specificamente “gli indumenti del busto” (Statuti 3, c. 127v). Questa normativa risalente al 1274 fu recepita nello statuto trecentesco del Campaio che aggiunse alle disposizioni già esistenti il divieto per giocolieri e uomini curie di essere omaggiati di un “commiato” in denari o natura, mentre si dava facoltà al cavaliere novello di invitare tutte le persone che volesse al banchetto celebrativo (Curia del Campaio 1, cc. 1r-v, 4v, 23r-v).

78 La formula in Lisini, La cavalleria nel Medioevo, p. 31. Il rito della vesti-zione di Francesco sembra ricalcare quello illustrato da Simone Martini, nella Vita di San Martino nella basilica inferiore di San Francesco ad Assisi: nella scena “l’imperatore Giuliano stringe la cintura della spada ai fianchi di Martino che prega, mentre uno scudiero gli allaccia gli speroni; altri due scudieri recano gli emblemi cavallereschi dell’elmo e del falco”; a destra due musici dalle vesti variopinte, un liutista e un pifferaio, allietano la cerimo-nia. Gozzoli, L’opera completa di Simone, 1970, p. 93. Vedi anche Carli, La pittura senese, 1981, p. 97.

79 Cronaca senese di Agnolo di Tura, pp. 442-451.80 “[1326] Misser Stricca Malescotti si fece cavaliere per la festa d’Ognissanti

inanzi a detta Paschua”: Cronaca senese di Agnolo di Tura, p. 450.81 Vedi Gasparri, I milites cittadini, pp. 74 sgg. dove vengono analizzate le

testimonianze cronachistiche e letterarie di addobbamenti cavallereschi par-ticolarmente lussuosi, come quello di Ildebrandino Giratasca, effettuato ad Arezzo nel 1260.

82 Su questi aspetti insiste Cardini, Vita comunale, p. 282.83 Cronaca senese di Agnolo di Tura, p. 451.84 I due affreschi, il primo (Guidoriccio da Fogliano) attribuito a Simone

Martini, il secondo dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel 1338-1339 (Gli effetti del Buongoverno in città e in campagna) si trovano rispettivamente nella Sala del Mappamondo e nella Sala della Pace del palazzo comunale di Siena. Una rassegna delle raffigurazioni del cavaliere medievale in Saksa, Sull’iconografia del cavaliere medievale in Italia, 1995, pp. 109-120.

85 Mentre si disponeva che i defunti dovevano essere rivestiti solo di una veste, un cappuccio e scarpette leggere di bucherame o stamegna, si escludevano da questa norma i cavalieri che potevano “indui tunicha et guarnachia de sindone cum caputeo et cum calcettis et cordone albro de ripe”; inoltre se per il trasporto dei defunti le casse da morto dovevano essere coperte con un semplice panno di lana, per il trasporto di cavalieri, giudici, conti, medici e dottori era lecito coprire la cassa “coperta drappis de sirico vel auro vel scarllatto et vario”, prevedendo che il corteo del cavaliere potesse essere

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preceduto o seguito da un cavallo bardato con le insegne del defunto e altri ornamenti. Infine era data facoltà ai parenti del cavaliere morto di utilizzare durante la veglia funebre e il trasporto fino a quattro doppieri al contrario dei due fissati per tutti gli altri: le norme recepite nello Statuto del Donnaio del 1343 sono in Statuti 28, rubriche 7, 10-11, edite da Ceppari, Turrini, Il mulino delle vanità, 1993, pp. 149 e 152-153. Circa la deroga valevole per i cavalieri alla limitazione posta al lusso degli abiti si vedano le rubriche 4, 5, 32, 34-35, 39, alle pp. 146-148, 172-179.

86 “Saper dovete che cavalleria, nobilissimo è ordin seculare; del qual proprio e nemico dir onte e far de villania e quanto unque si può vizio stimare; ma valentia, scientia e onestate, nettezza e veritate”: così esaltava l’immagine della cavalleria fra Guittone del Viva di Arezzo (citazione tratta da Lisini, La cavalleria nel Medioevo, 1929, p. 32).

87 Gasparri, I milites cittadini, 1992, p. 126 e più distesamente pp. 126-133.88 Cammarosano, Tradizione documentaria, p. 65.89 Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, p. 104 in nota. Giorgi ha appurato

come soltanto per undici gruppi parentali minori non sia possibile parlare di un loro coinvolgimento nella cavalleria cittadina.

90 Lo statuto prescriveva che “per conservamento di pace e d’unità della città e del contado et acciò che ragione e giustizia e aguellanza si conservi […] et acciò che ogne via d’errore e d’invidia et materia di scandoli si tolli e si cassi” i priori dovevano essere tratti dal ceto “dei mercatanti de la città di Siena, o vero de la meza gente” e che di tale ufficio non poteva farne parte “alcuno d’alcuno casato [né] alcuno cavaliere” ai quali era impedito “in alcuno tempo [e] in alcuno modo” di essere ricevuti “o vero admessi” nel Popolo, una scorciatoia quest’ultima che si prestava a eludere attraverso un camaleontico cambiamento di status le incapacità sancite a loro carico: “Statuto et ordinato è che nel detto Popolo non possa overo debia alcu-no de’ casati de la città di Siena volgarmente intesi”. Vedi Il Costituto del Comune, a cura di Elsheikh, dist. VI, rub. 5, 6 e 59. Accanto ai membri dei casati e ai cavalieri continuavano a rimanere esclusi dalla magistratura giudici, notai e medici.

91 La limitazione fu ripetuta nello statuto del 1337: “De illis qui non possit esse de numero dominorum Novem: De numero dominorum Novem vel ipsius offitii offitiales esse non possit aliquis de casato civitatis Senarum nec aliquis miles nec aliquis iudex nec aliquis notarius nec aliquis medicus civi-tatis Senarum […]”. E allo stesso modo che nel 1309-1310 era fatto divieto ai magnati entrare a far parte delle organizzazioni di Popolo: “De hiis qui prohibentur esse de Popolo Senarum: Non possit vel debeat esse de popolo civitatis Senarum aliquis de casatis civitatis Senarum vulgariter intellectis et de illis qui de casatis olim fuerunt habiti in civitate Senarum, nel aliquis miles […]”; la rubrica comprendeva l’elenco dei casata. Statuti 26, cc. 197r-198v.

92 Il Costituto del Comune, a cura di M.S. Elsheikh, dist. V, rub. 365.93 Si decretava che nel caso in cui venisse gettata “alcuna cosa” da una torre o

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da un palazzo consortile con il fine di “incominciare batallia” il proprietario dell’immobile doveva essere multato e l’immobile distrutto anche se non si riusciva ad accertare chi avesse dato l’ordine (Il Costituto del Comune, a cura di M.S. Elsheikh, dist. V, rub. 9); una norma penale contemplava l’ipotesi che il proprietario di una torre sottoposta alla custodia del pode-stà usasse la forza per rientrarne in possesso (dist. V, rub. 11); severe pene corporali venivano minacciate ai popolari armati del Comune che in caso di “romore” o di “meschia” accorressero alla dimora “d’alcuno grande di casato” (dist. V, rub. 15). A queste provvisioni se ne aggiungevano numerose altre che si ponevano chiaramente a difesa dell’ordine pubblico e a tutela del regime di governo: sanzioni, pene pecuniarie e corporali erano indirizzate a chi incitava il popolo “a romore”, promuoveva “raunanza di genti”, innal-zava grida sediziose, prendeva “alcuna capitaneria o signoria o gonfalone o bandiera […] per turbamento de la città di Siena o vero contra la Podestà o Capitano o vero Nove” (dist. V, rub. 13); e ancora contro chi faceva suonare le campane “a romore” “ad arme” “a stormo” o “a parlamento” (dist. V, rub. 17), chi con la parola o con gli scritti nuoceva allo “stato pacifico” della città (dist. V, rub. 53), chi promuoveva riunioni, aperte o segrete, “in danno et vitopero del Comune et del Popolo di Siena” (dist. V, rub. 18). Lo statu-to vietava inoltre alle comunità soggette e ai nobili del contado di inviare gente sia pure disarmata, in caso di “meschia” o di “strepito” (dist. V, rub. 16), concedendo piena facoltà ai governatori di confinare le persone che “paressero sospette et de le quali si dicesse che a li ribelli o vero inimici del Comune di Siena favore o vero consellio dessero, o vero sì male favellassero che essi la loro loquela facesse manifesti” (dist. V, rub. 322). Se i soggetti confinati non ubbidivano al provvedimento dovevano essere citati davanti alla corte del Podestà, e se disobbedivano anche a questo ordine venivano dichiarati “rebelli et inimici del comune et del popolo di Siena” (dist. V, rub. 323).

94 Sull’assetto militare urbano si veda Capitano del Popolo 1, cc. 20r-33r, le rubriche contenute sotto il titolo “De ordinamentis societatum”. Anche Bowsky, The Medieval Commune and Internal Violence: Police Power and Public Safety in Siena, 1967, pp. 1-17; Bowsky, Un comune italiano, pp. 187sgg.; Nardi, I borghi di San Donato, 1966, pp. 45-48.

95 Gli uomini chiamati a far parte delle compagnie armate dovevano essere ‘buoni popolari, fedeli, amatori e zelatori del regime guelfo’; erano esclusi “forensis qui non sit habitator continuus civitatis premisse et qui non ha-beat possessionem sive possessiones in civitate vel comitatu Senarum” e ovviamente “aliquis de casato”. Capitano del Popolo 1, c. 20r.

96 Capitano del Popolo 1, c. 21r.97 In caso di tumulto o “aliquis rumor armorum” essi dovevano accorrere

“armati” e “se congregare” ciascuno in sua contrata” pronti ad eseguire gli ordini del loro capitano; una multa di 1.000 lire era inflitta a chi impediva sotto qualsiasi forma tali adunate (Capitano del Popolo 1, cc. 21v e 22r); pene di 1.000 e 500 lire erano comminate rispettivamente agli ufficiali e ai

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membri della compagnia armata che durante tali disordini si recassero “ad aliquod casatum vel ad domum alicuius persone de casato […] in servitium alicuius casati” (Capitano del Popolo 1, c. 22r). Il divieto di accorrere alla residenza consortile dei magnati fu articolato nel testo statutario del 1337 nelle rubriche n. 345 e 380 (dist. III): Statuti 26, cc. 183r-v e 188v-189r.

98 Consiglio Generale 37, c. 59r (14 marzo 1289).99 Ciampoli, Il Capitano del Popolo a Siena nel primo Trecento, 1984, pp.

23-38; Bowsky, Un comune italiano, 1986, pp. 70-81.100 Capitano del Popolo 1, c. 33r.101 Capitano del Popolo 1, cc. 36r-37v.102 Capitano del Popolo 1, c. 50r. Si tratta della trascrizione della delibera presa

in Consiglio Generale in data 28 maggio 1314.103 Capitano del Popolo 1, cc. 44v (Quod solus dominus capitaneus sit iudex

violentiarum) e c. 47v (Quod in causis violentiarum dominus capitaneus possit torquere); e Statuti 26, c. 226v-227r e 228r-v (“De violentiis et op-pressionibus per capitaneum populi cognoscendi”; “De potentis pena com-mictentis violentiam et de restitutione rei et de termino processu”; “Quod violentus possit torqueri et quod non detur consilium sapientis”; “Quod capitaneus non sindicetur de violentiis”).

104 Vedi Capitano del Popolo 1, c. 73r e Statuti 26, cc. 194v e 228r (“De pro-cessibus fiendis per capitaneum contra magnates”; “De inquisitione fienda contra potentes”). La citazione a c. 194v.

105 Su questa magistratura Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti politici del comune di Siena dal 1354 al 1369, 1906, pp. l-li; Bowsky, Un comune italiano, 1986, pp. 85-97.

106 Il 18 dicembre 1341 il Consiglio Generale approvò la seguente petizione indirizzata ai Nove: “[…] proponitur et dicitur pro parte quorundam no-bilium et magnatum civitatis Senarum quod pro iustitia conservanda in civitate predicta iam est provisum, statutum et ordinatum quod dominus capitaneus guerre civitatis Senarum qui est et pro tempore fuerit possit et debeat cognoscere de violentiis et fortiis que commicterentur per poten-tes et nobiles de casatis civitatis Senarum prout in ordinamentis inde factis plenius continetur, et quod quem ad modum inter magnates et potentes ex una parte et populares ex altera est magna et longa differentia ita etiam inter magnates et magnates est magna differentia quia aliqui sunt maiores et nonnulli sunt minores, licet omnes indistincte in libro magnatum scripti reperiantur; et idcirco ad hoc ut iustitia et equalitas observetur et status pacificus civitatis in equalitate manuteneatur et conservetur vobis et vestro officio suplicatur quatenus velitis per vos et consilia opportuna providere et ordinare et provideri et ordinari facere quod quem ad modum capitaneus guerre civitatis Senarum […] tenetur et debet cognoscere, punire et coercere violentias et fortias que commictuntur per magnates et nobiles de casato contra populares, vel aliquem de casato vel in bonis eorum, et quod dictus capitaneus guerre habeat et intelligatur habere eandem baliam et potesta-tem in predictis cognoscendis, coercendis et puniendis in violentiis et fortiis

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que comicterentur per magnates contra populares […]”. La proposta fu accettata con 247 voti favorevoli e 37 contrari. Consiglio Generale 129, cc. 57r-60r (18 dicembre 1341). Cfr. anche Bowsky, Un comune italiano, 1986, p. 94.

107 Statuti 26, cc. 146v e 165r: “Quod magnates non possint esse advocates: Nullus ex magnatibus seu de casato veniat ad advocandum coram potestate senense vel eius iudicibus vel aliquo offitiali comunis nisi pro suo facto, tamen vel pro fratribus vel nepotibus suis, vel alio de domo sua […] sub pena XXV libras denariorum […]”; “Quod nobiles non possint fideiubere: Nobiles de casato civitatis Senarum fideiubere non possint pro aliquo ad bancum maleficiorum universitate vel loco vel pro singulari persona ad ban-cum maleficiorum de hiis que tractantur in dicta curia et eorum occasione […] pena XXV libras denariorum […]. Salvo quod predicti de casato pos-sint fideiubere pro aliis de casato”. Queste rubrica trovava corrispondenza nel divieto fatto ai popolari di prestare fideiussione in favore di un magnate (Quod populares non fideiubant pro nobilibus) a c. 165r-v. Per la norma del 1309-1310 vedi Il Costituto del Comune, a cura di M.S. Elsheikh, dist. V, rub. 365.

108 Capitano del Popolo 1, cc. 45r-v, 46v. Rubriche: Quod in casis violentiarum non detur consilium sapientis et quod preter prohibentur arma et armis provisione domini capitanei: […] Quod nobilem de casato accusatum con-tra quem de violentiis procedetur alius nobilis non assotiet; Quod nullus advocatus vel procurator assotiet inculpatum de violentiis (le disposizioni furono trascritte nello statuto del Capitano il 12 dicembre 1314).

109 Capitano del Popolo 1, cc. 72v-73r e successivamente in Statuti 26, c. 180v: De condepnatione facta contra magnatem de offensa facta in aliquem de compagniis.

110 Capitano del Popolo 1, c. 48v: Quod offensus de sotietate a nobile de casato vel e contra, teneatur notificare maleficium, dell’agosto 1316 poi recepita in Statuti 26, c. 194r-v: Quod denuntietur nobiles offendentes aliquem de compagniis.

111 Capitano del Popolo 1, c. 47r (agosto 1316): Quod in offensionibus factis a nobile de casato contra hominem de compangniis non possit pax nisi ad mediam penam: “Item pro conservatione hominum civitatis Senarum et ut tollatur materia nobilibus et potentibus de casato civitatis et comitatus Senarum delinquendi et malleficia commictendi contra homines de sotie-tatibus et compangniis civitatis eiusdem et hominibus de ipsis sotietatibus contra nobiles et potentes predictos, et cum occasione remissionis penarum que propter paces extitit huc usque concessa a delinquendi materia conce-datur, providerunt […] sapientes predicti quod si quis nobilis de casato […] offenderit vel offendi fecerit aliquem de sotietatibus sive compagnis civitatis predicte, quod pax de dicta offensa fieret vel reddita esset non valeat nec possit nisi ad dimidiam penam […] de dicta offensa imponenda. Et idem ob-servetur et fiat si aliquis de sotietatibus sive compagnis predictis offenderit […] aliquem nobilem […]”. Si noti l’ampia motivazione data alla provvisio-

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ne e il carattere bivalente della norma indirizzata anche ai popolani resisi colpevoli di offese verso i magnati.

112 Statuti 26, c. 154v: De iniuriis et offensionibus commissis vel que commic-terentur vel actentarentur contra dominos Novem vel ipsoum officium.

113 A proposito dei collegamenti tra le legislazioni delle diverse città, scrive la Fasoli che il comune di Siena richiese esplicitamente a Pisa una copia del suo Breve del popolo del 1286 per avere un modello su cui basarsi (Fasoli, Ricerche sulla legislazione, pp. 267-270). Alcuni cenni sulle analogie tra la legislazione senese e quella pisana in Ciampoli, Il Capitano del popolo, 1984, p. 33. Sullo scambio di informazioni, linguaggi e conoscenze giuridi-che nell’elaborazione della normativa antimagnatizia – uno scambio assai in uso nella società del tempo: basti pensare all’influenza esercitata in que-sto senso dalle migranti professionalità di podestà o capitani – vedi anche la considerazione di Zdekauer, La vita pubblica dei senesi nel Dugento, 1897, p. 91, che parla delle leggi senesi, fiorentine, bolognesi come “emana-zione da una stessa corrente”.

114 La Fasoli giudica la normativa senese poco sviluppata e di valore mode-sto: “Nel complesso, scrive, si può affermare che a Siena come in tutte le altre città italiane la tendenza antimagnatizia era vivissima ma non poté svilupparsi, e le norme che essa riesce a esprimere sono poco numerose e non molto interessanti” (Fasoli, Ricerche sulla legislazione, 1939, p. 295). Accentuò invece ideologicamente il carattere marcatamente anti-nobiliare della normativa parlando dei popolari in termini di “arrabbiati persecutori”ed esaltando il ruolo politico del Capitano, la cui potenza sa-rebbe risorta proprio grazie all’offensiva contro grandi e potenti, Caggese, La Repubblica di Siena e il suo contado nel secolo decimoterzo, 1906, pp. 97-102.

115 Si veda ad esempio il resoconto del cronista Agnolo di Tura della decisione dei Nove di armare la città in sospetto di rivolta nell’anno 1306: “E Sanesi, cioé e’ signori Nove che governavano Siena, ordinoro ne’ loro consegli, veduto che ispesso era in Siena alcuni romori fra i gentili omini e altri che volevano vivare albitrariamente, e massime e’ Malavolti e Talomei aveano fra loro mortale nimicitia […] unde diliberoro che si facessero mille omini per terzo, e ogni terzo avesse el suo capitano col gonfalone e gli uomini d’ogni terzo avessero C elmetti e tutti fussero salariati: e per questo ordine fu cagione che in Siena si levò molti scandoli e suspitioni e ognuno viveva a regola […]”. Cronaca senese di Agnolo, p. 294, un episodio simile, nell’an-no 1312, pp. 329-330.

116 Lo scivolare dal gioco alla ‘guerra’ vera e propria: “Quegli di San Martino e di Chamulia fecero uno grande giuocho di pugnia cho’l terzo di Città per modo che molti per ghara chomincioro a trare e sasi, e da’ sasi si venne poi a’ bastoni, e da’ bastoni si venne poi a’ pavesi e agli schudi e alle collate, e veneno poi cho’ lancie e spade e dardi; ed era tanto el romore in sul campo che pareva che tutto el mondo andasse sottosopra […]”: Cronaca senese di autore anonimo, p. 127. Sulle limitazioni poste ai giochi vedi ad esempio la

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deliberazione del Consiglio Generale 34, c. 146r (2 ottobre 1287), e le rubri-che statutarie del 1337 in Statuti 26, che stabiliscono pene per chi giocasse “ad nivem, pugillos vel lapides” (dist. III, rub. 31); “ad ludum lapidum” (dist. III, rub. 36); per chi nella piazza giocasse “ad modum prelii vel in alia parte civitatis” (dist. III, rub. 42).

117 Consiglio Generale 71, c. 143r (23 novembre 1307); Consiglio Generale 72, cc. 177r-180r (26 maggio 1308). Vedi anche Statuti 26, cc. 127r-128v (dist. III, rubr. 1, 2, 3, 5, 7, 8, 9, 11, 34).

118 La narrazione di questi avvenimenti in Cronaca senese di Agnolo di Tura, pp. 349-350; Cronaca senese di Andrea Dei, p. 54; Cronaca senese di Tommaso di Montauri, p. 251; Cronaca senese di autore anonimo, pp. 105-106.

119 Consiglio Generale 85, cc. 116r-118r (4 maggio 1315). Accennavo alla vi-cenda anche in Mucciarelli, I Tolomei, p. 262.

120 “Fu preso e a dì 5 di magio li fu tagliata la testa” (Cronaca senese di Agnolo, p. 521); “E fugli tagliata la testa sul campo”: Croniche di Giovanni Bisdomini, 1718 [ms.], c. 114v.

121 Si decide che “[…] pro bono et pacifico statu civitatis Senarum quod occa-sione dicte discordie nulla oriatur in civitate Senarum materia scandali vel erroris” Podestà e Capitano del popolo “possint et debeant partes predic-tas […] tenere ad confines in civitate Senarum et extra sicut eis et cuilibet eorum videbitur et imponere banna et penas et condempnationes facere et exigere […]”. Consiglio Generale 43, cc. 70v-71r (29 maggio 1292).

122 Il Consiglio Generale decise in questo senso con una votazione di 164 favo-revoli, 44 contrari. Consiglio Generale 50, cc. 68r-69v (8 ottobre 1296).

123 Grazie ad un’analisi comparativa condotta da Andrea Giorgi veniamo a sa-pere che su 14 cause in cui comparivano in qualità di accusati esponenti dei casati Tolomei, Piccolomini e Forteguerri – casati “particolarmente vicini al gruppo di potere” – ben 12 si conclusero con piene assoluzioni, e delle 13 che riguardarono Accarigi e Salimbeni soltanto in un caso il Capitano non dette luogo a procedere: cfr. Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, p. 166 e nota.

124 Fondamentale a questo riguardo l’influenza esercitata – in ambito senese e fiorentino – dagli scritti del domenicano Remigio de’ Girolami che fra il 1302 e il 1304 compose il De bono pacis e il De bono communi (oltre all’in-compiuto De iustitia): cfr. per Siena Rubinstein, Political Ideas in Sienese Palazzo Pubblico, 1958, pp. 179-207; per Firenze alcuni cenni in Zorzi, Politica e Giustizia, pp. 142-144; per l’interpretazione delle sue opere De Matteis, Il “De bono cummuni” di Remigio de’ Girolami, 1965-1967, pp. 13-86; Capitani, L’incompiuto “Tractatus de iustitia” di fra Remigio de’ Girolami, 1960, pp. 91-134. Sul ricorrere di alcuni temi quali ‘pace’, ‘giusti-zia’, ‘bene comune’, ‘equitas’, nel programma politico dei regimi popolari si veda Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda, pp. 476 sgg.

125 Cronaca senese di Agnolo di Tura, p. 266.126 Consiglio Generale 113, cc. 7r-11r (15 gennaio 1332); Cronaca senese di

Agnolo di Tura, p. 510; Cronaca senese di Andrea Dei, p. 92.

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127 Il lodo della pace in Cecchini, La pacificazione, 1942.128 Consiglio Generale 119, cc. 80v-82r (12 dicembre 1336).129 “E’ Piccolomini e Malavolti féro pace insieme nel palazo de’ signori in pre-

sentia de’ signori Nove: ed eravi molti cittadini e lo vescovo di Firenze e tutti gli ufitiali di Siena per ordinamento di detto vescovo di Firenze. E per questa pace tutta Siena ne mostrò grande allegreza […] e da ogni parte féro festa e allegreza”. Cronaca senese di Agnolo, p. 550. I termini della pace in Consiglio Generale 140, cc. 14v-16r (9 febbraio 1346).

130 I termini della tregua in Consiglio Generale 140, cc. 14v-16v (9 febbraio 1346).

131 I termini della pacificazione firmata tra Tolomei e Salimbeni nel 1337 pre-vedevano che chi rompesse la pace fosse dichiarato ‘infame’, escluso da ogni ufficio ecclesiastico e secolare, inabile ad eleggere, privato della facoltà di testare, tramandare i suoi beni, fare affari di qualsiasi sorta, dichiarati nul-li i suoi crediti, escluso dagli ordini cavallereschi, privato della sepoltura ecclesiastica, confiscati i suoi beni: “in primis quidem quod perpetuo sint infames […] et quod sicut infames ad publica offitia, consilia, honores vel dignitates nec ad eligendum aliquem vel aliquos ad predicta vel eorum ali-quod seu ad testimonium vel actum quemcumque legyptimum nullatenus admictantur nec admitti possint aliqua ratione; sint etiam intestabiles ut nec testandi liberam habeant facultatem […], nullus eis debita reddere nec ipsis super quocumque negotio set ipsi aliis respondere cogantur eorum debitores ab omni obnoxietatis sint penitus absoluti […]; sint etiam ipsi et eorum quilibet patronatibus, dignitatibus, personatibus, officiis et bene-fitiis aliis ecclesiasticis, dominiis, iurisdictionibus, privilegiis, indulgentiis, immunitatibus et feudis privati […]”. Inoltre “si eis et eorum cuilibet ad ordines ecclesiasticos ascensus inhibitus, sit illis ad offitium et benefitium ecclesiasticum denegatus accessus, sit eis denegata ecclesiastica sepultura […]; fiant habitationes eorum deserte et ut non sit qui eas inhabitet, dentur cuncta eorum edificia in ruinam que ex nunc dividi et destrui funditus man-damus […]; eorum que in bonis inveniuntur ipsorum seu alicuius eorum, medietas comunis Senarum et alia medietas partis lese et parentis dominio applicentur […] applicamus et confiscamus; nichil transmictant ad posteros set cum eis quodammodo damnentur et sua. Nullus iudex vel advocatus eis patrocinium prebeat, nullus notarius pro eis publica conficiat instrumenta. […] Si quo tempore ipsi vel eorum aliquis in fortiam romane ecclesie […] pervenerint, recluti et carcerari debeat in quodam atro et forti carcere in quo nutriendus donec vixerit pane et aqua […]”. Il vescovo estensore del lodo ordinò poi a tutti gli ufficiali delle varie città di non dare ricetto ai rei sotto pena di scomunica per loro e di interdetto per la città. Queste pene erano comminate a coloro che rompessero la tregua con omicidi o ferite gravi; quelli che si fossero macchiati di ferite lievi sarebbero stati multati in 500 lire da darsi per metà all’offeso e per metà al Comune di Siena. Edito in Cecchini, La pacificazione, pp. 67-69.

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132 Ibidem, pp. 49-50.133 Sull’uso propagandistico degli affreschi del Palazzo Pubblico si vedano oltre

alla celebre lettura dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti di Chiara Frugoni (Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel medioevo, 1983, pp. 135-210) le considerazioni di Cammarosano, Il comune di Siena dal-la solidarietà imperiale al guelfismo: celebrazione e propaganda, 1994, pp. 466-467; Raveggi, Appunti sulle forme di propaganda, pp. 476-477; Donato, “Cose morali, e anche appartenenti secondo e luoghi”: per lo stu-dio della pittura politica nel tardo medioevo toscano, 1994, pp. 491-517, in particolare le pp. 497-498 e 513-517.

134 Frugoni, Una lontana città, p. 147. Nel volume è contenuto il saggio sull’affresco del Lorenzetti in versione rielaborata rispetto a quella origina-ria (Eadem, Il governo dei Nove a Siena e il loro credo politico nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti, 1979, pp. 14-42 e VIII, 1979, pp. 71-103): a questo volume rinvio per una lettura dell’affresco inserita in una più vasta trama di coeve, più o meno, rappresentazione pittoriche e letterarie delle città me-dievali. Tra gli autori che si sono occupati dell’opera del Lorenzetti si veda Rubinstein, Political Ideas, 1958, pp. 179-207 per la contestualizzazione dell’opera nell’ambito delle dottrine filosofiche e religiose che le fanno da sottofondo con particolare riguardo all’impianto tomistico-aristotelico.

135 Statuti 23, c. 477 (constituto del comune degli anni 1323-1338).136 L’affermazione teorica della necessità di punire i turbatori del pacifico stato

trovò ampia eco nei racconti ‘esemplari’ che i cronisti cittadini fecero del-le misure prese dai governanti, racconti dai quali emergeva costantemente un’immagine negativa dei magnati: “[Nel 1306] non potendo in Siena core-gere la gente, la quale era scaprestata, e non voleva vivare a ragione, ed era intrato odio tra Tolomei e Malavolti, e non si poteva levarlo via per nisuno modo, e ogni dì metevano a romore Siena. E per levar via ogni sospezio-ne e’ signori Nove ordinoro uno conseglio e deliberosi […] che si facesse mille omini per terzo […] acioché chi non volesse vivare a ragione fosse ghastighato. E questo provedimento fu chagione di spegniare molti mali e di vivare a ragione. E quando alcuna persona cometeva alcuno dilitto era ghastigato sicondo che meritava. E in questo modo si corresse e’ delinquenti di Siena e quegli e’ quali non volevano vivare a ragione” (Cronaca senese di autore anonimo, p. 86). E ancora “Esendo in Siena al tenpo della signoria predetta [1314] e’ Ragnioni e gli Ughurgieri e Pagliaresi, gentiluomini di Siena, e per alchuna buona chagione furo mandati a chonfino per alchuna parola e’ quai avevano detto verso e’ signori Nove e del regimento del cho-muno di Siena, e minaciavano alcune persone per la loro malvagia iniquità, ed eransi achordati insieme a fare alcuno male chontra a lo stato e’l bono regimento de’ Nove; e in questo modo ne furo meritati, secondo la forma della giustitia e del buon vivare di Siena” (Cronaca senese di autore anoni-mo, p. 101).

137 Nel 1294 Contessa, uxor Renaldi domini Turchii, vende a Corrado giudice una casa al prezzo di 600 lire: Gabella 34, c. 28r.

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138 Vedi retro, pp. 95-98.139 La prima menzione della società dei figli di Turchio è del 1243 (Diplomatico

Gavazzi, 1243 marzo 3). Successivamente anche in una lettera scritta da Andrea Tolomei nel 1269 dalle fiere della Champagne ai compagni di Siena si menzionava la società dei “filiuoli messer Turchio Chiarmontese” in re-lazione ad una operazione di cambio avente per oggetto provesini: Lettera d’Andrea de’ Tolomei da Bari sull’Alba, a messer Tolomeo e agli altri com-pagni de’ Tolomei, al castello della Pieve (1269), in La prosa italiana del-le origini: testi toscani di carattere pratico. Trascrizioni, 1982, p. 415. Sul coinvolgimento di Ranieri e Giovanni nella societas familiare vedi retro, p. 138.

140 Les registres d’Urbain IV, a cura di L. Dorez, J. Guiraud, 1899, II, n. 274.141 “Fredericus secundus divina favente clementia Romanorum Imperator […]

recognoscentes fidem et devotionem Ildibrandini Rubani et Enghelberti Ugonis Piccholomini civium senensium […] de clementia nostra et de certa scientia damus et concedimus vobis predictis Ildibrandino et Henghelberto vestrisque heredibus in merum et rectum feudum Montem Hertari positum in Valle Urcie ut illum habeatis, teneatis et possideatis deinceps cum omni-bus suis pertinentiis”. Diplomatico Santa Maria, 1220 novembre 26.

142 Nell’atto di donazione di Montertine in favore della Scala, Rinaldo di Turchio dichiara di esercitare legittimi diritti sul castello “ratione vel oc-casione dationis seu concessionis sive donationis mihi vel alii pro me fac-te a Bernardino et Roma et Cione filiis quondam Alamanni Inghilberti de Piccholominibus”: Mucciarelli, La terra, pp. 198-200 (1280 agosto 3).

143 “Cambius Bartalini de Montecchiello […] dicit quod Renaldus facit sibi questionem de quodam suo prato” (Documento 5, teste 3); “Iohanninus Cose de Montecchiello […] dicit quod Renaldus facit sibi questionem de una sua petia terre” (Documento 5, teste 18): ibidem, pp. 120 e 129-130 (1278 giugno 16).

144 L’analisi del rapporto tra i casati e la terra Giorgi, Il conflitto Magnati/Popolani, pp. 181-183.

145 Mucciarelli, La terra, pp. 169-170 (1278 giugno 16, deposizione di Johannes Altanieve).

146 “Dicit quod de terra quam laborat ipsum hospitale habet totum et de ter-ra quam dat ad laborandum habet quartum et quintum sicut pactum fa-cit cum laboratoribus”: ibidem, p. 152 (1278 giugno 16, deposizione di Andrea Jacobi); “Dicit quod laboratores qui laborabant terras predictas pro dicto hospitali reddebant terraticum, scilicet quartum dicto hospitale. Interrogatus quam possessionem habet vel habuit dictum hospitale de dictis terris dicit quod habuit terraticum et de quibusdam terris habet affictum et ipse testis dat affictum”: p. 163 (1278 giugno 16, deposizione di Ranerius Lamberti). E ancora: “Dicit quod audivit dici quod [hospitale] facit eas la-borari cum bobus suis et dare etiam ad laborandum ad quartum de dicta terra” [p. 163 (1278 giugno 16, deposizione di Bindinus Marchi]; “Dicit quod [hospitale] dabat et locabat dictas terras laboratoribus et laboratores

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reddebant dicto hospitali de quattuor mannis unam” [pp. 164-165 (1278 giugno 16, deposizione Burnaccius Bonafede]; “Dicit quod [hospitale] in-terdum habebat de quinque unum, interdum de quattuor unum” [p. 167 (1278 giugno 16, deposizione di Iacobinus Ranerii]. Per un quadro d’in-sieme utile a chiarire le dinamiche di penetrazione fondiaria cittadina e le forme contrattuali di gestione dei beni in Cammarosano, Le campagne senesi dalla fine del secolo XII agli inizi del Trecento: dinamica interna e forme del dominio cittadino, 1979, in particolare pp. 169-170 e nota. Una analisi dettagliata della presenza dell’ospedale nell’area, le forme di gestione della terra, il paesaggio colturale, quale si desume dalla documentazione processuale in Mucciarelli, La terra, pp. 47 sgg.

147 Le caratteristiche paesaggistiche e colturali, le vicende insediative e demo-grafiche dell’area definita a ragione una territorio di frontiera, il punto di incontro e di confine tra due mondi e due modelli di sfruttamento delle risorse (quello poderale centrato sulla coltura promiscua e quello della ce-realicoltura e dell’allevamento) sono state oggetto di un fortunato convegno nel 1988, a cura di A. Cortonesi, che ha sancito la nascita storiografica di questa sub regione: La Val d’Orcia nel medioevo e nei primi secoli dell’età moderna, a cura di A. Cortonesi, 1990. Sull’assetto della proprietà, il pae-saggio colturale e l’affermazione della mezzadria Piccinni, Ambiente, pro-duzione, società della Valdorcia nel Tardo Medioevo, 1990, pp. 33-58.

148 Epstein, Alle origini della fattoria toscana. L’ospedale della Scala di Siena e le sue terre, 1986, pp. 30-31. Per l’annessione dell’ospedaletto di Ponte d’Orcia, confermato dal vescovo di Chiusi il 30 ottobre 1236, vedi Banchi, Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV, 1871, p. 147. Per una analisi dettagliata della presenza dell’ospedale nell’area, le forme di gestione della terra, il paesaggio colturale, quale si desume dalla documentazione processuale rinvio a Mucciarelli, La terra, p. 47 sgg. Un quadro d’insie-me, utile a chiarire le dinamiche di penetrazione fondiaria cittadina e le for-me contrattuali di gestione in Cammarosano, Le campagne senesi, 1979, in particolare pp. 169-170 per i contratti parziari adottati dall’ospedale.

149 Le dichiarazioni delle parti negli atti di contestazione della lite: Mucciarelli, La terra, pp. 111-115 (1277 dicembre 30). Le deposizioni dei testimoni pro parte hospitalis, ibidem, pp. 117-130, 143-158, 158-173, 173- 183, 183-195 (1278 giugno 16, docc. 5, 7, 8, 9, 10); i testes Renaldi alle pp. 130-143 (1278 giugno 16, doc. 6).

150 Ibidem, pp. 195-196 (1278 luglio 1) Ad un primo precetto del 30 giugno in cui “dominus Aldrigus iudex, potestas Senarum, precepit Renaldo domini Turchii ut ad bannum M libras nullam novitatem faciat in terris et rebus de quibus est questio inter eum et hospitale”, seguì un secondo, datato 1 luglio in cui il Podestà interpretava il divieto in senso estensivo “precepit Renaldo … ne inferat aliquam iniuriam nec violentiam faciat hospitali sancte Marie de Senis in aliquibus possessionibus vel rebus ad bannum VC libras”.

151 Ibidem, p. 197 (1278 luglio 4).152 Ibidem, pp. 198-200 (1280 agosto 3).

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153 Sul ruolo e l’importanza dei sistemi extragiudiziali come elementi connatu-rati al complesso giudiziario comunale Zorzi, “Ius erat in armis”, 1994, pp. 609-629; Idem, Politica e giustizia, pp. 105-147 (vedi p. 141); Vallerani, Conflitti e modelli procedurali, 1990, pp. 267-299; Idem, Il sistema giudi-ziario del comune di Perugia, 1991. Ancora su Perugia: Maire Vigueur, Justice et politique dans l’Italie communale de la seconde moitiè du XIII siécle: l’exemple de Pérouse, 1986, pp. 312-328. Per il XII secolo, una detta-gliata analisi relativa specialmente a Lucca, Pisa, Firenze, Wickham, Legge, pratiche e conflitti, 2000.

154 Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 66-76 e 102.155 Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, p. 169. Sullo sviluppo patrimonia-

le, l’organizzazione fondiaria dell’ente Epstein, Alle origini della fattoria, 1986. Una sintesi efficace della storia dell’ospedale, Balestracci, Piccinni, L’ospedale e la città, 1985, pp. 21-42. Sulle attività creditizie rinvio ai re-centissimi Piccinni, L’ospedale e il mondo del denaro: le copertine dipinte come specchio dell’impresa, 2003, pp. 17-27; Piccinni, Travaini, Il libro del Pellegrino (Siena 1382-1446). Affari, uomini, monete nell’ospedale di Santa Maria della Scala, 2003.

156 Pellegrini, L’ospedale e il comune. Immagini di una relazione privilegiata, 2003, pp. 29-46, soprattutto alle pp. 32-33.

157 Diplomatico Riformagioni, 1272 ottobre 15.158 Mucciarelli, La terra, pp. 115-117 (1278 maggio 25).159 Nel 1264 Bernardino si trova a Cividale a rappresentare la societas fami-

liare negli affari con il patriarcato (Diplomatico Ricci, 1264 luglio 31, vedi retro, p. 145. Nel 1270 è testimone al contratto rogato a Città della Pieve con il quale i consorti Palmieri di Bartolomeo e Gabriello di Rustichino ac-quistano denari di Provins da alcuni Tolomei in cambio di moneta pisana da pagarsi alla fiera di San Giovanni di Troyes (Diplomatico Ricci, 1270 giu-gno 30). Il prestito al Comune, supra nota 157. Sullo svolgimento di attività di prestito usurario si veda l’autodenuncia, infra nota 162. Ho ricostruito la biografia di Bernardino in Mucciarelli, La terra, pp. 70-80.

160 Diplomatico Archivio Generale, 1276 luglio 7; Diplomatico Archivio Generale, 1280 maggio 27.

161 È a partire dal 1284 che il figlio di Alamanno manifestò un deciso interesse alla costituzione di un patrimonio fondiario alle Serre di Rapolano stipu-lando, nel giro di 6 anni, oltre 30 contratti di compravendita con alcuni membri del suo lignaggio, alcuni cittadini senesi e soprattutto con gli abi-tanti della zona. Gli atti (acquisti e prese di possesso) sono in Diplomatico Santa Maria, 1283 marzo 6; Diplomatico Santa Maria, 1283 marzo 9; Diplomatico Santa Maria, 1284 aprile 27; Diplomatico Santa Maria, 1284 aprile 30; 1284 maggio 10; Diplomatico Santa Maria, 1284 maggio 12; Diplomatico Santa Maria, 1284 ottobre 6; Diplomatico Santa Maria, 1284 ottobre 10; Diplomatico Santa Maria, 1284 novembre 10; Diplomatico Santa Maria, 1284 novembre 18 (2 pergamene); Diplomatico Santa Maria, 1284 dicembre 2; Diplomatico Santa Maria, 1284 febbraio 22; Diplomatico

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Santa Maria, 1285 aprile 11 (3 pergamene); Diplomatico Santa Maria, 1285 aprile 24; Diplomatico Santa Maria, 1285 ottobre 13; Diplomatico Santa Maria, 1285 ottobre 15; Diplomatico Santa Maria, 1285 ottobre 23; Diplomatico Santa Maria, 1287 luglio 25 (2 pergamene); Diplomatico Santa Maria, 1287 settembre 7; Diplomatico Santa Maria, 1287 settembre 11; Diplomatico Santa Maria, 1287 ottobre 8 (2 pergamene); Diplomatico Santa Maria, 1287 novembre 8; Diplomatico Santa Maria, 1287 novembre 25; Diplomatico Santa Maria, 1287 dicembre 2 (4 pergamene); Diplomatico Santa Maria, 1288 novembre 17; Diplomatico Santa Maria, 1289 settem-bre 15; Diplomatico Santa Maria, 1289 novembre 10; Diplomatico Santa Maria, 1289 dicembre 25; Diplomatico Santa Maria, 1289 gennaio 23; Diplomatico Santa Maria, 1290 giugno 13; Diplomatico Santa Maria, 1290 giugno 14; Diplomatico Santa Maria, 1290 giugno 15. Diplomatico Archivio Generale, 1287 agosto 27. Per un’analisi Mucciarelli, La terra, pp. 71-73.

162 Bernardino, per salvezza della sua anima, per redimersi dai molti peccati e “pro restitutione omnium et singulorum incertorum et inhonestorum et inlicitorum lucrorum et usuris incertis ab eo factis et receptis” aveva deciso di devolvere ai poveri dell’ente ospedaliero beni e ricchezze per una somma di 2.000 lire, a parziale risarcimento dei guadagni fatti in modo moral-mente illecito. In cambio della donazione fondiaria l’ospedale gli assicurò, con atto del 16 novembre 1290, il vitalizio di una casa di sua proprietà dove allora abitava il rettore – situata proprio nei pressi dell’ospedale e dove Bernardino e la moglie Vittoria Arzocchi avrebbero potuto stabilire “habitationem commodamet honestam pro [eis] et familia et servientibus [eorum]” – e i diritti di usufrutto del podere delle Serre che il donatore si era avocato nell’atto di cessione al Santa Maria. Esattamente un mese dopo Bernardino completò la promessa di devolvere beni per 2.000 lire con un’ulteriore donazione di una casa e alcuni appezzamenti di terra alle Serre di Rapolano. Il contratto di donazione del podere è purtroppo perduto: esso è richiamato nell’atto datato 16 novembre 1290. La citazione è invece tratta da una donazione successiva, del 16 dicembre 1290, con la quale Bernardino completa la promessa di devolvere beni per 2.000 lire al Santa Maria. I contratti sono editi in Mucciarelli, La terra, pp. 200-202 (1290 novembre 16); pp. 202-205 (1290 dicembre 16).

163 Mucciarelli, La terra, pp. 205-206 (1291 luglio 20).164 La condizione di oblato del Santa Maria della Scala non impedì a Bernardino

di continuare a svolgere i suoi affari – così le permute e gli investimenti nella curia delle Serre continuarono: nuove terre, nuove case tra le mura del ca-stello – parallelamente ad una intensa attività in seno al Santa Maria della Scala che lo vide far parte del capitolo dell’ospedale, comprare ed entrare in possesso di beni per suo conto, rappresentarlo nelle donazioni che sempre più numerose ne andavano ad ingrossare, giorno dopo giorno, il patrimo-nio. Il suo ruolo e la sua presenza agli atti dell’ente assistenziale si accrebbe-ro sotto il rettorato di Ristoro di Giunta che si avvalse della collaborazione

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di Bernardino per portare a termine alcune transazioni che avevano a che fare con il governo dell’ospedale, ma in cui era privatamente coinvolto: quando nel maggio 1295 il rettore in qualità di esecutore testamentario del fratello decise di vendere al Santa Maria i beni appartenuti al defunto, fu Bernardino che garantì l’esecuzione della delicata transazione acquistando a titolo personale l’immensa proprietà che Guidone di Ristoro possedeva a Sarteano e rivendendola all’ospedale cittadino due giorni dopo; e poi nel novembre 1296, fu ancora a Bernardino che il rettore si rivolse, nominan-dolo suo procuratore, per rilevare alcuni beni appartenuti al fratello – situa-ti all’Isola – che gli spettavano “iure creditorio”, e cederli poi al Santa Maria della Scala. Vedi Mucciarelli, La terra, pp. 75-76. Sull’esenzione fiscale concessa dal comune all’ente e alle proprietà ad esso devolute ed offerte vedi la norma in Il Constituto del Comune di Siena, a cura di L. Zdekauer, 1897, d. I, rub. XXXIIII e Epstein, Alle origini della fattoria, p. 14. Sul rap-porto tra oblazione ed evasione fiscale, così come sui vantaggi derivanti al donatore da una temporanea cessione di beni fondiari bisognosi di migliorie all’ente ospedaliero, potente e capace macchina di gestione agricola, mi li-mito a rinviare ad alcune considerazioni espresse in Mucciarelli, La terra, pp. 76 e 79 (nota 249). Sulla fisionomia dell’ente assistenziale che va – via via che ci si addentra nel tardo medioevo – qualificandosi come “impresa di pubblica carità” ha svolto rivelatrici considerazioni Piccinni, Ospedale e mondo del denaro, pp. 17-27, soprattutto pp. 20-22, che anticipa alcuni risultati di una ricerca che ha in corso sul Santa Maria della Scala fra banca e assistenza. Della stessa autrice si veda l’analisi dedicata alla storia delle at-tività di deposito svolte dall’ente attraverso la particolare ottica di un “libro dei depositi” di fine Trecento, primo Quattrocento: Piccinni, Travaini, Il libro del Pellegrino, 2003.

165 Mucciarelli, La terra, pp. 211-218 (1297 ottobre 15); pp. 218-222 (1297 dicembre 23). All’atto di Bernardino fece seguito la decisione della moglie Vittoria che rinunciò a ogni pretesa nei confronti dell’ospedale: Diplomatico Santa Maria, 1297 febbraio 14; Diplomatico Santa Maria, 1297 febbraio 15.

166 Mucciarelli, La terra, pp. 218-222 (1297 dicembre 23). All’atto di revoca dei diritti di usufrutto sui beni donati stipulato in “casamento dicti hospi-talis” presiedono e assistono Cione di Alamanno e il frate eremita Luca di Brunetto del convento di S. Agostino di Siena. Cione aveva espressamen-te consentito anche alla donazione effettuata dal fratello il 15 ottobre di quell’anno.

167 Bichi, Catalogo de’ riseduti nel magistrato degli esecutori di Gabella, 1725 [ms.], cc. 38r, 39r; Idem, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], cc. 84; Idem, Catalogo e serie de’ consoli di Mercanzia, 1725 [ms.], cc. 64v, 67r; Diplomatico Riformagioni, 1282 aprile 19 (per la carica di console di mercanzia), 1298 aprile 28 (per la carica di console dell’arte).

168 Cione è podestà a Massa nel I semestre del 1303; capitano a Massa nel 1304; podestà a Grosseto ottobre-marzo 1308; podestà a Lucignano Valdichiana

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per il I semestre del 1310; podestà a Volterra nel II semestre 1310 e di nuovo nel periodo marzo-agosto 1313 e II semestre 1329. Diplomatico Riformagioni Massa, 1304 agosto 29; Consiglio Generale 71, c. 17v, 19r; Consiglio Generale 75, c. 27r, 28v; Consiglio Generale 137, cc. 60r-61v. Sulle ‘reti’ podestarili nell’Italia comunale, nonché sul caso senese, si veda I podestà dell’Italia comunale. Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri, fine XII secolo - metà XV secolo, a cura di J.C. Maire Vigueur, 2000, 2 voll.; sul caso senese, il saggio lì compreso di Redon, Qualche con-siderazione sulle magistrature forestiere a Siena nel Duecento e nella prima metà del Trecento, pp. 659-674, 666-670.

169 Sulla presenza in consiglio vedi Consiglio Generale 39, 43, 50, 70, 71, 75, 79, 81. Per le ambascerie Tommasi, Dell’Historie di Siena, 1625, II, lib. 8, pp. 152 e 156.

170 Nel 1259 Cione compariva come testimone all’acquisto di una partita di panni fatta dai congiunti Tolomeo di Rustichino e soci (Diplomatico Ricci, 1259 ottobre 6), due anni dopo a nome della societas familiare compra a Firenze certa quantià di panni “de Arazo” del valore di 142 lire e 4 soldi (Diplomatico Ricci, 1261 ottobre 19). Della sua attività creditizia rimane traccia nella registrazione datata 1301 che vede Cione prestare 300 fiorini d’oro all’abate di San Galgano (Gabella 35, c. 118r), mentre nel genna-io 1309 appare creditore per una somma di 100 fiorini di Giovacchino e Niccolò di Benzo del popolo di San Pellegrino e Cecco di Bartolomeo del popolo di San Martino, “cives et mercatores senenses ac socii in arte et mer-cantia lane et aliarum rerum” (Diplomatico Bigazzi, 1308 gennaio 11). Nel 1280 Cione veniva risarcito dal Comune di certi crediti verso alcuni guelfi fuorusciti: Diplomatico Archivio Generale, 1280 maggio 27.

171 Agli immobili urbani – il palatium e alcune plateas nella zona del Pozzo di San Martino valutati 6.166 lire contro le 4.259 lire dei beni rustici – Cione di Alamanno univa alcune proprietà la cui entità, dopo alcune alienazioni condotte nel corso del 1320, si stabilizzò a quota 143 staiori (lo staioro senese equivaleva circa a 1300,75 metri q.) concentrati per l’86% nella vicina curia di Presciano (bosco, lavorativo, vignato e una casa) e nelle comunità di Brenna (5 staiori di una possessione formata da terreni lavorativi, vignati, lame e boschi, ed un mulino) e Stigliano (15 staiori di bosco). Ad accentuare come il raggio degli interessi di Cione si concentrasse su Siena – e sulle opportunità che la città offriva – sta anche il fatto che i beni fondiari del Piccolomini si collocava-no in grande maggioranza nelle sue immediate vicinanze. Complessivamente la sua ricchezza patrimoniale fu stimata 10.425 lire: una stima che lo colloca al vertice della piramide familiare: vedi Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 254-279, particolarmente p. 265 e Appendice (tabelle), pp. 534-535. I beni di Cione allirati in Estimo 114 (“libra” Porrione). Nel 1319 Cione af-fittava certa parte di un mulino che possedeva sul fiume Merse: Diplomatico Archivio Generale, 1319 novembre 13.

172 Diplomatico Archivio Generale, 1280 maggio 27.173 Per un esempio illuminante di questa ‘sensibilità’ nonché sulla fisionomia

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di Cione come uomo di mediazione, è utile gettare lo sguardo su ciò che accadde nella seduta consiliare del 6 dicembre 1318. Il consiglio, dopo un tentativo di ribellione scoppiato nell’ottobre dello stesso anno, fu chiamato a dibattere sull’opportunità o meno di procedere a mutamenti costituzio-nali dopo che il malcontento di notai, alcuni artigiani e dei clan Tolomei e Forteguerri, istigatori della ribellione, aveva fatto esplodere in modo serio – per la prima volta da quando i Nove si erano insediati – il problema. Ed il problema era “quod aliqui de civitate Senarum de diversis conditionibus desiderant mutationem et mutare gubernationem dicti officii, et de presenti non videntur contenti”. L’occasione che veniva offerta a quell’assemblea congiunta del Consiglio Generale, dei 150 membri de radota, dei consigli dei capitani e degli alfieri delle compagnie militari e dei vicariati del conta-do non era di poco conto perché si trattava di affrontare libere et inpune il nodo della ‘serrata’ costituzionale che limitava ai membri appartenenti al ceto medio mercantile di tendenze guelfe il monopolio del vertice comunale: la rivolta dell’ottobre e voci generalizzate di malcontento, provenienti da ‘diversi’ strati della popolazione, indicavano probabilmente un cedimento nella tenuta di quel patto non formalizzato che aveva visto convergere a partire dagli anni Settanta del Duecento intorno a obiettivi comuni il mon-do delle arti e della “societas militum”, della dirigenza guelfa e dell’élite magnatizia, e quella sede poteva rappresentare un primo momento di rifles-sione collettiva intorno al problema. Alcuni magnati come Nello di Mino Tolomei o Benuccio Salimbeni si schierarono per la continuità della magi-stratura di governo: forte appoggio a un regime interpretato da Bowsky come naturale atteggiamento di uomini che da quel regime avevano otte-nuto ampi spazi di manovra e che a quel regime erano uniti da convergenti interessi e legami privati. E tuttavia anche la fisionomia e la collocazione sociale e politica di Cione, non erano tali da configurarlo come un ‘escluso’, un marginale, potenzialmente ‘ribelle’: la ricchezza era sotto gli occhi di tut-ti, il suo impegno nella vita politica cittadina era comprovato; nessun atto di violenza aveva macchiato la sua reputazione di ufficiale e dunque nelle parole con cui invitava a valutare positivamente la proposta di discussione affinché “de ea et super ea possit in dicto consilio libere et impune genera-liter proponi, dici, arengari, consuli et reformari” è difficile cogliere il senso di un imbarazzo privato, l’espressione di un risentimento di natura perso-nale che lo avrebbero indotto ad atteggiamenti ostili al gruppo novesco. Più probabile allora che egli avvertisse nel malessere che serpeggiava in città non il frutto di una casuale, labile unione tra il malcontento dei ceti di più bassa estrazione totalmente emarginati dalla vita politica e amministrativa, e quello dei notai e di alcuni magnati, ma piuttosto il segnale preoccupante di un incrinarsi degli equilibri a cui andava data risposta. Esigenza di un aggiustamento istituzionale avvertita, dal momento che l’area del dissenso, coalizzata in consiglio intorno a lui, non era affatto insignificante se riunì 140 voti contro i 280 a favore di Benuccio Salimbeni: una maggioranza schiacciante ma anche un segnale manifesto di crisi. E infatti nel giro di po-

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che settimane i Nove dovettero realizzare un allargamento, per quanto mi-nimo, della base degli eleggibili al priorato. Vedi Consiglio Generale 91, cc. 139v-141v (1318 dicembre 6). Il resoconto della seduta anche in Cronaca senese di Agnolo, p. 373. La lettura di Bowsky, Un comune italiano, 1986, pp. 109-110. Sull’allargamento realizzato successivamente Cronaca senese di Agnolo, pp. 374-375 (che dà il senso di una operazione di ‘facciata’); Bowsky, The Anatomy of rebellion, 1972, pp. 266 sgg.; Idem, Un comune italiano, 1986, pp. 103-104.

174 La presenza nel mondo amministrativo e finanziario comunale, fra i magi-strati di Biccherna e di Gabella, si unì ad un impegno diffuso degli uomini della famiglia nel campo militare: la qualifica cavalleresca e la ricchezza si prestavano a fare dei Piccolomini, nel quadro di un generale ricorso a membri della nobiltà cittadina per capitanare le truppe, strumenti utili per condurre in porto le molte operazioni belliche in cui spesso Siena si trovò coinvolta. Ma se il ruolo dei magnati si rivelò importante nelle funzioni di comando esso era ovviamente fondamentale nell’ingrossare le fila di equi-tes delle milizie cittadine a cui era demandato il mantenimento della pace e l’onere di adempiere ai patti di alleanza nell’ambito della lega guelfa di Toscana; milizie ‘cittadine’ appunto ché infatti i Nove durante il loro gover-no furono in grado di allestire consistenti eserciti formati prevalentemente di truppe non professionali, laddove in altre città si andava affermando con insistenza il ricorso a contingenti armati di mercenari che qui svolsero inve-ce un ruolo importante soltanto a partire dalla metà del secolo. L’intervento dei magnati alla “cavallata” è ben documentato; in altri casi questi stessi uo-mini non mancarono di partecipare a operazioni belliche del Comune com-pletamente a loro carico, andando a rafforzare il contingente cittadino con eserciti personali. Quando ad esempio Firenze nel 1323 richiese l’aiuto di Siena perché minacciata dall’avanzata ghibellina di Castruccio Castracani che già si era impadronito di Pisa e stava devastando il Valdarno, i Nove allestirono una truppa di 200 uomini a cui si aggiunse sotto il comando del magnate Gontieri di Goro Sansedoni una milizia formata di molti “parti-culari e’ nobili di Siena” (46 cavalieri dei Salimbeni, 36 dei Piccolomini, 35 dei Saracini, 24 dei Tolomei e molti altri dei Forteguerri, dei Cerretani, degli Scotti, dei Bandinelli) e tutti, racconta il cronista “andoro a loro spese con molti altri a pié di loro” (Cronaca senese di Agnolo, pp. 405-406). Sugli spa-zi militari e finanziari occupati da membri della famiglia, in cui si accenna ad alcuni percorsi personali, come quello di Brandaligi e Carlo di Gabriello, capitani di guerra, e Mocata di Gabriello, che al comando militare affiancò l’esperienza podestarile ricoperta per otto mandati, rinvio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 217-220, e Appendice (tabelle: Gli uffici pubblici 1287-1355), pp. 533-534.

175 Esemplare a questo riguardo il resoconto del cronista che vede protagoni-sta Carlo Piccolomini che arringa sulla necessità della concordia cittadina con felice e risolutrice capacità oratoria. Nel 1315 alcuni magnati erano stati sbanditi da Siena accusati di aver avvertito i ghibellini pisani di una

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spedizione degli alleati guelfi di Toscana contro la città, e quindi accusati di essere la causa della sconfitta di Montecatini. Nell’aprile 1316 Uguccione della Faggiuola minaccia Siena “saputo chome s’ Sanesi avevano grande dif-ferenze per amore della grande rotta aveva auta la parte ghuelfa da loro; e ancho per essa chagione e’ Sanesi avevano fatti molti confinati e per questo Siena stava tutta sotto l’arme”. I Nove riunirono il consiglio chiedendo “che si provedesse a riparare a questa ruina […]. Fatta la proposta si levò suso uno nobile e venerabile vecchio, el quale era del chasato de’ Pichuolomini, e cho’ reverenza debita chominciò a parlare sopra alla proposta fatta; e venne narando chome tutte le vitorie aute per lo magnifico comuno di Siena, e l’acrescimento de’ loro chontado era venuto da l’unione e none dala di-visione; e quando el chapo è infermo, tutte l’altre membre sono inferme. E per questo si può dire di noi; inperoché noi della città di Siena siamo tutti infermi e stiamo in divisione e inimicizia l’uno cho’ l’altro; e questo è intervenuto per questi chonfinati e’ quai si sono fatte tante volte e senpre cìè moltiplicata la nimicizia. E volendo tale ruina cessare da noi, dicho e chonsigliio, che da mo’ inanzi tutti e’ chonfinati e sbanditi sieno ribanditi, e ogniuno si perdoni l’uno a l’altro ogni ingiuria la quale eso avesse riceuta. E a questo modo facendo staremo in pace e unione e i nostri nimici saran-no chonfusi quando estiamo in unione e intendiamoci insieme; e da loro di potremo difendere […]”. I Nove accettarono il consiglio dato, fecero immediatamente tornare i confinati, ordinarono di stringere la pace e la concordia fu ristabilita. I Pisani “sentito chome e’ chonfinati erano tornati a Siena cho’ molta alegreza e pace, di subito n’ebeno grande dolore, e […] di subito si partiro da chanpo e andorsene per la via”. In questo modo, conclude l’anonimo estensore, “cho’ l’unione si chaciò l’asedio da Siena per lo chonseglio di quello buono uomo del chasato de’ Picholuomini, chiamato Carlo”. Cronaca senese di autore anonimo, p. 109.

176 Nel 1301, con atto di oblazione, Fortarrigo di Chiaramontese cedeva all’ospedale terre, animali e suppellettili che possedeva a Corsignano chie-dendo in cambio un vitalizio non indifferente di 18 moggia di frumento all’anno, l’usufrutto di una casa dell’ospedale situata a Siena e pretendendo inoltre che dopo la sua morte il Santa Maria devolvesse in opere buone “pro anima sua” 500 lire e pagasse in perpetuo alla figlia di lui, Agnese, monaca nel monastero di San Prospero, e al figlio Simone, frate predicatore, “pro [eorum] necessitatibus et oppurtunitatibus” una somma rispettiva di 18 e 52 lire (Diplomatico Santa Maria, 1301 ottobre 26; Diplomatico Santa Maria, 1301 novembre 7; Diplomatico Santa Maria, 1301 dicembre 5). A Santa Maria della Scala indirizzarono nel 1340 una cospicua donazione “pro remedio suorum peccatorum” Matteo di Roma, nipote di Bernardino di Alamanno, e sua moglie Rabe che nel contratto con cui cedettero all’ospe-dale tutti i poderi e le terre che possedevano a Fabbrica comprese massarizie e animali esistenti “apud meçaiuolis et laboratores possessionum dictarum” posero la condizione “quod dictis Mactheo et Rabi usus et usufructus rerum et possessionum dictarum remaneat et remanere debeat toto tempore vite

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eorum”, obbligando l’ente assistenziale dopo la loro morte a versare a titolo di carità 15 lire all’anno ai frati predicatori di Siena (Diplomatico Santa Maria, 1340 luglio 19). Per una analisi più dettagliata delle due vicende, in cui sottolineo accanto ai risvolti penitenziali gli effetti economici, rinvio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 286-289 e pp. 415 sgg. per i legati testamentari a favore dell’ente. Nel 1299 Tessa di Riccomanno, vedova di Ranieri di Turchio, dava mandato all’ospedale di investire parte della dote (la sua quartam) e altra somma di denaro, nell’acquisto di una possessione nel contado senese, vincolando l’ospedale alla distribuzione dei suoi frutti a favore di poveri e conventi cittadini.

177 Caleffo Vecchio, III, pp. 1181-1182 (1280 ottobre 13-14).178 Diplomatico Santa Maria, 1288 novembre 17 (Rinaldo in qualità di pro-

curatore di donna Gualtiera di Africante immette il consorte Bernardino di Alamanno nel possesso di un pezzo di terra alle Serre di Rapolano); Caleffo Vecchio, III, pp. 1438-1440 (1293 ottobre 17): Rinaldo come procurator di Gina di Ruggerino da Sasso, vedova di Nardo da Prata, vende al Comune di Siena i diritti lei spettanti sul castello.

179 Nel 1290 compra certa cava di pietre “in contrada de Pegghi”: Diplomatico Archivio Generale, 1290 settembre 4.

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guglielMino Di guglielMo cencio e suo figlio Meuccio

Maladette ricchezze: i crediti ‘politici’

Inferno. Settimo cerchio. In quella fossa bagnata dalle fiamme che cadono in una pioggia incessante, seduti, rannicchiati, in-tenti a schermirsi con le mani i vapori vomitati dal suolo bol-lente che frustano il volto, “non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani” 1, i dannati attendono. Attendono Guglielmino, fi-glio di altro Guglielmo, e il suo figliolo Meuccio. Il loro desti-no ultraterreno è segnato: maladette ricchezze!: a loro, come a tutti gli usurai, toccherà un giorno finire nelle spire del basso inferno, laddove i peccatori danteschi sono costretti in una con-dizione avvilita e bestiale. Ma i due magnati, prestatori di pro-fessione in odor di usura, non manifestavano in quelle prime decadi del Trecento, che è quando si apre la loro storia, nessuna intenzione di pentirsi, e poco impressionati evidentemente dalle invettive di moralisti e di novellatori, dalle condanne dei teo-logi, dagli anatemi dei predicatori, i due membri del lignaggio perseguivano chiaramente in questo torno di tempo una strate-gia che faceva del credito il perno delle loro attività.Il primo contratto di una serie importante di mutui che impe-gnarono Meuccio Piccolomini è del 26 ottobre 1315, quando il banchiere si prestò a un primo esborso a favore del Comune di Siena – che in una seduta del Consiglio Generale di pochi giorni prima aveva riconosciuto l’assoluta necessità di reperire denaro deliberando di impegnare i suoi beni – e in cambio di 30.000 lire ottenne in pegno la grande tenuta comunale del Piano del Lago. Non era la prima volta che il Comune ricorreva a prestiti su pegno fondiario aventi per oggetto la preziosa silva lacus il cui valore si legava soprattutto alle possibilità di sfruttamento dei terreni boschivi e a pascolo: già nell’ottobre 1287 essa era stata ‘venduta’ ad alcuni cittadini senesi, tra cui figuravano tre

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consorti di Meuccio 2, riscattata dopo un anno era stata nuova-mente impegnata nel 1289 e di nuovo riscattata per tornare, in quell’autunno del 1315, per la terza volta, nelle mani dei cre-ditori. I termini del contratto prevedevano che la silvam sareb-be stata alienata permanentemente a Meuccio se Siena avesse mancato di pagare il suo debito entro la festa di Santa Maria d’Agosto dell’anno 1323, e che fino a quando il Comune non avesse soddisfatto il suo debito il figlio di Guglielmino doveva godere di tutti i diritti comunali nei confronti dei numerosi af-fittuari che allora pagavano alla Biccherna una somma pari a 3.240 lire all’anno “pro pensione terreni dicti plani”, prospet-tando dunque al Piccolomini guadagni notevoli nella riscossio-ne degli affitti che, senza considerare aumenti nelle locazioni, gli avrebbero portato nelle tasche oltre 22.000 lire.Ma Siena fu in grado l’anno successivo di riscattare la pro-prietà 3.Il 20 marzo 1316, poche settimane prima che il priore dei Nove allora in carica, Bindo Vincenti, reimmettesse formalmente Siena nei suoi diritti sulla selva, il Camerario comunale fra-te Martino dell’ordine dei serviti di Santa Maria e i Quattro Provveditori in carica procedettero alla vendita del castello di Castiglion d’Orcia a favore di Meuccio. Al prezzo di 30.000 lire venivano ceduti al Piccolomini

castrum, cassarum et terram Castellionis Vallis Urcie, cum muris, carbonariis et foveis, curiam et districtum, iurisdic-tionem et signoriam et dominium dicti castri et curie […], pascua, silvas, nemora, vias et aquas, et omnes et singulas terras cultas et incultas pertinentes […] ad dictum castrum et terram, et etiam omnem et quamlibet signoriam, domina-tionem et imperium quod et quam dictum comune Senarum habet, tenet vel possidet in dicta terra […],

assicurando al compratore tutti i proventi e i redditi che Siena percepiva sotto forma di censo e dazi dagli uomini di quella comunità fatti salvi i vecchi diritti di esazione, non riscossi, re-

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lativi ad anni precedenti l’acquisto. Nello stesso giorno tuttavia una nuova stipula andò a configurare più chiaramente i termi-ni dell’operazione, svelando la sua natura di prestito su pegno fondiario poiché Meuccio fece atto di donazione al Comune di tutti i diritti giurisdizionali appena acquistati sul castello, rinunciando ad esercitare poteri signorili sui sottoposti al di-strictus con l’unica riserva per sé di poter “lignare” nei boschi della curia e con l’accordo – garantito dalla coobbligazionei del padre, alcuni consorti e importanti esponenti dell’élite cittadina – che entro sette anni il castrum sarebbe stato riacquistato dal Comune pena la sua definitiva alienazione, con reintegro nella pienezza dei diritti, a favore del creditore 4.A stare al racconto del cronista Agnolo di Tura del Grasso il giorno 24 di marzo Meuccio “entrò in tenuta” del castello, se-guito probabilmente da una guarnigione di fanti privati addetti alla custodia di Castiglion d’Orcia per il cui salario il Comune avrebbe versato al Piccolomini 400 lire ogni sei mesi. Sempre a stare ai ricordi del cronista senese l’interesse annuo del prestito fu del 12,5% e per il suo rimborso sappiamo che il Comune stornò i proventi della gabella sulla vendita del vino al detta-glio, una delle gabelle più lucrose della città i cui redditi molto spesso venivano assoggettati alla soluzione delle pendenze co-munali. Dopo cinque anni e mezzo il Comune riuscì a saldare il debito e nell’aprile 1321 con un pagamento globale di 44.000 lire Castiglion d’Orcia rientrò in suo possesso 5.Mentre Meuccio riscuoteva la sua provvigione a recupero del credito di 30.000 lire, Siena fu costretta in evidente stato di difficoltà finanziaria a ricorrere di nuovo a lui: questa volta il Comune garantì un prestito di 6.000 fiorini d’oro con i castelli di Roccalbegna e Pietra, situati in Maremma tra Talamone e Paganico, che furono ‘venduti’ il 5 febbraio 1319 con tutti i loro diritti e giurisdizioni, salvo poi con atto dello stesso giorno riprendere sotto forma di affitto, dietro pagamenti annuali di 750 fiorini d’oro,

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iurisdictionem dicte terre […] et plenam licentiam et liberam potestatem recolligendi et percipiendi et in comune Senarum reducendi omnes et singulos fructus, redditus et proventus, affictus et pensiones dicte terre, sive burgi et curie et districtus eiusdem et molendini et rerum predictarum 6.

Oltre a questa somma Siena si impegnava a versare un con-tributo di 600 lire all’anno per la custodia dei due castra ob-bligando Meuccio a farli guardare “ad honorem et statum comunis Senarum” e con il patto di sottostare completamente alle decisioni della dominante riguardo ai problemi di difesa ed offesa: masnade, fanti e cavalieri di Siena avrebbero dovuto in ogni momento, a richiesta del Comune, essere ricettati in quelle terre per tutto il tempo che si ritenesse necessario e da lì poter muovere per fare “cavalcatam et cavalcatas” 7. Come era avvenuto per Castiglion d’Orcia anche in questo caso il termine per il riscatto dei beni impegnati fu fissato in sette anni, durante i quali Meuccio non poteva vendere o alienare in alcun modo diritti e possessi castrensi senza licenza del Comune che si assicurò invece il diritto, sotto la consueta fideiussione di al-cuni consorti del creditore, di ricomprarli in ogni momento 8: trascorso il tempo pattuito tale diritto sarebbe venuto a cadere e il creditore avrebbe mantenuto per sé la piena proprietà dei castra. Dopo sei anni dalla data di concessione del prestito – era l’8 gennaio 1325 – Meuccio dichiarò di essere stato interamente soddisfatto dal Comune: i 6.000 fiorini che risultavano essere stati pagati in tre rate tornavano nelle sue mani e la locazione gli aveva fruttato un guadagno di circa 4.500 fiorini 9.Il frequente ricorso al metodo dei prestiti su pegno fondiario utilizzato dai Nove che consegnavano porzioni anche consi-stenti di beni e diritti pubblici ai creditori – pegni il cui impat-to il Comune si sforzava di limitare ponendo, come si è visto, argini contrattuali precisi, vincolando i creditori all’osservanza dei termini con il ricorso a coobbliglazioni, cautelandosi dal rischio di trascurare i debiti accesi il cui mancato pagamen-to avrebbe portato alla perdita definitiva dei beni alienati con

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l’obbligo imposto ai podestà cittadini di porre all’attenzione dell’assemblea consiliare ogni sei mesi il problema del riacqui-sto 10 – nonostante avesse fatto registrare un’intensità maggiore proprio in corrispondenza della seconda decade del Trecento in seguito a un crescendo di impegni di spesa per finanziare le lo-goranti campagne militari contro Arrigo VII prima e Uguccione della Faggiuola poi 11 – trovava la sua ragione in una causa di tipo strutturale, intrinsecamente legata all’impianto dello stato. La lucida rilettura del sistema finanziario comunale fatta da Cammarosano ha evidenziato i limiti di una politica fiscale che avviata prima dell’avvento dei Nove, venne però portata a com-pimento negli anni del loro governo e che tese a potenziare le imposte sui consumi e sui trasferimenti di proprietà 12. Furono aumentate le gabelle rispetto a quelle esistenti, affermandosi su ampia scala, a partire dal 1290, la prassi dell’appalto di quelle riscuotibili in città e nel suburbio mentre quelle del contado furono inglobate nel 1291 in una cifra fissa annuale. Intorno al 1330 il sistema fu ulteriormente rafforzato perché la tassa del contado fino ad allora variabile, si irrigidì a un livello di 48.000 lire annue 13, facendo registrare un sensibile aumento rispetto alla media precedente, così come un generale aumento fecero registrare i proventi delle maggiori gabelle cittadine ormai con-cesse ordinariamente in appalto 14: il risultato fu la costruzione di un sistema che prevedeva la riscossione annuale di un’impo-sta diretta per un ammontare predeterminato dal contado, un complesso economico fondato essenzialmente sull’agricoltura e quindi particolarmente soggetto a imprevisti e fluttuazioni ampie nel reddito su cui però veniva scaricato il peso dell’uni-ca voce importante delle entrate comunali a carattere fisso e regolare 15.La entrate fluttuanti e le fluttuazioni della spesa, il grande squi-librio tra la parte ordinaria e la parte straordinaria del bilancio – diretto riflesso “di organismi statali in formazione” – fecero sì che la struttura finanziaria senese si reggesse all’epoca dei Nove in grandissima parte sul debito che diventò un elemento

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normale del bilancio 16. Proprio la natura dello stato si prestava dunque a garantire ai detentori di ricchezze un pieno margine di intervento in un settore che si prometteva proficuo. Meuccio e il padre Guglielmino ci appaiono campioni nell’utilizzare a proprio vantaggio gli spazi che il disavanzo comunale offriva ai propri ricchi cittadini. Ricchissimi, come Guglielmino – che con il suo imponente patrimonio immobiliare stimato oltre 30.000 lire occupava il vertice della piramide familiare 17 – ben inseri-ti nella vita cittadina, attivi nella gestione della cosa pubblica – era stato Provveditore di Biccherna nel primo semestre del 1307 18 – e soprattutto ben visti dal gruppo dirigente: i prestiti concessi al Comune dal figlio Meuccio a cavallo fra primo e secondo decennio del Trecento, in un momento in cui le casse languivano, i bilanci semestrali si impennavano, il disavanzo ingrossava, per i delicati e rischiosi risvolti legati all’oggetto del pegno attribuivano a quelle operazioni finanziarie una valenza politica. Emarginati dalla suprema magistratura di governo in virtù di una operante legislazione antimagnatizia, Guglielmino e il giovane figlio dovevano godere della fiducia dei noveschi al potere, disposti forse senza troppi problemi a cedere a ‘chiun-que’ vantasse i necessari requisiti economici i boschi suburbani, ma non parimente disposti ad affidare, sebbene temporanea-mente e con tutti gli argini meticolosamente e cautelamente previsti all’atto di concessione, importanti castelli dello stato come Castiglion d’Orcia e i maremmani Rocca e Pietralbegna. I rapporti meno fluidi con altri lignaggi magnatizi, altrettanto facoltosi ma evidentemente ritenuti meno affidabili, per la loro perdurante e inossidabile fede ghibellina per esempio, come i Gallerani o i Salvani, avevano dunque indirizzato in quegli anni i Nove, obbligati da condizioni di eccezionale emergenza, a ri-correre per i prestiti su pegno fondiario a precisi referenti 19. La fisionomia del lignaggio a cui Guglielmino apparteneva, la sua storia familiare e la sua vicenda personale, unite ad una ecce-zionale disponibilità economica, complottavano per fare di lui e del figlio dei perfetti ‘banchieri di stato’.

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Era figlio di donna Palmira e di un padre omonimo sopranno-minato Cencio 20 il cui impegno pubblico e politico si riduce alla partecipazione, nel 1267, in veste di consigliere di Parte Guelfa, all’accordo di pace stipulato a Viterbo, nel palazzo di Clemente IV, tra il rappresentante dei guelfi senesi fuorusciti e il procuratore del Comune di Siena 21. Di mestiere Guglielmo Cencio faceva il banchiere, come il padre, Bartolomeo di Ugone 22, ma sul finire di una vita che rimane avvolta per gran parte nella nebbia, il vecchio finanziere si lanciò in una politica di acquisti fondiari che andava probabilmente a soddisfare il suo bisogno di spostare i capitali verso operazioni più tran-quille e più sicure, di nutrirsi dei frutti delle proprie terre, di assicurarsi l’ombra del podere in cui trascorrere gli anni che gli rimanevano da vivere 23. Del milieu delle sue relazioni sociali unico indizio rimane il frutto che i rapporti con la ‘novesca’ famiglia dei Balzi portarono alla sua tavola: il matrimonio di una innominata figlia femmina con Ranuccio detto Balzectus, quel dilecto genero suo esponente del governo dei Quindici a cui nel 1269 Guglielmo Cencio cedeva diritti di credito per un ammontare di 500 lire contro la societas familiare 24.Guglielmino era dunque figlio di un banchiere e nipote di un banchiere. E grazie alla sorella imparentato con un membro facente parte del ceto di medi mercanti guelfi al governo della città. Un buon matrimonio procura una rete di relazioni, una cerchia di appoggi, di intermediari, di garanti che agiscono nel-la vita economica come in quella politica, Guglielmino doveva esserne consapevole. Così impose a suo figlio Meuccio la donna di una famiglia novesca con cui la famiglia aveva già stabilito una relazione per il tramite della nipote Tessa, figlia di Conte, andata in sposa a Baco di Priore: anche lui – come Ranuccio – uomo dell’esecutivo: prima nel 1298 e poi nel 1310 25. E la scelta cadde su donna Niccoluccia, figlia del mercante Teri di Priore, titolare di una compagnia commerciale che operava nel settore metallurgico, nipote di Baco 26. Reti, relazioni: un passa-porto ulteriore di ‘affidabilità’ agli occhi dei governanti proba-

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bilmente, e una ‘vicinanza’ all’esecutivo di cui sembra esser spia anche la presenza di Goro di Giacomo di Gregorio, che sedeva nella scranni dei Nove durante il bimestre gennaio-febbraio del 1314 27, tra i fideiussori di Meuccio nel prestito da lui fatto al Comune nel 1316.

Le iniziative creditizie e di Guglielmino e del figlio a favore delle pubbliche finanze precedevano in realtà di alcuni anni quell’ottobre 1315 quando è attestata la prima operazione con Siena: nel febbraio 1308 Guglielmino riceveva uno strumento di obbligazione del Comune di Massa, sotto la fideiussione di alcuni magnati appartenenti alle famiglie dei Gallerani, degli Squarcialupi, dei Salimbeni e dei Bonsignori, che impegnava i debitori nei suoi confronti per una somma di 800 fiorini, dati a titolo di mutuo, che essi si impegnavano a restituire entro le calende di gennaio promettendo “reficere omnia et singu-la dampna” derivanti da un ritardo nel pagamento 28. Alcuni anni dopo, è il 1316, mentre sta per arrivare a conclusione il riscatto della Selva del Lago da parte del Comune e per partire l’affare ‘Castiglion d’Orcia’, dalla sua casa di Corsignano e alla presenza del congiunto Ambrogio di Salomone, Meuccio dava mandato al padre di riscuotere un credito di 1.000 fiorini d’oro “a comuni et hominibus de Massa” e da alcuni cittadini che si erano coobbligati in suo favore. Cosa che avvenne puntual-mente due giorni più tardi 29. Ma queste operazioni non furono transazioni isolate. Esse dettero il via a una serie di prestiti con-cessi da Guglielmino al Comune massano che videro di volta in volta l’accensione di mutui a scadenza semestrale o in un caso annuale per un valore complessivo che raggiunse tra l’estate del 1321 e gli inizi del 1322 la cifra di 5.800 fiorini d’oro 30; una cifra che rappresentava solo una piccola percentuale di un debito complessivo che doveva essere enorme e che in quegli anni Massa stava accumulando nei confronti di molti banchieri senesi: navigando in un mare di debiti, sommersa dai reclami dei molti prestatori a cui era stata costretta a rivolgersi per ri-

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spondere alle necessità di una comunità finanziariamente esau-sta, angosciata da pendenze vecchie di anni per la cui soluzione si vedeva obbligata a cedere i propri beni, castelli e diritti di sfruttamento delle sue vene argentifere, questo popoloso centro dello stato senese doveva costituire una vera e propria miniera per gli investimenti dei magnati, attratti dalle possibilità offerte da un sottosuolo che si diceva abbondasse “di copiose vene d’oro, d’argento e d’allume” 31.Proprio la critica situazione in cui versava il Comune impedì che i debiti verso Guglielmino fossero saldati entro i termini pattuiti: essi furono estinti infatti soltanto nel marzo del 1325 quando morto ormai il Piccolomini, l’erede e nipote Salomone di Bartolomeo rilasciò quietanza al Comune per una somma di 2.950 fiorini che risultavano essere l’ultima quota di un debito complessivo accumulato dallo zio pari a 6.600 fiorini. Questa esposizione debitoria scaturiva dalla somma di sei diversi pre-stiti – il primo del quale ricordo era datato febbraio 1308 – ammontanti rispettivamente a 800, 600, 800, 2.000, 2.000 e 400 fiorini: o meglio tale era la quantità di denaro verso cui ogni volta il Comune massano si obbligava nei confronti del suo creditore “ex causa mutui” 32. Poiché nei contratti non vi è accenno ai tassi di interesse, né risulta dalla documentazione che Massa abbia ripagato tali mutui con l’alienazione di beni fondiari o diritti di sfruttamento del sottosuolo, è da credere che tali crediti abbiano rappresentato, prassi del resto usuale, non solo l’esborso del Piccolomini ma siano stati comprensivi anche degli interessi intuitivamente cospicui ma che purtroppo rimangono oscuri 33.La voracità dei prestatori, “l’ingordigia degli speculatori citta-dini” ai danni delle comunità rurali, colorava di forti tinte già la prosa di Romolo Caggese agli inizi del XX secolo: come è noto, lo stato di indebitamento del contado come naturale con-trapposto di una politica fiscale esosa e sfruttatrice della città costituì un passaggio chiave nella interpretazione del medioevo comunale da parte del giovane studioso, tanto sensibile e tanto

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aperto agli influssi del materialismo storico e al determinismo economico e sociologico loriano, da collegare il suo nome alla zona più accesa e oltranzista di quella “storiografia delle an-titesi”, come è stata definita la scuola economico-giuridica 34. Studi e contributi successivi, da quelli di Enrico Fiumi, che a cinquant’anni dal libro del Caggese tornava polemicamente sull’argomento dalle pagine dell’Archivio Storico Italiano 35, fino alle più recenti analisi dedicate ai sistemi finanziari dei co-muni toscani, ai processi di indebitamento sia delle comunità – Colle Valdelsa, San Gimignano – sia degli enti ecclesiastici del territorio – il vescovado di Volterra – per citarne solo alcu-ni 36, hanno arricchito il quadro delle conoscenze e contribuito a rimodulare e correggere indirizzi e presupposti teorici della ricerca.Sul Comune di Massa Marittima, popoloso centro urbano del-la Maremma, sede vescovile dall’XI secolo, al centro di una travolgente esplosione economica e demografica nel corso del Duecento, da connettere anche alla sua crescente fortuna come polo regionale di produzione mineraria, poco è venuto dopo le pagine vitali e prorompenti di Gioacchino Volpe che fra 1910 e 1913 dedicò un saggio di taglio politico istituzionale alle vicen-de legate alla nascita e all’affermazione del comune cittadino. Volpe in verità aveva posto l’accento, e con certa enfasi, sulle difficoltà finanziarie, sui numerosi debiti contratti dal Comune massano verso prestatori senesi, fiorentini, pisani, in conse-guenza della liquidazione dei diritti signorili del vescovo, all’in-domani del riscatto delle libertà comunali avvenuto nell’anno 1225 37, ma aveva affidato ad una lapidaria quanto suggestiva affermazione la constatazione di una posizione debitoria del Comune di Massa nelle decadi successive, ovvero negli anni che videro Siena progressivamente subentrare a Pisa nel controllo dell’area.

Ora, verso il 1260 il predominio pisano su Massa sta già tra-montando. Siena sostituisce Pisa, attirando nel cerchio della sua azione la piccola città. Essa influisce sullo svolgimento

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delle interne magistrature […], dà vescovi alla sua Chiesa e podestà al suo Comune, si fa arbitra delle controversie[…], seguita a prestar denari ai cittadini e alla comunità… 38.

La presenza e l’intervento di banchieri senesi in quel prestar denari è ben attestata soprattutto a partire dal 1276, data della stipula della prima lega di amicizia della città di Massa Marittima con Siena e fino al 1335 quando viene ratificato l’ac-cordo che dopo un faticoso sessantennio ne sancisce un defi-nitivo inserimento nel dominio territoriale della repubblica 39. Il crescente ricorso al credito da parte del Comune di Massa, dagli anni Settanta del Duecento, impronta l’emergere di un gruppo onomasticamente ristretto di banchieri che si qualifica per una continuità di intervento e di presenza nella città mine-raria: nonostante qualche intrusione di poco momento nella galleria dei creditori da parte di cittadini volterrani, mercatores pistoiesi, domini del territorio – i figli di Pepone da Sassoforte – Piccolomini, Forteguerri, Tolomei, Accarigi, Malavolti, Salimbeni, giocano la parte del leone. Detenendo un saldo con-trollo delle finanze massane 40. In relazione e in concomitanza alle necessità contingenti, alla natura del fabbisogno, l’importo dei prestiti fatti, oscilla da poche centinaia di fiorini a punte che toccano i 5.600: ma la reiterazione dell’intervento richiesto agli stessi finanzieri, la difficoltà nei tempi concordati a saldare il debito con la conseguente crescita esponenziale dell’interesse pattuito, la pratica di estinguere un mutuo attraverso l’accen-sione di uno nuovo fa salire, in determinate congiunture, l’espo-sizione debitoria di Massa verso i banchieri senesi a somme di tutto rispetto 41. Banchieri che si trovano ora nella comoda e redditizia posizione del creditore, ora in quella meno comoda di garante per il Comune: Massa Marittima infatti, non diver-samente da Siena, protegge tali prestiti con una duplice garan-zia di solvibilità: la prima, offerta dal procuratore comunale, che dichiara di obbligarsi pro comuni et hominibus de Massa et mio proprio et privato nomine, la seconda, attraverso il ricorso a cittadini che a titolo privato e sui loro beni personali garan-

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tiscono il creditore. Condizione che costituì la premessa per lo sviluppo di un vivace mercato degli atti di mutuo che vennero configurandosi di fatto come titoli di credito pubblico, garantiti dal Comune, capaci di un buon rendimento finanziario. Per i banchieri senesi titolari del credito che avessero avuto necessi-tà di liquido non sarebbe stato difficile trovare un acquirente né, di contro, acquistare diritti di rivalsa economica contro il Comune, in un gioco di compravendita – dai risvolti non solo puramente finanziari – che vede interagire fra sé i vertici della banca senese e che non esclude la presenza di alcuni lignaggi aristocratici 42. Proprio la natura di ‘titolo di stato’ degli stru-menti obbligazionari in mano dei banchieri, unito al carattere a breve tempo dei prestiti, nonostante il ritardo quasi strutturale con cui Massa riesce ad onorare le sue obbligazioni, doveva-no rivelarsi particolarmente congeniali a chi è impegnato con-temporaneamente su più fronti come Guglielmino e Meuccio, che mentre si prestano a consistenti esborsi a favore di Massa sollevano dalle difficoltà finanziarie la tesoreria senese con suc-cessivi versamenti che complessivamente arriveranno ad am-montare nel primo ventennio del Trecento a 60.000 lire e 6.000 fiorini d’oro 43.

Protagonisti esemplari di quel processo di riconversione eco-nomica che, complici una serie di fattori, matura a Siena tra gli anni Ottanta del Duecento e le prime decadi del Trecento e tra i cui effetti si misura, in seguito al drastico ridimensionamento del raggio internazionale degli affari dei suoi mercatores, un riorientamento di capitali ed energie, Guglielmino e Meuccio sembrano non soffrire le conseguenze del ridimensionamento, di quel clamoroso ripiegamento delle attività bancarie e mer-cantili della societas, o delle societates, di famiglia. Che, dopo l’ultima avventura incentrata su un ‘traffico di panni’ di dimen-sioni europee attestato nel 1294, dovette abbandonare la scena internazionale, appena in tempo per evitare di venir travolta dalle ondate di fallimenti a catena che strozzarono altre com-

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pagnie senesi tra il primo e il secondo decennio del Trecento, forse essendosi a quella data già sciolta per mai più ricostituir-si 44. L’uscita dei Piccolomini dal mercato internazionale si in-serisce in un movimento generale che vide il progressivo ritrarsi dei senesi da un giro d’affari di vasto respiro le cui dinamiche, grazie alle riflessioni di una nutrita storiografia, sono note. Da un lato la decadenza delle fiere della Champagne come nodo dei traffici monetari e di merci – i primi essendosi in realtà già contratti dalla fine del XIII secolo – e dall’altro il fattore con-giunturale che vide realizzarsi un cambiamento del mercato dei metalli e un incremento della produzione laniera delle grandi città italiane – che influenzò in modo deciso il trasferimento di flussi su nuove direttrici, la nascita di traffici inediti, lo spa-lancarsi di piazze e mercati prima ignorati e la contemporanea chiusura di quelli tradizionali – rappresentarono ostacoli insor-montabili per i mercatores senesi che si trovarono in difficoltà nel mercato finanziario, sempre più indotto a privilegiare l’oro rispetto all’argento, e si trovarono in difficoltà nel commercio per la mancanza di una struttura produttiva locale che consen-tisse loro di reggere il confronto con l’agguerrita concorrenza fiorentina, solo per citare quella più vicina 45. Molte compagnie si videro allora costrette a ridurre le loro ambizioni, alcune ir-retite in spirali di debiti e pendenze da cui non si sarebbero più liberate scivolarono in procedure fallimentari lunghe e noiose, altre, tra cui quella dei Piccolomini forse più pronti di molti colleghi a capire la chiusura delle prospettive internazionali e prendere atto della fine di un ciclo, anticiparono il fallimento cessando l’attività e riconvertendo immediatamente capitali e risorse in una dimensione locale 46.In questo trasferimento, in questa dislocazione di competenze e denari dal giro internazionale a quello territoriale, referente im-portante fu la finanza pubblica dove il carattere a breve termi-ne dei prestiti, gli alti indici di retribuzione degli interessi, che oscillavano da un minimo del 10% ad un massimo del 30%, garantirono agli uomini d’affari senesi margini di profitto forse

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limitati rispetto a quelli di alcuni decenni prima ma di livello non trascurabile in anni giudicati critici. La presenza di espo-nenti del vertice finanziario cittadino nel credito al Comune di Siena, attraverso la formula del prestito volontario a breve e del prestito su pegno fondiario, ben lungi dall’essere fenomeno episodico, nonostante il suo andamento discontinuo correlato al bisogno di spesa, rappresenta un dato strutturale dell’archi-tettura su cui si regge il finanziamento del disavanzo: allo stes-so modo che a Firenze, Lucca, Pisa, la presenza di un vivace tessuto economico autoctono impedisce il ricorso a prestatori forestieri, come avviene invece a Perugia, costretta a rivolgersi talvolta ai senesi stessi 47; perché se è vero che nel passaggio fra XIII e XIV secolo la banca senese è squassata – nel 1298 i Buonsignori, sono costretti a denunciare un fallimento per 200.000 ducati d’oro, nel 1312 la Societas Nova Tolomeorum de Senis, che raccoglie l’eredità della antica e prestigiosa Societas Filiorum domini Jacobi, deve chiudere i battenti dopo appena due anni dalla sua costituzione e negli stessi anni anche le imprese dei Forteguerri, Gallerani, Malavolti, appaiono pe-santemente indebitate e al centro di azioni legali promosse dai numerosi creditori 48 – ciò non comporta la scomparsa di ini-ziativa e, quel che più conta, tantomeno di risorse: il monopo-lio dei banchieri cittadini nel sostegno – oneroso – alla pubblica amministrazione rappresenta un indicatore vistoso che capitali e forza del credito continuano ad agire nella Siena del primo Trecento, spesso sotto il segno di una inossidabile continuità dei suoi protagonisti 49.

Ma il ricorso ai banchieri senesi da parte del Comune di Massa Marittima, se poteva essere motivato dalla fragilità del tessuto economico autoctono – di cui tuttavia troppo poco sappiamo – e dalla contestuale necessità dei finanzieri di riempire i ‘vuoti’ provocati dal rarefarsi delle attività internazionali con opera-zioni in zone più sicure e circoscritte, traeva le sue più profonde ragioni nelle sollecitazioni e nell’iniziativa politica e governativa

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di quegli anni. Il problema che si era aperto a Siena fra gli anni ’60 e ’80 del Duecento era soprattutto un problema di equili-brio interno fra le forze sociali che concorrevano alla costruzio-ne del ‘pubblico’: ma pacificazione interna e contenimento dello strapotere aristocratico vanno di pari passo con uno slittamen-to in senso filopapale e guelfo che muta rapporti e relazioni di potere nel quadro di Toscana – la pacificazione con Firenze ne è il segno più eclatante – e nel più ampio scacchiere nazionale e internazionale. A partire dagli anni Ottanta del Duecento e nel corso dei decenni successivi le questioni che il collegio di gover-no popolare e mercantile si trovò invece ad affrontare furono quelle derivanti dalle esigenze di costruzione statuale, dalla ge-stione della sempre più complessa struttura amministrativa e fiscale, dalla volontà di assoggettamento del territorio, da un governo del contado reso difficoltoso dalla diversità degli inter-locutori politici e delle forme locali di dominio 50.Il carattere della legislazione antimagnatizia, aliena da ogni in-tento punitivo nei confronti dei ‘grandi’, garantì l’apertura di ampi spazi di partecipazione e di intervento politico-economi-co ai casati – disposti a plasmare i loro atteggiamenti e le loro ambizioni con gli sviluppi in corso – che ebbero dunque sotto il governo dei Nove piena occasione di inserirsi nel gioco della ri-partizione di cariche pubbliche e uffici comunali. Fondamentale per la pace sociale interna è la proiezione esterna, la connessio-ne fra le aspirazioni ad un maggior prestigio familiare da parte dell’élite magnatizia e la politica e gli obiettivi comunali. Su questo terreno si realizza un’obiettiva convergenza: le capacità politico – militari dei magnati senesi, da sempre al centro di un ampio réseau di relazioni, le loro cospicue ricchezze, sono poste ‘al servizio’ della crescita cittadina. Crescita in cui tutti i ceti sociali possono riconoscersi.La clausola che dall’accordo del 1276 in avanti impone al Comune di Massa l’estrazione senese dei suoi podestà, risponde a un desiderio in equilibrio fra le ragioni del pubblico e quelle del privato: l’esigenza istituzionale di governo del territorio pro-

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voca dei benefici contraccolpi sotto il profilo del prestigio per-sonale, determina un indotto che ridonda a vantaggio dell’indi-viduo e del lignaggio. Il governo del territorio offre sviluppo di carriera sociale attraverso il rettorato e il rettorato attraverso il credito: lo sanno bene i finanzieri senesi. La presenza di ban-chieri-prestatori al Comune di Massa nelle fila dei suoi rettori e dei suoi capitani è particolarmente fitta, l’aderenza onomastica impressionante 51. A questo si aggiunga l’interesse difficilmente equivocabile dei magnati per le vene di metalli preziosi che di-segnano il sottosuolo maremmano: a questo interesse piegaro-no la concessione di prestiti a beneficio sia dell’ente comunale che degli enti ecclesiastici del territorio 52, e la tessitura di una accorta strategia matrimoniale che doveva rivelarsi un formi-dabile strumento di espansione della loro influenza oltreché del loro patrimonio 53. Consolidamento patrimoniale, non scevro dal godimento di diritti agganciati al possesso di castra, e le-gami matrimoniali ricevettero il silenzioso plauso o il formale appoggio del governo perché se da un lato le alleanze di sangue erano uno degli strumenti più utilizzati dai lignaggi magnati-zi per ingrossare il campo dei loro interessi privati, dall’altro costituivano pur sempre un legame tra la città e il territorio, e questo era motivo di incoraggiamento oltreché di controllo 54.Il raccordo fra segmenti magnatizi e lignaggi aristocratici con-tribuisce ad esaltare l’attitudine dei magnati alla rappresentan-za istituzionale e alla negoziazione: non è un dato biografico di poco rilievo l’intervento di Guglielmino proprio negli stessi anni in cui finanzia l’attività amministrativa di Siena e di Massa, alla stipulazione – in qualità di procuratore del Comune della sua città prima e dei nobili di Sassoforte poi – dell’atto di ac-comandigia del castello che Longarello e Ghinozzo di Pepone fanno ai governanti nel 1316 55. Un appoggio non formale al progresso della politica estera senese, a cui due anni prima ave-va dato un ulteriore contributo partecipando alla ratifica di un tregua del Comune di Siena con una comunità dello stato 56, che va a saldarsi e ad intrecciarsi alla trama degli interessi eco-

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nomici, dei rapporti istituzionali, personali, politici, che legano il banchiere alla sua città, ai lignaggi di Maremma, al Comune di Massa Marittima. Una trama che è solo specchio parziale della più densa e complessa rete di rapporti, relazioni, interessi che – negli anni in cui Siena manifesta i suoi sforzi per la com-pattazione di un distretto territoriale che ambisce a prolungarsi verso il Meridione e il mare – legano la città ai suoi magnati, ai gruppi aristocratici del territorio, alla comunità e al vescovo di Massa Marittima. In un circuito costante fra capitale, stra-tegie fondiarie, ruolo istituzionale. Il sostegno dell’alta finan-za senese al Comune di Massa Marittima è per Siena, tramite Guglielmino e la qualificata rappresentanza magnatizia di cui egli è parte, uno strumento di controllo: ogni rapporto di cre-dito vincolando chi presta e chi riceve in un rapporto dal sa-pore inequivocabilmente clientelare, tesse una rete di obblighi tali che ogni valutazione finanziaria può diventare secondaria rispetto ai vantaggi in termini di potere e di controllo sociale che esso genera. Al contempo quel che appare come un ‘cronico indebitamento’ di Massa Marittima è utilizzato dal governo popolare come strumento di costruzione del consenso interno: il deficit del Comune massano, con le opportunità che offre, nutre e dà sostanza al compromesso sociale e politico che in-quadra i rapporti fra Popolo e magnati 57.Un compromesso che – proprio perché violentemente esposto alle tensioni tra bisogni/speranze individuali e di gruppo e biso-gni e funzioni espresse e assicurate dal gruppo al potere, dalla prassi di governo e dal ‘sistema’ faticosamente costruito – è con-tinuamente soggetto alla rinegoziazione. Il solido collegamento a più riprese marcato tra i casata e il governo dei Nove tanto sul piano dell’agire pubblico quanto a livello privato, dove una ricca tessitura di rapporti d’affari, parentele, convergenze di interessi economici, affinità culturali e di modus vivendi avreb-bero agito per uniformare sul piano sociale le due categorie, se ha opportunamente suggerito il carattere aperto del regime e la sua permeabilità all’influenza dei magnati – referente econo-

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mico e politico essenziale nell’azione di governo – non deve far passare in secondo piano le differenze riguardo alla fisionomia dei due gruppi né alle caratteristiche del dominio a cui ‘i medi mercanti’ dettero vita 58.Ranuccio dei Balzi e la famiglia di Baco di Priore si imparenta-rono con Guglielmino 59: ma se membri dei noveschi forti di un livello di ricchezza e di prestigio comparabili a quelli dei clan magnatizi si avvicinarono per via matrimoniale a importanti casati cittadini 60, in genere l’oligarchia al potere partecipò al possesso fondiario e castrense in misura minore e in una posi-zione di più scarso rilievo rispetto ai magnati 61, conseguenza forse del fatto che questi mercanti nella loro generalità, e sal-vando le eccezioni, non furono – per lo meno allo stato delle conoscenze attuali – tra i maggiori e più fortunati protagonisti di quel clamoroso successo bancario di portata internaziona-le che fece la fama dei senesi in Europa e a cui si legarono le possibilità di ascesa di molti gruppi parentali magnatizi. La distinzione tra noveschi e magnati, benché non riproponibile nella ideale cristallizzazione salveminiana, era comunque di tal segno da non prospettare nel corso del primo Trecento formule esaurienti di superamento e di annullamento dello scarto. In questo torno di tempo l’élite dirigente cittadina nel suo com-plesso, ben lungi dal configurarsi come gruppo sociale omo-geneo spaccato al suo interno solo da una discriminazione di tipo politico che – come alcuni eruditi settecenteschi andavano teorizzando – avrebbe formalmente collocato alcuni al di qua e altri al di là della barriera antimagnatizia 62, era piuttosto frut-to di un conflitto che portava impresso nella sua fisionomia un vizio di nascita: l’essere “un conflitto dal robusto significato di classe” e contemporaneamente non esserlo “mai puramen-te” 63: Le basi economiche dei due gruppi erano – nonostante il progressivo innescarsi man mano che il secolo maturava di meccanismi destinati ad alterare profondamente il quadro di ripartizione della ricchezza in termini che appaiono totalmente rovesciati nel corso del Quattrocento 64 – ancora distanti e di

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peso contrastante: e questo senza voler negare, di contro, l’esi-stenza di un’area comune di collocazione sociale di ampiezza direi però limitata, dove i due segmenti pur politicamente divisi nei ranghi di nobiles e populares tendevano a confondersi ed assimilarsi. Contemporaneamente, per tutto il tempo che durò il loro longevo regime (1287-1355), l’atteggiamento dei Nove ebbe il suo punto fermo nella consapevole impossibilità di ri-nunciare all’apporto dei casati, ma anche il suo costante rife-rimento nella denunciata e mai tollerata protervia dei nobili e potentes: i quali frustati nel loro corpo sociale da marcate disparità economiche, connotati da tradizioni consortili ostil-mente e crudelmente avverse fra loro che ne impedivano un compattamento, contribuivano ulteriormente a complicare la già complicata dialettica politica e sociale 65.

L’usura, la terra, l’impresa

Nel contado, i capitali del banchiere avanzano con sistemati-ca, decisa propagazione. Nessun grosso acquisto. Per alcuni anni il padre di Guglielmino, Guglielmo Cencio ricama una paziente, delicata opera di ricomposizione fondiaria in curia di Serre di Rapolano. Il primo contratto è stretto nell’autunno del 1275: un pezzo di terra in “Valle Fonteluchi” comprato per 100 lire da donna Benincasa e Pacinello, abitanti a Serre. Poi una pioggia di coriandoli, campi, boschi, piccole vigne, strappati a prezzi modesti, a volte modestissimi. L’acquisto più massic-cio Guglielmo Cencio lo conclude proprio nell’ottobre 1275, quando investe 250 lire per una casa “in castro de Serris” e due appezzamenti nella curia, “in loco Monte sancti Andree”. Quando muore, tra l’ottobre e il novembre del 1278, il figlio Bartolomeo, fratello di Guglielmino, subentra e dà seguito alla politica paterna di acquisizioni fondiarie nell’area. E di nuovo striminziti fazzoletti di terra, 4 lire, 25 lire, 13 lire, vanno a finire nelle mani degli eredi di Cencio 66.

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Ma il fenomeno cambia improvvisamente di scala nel novem-bre 1278, quando alcuni uomini del casato – Salomone di Guglielmo per 1/3, i fratelli Conte e Bartolomeo del defunto Bartolomeo per altro terzo, e i figli di Cencio, Bartolomeo, Enea e il nostro Guglielmino per l’ultimo terzo – si uniscono nell’ac-quisto da alcuni Cacciaconti di tre quote indivise del castrum di Modanella, del suo distretto e dei connessi diritti “dominii et iurisdictionis et rectorie et signorie ipsius”, al prezzo di 600 lire. Il contratto esplicita il portato patrimoniale dell’acquisi-zione. Il possesso si estende su “medietatem castellaris […] que quidem fuit castrum muratum et habitatum et vocatum vulga-riter castrum de Modanella, et totos muros residuos et reman-sos et casalinum cuiusdam palatii olim in dicto castellari”, sulla metà delle terre, i boschi e i pascoli, i poggi che circondano il castello 67, su “poderibus et tenimentis” posti nella corte di Modanella tenuti dagli uomini che abitano il castello e concessi loro “a dicto domino Bernardino et a nobismet ipsis”, affer-mano i Cacciaconti, in cambio di afficta e prestazioni che però sono taciuti. Uomini legati ai vecchi signori da un contratto patrimoniale ma anche da un rapporto di fidelitas che sottende il primo, si sostanzia forse di prerogative specificamente legate al dominatus loci, ed è ben evidenziato dalla locuzione “homi-nes et fideles nostros” con cui i venditori aprono l’elenco dei nomi dei coloni che in virtù della transazione passano da quel momento sotto i nuovi “domini” 68.Non sono chiare le dinamiche, ma mentre nella zona di Serre di Rapolano il fratello Bartolomeo cedeva il campo al congiun-to Bernardino di Alamanno che nel 1284 dava il via alla sua importante operazione fondiaria rilevando da Bartolomeo la proprietà degli eredi di Cencio 69, anche Guglielmino e i fratelli rinunciarono alla loro quota-parte sul castello, forse alienando a favore dei collaterali che li avevano affiancati nell’acquisto. Nel 1318 il censimento fiscale dei beni immobili dei cittadi-ni senesi 70, amputato da una lacuna documentaria che inve-ste le ‘poste’ di parte dei Piccolomini allirati nel Pozzo di San

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Martino 71, non registra il castrum tra le proprietà familiari, che invece atti molto successivi – anni Settanta del Trecento – mostrano di nuovo nelle mani dei consorti di Guglielmino: è il 1372 quando il “miles streenuus dominus Andreas filius quon-dam bone memorie Francisci Mei de Piccholominibus, ut domi-nus et possessor fortilitii sive opidi de Modanella, suo nomine proprio nec non vice et nomine omnium singulorum consan-guineorum suorum consortium qui iura habent in fortillitio seu opido de Modanella predicta et eius curia” elegge degli arbitri a cui affidare la risoluzione della lite che lo oppone alla comunità di Serre di Rapolano in merito all’estensione dei confini della curia del castello 72. Il miles Andrea di Francesco, a questa data unico titolare nominato della proprietà castrense, è il figlio ed erede del Bartolomeo (Meo) di Bartolomeo che compariva tra gli acquirenti del 1278: non vengono nominativamente citati gli altri consanguinei che vantano iura su Modanella, ma è pro-babile che fossero i discendenti di Conte e di Salomone a cui il gioco delle eredità aveva trasmesso il possesso delle porzioni acquistate dai loro avi, e con i quali – lui e i figli di Salomone contro le cugine Tessa e Vanna di Conte – Andrea si era trovato in lite per questioni ereditarie 73.Guglielmino dovette disfarsi delle sue quote a favore dei parenti probabilmente fra 1299 e 1304 dal momento che non compare assieme a Conte di Bartolomeo che agisce anche per il fratello e Salomone di Guglielmo quando nel gennaio di quell’anno i tre decisero di ampliare i loro fondi nella zona con l’acquisto, da Neri di Michele abitante a Lucignano Valdichiana, di res et possessiones et plateas intorno e dentro al castello 74: forse essendone già rimasti a quella data gli unici possessori. Ma era presente invece cinque anni prima all’atto con cui il gruppo parentale, rappresentato da Salomone di Guglielmo, pro tertia parte, Conte e Meo, pro alia tertia parte e da lui, pro alia ter-tia parte residua, procedeva ad una permuta con l’ospedale di Santa Maria della Scala di alcuni beni posti alle Serre per incre-mentare i loro comuni possessi intorno a Modanella 75. Dopo

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le alienazioni di primo Trecento, i beni fondiari di Guglielmino dislocati nell’area posseduti in indiviso con i consorti, fra Serre, Rapolano e Foiano, si ridussero drasticamente. Nel 1318 essi avevano ormai soltanto il connotato di un residuo: nelle due curie la sua ricchezza immobiliare non arrivava a 150 lire. A questa data il grosso della sua proprietà terriera, la cui stima complessiva sfiora 14.000 lire di denari senesi per 222 etta-ri circa (1708 staiori) 76, si compattava invece in quattro co-munità dello stato, di cui tre poste sullo stesso asse, Petroio, Bibbiano Cacciaconti, Corsignano e più a nord Asciano 77. Gli ufficiali stimarono a Petroio 25 appezzamenti vignati, lavora-tivi, campii, prativi, boschivi e lamati per 745 staiori, alcune case, palazzi e un mulino; misurarono 384 staiori di terra a Bibbiano Cacciaconti, 10 parcelle a grande prevalenza di la-vorativo con una casa; a Corsignano individuarono un terreno lavorativo, un casalino, sei case, una platea; ad Asciano trova-rono “unum podere et domum, cappannam, plateam, ortum terram laboratoriam et vineatam, sodam et boschum”, posto a Le Ronbole, che con suoi 194 staiori di terra fu valutato oltre 1.400 lire. Di minore o scarsissima entità i possessi nella zona intorno alla città, a Maggiano, e le piccole chiazze di proprietà di Bagno a Macereto, 1 staioro di terra, la metà di una casa per 209 lire di valore 78.Una parte dei profitti realizzati con il credito è ‘trasformata’ dunque in terra. Finanzia l’uscita del miles Guglielmino dalla città 79, la sua spinta in avanti verso il contado. La relazione fra ‘capitale’ e ‘interesse fondiario’ è chiara 80. Fra la prima e la se-conda decade del Trecento il figlio Meuccio, la cui ricchezza im-mobiliare purtroppo non compare nei registri della Tavola 81, entra in possesso ad Asciano, al costo di 6.000 lire, di una pos-sessione appartenuta a membri dei Gallerani formata da “vine-am, terram, domos, palatium [et] molendinum”. Sono gli anni in cui la febbre del prestar denaro divora Meuccio: è infatti un credito insoluto che egli vanta nei confronti di Giovanni di Ciampolo dei Gallerani e la sua famiglia – che dagli anni

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centrali del Duecento comprano ed investono in terre intorno ad Asciano – a trasferire nelle sue mani il consistente agglome-rato 82. Dunque: una parte dei profitti realizzati nel credito (ai comuni) è reinvestita nel credito (ai privati) il quale determi-na una ricaduta patrimoniale. L’attività di prestito si indirizza verso proprietari cittadini, Gallerani, Montanini, Squarcialupi, Saracini 83, ma soprattutto comitatini. Prestiti usurari e specu-lazioni costituiscono il nerbo dell’intervento di Guglielmino e del figlio in alcune comunità dello stato: nella ‘sua’ Corsignano Guglielmino presta, finanzia, anticipa denaro e grano a molti abitanti del castello, alcuni dei quali soltanto dopo la sua mor-te saranno rimborsati dall’erede delle usure e delle estorsioni inlicita patite 84; a Monticchiello nel 1316 Meuccio ottiene dal Podestà decreto di bando per alcuni debitori insolventi del pa-dre abitanti in quella curia, obbligati “ex causa mutui” per un ammontare di 866 lire: cifra che crebbe in seguito all’acquisto da parte del Piccolomini di ulteriori diritti di credito contro i medesimi 85.Documentato un po’ ovunque nell’Italia comunale, e con qual-che sfumatura rispetto all’Italia anche in ambito europeo, l’in-debitamento contadino, creando i presupposti di un drastico ridimensionamento dei possessi dei piccoli coltivatori indipen-denti che manifestarono una crescente difficoltà a mantenere il possesso della terra, rappresentò uno dei mezzi che più favori-rono l’incremento della proprietà cittadina. Il fenomeno noto nelle sue risultanze, è stato oggetto di analisi che hanno consen-tito di tracciare un quadro abbastanza dettagliato delle varie forme dell’indebitamento e dei criteri di elargizione del credito: esso assunse in molte parti della penisola la forma del prestito su pegno fondiario e del mutuo in natura che accompagnando-si più in generale a forme diverse di speculazione sui prodotti agricoli consentirono a banchieri e mercanti, proprietari cit-tadini di diversa condizione sociale, di ampliare i loro fondi o compattarli in nuclei più organici attraverso mirate operazioni di prestiti a coloni in difficoltà finanziaria. Coloni molto spesso

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costretti a vendere anticipatamente e a prezzi più bassi il loro raccolto, con il rischio, se ci si mettevano carestie e temporali, di cadere in una spirale di debiti e, nell’impossibilità di restitu-ire denari e derrate agricole entro i termpi pattuiti, di perdere i loro beni 86. Queste forme di speculazione mostrano a Siena una scarsa incidenza per buona parte del XIII secolo, quando acquisti di frumento a termine e mutui in natura non sono nu-merosi, ma con il trascorrere del tempo, nei decenni finali del secolo e soprattutto durante la prima metà del successivo la situazione cambia, il numero e la natura dei contratti cresce la-sciandone chiaramente intravedere, scrive Pinto, “il contenuto usurario” 87.In linea con l’atteggiamento di molti esponenti del suo casa-to 88 e dei casati cittadini che utilizzarono il veicolo del credito finanziario per penetrare nel territorio, rappresentando in molti casi la prima tappa di un progetto di espansione signorile e il mezzo più facile per estendere e compattare i loro dominii ter-ritoriali 89, non è azzardato immaginare che dietro il prestatore usurario Guglielmino – immagine topica del cattivo possente pronto a dilapidare e spogliare dei loro beni coloni e villani 90 – si celi la figura dell’imprenditore che con una sistematica stra-tegia di concessione di mutui, anticipi in natura e acquisti di crediti 91, procede a realizzare un ampliamento della sua pro-prietà. A Corsignano una ragnatela di mutui, pazientemente e inesorabilmente tessuta da Guglielmino e dall’attivo consorte Enea di Corrado 92 in questo primo Trecento, ghermisce gli abi-tanti di quella comunità in un abbraccio letale 93, un abbraccio che via via si allarga, mentre in sottofondo risuonano i bandi del podestà per insolvenza 94 e qualcuno tenta di sottrarsi, rea-gendo come può 95 a un abbraccio che via via s’allarga, si allar-ga ad abbracciare uomini di altre comunità, si allarga al punto da abbracciare comunità intere 96.Non sempre tuttavia dietro il prestito rurale sta l’unghiata di chi è avido di terra. Il credito di 104 moggi di grano che nel 1319 Guglielmino vanta contro più uomini della curia di

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Selvole, ex causa mutui, e per il cui pagamento si coobbligò il magnate Rinaldo di Volto Malavolti, impegnandosi per i de-bitori all’osservanza dei termini di restituzione del prestito 97, rinvia alla prassi dei prestiti in denaro da ripagare con pro-dotti agricoli secondo la formula del cosiddetto acquisto del grano in erba e si inscrive nel quadro di un sistema di scambi di surplus agricoli. Ma se è certo che Guglielmino salda l’at-tività creditizia alle necessità e alle opportunità di mercato e commercializzazione di derrate alimentari 98 e dell’allevamento del bestiame di cui si è ravvisato qualche indizio 99, non è però possibile quantificare il giro d’affari legato alla compravendita dei prodotti della terra: ogni tentativo in tal senso si scontra con una documentazione avara che consente soltanto di fare ipotesi e di identificare ambiti di intervento più che di dare fon-damento quantitativo a considerazioni circa profitti e raggio di azione. E tuttavia sul terreno del diritto, laddove il magnate interseca la legislazione annonaria, si apre uno spiraglio per comprendere i margini di interesse legati alla costituzione di quei vasti patrimoni rurali magnatizi che per i Piccolomini una fonte fiscale lacunosa ci mostra, con grande difetto, pari a una superficie di oltre 1.720 ettari: interessi fondiari consistenti, interfacciati dal positivo ruolo che i magnati sono chiamati a giocare in città nei momenti di carestia 100, e contemporanea-mente, proprio per questo, capaci di condizionare i rapporti di forza con il governo novesco.

Statuimus et ordinamus […] quod dictus iudex teneatur et debeat mictere pro magnatibus et pro omnibus et singulis no-bilibus civitatis et comitatus et iurisdictionis Senarum infra unum mensem postquam iuraverit suum offitium, et maxime pro illis qui starent et habent castra et terras in testeriis et cir-ca testerias civitatis Senarum, et pro omnibus aliis de quibus esset aliqua suspitio vel qui denuntiarentur quod micterent extra comitatum et iurisdictionem Senarum, et eos coram se facere comparere et facere iurare et eos compellere quod sibi dent idoneos fideiussores de parendo mandatis suis et quod

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contra devetum et ordinamentum deveti non facient nec fieri facient aliquo modo vel forma 101.

Alla libera commercializzazione di merci e derrate in vigore nel primo Duecento, i Nove sostituirono con il finire del secolo, una serie di provvedimenti che andarono a regolamentare la materia: stabilirono la creazione di depositi, collocati in deter-minati punti dello stato allo scopo di stabilizzare i prezzi; pre-videro controlli serrati sulla distribuzione del grano prodotto nelle comunità di contado, a cui chiesero di inviare determinate quantità a prezzi fissi; fissarono infine la proibizione di espor-tare grano dai confini di Siena con l’istituzione del devetum che un ufficio ad hoc era incaricato di far rispettare 102. Proprio l’individuazione dei soggetti verso cui doveva esercitarsi il com-pito di controllo dei “custodes deveti”, disegna, pur nel tratto scarno della formula, la vastità del raggio di azione dei magnati nella commercializzazione extra comitatum et iurisdictionem Senarum dei loro prodotti agricoli.

Guglielmino è un imprenditore pieno di spirito d’iniziativa, di-namico. Tra 1318 e 1324 gli ufficiali senesi predisposti all’ag-giornamento dei dati fiscali integrano, cassano, riscrivono, ren-dono conto nella ‘posta’ del proprietario immobiliare e fondia-rio più ricco dei Piccolomini – che con la sua dotazione stimata oltre 30.000 lire si colloca nell’empireo dei contribuenti più ricchi della città – degli acquisti e delle cessioni che movimenta-no la cospicua dotazione patrimoniale. Cede una possessione a Maggiano, acquista terra a Corsignano e nella vicina Capraia, compra un orto in San Clemente che va ad aggiungersi ai faz-zoletti ortivi in San Giorgio, compra alcune quote di prestigiosi immobili nel ‘popolo’ di San Pietro alle Scale, che vanno ad aggiungersi alle quote dei prestigiosi palazzi che possiede in San Martino e al palatium dove abita, il più prestigioso fra tut-ti, cum apotecis et domibus simul coniuntis, ubicato nei pressi di piazza del Campo 103. Gli acquisti per via diretta e le per-

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mute razionalizzano, compensano, amplificano, nel contado, i risultati della messa in opera della strategia usuraria. Nel 1324 Meuccio per 8.000 lire sottrae all’ospedale di Santa Maria del-la Scala la proprietà di “quandam petiam terre laboratorie et vineate cum palatio, duobus claustris, uno columbario, una domo acta pro granario et cellario, quattuor domibus actis pro meççaiuolis, uno furno et quattuor capannis” nella curia di Asciano 104. Accorpamento fondiario e mezzadria. La tendenza a concentrare gli investimenti terrieri nel settore sud, sud-est del contado, dove fin dal XIII secolo la famiglia di Guglielmino indirizza le proprie risorse 105, si inserisce in un processo di espansione mirante alla costituzione di nuclei uniformi e omo-genei. La ricomposizione dei fondi rurali entro spazi contigui, la polarizzazione della proprietà intorno a nuclei di rilevante peso fondiario ha il merito di creare unità agricole più facil-mente gestibili e controllabili, consente forme di sfruttamento e di impresa tese ad ottenere un’alta redditività della terra 106: el palazo di Meuccio di misser Gulglielmino de Picholomini de Senis – come scriveva il 22 maggio 1379 il notaio Giovacchino di Ambrogio Piccolomini chiamato a rogare un contratto do-tale nei pressi delle sue mura 107, a quel tempo già tornate per volontà del defunto Meuccio nelle mani dell’ospedale 108 – con i suoi chiostri, il granaio, le cantine, è con tutta probabilità utilizzato dal proprietario come residenza padronale, ma il palazo ha vieppiù una funzione agricola qualificandosi come motore e perno dell’azienda – a cui fanno capo quattro case da lavoratore, molte parcelle lavorative, petias messe a vigna – e forse anche come punto di riferimento per quegli altri mezzadri e coloni che lavorano, per il banchiere, le terre circostanti. A quella possessione appoderata Meuccio aggancerà pian piano altri poderi “in curia de Sciano” e nella zona “de Serris” “et de Rapolano”: nell’atto che riceve le sue ultime volontà, rogato nell’ottobre 1347, probabilmente nell’imminenza o già nell’im-perversare della peste, le immagini di sei poderi concessi in usu-frutto vitalizio a donna Niccoluccia sua moglie, “cum domibus

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et casamentis et quibuscumque hedifitiis, bestiis et massariciis meis et super eis existentibus”, ricordano lo sforzo, ormai com-piuto, di compattazione fondiaria 109.Accorpamento fondiario, mezzadria ma anche macchine idrau-liche. Nel 1319 Guglielmino compra a Petroio la metà di un podere e di due mulini “cum molis, retecinis et ferramentis om-nibus opportunis molendinis aque”, sul fiume Strove 110; due anni dopo Meuccio, che agisce a suo nome, rileva dal proprie-tario, Colto di Bindo e sua moglie, la quota rimanente per un investimento totale di oltre 1.400 lire 111. Anche la possessione acquistata nel 1317 dai Gallerani, benché rivenduta qualche anno dopo, acquisiva al figlio oltre al palazzo, alle case, alle terre, le “quindecim partes de vigintiquatuor partibus pro in-diviso domus et molendini et massaritiarum et ferramentorum, spectantium ad dictum molendinii et eius resedii, positum in flumine Botri” 112: proprio sul torrente Botro erano presenti al-meno tre impianti molitori per la lavorazione del ferro, sotto-posto, prima di essere trasformato in manufatto, ad una serie di trattamenti effettuati per mezzo di magli idraulici, e almeno altre sei macchine molitorie, la cui proprietà divisa in quote si spartivano ricchi cittadini senesi e qualche agiato ascianese 113; in questo gruppo doveva collocarsi il molendinum acquistato dal Piccolomini, anche se nessun indizio aiuta a capire che uti-lizzazione facessero padre e figlio di questo e delle altre quote dei mulini che possedevano e quanto in termini di profitto in natura o denari gli garantivano. A titolo di curiosità può es-sere utile richiamare il dato citato nel contratto con cui – nel-lo stesso anno in cui Guglielmino comprava la prima quota dei due impianti molitori sul fiume Strove – il consorte Cione di Alamanno, che possedeva la quarta parte pro indiviso del mulino de Saxis lungo il corso del fiume Merse, lo alluogava per tre anni a Meo detto Bostaccino: un affitto annuale di 10 moggi di frumento boni et puri, a staio di Siena, che il mugnaio era obbligato a misurare e consegnare ogni anno “apud dictum molendinum” 114.

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Poderi, terre, mulini. Meuccio e il padre non subiscono il fa-scino promanato dai castelli. L’acquisto e la rapida cessione di Modanella sembra mostrare da parte dei due banchieri solo un tiepido interesse per il dominio castrense 115: del re-sto, pochi e poco numerosi – Modanella, Torre a Castello, Castiglione Barota – i tre castra ad inizio Trecento nelle mani dei Piccolomini, rappresentano, soprattutto se paragonati con le contemporanee coordinazioni signorili di Salimbeni, Gallerani, Bonsignori, Forteguerri, Arzocchi, dominii di scarso rilievo in considerazione del numero limitato e soprattutto dell’esiguità demografica che li caratterizza 116. Rispetto a castelli popolosi come Trequanda o Civitella Ardenghesca, essi si configuravano come centri insediativi di modesta se non modestissima impor-tanza 117 inserendosi pienamente entro il modello e il circuito dei cosiddetti ‘piccoli castelli’ più vicino alla città. La fisionomia sociodemografica del castrum di Modanella, l’ambiguità della formula stringata con cui nell’atto di acquisto del 1278 si indi-ca la natura dei poteri signorili sul castello 118 – giacché dietro l’affermazione di quei ‘diritti di dominio e di giurisdizione e di signoria’ potevano stare situazioni diverse connotate dai tratti della signoria fondiaria oppure da quelli molto più stringenti prefiguranti la signoria di banno 119 – ed infine l’alone oscuro che avvolge il fenomeno nel corso degli anni successivi, induco-no ad ipotizzare forme assai evanescenti di poteri (e di proven-ti) di natura giuspubblicistica goduti da Guglielmino, almeno finché ne fu titolare, e dai consorti: il castello, in cui non pare ravvisabile una realtà economica, sociale e politica distinta da quella signorile, doveva funzionare di fatto come centro di or-ganizzazione agricola, rivestendo al suo interno il dominus o i domini prevalentemente un ruolo economico legato al credito e al possesso fondiario, fondamentale per la vita della comunità.È invece chiara la valenza imprenditoriale che Guglielmino conferì alla propria azione nel contado. Si dotò di appezza-menti ortivi e piccole vigne nel suburbio della città e di com-patti nuclei policolturali nel contado, portando avanti una po-

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litica di ricomposizione dei beni terrieri – resa possibile dalla disponibilità di capitali – dai connotati quasi ‘pionieristici’: l’area della Scialenga si caratterizzava infatti ancora agli inizi del Trecento per un possesso frammentato e un assetto della proprietà “prevalentemente” costituito da un reticolo di piccoli e piccolissimi appezzamenti in cui solo “lentamente” si stava facendo strada l’appoderamento 120. Approfittando delle diffi-coltà finanziarie di cittadini e comitatini, di un mercato ter-riero e immobiliare assai dinamico 121 (che favorì la nascita, lo strutturarsi, il modificarsi e perfino il dissolversi di possessi fondiari in tempi abbastanza rapidi), nonché dell’erosione pro-gressiva che consumava e sfaldava le concentrazione territo-riale di molti gruppi aristocratici del territorio 122 (l’acquisto del castello di Modanella da membri dei Cacciaconti fu parte di un processo più generale che vide membri di molti casati cittadini subentrare poco a poco al dominio esercitato in alcu-ne zone del contado da famiglie dell’antica nobiltà comitale, attraverso modalità che unirono agli acquisti per via diretta la messa a punto di strategie matrimoniali) 123, Guglielmino portò avanti con successo la sua strategia patrimoniale. Dapprima in regime di comunione di beni con i consorti, secondo un uso caratteristico e usuale fra lignaggi aristocratici 124, dovette li-berarsi a un certo punto dalle briglie di una gestione colletti-va forse a lui poco congeniale rimanendo da solo a prendere decisioni e iniziativa: comprò, accorpò, permutò, affittò, fece fruttare la sua terra in quantità e misura tale che nel 1318 era l’uomo più ricco di famiglia. L’uomo più ricco di una fami-glia ricca 125. Probabilmente l’essere figlio di un banchiere e nipote di un altro banchiere che aveva conosciuto l’ebbrezza delle fiere internazionali non furono elementi da sottovaluta-re: le ricchezze e il ‘credito’ professionale e sociale accumulati dai suoi avi dovevano essere cospicui e costituire una eredità materiale e immateriale di non poco valore. Se i tempi fossero stati più propizi forse il destino di Guglielmino sarebbe stato un altro: forse avrebbe abbandonato Siena per frequentare, al

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pari del padre e soprattutto del nonno Bartolomeo, le grandi piazze della mercatura e la nobiltà laica ed ecclesiastica di tutta Europa. Invece esercitò esclusivamente in ambito cittadino ed entro i confini dello stato. In città trascorse la sua vita: abitò nei pressi del campus fori, nel ‘terzo’ di San Martino, e nel ‘ter-zo’ di San Martino prese in moglie Rabe, figlia di Giotto dei Ragnoni che condividevano con i Piccolomini status magnati-zio e spazio quotidiano 126. Ma quando dalla banca passò alla terra, fece viaggiare la sua natura di investitore trasferendola dall’uno all’altro piano. Investì, guadagnando, nel credito alla finanza pubblica, parte di quei guadagni reinvestì nel credito ai privati – denaro che avrebbe portato terra, grano, altro denaro – e altra parte reinvestì nell’acquisto di terra: terra che avrebbe portato altro grano e altro denaro, denaro che sarebbe stato reinvestito in altra terra e in altro credito. Altra parte infine, certamente minoritaria, trasformò in lusso: come il palatium nel quale stabilì la sua residenza.

Ultime volontà

A Siena, come quasi dappertutto nelle città comunali dell’Italia bassomedievale, la terra rappresentò la misura più immediata della ricchezza, come testimonia la struttura della Tavola che riservò tutto il suo spazio alla proprietà immobiliare e alla terra, descritta e valutata parcella per parcella nel tentativo di offrire una stima il più possibile completa dei possessi di cia-scun proprietario. L’esclusione dal rilevamento di merci, dena-ri, crediti, derrate agricole, bestiame, suppellettili – ricchezza nascosta, brillìo fuggitivo di lectos et massaritias super lectilia, paramenta lanea et linea, ornamenta – che affiora grazie alle parole con cui il figlio Meuccio descriverà nel suo testamento i beni, gli arredi, le scorte alimentari, frumentum, bladum et vinum, di cui sono i ricolmi le stanze del suo palazzo e i granai dei suoi poderi 127 – rende dunque questa fonte uno specchio

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poco fedele della ricchezza complessiva di un banchiere la cui vita e la cui fortuna si imbricava per tanta parte su speculazioni finanziarie e operazioni commerciali.Rimane così confinata nel cuore segreto del silenzio l’entità e la natura dell’eredità che alla morte di Guglielmino passò nel-le mani del suo unico erede universale. Il nipote Salomone di Bartolomeo. Venuto a mancare il padre del fanciullo, negli anni a cavallo fra XIII e XIV secolo 128, Guglielmino ne aveva assunto la tutela: gli affari avevano portato Bartolomeo, come altri con-sorti, in Friuli e in Friuli, morendo, Bartolomeo aveva lasciato al figlio una bella proprietà fondiaria – valutata nell’Estimo se-nese 12.666 lire 129 – e qualche faccenda da sistemare. Che toc-cò allo zio Guglielmino concludere, “tutorio nomine”, recando-si nel 1320 a Cividale 130. Guglielmino morì qualche anno più tardi perché il 1 luglio 1324, Salamone aveva già iniziato – ad esecuzione certamente delle ultime volontà del congiunto – la lunga e pietosa sequela delle restituzioni del maltolto a nome del banchiere defunto 131 che si sarebbero protratte, anche con l’ausilio del frate predicatore Enea, fino all’anno 1340 132. Nel marzo 1325 il nipote procedette alla riscossione dei crediti del defuntus. È proprio l’atto di quietanza rilasciato a Salomone dal Comune di Massa Marittima, costretto a saldare con lui – che agisce hereditario nomine – i debiti con il finanziere, che consente di cogliere la scelta testamentaria di Guglielmino, es-sendo le sue ultime volontà andate perdute:

prefatus dominus Guglielminus defuntus sit et suum testa-mentum condiderit et ultimam voluntatem in quo quidem testamento idem dominus Guglielminus Salamonem olim Bartolomei de Senis nepotem suum carnalem heredem suum universalem sibi instituit ut in dicto testamento plenissime continetur 133.

Il principio di agnazione – ovvero il riconoscimento delle linee di discendenza maschili – era anche a Siena come in gran parte dell’Italia e dell’Europa medievale il cardine su cui si struttu-

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rava la trasmissione del patrimonio familiare. La cornice nor-mativa che regolava la materia successoria codificava concetti derivanti dal diritto romano che assegnava l’eredità ai figli ma-schi legittimi ed escludeva le donne dalla partecipazione all’as-se ereditario attraverso la regola dell’exclusio propter dotem che prevedeva con il saldo della dote l’estinzione dei loro diritti patrimoniali 134. Le analisi svolte sui testamenti dei gruppi pa-rentali aristocratici e mercantili delle città dell’Italia comuna-le hanno evidenziato una sostanziale uniformità di situazioni consentendo di inserire entro uno schema lineare i rapporti di successione che appaiono basarsi su pochi, chiari elementi, co-muni tanto alla nobiltà romana che a quella torinese, sia agli aristocratici genovesi che alle più cospicue famiglie fiorentine: la trasmissione della ricchezza si basava infatti essenzialmen-te sul privilegio accordato equis portionibus ai figli maschi – privi generalmente di autonomia patrimoniale fino a quando il padre era in vita – e sull’erosione dei diritti delle donne ad opera degli uomini: erosione talvolta sanzionata dalla legge, talvolta, in sua mancanza, dall’uso 135. Le maglie larghe della griglia giuridica e consuetudinaria consentivano tuttavia delle eccezioni e dei cedimenti rispetto all’uniformità di una pratica largamente diffusa nella società urbana medievale che danno ragione a Manlio Bellomo e agli studiosi di storia del diritto quando affermano l’imprescindibile necessità di ricostruire la storia della famiglia medievale attraverso un costante raffronto fra dottrina e prassi, considerando dunque i comportamenti so-ciali non solo come risultato del dettato della legge bensì come frutto delle esigenze, delle contraddizioni e dei molteplici con-dizionamenti che agitavano la società 136.A Siena la legislazione non impediva ai testatori di nominare loro eredi le figlie, ma il problema delle successioni ereditarie era impostato su criteri che favorivano chiaramente la struttura agnatizia: basti pensare al divieto posto alle donne di succedere nella proprietà di alcuna “torre, overo palaço congionto con torre, overo casa torre”; alla limitazione posta ai loro dirit-

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ti patrimoniali che prevedeva solo il riconoscimento di avere la dote dal padre – che poteva essere rivendicata insieme alla “donationem propter nuptias” una volta morto il marito – e di disporre liberamente soltanto della quarta parte dei propri beni dotali 137; alle disposizioni infine che regolamentavano i casi di morte intestata che sancivano la preferenza accordata alle linee maschili parificando i diritti di successione di nipoti e fratelli del defunto 138.I testamenti redatti dagli uomini del casato confermano la ten-denza in atto nella società urbana comunale di privilegiare la linea maschile attenendosi in larga maggioranza i Piccolomini al principio di mantenere la ricchezza patrimoniale all’interno del ramo di discendenza paterno e di procedere alla designazio-ne dei propri figli maschi come eredi universali pro equali parte “in omnibus bonis […] mobilibus et inmobilibus, iuribus et ac-tionibus quibuscumque ubicumque sunt et inveni poterunt” 139. A fronte della volontà del pater familias di far partecipare i figli maschi in modo paritetico all’asse ereditario, nella pratica si registravano delle smagliature. Non sono rare infatti le testi-monianze di differenziazioni nel valore e nell’entità del patri-monio spettante a ciascun coerede in seguito alla ripartizione di beni fino a quel momento posseduti in comune: segno che al principio di uguaglianza tanto spesso sancito dalle disposizioni testamentarie si affiancò la prassi di favorire un figlio, o che, per motivi diversi, un fratello finiva per prevalere sugli altri 140. Queste smagliature, non riconducibili all’adozione di pratiche di primogenitura – mai espressamente previste nei testamenti – traevano origine piuttosto dalla libertà concessa ai padri dalla legislazione comunale di introdurre nelle loro ultime volontà meliorationes a favore di un figlio, non ponendo la normativa senese limitazioni in questo senso all’arbitrio del testatore 141.L’architettura agnatizia della successione, risulta chiara anche dai criteri stabiliti in caso di mancanza di figli o di loro pre-morte. Nel momento in cui un figlio del testatore fosse venuto a mancare, la sua quota-parte di eredità era trasferita ai suoi di-

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scendenti legittimi ma se il defunto non aveva figli essa passava ai suoi fratelli o ai loro rispettivi figli 142, e in favore dei fratelli o dei nipoti testarono infatti molti uomini privi di prole, come Neri di Gabriello che divise in parti uguali il suo patrimonio fra i nove orfani maschi, figli dei suoi tre fratelli già scomparsi all’epoca in rogò le sue ultime volontà 143.Ma la vicenda di Guglielmino apre uno spiraglio diverso: il passaggio dei suoi beni ad un collaterale, non era imputabile alla mancanza di figli maschi, legittimi e viventi, cui trasmettere il proprio patrimonio: nella scelta di nominare Salomone di Bartolomeo heredem suum universalem, al pari di quella di al-cuni decenni posteriore, fatta dal figlio di lui, Meuccio, che det-tando nel 1347 le sue ultime volontà dispose dei lasciti a favore dell’unico suo figlio maschio – Niccolò, che si era fatto frate predicatore – e del fratello Giovanni, altro figlio maschio di Guglielmino, ma istituì suoi eredi universali pro equis portioni-bus i cinque figli del già beneficiato cugino Salomone, a quella data ormai defunto 144, sembra manifestarsi la decisa volontà di evitare la frammentazione di un patrimonio, che doveva essere ingente, attraverso il privilegio concesso ad un’unica linea di discendenza. Su cui è convogliato il complesso della ricchezza a svantaggio della discendenza diretta: motivo che spiegherebbe l’avvio alla vita religiosa dell’unico erede maschio di Meuccio.Un restringimento dell’asse ereditario che suggerisce l’attuazio-ne da parte di Guglielmino prima e Meuccio poi, di una ‘stra-tegia di gruppo’ che obbligava i suoi componenti al riconosci-mento del maggior valore degli interessi della schiatta rispetto a quelli dei singoli. Una dura legge del lignaggio che probabil-mente nel 1347, anno in cui Meuccio rogava il testamento, si irrigidiva ulteriormente nel tentativo di depotenziare gli effetti distruttivi di una crisi demografica che la peste, fuori dalle fi-nestre della casa in San Martino dove il testatore dettava le sue ultime volontà, aveva già iniziato a seminare.

1 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, XVII, 44-75: “Così ancor su per strema testa / di quel settimo cerchio tutto solo / andai, dove sedea la

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gente mesta. / Per li occhi fora scoppiava lor duolo; / di qua, di là soccorìen con le mani / quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:/non altrimenti fan di state i cani / or col ceffo, or col piè, quando sono morsi / o da pulci o da mosche o da tafani. / Poi che nel viso a certi li occhi porsi, / ne’ quali il doloroso foco casca, / non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi / che dal collo a ciascun pendea una tasca / ch’avea certo colore e certo segno, / e quindi par che’l loro occhio si pasca …”. La polemica del poeta nei confronti di quei sùbiti guadagni, strumento di dominio e sopraffazione a vantaggio di poche famiglie e pochi individui, torna nella pagine de Il Convivio dove le “maladette ricchezze”, naturalmente “vili”, sono disgiunte e lontane dalla “nobilitade” (Il Convivio, IV, 10-13): la lettura è di N. Sapegno, I, p. 192.

2 Diplomatico Riformagioni, 1287 ottobre 20. Tra i ‘compratori’ di una con-sistente quota-parte (20 delle 30 parti) della Selva del Lago dietro esborso di 50.000 lire figuravano molti magnati: Mino di Cristoforo Tolomei, Bardo di Ildebrando Mignanelli, Manno di Squarcialupo Squarcialupi, Nuccio Bello Saracini, e tre membri dei Piccolomini, Tato di Gabriello, Salomone di Guglielmo e Bernardino di Alamanno. Ad essi si aggiungevano altri citta-dini, tra cui il novesco Manfredo dei Balzi. Vedi anche Consiglio Generale 34, cc. 48v-49r, 50v-51r (15 e 18 ottobre 1287). Notizia delle alienazioni temporanee della Selva del Lago decise dal governo novesco in Bowsky, Le finanze, pp. 288-291; per una storia del grande ‘bosco’ di Siena Massai, La selva del lago. Il bosco di Siena nel Medioevo, 1998; Redon, Des maisons et des arbres. Note sur La Montagnola siennoise entre XIII et XIV siècle, 1987, pp. 369-393; Redon, Une foret ubaine: la “Selva del Lago”, “villes, bonnes villes, cités et capitales”, 1989, pp. 247-257.

3 La decisione di Siena di impegnare i suoi beni per reperire denaro e la ces-sione a favore di Meuccio in Consiglio Generale 86, cc. 117r-29r (15 otto-bre 1315) e cc. 144r-146v (26 ottobre 1315). Con atto del 28 aprile 1316 Meuccio, richiamato il consenso del padre Guglielmino, rilasciava quietan-za al priore dei Nove, Bindo Vincenti, di essere stato soddisfatto dei denari dovutigli restituendogli i terreni del Piano, e cioè “totum terrenum et sil-vam scampatam que dicitur Silva Lacus positum in districtu Senarum loco dicto Silva Lacus”. Poi Meuccio nomina il consorte Tato di Gabriello suo procuratore per immettere il Comune nella tenuta dei beni. Diplomatico Riformagioni, 1316 aprile 28.

4 Diplomatico Riformagioni, 1315 marzo 20 (2 pergamene); Diplomatico Riformagioni, 1321 aprile 2. I primi due atti contengono la vendita del ca-stello e la contemporanea donazione dei diritti giurisdizionali in favore del Comune. Il terzo atto datato 2 aprile 1321 contiene il pagamento del debito e il riscatto della proprietà di Castiglion d’Orcia; proprio in questo rogito è richiamato l’impegno di Meuccio a vendere dopo sette anni e la coobbligla-zione dei consorti Guglielmino di Guglielmo, Andrea e Mino di Salomone, Matteo di Roma Piccolomini, e di Benuccio di Benuccio Salimbeni, Guccio di Rinaldo Renaldini, Deo di Guccio Tolomei, Niccolò di Bandino giudice e Goro di Giacomo di Gregorio (il quale secondo Bowksy avrebbe sedu-

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to nella magistratura dei Nove durante il bimestre gennaio-febbraio 1314: Bowsky, Le finanze, p. 292, nota). Anche il cronista Agnolo registra la no-tizia, con qualche omissione nei nomi dei fideiussori: Cronaca senese di Agnolo, p. 358. La notizia della vendita del castello anche in Biccherna 131, c. 13r (30 giugno 1316) che registra il versamento di lire 30.000 da parte di “missere Ghuglielmino de Picchogliuomini […] per la chompra di Chastiglione di Valdorcia e diello rendare al chomune di Siena sechondo i patti del chomuno di Siena e lui […]”.

5 “Sanesi tenero consiglio in tre dì: a dì X di febraio mezedima, giovedì e venardì, consigli generali ne’ quali si consultò il bisogno del comuno, e fu deliberato che s’inpegnasse il castello di Castiglione di Valdorcia a misser Guglielmo Guglielmi de’ Piccolomini di Siena per libre XXX mila; infra 7 anni el comuno lo potesse riscuotare: e in questi 7 anni el comuno di Siena deba dare libre 12, soldi X per cento di detti denari; e deba darli per la guardia del cassaro libre settecento ogni anni; e così fu fatto il contratto a Meuccio di misser Guglielmo fratello di detto misser Guglielmo a dì 20 di marzo, e déro le ricolte di rendare il detto castello al comune di Siena fra set-te anni, quando el comuno lo volesse; e passati sette anni sia il detto castello in perpetuo del detto misser Guglielmo e Minuccio […]. E poi a dì detto cioè a dì 24 di marzo e’ signori Nove di Siena féro consiglio generale di can-pana di popolo, di 50 per terzo; fu ordinato che ogni podestà per inanzi ve-nisse a Siena fusse tenuto per saramento di fare proposta in consiglio come il detto castello si riconprasse, e anco ordinoro che ai detti Minuccio gli fusse data la cabella del vino e quella cogliesse e pagassesi di detto denaro. E così il detto Minuccio entrò in tenuta di detto castello a dì 24 di marzo. E poi nel 1321 el comuno di Siena riconprò il detto castello” (Cronaca senese di Agnolo, p. 358). La notizia di Agnolo circa le 700 lire pagate ogni anno per il salario delle guardie si è rivelata imprecisa – il cronista cade in errore anche sul rapporto di parentela fra Meuccio e Guglielmo come si vede – es-sendo infatti registrati nei volumi di Biccherna pagamenti per un ammonta-re di 400 lire [cfr. Biccherna 133, c. 118v (25 marzo 1317); Biccherna 134, c. 105v (17 ottobre 1317)]. Sappiamo anche dalle discussioni svoltesi in Consiglio Generale dove, come racconta Agnolo, tutti i Podestà erano tenuti entro quindici giorni dalla loro elezione a portare il tema del riacquisto del castello, che in alcuni momenti altri creditori sostituirono il Piccolomini nella riscossione dei proventi della gabella del vino. In seguito a un prestito di 6.000 fiorini d’oro imposto il 12 luglio 1318 ai più ricchi uomini della città – che rimangono anonimi – per far fronte ai costi della campagna con-tro Massa Marittima, quei prestatori ebbero la precedenza sul Piccolomini; infatti le disposizioni della presta indicavano specificamente che da allora in poi Meuccio doveva essere rimborsato ogni mese con i proventi della gabella dopo che fossero stati soddisfatti i contribuenti al prestito forzoso. L’intero introito della gabella cioè sarebbe tornato a lui dopo che quelli fossero stati rimborsati completamente [Consiglio Generale 91, cc. 50v-52r; alcuni esempi delle discussioni consiliari sul tema in Consiglio Generale 87,

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cc. 37r-40r (7 luglio 1316); Consiglio Generale 89, cc. 39r-40r (3 luglio 1317)]. Per i pagamenti regolari ai Piccolomini vedi Biccherna 140, cc. 145r, 148v, 152v, 155r, 159v, 160r, 168r. Come si intuisce la Gabella versava i soldi alla Biccherna che poi procedeva all’esborso. Curioso anche notare che gli ufficiali del Comune annotarono le perdite incontrate “pro cambio” (per il mutato saggio di cambio tra il fiorini d’oro e la valuta senese) perché dal momento della vendita iniziale, il fiorino d’oro era aumentato di valore da 58 soldi a 64 soldi, 4 denari. Vedi anche Bowsky, Le finanze, p. 244.

6 Sotto la data del 5 febbraio 1319 esiste soltanto l’atto di cessione “titulo locationis ad pensionem sive mercedem” fatto da Meuccio in favore del comune del “burgum Rocche et Pietre de Albegna et totam curiam et di-strictum, et iurisdictionem dicte terre sive burgi et molendina dicte terre sive burgi quod sive que olim fuerunt comunis Senarum” che comprende anche la contemporanea procura data al padre di agire in suo nome: “Meuccius domini Gullielmini […] dedit et concessit dicto domino Gullielmino patre suo plena licentiam et liberam potestatem et plenam et liberam administra-tionem offitium et baliam obligandi iure pignori et ypothece omnia et singu-la bona et res et possessiones quascumque dicti Meucci et quas seu que dic-tus Meuccius habet, tenet et possidet […], in omni et qualibet promissione, contractu et in omni et qualibet obligatione quam et quem ipse dominum Gullielminus faceret vel faciet comuni Senarum vel dominis Novem […] vel alteri cuicumque persone pro ipso comuni recipienti […]”. Diplomatico Riformagioni, 1318 febbraio 5. La ricostruzione della vicenda è in due con-tratti successivi, uno datato 19 febbraio nel quale i fideiussori di Meuccio si impegnano a far rispettare le clausole del patto (Diplomatico Riformagioni, 1318 febbraio 19), e un altro che ratifica l’avvenuta restituzione del prestito e la cessione dei due castelli al comune (Diplomatico Riformagioni, 1324 gennaio 8). Il prestito di Meuccio fu registrato dagli ufficiali di Gabella: è denunziato “[…] quod comune civitatis Senarum per suum sindicum vendit Roccham et Petram de Albegna pro pretio florenorum auri sex mi-liam Meuccio domini Guillelmi de Piccolominibus” (Gabella 40, c. 216r). Notizia del prestito da Agnolo di Tura del Grasso: “Sanesi féro consiglio generale de la canpana e di popolo e di 50 per terzo nel quale a provedere e’ denari per lo bisogno del comuno, e fu ordinato porre pegno el castello de la Rocha e la Pietra dell’Albegna, e così féro il contratto per vendita per fiori-ni… per tenpo di 7 anni, la quale s’inpegnò a Meuccio di misser Guglielmo de’ Picolomini di Siena, e questo fu all’entrata di febraio”. Cronaca senese di Agnolo, p. 374.

7 I fideiussiori si impegnano affinché “[…] dictus Meuccius receptabit et reti-nebit et stare, esse et morari permictet in dicta terra videlicet in burgo dic-tarum Rocche et Pietre intra dictum tempus septem annorum, masnatam et gentem comunis Senarum, equites et pedites quotiens et quando et quanto dicto comuni Senarum placuerit ad voluntatem dicti comunis morantur ibi-dem, et ad guerram et pacem et cavalcatam et cavalcatas faciendi ex inde”. Diplomatico Riformagioni, 1318 febbraio 19.

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8 Con atto del 19 febbraio 1319 il padre di Meuccio, Guglielmino, Andrea di Salomone Piccolomini e un Guglielmo di Cone di Monticchiello “con-stituti in presentia providorum sive prudentium virorum dominorum Novem […] promiserunt et convenerunt discreto viro Ture quondam ser Guiduccini nunc priori dictorum dominorum Novem […] se in solidum facturos et curaturos ita et taliter cum effectu quod Meuccius filius dicti domini Gullielmini […] hinc ad septem annos proximos venturos et intra dictum tempus septem annorum […] quandocumque dicto comuni placue-rit post requisitionem dicti comunis factam ad duos menses computandos, iure dominii et plene proprietatis et possessionis vendet, dabit et tradet sive quasi tradet dicto comuni Senarum […] castrum sive terram Roccham et Pietram de Albegna olim Comunis Senarum et curiam et districtum et iuri-sdictionem, signoriam, dominium dictorum castri et terre Rocche et Pietre […]”. Diplomatico Riformagioni, 1318 febbraio 19.

9 Nell’atto dell’8 gennaio 1325 Meuccio rilasciando quietanza al priore dei Nove allora in carica, Sandro di Turchio, dichiara di essere stato pagato dei 6.000 fiorini con tre pagamenti: una prima rata di 1.000 fiorini “in una parte” e 822 fiorini, 11 soldi e 3 denari “ad aurum” “in alia parte”; una seconda dell’importo di 1.000 fiorini e “in alia parte” di 800 fiorini; ed infine l’ultima rata di 2.377 fiorini, 8 soldi e 9 denari. Il 26 gennaio 1325 Lando di Bartaluccio e Tuccio detto Buffone, procuratori di Guglielmino, “tradiderunt Francescho Cennis Adote, sindico et procuratore comunis Senarum […] corporalem possessionem fortilitiarum Pietre et Rocche de Albegna […]”. Diplomatico Riformagioni, 1324 gennaio 8; Diplomatico Riformagioni, 1324 gennaio 26.

10 L’obbligo stabilito all’indomani della alienazione a Meuccio di Castiglion d’Orcia e dei castelli di Rocca Albegna e Pietra: cfr. Consiglio Generale 93, cc. 35v-37v (1319 luglio 3). Così il cronista: “a dì 24 di marzo e’ signori Nove di Siena féro consiglio generale di canpana di popolo, di 50 per terzo; fu ordinato che ogni podestà per inanzi venisse a Siena fusse tenuto per sa-ramento di fare proposta in consiglio come il detto castello si riconprasse” (Cronaca senese di Agnolo, p. 358).

11 È infatti a partire dal secondo decennio del Trecento – almeno a Siena e Pisa – che i costi della guerra subiscono una impennata. Per il periodo preceden-te infatti scrive Maria Ginatempo, almeno in Toscana, “la guerra costava ancora relativamente poco, fruttava o poteva fruttare molto”: Ginatempo, Prima del debito. Finanziamento della spesa pubblica e gestione del deficit nelle grandi città toscane, 2000, pp. 42-47: 42.

12 Cammarosano, Recensione a W. Bowsky, The finance of the Commune of Siena, 1971, pp. 301-322.

13 Ibidem, pp. 310 e 321-222.14 Bowsky, Le finanze, pp. 155-225, soprattutto pp. 164-168.15 Cammarosano, Recensione, 1971, p. 311. Barlucchi, Il contado senese

all’epoca dei Nove, 1998, pp. 229 sgg.16 Ginatempo, Prima del debito, 2000, passim, la citazione a p. 34. Sul si-

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stema finanziario senese oltre ai già citati, si vedano anche Cecinato, L’amministrazione finanziaria del Comune di Siena nel secolo XIII, 1966, pp. 164-235; Isaacs, Fisco e politica a Siena nel Trecento, 1973, pp. 22-46.

17 Estimo 114, cc. 41r-50r e 121r-129v. Per l’analisi del patrimonio familiare desunto dalla ‘Tavola delle Possessioni’ rinvio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 254 sgg., e tabelle in Appendice.

18 La disponibilità economica e il possesso di cospicue ricchezze erano elemen-ti non secondari per l’eleggibilità alla carica poiché infatti avveniva spesso che i Quattro Provveditori che avevano il controllo pressoché assoluto su tutte le entrate e le uscite del Comune fossero chiamati a garantire perso-nalmente i debiti contratti verso terzi e a rimpinguare a titolo personale le casse pubbliche. Come è stato chiarito da Cosimo Cecinato la tecnica del pareggio del bilancio che fu consueta nell’amministrazione senese prevede-va infatti che al termine di ogni semestre i provveditori in carica coprissero il disavanzo obbligando i loro successori ad anticipare a titolo di mutuo i denari necessari; l’anticipo veniva poi ripagato in parte con le entrate ordi-narie e in parte con il ricorso a nuovi prestiti che nel caso in cui il comune non riuscisse a rimborsare nel corso del semestre, o rimaneva comunque un disavanzo, provocavano nuovamente il ricorso, a chiusura di esercizio, al credito dei provveditori futuri: Vedi Cecinato, L’amministrazione finanzia-ria, 1966, pp. 164-235 (in particolare pp. 205-206); e Ginatempo, Prima del debito, 2000, pp. 52-53 che sottolinea la ‘normalità’ di questa tecnica di pareggio del bilancio, “grado zero del finanziamento del disavanzo”. Per la carica ricoperta da Guglielmino Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori [ms.], c. 90.

19 Sui prestiti su pegno fondiario come modalità di gestione del disavanzo da parte del gruppo dirigente cittadino si veda Ginatempo, Prima del debito, 2000, pp. 83-87, che sottolinea la peculiarità del caso senese rispetto al qua-dro toscano notando come i Nove si indirizzarono, vista la rischiosità della forma di finanziamento, verso quei magnati con cui vantavano “rapporti armonici”. Sulle concessioni ai Salimbeni dei castelli valdorciani, negli anni Settanta del Duecento vedi retro, p. 256. Le vicende dei casati seguirono strade diverse: all’accendersi delle speranze ghibelline dei Bonsignori e di altri fra 1313 e 1314, contestuale al malcontento provocato dal fallimento di molte societates familiari, i Gallerani, dopo i fenomeni di rebellisimo e le dure repressioni del governo novesco, privilegiarono una strategia di tipo territoriale distaccandosi progressivamente dalla città e dall’ambi-to politico ed economico urbano: Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, pp. 207 sgg. Sul fallimento di alcune compagnie bancarie senesi, tra cui Bonsignori, Tolomei, Forteguerri, tra 1310 e 1315 con procedure che si pro-lungarono per molti anni English, Enterprise and Liability, 1988; per i Tolomei Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 285-297; per la ‘Gran Tavola’ Chiaudano, I Rotschild del Duecento, 1935, pp. 103-142; Idem, Note e documenti sulla compagnia dei Bonsignori, 1930, pp. 114-142; Catoni,

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voce Bonsignori Niccolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, 11, 1970, pp. 400-403 e voce Bonsignori Orlando, ibidem, pp. 410-412. I fenomeni di ribellione nel contado ad opera dei casati ghibellini Cronaca senese di Agnolo, pp. 331 sgg.

20 Diplomatico Ricci, 1278 settembre 20.21 L’atto in Diplomatico Riformagioni, 1267 maggio 13, edito in Mondolfo,

Il Populus, pp. 71 sgg.22 Diplomatico Archivio Generale, 1258 agosto 14. Dal contratto che regi-

stra la transazione finanziaria con l’arcivescovo di Colonia, si evince che la societas familiare impegnata nella transazione aggregava al corpo di compagnia il ramo dei figli di Ugone, Bartolomeo e Guglielmo, attraverso i rispettivi figli Guglielmo Cencio (figlio di Bartolomeo) e Bartolomeo, figlio di Guglielmo. Ricordo che il primo mutuo con l’eletto tedesco era stato contratto proprio da Bartolomeo di Ugone e Buonaventura di Lupello nel 1240: vedi retro, biografia di Piccolomo di Oltremonte, p. 118. Ricordo che Bartolomeo di Ugone era attivo nel mercato internazionale già nel 1226 quando insieme al congiunto Chiaramontese e ai soci Castellano Tabernaria e Giacomo di Maconcino concede un prestito al conte di Bar da riscuotere alla fiera di Provins (Schneider, Les marchands siennois et la Lorraine, pp. 394-395). Contestualmente all’impegno professionale, Bartolomeo riveste la carica di Console dei mercanti nel 1226 [Caleffo Vecchio, I, p. 330 (1226 novembre 16)] e nel 1231 quando insieme ai soci Albizo di Piero e Ranieri Codennacci “consules mercatorum” fa credito al Comune di 3.082 lire (Libri di Biccherna, IV, p. 178); ambasciatore (Libri di Biccherna, IV, p. 178), testimone ad alcuni atti di quietanza rilasciati dal Comune (Diplomatico Riformagioni, 1232 novembre 28; Diplomatico Riformagioni, 1232 dicembre 11), è Provveditore di Biccherna dal gennaio al luglio 1235 (Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori [ms.], c. 66), compare nel Consiglio della Campana [Caleffo Vecchio, II, pp. 456 (1237 luglio 28), 458 (1237 luglio 28), 502 (1239 agosto 22-30)]. Nel 1237 è incaricato della nomina del podestà nell’aprile (Diplomatico Riformagioni, 1237 aprile 9). Il fratello di Bartolomeo, Guglielmo, era stato esecutore testamentario di Ranieri di Rustichino: vedi retro p. 74.

23 A partire dall’ottobre 1275 Guglielmo Cencio persegue con tenacia una strategia di acquisizioni fondiarie nella zona di Serre di Rapolano che coin-volgono nel giro di contrattazioni soprattutto abitanti della comunità: dopo tre anni le sparse “petias terre” che egli ha comprato da 35 diversi venditori si compattano in una proprietà localizzata intorno a pochi toponimi. Una vocazione ‘tarda’ verso la terra: Cencio morirà tre anni dopo il primo con-tratto di acquisto, tra ottobre e novembre 1278. I contratti di acquisto che documentano l’investimento di Guglielmo Cencio, poi proseguiti dal figlio Bartolomeo, sono contenuti in copia nelle pergamene Diplomatico Santa Maria, 1275 novembre 12 (copia del 6 giugno 1284) che comprende gli atti stipulati in data 1275 novembre 12; 1275 ottobre 4; 1280 ottobre 26 (presa di possesso); 1278 novembre 16 (ratifica di una vendita); 1277 agosto 4.

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Diplomatico Archivio Generale, 1275 marzo 12 (copia del 6 giugno 1284) che comprende 1275 marzo 12; 1276 settembre 23; 1276 giugno 10; 1276 settembre 23; 1279 ottobre 21; 1276 maggio 29. Diplomatico Santa Maria, 1276 maggio 26 (copia del 6 giugno 1284) che comprende 1276 maggio 26; 1275 novembre 29; 1278 settembre 7; 1278 ottobre 11; 1279 gennaio 25; 1277 settembre 13; 1280 novembre 17; 1283 gennaio 28; 1283 gennaio 28; 1275 dicembre 7; 1275 marzo 23; 1277 settembre 9; 1277 ottobre 29. Diplomatico Santa Maria, 1276 marzo 27 (copia 6 giugno 1284) che com-prende gli atti 1276 marzo 26; 1277 maggio 30; 1275 dicembre 9; 1276 marzo 17; 1276 settembre 29; 1275 dicembre 18; 1276 maggio 20 (presa di possesso); 1277 maggio 21 (ratifica di una vendita); 1280 ottobre 24 (presa di possesso). Diplomatico Santa Maria, 1280 ottobre 27 (copia 6 giugno 1284) che contiene gli atti stipulati in data 1280 ottobre 27 (presa di posses-so); 1275 marzo 12; 1277 agosto 8; 1276 marzo 29; 1283 marzo 5 (presa di possesso); 1281 febbraio 4; 1282 marzo 6; 1276 febbraio 11; 1276 maggio 3; 1275 dicembre 8; 1276 febbraio 13; 1275 ottobre 4; 1277 settembre 13; 1275 ottobre 29; 1275 ottobre 4. E Diplomatico Santa Maria, 1277 settem-bre 13. Sugli investimenti familiari nell’area vedi ultra.

24 Diplomatico Ricci, 1269 ottobre 7: Guglielmo cedeva al genero dirit-ti reali e personali per un ammontare di 500 lire di denari senesi contro “Palmerium olim domini Bartalomei, qui vocatur Magliata, [suo fratello] et Ildibrandinum olim Bonfilii [Gallerani] et Ranerium olim domini Prioris, Leonem olim Bonaguide Menciarelli et versus societatem eorum, quam ha-bent cum filiis domini Rustichini [Piccolomini]”. Questo contratto è l’unica traccia del matrimonio tra sua figlia, la cui identità rimane sconosciuta, e Ranuccio dei Balzi. Secondo Giulio Prunai, Ranuccio avrebbe fatto parte della compagnia dei Buonsignori (Prunai, Carte mercantili, p. 610). Sulla presenza di Ranuccio nella signoria dei Quindecim bonorum virorum de-fensorum comunis et populi Senarum, vedi Caleffo Vecchio, III, pp. 1133, 1155, 1158-1159, 1167, 1170 (atto con cui la famiglia Piccolomini ratifica il compromesso di pace tra guelfi e ghibellini), 1175-1177, 1202, 1206. Nel marzo 1294 il congiunto di Ranuccio, Incontro quondam Iohannis de Balzis era priore dominorum novem gubernatorum: Caleffo Vecchio, III, p. 1366 (1293 marzo 8-9).

25 Diplomatico Bigazzi, 1336 aprile 17. Su Baco che sedette alla magistratura dei Nove nel bimestre settembre-ottobre 1298 e maggio-giugno 1310 vedi Bowsky, The “Buon Governo”, p. 279, n. 57.

26 Su Teri di Priore e la sua compagnia vedi Barlucchi, Il contado senese, p. 115. L’attestazione del matrimonio di Guglielmino nel suo testamento: Diplomatico Archivio Generale, 1347 ottobre 13.

27 Bowsky, Le finanze, p. 292, nota.28 Diplomatico Riformagioni Massa, 1307 febbraio 24. Il debito fu pagato

soltanto nel gennaio 1310 quando Guglielmino “fuit confessus sibi esse sa-tisfactum de dictis florenis ab Inghilberto Arrigi sindici comunis Masse”.

29 Diplomatico Riformagioni Massa, 1316 aprile 1; Diplomatico Riformagioni

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Massa, 1316 aprile 3. I senesi coobbligati al debito erano Ventotto di Gualtieri Renaldini, Mino Accarigi e Dino e Minoccio di Bando.

30 Diplomatico Riformagioni Massa, 1321 luglio 20 (obbligazione per 600 fio-rini d’oro con la fideiussione di Branca Accarigi e Niccoluccio Saracini “mi-lites”, promessa di restituzione entro sei mesi); Diplomatico Riformagioni Massa, 1321 settembre 9 (obbligazione per 800 fiorini d’oro con la fide-iussione di Niccoluccio di Guido Saracini, Cione di Mino Montanini, e promessa di restituirli entro sei mesi); Diplomatico Riformagioni Massa, 1321 gennaio 22 (obbligazione per 2.000 fiorini con promessa di paga-mento entro sei mesi); Diplomatico Riformagioni Massa, 1322 giugno 25 (obbligazione per 400 fiorini con promessa di pagamento in un anno). Di un ulteriore credito ammontante a 2.000 fiorini da notizia Diplomatico Riformagioni Massa, 1324 marzo 5 (vedi infra).

31 Una sintesi delle vicende politiche ed economiche della città di Massa in Volpe, Vescovi e Comune di Massa Marittima, 1964, pp. 5-139. Sulle miniere Lisini, Notizie delle miniere della Maremma Toscana, 1935, pp. 182-256; Balestracci, Alcune considerazioni su miniere e minatori nella società toscana del tardo medioevo, 1984, pp. 19-35. Piccinni, Le miniere del senese. Contributo alla messa a punto della cronologia dell’abbandono e della ripresa delle attività estrattive, 1999, pp. 239-254. La citazione è tratta da Tommasi, Dell’historie di Siena, p. 262 che riporterebbe, il con-dizionale è d’obbligo, la relazione svolta da Simone di Giacomo del Tondo incaricato nel 1334 dal governo di stendere un rapporto sulle caratteristiche ambientali e naturali del territorio (ma l’originale è perduta).

32 Nell’atto di quietanza rilasciato il 5 marzo 1325 da Salomone di Bartolomeo vengono richiamati i 6 precedenti contratti stipulati dal Piccolomini con l’indicazione del debito: risulta così che soltanto 8 giorni dopo l’accensione di un debito pari a 2.000 fiorini (22 gennaio 1322) fu stipulato un altro contratto per la stessa cifra e che procuratore di Guglielmino fu in quell’oc-casione Cione di Brettacone Salimbeni. Diplomatico Riformagioni Massa, 1324 marzo 5.

33 Tali prassi risulta in uso anche a Siena quando il Comune retribuiva con un interesse che arrivava a raddoppiarsi molti dei prestiti a lui fatti. Nel 1288 fece apparire come prestito effettivo una somma doppia rispetto a quella mutuata da un Malavolti che a fronte di un esborso pari a 5.000 lire ricevette pagamenti per 10.000 lire: Cassandro, La banca senese nei secoli XIII e XIV, 1987, pp. 109-161: 155.

34 Caggese, Classi e comuni rurali nel Medioevo italiano, 1907-1909. Per un inquadramento generale Artifoni, Salvemini e il medioevo, 1990, pp. 32 sgg. (da cui sono tratte le citazioni).

35 Fiumi, Sui rapporti economici tra città e contado nell’età comunale, 1956, pp. 16-68.

36 Idem, L’attività usuraria dei mercanti sangimignanesi nell’età comunale, 1961, pp. 145-162; Volpe, Vescovi e Comune, pp. 5-139. Muzzi, I prestiti volontari ai comuni di Colle e San Gimignano, 2000, pp. 235-250; Rauty,

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Finanziamento straordinario del comune di Pistoia con il ricorso al credi-to privato, 2000, pp. 191-208; Barlucchi, Il credito alle comunità rurali, 2000, pp. 105-118. Barlucchi, Il contado senese all’epoca dei Nove, 1997, pp. 229 sgg. (Il sistema fiscale in vigore nel contado).

37 Volpe, Vescovi e comune, pp. 89-90.38 Ibidem, p. 116.39 Ibidem, pp. 137-138.40 I risultati dell’analisi svolta per gran parte sul fondo Diplomatico

Riformagioni Massa, sono stati anticipati in Mucciarelli, Banchieri senesi nel credito ai Comuni (secoli XIII-XIV): il caso di Massa Marittima, rela-zione presentata al convegno di studi Le campagne dell’Italia centro-setten-trionale (secoli XII-XIV): la costruzione del dominio cittadino tra resistenze e integrazione (Siena, 29 maggio-1 giugno 2004), a cura di G. Piccinni, G. Pinto, i cui atti saranno entro breve pubblicati e a cui dati si rinvia. I docu-menti attestanti l’intervento dei magnati senesi in Diplomatico Riformagioni Massa, 1287 marzo 2; 1287 marzo 3; 1287 novembre 13; 1290 maggio 9; 1307 gennaio 10; 1307 febbraio 12; 1307 febbraio 20; 1307 febbraio 14; 1307 agosto 16; 1307 novembre 6; 1308 febbraio 5; 1309 giugno 29; 1308 luglio 22; 1309 giugno 4; 1309 luglio 14; 1310 settembre 6; 1311 aprile 7; 1314 dicembre 25; 1315 gennaio 8; 1315 maggio 18; 1316 aprile 1; 1316 aprile 2; 1316 aprile 7; 1316 giugno 27; 1316 luglio 24; 1316 dicembre 20; 1317…; 1319 febbraio 13; 1320 aprile 26; 1322 aprile 6; 1322 agosto 15; 1322 giugno 20-agosto 15; 1325 marzo 14; 1325 ottobre 3; 1325 ottobre 20; 1326 settembre 7; 1326 dicembre 9; 1327 settembre 19; 1328 giugno 13; 1328 ottobre 30; 1328 ottobre 13; 1328 novembre 2; 1331 agosto 16; 1334 gennaio 13; 1334 marzo 9; 1334 dicembre 8; 1340 gennaio 13; 1345 aprile 30; 1349 giugno 29. Sui Tolomei che a garanzia dei loro crediti otten-nero in pegno il castello di Pietra e i diritti sulle miniere di Montepozzali: Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 300-304.

41 I Salimbeni nella prima metà del Trecento accumularono un credito pari a circa 10.000 fiorini d’oro; Spinello di Ranuccio Forteguerri ne realizzò uno tra 1287 e 1290 di 4.000 lire senesi e 372 fiorini; i Malavolti tra 1316 e 1328 di 5.400 fiorini; un Accarigi risultava creditore nel 1331 di 2.400 fio-rini: Mucciarelli, Banchieri senesi, per un quadro analitico vedi la tabella ‘Prosopografia dei Prestatori’: i debiti del Comune di Massa verso banchieri senesi’.

42 Politica perseguita per esempio da Niccoluccio di Benuccio Salimbeni che nel gennaio del 1308 compra da Ciampolo Gallerani titoli per 2.000 lire (Riformagioni Massa, 1307 gennaio 10); da Mino di Arrigo degli Incontri diritti per 350 lire contro Pannocchia di Guglielmo da Travale (Riformagioni Massa, 1302 novembre 2): Mucciarelli, Banchieri senesi.

43 Come Guglielmino e Meuccio, allo stesso modo Lippo di Gaddo Malavolti mentre presta al Comune di Massa, anni 1314, 1326-28, 1334 figura anche tra i prestatori di quello di Siena: per Siena vedi Bowsky, Le finanze, p. 276. Per Massa, Mucciarelli, Banchieri senesi.

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44 Il coinvolgimento nel traffico dei panni della societas familiare è attestato dalla lettera spedita in quell’anno 1294 da un fattore che agiva a Provins e rendeva conto degli acquisti fatti: vedi retro, I discendenti di Ranieri di Rustichino.

45 Per le vicende della banca senese in questo torno di tempo Cassandro, La banca senese, 1987, pp. 150-158; Tangheroni, Siena e il commercio inter-nazionale, 1987, pp. 25-26.

46 Sui fallimenti delle compagnie senesi vedi English, Enterprise and liability, 1988; nel quadro di generale insicurezza che la caduta della Gran Tavola dei Bonsignori ingenerò appare singolare la decisione di alcuni uomini dei Tolomei di dare vita nel 1310 ad una nuova “societas” il cui raggio d’azio-ne avrebbe dovuto essere il mercato internazionale. Ma si trattò di una scelta sbagliata perché tre anni più tardi la compagnia manifestò i primi segnali preoccupanti di crisi che la portarono di lì a poco al fallimento: Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 285-297.

47 Ginatempo, Prima del debito, pp. 80-87. Per i prestiti richiesti ai Bonsignori dal Comune di Perugia vedi Bowsky, Le finanze, pp. 282 sgg.

48 English, Enterprise and Liability, pp. 78 sgg.; Mucciarelli, I Tolomei, pp. 285-297.

49 Sulla riconversione in atto nella banca senese a cavallo dei secoli XIII-XIV considerazioni generali espresse da Cassandro, La banca senese pp. 109-161. La ‘sopravvivenza’ di una tradizione bancaria cittadina è attestata an-che da recenti analisi di G. Piccinni che ne hanno svelato, per così dire, la ‘carsicità’: a metà Trecento – e per almeno una trentina d’anni – l’ospedale di Santa Maria della Scala funzionava di fatto come una banca pubblica accettando depositi e finanziando all’occorrenza il deficit comunale e nel 1472 finanziava a fondo perduto la nascita del primo, in Italia, Monte dei pegni laico e pubblico: come dire, scrive la studiosa, che “le professionalità del denaro che si erano sviluppate nel privato e poi ritirate dal mercato internazionale si riciclarono anche nel pubblico” (Piccinni, L’Ospedale e il mondo del denaro, 2003, pp. 17-27, vedi in particolare pp. 20-23, a p. 23 la citazione). Sui rinnovati slanci quattrocenteschi da parte di banchieri senesi che portano i nomi dei Benzi, Chigi, Tommasi, Spannocchi, i quali “forti di una tecnica che non aveva nulla da invidiare a quella vantata dai celebri cambisti fiorentini”, seppero sopravvivere alla recessione economica riu-scendo ad entrare nel giro di affari gravitante intorno alla corte pontificia, a mettere radici nel mercato cambiario veneziano, romano e napoletano e ad di inserirsi nei circuiti finanziari della penisola iberica, vedi ora: Tognetti, ‘Fra li compagni palesi et li ladri occulti’, 2004, pp. 27-101.

50 Cammarosano, Tradizione documentaria, pp. 74 sgg.51 Ricorrono nella carica di podestà e capitano di Massa Marittima tutti i

maggiori nomi dell’élite magnatizia senese, molti di loro contestualmen-te impegnati a finanziare le casse del suo Comune: Gallerani, Piccolomini, Tolomei, Saracini, Salimbeni, Malavolti, Forteguerri. Per i ruoli ricoperti dai Piccolomini: Cione di Alamanno (podestà nel 1303 e capitano nel 1304),

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Carlo di Gabriello, capitaneus generalis guerre civitatis Masse nel 1302 (Diplomatico Riformagioni Massa, 1302 settembre 25) e podestà nel 1310; Mocata di Gabriello, podestà nel 1336; Enea di Corrado (podestà nel 1343 e 1349): vedi Mucciarelli, Banchieri senesi, tabella ‘Prosopografia dei po-destà e dei capitani’; sui Piccolomini anche Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 231-238. Sui patti fra Siena e Massa che impongono il magistrato di estrazione cittadina, Volpe, Vescovi e comune, pp. 116-117.

52 Una delle prime operazioni di un certo spessore in cui risulta impegnato il banchiere Tolomeo della Piazza [Tolomei] negli anni venti del Duecento è un prestito al Comune di Massa di 550 marche d’oro. Nel corso degli anni Cinquanta, in società con i Bonsignori, la societas Tolomeorum finanzia il vescovo di Volterra: un finanziamento che finirà per assicurare loro i diritti sulle miniere e sul castello di Montieri. Alla fine del secolo e nel corso del successivo molti esponenti della famiglia risultano creditori del Comune: crediti a rimborso dei quali Massa cedette in pegno il castello di Pietra e i diritti di sfruttamento delle miniere di Montepozzali. Ai primi del Trecento anche il castello della Marsiliana cadde nelle mani di due membri della famiglia, questa volta per un mutuo verso il vescovo, un Tolomei anche lui. Nel corso degli anni Cinquanta del Duecento, in società con i Bonsignori, la societas Tolomeorum aveva finanziato il vescovo di Volterra: un finan-ziamento che finirà per assicurare loro i diritti sulle miniere e sul castello di Montieri. Vedi Mucciarelli, I Tolomei, pp. 87-97 (per l’affare di Montieri) e pp. 300-304.

53 Gli esempi sono numerosi e trovano restituzione leggendaria nella storia della Pia dei Tolomei: proprio ai Tolomei, uno dei casati più attivi a Massa Marittima, per questa via pervennero nelle loro mani i castelli di Gerfalco, Gavorrano, Castel di Pietra, Campagnatico, Prata, Argiano, Civitella Ardenghesca, Roccatederighi, Campiglia, Scarlino, Vignale. Mucciarelli, I Tolomei, pp. 214-224 e 302-302. La leggenda della Pia, Lisini, Bianchi Bandinelli, La Pia dantesca, 1939. Sull’espansione neo signorile dei casati senesi, anche in area maremmana vedi Giorgi, Il conflitto magnati/popola-ni, pp. 154 sgg.

54 Esemplare dell’ingerenza governativa il giuramento imposto nel 1282 a Tollo da Prata e fratelli nel momento della loro sottomissione a Siena: pren-dere in moglie donne scelte dal collegio di governo: Caleffo Vecchio, III, pp. 1243-1244 (1282 aprile 19). Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, pp. 170-171.

55 Diplomatico Riformagioni Massa, 1316 maggio 27; Diplomatico Riformagioni Massa, 1316 giugno 9.

56 Nel 1314 Guglielmino aveva rappresentato il Comune di Siena in occasio-ne della stipula di una tregua con la comunità di Lucignano Valdichiana: Diplomatico Riformagioni, 1314… (s.d.).

57 Questo tipo di relazione non è peculiare del caso senese: le analisi di Gian Maria Varanini, Giorgio Cracco, Natascia Carlotto, individuano nella dialettica fra Padova e Vicenza alcune analogie con quanto detto, soprat-

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tutto nel circuito costante che si stabilisce fra capitale, interessi fondiari, ruolo istituzionale dei padovani all’indomani dell’annessione di Vicenza: vedi Carlotto, La città custodita. Politica e finanza a Vicenza dalla ca-duta di Ezzelino al vicariato imperiale (1259-1312), 1993; Hyde, Padova nell’età di Dante. Storia sociale di una città stato italiana, 1985; Storia di Vicenza. L’età medievale a cura di G. Cracco, 1988, soprattutto pp. 129-131; Varanini, Istituzioni, società e politica nel Veneto dal comune alla signoria (XIII-1329), 1991, pp. 264-422.

58 La sottolineatura di una continuità dell’intervento magnatizio nella vita politica economica e senese nonché delle connessioni anche private tra no-veschi e magnati in Bowsky, The “Buon Governo”, pp. 379-380; Idem, City and contado: Military Relationship and Communal Bonds Fourteenth Century, in Renaissance Studies in Honor of Hans Baron, 1971, pp. 75-98, alle pp. 81-84; Idem, Le finanze, soprattutto alle pp. 259-307; Idem, Un co-mune italiano, alle pp. 120 sgg. dove l’autore evidenzia i collegamenti pro-fessionali e matrimoniali. Vedi anche le opinioni espresse in merito al ruolo e al peso dei casati senesi da Cammarosano, Le campagne senesi, che si sofferma sulle “forme di egemonia e di influenza dei nobiles de casato” so-prattutto in relazione al possesso fondiario e alle giurisdizioni castrensi con alcuni accenni, più generali, al ruolo finanziario e politico (soprattutto alle pp. 219-222); e dello stesso autore Tradizione documentaria, p. 73 e nota. In English, Five Magnate Families, 1982, lo studioso quasi sull’onda di un influsso ottokariano tende a negare differenze di classe, di matrice economi-ca e sociale, tra noveschi e magnati (vedi in particolare pp. 141 sgg.). Anche Marrara, Riseduti e nobiltà. Profilo storico-istituzionale di un’oligarchia toscana nei secoli XVI-XVIII, 1976, soprattutto alle pp. 67 sgg., sminuisce il peso delle differenze tra noveschi e magnati (“la distinzione tutt’altro che rigorosa tra le famiglie dei Nove e quelle dei Gentiluomini si poneva, perciò, su di un piano non tanto socio-economico quanto politico-giuridico”: p. 70). Per l’ultimo scorcio del XIII secolo Waley, Siena e i Senesi, pp. 107-128 e 132-136. Una equilibrata lettura in Giorgi, Il conflitto magnati/popola-ni.

59 Non fu l’unico legame matrimoniale fra i Piccolomini e famiglie novesche: Caffino, figlio di Bartolomeo, si sarebbe unito a Ottaviana di Mino, una donna della famiglia di Turchio di Accattapane che era stato dei Nove nel 1294: Diplomatico Ricci, 1297 dicembre 14 (donazione propter nuptias di 900 lire di denari). Per la presenza di Turchio di Accattapane nella magistra-tura vedi BOWSKY, Un comune, p. 118 e nota. Sui matrimoni di Ranuccio e la parentela con la famiglia di Baco, supra, p. 299.

60 Insiste molto su questo Bowsky, The “Buon Governo”, 1962, pp. 379 sgg. Sulle vicende dei ricchi noveschi Placidi che vantavano, pare, una discen-denza nobiliare dai domini del castello di Radi di Creta, ed erano parte fin dai primi anni del Duecento della militia cittadina, come dei medi mercanti Petroni e Bichi, che disponevano di patrimoni immobiliari e fondiari tanto consistenti da stare alla pari con quelli dei più cospicui casati magnatizi,

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vedi Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, p. 109 in nota e dello stesso: Idem, Fra la Massa e il Vescovado. Il piviere di Corsano tra la fine del secolo XI e l’inizio del secolo XIV, 1997, pp. 117-232.

61 Bowsky da un’analisi dei dati della Tavola delle Possessioni ha dedotto che su 71 proprietari senesi che fecero parte della magistratura dei Nove il 64% aveva proprietà valutate tra le 1.000 e le 5.000 lire; sopra questa soglia un 19% registrava beni tra le 10.000 e le 37.000 lire mentre per il restante 17% la dotazione immobiliare era minima (meno di 1.000 lire). Mi pare che i dati confermino l’idea di notevoli differenze interne al gruppo nove-sco, il cui vertice soltanto si avvicinava e forse in alcuni casi oltrepassava le ricchezze magnatizie. Occorrerebbero comunque studi più estesi a que-sto riguardo. Cfr. Bowsky, The “Buon Governo” of Siena (1287-1355): a Medieval Italian Oligarchy, 1962, pp. 368-381: 377.

62 Che il regimen novesco introdotto sullo scorcio del XIII secolo non si con-figurasse come l’avvento del dominio di una nuova borghesia mercantile rigorosamente contrapposta all’antico gruppo aristocratico era opinione di Giovanni Carli: i “nobili mezzani” o “nobili di secondo rango” come li indi-cò, erano accomunati ai magnati non solo per dignità dei “pubblici onori” dato che gli uni e gli altri avevano condiviso le magistrature civiche prima che la legislazione degli anni Settanta estromettesse una parte di loro dal go-verno supremo, ma anche per stile e consuetudine di vita. “I Nove […] per aver contratto nobili parentele, ed acquistate grandi ricchezze, erano giunte ad una tale potenza e trattandosi cavallerescamente si mantenevano con un tale splendore, che presso il popolo non eran considerate da meno di quegli degli antichi signori di feudo […]. [Essi] essendosi avanzate per propria virtù o colle armi, o colle lettere, o colla mercatura, si mantenevano con non minor decoro, e i magnati sebbene non volevano riconoscere, o chiamar nobili tali famiglie, nondimeno vedendole […] sedere al governo, di cui essi non potevano partecipare […] ben volentieri le trattavano da amici, le ono-ravano come uguali, e si univano a loro co’ matrimoni”: vedi Carli, Notizie della nobiltà sanese, 1750, Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, ms. C.VI.2, cc. 41-108, c. 247, 253. E ancora scriveva Celso Cittadini: “i grandi e i mezzani al governo della Repubblica ne’ pubblici maestrati d’essa adoperandosi, e dentro e fora, ed in pace ed in guerra attendevano, e di loro entrate e di loro mercanzie grosse, ricchi banchi e famosi per diverse parti del mondo aperti tenendo od altro, nobilmente tutti et alcuni etiam-dio cavallerescamente vivevano”. Vedi Cittadini, Della nobiltà civile di Siena, discorso del signor Celso Cittadini, 1618, Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, ms. C.V.24, cc. 2, 54 sgg.

63 La pregnante definizione è di Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo itlaiano, 1974, pp. 286-287.

64 Di gran lunga più ricche delle altre sono le famiglie novesche che appaiono nella fonte fiscale del 1453 secondo l’analisi che delle denunzie individuali hanno fatto Catoni e Piccinni: Catoni, Piccinni, Alliramento e ceto diri-gente, 1987, pp. 451-461.

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65 Il 18 dicembre 1341 il Consiglio Generale approvò una petizione indirizza-ta ai Nove da alcuni nobili e magnati, nella quale essi affermavano “quod inter magnates et potentes ex una parte et populares ex altera est magna et longa differentia ita etiam inter magnates et magnates est magna differentia quia aliqui sunt maiores et nonnulli sunt minores, licet omnes indistincte in libro magnatum scripti reperiantur …” Consiglio Generale 129, cc. 57r-60r.

66 Per gli acquisti in curia di Serre, compiuti da Guglielmo e Bartolomeo tra il 4 ottobre 1275 e il 3 gennaio 1284, vedi supra, nota 23.

67 Per un totale di 17 parcelle: un poggio boscoso, un altro parte boscato e par-te aratorio localizzato a “Le Gusace”, un pezzo di terra detto “Metatum”, un terzo poggio chiamato “Petra Aratorii”, un bosco “que dicitur Sextole et Collaglo”, due appezzamenti di terreno, un altro poggio che porta alla stra-da per Rigomagno, quelli di Scopeto e di Spereto, un terreno boscato e la-vorativo “in loco dicto Podium Cavaglonis”, il poggio di Renaccio “partim aratorium et partim boscatum”, il poggio di “Silve Rose”, un pezzo di terra aratoria e boscata “in loco dicto Fabrice”, il poggio posto a “Le Fregaie”, un campo a “Laudacine”, il “vallinum de Violti”, un poggio boscato detto il poggio dei Conti. L’atto di acquisto è perduto: ne rimane copia in Copie ca-vate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico di Casa Piccolomini, cioè contratti e istrumenti de’ secoli XI, XII, XIII e XIV, cc. 146r e 149r [BCI, ms. B.VI.18].

68 “Quiricum Paganelli, heredes Giordani, Aiutus Dietavive, Ranerius et Bertam filios et heredes Benzi, Romeum et Gregorium filios et heredes […], Minum Accolti Piccioli, Falconerium Guidonis Piccioli, heredes Orlandi Cancellerii Piccioli et Ranerius et Bilia heredes Johannis Salomonis, he-redes Dietavive […], heredes Aiuti Buglocti, heredes Amerigi, heredes Cattani, heredes Alberti Corboli, Aringherius, Accoltum et Martinum olim Nerii, Johannem notarium et magistrum Aldobrandum filios et heredes Vencis Migloretti, Orlandus Carsolane, heredes Ranerii Rosselli et heredes Paschucci”: Copie cavate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico di Casa Piccolomini [ms.], c. 148v.

69 Il primo contratto di acquisto di Bernardino è del 1284 (6 marzo): nel-lo stesso anno, il 27 aprile, Bernardino acquista da Bartolomeo beni nella curia di Serre per 1.200 lire. Sugli investimenti di Bernardino nella zona, Mucciarelli, La terra, in particolare p. 72.

70 Una deliberazione del Consiglio Generale del 19 ottobre 1317 definisce i registri fiscali senesi come “tabula possessionum civitatis, comitatus et iu-risdictionis Senarum et mobilium et patrimonium personarum civitatis, co-mitatus et iurisdictionis Senarum” (Consiglio Generale 89, c. 158v): nelle intenzioni dei Nove che la fecero redigere nel 1318 essa doveva dunque essere una vasta opera di catastazione comprendente tutti i beni mobili e immobili della città e del contado di Siena, ma in realtà i beni mobili rima-sero esclusi dal lavoro di rilevazione. I dati raccolti durante il 1317 e il 1318 furono registrati in oltre cinquecento registri che costituirono il materiale

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preparatorio per la Tavola vera e propria. Le informazioni contenute in queste tavolette preparatorie (oggi delle molte redatte ne restano solo 94) furono copiate in altri registri secondo criteri topografici, cioè un volume per ogni comune, popolo o gruppi di popoli del contado e per ogni “libra” cittadina raggruppando sotto il nome di ogni singolo proprietario – titolare di una “posta” – tutti i suoi beni immobili sparsi in città e nel contado. In fondo all’elenco dei beni di ciascun proprietario fu fatta la somma del loro valore. Della Tavola rimangono 92 volumi per il contado e 50 per la città (ma questi ultimi erano originariamente una decina in più). Il valore della fonte fiscale fu per la prima volta messo in luce da Banchi, La Lira, la Tavola delle possessioni e le preste nella Repubblica di Siena, in 1868, pp. 53-86, ma il primo tentativo di elaborazione statistica dei dati in essa contenuti venne da Imberciadori, Il catasto senese del 1316, in “Archivio ‘Vittorio Scialoja’ per le consuetudini giuridiche, agrarie, e le tradizioni po-polari”, VI (1939), pp. 154-168. Sulle modalità di stima della Tavola si veda invece Sorbi, Aspetti della struttura e principali modalità di stima dei Catasti senese e fiorentino del XIV e XV secolo, 1960, pp. 7-20. Il primo importante lavoro di elaborazione di dati condotto sulla Tavola è quello co-ordinato da Giovanni Cherubini i cui risultati sono stati ripresi in sintesi in Cherubini, Proprietari, contadini e campagne senesi all’inizio del Trecento, in Proprietari, contadini e campagne senesi, 1974, pp. 230-311 a cui rinvio per una lettura delle caratteristiche della proprietà cittadina.

71 Il confronto tra le registrazioni della Tavola delle Possessioni con le sinte-tiche informazioni relative ai beni dei Piccolomini allirati nel 1318 com-pilate nel Settecento da Girolamo Manenti mostra che sarebbero dieci le poste andate perdute. Secondo l’indice settecentesco la lacuna documen-taria interessa i patrimoni dell’erede di Naddo di Enea, Neri di Gabriello, Neroccio di Naddo, Carlo di Gabriello, Gemmina vedova di Naddo di Enea, Landoccio di Naddo, Gualtieri di Naddo, Fazio di Naddo, Mea di Luca di Carlo, Tato di Gabriello. Per la descrizione della proprietà familiare rinvio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 254 sgg.

72 Diplomatico Santa Maria, 1372 settembre 21. La pergamena contiene an-che il lodo di confinazione, pronunciato ad Asciano “in palatio comunis” e la promessa delle parti di attenervisi. In un atto di poco posteriore, 10 febbraio 1379, Andrea di Francesco nomina “Bischa Francisci de Sciano … in suum albitrum et albitratorem” per la risoluzione della lite con un suo vecchio mezzadro (olim eius medarius) Piero di Ghezzo, a proposito di certe bestie e denari “quas et quos dictus Pierus habuit a dicto domino Andree”: Notarile 178, c.c. 49v-50.

73 Particolarmente aspra fu la contesa sui beni ereditari di Conte di Bartolomeo, che oppose i cugini: le figlie di lui, Vanna e Tessa, quest’ultima andata in sposa al novesco Baco di Priore, contro Andrea, Pietro e Ambrogio, figli del defunto Salomone, fratello di Conte, e al miles Andrea di Francesco erede di Bartolomeo detto Meo, altro fratello del defunto. Tanto aspra che nel motivare il ricorso ad un arbitro e la necessità delle parti di adeguarsi ai

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termini del lodo dato si faceva riferimento al “periculum et scandali mate-ria” suscitato da tale lite e alla volontà comune di porvi fine (“ad omnem et qualibet scandali et lesionis et offensionis cuiuslibet materiam evitandam”). Lo scioglimento della lite “super et de hereditate et successione bonorum et rerum universalium Contis quondam Bartholomei de Piccholominibus” fu demandato al giudizio del “discretum et providum virum dominum Corradum olim domini Johannis iudicem” il cui lodo le parti furono chia-mate a ratificare – ma i termini della composizione non vengono resi noti – impegnandosi con la coobbligazione di alcuni parenti alla sua osservanza sotto la consistente pena di 10.000 fiorini d’oro. Diplomatico Bichi, 1304 ottobre 13 (in realtà 1324 ottobre 13), vol. 14, n. 6. Il matrimonio fra Tessa di Conte e Baco di Priore, attestato nel 1336, quando ormai Baco è morto, in Diplomatico Bigazzi, 1336 aprile 17 (testamento di Tessa).

74 Il documento datato 1303 gennaio 26 è contenuto in copia nel manoscritto Copie cavate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico di Casa Piccolomini [ms.], c. 68r.

75 In cambio della cessione di alcuni appezzamenti situati in curia di Serre, dove proprio in questi anni l’Ospedale aveva espanso le sue proprietà grazie alle donazioni di un altro membro del casato, Bernardino di Alamanno, i congiunti acquisiscono alcune petias in Valle Foenna, confinanti con loro beni. Diplomatico Santa Maria, 1299 giugno 23.

76 I beni di Guglielmino sono allirati in Estimo 114, cc. 121r-129v. Per le ela-borazioni dei dati ivi registrati vedi Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, tabelle ‘La Tavola delle Possessioni’. Lo staioro, unità di misura in uso a Siena, si ritiene equivalente a mq. 1300,75. Un ettaro corrisponde circa a 7,6 staiori, circa. Sottomultiplo era la “tavola”, che corrispondeva a 1/100. Vedi Tavole di ragguaglio per la riduzione di pesi e misure che si usano nella città di Siena al peso e misura vegliante in Firenze, 1783, p. 20.

77 Alcuni corposi acquisti sulla comunità di Petroio da parte di Guglielmino sono documentati tra 1319 e 1321 in Diplomatico Archivio Generale, 1319 aprile 2; 1321 ottobre 6: nel primo contratto il Piccolomini compra da Celso di Bindo e sua moglie “medietatem pro indivisototius poderis et teni-menti in curia dicti castri Petrorii […] cum medietate pro indiviso duorum molendinorum aque qui sunt in dicto poderi cum molis, retecinis et ferra-mentis omnibus opportunis” al prezzo di 1.000 lire; nell’atto successivo il figlio, Meuccio, acquista dagli stessi venditori, l’altra metà.

78 I beni di Petroio, 745 staiori, furono stimati 10.568 lire, quelli di Bibbiano Cacciaconti 2.722 lire, i 270 staiori di Corsignano 2.919 lire, i beni di Asciano 1.643 lire. I possessi nella zona intorno alle Serre si estendevano per 25 staiori ed erano valutati 75 lire, 23 staiori a Maggiano (2.033 lire), 20 a Rapolano (60 lire).

79 Guglielmino è indicato come miles in un atto dell’ottobre 1321: Diplomatico Archivio Generale, 1321 novembre 21.

80 Sull’intrecciarsi di motivazioni ideali e di spinte economiche alla base di quell’imponente fenomeno di penetrazione di capitali cittadini nelle cam-

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pagne toscane, ovunque anche se con sensibili differenziazioni attestato, ma che fu fenomeno più generalmente caratteristico dell’Italia comunale nei due secoli compresi tra metà Duecento e metà Quattrocento, così come sulle dinamiche che lo connotarono esiste una ampia produzione storiogra-fica: sintetizza i risultati di molte ricerche svolte sulla Toscana, evidenziando le differenze tra le diverse realtà, Pinto, La Toscana nel Tardo Medioevo, pp. 157-161; per il senese Idem, I mercanti e la terra, 1987, pp. 223-290; Cherubini, Le campagne italiane dall’XI al XV secolo, 1984, pp. 1-146, soprattutto pp. 56-93 per le modalità e i risultati – in termine di ricomposi-zione e ristrutturazione agraria – dell’espansione cittadina. Per il rapporto tra i ‘casati’ e la terra: Giorgi, I ‘casati’ senesi e la terra, 1992-1993.

81 Nella posta del padre, una registrazione rende conto della proprietà di Meuccio della terza parte di un appezzamento in curia di Serre di Rapolano stimato 336 lire. Altrove si fa riferimento ai beni di Meuccio quali beni confinanti di certe proprietà paterne ad Asciano, ma dei possessi in quella comunità come in altre, non c’è traccia. Estimo 114, c. 129.

82 Diplomatico Archivio Generale, 1317 maggio 17; due anni dopo Meuccio vendeva i beni acquistati ad Antonio di Meo Tolomei, che in questi anni sta costruendo il suo patrimonio nell’area della Scialenga. È in questo contratto si richiama il debito che il Gallerani aveva verso Meuccio (Diplomatico Archivio Generale, 1319 maggio 11). Da notare che negli anni centrali del Duecento, Sigherio Gallerani aveva espanso la propria azienda agricola di Asciano grazie all’acquisto di diritti di credito. Vedi Barlucchi, Il contado di Siena, pp. 36-37. Su Antonio di Meo Tolomei Mucciarelli, I Tolomei, pp. 325-332.

83 Nel 1319 Guglielmino ha un credito “ex causa mutui” verso Rinaldo olim domini Spinelli de Cerreto Ciampoli, di 36 fiorini: Diplomatico Archivio Generale, 1319 settembre 11. Il primo luglio 1324 Salomone di Bartolomeo indennizza Manno di Ghezzo Squarcialupi per le usure estor-te da Guglielmino (Diplomatico Archivio Generale, 1324 luglio 1); in un successivo atto del 1329 Bartalo di Pane Squarcialupi si dichiara intera-mente soddisfatto del credito pro usura contro Guglielmino (Diplomatico Archivio Generale, 1329 aprile 22). Un anno dopo, un altro membro della famiglia, “nobilis et potens vir dominus Petrus olim Pane de Squarcialupis” rilascia quietanza di ‘quanto dovuto’ occasione usurarum vel alie inlicite: Diplomatico Archivio Generale, 1330 aprile 13. Una serie di restituzioni vengono compiute durante il 1339: Il 28 agosto 1339 Giacomo di Meo det-to Orecchia dei Montanini rriceve 4 fiorini d’oro da frate Enea, dei predica-tori, che agisce per conto di Salomone di Bartolomeo, erede di Guglielmino, “pro restitutione usurarum perceptarum a dicto domino Gullielmino”; “pro restitutione usurarum perceptarum a domino Gulllielmino dicto do-mino Granello” nello stesso giorno rilascia quietanza di 2 fiorini anche “Vannes domini Granelli” [Diplomatico Archivio Generale, 1339 agosto 28 (2 pergamene)]; ad ottobre è la volta di Francesco e Margherita del defunto Conte di Ugo: Diplomatico Archivio Generale, 1339 ottobre 23.

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Nel gennaio 1340 Francesco di Nuccio Saracini riceve da frate Enea 43 lire: Diplomatico Archivio Generale, 1339 gennaio 27.

84 L’attività creditizia del ricco Guglielmino a Corsignano è documentata a partire dal giugno 1319 quando “mutuavit ser Bindo de Corsignano et cer-tis aliis” 500 lire (Gabella 41, c. 45r); nel settembre 1322 prestò a Tuccio e Ghezzo di Giovanni 14 lire che i due si impegnarono a restituire entro la fe-sta di Santa Maria d’Agosto. Nel luglio dello stesso anno Meuccio vantava un credito nei confronti di Vanni di Morcino “pro pretio duorum bovium et unius somarie” (Diplomatico Archivio Generale, 1322 luglio 18). Poi le testimonianze si riferiscono a tempi successivi alla sua morte, quando tra il 5 e il 6 febbraio 1340 il suo erede, il nipote Salomone di Bartolomeo, procedette alla restituzione delle usure commesse dallo zio: nominato come procuratore il frate predicatore Enea di Andrea furono restituiti a molti abitanti di Corsignano, in qualità di eredi dei loro padri, diverse somme di denaro per le quali rilasciarono quietanza: Gerius olim Jacobi (5 lire), Mituccia olim Antolini (6 soldi, 8 denari), Vannes olim Borghi Bonifatii (9 soldi), Martinus olim Lelli (19 soldi), Tessa olim Turelle Brunecti (7 fiorini e 20 soldi), Cecchus olim Armalucci, Guiduccius olim Caselle (8 lire, 19 soldi, 6 denari), Meus olim Favai (2 fiorini), Paganellus olim Alberighi (35 soldi), Johannes et Luche olim Pagni (4 lire, 16 soldi e 6 denari), Bectus et Pagnolus olim Mucci Brunelli (48 soldi), Vannes Carosi (3 staia di grano), Gemma olim Pasqualis Orlandi (5 lire, 8 soldi), Tuccius, Guido et Agnolus olim Fiorgani Guidi (11 soldi), Riccha et Cia filie Ciampi olim Fucci (20 soldi), Sabbatina olim Vignai (30 soldi), Nuccius olim Lelli, Ligarellus olim Andree, Peruccius olim Johannini et Peruccius olim Nucci (9 lire, 3 soldi), Bertolus Gheczus et Coscia olim Bandini Coscie, Jannuccius (39 soldi, 5 denari), Mone olim Guidi de Cacciacomitibus de Petroio (30 lire, 1 sol-do), Andreas et Simone olim Lucci de Petroio (21 lire), Nuccius Biczeruoli, Lippe filie olim Zeppe Johannini (Diplomatico Archivio Generale, 1322 settembre 5; Diplomatico Archivio Generale, 1339 febbraio 5; Diplomatico Archivio Generale, 1339 febbraio 6).

85 Diplomatico Archivio Generale, 1315 febbraio 28 (i creditori erano “Gullielmum, ser Vannem, ser Nerium, Pietrum et Contem filios olim Conis de Montecchiello”); nel 1320 Niccolò di Salomone Piccolomini ven-dette a Guglielmino i suoi diritti di credito per 709 lire contro i suddetti: Diplomatico Archivio Generale, 1319 marzo 11.

86 L’importanza del credito ai contadini nella formazione della proprietà cit-tadina è stato messo in luce da una serie assai numerosa di studi. Per la Toscana possono vedersi Sapori, I mutui dei mercanti fiorentini del Trecento e l’incremento della proprietà fondiaria, in Studi di storia economica (cfr.), 1955, I, pp. 191-221; de la Ronciere, Un changeur florentin du Trecento, 1973, pp. 97-112; per San Gimignano Fiumi, L’attività usuraria dei mer-canti sangimignanesi nell’età comunale, 1961, pp. 145-162 dove l’autore sottolinea come molte delle più importanti famiglie di San Gimignano aves-sero costruito le loro fortune immobiliari attraverso operazioni di questo

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genere; per Pisa, Herlihy, Pisa nel Duecento, 1973, pp. 157-159. Sul tema del credito cfr. anche Kotelnikova, Le operazioni di credito e di usura nei secoli XI-XIV e la loro importanza per i contadini italiani, 1973, pp. 4-9 e Idem, Mondo contadino e città in Italia dall’XI al XIV secolo. Dalle fonti dell’Italia centrale e settentrionale, 1975. Sulla crisi della proprietà con-tadina, soprattutto in relazione al problema dell’indebitamento si vedano anche Cherubini, Una comunità dell’Appennino dal XIII al XV secolo. Montecoronaro dalla signoria dell’abbazia del Trivio al dominio di Firenze, 1972 e Idem, Signori, contadini, borghesi, pp. 75-75 e 116-119. Pinto, La Toscana nel tardo medioevo. Ambiente, economia rurale, società, 1982, pp. 207-225. Sul significato europeo del grande sviluppo dei crediti rurali a par-tire dal Duecento Duby, L’economia rurale nell’Europa medievale. Francia, Inghilterra, Impero (secoli IX-XV), 1966.

87 Pinto, La Toscana nel tardo medioevo, 1982, p. 213.88 Attività di prestito usurario e speculazioni sono attestate anche per altri uo-

mini della famiglia nella stessa comunità di Corsignano e in quelle di Torre a Castello e Rapolano. A Torre a Castello, dove si esercitava la signoria castrense dei Piccolomini, un abitante di quella zona si rivolse nel febbraio 1340 al dominus Gualtieri di Naddo per ottenere un prestito corrisponden-te alla quantità di sette moggia di grano che si impegnò a restituire dopo il raccolto, nel giorno della festa della Vergine, obbligando se stesso e tutti i suoi beni che nel caso in cui entro il termine fissato le 7 moggia non fossero state pagate il signore era autorizzato a “vendere, alienare et eorum posses-sionem ingredi sine requisitione”; nella stessa comunità tre anni prima un altro consorte, Naddo di Benuccio, attraverso il suo procuratore che agiva nella vicina Rapolano, aveva prestato ad un abitante di Torre a Castello la non piccola cifra di 600 fiorini d’oro (Diplomatico Archivio Generale, 1339 febbraio 5; Notarile 45, c. 7v, 1337 settembre 19). Il legame tra il dispiegamento di questa attività creditizia e i luoghi in cui il casato era titolare di giurisdizioni castrensi o beni fondiari invita a guardare a questo intervento come a un canale di penetrazione e consolidamento di posizioni patrimoniali. Somme variabili – da poche lire fino a 30, 60, 100 fiorini d’oro – circolarono a Chiusure, Petroio, Rapolano, Asciano, Lucignano d’Asso, Fabbrica, Bibbiano Guglieschi, Paganico: nel 1318 alcuni abitan-ti di Montepescini si obbligarono verso Teio di Ranuccio, procuratore di Gabriello di Carlo Piccolomini, per 12 lire prese in prestito; nel novembre 1329 i figli di Caffino Piccolomini rimborsarono un abitante di Bibbiano Guglieschi di certi denari acquisiti “pro usuris seu nomine usurarum” dal padre defunto; il 10 giugno 1330 un abitante di Borgo di Fabbrica fece atto di donazione agli stessi eredi di tutti i diritti che egli vantava contro Caffino “occasione cuiuscumque quantitates pecunie seu alterius rei que ad manus eius vel alterius pro eo de bonis [suis] inlicite pervenisset, maxime per usu-rariam pravitatem”; il 3 aprile 1334 un abitante di Lucignano d’Asso di fece debitore di Mino di Caffino Piccolomini per 32 fiorini d’oro, prezzo di 96 staia di grano che si impegnò a restituire a metà agosto; un prestito di 100

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lire fece nel 1337 Neri di Gabriello Piccolomini a Mino, Agnolo e Vanni di Rapolano; per 90 fiorini d’oro si impegnarono verso Nea di Corrado Piccolomini “ex causa mutui” due membri dei Cacciaconti di Petroio; nel 1348 Beringhieri di Gualtieri Piccolomini mutuò 100 fiorini a Stefano del fu Caccia di Asciano [Diplomatico Archivio Generale, 1311 giugno 13; Diplomatico Archivio Generale, 1338 aprile 6; Diplomatico Sant’Agostino, 1318 dicembre 16; Diplomatico Bigazzi, 1329 novembre 29; Diplomatico Bigazzi, 1330 giugno 10; Diplomatico Bigazzi, 1334 aprile 3; Notarile 45, c. 24v (1337 novembre 11); Diplomatico Bigazzi, 1338 aprile 8; Diplomatico Bigazzi, 1348 febbraio 1. Vedi anche Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 290-295].

89 Giorgi, Il conflitto magnati/popolani, pp. 140-141. L’autore cita gli esempi dei Gallerani che svolsero un’intensita attività di prestito verso gli abitanti del castello di Campagnatico, negli anni in cui ne detennero la signoria, attestando crediti nei confronti dei sudditi di questi anche nei castelli di Castiglion d’Ombrone e San Gimignanello; per i Salimbeni su Boccheggiano, per i Tolomei su Lucignano d’Asso. Sullo sviluppo della proprietà fondiaria dei casati si veda Pinto, I mercanti e la terra, 1987, pp. 223-290.

90 L’evidenza letteraria del fenomeno che riflette con grande forza evocativa un costume molto diffuso ha alcuni esempi in Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di E. Faccioli, 1970, novella 88 e 202.

91 Andrea di Francesco Piccolomini che farà bandire due comitatini di Petroio per debito insoluto, aveva ottenuto i suoi diritti di credito contro Farolfino e Lando di Petroio comprandoli da Tessa e Vanna di Conte Piccolomini (vedi nota); nel 1324 Salomone di Bartolomeo vendette ad Antonio di Meo di Incontrato Tolomei diritti di credito contro Mino di Guglielmo di Chiusure e Memmo e Pepo suoi figli, per un ammontare di 300 lire che era la quantità di denaro prestata ai suddetti da Guglielmino di Guglielmo suo zio (Diplomatico Ricci, 1323 gennaio 5). Si deve notare che in questo periodo il Tolomei era uno dei più grandi proprietari fondiari di Chiusure: Mucciarelli, I Tolomei, 1995, pp. 325-333.

92 Nea di Corrado grazie alle sue cospicue proprietà fondiarie in Valdorcia rifornì di frumento, dietro lauto pagamento, i corsignanesi in difficoltà e venne incontro alle loro necessità di liquido con lire e fiorini, salvo poi pentirsi sul finire della vita e ordinare alla moglie, nominata sua fidecom-missaria, di restituire il mal tolto: per le attività creditizie di Nea si veda Diplomatico Bigazzi, 1334 aprile 25 (Meo del fu Nuccio si dichiara debi-tore per 8 lire e 2 soldi a causa di 12 staia di grano), Diplomatico Bigazzi, 1335 giugno 30 (Minolo di Nuccio e sua moglie si dichiara di Nea per 50 fiorini d’oro “ex causa mutui” che promette restituire “ad omnem eius vo-luntatem et requisitionem”); Diplomatico Bigazzi, 1346 ottobre 29 (Cecco del fu Paganello si dichiara debitore di Nea per 6 lire, prezzo di 5 staia di grano), Diplomatico Bigazzi, 1353 maggio 2 (Angelo del fu Pagno si obbli-ga a pagare a Nea 4 fiorini entro la festa di S. Maria d’Agosto per prezzo di 6 staia di grano); Diplomatico Bigazzi, 1370 dicembre 10 (la moglie di Nea,

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Giovanna Tolomei, procede alla restituzione di 12 lire e 4 soldi – denari acquisiti dal marito “inlicito titulo” – in favore di Vanne di Berto “de castro Corsignani”).

93 L’elenco degli uomini che, morto Guglielmino, vengono risarciti da Salomone di Bartolomeo esplicita l’importanza delle rete creditizia: con un primo atto del 5 febbraio 1339 vengono risarciti 8 fra uomini e donne, che dichiarono di agire anche per i loro eredi: il giorno successivo Salomone di Bartolomeo riceva quietanza da 16 comitatini e dalla religiosa “domina so-ror Galgana abbatissa monasterii Sancti Gregori, districtus Corsignani” che stipula per due oblati del monastero (“Nuccius Biczeruoli e Lippa filia olim Zeppe”). Diplomatico Archivio Generale, 1339 febbraio 5; Diplomatico Archivio Generale, 1339 febbraio 6.

94 Nel novembre 1326 su richiesta di Andrea di Francesco Piccolomini il pode-stà “exbannivit et in banno posuit Farolfinum et Landum magistri Orlandi de Petrorio” per 3 fiorini d’oro “ex maiori summa, quos eos […] tenebantur dare ex causa mutui”. Diplomatico Archivio Generale, 1326 novembre 19.

95 Nel 1305 un dissidio tra Cone di Giacomino di Monticchiello, sua moglie Gemma e Matteo e Giorgio di Roma Piccolomini scoppiò a causa di alcuni poderi posti nella curia di quella comunità che i Piccolomini rivendicavano contro l’opinione dei comitatini, come propri. A monte della rivendicazione dei Piccolomini stavano diritti di credito contro i due comitatini per 180 fiorini e 900 lire di denari, crediti accumulati in forza dell’eredità a loro fa-vore di beni e iura del defunto padre Roma e grazie agli acquisti compiuti in prima persona contro i due monticchiellesi. La presa di possesso dei tre po-deri si configurò come risarcimento di un credito insoluto al quale Giorgio e Matteo applicarono i parametri del prestito su pegno fondiario che preve-deva appunto la cessione dei beni a risarcimento del creditore insoddisfatto. La resistenza opposta da Cone e dalla moglie alle richieste dei magnati e il conseguente sorgere tra le parti di “litibus, questionibus, controversiis, discordiis, diferentiis” fa nascere qualche dubbio circa la reale natura dei prestiti che Roma Piccolomini e altri avevano loro concesso, inducendo ad ipotizzare una qualche illegittimità o quanto meno una forzatura nelle pre-tese dei Piccolomini: Diplomatico Santa Maria, 1305 aprile 20.

96 Gabriello di Ranieri di Rustichino nel 1293 appare creditore per 650 lire degli uomini e del comune di Castelnuovo Berzi: Diplomatico Riformagioni, 1293 settembre 20; Diplomatico Riformagioni, 1293 ottobre 4. Il credito però fu riscosso dal Comune in seguito alla condanna fatta al Piccolomini per l’omicidio del consorte Provenzano. Nel 1278 in occasione della tassa di 10 soldi “per massaritiam” imposta alle comunità del contado i Piccolomini pagarono il dazio per gli uomini di Poggio Santa Cecilia: Biccherna 71, c. 12v-13r.

97 Nell’atto che ratifica la coobbligazione del Malavolti non sono richiamati le clausole contrattuali dei mutui, motivo per cui risulta impossibile de-terminare il tasso d’interesse del prestito di Guglielmino. Il rogito elenca i debitori e offre le garanzie al Piccolomini: il credito sarà saldato nei tempi

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pattuiti, il grano consegnato nel luogo fissato, e in caso di ritardo egli verrà risarcito del danno “simplici verbo sine alia probatione”. I debitori erano: Feo di Bernardino (17 moggia e 22 staia), Ciolino di Coruccio (15 moggia), Biagio di Guiduccio (27 moggia e 2 staia), Arriguccio di Ristoro (24 mog-gia), Tura di Giacomino (20 moggia). Diplomatico Archivio Generale, 1319 ottobre 12.

98 Il 5 settembre 1322 Tuccio di Giovanni e suo fratello Ghezzo si costituiva-no debitori di Guglielmino per 14 lire e 6 staia di grano che promettevano pagare entro la festa di Santa Maria d’agosto a Corsignano (Diplomatico Archivio Generale, 1322 settembre 5). A supportare l’idea di un ruolo attivo del magnate nella compravendita di prodotti cerealicoli a livello cittadino stanno anche numerose registrazioni sui registri del fondo Gabella dove gli ufficiali annotavano gli estremi dei contratti stipulati in città a scopo fiscale: Gabella 37 (anni 1310-1313) a cc. 154v-155r (Guglielmino riceve “promis-siones” per vendita di frumento pari a 55 lire); c. 274r (Guglielmino vende 25 moggia di frumento per 571 lire, 16 soldi, 4 denari); c. 276v (Guglielmino vende 58 staiori di frumento per 204 lire). Alcuni contratti che si distribu-iscono durante i primi anni del Trecento documentano un intervento fami-liare nel settore della compravendita del grano: Diplomatico Bigazzi, 1301 settembre 15 (Lapo di Bernardino ne vende 4 moggia a Iacopo di Consiglio del popolo di Castelvecchio); Diplomatico Archivio Generale, 1304 marzo 15 (Lapo di Bernardino vende ad alcuni consorti 12 moggia); Diplomatico Archivio Generale, 1345 ottobre 17 (Pietro di Enea vende a un abitante di Paganico 12 staia di grano e 8 di orzo). Di maggiori dimensioni il traffico di grano in cui appaiono coinvolti i figli di Gabriello, Mocata e Naddo, che nel 1329 rifornirono di grano Grosseto: il 23 aprile 1329 Mocata e Naddo Piccolomini nominarono un loro procuratore “ad liberandum” il Comune e gli uomini di Grosseto “ab omni quantitate frumenti quam predicti micti vel poni fecissent in civitate Grosseti, et ad confitendum habuisse de dicta quantitate frumenti pretium”. Diplomatico Ricci, 1329 aprile 23.

99 Nel 1303 Guglielmino vendette a un abitante di Montisi dei buoi da la-voro (Diplomatico Archivio Generale, 1303 settembre 12); nel gennaio 1311 “dedit in soccidam” a Giovannino di Montanino certe pecore per un valore di 381 lire (in Gabella 37, c. 23v). Un contratto di vendita di buoi a Corsignano vede protagonista anche il figlio Meuccio: Diplomatico Archivio Generale, 1322 luglio 18.

100 Si veda per esempio il celebre passo del cronista Agnolo di Tura che rac-conta la carestia del 1323 e l’intervento dei magnati Tolomei e Salimbeni che portando in piazza il loro grano – in tale quantità da soddisfare alle richieste degli abitanti della città e del contado – salvarono la situazione: “[…] Grande carestia fu in Siena e per lo paese per lo rispetto del tenporale de la vernata […] e valea uno fiorino lo staio del grano in Siena, e molti altri luoghi valea più. E non era tanto la carestia, che alquanti cittadini di Siena la faceano più che non era, unde i signori Nove di Siena mandoro bando che chi avesse grano da vendare mettessero in Canpo a vendare […]. L’altro dì

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molti cittadini messero in Canpo molto grano, e così furo cerche molte case di molti cittadini che no’ lo voleano vendare con credendo affamare la città. E fu tanto il grano che si mettea in Canpo che tornò a soldi 25 lo staio, che da principio si vendea col sugello de’signori. E così multiplicò l’abundan-tia del grano, che in pochi dì i cittadini e altre persone metteano grano in Canpo volentieri a sol. 12 lo staio. E’ Salinbeni messero grande quantità di grano in Canpo, e massime misser Benuccio Salinbeni misse C moggia sotto due padiglioni a soldi XI lo staio con due misuratori sotto i detti padiglioni, e davano a chi ne volea. E’ Talomei missero in Canpo grande quantità di grano su le stoie e vendevano a che ne volea de la cità e de le masse e del contado, in modo che ognuno si fornì e avanzone tanto che non si trovava che ne volesse […]”: cfr. Cronaca senese di Agnolo, p. 403. Nel 1329 in occasione di un’altra carestia tra i magnati chiamati a rifornire il merca-to urbano figuravano oltre ai Tolomei e ai Salimbeni anche Forteguerri, Malavolti e altri casati: si veda Consiglio Generale 107, cc. 103r-108r (19 giugno 1329).

101 In Abbondanza 3, cc. 16v-17r.102 Sulla gestione del problema annonario sotto il regime novesco Bowsky, Le

finanze, 1976, pp. 44 sgg. Idem, Un comune italiano, 1986, pp. 286 sgg. Per l’istituzione della canova e della dogana vedi Bizzarri, Il monopolio del sale, 1920, pp. 349-380.

103 I Piccolomini non hanno a questa data un palazzo consortile. Distrutto nel corso degli anni Sessanta del Duecento nel clima infuocato delle lotte che opponevano guelfi e ghibellini, il palatium Piccolominum che si adagia-va appoggiato ad una torre su una piazza nei pressi del Canto Magalotti, all’interno del terzo di San Martino (per l’ubicazione: Gabella 44, c. 41v) non fu più ricostruito fino ai tempi di papa Enea Silvio. A rispondere ai desideri dei consorti più ricchi di avere una residenza lussuosa in città si prestarono, al tempo della Tavola, altri prestigiosi edifici che le famiglie che li avevano fatti costruire non potevano più mantenere o non erano più interessate a conservare. Così mentre alcuni comprarono quote par-ti del palatium Caulorum – i ghibellini Cauli erano caduti in disgrazia –, Guglielmino di Guglielmo e Neri di Gabriello si spartirono la proprietà dell’imponente casamento di San Pietro alle Scale e lo stesso Guglielmino subentrò nel possesso di diversi immobili di valore agli eredi di Andrea di Pepo; altri Piccolomini riuscirono ad infiltrarsi all’interno del nucleo immo-biliare – localizzato in San Martino – costituito da piazze e torri appartenu-te al casato magnatizio dei Guastelloni. Per la proprietà di Guglielmino vedi Estimo 114, cc. 121r-129v (nuova posta): per i movimenti durante gli anni 1318-1324 rinvio a Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 264-265, 274-275; ibidem, in Appendice, tabelle, per l’elenco dei Piccolomini allirati nella Tavola. Il palazzo con le apoteche e le case prospiciente alla piazza era valutato 5.000 lire. Alla stessa data il palatium Tolomeorum era frazionato fra gli eredi in quote che complessivamente raggiungevano un eguale valore. Mucciarelli, I Tolomei, p. 310 e tavola V.

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104 Diplomatico Archivio Generale, 1324 dicembre 28. Nella stessa comuni-tà altri consorti indirizzano i loro investimenti: così nel 1333 la moglie di Mino di Cione Piccolomini comprò un terreno ad Asciano (Diplomatico Archivio Generale, 1333 giugno 21), e tra 1343 e 1344 anche un altro con-sorte, Pietro di Nea di Gabriello, acquistò beni nella comunità: Diplomatico Archivio Generale, 1343 giugno 13 e Diplomatico Bigazzi, 1344 giugno 7.

105 L’espansione fondiaria duecentesca dei Piccolomini si indirizzò verso luoghi e comunità che anticipano il tracciato degli investimenti che troverà pie-na realizzazione nel secolo successivo. I flash duecenteschi che illuminano chiazze di proprietà familiare a Modanella, Rapolano, Asciano, Corsignano, Monticchiello fotografano quella che sarà l’area privilegiata dell’insedia-mento rurale della famiglia: il settore orientale del contado [notizie dell’esi-stenza di proprietà di Salomone di Guglielmo Piccolomini a Monticchiello in Diplomatico Bigazzi, 1284 dicembre 5; mentre per Corsignano si veda Diplomatico Archivio Generale, 1289 ottobre 4 e Gabella 33, cc. 10v, 16v, 17r (1294)]. Qui nel 1318 appartiene ai Piccolomini anche il castrum di Torre a Castello allirato “all’erede di Naddo d’Enea” per una somma di 2.000 lire e il cui acquisto doveva risalire senza dubbio a tempi anteriori al 1291 anno in cui Naddo Piccolomini si portò davanti al Podestà accusan-do alcuni abitanti della comunità di essere entrati “contra sua voluntate” nel bosco dominico per “inci[dere] lignam” (Biccherna 725, cc. 734r, 749r, 756v). L’acquisto di tre castelli – considerando anche Castiglion Barota e Modanella – in un raggio territoriale ridotto da parte della famiglia, unito alle concentrazioni patrimoniali nell’area, connota il settore sud, sud est del contado come zona d’elezione dei capitali del lignaggio: chiara è la strategia di accorpamento fondiario intorno ai possessi castrensi: Cinello di Cino consolidò la proprietà intorno al suo castello di Castigliion Barata attraver-so l’acquisto di una imponente porzione di terre nella vicina comunità di Latocastelli (Estimo 113, cc. 274r-288r), e il dominus di Torre a Castello si prolungò verso i limitrofi Poggio Santa Cecilia, Montecercone, Monastero Berardengo, situati ai confini orientali del castello. Sull’applicazione di for-mule contrattuali mezzadrili si vedano le considerazioni ed alcuni esempi proposti in Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 285-286; sull’attua-zione di una politica di accorpamento pp. 269-272 e per il Duecento pp. 164-166. La notizia del possesso di Torre a Castello è data dall’indice set-tecentesco della Tavola compilato da Manenti, Scompartimento delle par-rocchie [ms.], c. 288. Infatti il patrimonio dell’erede di Naddo di Enea che ne è proprietario risulta essere tra le “poste” relative agli allirati nella libra del Pozzo di San Martino andate perdute.

106 Nel 1318 appartiene ai Piccolomini anche il castrum di Torre a Castello allirato “all’erede di Naddo d’Enea” per una somma di 2.000 lire e il cui acquisto doveva risalire senza dubbio a tempi anteriori al 1291 anno in cui Naddo Piccolomini si portò davanti al Podestà accusando alcuni abitanti della comunità di essere entrati “contra sua voluntate” nel bosco dominico per “inci[dere] lignam” (Biccherna 725, cc. 734r, 749r, 756v). L’acquisto

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di tre castelli – Torre a Castello, Castiglion Barota e Modanella – in un raggio territoriale ridotto da parte della famiglia, unito alle concentrazioni patrimoniali nell’area, connota il settore sud, sud est del contado come zona d’elezione dei capitali del lignaggio: chiara è la strategia di accorpamento fondiario intorno ai possessi castrensi. Cinello di Cino consolidò la proprie-tà intorno al suo castello di Castiglion Barata attraverso l’acquisto di una imponente porzione di terre nella vicina comunità di Latocastelli [Estimo 113, cc. 274r-288r], e il dominus di Torre a Castello si prolungò verso i limitrofi Poggio Santa Cecilia, Montecercone, Monastero Berardengo, si-tuati ai confini orientali del castello. Sull’applicazione di formule contrat-tuali mezzadrili si vedano le considerazioni ed alcuni esempi proposti in Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 285-286; sull’attuazione di una politica di accorpamento pp. 269-272; e per il Duecento pp. 164-166. La notizia del possesso di Torre a Castello è data dall’indice settecentesco della Tavola compilato da Manenti, Scompartimento delle parrocchie [ms.], c. 288. Infatti il patrimonio dell’erede di Naddo di Enea che ne è proprietario risulta essere tra le “poste” relative agli allirati nella libra del Pozzo di San Martino andate perdute. Sulla diffusione della mezzadria nel senese, Pinto, Pirillo, Il contratto di mezzadria nella Toscana Medievale, I, Contado di Siena, sec. XIII-1348, 1987; Piccinni, Il contratto di mezzadria nella Toscana medievale, III, Contado di Siena (1349-1518), 1992.

107 Notarile 178, c. 70v (Giovacchino di Ambrogio Piccolomini).108 L’atto di acquisto del 1324 era vincolato al patto che, alla morte di Meuccio,

nel caso di mancanza di eredi diretti (“absque filio vel filios legiptimos vel legiptimis ex legiptimo et naturali matrimonio ex se natis”) la proprietà dovesse tornare all’Ospedale con tutti i buoi, i somari, “et omnibus bestiis que tunc tempus essent in dictis et super dictis possessionibus … et cum omni acconcime et melioramento et hedifitio per eum dominum Meuccium factis”. In questo caso la moglie Niccoluccia ne avrebbe goduto l’usufrutto: Diplomatico Archivio Generale, 1324 dicembre 28.

109 Diplomatico Archivio Generale, 1347 ottobre 13.110 Diplomatico Archivio Generale, 1319 aprile 2.111 Diplomatico Archivio Generale, 1321 ottobre 6.112 Diplomatico Archivio Generale, 1317 maggio 17.113 Barlucchi, Il contado senese, pp. 86-87, 116 e 199.114 Con la condizione che il proprietario dovesse a sue spese “conducere

aquam” al mulino e che nel caso in cui guerre o altro rendessero impossibile macinare l’affittuario doveva “excomputare” dal canone la quota “pro illo tempore quo [molendinum] macinare non posset”: Diplomatico Archivio Generale, 1319 novembre 13. Per un esempio dello sfruttamento bannale di un mulino in territorio casentinese nel corso del Trecento può vedersi Cherubini, Signori, contadini, borghesi, 1974, pp. 219-225.

115 Il possesso di diritti signorili caratterizzò in modo importante l’élite ma-gnatizia senese attribuendo al fenomeno neo-signorile dei secoli XIII e XIV un significato rilevante nell’ambito dei rapporti tra città e campagna, tra

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ceto dirigente cittadino e domini castri: nel primo ventennio del Trecento circa 1/5 del patrimonio complessivo allirato ai gruppi parentali magnati-zi era rappresentato dalle fortezze e dai beni compresi entro le loro curie ma il valore non era distribuito uniformemente perché a fronte di casati possessori di quote signorili cospicue, con un’incidenza anche maggiore di quell’indice rispetto al complesso dei loro beni, stavano altri per i quali il peso patrimoniale delle giurisdizioni era più debole. Il dominio sui castelli dello stato acquisiti per compera dai signori locali, per via matrimoniale o per concessione della dominante, distinse fra Due e Trecento alcuni casati magnatizi dal complesso della nobiltà cittadina, ma come ha evidenziato Cammarosano questo progressivo radicamento nelle campagne e il conse-guente emergere di forme di egemonia e di influenza su determinati territori non rappresentò un elemento di continuità rispetto all’organizzazione del potere signorile della prima età comunale. Nonostante alcune apparenti quanto indubitabili somiglianze tra i vecchi domini e gli esponenti del più elevato ceto mercantile finanziario cittadino emerso nel corso del XIII seco-lo, nella realtà dei fatti l’impegno neosignorile dispiegato da questi gruppi parentali rappresentò una chiara soluzione di continuità rispetto alle più antiche forme di dominato. Cammarosano, Tradizione documentaria, pp. 78 sgg.; Idem, Le campagne senesi, pp. 217-222; l’autore aveva sottoline-ato tale discontinuità nelle forme e nel significato dei poteri signorili cor-reggendo in certo senso, per il caso senese, l’interpretazione continuista di Jones, Economia e società, 1978. Una panoramica dei “castra” dei casati in Cherubini, Proprietari, contadini e campagne senesi all’inizio del Trecento, in Signori contadini borghesi, pp. 289-292. Per il rapporto percentuale tra patrimoni e magnatizi e fortezze Giorgi, I ‘casati’ senesi e la terra, 1992-1993.

116 Gli studi a carattere demografico occupano soprattutto il XV secolo per il quale possono vedersi Catoni, Piccinni, Famiglie e redditi, 1983; Ginatempo, Crisi di un territorio, 1988. Per l’epoca precedente Giorgi, Aspetti del popolamento, 1994; oppure Cortonesi, Demografia e popola-mento del contado di Siena: il territorio montalcinese nei secoli XIII-XV, 1984, pp. 153-181; Idem, Movimenti migratori a Montalcino e in Val d’Or-cia nel tardo Medioevo, 1987, pp. 9-30; Piccinni, Francovich, Aspetti del popolamento e del paesaggio nelle campagne senesi bassomedievali, 1976, pp. 259-265; Sull’inurbamento trecentesco Piccinni, I ‘villani incittadinati’ nella Siena del XIV secolo, 1977, pp. 158-219.

117 Dai dati relativi alle somme di denaro versate durante il primo semestre 1278 dalle comunità del contado di Siena in ragione di un’imposta di 10 soldi “per massaritiam” si desume che il primo nucleo fortificato aveva una consistenza fiscale pari a 36 massarizie corrispondente a una capacità con-tributiva di 18 lire, mentre nel 1318 figuravano sotto il nome del secondo al tempo di compilazione del catasto cittadino, 33 titolari di “posta” cor-rispondenti cioè ai residenti del castello proprietari di beni immobili. Ora se nell’uno e nell’altro caso i dati non replicano fedelmente la struttura

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demografica delle comunità poiché le massarizie solo in modo approssima-tivo corrispondevano ai nuclei familiari (“fuochi”) e perché la fonte fiscale non censisce né nullatenenti, né lavoratori e conduttori delle terre signorili situate nella curia, tuttavia, fatto salvo il limite, gli ordini di grandezza fi-scale dei due castra restituiscono il senso – se si confrontano con le stime relative alle altre comunità dello stato elaborate sulla base degli stessi indici – di un’importanza demica, ‘di massima’, assai esile (Dati tratti da Giorgi, Aspetti del popolamento del contado di Siena tra l’inizio del Duecento ed i primi decenni del Trecento, 1994, pp. 253-291, in particolare tabella II e III).

118 La valenza dei poteri del “dominus” di Modanella si riassumeva nelle for-mula con cui ai Piccolomini venne venduta la metà “pro indiviso castellaris de Modanella et curie et districtus ipsius castellaris et dominii et iurisdic-tionis et rectorie et signorie ipsius castellaris et curie et districtus eiusdem” e nella facoltà data ai nuovi proprietari di “habe[re], tene[re] et posside[re] […] dictas res venditas […] facientes inde et ex eis quicquid eis et [suis] heredibus perpetuo facere et exercere placuerit iure dominii pleneque pro-prietatis et possessionis […]”. Copie cavate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico [ms.], cc. 146r.

119 Nel territorio senese, come del resto nelle campagne italiane del basso me-dioevo, queste due forme si alternavano e si sovrapponevano, così “si passa-va dal merum et mixtum imperium associato al controllo di gran parte dei terreni della curia, esercitato ad esempio dai Bonsignori su Montenero, alle blande signorie fondiarie del tipo di quelle gravanti sui castelli di Vignone e Trequanda”, con la tendenza progressiva da parte del governo cittadino a partire dalla fine del XIII secolo a distinguere la proprietà della terra dal potere sugli uomini e ad avocare a sé l’amministrazione dell’alta giustizia. Per Siena il tema del “dominatus loci” è stato còlto da Giorgi, I ‘casa-ti’ senesi e la terra, 1992-1993, per quanto attiene alle dinamiche relative ai gruppi magnatizi, in parziale sintesi in Idem, Il conflitto magnati/po-polani, pp. 134 sgg. Ma si vedano anche Cammarosano, Le campagne senesi, 1979, pp. 153-222; Redon, Uomini e comunità del contado senese nel Duecento, 1982, pp. 91-176. Sul tema della signoria locale in ambito europeo una efficace sintesi in Sergi, Lo sviluppo signorile, Lo sviluppo signorile e l’inquadramento feudale, 1986, pp. 367-393 in particolare alle pp. 377-389. Più ampi ma con poco riguardo all’Italia sono Boutruche, Signoria e feudalesimo, 1971-1974; Duby, L’economia rurale nell’Euro-pa medievale, 1966, pp. 43-96; Fourquin, Seigneurie et féodalité, 1970; Fossier, L’infanzia dell’Europa. Economia e società dal X al XII secolo, 1987 pp. 283-336. Per la situazione italiana rimane fondamentale l’inqua-dramento di Tabacco, Egemonie sociali, in particolare alle pp. 236-257; ma si veda anche Cammarosano, Le campagne nell’età comunale, 1974; Chittolini, Signorie rurali, Signorie rurali e feudi alla fine del medioevo, 1981, pp. 591-676. Un importante contributo sul tema dello sviluppo dei dominati castrensi per l’area romana, in relazione al processo di afferma-

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zione dell’aristocrazia baronale, Carocci, Baroni di Roma, 1993, mentre scandaglia il rapporto tra dominatus castri, ordinamento fondiario e pre-stazioni d’opera nel Lazio dei secoli XIII e XIV, con un affondo nelle signo-rie di Orsini e Caetani Cortonesi, Terre e signori nel Lazio medioevale. Un’economia rurale nei secoli XIII-XV, 1988, pp. 175-253.

120 Barlucchi, Il contado di Siena, pp. 60 sgg.; e Appendice, tabella (A). L’autore nota come soltanto nelle aziende di alcuni magnati, come ad esem-pio quella di Ciampolo Forteguerri, ad inizio Trecento si andasse verso quella direzione.

121 Alla base di tale mobilità fu una concentrazione patrimoniale frutto di un’espansione nel contado da parte dei ceti urbani sviluppatasi in tempi an-teriori e secondo modalità e caratteri che videro formarsi la proprietà cit-tadina in Toscana come in quasi tutta l’Italia comunale grazie alla drastica diminuzione dei piccoli coltivatori indipendenti del contado, da un lato, e dall’inurbamento di piccoli possidenti rurali, dall’altro: su questi temi, per le campagne senesi e toscane cfr. Conti, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino. I, Le campagne nell’età precomunale, 1965, vol. III, pp. 245 sgg; Cammarosano, Le campagne senesi, p. 203; Pinto, Aspetti dell’indebitamento e della crisi della proprietà contadina, in La Toscana nel Tardo Medioevo (cfr.), pp. 207-224; Cherubini, Le campagne italiane, pp. 65-75; e più in generale Jones, La società agraria medievale, alle pp. 500-526. Per un esempio del movimentato mercato immobiliare, un’oc-chiata alle registrazioni dei contratti stipulati in città tra 1294 e 1295 – senza pretendere di essere campione rappresentativo – ci porta dentro un vorticoso girotondo di compravendite dove membri della famiglia acquistano, vendo-no, permutano terre, case e mulini con membri di gruppi parentali importan-ti e piccoli artigiani abitanti in città: Gabella 34, cc. 28r, 31v, 32v, 37v, 42v, 43v, 44v, 54v, 65r, 84v, 103v, 108r, 110r, 121r, 131r, 144r, 144v, 153v, 160v, 162v, 171v, 175v, 194r, 206v, 211r, 227r. Purtroppo la natura sintetica delle registrazioni rende impossibile una stima del valore dei beni oggetto della transazione così come la loro localizzazione, limitandosi spesso il notaio a segnalare oltre ai nomi degli interessati solo il tipo di affare intercorso, ma bastino alcuni esempi degli acquisti compiuti da alcuni Piccolomini: Manno di Chiarambaldo del popolo di San Vigilio vende a Roma di Alamanno Piccolomini terra al prezzo di 525 lire; Cianca di Neri Ranuccini, popolo di San Cristoforo, vende a Turchiolino di Turchio Piccolomini certo casamen-to per 200 lire; Ranieri di Priore, popolo di San Martino, vende a Nea di Gabriello Piccolomini, certa parte di un mulino al prezzo di 15 lire; Naddo di Niccolò, popolo di San Martino, vende a Bernardino di Alamanno, “qua-sdam possessiones” al prezzo di 800 lire; Geri e Andrea del Forese, popolo di San Desiderio, vendono per 190 lire a Bernardino di Alamanno, parte di un mulino; Meo di Ormanno del popolo di San Martino vende “certas res” a Bernardino per 200 lire; frate Alessio, guardiano dei frati minori di Siena, vende a Bernardino, “possessiones quasdam” per 400 lire; Guccio di Rinaldo dei Rinaldini vende a Bernardino una oliviera.

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122 Cfr. Cammarosano, Le campagne senesi, 1979, alle pp. 189-190.123 Un’analisi dettagliata dei rapporti tra i casati magnatizi e la terra in Giorgi,

I casati senesi, 1992-1993. Per l’esempio dei Tolomei che costruirono il loro dominio territoriale sostituendosi in parte ai Cacciaconti e in parte ai gruppi aristocratici di Ardengheschi, Pannocchieschi e Aldobrandeschi, anche attraverso legami matrimoniali rinvio al mio I Tolomei, 1995, pp. 193-231.

124 La proprietà pro indiviso che aveva il suo perno nel mantenimento dell’uni-tà patrimoniale della famiglia sotto l’autorità paterna – a cui i figli erano sottoposti fino al momento dell’emancipazione che tuttavia non bastava a liberarli dalla condizione di subordinazione perché anche in seguito finché il padre era in vita è assai raro trovare figli che stipulino senza richiamarsi all’espresso mandato o consenso paterno – fu assai diffusa nel periodo consi-derato soprattutto fra gli aristocratici e le famiglie che si definivano sulla base di cospicue dotazioni fondiarie. E come ovunque nell’Italia comunale anche fra i Piccolomini, l’uso appare ampiamente documentato: se nelle prime de-cadi del Duecento quando Ranieri di Rustichino si accinse a fare testamento possedeva ancora in comune con i fratelli alcune case poste in Malcucinato (ne possedeva la tertia pars pro indiviso, Diplomatico Santa Maria, 1239 settembre 19 e retro, p. 85) e se il palazzo fatto costruire più o meno in quel tempo nel terzo di San Martino apparteneva consorzialmente a Oltremonte di Piccolomo “et suis consortibus” ( sono soprattutto le fonti fiscali a eviden-ziare in modo netto la diffusione di comunioni di beni fra gli agnati, padri e figli, fratelli, cugini). Nel 1318, anno di compilazione della Tavola, 11 poste erano intestate ai ‘figli di…’ o agli ‘eredi di…’; che poi nel corso degli otto anni successivi alcuni movimenti intervenissero a modificare il quadro perché talora i fratelli si risolsero a dividere la proprietà comune in quote individuali o in porzioni intitolate a coppie di fratelli, talora si registrò il fenomeno di uomini che singolarmente ruppero l’indivisione con i coeredi che invece con-tinuarono a mantenere le loro quote unite, dimostra che queste smagliature rappresentavano quasi una tappa fisiologica nel ciclo vitale del patrimonio familiare. Le disposizioni testamentarie dei padri che fissavano all’età di 25 anni la data della divisione, tentavano di regolare e prolungare il regime di comunione fino all’età adulta degli eredi. Descrivo alcuni processi di divisione patrimoniale in Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, capitolo III, 3. Per le disposizioni testamentarie, ibidem, cap. IV, p. 436 sgg.

125 Nel 1318 il patrimonio familiare raggiungeva un valore approssimativo di 147.528 lire, era costituito da beni urbani e beni rustici, rappresentando questi ultimi il 79% del valore totale. Il patrimonio era ripartito fra trenta capofamiglia in misura ineguale: cinque proprietari possedevano da soli il 56% della ricchezza fiscale registrata nella Tavola. In otto arrivavano a con-trollarne oltre il 70%. Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 254 sgg., e in Appendice (tabelle: La ‘Tavola delle Possessioni’).

126 Notizia del matrimonio in Diplomatico Bichi Borghesi, vol. 18, n. 460 (1343 maggio 9); Diplomatico Bigazzi, 1344 maggio 10.

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127 Diplomatico Archivio Generale, 1347 ottobre 13.128 Ricordo che Bartolomeo di Guglielmo Cencio era presenta alla ratifica

degli atti di pace fra guelfi e ghibellini del 1280 (vedi supra, p. 207, nota 148), e nel 1284 vende alcuni beni ubicati alle Serre di Rapolano al con-sorte Bernardino di Alamanno (vedi supra, pp. 311-312). Nel 1313 ormai Bartolomeo è morto e la sua eredità è, a Cividale, al centro di una vertenza: vedi retro, p. 149.

129 Estimo 114, c. 55r. Vedi anche retro, p. 149.130 Fornisce notizia della vendita dell’avvocazia ad Enrico di Strasoldo della

villa di Orsaria, da parte di Guglielmino per conto del nipote Battistella, I toscani in Friuli e un episodio della guerra degli Otto Santi, 1898, pp. 206-207.

131 Diplomatico Archivio Generale, 1324 luglio 1.132 Si tratta delle già citate quietanze rilasciate dai corsignanesi, in Diplomatico

Archivio Generale, 1339 febbraio 5; Diplomatico Archivio Generale, feb-braio 6, vedi retro.

133 Diplomatico Riformagioni Massa, 1324 marzo 5.134 La bibliografia è molto vasta. Oltre a Leicht, Storia del diritto italiano. Il

diritto privato, 1948-1960, III, pp. 127-145 e II pp. 167-267, Bellomo, Ricerche sui rapporti patrimoniali tra coniugi. Contributo alla storia della famiglia medievale, 1961, in particolare pp. 163-185; Idem, Profili della famiglia italiana nell’età dei comuni, 1966; Niccolai, La formazione del diritto successorio negli statuti comunali del territorio lombardo-tosco, 1940, si vedano i più recenti Romano, Famiglia, successioni e difesa del pa-trimonio. L’area italiana, 1994. Un esame della normativa per i secoli XII-XIV con efficaci esemplificazioni in Cammarosano,,Aspetti delle strutture familiari nelle città dell’Italia comunale, 1981, pp. 109-123. Uno sguardo europeo nei saggi raccolti in Law, custom and the social fabric in Medieval Europe. Essays in honor of Bryce Lyon, 1990; Herlihy, Women, family and society in medieval Europe. Historical essays, 1995. Per Siena: English, La prassi testamentaria delle famiglie nobili a Siena e nella Toscana del Tre-Quattrocento, 1987, pp. 463-472; Lumia Ostinelli, Ut cippus domus ma-gis conservetur. La successione a Siena tra statuti e testamenti (secoli XII-XVII), 2003, pp. 3-51; Brizio, La dote nella normativa statutaria e nella pratica testamentaria senese (fine sec. XII-metà sec. XIV) (febbraio 2004).

135 Per il caso fiorentino, Molho, Marriage and alliance in late medieval Florence, 1994; Fabbri, Alleanza matrimoniale e patriziato nella Firenze del Quattrocento. Studio della famiglia Strozzi, 1991; Kuehn, Emancipation in late medieval Florence, 1982; Goldthwaite, Private Wealth in Renaissance Florence. A study in four families, 1968; Kent, Household and Lineage in Renaissance Florence: The Family Life of the Capponi, Ginori and Rucellai, 1977. Un’attenzione ai diritti (anche negati) delle donne in Chabot, La loi du lignage. Notes su le systéme successoral florentin (XIVe/Xve-XVIIe siècles), 1998, 7, pp. 51-72. Eadem, Seconde nozze e identità materna nella Firenze del tardo medioevo, 1999, pp. 493-523. Si veda infine il fascicolo

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monografico dedicato a Eredi. Regole e pratiche della trasmissione patri-moniale in Toscana tra Medioevo ed Età moderna, 1999. Sulla situazione romana, Saller, Dowries and daughters in Rome, in Patriarchy and death in Roman family, 1994, pp. 204-224; Esposito, Strategie matrimoniali e livelli di ricchezza, 1992, pp. 571-587; e per il baronato romano Carocci, Baroni di Roma, 1993, pp. 155-183. Barbero, Un’oligarchia urbana. Politica ed economia a Torino fra Tre e Quattrocento, 1995, pp. 281-305; un’analisi della situazione genovese svolge Owen Hughes, Urban Growth and Family Structure in Medieval Genoa, 1975, pp. 3-28; Idem, Struttura familiare e sistemi di successione ereditaria nei testamenti dell’Europa me-dievale, 1976, pp. 929-952. La situazione veneziana: Chojnacki, Marriage legislation and patrician society in fifteenth century Venice, pp. 163-184; Idem, Riprendersi la dote: Venezia, 1360-1530, pp. 461-492. Guzzetti, Dowries in fourteenth century Venice, 2002, pp. 430-473.

136 Sottolinea per esempio il contrasto tra gli ampi margini di manovra rico-nosciuti dalla legge alle donne e la consuetudine Barbero, Un’oligarchia urbana, pp. 296-305. Un esempio di questo approccio nella raccolta di sag-gi di Kuehn, Law, Family and Women. Toward a Legal Antropology of Renaissance Italy, 1991.

137 Si vedano Il Constituto del Comune di Siena, a cura di L. Zdekauer, dist. II, rubriche 30-47 (le rubriche citate nel testo 30, 31, 37, 38, 39); Il Costituto del Comune, a cura di M.S. Elsheikh, vol. I, dist. II, rubriche 32-33, 39-60; la rubrica che nega il diritto alle donne alla proprietà di torri, citata nel testo, dist. II, r. 50, già presente nel costituto del 1262.

138 Così nel costituto del 1309-10: “anco statuimo et ordiniamo che per agua-lità servare ne la città di Siena, che li filliuoli legittimi del fratello carnale agualmente co li çii succedano, secondo che succedere potesse overo avesse potuto se vivesse el padre loro a colui el quale morì da chinci adietro senç fare testamento. Et li predetti di cotale morto a li predetti et intra loro agualmente si distribuiscano, non ostante alcuno capitolo del costoduto del comune … Et li nipoti nati de l’uno fratello solamente debiano avere intra loro quanto avarà uno, accioché la successione si faccia ne la schiatta et non in capo”: Il Costituto del Comune, a cura di M.S. Elsheikh, vol. I, dist. II, n. 51.

139 La citazione è tratta dal testamento di Cinello di Cino che nomina suoi eredi universali i tre figli Enea, Giovanni e Neroccio: Diplomatico Ricci, 1341 agosto 16. Nove testatori dei venti che ho analizzato si attengono a questa scelta. Vedi Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 409 sgg.

140 Alcuni esempi di questa disparità sono evidenziati dalla fonte catastale. Nel 1318 la Tavola delle Possessioni registrava sotto la posta “heredes et filii domini Gabrielli domini Ranerii de Piccolominibus” un patrimonio pari a 845 staiori di terra stimato 5.608 lire; il 28 aprile 1321 il notaio cancellò le registrazioni riscrivendo i beni alle poste individuali dei quattro eredi Mocata, Brandaligi, Gano e Naddo. La divisione evidenziò una differenza

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nelle quote perché a Mocata furono assegnati beni per un valore di 2.475 lire, a Brandaligi per 1.390 lire, a Neri per 350 lire, a Gano per 295 lire. Proprietà comune per “equali portione” rimase la casa nel Pozzo di San Martino stimata 1.100 lire (Estimo 113, cc. 350r-352v). Purtroppo la man-canza del testamento di Gabriello di Ranieri impedisce di verificare quali fossero state le disposizioni paterne circa la ripartizione dell’asse ereditario. La sensazione che talvolta un fratello primeggiasse sugli altri mi sembra anche confermata nel caso dei figli di Corrado di Tolomeo: nel 1318 il pa-trimonio comune era intestato solo a Cecco che dopo essere entrato in pos-sesso dei beni posseduti consorzialmente dagli zii procedette alla divisione con il fratello Ambrogio alla cui posta furono trasferiti beni del valore di 5.549 lire contro le 6.829 lire di quelli di Cecco (Estimo 113, cc. 321r-326r e 387r-389r, 398r-400r]. Cfr. capitolo III, 3.

141 Alcuni esempi dell’applicazione di criteri discriminanti per la divisione dell’eredità fra i figli sono offerti da Cammarosano, Aspetti delle strutture familiari, 1981.

142 Vedi i testamenti di Salomone di Bartolomeo (Diplomatico Ricci, 1340 giugno 28) e di Carlo di Bandino (Notarile 99, carta sciolta). In mancan-za di discendenti maschi, testarono in favore dei rispettivi fratelli anche Tommaso di Pietro Piccolomini (Diplomatico Alberti, 1390…), Luca di Biagio (Diplomatico Santa Maria, 1368 aprile 27) e Bartolomeo di Giovanni (Notarile 71, c. 23r-v).

143 Neri istituì suoi “generales et universales heredes” i nipoti Gabriello, Davino e Filippo del fu Tato; Francesco, Biagio e Bandino del fu Carlo e Gabriello, Beringhieri e Giovanni del fu Gualtieri. Diplomatico Santa Maria, 1340 maggio 17.

144 Diplomatico Archivio Generale, 1347 ottobre 13.

III

DISORDINI

sventure, ribelli, resistenze

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agnese Di Manno

Agnese la madre, un ritratto nel ritratto

1. C’è una storia che non sarebbe mai stata raccontata se non ci fosse stato un figlio a scriverla. La storia di Agnese, figlia di Manno, vedova di Gano, madre di Cristoforo. Una storia forse impossibile da raccontare senza piegarla ai compromessi necessari delle parole con cui il figlio l’ha, a sua volta e per primo, raccontata. La vita di Agnese, nelle Memorie del figlio, è una rappresentazione; un ritratto dipinto; è il medaglione di una relazione filiale. Una Vita vagliata, tagliata dalla lama se-lettiva della memoria, interpretata alla lente della percezione che il figlio ha di sé, filtrata alla luce dell’immagine che il figlio-scrivente, già uomo maturo, vuol dare di sé. Una vita dunque plasmata dalla forza di molte pressioni.

In prima sia manifesto a chi vedrà questa scrittura, come io ser Cristofano di Gano … so’ di vile nazione, e fui fi-gliuolo di Gano di Guidino ed ebbe uno fratello ch’ebbe nome Nadduccio … el quale Gano mio padre … e’l detto Nadduccio furo da Guistrigona in Berardenga, e furo nati da lato di donne di quelli da Valcortese. El dicto Gano prese per moglie la mia madre che ebbe nome Monna Agnesa, la quale fu figliuola di Manno di Minuccio Picogliuomini, e degli di dota C fiorini. El quale Manno anco ebbe uno suo figliuolo ch’ebbe nome Farsotto, fratello carnale de la detta mia ma-dre. Morì el detto mio padre inanzi la mortalità grande del Quarantotto, el quale non mi ricorda ch’io vedessi mai. Fece assai devito, e quando morì non ne rimase cavelle, e non che altro, le dote di mia madre non si potero avere. Ella, secondo che mi disse, a cui Dio perdoni, ste’ con mio padre tre anni e io rimasi di XXVIII mesi, e mai non mi volse abandonare e con grande sollecitudine e povertà m’alevò. Poi el padre, cioè Manno, non la volse lassare così sola: arrecossela seco, e me-nolla a Rugomagno, là dove egli stava, e io rimasi col detto

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Nadduccio fratello di mio padre. Venne uno caro innanzi la detta mortalità ed egli mi mandò a Rugomagno che io stes-se con la detta mia madre per non volermi reggiare; unde el detto Manno, padre di mia madre a cui Dio perdoni, mi trattò come suo figliuolo; e mai non seppi che padre si fusse se non lui. Ed egli mi cominciò a insegnare a leggiare infine al Donato e anco el Donato. Poi acciocché io imparasse, mi mandò a Siena, e posemi con mastro Petro Dell’Ochio, che stava da la Misericordia, e co lui imparai gramatica … E io tornava col detto Nadduccio mio zio: ma mia madre, a anco Manno suo padre, gli mandavano a la casa quasi ciò ch’io lograva …E nel detto tempo morì Manno padre di mia madre a Rugomagno, là dove stava; e poco rimase di lui, salvo certe massarizie di casa. Aveva fatta un poca d’usura, e mia madre la ristituì. Partito ch’io fui da Mino, cominciai ad andare per li offici di fuore in contado … E essendo vicaro a Armaiuolo, vi cominciai a comprare, e a poco a poco v’ho comprato … Poi ci levamo al tutto da Rugomagno e tornamo a Siena, mia madre e io, guadagnando, e facendo ella e io più massari-zia che potevamo; e come avevamo denari, li investivamo a Armaiuolo là dove V volte fui vicaro … 1.

2. Agnese era l’unica figlia femmina di Manno di Minuccio Piccolomini. Le dinamiche che portarono Manno a risiedere in contado, a Rigomagno, dove Agnese nacque e poi tornò – dopo essere rimasta vedova – non sono note: si può soltanto ipotiz-zare che la scelta sia maturata fra la seconda e la terza decade del Trecento perché il nonno di Manno, Cione, non possedeva, al tempo della rilevazione fiscale del 1318, nessun bene nella comunità e neppure in quell’area del territorio senese. La sua cospicua proprietà fondiaria e immobiliare, valutata nell’occa-sione oltre 10.000 lire, si spingeva con poca convinzione fino alla valle del Merse (Stigliano, Brenna) per andare invece a con-centrarsi sugli orli della città (Presciano, San Sano a Dofana): ed era soprattutto in città, nell’area limitrofa al Campo, che

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essa raggiungeva i suoi valori più alti grazie a quell’importante palatium, casamentum et apotecas, nel ‘terzo’ di San Martino, in populo Putei Sancti Martini, davanti alla piazza cittadina: il cuore di Siena, laddove il lignaggio aveva il suo perno e dove anche Cione viveva 2.Esclusa probabilmente la figlia Millia 3 con l’esborso della dote da ogni diritto sui beni familiari, com’era consuetudine, il pa-trimonio di Cione dovette passare nelle mani dell’unico suo figlio maschio, Mino detto Minuccius, emancipato dal padre nell’estate del 1303 4, che appare titolare di quegli stessi im-mobili urbani più di trent’anni dopo quando, ormai morto Cione, egli affittava ad alcuni consorti una bottega sulla piaz-za, confinante con la sua proprietà 5. Era il 1334 ed è questo contratto di locazione l’unica immagine dei beni posseduti da Minuccio: se egli portò avanti, prima o dopo quella data, una strategia fondiaria mirante ad un ampliamento della sua pro-prietà in contado, nel settore orientale, intorno alla comunità di Rigomagno dove uno dei sui figli, Manno appunto, apparirà insediato di lì a poco, non ne è rimasta alcuna traccia.Tutta la vita di Minuccio, del resto, procede con difficoltà sul percorso sconnesso e lacunoso impressole dalla documenta-zione. Da quel giorno d’agosto del 1303 in cui il banditore, ad sonum tube et alta voce, rese nota la volontà di Cione di emancipare Minum filium suum – atto immediatamente segui-to, due giorni dopo, dalla celebrazione del rito, nella domus del magnate e giudice ordinario Neri di Giacomo Paglieresi, e dalla donazione paterna, un premium emancipationis di 1.000 fiorini d’oro, in favore del giovane 6 – un vuoto si mangia la sua storia fino al contratto di affitto del 1334. Un buio rischiara-to dal matrimonio già consumato nel frattempo, con una non meglio conosciuta domina Agnola che gli avrebbe dato quattro figli, tre maschi – Manno, Arrigo, Ludovico – e una femmina, Nicola 7.Forse coinvolto con Guido di Branca Maconi in attività finan-ziarie di cui sembra esser traccia un contratto di mutuo stipulato

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dai due nel 1335 8, Guido e Minuccio furono di nuovo fianco a fianco nella gestione delle ultime volontà di Lapo, figlio di quel Bernardino di Alamanno Piccolomini oblato dell’ospedale di Santa Maria della Scala alla fine del Duecento, che li aveva no-minati suoi esecutori dalla casa di Corsignano dove, ammalato, il nove agosto dell’anno 1340 dettava il testamento a favore della moglie Giotta e della nipote Bartolomea 9. Del circuito delle relazioni sociali di Minuccio oltre i Maconi che ne face-vano parte attraverso Guido e il ramo di Corrado di Leoncino, con cui egli si imparentò grazie al figlio Ludovico che prese in moglie la figlia di questo, Francesca 10, poco altro sappiamo. Se non fosse per le orme lasciate dalla giovane Nicola che condu-cono passo passo fino al popolo di San Donato, dove ella andò a vivere dopo un matrimonio che costò a Minuccio 600 fiorini per la dote pagata a Bartolo di Sozzo Salimbeni 11.Se Minuccio alla morte del padre Cione era subentrato in una situazione patrimoniale abbastanza solida, favorito dalla ge-ometria semplificata della successione che aveva giocato per consegnare intatto nelle sue mani il patrimonio paterno, lo stesso non fu per i figli. Quando morì, a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta 12, la spartizione dell’eredità in tre parti frantumò e alleggerì una dotazione patrimoniale non enorme che il pagamento della dote di Nicola e forse la difficile con-giuntura di quegli anni avevano contribuito ulteriormente ad erodere ed indebolire.Del ramo facente capo al miles Cione di Alamanno, la genera-zione dei figli di Minuccio è quella che rimane più in ombra. La trama delle vite di Ludovico, Arrigo, Manno, Nicola, appare corrosa: i pochi dati a disposizione proiettano sulle loro figure una luce debole, come giunta da un astro lontano. Sulle strade intraprese per far fruttare l’eredità ricevuta, sulle scelte, sui suc-cessi o gli insuccessi delle loro iniziative, pochi sono gli indizi.Ludovico ed Arrigo si misero a gestire la loro proprietà fondia-ria: il grosso della rendita proveniva ai due probabilmente dallo sfruttamento della terra di Presciano e dallo smercio della pro-

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duzione agricola, grano soprattutto, in cui appaiono coinvol-ti 13. Se a metà Trecento i beni fondiari ubicati in quella contra-ta erano ancora quelli del nonno Cione, i due figli di Minuccio potevano contare su un complesso valutato nel 1318 poco più di 3.000 lire, composto da parcelle di bosco, vigna, alcuni ap-pezzamenti di terra lavorativa cum domo et resedio 14. Le ren-dite probabilmente non erano alte e i fratelli che mantenevano anche la proprietà del palatium urbano e della apotheca cum tribus fondacis lì sotto, integravano i guadagni della campagna con le locazioni: nell’aprile del 1387 i magazzini, divisi in due quote, una spettante ai figli di Ludovico, Bartolomeo e Cione, e l’altra metà al loro çio Arrigo, fruttavano ai tre locatori 43 fiorini d’oro all’anno; ma in quel frangente, morto Ludovico, i suoi eredi, con il consenso della madre Francesca Maconi, procedettero alla vendita della loro parte a favore di Matteo di Guido Allegretti, mercatore pannorum lineorum de Senis al prezzo di 150 fiorini 15.Per donna Nicola si aprì una vita di vedovanza, dopo la morte del marito Bartolo di Sozzo Salimbeni (forse identificabile con il proprietario di parte del castello di Montorsaio venduto al Comune nel 1361, dopo l’omicidio del padre per mano degli uomini di quella comunità) che l’aveva portata a vivere nel po-polo di San Donato, roccaforte urbana del suo lignaggio 16. La vedova dimostra una certa disponibilità di denaro: nel 1390 ac-quista per 36 fiorini d’oro una casa con orto in città, e quando dieci anni più tardi, è la primavera del 1400, testa in favore dei nipoti Bartolomeo e Cione, figli del defunto Ludovico, entra a far parte dell’eredità anche certo suum potere de Rinaccio, il cui godimento ella vincola ai due agnati e loro discendenti maschi: condizione che venendo a mancare avrebbe determinato l’alie-nazione a favore della Casa della Misericordia 17. I due nipoti subentrarono nel possesso del podere, quando Nicola morì, ma si trovarono in difficoltà a riscuotere quei 300 fiorini, parte della dote che la zia aveva lasciato loro: così intrapresero la via giudiziaria contro gli eredi del marito di quella e nel 1404, per

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sentenza dei Priori del Comune, ebbero libero accesso ai beni e alle proprietà dei figli di Benuccio Salimbeni, nipoti di Bartalo, per la quota in loro diritto 18.Quando Nicola redasse il suo testamento, nel maggio del 1404, essa, sopravvissuta anche ai figli di Manno, Agnese e Francesco, era l’unica figlia di Minuccio ancora in vita.Manno era morto in un giorno imprecisato di un anno impre-cisabile, fra 1359 e 1362 19. E anche la sua figura è poco più di un’ombra. La prima apparizione urbana di questo figlio di Minuccio risale al giugno 1333 quando è testimone all’atto con cui la madre Agnola acquistava un appezzamento di terra posto ad Asciano 20. Poi, a più di venti anni di distanza, sono i primi mesi del 1355, Manno è di nuovo a Siena chiamato a presiede-re, insieme al figlio Farsotto, e a dare il suo consenso ad una ob-bligazione della sorella Nicola, già vedova di Bartolo 21: a quel punto Manno era sposato e stabilmente stanziato a Rigomagno dove erano nati i suoi due figli, già grandi, Francesco detto Farsotto ed Agnese. Stanziato stabilmente in contado, come ricorda il nipote nelle sue memorie, Manno per accordi tra fra-telli intercorsi alla morte del padre, per le volontà testamentarie di quello o per vicende che restano buie, sembra essere estro-messo dalla proprietà degli immobili urbani di famiglia: quel complesso nel ‘terzo’ di San Martino ruotante attorno al pala-tium individuato nel 1387 come palatium heredum Lodovici et Arrighi Minucii de Piccholominis 22. Vero è che a quella data lui e il suo unico erede maschio erano morti senza discendenti maschi: ma nell’eredità trovata dal nipote non c’è menzione di beni urbani 23; lo stesso figlio Farsotto del resto aveva dovuto prendere in affitto in città da Nanni di Meo, nell’agosto 1372, una casa per sua abitazione nel popolo di San Cristoforo 24. Stabilmente stanziato dunque in contado, a Rigomagno, se è probabile che gli impegni familiari predisponessero la sua esi-stenza ad un occasionale pendolarismo, la fisionomia del padre di Agnese pare essere quella del rentier disancorato da attività e interessi urbani, occupato alla gestione e all’amministrazione

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del suo patrimonio, un poca d’usura ai contadini in difficol-tà, forse qualche compravendita di grano, che garantiscono al proprietario fondiario una rendita forse modesta, che lo obbli-gherà a dotare la figlia con soli 100 fiorini, ma sufficiente per provvedere alle sue necessità, a quelle di lei – diventata vedova – e alla crescita del piccolo nipote orfano. A cui il rentier farà da padre e da primo maestro 25.

3. Nel 1345 Agnese si sposa con Gano di Guidino e con lui si trasferisce a Siena, dove probabilmente il figlio di Guidino è già andato ad abitare: breve viaggio che l’ha condotto insie-me al fratello Nadduccio dalla campagna di Guistrigona alle mura cittadine 26. In città nasce loro figlio. E passano gli anni. Passano circa tre anni: le condizioni di vita del piccolo nucleo familiare sono modeste, non ci sono soldi per la balia, la morte di Gano è una sventura. La legge e la prassi consentono alle figlie, ancorché dotate, di rientrare a casa in caso di vedovan-za 27: e Agnese fa ritorno alla casa natìa. È suo diritto. E una necessità: dal marito ha ereditato soltanto debiti, non è riuscita neppure ad ottenere dagli eredi di lui la restituzione della dote, mangiata probabilmente dai debitori, come confesserà al figlio ormai adulto 28, la vita in città morde, la peste sta per spargere le prime vittime e alla richiesta affettuosa del padre Manno che le chiede di raggiungerlo in contado, laddove la freccia della care-stia sembra meno capace di raggiungere i suoi bersagli, Agnese risponde di sì 29. Il figlio, ancora piccolo, 2 anni e qualche mese, è affidato allo zio Nadduccio che nel volger di breve tempo però torna sui suoi passi, non può assumersi oltre il carico del nipote, la carestia è “grandissima per tutta Toscana” e anche a Siena 30. Così il bambino è riunito alla madre a Rigomagno, in Valdichiana 31.Quando Cristoforo, a 12 anni circa, abbandona Agnese, la casa del nonno e le sue cure è per tornare a Siena a studiare. E Agnese con l’aiuto di Manno contribuisce in maniera importante alle

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spese del figlio, ospitato ancora una volta da Nadduccio. Il fan-ciullo diventa allievo di maestro Pietro Dell’Occhio alla Casa della Misericordia e cinque anni dopo, coronando probabil-mente un desiderio della sua famiglia, consegue il notariato 32. Nel 1362 quando comincia ad esercitare in giro per il contado li offici, il nonno Manno è ormai morto e la madre, gestita l’ul-tima amara incombenza delle restituzioni usurarie in qualità di esecutrice testamentaria del padre, è rimasta sola a Rigomagno. O forse ancora in compagnia del fratello Farsotto.Ad Armaiolo, questo castello a circa quindici chilometri da Siena, dove Cristoforo esercita il vicariato per cinque o sei vol-te 33 – durante gli anni 1362-1374 – si è formata una sorta di piccola rete familiare. Un gruppo di uomini tutti appartenenti al lignaggio dei Piccolomini con stretta e ben orchestrata rota-zione di ruoli comprano terra, concedono prestiti, acquistano grano. Il gruppo mira a impiegare fondi e capitali nella for-ma più idonea a soddisfare i suoi interessi. E i suoi interes-si, nel quadro di una economia in fase di riconversione verso l’area della rendita, quale è quella senese nel secondo Trecento, sono agricoltura e sfruttamento terriero. È soprattutto il ramo di Naddo di Enea, collaterale ai domini del vicino castello di Castiglion Barote 34, a rafforzare la proprietà, a giocare un ruo-lo nel credito locale. Benuccio di Naddo che possiede un pala-tium nella contigua Castiglioni, compra un palatium anche ad Armaiolo 35: lo si vede spesso nella comunità insieme ai cugini Buonsignore, Landoccio e Tone di Fazio e al consorte Tato di Filippo e suo figlio Antonio: possiedono terra, comprano ter-ra 36, prestano denaro, anche la canonica ricorre a loro in caso di necessità 37. Il contado li attira. Potente calamita degli inte-ressi legati alla terra, al piccolo credito contadino, al pascolo, al legname, ai prodotti del mercato alimentare, ai prodotti del sottosuolo. Tato dirige i lavori di estrazione di vetriolo, argento e rame in una cava che si trova nella corte del castello, in una località chiamata Le Celliera, e più precisamente fra l’albero di olivo e l’orto della chiesa di San Giovanni, l’orto del prete:

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ottiene dalla comunità l’affitto della cava e dopo averla segnata venerabili signo crucis e battezzata con il nome di cava della vergine Maria, insieme al suo operaio e famulo Giacomino di Pavia inizia le procedure di escavazione, con pala e piccone, secundum usum et consuetudines artis cavandi 38.Questi uomini sono tanto presenti nella vita del castello che quando tutta la comunità va in subbuglio, scoppiano le liti, si va ai ferri corti, si ricorre a loro come giudici ad arbitrare 39, si chiamano a far da testimoni alle paci che pongono fine agli in-sulti 40. Strumenti per sedare le discordie o essi stessi capoparte: l’attività mineraria si confonde con la guerra: Tato di Filippo e i suoi sequaces, tutti di Armaiolo, tenacemente in lotta con-tro Palmieri di Vivuccio e i suoi collegati, tutti di Armaiolo, alla fine decidono di porre fine alla loro feroce contesa perdo-nandosi e assolvendosi a vicenda un lungo elenco di ingiurie, offese, insulti, violenze, di fronte al notaio Cristoforo, figlio di Agnese. Che rogò una pace annotando la sanzione pesantissi-ma di 1.000 fiorini d’oro contro chi infrangeva la raggiunta concordia ma taceva, come consuetudine, sui motivi dai quali il contrasto aveva tratto origine e alimento 41.Un giorno anche Cristoforo e sua madre cominciarono a com-prare ad Armaiolo, a poco a poco comprare, e a comprare ad Armaiolo continuarono negli anni successivi quando grazie alle accresciute finanze avevano ormai fatto ritorno a Siena 42. L’esperienza passata, i disagi sofferti, l’innalzamento di status di Cristoforo, li spingono a fare più massarizia che possono, a investire i loro risparmi in campagna, secondo una dinamica ben conosciuta a larga parte del ceto cittadino medio ed alto sollecitato all’acquisto terriero da molte certezze. “Chi compe-ra spende quello superchio, e stassi a rischio di non aver tolto cosa falsificata male durabile o poco buona” 43. Ogni cittadi-no dovrebbe avere delle proprietà terriere per trascorrervi una parte dell’anno in villeggiatura e per sfamare la sua famiglia 44. Il clima di insicurezza che le carestie e le epidemie trascina-no con sé accresce la corsa verso l’investimento fondiario. E

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la corsa verso l’investimento fondiario dà rinnovato vigore al processo di ricomposizione terriera – già in corso da tempo – che complici i vuoti creati delle epidemie, favorisce lo sviluppo dell’appoderamento 45. Agnese e Cristoforo comprano, la pro-fessione del notaio vicario si intreccia con il negozio terriero, Agnese compra anche in prima persona, è il figlio a rogare il contratto 46, e in prima persona tratta con il mezzadro, segue e contribuisce ad amministrare il piccolo patrimonio che va crescendo e che arriverà a compattarsi ad Armaiolo in circa 50 staiori, per un valore d’acquisto di circa 500 fiorini: può “ben dirsi un podere” 47.La terra è, per la sua sensibilità, un affare appetibile. Si rivelerà anche un affare fortunato 48.Durante l’ultimo vicariato di Cristoforo ad Armaiolo, nell’an-no 1374, Farsotto li raggiunge, forse in fuga dalla città nuova-mente appestata 49. Ma la fuga non basta a fuggire la morte. Farsotto si ammala il 2 settembre e morirà quindici giorni più tardi, durante i quali Agnese si prende cura di lui 50. Subito chiama il medico maestro Francescho, poi manda a chiamare il suo mezzadro, deve andare a comprare lo siroppo e altre cose che maestro Francesco ha appena comandato, a Giovagniuolo di Geri chiede di correre a Siena, che arecasse confetti e çucaro rosado e biancho per Farsotto, una ricca alimentazione è la pri-ma cura per ogni malato, da Duccio di Segucço si fa portare a casa due paia di starne mentre il mezzadro Biagio, su sua richie-sta, va in cerca di confetti un’altra volta. Ma tutte le cure sono inutili. E dopo aver provveduto ai bisogni dell’infermo Agnese deve farsi carico del lutto. Pensa alle spoglie, c’è da trovare qualcuno, si trova el Betta, che vada ad Asciano a comprare la vesta per il corpo e el panno da mettere sopra la cassa; pensa ad avvertire el priore di Sancto Biagio là dove Farsotto vuol essere tumulato; pensa ad avvertire i consorti di Modanella, Andrea di Francesco conosceva bene Farsotto 51, e i parenti di Latocastelli, Rapolano, Castiglione, quegli stessi Benuccio di Naddo, Tato di Filippo e gli altri; pensa alle candele e ai ceri

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per le viglie et per la sepoltura, è di nuovo el Betta che va ad Asciano insieme a Tendino; pensa infine alla dispensa, c’è da riempirla di castroni, carne, vino per dar da mangiare a’ preti e ad altre persone convenute per il rito funebre 52.Farsotto che aveva redatto il suo testamento pochi giorni pri-ma, ospite in casa di Agnese, già ammalato nel suo letto, im-pegnò la sorella, insieme allo zio Arrigo di Minuccio, al con-sorte Tato di Filippo e a Pietro frate francescano di Farnetella, all’esecuzione delle sue ultime volontà e dei lasciti e delle resti-tuzioni usurarie da fare attraverso il concorso e la mediazione, carismatica e competente, dell’episcopato di Siena, sulla base di quodam suo libro dove mano sua aveva registrato crediti e guadagni illeciti. Dell’eredità del fratello, devoluta a favore dell’ospedale di Santa Maria della Scala, risarcita delle spese sostenute per la sua malattia e il funerale, rimasero ad Agnese pochi fiorini, valore di certe suppellettili della casa di Farsotto in San Cristoforo 53.In quello stesso anno 1374 Agnese e Cristoforo tornarono, fe-lici di tornare, a Siena 54. E a Siena l’età e la fortunata progres-sione della carriera del notaio 55, posero sul piatto il problema del matrimonio.

E in questo tempo nel principio che io cominciai a stare a Siena, Dio trasse fuori al mondo una nuova stella, piena ve-ramente dello Spirito Santo. Ciò fu la venerabile Caterina, beata e santa, e santissima e beatissima, la quale si chiama-va Caterina di Monna Lapa da Fonte Branda, Mantellata di Camporeggi; a la quale per mezzo di Neri di Landoccio e di Nigi di Doccio, suoi spirituagli figliuoli, io fui menato … Unde per la sua santa dottrina e santi amaestramenti, avendo con liei assai pratica, Dio m’aveva toccato el cuore in dispre-giare le cose del mondo; e aveva animo più tosto a uscire del mondo, che di volermi inviluppare in esso. Mia madre avendo paura che io non tenesse altra via, e non prendesse altro stato, sì come paurosa di non perdare el figliuolo, mi cominciò a sollecitare e fare sollecitare che io pigliasse moglie e io a ciò malvolentieri consentiva, con dicendomi:

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– Vuomi tu abandonare? Io non ho persona per me: mio pa-dre è morto, e io t’ho allevato con tanta fadiga, che mi rima-nesti di XXVIII mesi, e mai non mi volsi rimaritare per non lassarti.Unde parendo a me che la cuscienza mi rimordesse, per suo rispetto cominciai a consentire del pigliare moglie; e fra l’al-tre n’ebbi tre per le mani … Allora Caterina non era a Siena con la quale io potesse avere conseglio, e beneché le parole fussero molto inanzi, pure nol volsi fare se prima io non lele scrivesse. Ella era a Pisa: di che io le scrissi una lettara per uno fante proprio come io facendomi cuscienza d’abandonare mia madre, avevo per le mani di pigliare moglie, e che le pa-role erano molto innanzi da non potere tornare a dietro; che ella mi consigliasse quale io tollesse di quelle tre … Auta che Caterina ebbe la detta lettara, sì mi rispose … “ben m’incre-sce che tu fai resistenzia … del fatto della sposa io vi rispondo che malvolentieri di questo io mi impaccio.. nondimeno … considerato la condizione di tutte e tre, e ognuna è buona … prendete quella di Francesco di Ventura da Camporeggi. Altro non dico” 56.

I consigli di Caterina, sollecitati da un discepolo tanto sensibile al carisma spirituale della futura santa, non influenzarono de-cisioni e trattative matrimoniali a quel punto già molto avanti. Nel braccio di ferro che aveva opposto madre e figlio di fronte al desiderio di quest’ultimo di uscire del mondo, monna Agnese aveva avuto la meglio: aveva dovuto rinunciare a un marito, poi alle sue doti, poi ad un nuovo matrimonio, infine ad un padre; non intendeva rinunciare adesso anche all’unico figlio al cui bene aveva piegato la propria vita e le proprie scelte. Cristoforo non era soltanto il passaporto per un futuro affet-tivamente pieno ed economicamente sicuro. Era anche l’unica possibilità che lei continuasse ad esistere in quanto madre. Il 28 ottobre 1375 fu steso il contratto dotale e Mattia, figlia di Fede pellicciaio, diventò sposa di Cristoforo portando in dote 350 fiorini d’oro 57. Agnese, dopo tanta sollecitudine, sarà stata contenta: il matrimonio arrivava a corollare i suoi desideri e a

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ripagare tutto il dispendio di parole che intorno a quei desideri si erano arrotolate come il filo al fuso nei mesi precedenti.Intanto ser Cristoforo spingeva in avanti la sua carriera profes-sionale. Ai vicariati e ai cancellierati in contado somma sem-pre più frequenti e importanti gli incarichi in città. Notaio del Capitano del Popolo, notaio del Concistoro, notaio del Biado, dei Pupilli, dei Contratti, Console dell’arte 58. La vita ferve, la proprietà fondiaria cresce, la frequentazione con Caterina Benincasa e il suo entourage – riunioni spirituali in cui coin-volge anche la madre Agnese 59 – continua, a cinque anni dal matrimonio cominciano a nascere i figli – Francesco, Nadda, Galgano, poi Manno, Gherardo – e nelle impellenze del quoti-diano monna Agnese contribuisce, insieme alla moglie Mattia, agli affari da sbrigrare all’interno della nuova comunità familia-re 60. Poi il salto: dalla burocrazia alla politica: nei mesi marzo-aprile del 1384 Cristoforo va a sedere in Offitio Dominorum Defensorum Populi Civitatis Senarum, il vertice dell’istituzio-ne comunale 61; nel dicembre di quell’anno è nominato notaio dell’ospedale di Santa Maria della Scala 62.Più o meno in quel tornante, tra 1384 e 1387, Agnese muore. Agli inizi di febbraio del 1388 Cristoforo battezza la figlia ulti-ma nata con il nome della madre 63.

4. Il memoriale del notaio Cristoforo di Gano è la scrittura di una autobiografia. Una autobiografia voluta, programmata, costruita. Quando Cristoforo si siede al tavolo e comincia a dare forma e ordinare le minuscole tessere che via via erano ve-nute accantonandosi – forse anche in visione del compimento del progetto – da qualche parte, sulla carta o nella memoria, al riparo dalla dispersione, è all’incirca il 1389 e lui è un profes-sionista maturo, ricco dei frutti di una brillante carriera iniziata quasi trent’anni prima, un proprietario fondiario, un padre di famiglia: la ‘costruzione’ delle memorie si mescola e si confon-de dunque con il fluire magmatico del presente e con la piena

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densa e fossile dei ricordi del passato. Cristoforo comincia a vergare le memorie nel 1389 e va avanti intervallando il lavoro di scrittura fino al 1393: dopo quella data raramente tornerà sul suo registro, chiuso definitivamente sette anni prima della morte. Sopraggiunta nel 1410 64.

In questo libro saranno scritte certe memorie di me Ser Cristofano di Gano notaio da Siena … di miei fatti. E perché da poco in qua cominciai a scrivare e fare memoria, si non saranno le infrascritte memorie molto da la longa … 65.

Il notaio ha deciso di concentrare i propri sforzi sulle vicende più recenti: il suo racconto si dipanerà lungo il filo di circa mez-zo secolo, a partire dalla piccola storia familiare che precede la sua nascita (1342) fino all’ingresso della figlia in convento, nel 1403. Dentro questa cornice temporale uno stile sobrio recu-pera, seleziona, organizza il materiale necessario alla (ri)costru-zione della sua vita: la nascita, l’educazione, la professione, la ricchezza, la famiglia, gli incontri che ne hanno segnato il per-corso 66. La scelta dichiarata di chiudere la scrittura su un seg-mento temporale breve, la forte centratura su di sé, raccontano lo sforzo e la volontà di Cristoforo di distillare una materia che poteva dilatare, tracimare, invadere lo spazio delle carte bian-che, violentando i suoi propositi. Il risultato è un’opera passata attraverso l’ordinata geometria della sua mente, il setaccio delle sue intenzioni.Programmaticamente pubbliche, le memorie di Cristoforo sono la rappresentazione autobiografica di un percorso esistenziale.

Sia manifesto a chi vedrà questa scrittura come io ser Cristofano di Gano … so’ di vile nazione e fui figliuolo di Gano di Guidino 67.

Risultato della differente importanza attribuita al ramo familia-re cognatizio e agnatizio, il rapporto del notaio con la propria memoria genealogica è fortemente asimmetrico. Cristoforo ri-

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duce al minimo il numero degli agnati, ricostruendo invece con maggior perizia la linea di ascendenza cognatizia. Quella che dimostra e dà ragione alle proprie vili origini. Una sottolinea-tura intenzionale. E, per altro verso, una cancellazione rumoro-sa 68. La scelta di non fare memoria da la longa annulla la linea originaria, verticale, della famiglia di Agnese – cordone ombe-licale che attraverso la madre avrebbe unito Cristoforo all’avo miles Cione di Alamanno – portando per contrasto in spumo-sa emersione quella irrinunciabile connotazione vile e popo-lare della sua persona-personaggio 69. Memorie-cancellazione dunque. Memorie-punto di divorzio. Memorie-cicatrice. Ferita genealogica subito rimarginata grazie alle parole dedicate alle ultime propaggini di quella linea, il nonno Manno e la madre Agnese: figure circonfuse dall’alone luminoso dell’affetto, dal respiro del rispetto e della riconoscenza che soffia su di loro 70.

Quando morì [mio padre] non ne rimase cavelle e non che altro le dote di mia madre non si potero avere. Ella … mai non mi volse abandonare e con grande sollecitudine e povertà m’alevò … Poi el padre, cioè Manno, non la volse lassare così sola: arrecossela seco e menolla a Rugomagno là dove egli stava … El detto Manno … mi trattò come suo figluolo e mai non seppi che padre si fusse se non lui … Morì Manno … e poco rimase di lui salvo certe massarizie di casa …

Figure certamente amate ma anche risolte, forse amate proprio in quanto risolte, nella ‘caricatura’ della loro povertà. Ed è pro-prio nella tensione fra queste dichiarazioni di affetto e l’irrigi-dimento del cliché che fossilizza l’irrequieta mobilità di ogni esistenza e che copre di un grigio vestito di fatica e di sventura la vita di Agnese, che va guardato e interpretato il ritratto della madre di Cristoforo fanciullo. Ritratto spazzato dal vento di quel campo di forze.Il cliché retorico e narrativo peraltro può dissimulare anche altre possibili verità:

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Io non ho persona per me: mio padre è morto e io t’ho alle-vato con tanta fadiga che mi rimanesti di XXVIII mesi e mai non mi volsi rimaritare per non lassarti …

La posa della madre vedova che, nel quadro rievocativo del dialogo con il figlio, rinunzia ad una nuova vita e ad un nuovo matrimonio per il bene di quel figlio – che nel quadro l’ascolta – potrebbe, tolta l’ingessatura, liberare e rivelare anche scelte ‘altre’ dietro quella condizione di vedovanza prolungata: ine-sprimibili fremiti, indicibili desideri di un ‘celibato’ volontario, forse un voto di castità?, promesse silenziose, voli di inconce-pibile libertà… 71.Ma la caratterizzazione socialmente ed economicamente ruvida ed oscura della famiglia di origine e dei propri natali, a cui con-corre anche un elemento dichiaratamente ideologico – la vile nazione è funzionale e dà maggior forza alla sua appartenenza al partito popolare, strumento identitario di affermazione po-litica 72 – è soprattutto subordinata nelle memorie di questo biografo di sé stesso, ad un obiettivo. All’obiettivo: costruire un percorso virtuoso della propria esistenza.La povertà esalta chi quella povertà ha sopportato, chi quel-la povertà ha sconfitto. L’uso professionale dell’ars notarile ha condotto alfine Cristoforo all’agio e anche al potere. Certamente alla sua gloria: la professione costituisce il tramite per l’ascesa sociale del figlio di Agnese e della sua famiglia. Le memorie descrivono con precisione tempi e forme della virtuosa anabasi di Cristoforo: dal fanciullo povaro che muove a compassione il maestro della pietosa Domus Misericordie, alle necessarie precoci esperienze di lavoro come ripetitore privato 73 che in-terrompono e affaticano la sua formazione scolastica, dal con-seguimento del notariato per arrivare all’esercizio del mestiere e gli incarichi nel territorio che finalmente possono sottrarre il giovane e la madre a una difficile condizione. Ripagandoli dei sacrifici compiuti. Al bambino, figlio di un morto 74 e di una vedova impoverita, nato su una strada sbilenca, trasversale, ri-spetto alle strade maestre della vita e della storia, il governo

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doveva apparire un miraggio irraggiungibile: le fatiche, l’impe-gno finiranno invece per guadagnargli la rispettabilità e l’onore più grande: quella del titolo tributato ai magistrati supremi: Magnifici Signori.Il memoriale articola una sorta di virtuosa contabilità esisten-ziale: Cristoforo rende conto al lettore della propria condotta di vita: tanto fruttuosa dal punto di vista dei risultati raggiunti, quanto eticamente irreprensibile.

Mia madre avendo paura che io non tenesse altra via, e non prendesse altro stato, sì come paurosa di non perdare el figliu-olo, mi cominciò a sollecitare e fare sollecitare che io pigliasse moglie, e io a ciò malvolentieri consentiva, con dicendomi: “Vuomi tu abandonare? Io non ho persona per me: mio padre è morto, e io t’ho allevato con tanta fadiga che mi rimanesti di XXVIII mesi, e mai non mi volsi rimaritare per non lassarti”. Unde parendo a me che la cuscienza mi rimordesse, per suo rispetto cominciai a consentire del pigliare moglie …

Il dialogo tante volte citato, pur non esente da giochi retorici e dissimulazioni, mette in scena l’accesa negoziazione tra gli imperativi di una madre e quelli di un figlio. Quella negozia-zione, a ben guardare, rappresenta, per Cristoforo, l’occasione per dar forma al suo bagaglio positivo di emozioni, sentimenti, attenzioni verso Agnese; la quale, a sua volta, trova in quel-la contrattazione l’occasione per incorniciare il proprio ruo-lo in un’iperbole di affetto materno. La scelta in direzione del matrimonio – e di un matrimonio probabilmente combinato dalla madre – non è solo il dolce frutto del patteggiamento di Cristoforo con la sua coscienza, il felice risultato dell’intimo e sofferto soliloquio fra il ‘figlio’ e il ‘discepolo’ in cui per breve tempo egli sembra aver smarrito e scollato la sua anima. Quella decisione propone semmai, ben più gagliardamente, il raggiun-gimento di una idealità della relazione filiale, o, meglio, di una nuova coscienza di sé nella relazione filiale. Il senso nuovo in cui Cristoforo comprende ora quella relazione – senso che la

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madre aveva poderosamente contribuito a disegnare dichiaran-do la programmatica necessità di subordinare il proprio inte-resse a quello, più alto, del bene del figlio – diventa sistema di valori, concetto-guida, modello-codificato: l’obbedienza e la devozione che il giovane Cristoforo tributa alla madre diver-rà successivamente la devozione e l’obbedienza dei figli verso Cristoforo padre. O meglio: di tutti i figli verso i propri padri.Devozione, impegno, ingegnosità, perseveranza: nel corso degli anni il marito e poi padre di famiglia Cristoforo ha modo di realizzare, nel banco di prova della vita, queste virtù. Nella ge-stione della dote di Mattia 75, nella meticolosa tenuta della con-tabilità degli affari di casa, delle balie, dell’amministrazione del patrimonio fondiario – tanto dilatata da far attribuire alle me-morie una funzionalità pratica 76 – si affacciano, incasellati in cifre e registrazioni, il rigore, la sollecita cura per la propria fa-miglia, la rettitudine di Cristoforo: un codice etico di condotta quotidiana che trovava particolare rispondenza e speciale con-sonanza negli ammaestramenti di Caterina Benincasa, in quella didattica del bene operare in cui la mantellata di Camporegio additava la bontà del gesto individuale, l’importanza dell’azio-ne umana a beneficio di sé stessi e degli altri, sganciata da ogni interpretazione prettamente spirituale.Un modello di comportamento eticamente laico che funziona da centro focale e principio organizzatore dell’autobiografia di Cristoforo. Autobiografia-agiografia. Autobiografia agiografica in cui gli eventi vengono sottratti al loro meccanico fluire per innalzarsi, come l’onda sul mare, dal lago opaco in cui rischiano di affondare il loro senso. Il notaio autobiografo si riappropria della sua vita ricostruendola, celebrandola nel suo significato di exemplum: l’atto quotidiano è epos che sgorga dalla virtù nelle cose. L’epopea di Cristoforo è l’ininterrotta continuità di comportamenti virtuosi, in ogni sfera della sua vita, dal passato al presente nell’atto di perpetuarsi nel futuro. “L’hagiographie est un art. Ni la conscience, ni l’exactitude n’y suffisent, et l’art exige le choix” 77. La selezione dei materiali per la costruzione

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del ritratto positivo della sua persona, fa confluire nella vita di Cristoforo fatti emblematici tanto minuti quanto memorabi-li: l’elemento ‘prodigioso’ innestato nella narrazione dal largo spazio concesso alla speciale relazione che lo lega alla santa 78, intrecciato alla contabilità minima e prosaica del quotidiano, concorrono a costruire una sorta di vangelo. Evangelion: la ‘buona novella’ di una vita.Cristoforo avrebbe iniziato a scrivere le memorie nel 1389. Da alcuni anni il governo dei Riformatori che ha segnato il massimo di incidenza dei popolari minuti alla guida della cit-tà e un radicale rinnovamento del personale politico e delle fila degli ufficiali comunali, di cui anche il notaio ha potuto avvantaggiarsi, ha ceduto il posto ad una nuova coalizione di stampo moderato. Alcuni membri del lignaggio della madre hanno contribuito fortemente ad alimentare la rivolta di marzo che ha defenestrato quel governo 79. Gli equilibri sono saltati. Cristoforo è di fronte al ‘nuovo’. Un nuovo sconosciuto, ancora informe. Un nuovo dilagante. In questo stesso torno di tempo molte delle sue energie e dei suoi pensieri sono volti alla valo-rizzazione della figura e dell’operato di Caterina, in vista della sua canonizzazione 80.Tra il marzo e l’aprile del 1390 Cristoforo si siede per la secon-da volta tra i priori al governo della città 81. Nello stesso anno la peste gli ruba Mattia e gli strappa, uno a uno, tutti i suoi figli. Uno dopo l’altro: e Cristoforo annota, come al solito, so-briamente, queste amare vicende che insultano la sua vita. Gli rimarrà soltanto la figlia Nadda, ribattezzata Agnese, affidata e poi entrata per sempre nel convento di Santa Bonda 82.In questo contesto nascono e crescono le memorie: non ritirata di chi ha molto vissuto, negli spazi minimi della memoria in-tima. Né approdo dell’uomo estromesso dall’ingranaggio che fa di lui un vinto. Ma fondamento autoritativo, programma-ticamente didattico e pubblico, di memoria, identità, legitti-mazione. Per non uscire del mondo. Ma piuttosto per volersi inviluppare in esso.

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Il 12 novembre 1391 il capitolo dell’ospedale Santa Maria del-la Scala deliberava la sua oblazione 83.

1 Il registro di memorie di Cristoforo di Gano Guidini, quaranta carte circa, si trova in Ospedale Santa Maria della Scala, Eredità, 1188, a. (da ora indicato come Memorie). Fu parzialmente edito da Milanesi, Ricordi di Cristofano Guidini, 1843, pp. 27-48. Nel 1984 Giovanni Cherubini utilizzò il libro di memorie per tracciare un profilo del notaio senese: l’attività professionale, gli affetti, l’incontro con Caterina Benincasa, la gestione del patrimonio (Cherubini, Dal libro di ricordi di un notaio senese del Trecento, 1974, pp. 393-425). Recentemente la figura del notaio, a partire dalle memorie, è stata oggetto dell’accurato studio di Bonelli, Ser Cristofano di Gano Guidini. Biografia di un notaio senese del Basso Medioevo (1342-1410), a.a. 2004-2005: a cui si rinvia per la precisa disamina dei tempi di scrittura e di formazione del libro. La citazione tratta da Memorie, cc. 1r-2v.

2 Estimo 114, cc. 56r-57v. Il complesso immobiliare urbano di Cione era valutato 6.166 lire. Per il profilo socio economico e politico di Cione di Alamanno, vedi retro, pp. 259 sgg. Per una valutazione comparativa del-la ricchezza di Cione nel quadro familiare Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 254 sgg.

3 Dell’esistenza di Millia figlia di Cione di Alamanno Piccolomini parla Prunai, Carte mercantili dei Piccolomini, p. 604, nota. Ma oltre l’attesta-zione, nessun atto consente di conoscere la vita della sorella di Minuccio.

4 Diplomatico Ricci, 1303 agosto 17-19.5 Diplomatico Bigazzi, 1334 aprile 9: nell’atto Minuccio definito quondam

domini Cionis, affitta a Gabriello di Gualtieri, Pietro di Salomone, Fazio di Naddo e Meuccio di Guglielmino per tre anni, al prezzo di 40 fiorini all’an-no.

6 Diplomatico Ricci, 1303 agosto 17-19.7 L’attestazione del matrimonio in un contratto in cui la donna si definisce

uxor Minucci domini Cionis del 1333: Archivio Generale, 1333 giugno 21.

8 Diplomatico Archivio Generale, 1335 novembre 16 (il prestito è concesso da Bartolomeo di Andrea Piccolomini).

9 Diplomatico Santa Maria, 1340 agosto 9. La gestione delle ultime volontà di Lapo portò Minuccio e Guido Maconi a farsi carico della soddisfazione dei legati caritatevoli predisposti dal testatore a a favore delle comunità mo-nastiche minoritiche di Siena e Corsignano e dell’ospedale di Santa Maria della Scala, con cui Lapo ammetteva di aver fatto certa permuta di cui do-veva purgare suam coscientiam; e poi acquisti di ceri, debiti da saldare, restituzioni di usure.

10 Il 10 novembre 1360 Francesca di Corrado Maconi moglie di Ludovico

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di Minuccio, elegge Ludovico come suo procuratore per riscuotere certa somma di denari che doveva avere dalla Domus Misericordie di Siena: Diplomatico Bigazzi, 1360 novembre 10.

11 L’importo delle doti di Nicola in Notarile 73, cc. 93v-94r. Parte delle doti, dopo la morte del marito, sarà donata ai nipoti: l’11 settembre 1393 “domi-na Nichola quondam Minuccii domini Cionis” del popolo “Abbadie Sancti Donati”, “relicta domini Socçi de Salimbenis” (probabilmente un refuso) aggiunge al suo testamento un legato di 300 fiorini (ex dotibus suis) a fa-vore dei nipoti Bartolomeo e Cione di Ludovico [Notarile 122, cc. 18r-19r (rogato da Cristoforo di Gano)]. Nicola era vedova già nel settembre 1390 (relicta domini Bartoli domini Socçi de Salimbenis: Notarile 120, c. 190). In un atto successivo, del 1404, relativo alla disputa che si accende fra i suoi eredi e i Salimbeni, Nicola è di nuovo definita relicta domini Bartali de Salimbenis (Diplomatico Bichi, 1404 dicembre 11).

12 In un atto datato 1354 febbraio 11, Minuccio è già defunto: la figlia di Minuccio è definita domina Nichola olim filia Minuccii domini Cionis de Picchuolominibus de Senis (Notarile 73, cc. 93v-94r).

13 Arrigo di Minuccio risultava creditore il 31 gennaio 1359 di Johannes olim Bernardi de Prisciano per 12 lire, quale pretio palearum [Notarile 80, c. 14v (1358 gennaio 31)]; il fratello Ludovico faceva credito l’8 marzo 1359 a Binduccius olim Cioli de Presciano in uno modio frumenti a la batuta pro pretio tre florenos auri (Notarile 80, c. 29), due successivi atti del 1361 lo mostrano in transazione di compravendita di grano (Notarile 75, c. 182r, 1360 febbraio 4; Notarile 75, c. 192v-193r, 1360 febbraio 25). Dopo il contratto del gennaio 1359 Arrigo ricompare come procuratore eletto dal congiunto Carlo di Biagio ad omnes lites (Diplomatico Bigazzi, 1359 gen-naio 15). Poi più niente. Nel 1387 era ancora vivo: vedi ultra.

14 Estimo 114, c. 56r.15 Notarile 119, cc. 2r-4v (1387 aprile 4).16 Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 132-133 e 174-175: per Bartalo, marito di

Nicola, e la vicenda di Montorsaio, p. 235, nota.17 “Semper … suum podere … debeat stare et esse apud dictos suos heredes et

suos subcessores masculos et quod nulla femina aliquod ius acquiri possit super dicto potere; et si dicti sui heredes morirentur sine filiis masculis le-giptimis et naturalibus vel si aliqua femina ius acquireret super dicto potere ipsum potere perveniat ad Domus Misericordie de Senis”: Notarile 123, cc. 118r-120r (1400 maggio 26).

18 Diplomatico Bichi, vol. 27, n. 3 (1404 dicembre 11). Ad eccezione dei beni appartenenti agli eredi di Benuccio in castro et curia Bocchegiani et in ca-stro sive curia de Perolla.

19 Bonelli, Ser Cristofano, p. 23.20 Diplomatico Archivio Generale, 1333 giugno 21.21 Notarile 73, cc. 93v-94r (1354 febbraio 11).22 Notarile 119, c. 2r (1387 aprile 4), cit.23 Morì … e poco rimase di lui, salvo certe massarizie di casa … e piccole

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somme di denaro liquido da usare per il saldo dei debiti usurari. Memorie, c. 2v.

24 Notarile 81, c. 100 (1372 agosto 23). Il contratto aveva validità due anni e la pensione annua era fissata in 4 fiorini d’oro.

25 Memorie, c. 2: mi trattò come suo figliuolo; e mai non seppi che padre si fusse se non lui. Ed egli mi cominciò a insegnare a leggiare infine al Donato e anco el Donato…

26 Memorie, c. 2; sulla famiglia di Gano vedi Cherubini, Dal libro di ricordi, pp. 395-396; Bonelli, Ser Cristofano, pp. 18 sgg.

27 Ricordo che rigidamente agnatizio fu il criterio con cui Ranieri di Rustichino dispose la successione dei suo beni, ma nel testamento pensò anche a sal-vaguardare le figlie da spiacevoli situazioni perché decise che nel caso in cui Rocchigiana, Ruggerotta, Adelagia e Benvenuta si fossero trovate in difficoltà per la mancata restitutuzione della dote o del pagamento degli alimenti dopo la morte dei rispettivi mariti esse potevano “habere alimenta de bonis [suis] et stare et redire in domibus vel domo [sua] cum uno ex filiis [suis] quellibet earum cum quo vel quibus sibi placuerit”, lasciando ad una di loro, Rocchigiana, alcune suppellettili e la casa della sua abitazione posta nel borgo di Santa Maria Maddalena se ella volesse “ibi redire ad habitandum”: vedi retro, pp. 75 (Diplomatico Santa Maria, 1239 settembre 19). Sul sistema dotale a Siena: Brizio, La dote nella normativa statutaria e nella pratica testamentaria senese (fine sec. XII-metà sec. XIV) (febbraio 2004); Klapisch, La madre crudele, 1988, pp. 193-211, 291-292.

28 Memorie, c. 2v.29 El padre, cioè Manno, non la volse lassare così sola: arrecossela seco e me-

nolla a Rugomagno, là dove egli stava e io rimasi col detto Nadduccio di mio padre: Memorie, c. 2v.

30 Cronaca di Agnolo, pp. 548 sgg.31 Memorie, c. 2v.32 Per il periodo di formazione di Cristoforo, l’esperienza alla Casa della

Misericordia, la sua assunzione come ripetitore in alcune case di privati in Memorie, c. 2v. Ma vedi l’attenta ricostruzione di Bonelli, Ser Cristofano, pp. 27 e 54-58, che sottolinea il ruolo del nonno e della madre nell’indiriz-zare Cristoforo verso una educazione scolastica di un certo tipo.

33 Nelle memorie Cristoforo dichiara di aver esercitato V vicariati, ma altrove parla di una sexta: Cherubini, Dal libro di ricordi, p. 399, nota.

34 Si tratta di Cinello di Cino di Enea, e poi dei figli, che nella ‘Tavola del-le Possessioni’ risulta proprietario del castrum. Vedi Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, p. 257.

35 Per il palazzo di Castiglion Barote possono vedersi Notarile 107, cc. 68v-69v e Diplomatico Sant’Agostino, 1365 maggio 1 (atti rogati “apud pala-tium Benuccii Naddi de Picholominibus districtus et curie Castilionis”); per il “palatium” in Armaiolo, Notarile 103, c. 264v (1371 gennaio 16).

36 Notarile 103, cc. 15v-16r (1364 marzo 2: Landoccio di Fazio entra in pos-

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sesso di certa parte di un mulino, detto “el mulino del Botaro”, e delle terre sode e lavorative che gli sono intorno); Notarile 111, c. 28 (1376 giugno 16: Buonsignore di Fazio compra un pezzo di terra con olivi e noci in località “El casalino”); Notarile 113, c. 57v (1379 febbraio 5: Tato di Filippo com-pra un pezzo di terra confinante con i suoi beni); Notarile 119, cc. 8v-10v (1387 aprile 22: Tato compra la metà di alcune terre e piazze da Andrea di Gabriello Piccolomini al prezzo di 25 fiorini); attestazioni dell’esistenza di proprietà fondiarie in mano a questi consorti nelle confinazioni di beni in Notarile 178, c. 148r (1380 febbraio 19), c. 151v (1381 aprile 30).

37 Il 9 febbraio 1370 Tato di Filippo appariva creditore di un Mino di Giacomo di Armaiolo per 6 lire di denari senesi (Notarile 103, cc. 130r-131r); il 22 marzo 1372 Benuccio di Naddo prestava 200 fiorini d’oro al priore della canonica di San Biagio di Armaiolo, e 100 a quello della vicina canonica di Montecercone (Notarile 103, c. 242); Tone di Fazio era entrato in posseso di una casa di Francesco del Vecchio di Armaiolo per un debito insoluto (Notarile 111, c. 36. 1378 gennaio 11).

38 Notarile 116, carta senza numerazione, post c. 105. (1383 febbraio 11). La cessione della cava da parte del Comune in Notarile 103, c. 6v (1364 febbraio 8).

39 Si tratta di Benuccio di Naddo nominato da Guerra di Goro, Notarile 103, c. 264v (1371 gennaio 16).

40 Notarile 112, cc. 20v-21r (1378 gennaio 5). La pacificazione fra i rappre-sentanti di sei famiglie da una parte e cinque dall’altra che andava a porre fine ed assolvere ingiurie, offese e omicidi perpetrati tra loro era stipula-ta ai confini fra Siena e Arezzo alla presenza del conte di Palazzuolo e di Benuccio di Naddo e Tato di Filippo Piccolomini.

41 Notarile 115, c. 62r (1382 gennaio 11).42 Memorie, cc. 10r-14v. Tracce degli acquisti di terra condotti da Agnese ad

Armaiolo sono in alcuni rogiti notarili degli anni 1373-1375 da cui ap-pare che in un caso la figlia di Manno acquistò dal consorte Buonsignore di Fazio: Diplomatico Archivio Generale, 1373 dicembre 23; Diplomatico Archivio Generale, 1374 dicembre 30; Diplomatico Archivio Generale, 1374 ottobre 9; Diplomatico Archivio Generale, 1375 agosto 26.

43 L’affermazione è in Alberti, I libri della famiglia, 1969, p. 235.44 La cultura e il gusto cittadini che si esprimono nelle riflessioni private e nella

memorialistica fra Trecento e Quattrocento non pongono dubbi sull’op-portunità di una simile scelta: comprare possessioni nel contado è la via più sicura per dare una base più solida alle proprie fonti di reddito, per diversificare l’impiego di capitali, ma anche per garantirsi l’autosufficien-za economica, quell’autosufficienza familiare specchio e complemento di un’autosufficienza cittadina che se appariva assai desiderabile a Tommaso d’Aquino che auspicava un’affrancamento delle città dalle oscillazioni del mercato (meglio, diceva Tommaso, “quod civitati victualium copia suppetat ex propriis agriis, quam quod civitas sit totaliter negociationi exposita”: traggo la citazione da Giorgetti, Contadini e proprietari, 1974, p. 154), lo

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era altrettanto agli occhi di una popolazione che esposta a carestie, guerre e pestilenze d’ogni sorta subiva ciclicamente il peso della penuria alimentare. Vedi ad es. Jones, Forme e vicende di patrimoni privati nelle ‘Ricordanze’ fiorentine del Trecento, 1980, pp. 345-376.

45 Uno dei fenomeni più incisivi nel marcare l’assetto economico e sociale tre-centesco e quattrocentesco fu quello di un potenziamento della proprietà cittadina nel contado e di un rafforzamento degli interessi che legavano i ceti dominanti alla terra: processo che interessò non soltanto Siena ma a Siena si fece ben visibile molto tempo prima che in altre città d’Italia ed ebbe l’effetto di drenare i capitali dalle attività bancarie, commerciali, ma-nifatturiere verso la rendita fondiaria: il tema è stato sviluppato da Pinto, I mercanti e la terra, 1986, pp. 221-290; Idem, ‘Honour’ and ‘Profit’, 1990, pp. 81-91; ma si veda anche in relazione alla struttura sociale di Siena e Firenze, Idem, Per la storia della struttura sociale delle città toscane, 1988, pp. 183-199; e Idem, La Toscana nel Tardo Medioevo, 1982 (in particolare pp. 3-91 e 421-499); sugli esiti quattrocenteschi e cinquecenteschi di tale fenomeno cfr. Isaacs, Popolo e Monti, 1970, pp. 32-80; Hicks, Sources of Wealth, 1986, pp. 9-42. Sui processi di ricomposizione fondiaria già in atto da tempo nel territorio senese Cammarosano, Le campagne senesi, pp. 153-222; Cherubini, Proprietari, contadini e campagne senesi all’inizio del Trecento, 1974, pp. 263-278. Studia gli effetti del cosiddetto ‘ritorno alla terra’ in relazione alla politica dei governanti rivolta alle campagne e in par-ticolare alla regolamentazione dei rapporti di lavoro Piccinni, Il contratto di mezzadria, 1992 (parte I, pp. 11-88). L’affermazione della precocità con cui a Siena si sarebbe manifestata la deviazione dei capitali dagli affari alla rendita e il conseguente processo di ricomposizione fondiaria è di Jones, Economia e società, 1980, pp. 180. Sul progressivo ampliarsi dei poderi nel-la mezzadria toscana cfr. Pinto, L’agricoltura delle aree mezzadrili, 1990, pp. 433-448.

46 Dei ventiquattro contratti di acquisto (ventidue rogati da Cristoforo) stipu-lati a partire dal 14 giugno 1368, diciannove riguardarono beni di Armaiolo. Di questi, undici sono intestati ad Agnese, due al mezzadro (trasferiti in un secondo momento ad Agnese), gli altri al notaio: Bonelli, Ser Cristofano, pp. 64 sgg. Oltre che in Memorie, tracce degli acquisti di terra condotti da Agnese ad Armaiolo in Diplomatico Archivio Generale, 1373 dicembre 23; Diplomatico Archivio Generale, 1374 dicembre 30; Diplomatico Archivio Generale, 1374 ottobre 9; Diplomatico Archivio Generale, 1375 agosto 26.

47 Le registrazioni degli acquisti fondiari in Memorie, cc. 10v-14v; ma sulla formazione e l’entità del patrimonio fondiario (che oltre Armaiolo com-prende beni nella vicina Rapolano e a Capraia, nelle Masse di Siena) e la gestione delle terre con patti mezzadrili da parte del notaio Cherubini, Dal libro di ricordi, pp. 415-425, citazione p. 418; il ruolo economico e finanzia-rio svolto dal notaio nella comunità, Bonelli, Ser Cristofano, pp. 67 segg.. Sulla partecipazione di Agnese alla gestione dei beni e ai rapporti intratte-

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nuti con i mezzadri: Biagio di Guido nostro mezzaiuolo ad Armaiuolo, die dare in prima sei fiorini denari, e quagli monna Agnesa mia madre innanzi che morisse gli die che gli desse per l’amor di Dio per l’anima di sua e di questo n’apare una scrittura … (Memorie, c. 21r). Nel 1363 Agnese stipu-lava a proprio nome un contratto di deposito: “Angelus Giannis vocatus Angelus Schiaccie de Rugomagno constituit se debitorem et pagatorem do-mine Angnese olim Manni Minucci de Pihholominibus de Senis, presenti et stipulanti, in XII florenos de auro quos confessus fuit habuisse a dicta domina Angnesa in depositum et acomandigiam …” (Notarile 100, c. 25, 1363 maggio 4).

48 Nel 1390 il patrimonio di Cristoforo era più di nove ettari (per un valore di acquisto di 910 fiorini). L’incremento della ricchezza del notaio si rispec-chia nel salto fiscale: allirato nel 1373 per 300 lire, passerà ad 800 lire, per arrivare a 1.000 lire: Bonelli, Ser Cristofano, p. 66.

49 Il 7 luglio 1372 Farsotto era a Siena: in quella occasione appariva creditore di Nuccio di Cecco di Accolto, del popolo di Abbadia Nuova, ‘terzo’ di San Martino, per 12 fiorini d’oro pro pretio di tre moggi di grano (Notarile 108, c. 29v-30r).

50 Cristoforo dedica due carte dei suoi ricordi allo zio Farsotto, da cui la det-tagliata registrazione delle spese sostenute durante la malattia e per il fune-rale: Memorie, 27r-v.

51 Il 21 settembre 1372 in occasione del lodo dato sull’estensione dei con-fini della corte di Modanella, su cui il miles streenuus dominus Andreas Francisci era entrato in lite con la comunità delle Serre di Rapolano, Francesco detto Farsotto era presente, con dominus Andrea, fra i testimoni all’atto, rogato “in castro de Serris ad Rapolanum … in domo Comunis de Serris”. Diplomatico Santa Maria, 1372 settembre 21.

52 Memorie, cc. 27r-v (elenco delle spese sostenute per la cura e i funerali).53 Il testamento di Farsotto rogato da Cristoforo di Gano è in Notarile 101,

cc. 293v-295r (1374 settembre 4). L’elenco delle spese e delle suppellettili, Memorie, cc. 27.

54 Sul domicilio del notaio e sulla preferenza accordata alla vita in città piut-tosto che in contado vedi la lettera scritta da Cristoforo, citata da Bonelli, Ser Cristofano, p. 29.

55 Andato io per molti anni per officii cominciai a stare a Siena; reggeva allora il Popolo e io cominciai ad avere offici in Palazzo, e fui la prima volta notaio del Capitano del Popolo, cioè fu Bindo Nicolucci speziale: Memorie, c. 3r.

56 Memorie, c. 3.57 Memorie, c. 5v-6.58 Bonelli, Ser Cristofano, pp. 71 sgg.59 Il 20 dicembre 1378, papa Urbano IV concedeva a Cristoforo e ad altri

numerosi discepoli, tra cui “Margarete quondam Nerii et Agneti quondam Manni relictis viduis mulieribus” la facoltà di eleggersi un sacerdote per avere l’indulgenza in “articulo mortis”: da Bonelli, Ser Cristofano, p. 40.

60 Per alcuni esempi del ruolo della moglie Mattia nella gestione dei beni di

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Cristoforo vedi Memorie, 22r, 29v; per i figli, Memorie, c. 6. Bonelli, Ser Cristofano, pp. 39 sgg.

61 Bonelli, Ser Cristofano, p. 75.62 Memorie, c. 23r.63 Memorie, c. 6v.64 L’analisi dei tempi di scrittura e delle modalità di formazione del libro, con

evidenza della ‘selezione degli eventi’ operata: Bonelli, Ser Cristofano, pp. 5-16.

65 Memorie, c. 2r.66 Bonelli distingue dieci sezioni tematiche a cui collega il relativo sottostante

arco temporale: I) presentazione dell’autore e sue origini familiari; II) balie e figli; IV) compravendite immobiliari e fondiarie; IV) prestiti forzosi; V-VII-IX-X) affari; VI) assunzione presso Santa Maria della Scala; VIII) Farsotto: Bonelli, Ser Cristofano, p. 8.

67 Memorie, c. 1r.68 Cancellazione tanto più rumorosa a fronte della duratura frequentazione da

parte di Cristoforo adulto di alcuni uomini appartenenti al casato magnati-zio: vettore la professione notarile, i comuni interessi in Armaiolo, lo stesso ambiente sociale e culturale cittadino. I Piccolomini che entrarono in rela-zione con il notaio Cristoforo per la stipula dei loro contratti, gran parte dei quali collegati agli affari di Armaiolo si trovano in Notarile 108, c. 29v-30r (Salomone di Mino); Notarile 104v-105r (Tato di Filippo), Notarile 115, c. 62r (Tato di Filippo e suo figlio Antonio), Notarile 116, post c. 105r (Tato di Filippo), Notarile 103, c. 15v-16r (Landoccio di Fazio di Naddo), Notarile 103, c. 265r-266r (Benuccio di Naddo di Benuccio), Notarile 103, c. 264v (Benuccio di Naddo), Notarile 113, c. 57v (Tato di Filippo), Notarile 111, c. 28 (Buonsignore di Fazio), Notarile 112, cc. 20v-21r (Benuccio di Naddo e Tato di Filippo), Notarile 103, c. 8r (Tato di Filippo), Notarile 112, c. 28 (Tato di Filippo), Notarile 118, c. 64v (Tato di Filippo, Ristoro di Davino, Gabriello di Davino), Notarile 111, c. 36 (Tone di Fazio di Naddo), Notarile 103, c. 286v (Tone di Fazio di Naddo), Notarile 103, cc. 103r-131r (Tato di Filippo), Notarile 119, c. 8v-10v (domina Andreas Gabrielli Johannis), Notarile 118, cc. 22r-26r (Tato di Filippo e suo figlio Antonio), Diplomatico Archivio Generale, 1377 gennaio 11 (Buonsignore di Fazio). Anche la ma-dre aveva rapporti diretti con i propri consorti: da Buonsignore di Fazio, aveva comprato un appezzamento di terra ad Armaiolo (Diplomatico Archivio Generale, 1375 agosto 26). Cristoforo, forse anche in virtù dei legami parentali, entrò in relazione con lo zio di Agnese Arrigo di Minuccio e i cugini, figli del defunto Ludovico, Bartolomeo detto Menicuccio e Cione che si rivolsero a lui quando vendettero la loro quota degli immobili urbani nel 1387 (Notarile 119, cc. 2r-4v). Sempre in ambito familiare Cristoforo rogò per donna Nicola, zia della madre, in occasione dell’acquisto di una casa (Notarile 120, c. 190), quando l’11 settembre 1393 fece il suo co-dicillo a favore dei nipoti (Notarile 122, cc. 18r-19r), e per il testamento del maggio 1400 (Notarile 123, cc. 118r-120r). La conoscenza e la stretta

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frequentazione con Gabriele di Davino Piccolomini, discepolo anch’egli di Santa Caterina, fu intensa a partire soprattutto dagli anni Ottanta del se-colo: nel 1386 Cristoforo rogava l’atto con cui “frater Antonius Ferrinaldi Rodorighi de Spania, heremita et pauper Jesu Christi”, prendeva in affitto da Tato di Filippo Piccolomini e dai suoi consorti il pupillo Neroccio di Neroccio, e Ristoro e Gabriello di Davino quedam heromitorium, detto di San Geronimo, nel popolo di San Clemente, vicino Porta Nuova a Siena (Notarile 118, c. 64v). Sull’entourage cateriniano, i sui animatori e i loro rapporti vedi Bonelli, Ser Cristofano, pp. 83 e 98-111.

69 “Lo stato de’ Riformatori … del numero de’ quagli io fui”: Memorie, c. 16.

70 “Rispetto al lato paterno pochi membri di quello materno sono citati o descritti da ser Cristoforo. A compensare questa mancanza contribuisce la qualità della scrittura …”: qualità affettiva del rapporto: Bonelli, Ser Cristofano, p. 21.

71 L’analisi della condizione femminile che si pone come terza possibilità di vita delle donne rispetto al tradizionale schema binario del matrimonio e del convento, è stata studiata, ancorché relativamente al XVI secolo, da Gabriella Zarri, che parla di un ‘terzo stato’ per le donne che scelsero la via del celibato e del voto di castità: Zarri, Il ‘terzo stato’, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di S. Seidel Manchi et al. (cfr.), 1999, pp. 311-334. Ricordo che nel dicembre 1378, una lettera di papa Urbano IV, individuava Agnese vedova di Manno come membro della famiglia spirituale di Caterina: vedi supra, nota 59.

72 In qualità di componente del Popolo del maggior numero, Cristoforo siede negli scranni del Consiglio Generale nel 1377 e da lì in progressiva scalata arriva alla magistratura di vertice nel 1384. Vedi Bonelli, Ser Cristofano, pp. 70-80.

73 “Poi sapendo io un poco gramatica, m’acconciò el detto maestro Petro … per ripetitore de’ figliuoli de Ristoro di messer Fazio Gallerani … e con loro stei solo per le spese bene tre anni”: Memorie, c. 2v.

74 Morì el detto mio padre … el quale non mi ricorda ch’io vedesse mai: Memorie, c. 1v.

75 De denari de le dette dote ne spesi la maggior parte in vestire la detta mia donna e in fornirmi in casa di molte cose che mi bisognavano, salvo che io ne comprai una casa la duve io sto da Uvile, la quale casa costò CL fiorini … Dell’avanzo de le dette dote comprai ad Armaiuolo un pezzo di terra che costò LXVIII fiorini in Gualdimanno: Memorie, c. 5v-6.

76 “Le registrazioni concentrate sulla gestione o sull’amministrazione degli affari di ser Cristoforo ricoprono la maggior parte delle Memorie …”: Bonelli, Ser Cristofano, p. 10.

77 Gregoire, Manuale di agiologia. Introduzione alla letteratura agiografica, 1987, p. 13, nota.

78 E in questo tempo … Dio trasse fuori al mondo una nuova stella, piena veramente dello Spirito Santo […] e sì poi udii da liei di Dio que non licet

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homini loqui: tale che d’una femina non si credarebbe chi non l’avesse udi-ta. Dio per certo rinnovò lo Spirito Santo in liei: Memorie, c. 3.

79 All’indomani di quella rivolta, Pietro di Salomone Piccolomini, uno dei principali artefici, fece parte della Balìa straordinaria a cui fu demandato il problema della custodia e della tutelam della città: Concistoro 126, c. 3r (1385 aprile 7). Su Pietro di Salomone infra.

80 Bonelli, Ser Cristofano, pp. 98-111.81 Bonelli, Ser Cristofano, p. 76.82 Memorie, c. 6r.83 Bonelli, Ser Cristofano, p. 87

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pietro Di saloMone

(e i suoi fratelli)

Il pupillo

Quando in un giorno tiepido d’inizio estate, il padre Salomone, ammalato, assistito da alcuni frati, redasse il testamento in cui istituiva i cinque figli eredi universali, Pietro era ancora, al pari dei fratelli, un pupillo. Salomone, figlio di Bartolomeo, unico erede delle fortune, che devono essere state immense, del ricco Guglielmino di Guglielmo, morì fra il giugno e l’ottobre del 1340 lasciando la moglie Agnolina e sette piccoli orfani, cinque maschi e due femmine 1. Prima di morire Salomone viveva con la consorte e la prole nel ‘popolo’ di San Martino, in ‘contrada’ di Porrione, in un palatium che era rimasto escluso dalla ces-sione del magnificente complesso immobiliare di sua proprie-tà, ubicato nell’area, che egli stesso, nell’atto di vendita chiuso sei anni prima con Betto dei Martinozzi di Montepulciano per 8.499 fiorini d’oro, descriveva composto da

domos meas cum quadam turri et palatio et aliis domibus contiguis et se tangentibus iusta dictam turrim et palatium nec non et ipsam turrim et palatium et domos positam sitas et positas in civitate Senarum in terzerio Sancti Martini et in populo Sancti Petri Scalarum, in contrata de La Croce al Travalglio, quibus domibus et rebus predictis ex tribus par-tibus est via publica seu Comuni, videlicet ex uno latere via et strata, ex alio campus fori mediante silice dicti campi et ex alio latere est via publica seu Comunis que est in medio inter dictas domos et domum Consulum Mercantie civitatis Senarum, et ex alio latere est heredum Gerii Montanini 2.

La tutela dei pupilli Pietro, Guglielmo, Spinello, Bartolomeo, Tommaso, Francesca e Caterina, venne affidata al dominus

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di Modanella, il cavaliere Andrea di Francesco Piccolomini e all’agnate Meuccio di Guglielmino che il 25 ottobre 1340 fatto l’inventario dei beni dei piccoli, giurarono, assieme alla loro madre Agnolina, di amministrare onestamente la lucrosam he-reditatem, rendendo “rationem” annualmente, e “dictam tute-lam bene et legaliter gerere et portare et utilia eis facere” 3. Una serie di clausole testamentarie volute da Salomone vincolava gli eredi ad un regime di proprietà indivisa dei beni regolando mi-nuziosamente procedure e tempi delle alienazioni patrimoniali nonché forme di successione 4.In esecuzione delle ultime volontà del defunto, che aveva dispo-sto un legato di 11.000 lire “in costructione, actatione, orna-mentis et possessionibus” di un monastero “de ordine et regula Sancte Clare”, da sottomettere alla custodia dei frati minori, nel 1341 i due fidecommissari, la moglie Agnolina e frate Enea predicatore, provvidero poi, ad acquistare dal tutore Andrea di Francesco una possessione che egli aveva in ‘contrada’ di San Dalmazio, per dotare delle terre e dei frutti necessari al suo so-stentamento il pulchrum monasterium voluto dal testatore e le dodici monache che vi avrebbero trovato ospitalità 5.Ma i lutti non erano finiti. Arrivò la peste e con il suo carico di morte si abbatté su un figlio di Salomone: nel 1350 Guglielmo, già sposato e da poco rimasto vedovo di Francesca di Benuccio Salimbeni, seguì la giovane moglie nel suo nero viaggio: in os-sequio alle disposizioni testamentarie del padre che aveva im-posto agli eredi pratiche di trasmissione rigidamente agnatizie (“per stirpem”), Guglielmo aveva designato Spinello, Pietro e Tommaso suoi eredi. Così il 9 gennaio, affiancato dal suo tuto-re, Pietro e i fratelli subentrarono nella quota parte spettante a ciascuno di loro dell’eredità di Guglielmo 6. Dell’altro giovane fratello Bartolomeo invece, a questa data, già più nessuna trac-cia. Le ali della grande peste si erano forse posate anche su di lui.

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Nella lotta politica (1355-1385)

Viva la rivoluzioneIl 23 marzo 1355 il neo eletto imperatore Carlo IV di Lussemburgo arriva a Siena con un seguito di mille baroni e cavalieri: i cittadini “de’ Grandi, de’ Popolari e de’ Nove” gli vanno “onoratamente” incontro “vestiti di zendado con stor-menti e con sonagli e con diverse livriere” festeggiandolo “con grande allegreza”. Carlo ha appena preso alloggio nel palazzo dei Salimbeni quando improvvisamente le bandiere vengono stracciate, la festa si trasforma in tumulto e al grido di

Viva lo ‘nperadore e muoia li Nove!

nobili e popolari danno il via al “romore”: durante la notte sotto lo sguardo accondiscendente del re di Boemia le catene della città sono spezzate, arse le porte, i Nove rintanati nel pa-lazzo pubblico con “grande paura” tremano insospettiti da ciò che hanno appena saputo: l’imperatore al messo inviatogli con l’incarico di consegnargli le chiavi delle catene ha risposto di volere ben altro..

Io voglio altro che chiavi di catene …

A “mezedima” del 25 marzo la situazione precipita. “Quasi di peso” Carlo è messo “in palazo” dal popolo mentre i rivoltosi, popolani minuti e gentiluomini, si danno alla devastazione: pri-ma mèta il palazzo dei consoli di Mercanzia dove sono straccia-ti “libri e scritture”, poi è la volta della Biccherna dove “libri di condenagioni e ‘ncamarazione” sono presi e bruciati sul cam-po, sorte simile tocca alla cassetta “che v’era imbossolato tutto l’uffizio de’ signori Nove” gettata dalla finestra e legata “così quasi rotta” alla coda di un asino; infine è la volta del Podestà e del Capitano del Popolo insultati, “robati e cacciati” da Siena. I Nove sotto la furia dei ribelli che devastano, rubano e ardono

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le loro case, sono costretti a nascondersi non trovando però chi li voglia “ricevare, né vedere, né udire”; nessuno, “né religiosi, né altre persone” si presta al soccorso; abbandonato finanche da fanti, fancelle e “balii” al loro destino, il gruppo dirigente rimane isolato, sbeffeggiato, infamato e sgridato da tutti:

ladri e traditori!

urlano i cittadini alla volta dei priori in una gara a chi poteva “dire più male” 7.Il racconto del cronista Donato di Neri che scandisce la fine dell’esperienza novesca in una concitata, martellante, sequenza di passaggi, offre spunti interessanti riguardo alla dinamica di una rivolta destinata a segnare l’evoluzione istituzionale suc-cessiva, svelando particolari utili per comprendere gli avveni-menti della primavera del ’55. Quell’isolamento, quella solitu-dine su cui Donato tanto indugia, quella cortina di indifferenza che assedia i membri del governo all’interno di una città im-provvisamente nemica, sconosciuta, incompatibile, dalla quale ogni pienezza e speranza di pietà si è ritratta – si partiano da loro anche li religiosi – nella quale nessun moto di solidarietà e colleganza è più possibile, nemmeno verbale – niuno lo’ volea favellare – sembra essere frutto della rigidità di un sistema oli-garchico impermeabile ad ogni tentativo di allargamento della sua base 8; frutto del carattere assolutamente cetuale di un go-verno che sottolineava il suo privilegio con una forte continuità di presenza nel priorato non solo di poche famiglie ma anche molto spesso degli stessi uomini 9 e che se si era mostrato di-sposto ad aprire pragmaticamente ai magnati spazi e ambiti di intervento politici e istituzionali, con altrettanta decisione, aveva relegato il mondo artigiano alla marginalità politica 10. E dunque nella cronaca avvincente di Donato di Neri, come nella legge del contrappasso dantesco, il regime è chiamato a pagare le sue colpe nel momento estremo della fine, in un ro-vesciamento inquietante dell’immagine che di sé stesso aveva

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dato nelle pareti del palazzo pubblico: è forse proprio quella promessa di comunione del Bene che esso ha tradito, non più tutore dell’interesse collettivo – e’ Nove li denari del comuno s’imborsavano e partivano fra loro – non più propugnacolo contro le malversazioni dei potenti, agli occhi dei cittadini in rivolta esso è piuttosto ormai incarnazione di quegli interessi egoistici e di parte – e molte infamie era detto de’ Nove – tanto stigmatizzati nella figura del diabolico Male.L’oggetto della contesa è il potere e contro i simboli di una gestione insoddisfacente, corrotta, si indirizza la furia dei ri-voltosi: i bossoli con i nomi dei priori, i libri delle magistrature che costituivano, con i Nove, la signoria collettiva della città, i più alti magistrati comunali. In questa sequenza di fatti, le vio-lenze, il malcontento, la rabbia, la vendetta – ognuno sfogava e vendicava sua ingiuria, antica ricordanza nuova ingiuria – pro-cedono e culminano nella sconfessione del regime, il suo misco-noscimento: “anco guastaro co’ le lancie e chiavarine tutte le armi del popolo che erano dipente a le case de’ Nove; e questo faceano perché essendo e’ reggimento popolare, non voleano che li Nove la tenessero, come privati de’ regimento” 11.Accuse precise al sistema di governo novesco, colpevole di aver tradito il patto con la comunità, erano state mosse fin dai primi anni Quaranta del secolo: nel 1342 il Consiglio Generale stabilì che una commissione che aveva il compito di reperire soldi, dovesse provvedere tra le altre cose che gli ufficiali di Biccherna restituissero denaro al Comune “quia ut comuniter dicitur ipsi qui fuerunt in offitio Quattuor Provisorum Comunis Senarum habent apud se multam pecuniam dicti Comunis”; ma negli anni immediatamente seguenti alla peste che aveva innescato disequilibri profondi dal punto di vista economico e sociale scatenando tensioni sconosciute, critiche e lamentele crebbero e nel 1349 nonostante il consiglio avesse stabilito multe pecu-niarie e destituzione dalla carica per i rei, i Provveditori furono di nuovo accusati di speculare sul debito pubblico, con l’ag-giunta, ora, di aver favorito loro amici rimborsandoli prima

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di altri creditori del Comune 12. Ancora due anni prima della rivoluzione di marzo una deliberazione del Consiglio Generale tentava di porre un freno agli sperperi superflui di denaro e dei beni del Comune e agli atti illicita et inhonesta commessi dai Quattro Provveditori di Biccherna, dal Camerario, e dagli Esecutori di Gabella con grande danno per la città, istituendo speciali controlli su questi uffici che, si diceva in quell’assem-blea, erano sine freno 13.È possibile che questo stato di cose che colora l’immagine dell’at-tacco ai libri di Biccherna di nuove tinte, abbia contribuito ad esasperare gli animi incitando alla rivolta. Ma nelle ragioni di crisi e di insoddisfazione che culminarono nella ribellione di marzo confluirono senza dubbio più fattori che soltanto grazie a una serie di fortunate coincidenze poterono scatenarsi.“Comincioro li nobili de’ Piccolomini per ordine di tutti gli altri grandi … e’l popolo minuto li seguia”, li seguiva seguendo un copione perfetto, in una felice ripartizione di ruoli: Viva lo ‘nperadore e muoia li Nove! gridava il popolo in piazza ma erano “i grandi e gentiliomini” che “tutto faceano gridare al popolo minuto generalmente” 14. Forze popolari e magnatizie in sintonia di azioni, tempi, obiettivi, si ritrovano dunque in-sieme, a fare fronte comune nel ventre della battaglia contro il governo. Non era una novità: convergenze tra elementi di popolo e membri dell’élite magnatizia si erano verificate più volte durante gli anni del regime novesco ma si era trattato di miscugli casuali che avevano visto la partecipazione ristretta di pochi rappresentanti dei casati e dunque, proprio per questo destinati, ad un repentino fallimento. Il dato inedito della ri-voluzione di primavera del 1355 è invece l’alleanza trasversale tra i magnati, il manifestarsi di un’unitarietà di intenti tra i lignaggi: i Piccolomini, che secondo il cronista avrebbero dato il segnale d’avvio mettendosi alla testa della rivolta, non sono soli: agiscono in accordo con gli altri ‘grandi’, anzi suggerisce il cronista, su loro “ordine”. Dietro la rivoluzione, voci nascoste, volti nell’ombra, piani studiati e prestabiliti.

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L’occasione si offre alla discesa dell’imperatore di Boemia. Succeduto a Ludovico il Bavaro nel 1347, inizialmente il gover-no senese paventando la sua venuta aveva stabilito di mandare ambasciatori al papa per accordarsi nell’intento di impedirne l’arrivo in Italia 15. Poi essendo l’arrivo imminente e soprattutto la sua venuta desiderata anche dagli alleati della lega che Siena aveva stretto nel 1351 con Perugia e Firenze in funzione antivi-scontea, i Nove si arresero all’evidente necessità di chi vedeva nel re di Boemia un baluardo contro il tirannico arcivescovo di Milano 16. Al suo approssimarsi a Pisa gli fu mandata un’am-basceria composta da alcuni magnati e noveschi a cui l’impe-ratore garantì, secondo il racconto del cronista, “di conservare Siena e regimento de’ Nove” 17; poi il 23 marzo lasciata Pisa arrivò con l’imperatrice a Siena. E qui gli avvenimenti presero la piega che si è visto 18.Abbattuti i Nove, nella piazza ancora eccitata dagli avveni-menti, l’imperatore nominò una commissione di 20 cittadini composta da nobili e popolari con il compito di riformare lo stato 19 e, tre giorni dopo, partì dalla città alla volta di Roma lasciando il fratello con il titolo di vicario imperiale. Portò con sé “molti gentiluomini d’ogni schiatta” e alcuni ambasciatori senesi. Tra loro c’era il giovane miles Tommaso, figlio del de-funto Salomone Piccolomini 20.

Le proposte di PietroGli avvenimenti dei giorni successivi sono abbastanza confusi, sembra tuttavia che la commissione eletta da Carlo IV sia stata rovesciata per il disequilibrio creatosi a favore degli elemen-ti magnatizi presenti al suo interno, e che a quanto riferisce Donato di Neri i popolari siano rimasti soli con il compito di proseguire nel lavoro legislativo 21, in un alternarsi degli avve-nimenti che i resoconti cronachistici danno la sensazione ruo-tare attorno alla figura potentissima di Agnolino di Bottone Salimbeni che si era accostato all’imperatore diventando uno dei suoi fedelissimi e, una volta partito Carlo, il referente della

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“forestaria” ghibellina di stanza a Siena. Quando l’imperatore torna il 19 aprile i lavori della commissione sono finiti, con l’imperatrice si insedia a palazzo Salimbeni dispensando privi-legi e dignità cavalleresche ai nobili e ai popolari che lo avevano aiutato, giocando in queste concessioni di benefici la parte del leone l’influente Agnolino di Bottone 22. Dopo aver presenziato all’entrata del nuovo governo, che sarebbe avvenuta il 1 mag-gio, l’imperatore parte ma alcuni giorni dopo, siamo al 28, è di nuovo rivolta: il vicario imperiale, patriarca d’Aquileia, è co-stretto alla fuga da un’insurrezione di gentiluomini “isdegnati” a causa di uno sgarbo fattogli dal governo dodicino irrispetto-so dell’accordo istituzionale recentemente siglato che prevede la presenza di un collegium nobiliare agli atti di governo, ma con una mossa politica che avrebbe celato secondo qualcuno la volontà di approfittare dei malcontenti per impadronirsi perso-nalmente del potere 23, il Salimbeni prende le redini della situa-zione convocando un Consiglio Generale dove viene deliberata la destituzione di quel collegio, “rimanendo solo el regimento a’ signori Dodici” 24.Quel collegium era stata la grande novità degli avvenimenti seguenti all’insurrezione del 25 marzo.Il 31 di quel mese l’oratore Pietro di Salomone Piccolomini designato dai venti consiglieri costituenti la commissione legi-slativa incaricata della riforma, aveva presentato in Consiglio Generale la proposta del nuovo assetto istituzionale: il governo era affidato ad una magistratura detta dei “Duodecim guberna-torum et administratorum rei publice civitatis Senarum” i cui componenti dovevano essere scelti tra “popularibus civibus” che avrebbero avuto mandato bimestrale e obbligo di risiedere “continue” nel palazzo pubblico; accanto ai Dodici era istituito un organo collegiale “de nobilibus et magnatibus de stirpibus et casatis” che “una cum [dicto] ofitio” doveva provvedere agli af-fari della città. La partecipazione di questo collegio, o almento dei 2/3 dei suoi membri, alle decisioni del governo era obbliga-

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toria; esso era formato da 12 uomini (anch’essi rinnovati ogni due mesi e con la regola che nessun casato potesse offrirne con-temporaneamente più di uno), che a differenza dei governatori non avevano l’imposizione di “residere in palatio”; ai Dodici e al Collegio era riconosciuto il diritto di eleggere Camerario e uf-ficiali di Biccherna nonché Camarlengo ed Eecutori di Gabella scegliendo i candidati tra “nobiles et populares” in numero di quattro per ciascun ufficio e secondo un’equa ripartizione tra i due raggruppamenti 25. Dopo circa due settimane, il 17 aprile, su richiesta del “nobilis miles” Baschiera priore dei riformatori, “consulente” Pietro Piccolomini, questa proposta fu affianca-ta da alcuni provvedimenti riguardo alle norme di accesso al Consiglio Generale. Il principale organo assembleare della città doveva essere composto da 250 popolari e 150 magnati, limi-tando la presenza di questi ultimi a 25 per ogni casato, e avreb-be avuto “potestatem, auctoritatem et facultatem disponendi, ordinandi et exequendi […] omnia et singula negotia facta et expeditiones comunis Senarum et dicte civitatis], prevedendo un’aggiunta straordinaria di 150 consiglieri in ragione della delicatezza o della particolare importanza di alcune questio-ni. Tassativamente esclusi i noveschi, le deliberazioni per avere valore legale dovevano essere votate dai 2/3 dei presenti in nu-mero minimo di 150 26.Nei giorni immediatamente precedenti il figlio di Salomone, che sembra presiedere i lavori della commissione aveva presentato al giudizio del consiglio altre aggiunte riguardanti l’abolizione di tutti i “privilegiis, benefitiis, immunitatibus aut quibuscu-mque favoribus” di cui godevano i Nove e l’annullamento della legge che ordinava la presenza in Consiglio Generale dei notai di Biccherna, mentre un membro collega della commissione, membro alla famiglia dei Tolomei aveva chiesto l’istituzione di una guardia per i nuovi magistrati di governo 27. Il 22 aprile 1355 quanto era stato proposto fu deliberato con una maggio-ranza di 327 voti contro 68 28.

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I vantaggi e le prospettive per magnati e dodicini che questa riforma costituzionale sanciva rivelano la sua natura compro-missoria: frutto di un patteggiamento tra le forze che avevano realizzato la rivoluzione e che si attendevano da essa concreti riconoscimenti sul piano politico. Uniti inizialmente da un sen-timento antinovesco che affondava le sue radici su motivazioni differenti che gli squilibri della peste del 1348 avevano contri-buito ad acutizzare, magnati e popolari facenti capo soprat-tutto al mondo delle arti trovarono probabilmente nella figura imperiale il garante di un’operazione che si rivelava complicata proprio per la diversità della fisionomia e delle istanze che i due segmenti sociali esprimevano, e che sembra essere ribadita proprio dalla creazione di due organi di governo distinti come a sancire l’impraticabilità di una sintesi 29. Nobili e popolo la-vorano dunque insieme e “d’accordo” sottolinea Luchaire, al progetto di un governo per metà nobiliare e per metà popolare sotto lo sguardo consenziente del vicario di Carlo IV, quando improvvisamente avviene qualcosa che complica il quadro. Tra la fine di maggio e la prima metà di giugno scoppiano nuovi disordini, alla base il dissidio fra gentiluomini e popolari, poi la fuga del patriarca, infine, non è ancora chiaro attraverso quali manovre, la decisione di annullare il collegium.Quel giorno del 9 giugno il Consiglio Generale si riunisce e il vicario del Podestà prende la parola:

per viros nobiles, strenuos et prudentes viginti Reformatores reipublice civitatis Senarum fuit in dicta civitate editum et creatum honorabile collegium nobilium et magnatum […]. Unde preclari viri nobiles et magnates nunc de dicto collegio existentes, iam per experentiam cognoscentes esse potius an-xium quam utile debere pro quibuscumque levibus occasioni-bus dictum collegium congregari, et insuper cogitantes quam posset casus occurrere cui foret opus non cum expectatione collegii sed presto sine dilatione aliqua provideri, idcirco […] contentantur quod omnes defectus in quocumque parte offitii dicti collegii provisione utili suppleatur, et ideo quid videtur

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et placet dicto consilio providere, ordinare et reformare de correctione et supplectione defectutum;

a quel punto qualcuno si alza e proponendone lo scioglimento entro il mese di luglio raccoglie un consenso di 327 voti contro 44 30. La mancanza di un sia pur minimo contraddittorio in consiglio, il risultato schiacciante del voto, e soprattutto le mo-tivazioni date per procedere all’abrogazione dell’organo nobi-liare – un ‘impiccio’ e per i nobili che dovevano riunirsi troppo spesso anche per affari e decisioni di poco momento e per il go-verno che non poteva essere costretto a procrastinare decisioni importanti per aspettare che il collegium fosse riunito – aprono molti dubbi riguardo alle dinamiche che si erano aperte in quei giorni e agli equilibri delle forze che sembrano aver subìto un qualche spostamento. Uno spostamento collegato – in qualche modo – alla fuga del patriarca di Aquileia – il cui ruolo in que-ste vicende rimane insondato – e senza dubbio all’interferen-za ingombrante di Agnolino Salimbeni a cui qualche cronista attribuisce l’intenzione di aver provocato o contribuito a fo-mentare i disordini della fine di maggio per poter sopprimere l’organo nobiliare e avvantaggiarsi della situazione: ipotesi a cui fornirebbe un appiglio, in un crescendo possente dell’intrec-cio, il fatto che la proposta di scioglimento del collegium fosse portata all’assemblea cittadina proprio da un magnate che si chiamava Salimbene di Neri Salimbeni 31.La contrattazione con le forze popolari che probabilmente im-pegnò i magnati dopo la cacciata del patriarca avvenuta il 28 maggio guadagnò ai “nobiles” in cambio della cancellazione del loro strumento di partecipazione al governo, una contro-partita. L’11 giugno infatti furono ratificati alcuni ordinamenti che li compensarono largamente dalla perdita del loro ufficio: con una lunga prolusione che magnificava i meriti e le indub-bie capacità della classe nobiliare dalle cui virtù la città aveva tratto “benefitia salutaria, innumera et inextimabilis commo-di”, i Dodici esaltando il carattere indissolubile di una concor-

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dia tra le parti e la volontaria e unanime decisione dei nobili di abrogare il collegio per il bene della città, riconobbero di volerli trattare amabiliter et benigne “in honoribus, ofitiis et commodis ambaxiatis, consilio et ceteris omnibus prout discre-te ac debite viderint convenire” 32, prefigurando una serie di significativi vantaggi 33..Le riforme furono interpretate da Luchaire come l’approdo inevitabile di una rivoluzione che una volta conclusa la prima disordinata fase caratterizzata dalla promulgazione di ordina-menti – quelli di marzo – espressione troppo palese del potere dei magnati che avevano concorso all’abbattimento dei Nove, dovette giungere nei mesi seguenti a forme più equilibrate di spartizione, mal tollerando il popolo la presenza dei nobiles in posti chiave della struttura costituzionale della repubblica. Dunque, spiega lo storico, benché i grandi mirassero a obiettivi anche maggiori, dovettero alla fine ‘accontentarsi’ di un ruolo che rappresentava comunque un passo avanti rispetto alla si-tuazione determinatasi sotto il regime novesco, sdoganando le deliberazioni dell’11 giugno cariche ed uffici prima vietati ai casati. I quali casati, cementati e compattati inizialmente dal-la volontà di abbattere il regime, avrebbero rivelato ben pre-sto, secondo Wainwright, l’impossibilità di praticare alleanze durature – giocando in questo senso un ruolo determinante il doppiogiochista Agnolino Salimbeni che avrebbe concorso, per motivi personalissimi di ascesa politica, a destabilizzare la compagine magnatizia della cui intrinseca debolezza fu segnale eclatante proprio la soppressione del collegium, la cui fine se-gnò una sorta di subordinazione della parte nobiliare alla po-tente organizzazione del Popolo 34.Le norme del giugno 1355 diverrebbero dunque per i due stu-diosi un atto di poco più che formale riconoscimento dell’aiuto prestato dai nobili ai popolari nella defenestrazione dei Nove, a cui fece riscontro una salda presa di potere da parte di questi ultimi.

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A Stefano Moscadelli che si è occupato di ricostruire i linea-menti dell’apparato burocratico e della politica finanziaria dei dodicini, in un saggio che offre di quel governo una lettura articolata e lontana dai neri stereotipi con cui certa storiografia aveva tratteggiato gli anni 1355-1368, il partito nobiliare non pare invece, anche a fronte delle fratture interne, affatto in crisi, né la perdita del collegio gli sembra l’effetto di “un colpo infer-to ai nobili dai popolari”. Quegli epiteti attribuiti ai magnati in apertura dei provvedimenti dell’11 giugno che facevano di loro uomini nequaquam ambitiosi ma al contrario avidi sta-tus pacifici populi et comunis, l’accento posto sulla unanimi-tà che aveva volontariamente condotto alla soppressione del loro “collegium” dal quale mira voluntate atque concordia se exuerunt, ed infine quella indissolubile colleganza tra le due parti descritta in termini di perfecta concordia sono elementi troppo stridenti con l’ipotesi di una perdita di ruolo nobiliare e di una spaccatura tra le due parti politiche. Nessun segno di rottura dunque dell’alleanza tra nobiltà e popolari, né segna-le di subordinazione politica di un partito dei nobili in crisi a vantaggio dell’altra pars: le riforme dell’11 giugno rispondono, per lo studioso, all’esigenza e al tentativo “di una nuova di-stribuzione dei posti di potere” 35. Grazie alla divisione delle sfere di azione e di esercizio dei poteri che esse prefigurarono, ai nobiles venne riconosciuto non soltanto un ruolo di spicco in tutti quegli aspetti della vita politica a cui la loro consolidata esperienza li rendeva particolarmente adeguati, missioni diplo-matiche, ambascerie, svolgimento di funzioni consultive: essi ottennero anche la partecipazione paritetica alle magistrature finanziarie di Biccherna e Gabella con il diritto di partecipare alla elezione degli ufficiali; l’istituzione di un ufficio apposito, quello dei tre Difensori, che di diritto li portava a far parte del Concistoro della città; e infine, fatto più importante, l’esclusiva dell’elezione alle podesterie e capitanerie del contado 36, vale a dire la possibilità di rafforzare sulla base di un potere pubblico legittimamente chiamati a rappresentare, posizioni personali di

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prestigio, influenza e dominato su comunità dello stato dove detenevano possessi fondiari o diritti giurisdizionali. Questa ‘delega’ della gestione del contado in favore dei nobili pale-sando la collocazione sociale dei popolari protagonisti della rivoluzione di marzo come ceto appartenente “all’alta e media borghesia” i cui interessi erano “prevalentemente concentrati in città” 37, si inseriva in un organico progetto di governo che prevedeva dunque una spartizione degli ambiti di intervento – a seconda delle proprie ‘vocazioni’ vorrei dire – realizzata però entro la cornice di un forte controllo dell’ordine pubblico gesti-to dai dodicini che infatti coerentemente affiancarono a queste disposizioni norme che mutarono la fisionomia del Capitaneus Populi e regolamentarono precisamente l’attività delle compa-gnie militari; provvedimenti che furono adottati due giorni pri-ma dalla ratifica del nuovo assetto dei poteri 38.Il carattere delle competenze e delle possibilità di intervento sulla vita pubblica attribuite ai nobiles in seguito alle disposi-zioni del 9 giugno – vantaggi innegabili per una classe esclusa dal vertice comunale da oltre ottanta anni – invitano, d’accor-do con Moscadelli, a non appiattire la dialettica tra popolo e magnati – crisi nobiliare versus supremazia popolare – ma anzi a superare una dicotomia che è solo apparente, rientrando pienamente le attribuzioni degli uni e degli altri nell’ambito di un organico progetto di governo che nei suoi aspetti essenzia-li andò precisandosi appunto nella primavera-estate 1355 39: passaggio segnato tanto dalla volontà di composizione degli interessi portata avanti dagli aderenti alla rivoluzione di marzo quanto dalla capacità dell’alta e media borghesia di prospettare una piattaforma di governo credibile su cui popolari e magnati potevano lavorare per trovare punti di equilibrio.Per queste ragioni l’inerte cristallizzazione dell’approdo istitu-zionale alfine sancito in termini di arretramento delle posizio-ni nobiliari, quali furono espresse e rappresentate da Pietro di Salomone nella seduta del 31 marzo, non rende conto della natura e del più riposto significato di quell’approdo: l’essere

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l’unico punto di convergenza possibile, frutto di assestamenti, lavorii, negoziati tra forze distinte che su quelle basi impostaro-no i termini per il governo dello stato. È vero: il primo tentativo di riforma presentato da Pietro si era prospettato altamente remunerativo per i nobili e perché esso prevedeva un organico collegamento tra il magistrato supremo e la compagine magna-tizia – a cui era riservato esclusivo accesso a un ufficio che aveva larghi poteri di intervento nelle decisioni del governo (doven-do essere sottoposto ogni atto dei Dodici all’approvazione dei nobili) – e perché dava ai nobili l’ampio privilegio di esercitare quell’ampia potestà dalle loro residenze private in un gioco di formale riconoscimento della supremazia di un ruolo pubbli-co dei Dodici, marcata dall’obbligo di residenza in palatio: ma quella sistemazione era stata il risultato di un lavoro legislativo tanto frettoloso quanto probabilmente viziato dall’interferen-za imperiale – che credo contribuisse a snaturare il confronto sbilanciando le forze (e del resto la nomina della commissione non era stata fatta da Carlo?) – e il cui carattere precario fu ben presto chiaro anche ai nobiles che infatti poche settimane dopo annullarono su proposta di uno dei loro esponenti, in Consiglio Generale, il frutto di quel lavoro consiliare e lo fecero “pro roborando presenti statu pacifico Comunis Senarum”. Come a dire che si rendevano pienamente consapevoli di dover prose-guire nell’opera di costruzione del nuovo regimen nell’ottica di un miglior stabilimento dei suoi equilibri 40.Le provvisioni dell’estate furono dunque il punto di arrivo di un processo che pur distaccandosi dal primitivo modello, rappresentò – per i risultati che garantì – una spiaggia felice in cui le onde delle ambizioni magnatizie poterono infranger-si. Ambizioni che distolte dal loro congenito individualistico disordine, venivano adesso incanalate, come affermarono i Dodici, “pro exaltatione et augumento offitii et honoris domi-norum Duodecim… et pro statu pacifico et securo dicte civi-tatis”, guadagnando ai potentes “affectionem et amorem” da parte del Popolo 41.

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Giochi di specchiErroneamente idenficato con l’omonimo ma più vecchio con-sorte che a partire dagli anni Venti del Trecento si distingue in città per una intensa attività pubblica 42, il nostro giovane Pietro, fratello del miles Tommaso che accompagna Carlo IV a Roma all’indomani della rivoluzione, fa invece il suo ingresso nell’arena politica soltanto nel tempo infuocato e caotico che prepara, accompagna e segue la rivoluzione della primavera del 1355. Impossibile confonderlo con l’omonimo congiunto: e non solo per il deragliamento a cui andrebbe incontro la sua vita costretta lungo il binario cronologico dell’altro 43. Troppo diversa la fisionomia politica dei due, troppo distanti i loro uni-versi ideali.Pietro il vecchio – figlio di quel Salomone che nel 1278 ave-va affiancato gli eredi di Bartolomeo e di Guglielmo Cencio nell’acquisto di alcune quote del castello di Modanella 44 – aveva sviluppato la propria azione politica in direzione di un incondizionato appoggio al governo novesco, emergendo per una infaticabile attività di consigliere e di magistrato pubblico per circa un ventennio. Dal Provveditorato di Biccherna, dove sedette nel 1329 45, agli scranni dell’assemblea cittadina, il Piccolomini fece propria una linea di sostegno alla politica dei Nove 46 che passava attraverso una totale indifferenza alla ‘tu-tela’ di interessi genericamente magnatizi 47. L’eclissi della sua parabola dovrebbe collocarsi agli inizi degli anni Cinquanta: con qualche opacità: perché se nell’agosto 1351 era certamen-te lui il Pietro di Salomone che spronava con l’arma appun-tita della sua retorica – mentre i comuni guelfi di Toscana si preparavano a respingere gli attacchi del vescovo visconteo di Milano – i consiglieri cittadini a votare affinché i Nove e gli altri Ordini avessero piena autorità di far aderire Siena alla lega con Firenze e Perugia per difendersi dalle incursioni militari dei milanesi; e se era certamente lui il Pietro di Salomone membro designato a far parte, alcuni mesi più tardi, delle due commis-sioni diplomatiche elette per trattare con tutta la delicatezza

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che il caso richiedeva con Giovanni Visconti e con Firenze, che meditava di schierarsi accanto all’imperatore 48, dopo queste attestazioni la sua figura di consiliarius e ambasciatore si perde, ingoiata da qualche crepa oscura della storia.Quando dominus Petrus domini Salamonis de Piccolominibus ricompare a guidare nel marzo 1355 i lavori di una commissio-ne di nomina imperiale 49, dai tratti ‘oltranzistamente’ nobiliari per la pretesa di veder riconosciuto un ruolo di primo piano a magnati ed aristocratici, lo specchio ingannatore dell’omoni-mia cade in frantumi. Il figlio di Salomone, a cui l’età ancorché giovanile può consentire adesso un impegno pubblico – al pari del fratello, il miles Tommaso – ha una fisionomia che mal si concilia con quella del suo omonimo, che tanto strettamente aveva legato la sua attività a quella del governo guelfo. Proprio il ruolo di primo piano ricoperto in quella commissione all’in-domani della rivoluzione, potrebbe lasciar intravedere la sua figura tra quella “de li nobili de’ Piccolomini” che secondo il cronista dettero il via all’insurrezione 50. Pietro è perfettamente aristocratico: Carlo IV di Lussemburgo battezza la sua discesa nell’arena politica, designandolo a far parte dei venti saggi inca-ricati di formulare le proposte per il rinnovamento istituzionale post novesco. Si tratta probabilmente dell’impegno più impor-tante che il giovane abbia affrontato fino a quel momento e che forse affronta con tutto l’impeto e l’irruenza che gli derivano dall’età e dalla poca esperienza: il risultato dei lavori di quella commissione sarà, lo si è visto, una piattaforma pesantemente sbilanciata in senso nobiliare, risultato forse di un lavoro pe-santemente influenzato dalla presenza dell’imperatore.Negli anni o nei mesi, chi può dirlo?, precedenti, Pietro deve aver sviluppato simpatie filoimperiali o almeno antigoverna-tive: difficile ipotizzare perché e attraverso quali canali: pro-spettive di vantaggio personale? Considerazioni di natura po-litica circa il punto di non ritorno a cui era giunta la crisi del sistema novesco? 51 Certo è che l’ambiente familiare, la madre Agnolina e forse i collaterali più stretti, giocarono un ruolo

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determinante nell’avvicinare gli eredi del defunto Salomone al lignaggio dell’ambiziosissimo Giovanni di Agnolino Salimbeni, il grande maneggiatore di quegli anni 52: a meno che la mede-sima domina Agnolina come il suo nome fa sognare, non fosse appartenuta essa stessa a quel casato, l’unione combinata fra lo sfortunato Guglielmo e Francesca di Benuccio Salimbeni, mor-ti a poca distanza l’uno dall’altro, racconta chiaramente della direzione in cui si stava muovendo in quel torno di tempo la strategia matrimoniale della madre e dei tutori 53.Pietro invece si sarebbe indirizzato per la scelta della madre dei suoi figli – Salomone, Giacomo, Guglielmino, Piero e Tommaso – verso Bartolomea di Giovanni Arzocchi. La quale redigendo il suo testamento nel settembre 1390, ormai vedova, dopo una felice vita coniugale pregava i suoi esecutori di voler provvede-re alla sepoltura delle sue spoglie “in avello dicti domini Pieri”, nel convento dei frati minori, dove il marito era stato tumula-to 54: stesso convento in cui si erano fatti seppellire Salomone, il padre, e il vecchio tutore di Pietro pupillo, il consorte Meuccio di Guglielmino, che morendo aveva predisposto in quella chie-sa l’edificazione di “quandam cappellam cum uno altario” do-tato di tutti gli apparati necessari alla liturgia. E ogni giorno, da allora, un frate recitava messa “in recomendatione et pro salute anime sue” 55.Ma nel 1358 la morte è lontana. Pietro è uomo di guerra. Avvezzo a comandare e trattare. Onorato del titolo di miles fin dal 1356 56, fra 1357 e 1358, sono gli anni della guerra con Perugia per il controllo di Montepulciano e Cortona, più volte va a fare oste: in una occasione il fratello Spinello – che nel frat-tempo si è sposato, ha avuto sei figli, ha fatto testamento 57 – lo segue come gonfaloniere 58.

Il trattato e la trattativaMa in città cova un clima di divisione e serpeggia il malcon-tento. Nello stesso anno in cui i Dodici assunsero il potere il cronista racconta come il Capitano del Popolo allora in cari-

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ca, Sozzo di Francesco Tegliacci, fosse riuscito a sventare un tentativo di rivolta di cui si sarebbero resi colpevoli i fratelli Tollo e Bartolomeo di messer Manfredi “che voleano sturba-re il regimento” e come fosse scelto per eseguire la condanna un tal Gano di Benedetto carnaiolo che non esitò a “tagliare il capo”ai due congiurati, diventando poi egli stesso meno di un anno dopo, in un gioco straordinario di ribaltamento del-le situazioni, autore di “uno trattato” con Meo di Giacomo Tolomei e molti altri al fine di rovesciare la signoria e mettere il magnate a reggere la città 59.Il ‘trattato’ del 30 agosto 1362, ordito da Agnolino di Brettacone Salimbeni insieme ad alcuni noveschi e magnati e con l’appog-gio del Conservatore Ludovico dei Pigli in risposta, come si dis-se, all’acquisto del castello di Montorsaio da parte del Comune contro la volontà di un non meglio conosciuto Piccolomini che ne era signore 60, era stato anticipato da una sequela di ‘rumori’, cospirazioni, sospetti, guardie armate alle porte della città 61. Dopo aver giustiziato e mandato al confine parte dei presunti traditori 62 il governo nominò al posto del conservatore ribelle, il romano Francesco di Giordano degli Orsini che appena en-trato in carica il 1 settembre 1362 mise la città a regime di ter-rore scatenando repressioni durissime: mentre dappertutto si “faceano grandissime guardie” con 300 uomini al palazzo pub-blico, 300 sulla piazza del Campo e molti fanti e soldati nelle torri dei Sansedoni, dei Cerretani, dei Bonsignori e nel campa-nile del duomo, il vecchio conservatore Ludovico fu catturato, “rotto e straziato” e poi decapitato alla Postierla; Giovanni di Agnolino Salimbeni con alcuni Malavolti, un Saracini, un Accarigi, Spinello di Salomone Piccolomini e il consorte Fazio di Tone furono banditi e dichiarati ribelli “come colpevoli in detto trattato”, i loro beni saccheggiati ad opera “della gente del Comuno di Siena, balestrieri de la città e de le Masse e del contado, e molta gente che aveano mandato e’ fiorentini”, mentre molti altri cittadini venivano condannati al pagamento di pene pecuniarie 63. Si nasconde dietro a questi avvenimen-

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ti il dubbio del cronista che l’accusa contro il Salimbeni e gli altri cospiratori fosse stata montata “ad arte” dai Dodici per giustificare una repressione nei confronti di quanti per concen-trazione di poteri e ricchezze nelle loro mani, per l’ambizione mai sopita di assumere direttamente il governo cittadino, per capacità di mobilitazione e collegamento con gli strati inferiori del popolo – che probabilmente la ribellione del 1355 aveva infiammato di speranze poi frustrate – e con il gruppo novesco bandito dalla vita politica, giocavano o minacciavano di gio-care un ruolo destabilizzante per la sopravvivenza stessa del regime popolare; tuttavia la vicenda, tentativo di sovvertimen-to dell’ordine costituito o artificio per legittimare operazioni di polizia, è emblematica per comprendere la forte precarietà dell’accordo siglato sette anni prima. E l’insufficienza della po-litica dodicina – nonostante gli sforzi compiuti – per far fronte a quelle difficoltà 64.Nonostante una delibera del Consiglio Generale del 4 novem-bre 1362 stabilisse che i ribelli dovessero stare a confino per cinque anni, nel settembre del 1363 il Comune lamentando le invasioni perpetrate nel contado “per gentes maligni consortii del Capello” autrici di “spolia, homicidia, capturas, arsiones et occupationes”, decise di far tornare le pecorelle smarrite all’ovi-le nella volontà – così dichiaravano – di “aperire misericordie gremium sibi redire volentibus ad obedientiam sui patris”: in realtà ciò che spingeva i Dodici ad una politica di contratta-zione con i traditori era la drammatica mancanza di denaro per fronteggiare con successo la compagnia del Cappello che devastava il contado senese e dunque il richiamo degli esiliati, ponendo a condizione della cancellazione del bando un paga-mento di 3.000 fiorini d’oro da farsi nel tempo di un mese al Camerario e ai Provveditori della Biccherna, era quanto poli-ticamente di meglio e più opportuno si poteva fare (“opportu-na pecunialis utilitas”) per un Comune che “patule indiget de presenti” 65.

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Così grazie a questo provvedimento tornarono a Siena insie-me ai membri dei Salimbeni, dei Saracini, dei Malavolti, degli Accarigi anche Spinello di Salomone e il suo consorte.

Tra i beni che Spinello possedeva, oltre quelli posti a Monticchiello che il Conservatore aveva fatto distruggere in seguito alla sua condanna 66, c’era anche una quota del castel-lo di Batignano, il castrum maremmano pervenuto nelle mani della sua famiglia nella seconda metà degli anni Trenta del Trecento quando il padre Salomone, approfittando della vo-lontaria sottomissione a Siena dei signori di Grosseto Batino di Bino dell’Abate e i figli del Malia, era riuscito ad entrarne in possesso acquistandolo dai medesimi 67. Adesso i Dodici pre-occupati evidentemente delle tendenze sovversive di Spinello, non appena il Piccolomini fa rientro a Siena nel settembre 1363 decidono di porre sotto il proprio dominio la fortezza che il ribelle possiede in proprietà indivisa con il fratello Pietro e l’al-tro fratello Tommaso, conosciuto come messer Prete Grasso. Quando si apprestano all’acquisto, in realtà la terza parte di Batignano spettante a quest’ultimo è già formalmente perve-nuta “ad Comunem Senarum” in seguito ad una sentenza del Conservatore: rimaneva da comprare le due parti rimanenti 68. Il 27 ottobre i Dodici convocato il Consiglio Generale, motiva-no – “ne sit ipsa terra nec esse posset receptaculum alicuius gen-tis inimice Comunis” – e propongono la ratifica e l’accettazione dei patti e delle modalità di acquisizione “terra Batignani” 69.

Il nobile cavaliere Spinello exbampnitus, condempnatus ac rebellis in persona et habere venderà al Comune la terza parte a sé spettante del castello di Batignano e del suo distretto, po-sto in contrata Mariptime diocesi di Grosseto, cum omnibus pertinentiis suis […] merum et mixtum imperium e ogni tipo di giurisdizione a sé competente su detto castello, la sua curia e gli uomini che ci vivono. Venderà il nobile, oltre alla sua parte, anche quella di proprietà del fratello germano Pietro, impegnandosi a far ratificare il contratto di cessione entro

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il tempo stabilito dai Dodici. Il prezzo d’acquisto delle due quote, valutate 3.000 fiorini ciascuna, per una somma totale di 6.000 fiorini, sarà pagato dagli ufficiali della Dogana del Sale che ne sborseranno a richiesta di Spinello 400 e il rima-nente in due rate annuali di 1.000 fiorini ciascuna, da saldarsi alle calende di ogni gennaio e in successive rate semestrali fino ad estinzione del debito 70. In cambio dell’alienazione, i nobili Spinello e Pietro riceveranno completa assoluzione di tutte le condanne loro fatte, saranno rebampniti e liberati ab omnibus et singulis malleficiis et quasi delictis et quasi culpis ac criminibus commissis et perpetratis contra quoscu-mque, assolti da ogni procedimento giudiziario e penale in-tentato nei loro confronti dagli ufficiali di Siena: sottinteso che Spinello riceverà tale assoluzione appena avrà fatto il contratto di vendita e Pietro dopo averlo ratificato secondo i tempi pattuiti. Se dominus Pietro non desse il suo consenso alla transazione, remaneat in suo iure dicti sui tertii Batignani ma tutti i bandi e le condanne fatte contro di lui abbiano piena robore, e a Spinello venga pagato solo il prezzo della sua parte. 5) Eseguita la vendita devono considerarsi assoluti, exempti et immunes tutti gli abitanti di Batignano, cadendo tutte le condanne loro comminate a causa dei malefici e dei delitti commessi; ma se Pietro non ratificasse la stipula tutti coloro che sono sottoposti al suo dominio siano considerati ugualmente condannati e banditi 71.

La proposta presentata all’assemblea cittadina dal giudice col-laterale e vicario del Podestà fu votata da una maggioranza di 195 consiglieri contro 40 e immediatamente si procedette alla stipula del contratto 72.

La vicenda illumina più di quanto facciano le cronache sui fatti avvenuti fra 1362 e 1363: Spinello aderì al trattato di Agnolino Salimbeni e si ribellò al regime, assieme al consorte Tone di Fazio, entrambi espressamente nominati prima tra i ribelli e poi tra gli esuli richiamati in patria nel settembre 1363: ma il 27 ottobre dello stesso anno il Conservatore già aveva condannato

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e multato anche il fratello Tommaso obbligandolo alla cessione dei suoi diritti castrensi 73 e ugualmente condannato, alla stessa data, appariva l’altro fratello di Spinello, Pietro. Qualcosa do-veva essersi rotto nei meccanismi che regolavano – in una con-tinua tensione fra ambizioni e compromessi – i non facili rap-porti dei figli di Salomone con il governo dodicino, spingendo i magnati sulla via del rebellismo: impossibile dire se all’origine del trattato a cui tutti e tre dovettero aver quindi preso parte, fu quell’alienazione forzosa del castello di Montorsaio di cui, secondo il cronista, avrebbe approfittato lo stratega Agnolino Salimbeni (in virtù della sua vicinanza agli uomini del lignaggio e/o dei suoi personali obiettivi) per far montare la rivolta. Certo è che il dispositivo politico-retorico predisposto dai Dodici per l’acquisto di Batignano (ne sit receptaculum alicuius gentis ini-mice”) e la notizia delle condanne per malleficiis, delictis, ex-cessibus ac criminibus inflitte ai suoi abitanti, sembrano non la-sciare dubbi sul fatto che in quel progetto sovversivo Spinello, Pietro e Tommaso impegnassero tutti i mezzi che avevano a disposizione: trascinando nella lotta le loro terre e i loro uomi-ni, (di cui il governo dodicino redasse una parziale schedatura quando dovette assolverli dalle condanne); aggregando alla lotta tutti gli oppositori più agguerriti del Comune, magnati, noveschi e popolari di bassa estrazione che fossero.Fu una messinscena artificiosa? I Dodicini utilizzarono l’arma dell’imbroglio politico per governare eventi che stavano loro sfuggendo di mano, costruendo “ad arte” la notizia del tradimen-to del 1362 per legittimare provvedimenti punitivi nei confronti degli elementi più pericolosi e meno controllabili della città 74, e per tentare di porre un freno ai giochi spregiudicati di quello stes-so Agnolino Salimbeni, l’accusato principale della cospirazione contro lo stato, che si stava imponendo nell’agone politico grazie al peso della sua “autorità personale” e “come uomo superiore ai partiti”, “necessario a tutti”, non escluso al governo 75?Quale che fosse la verità ‘dietro’ al trattato del 1362, i Dodici servendosi come moneta di scambio della promessa di annulla-

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mento dei bandi pendenti sulla testa di Pietro e Spinello otten-nero la cessione del castello di Batignano. Nell’aprile del 1364, alla presenza del fratello e del loro vecchio tutore Andrea di Francesco Piccolomini, nella sala del Concistoro Pietro ratificò la vendita non senza aver prima preteso ed avuto dal Comune la promessa di un accrescimento del prezzo di 200 fiorini, e il 23 giugno di quell’anno partì per la Valdorcia in virtù della sua nomina a Capitano di San Quirico 76.Nonostante Tommaso fosse ancora sbandito da Siena e su di lui pesasse la condanna della pena capitale impostagli dal Conservatore 77, la composizione sembrava riuscita.

Non era così. Alla fine dell’anno 1367 la “domum” Piccolomini pagava una multa di 1.000 fiorini, decisa dal Conservatore, a causa di qualcuno del casato “maledispositum” 78. Il 21 aprile 1368 un accordo antigovernativo vide unito il lignaggio ai li-gnaggi dei Tolomei, Saracini e Cerretani: il cronista racconta del tentativo fatto da questi magnati di “corare Siena e riformarla a migliore regimento e a lor modo” ma al di là dell’evidenza di questa cospirazione e del suo fallimento grazie alla delazione di un frate minore, non è affatto chiara la dinamica che si inne-scò in quell’anno in città quando la spaccatura che individuava all’interno della compagine magnatizia i due diversi schieramen-ti di “Grasselli” e “Caneschi” facenti capo il primo ai Salimbeni e il secondo ai Tolomei, comprese anche i membri del governo dodicino che si sarebbero associati alle due fazioni 79, coinvol-gendo probabilmente alcuni nel trattato fallito contro il loro stesso regime: ipotesi che troverebbe conferma non solo nelle parole del frate che accusava “aliquis de Similibus”, ma anche nel verbo di una deliberazione del Concistoro del 29 aprile che ordinava al Conservatore e al Podestà di non pronunciare al-cuna condanna contro i congiurati senza prima averne ricevuto licenza dal consiglio dei Somiglianti (il “partito” che riuniva i dodicini), se si volesse leggere il provvedimento come un palese tentativo di offrire una copertura ai Dodici compromessi 80.

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Il trattato fallì ma “la cosa rimase pregna” 81 e in un ripetersi della storia fu la nuova venuta dell’imperatore Carlo IV a far cadere il governo.

Consoli e farsettiIl passaggio dal regime dodicino – espressione di “un’oligarchia borghese che si era chiusa in un rigido esclusivismo” 82 – al governo dei Riformatori che segnò il massimo dell’incidenza dei popolari minuti al vertice comunale, fu caratterizzato da un’esperienza istituzionale brevissima e di timbro “reaziona-rio” 83 che si realizzò tra il 2 e il 23 settembre 1368:

Per lo peccato di quelli che governano Siena, erano divisi in due sette cioé Canischi e Grasselli … La parte de’ Dodici chiamata Grasselli dissero a li Salimbeni che teneano co’ lo’: ‘armatevi e state in ordine imperoché i Canischi fanno rau-nata e anno trattato contro di noi’. E così li Canischi diceano a’ Talomei che teneano co’ loro ‘fatevi forti, imperoché noi sentiamo che li Grasselli anno trattato contra di noi e fanno grandissima raunata’ … Vegiendo li nobili di Siena la iniquità di questi Dodici, che ciò faceano per fare tagliare a pezi fra loro li nobili di Siena, vedendo questo s’acordaro tutti in-sieme e diersi la fede e féro sagramenti generalmente tutti li nobili di Siena, e promissero al popolo minuto e a’ Nove di riformare e’ regimento al loro modo 84.

Alla base della rivolta che portò all’abbattimento del regime dodicino fu, secondo la cronaca, una ritrovata coalizione di nobili e popolari contro i Dodici che avrebbero strumental-mente tentato, con il gioco al massacro delle due fazioni, di sbarazzarsi dei nobili. I quali invece comprese le intenzioni si compattarono in un fronte unico e coinvolgendo popolari mi-nuti e noveschi “senza colpo di spada” si fecero consegnare dai governanti “el palazo e la signoria”. Nessun documento è per-venuto di questo governo che, in onore al primo Comune, re-staurò la denominazione di Consoli a indicare i suoi magistrati

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e che si prefigurò di netta preminenza nobiliare: esso compren-deva dieci magnati e tre noveschi ma tra i primi esercitavano un peso più grande Piccolomini, Salimbeni, Tolomei, Saracini e Malavolti, le cosiddette “schiatte maggiori”, cioè i cinque ca-sati che per contare un maggior numero di maschi adulti eb-bero riconosciuto il diritto di offrire un membro ciascuno al consolato, mentre le altre schiatte, a rotazione, dovevano divi-dersi i restanti cinque posti 85. Dopo aver cercato un accordo con l’imperatore sembra che i nuovi governanti abbiano dato il via a una politica di repressioni mentre il timore di vendette e ritorsioni li costringeva a rafforzare le misure di sicurezza e di polizia cittadina e a rinserrarsi dentro i loro palazzi circon-dandosi di guardie armate: centocinquanta fanti, trenta in più rispetto alle altre, andarono a presidiare la domus Piccolomini: in onore al ruolo di primo piano forse, forse superiore a quello dei colleghi e delle loro casate, ricoperto in questo frangente da Spinello di Salomone, console eletto nel primo ed ultimo colle-gio di governo, e dalla sua famiglia 86.E chissà che non sia stato proprio il timore di veder traballare la propria egemonia a spingere Niccolò di Niccolò Salimbeni – prosecutore della politica di Giovanni di Agnolino – e collega di Spinello, a rinnegare la recente alleanza con “nobiles” e noveschi e cercato e ottenuto l’appoggio imperiale e quello del popolo minuto, a rovesciare i Consoli dopo soli venti giorni di governo; certo è che il Salimbeni con quella mossa si assicurò poteri e privilegi amplissimi, mentre una nuova coalizione si poneva alla testa di una città in cui di nuovo divampava la guerriglia, sotto la protezione del vicario imperiale Malatesta Ungaro 87.Luchaire ha documentato come a partire da quel momento gli sviluppi istituzionali favorirono l’ascesa del popolo minuto che grazie all’impianto di una assemblea a carattere permanente detta dei Riformatori che comprese ventotto noveschi, trenta-cinque dodicini e sessantuno di loro esponenti, entrò a larga maggioranza dentro il Comune, potendo anche contare su una presenza parimenti importante in seno al magistrato supremo

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la cui composizione attraverso successivi slittamenti si ancorò ad accogliere nel dicembre di quell’anno, otto popolari minuti, quattro dodicini e tre noveschi 88.

Sul fronte opposto, i gentiliomini consoli, lasciati in farsetto dalla rivoluzione abbandonarono la città: quando il 12 otto-bre l’imperatore Carlo arrivò a Siena ospite nel palazzo dei Salimbeni con un seguito di millecento cavalieri, tutti trova-rono alloggio “nelle case de’ gentiliomini fugiti e tutti li ridotti furo fatti stalle”, racconta il cronista: lasciati i palazzi, fuggiti dalla città i gentiluomini si erano frattanto rifugiati a Cerreto da dove si erano messi “a guerreggiare el contado”, finché i signori Difensori del Comune non “mandarono a cercare di trattare acordo con più gentiliomini che teneano forteze del Comuno per fare che le rendessero” 89.Il tema della trattativa con i fuorusciti impegnò infatti in un primo momento il governo che deliberò di inviare degli oratori a Cerreto, dai “caporales nobilium”, per capire quali fossero le loro intenzioni 90, poi vista l’impossibilità di giungere a una composizione – perché molti “non volsero acordo” – passò alle maniere forti e denunciate le ingiurie e i gravi danni inferti dai nobili al Comune, il 20 novembre dichiarò guerra ai ma-gnati “de domibus” Piccolomini, Tolomei, Malavolti, Saracini, Forteguerri e Cerretani, accusati di non obbedire all’imperatore, affidando al Malatesta l’onore di “facere et conducere dictam ghuerram eo modo et forma quibus ei utilius et honorabilius videbitur pro salute et statu populi et comunis” 91. Delle moda-lità con cui fu combattuta non rimangono che poche immagini frammentarie che fanno vedere un esercito cittadino capitanato dal Podestà uscire dalla città per dirigersi contro i gentiluomini intenti al saccheggio e alla devastazione del contado – dove raccordandosi ai castra in loro possesso compiono ogni sorta di malversazioni 92 – perché quando le fonti tornano in modo più sistematico ad occuparsi della vicenda è per porre all’ordine del giorno il tema del loro rientro in città.

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Nil peius est guerra et nil dulcius pax, poiché la prima “dissi-pat et devastat” e la seconda “multiplicat omnia bona”: Siena decide di affrontare e risolvere la questione appena due mesi dopo aver dato il via alle operazioni belliche quando affida all’arbitrato del marchese di Monferrato la risoluzione del dis-sidio 93. Il cronista dice che si trattò di una mossa fittizia fatto sta che quattro giorni più tardi il marchese “sdegnò”, lasciò la città dicendo che “direbbe a Firenze” e la negoziazione si arrestò 94. Il 20 febbraio il Comune di Firenze, proclamandosi “frater et çelator felicis status populi Senarum”, preoccupato dalla discordia fra il Popolo senese e i nobili fuorusciti offrì il suo aiuto affinché si facesse la pace ma il consiglio cittadino a cui la proposta venne formalizzata prese tempo e deliberò di rimettere tutto all’ufficio dei Difensori 95, così che soltanto il 14 marzo fu ratificato definitivamente l’arbitrato nei prio-ri delle arti fiorentine, i quali a loro volta affidarono il man-dato a Paolo di Giacomo Capponi, Rosso di Ricciardo Ricci, Giacomo Alberti e Tommaso Strozzi 96. Di ciò che successe tra il 14 marzo e il 27 aprile quando l’assise cittadina fu chiamata a votare sulla necessità di fare nuovo compromesso nei fioren-tini, rimangono soltanto i ricordi di Donato di Neri che parla di una pace stipulata nel Consiglio Generale “con gran festa, trombe e falò e alegreza e con belle diciarie” che però dovette ben presto essere rotta forse da un diverbio scoppiato sul cam-po tra un gentiluomo e un dodicino o assai più probabilmente dalla pubblicazione di un lodo che non convinse o non era fat-to per tenere, visto che il 27 aprile il Consiglio Generale dava mandato ai fiorentini di apportare modifiche e correzioni alla sentenza di pace 97. La rottura fu ricucita, il 29 aprile i nobili furono indotti ad una pace con i Salimbeni, il primo maggio fu dato il lodo ma un nuovo tumulto popolare ispirato da questi ultimi, scontenti della sentenza appena emessa, riprecipitò la situazione nell’incertezza 98.Il governo però che sembra perseguire decisamente nella vo-lontà di ricomporre la frattura non perde tempo, il 3 di maggio nominò una commissione composta di nobili e popolari per ri-

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prendere la trattativa 99 e l’8 maggio per la terza volta demandò ai priori delle arti di Firenze la risoluzione della questione 100. In un’altalena di tentativi fatti per ristabilire la pace e di succes-sivi fallimenti si arrivò finalmente alla dichiarazione del 1 giu-gno 1369 quando richiamando l’utilità della pace e la necessità di insistere con ogni mezzo e con tutte le forze per ottenerla, i Riformatori forti del fatto che

communis oppinio est omnium senenses quod ammictere no-biles ad ofitia est facere ipsos reverti in civitate Senarum et solidare pacem

deliberarono che questi tornassero a godere di quegli uffici pubblici che avevano prima della rivoluzione del 1 settembre, e sei giorni più tardi con atto non privo di artificio propagan-distico ma che, se non celava imbrogli, palesava comunque chiaramente un intento pacificatore essi davano la possibilità ai gentiluomini che ne facessero richiesta di entrare a far parte della consorteria di Popolo 101.

Il braccio di ferro: la guerra di Pietro e SpinelloE intanto, in contado, i nobili ribelli stavano predando e sac-cheggiando. Alcuni mercanti catalani appena arrivati con le loro navi a Talamone raccontarono di essere stati derubati sulla strada che li portava a Siena: reali di maiolica, fiorini, cavalli, anelli d’oro, una spada fiorita d’argento, mantelli, una cuffia di seta, una lancia, una valigia, un giubbone, sacche di lana e finanche un paio di calze. I robbatori se ne erano poi scappati andandosi a rifugiare nel castello di uno di loro con tutta la refurtiva: e lì s’erano messi a giocare 102.La guerra dei nobili conosciuta attraverso alcune sparse istan-tanee, disegna la spaccatura che attraversa al suo interno la compagine magnatizia, percorre quella strutturale incapacità, impossibilità di compattamento di interessi in formule duratu-re. In quei giorni di giugno mentre in città alcuni di loro erano con i popolari impegnati nella trattativa, designati a far parte di

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balìe straordinarie con il compito di riportare una concordia a cui spronavano diplomatici, ambasciatori e commissari fioren-tini 103, altri, sordi ai richiami e al dialogo, battevano la via del rebellismo: il 7 giugno 1369 quando il contingente armato del-la repubblica entrò al castello di Foiano, nido dei ribelli, trovò e catturò Adovardo Marescotti, signore della fortezza, e quan-do il giorno successivo si diresse su Campriano, “inperoché ine abitavano certi gentiluomini che ricettavano le robarie”, trovò e uccise nove uomini: “cioè tre de’ Talomei, tre de’ Piccolomini, due de li Scotti e uno de’ Mariscotti” 104.La fine dell’esperienza consolare, il ‘tradimento’ di Niccolò di Niccolò Salimbeni ai danni della parte nobiliare che si era riconosciuta in quell’effimera esperienza di stampo aristocra-tico (finanche nella forma: con il richiamo all’eleganza classi-cheggiante dei magistrati del primo comune nobiliare), l’arrivo dell’imperatore e gli sviluppi successivi che portarono ad una preminenza del Popolo minuto negli organismi di governo 105 e del Salimbeni nell’agone politico, spinsero Spinello, vittima della grandiosa follia dei suoi disegni, in una serie di grottesche e avventurose peripezie nelle quali gli fu compagno il fratello Pietro. Còlto di sorpresa e messo in fuga, così come si trovava, in farsetto, dall’offensiva congiunta di popolari e Salimbeni, in compagnia di Pietro occupò Batignano. La notizia della presa di quella terra arrivò in Consiglio Generale il 26 febbraio 1369. I due magnati, con l’aiuto di alcuni fedeli consorti, avevano cavalcato verso il castello con gran raduno di armati a piedi e a cavallo, avevano scacciato i senesi deputati alla sua custodia, predato il frumento che avevano trovato depositato, sottratto ventiquattro cavalli, sedici armature, denaro “et alias res” a un conestabile fiorentino che si trovava nel castrum 106. La guerra ha i suoi costi. E i suoi vantaggi.Ricusando ogni offerta di mediazione del Malatesta e del go-verno popolare, Spinello e Pietro fanno dell’antico dominio signorile la base delle loro azioni rivoltose. Il 3 maggio 1369 il vicario di Corsignano, Giovanni di Torino, scrive alla si-

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gnoria dicendosi assai preoccupato perché nel caso in cui “Spinellus, dominus Pierus Salamonis, Augustinus, e Bactista de Piccolominibus” volessero entrare con la forza in quel ca-stello c’è da esser sicuri che riceveranno aiuto dai terrazzani 107. I terrazzani lo conoscono bene. Spinello è proprietario in quel-la comunità di case e terre: che vuol dire rapporti di fedeltà, solidarietà, subordinazione 108. Ma i timori del vicario sono, almeno per il momento, infondati. Proprio mentre sta compo-nendo quella missiva per i governanti, Spinello, di ritorno da Santa Fiora, appena all’altezza di Castiglion d’Orcia è cattu-rato da Cione di Sandro Salimbeni. E portato con la forza a Castiglioncello del Trinoro 109.A Siena intanto le trattative e gli sforzi di composizione, anche se in un valzer di ambiguità, procedono. In quello stesso 3 di maggio in cui tanti avvenimenti si addensano sotto il cielo di una città ancora all’oscuro di quanto è avvenuto in Valdorcia, il Comune popolare dopo il fallimento del primo lodo, nomina Andrea di Francesco Piccolomini, dominus di Modanella, e il consorte Buonsignore di Fazio – i membri più autorevoli del ‘fronte moderato’dei Piccolomini, forse quelli dai connotati più marcatamente ‘filogovernativi’ – tra i dodici nobiles “ad pacem tractandam” 110: il vecchio tutore di Pietro e Spinello per i lega-mi che vanta con i due figli di Salomone, per la lunga esperienza negli affari di governo, per la capacità di far propri i continui, necessari, compromessi che la vita e la politica gli pongono di fronte, sembra l’uomo più adatto per ricoprire il difficile ruolo di intermediazione tra i ribelli e il Comune popolare 111.E infatti. È mia volontà lavorare per ridurre i nobili alla vo-stra et nostra intentione 112, dichiara ai governanti. Incroci di missive, relazioni, ambasciate. A’ filgluoli remasti a Modanella manda a dire, anzi dà comandamento che se loro [i governan-ti] andassero o mandassero a Modanella devono esser garan-titi stanza e passaggio nel castello liberamente 113. Incroci di relazioni, missive, ambasciate. Il 10 maggio partono da Siena i primi ambasciatori a Cione di Sandro Salimbeni, per cagione

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di Spinello 114. Andrea di Francesco, nell’ora tarda della sera, si mette al tavolo:

El Burigha sartore el quale è di questo Populo del magiore numero et de molto grando comuno m’ha pregato ch’io huo-peri con voi che uno c’ha nome Antonio del Pero el quale pre-so in Batignano, voi per amore di me lli facciate gratia, perché io quanto più po[sso] vi prego che se potete operare co’ vostri briganti che sia lassato che’l facciate, e se non poteste el tucto che almeno di una grande parte li facciate gratia. Si che’l dec-to Burigha sia servito da voi per mio mezo 115.

Era la sera, forse stellata, del 24 giugno quando il Piccolomini chiedeva al dominus di Batignano, suo ex pupillo, la grazia per un prigioniero catturato dai suoi briganti la cui liberazione sta-va molto a cuore ad un membro del gruppo dirigente. In quello che sembrava il tanto atteso e definitivo compimento di tutte le speranze di pacificazione, alcuni giorni prima, il 16 giugno, Buonsignore di Fazio Piccolomini era stato scelto come uno dei sei nobili compresi di diritto nella formazione degli “Ordines” della città 116.

Il braccio di ferro. Il lodo della paceInvece il giorno dopo l’elezione dei sei rappresentanti magnati-zi nell’alto consiglio comunale, a Castiglion del Bosco un grup-po di nobili ribelli, un Malavolti e un Tolomei, furono assaliti dall’esercito cittadino e uccisi 117, la trattativa saltò, i Priori fio-rentini si dolsero della guerra “tam crudeliter” fatta “contra ipsos nobiles” chiedendo ai senesi di cessare le ostilità, ma i senesi risposero che non avrebbero acconsentito alla tregua se prima i nobili non avessero restituito tutti i castelli che detene-vano illegittimamente 118. Il rinserrarsi dei governanti in un at-teggiamento tanto intransigente lasciava prevedere una ripresa indefinita delle ostilità. Invece in modo inatteso e sorprendente la tregua fu stipulata pochi giorni dopo – il 3 luglio – e la sen-tenza definitiva il 24 dello stesso mese 119.

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Un lodo contenente numerose e minute clausole procedurali regolò le modalità del rientro in patria, i termini di accesso alle cariche politiche, gli obblighi a carico delle parti 120.Tutti i nobili fuorusciti potevano tornare in città con le loro fa-miglie libere et secure: assolti da tutte le condanne sentenziate dagli ufficiali del Comune, annullati tutti i processi – sia civili che criminali – celebrati durante il tempo della guerra, era fatto divieto procedere contro di loro “per modum accusationis, de-numptiationis seu inquisitionis” né per qualsiasi altra procedura ordinaria o straordinaria a causa dei delitti e dei reati commessi da loro e loro seguaci 121. Esentati dal pagamento di dazi, tasse e preste di qualsiasi genere relative al periodo dei disordini; am-messi agli uffici comunali pro ea portione et numero come duran-te il regime dei Dodici; reintegrati nei diritti su castelli e fortezze loro sottratti entro il termine di un mese; abilitati a restaurare, rehedificare castra, palazzi, case e quant’altro di loro pertinenza andato distrutto, in cambio di tutte le garanzie loro concesse, fu chiesto di: restituire i castelli di proprietà del Comune pervenuti “tempore dicte discordie” in loro mano; di liberare, entro quin-dici giorni, tutti i prigionieri detenuti, e poiché durante la guerra molti di loro con le loro masnade avevano rubato multas sal-mas, ballas seu sacchos lane, pannos et mercantias et res alias” a mercanti catalani e fiorentini, secondo i patti convenuti tra quei mercanti e il Comune si faceva obbligo ai ladri di restituire la refurtiva e di soddisfare danni e interessi secondo la sentenza emessa dagli ufficiali di Biccherna e dai Regolatori.Pietro di Salomone – a cui veniva concesso il termine di un mese per soddisfare gli uomini a cui aveva illecitamente sot-tratto merci e beni 122 – avrebbe dovuto tradere et adsignare al Comune il castello di Batignano secondo i tempi e le modalità da fissarsi congiuntamente dai Difensori di Siena e i Priori delle arti di Firenze. I Salimbeni, allo stesso modo, avrebbero dovuto restituire alla repubblica Castiglion d’Orcia, Piancastagnaio, Montegiovi, Boccheggiano, Montorsaio e Rocchette Tederighi nei tempi e nelle modalità fissate dalla signoria.

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L’arbitrato voluto dai Priori delle arti di Firenze, sgombro da ogni intento punitivo nei confronti dei ribelli 123 prefigura-va al contrario condizioni generalmente favorevoli ai nobiles fuorusciti, che tornavano a Siena non soltanto con l’immunità per i delitti e i saccheggi commessi – con l’unica sanzione del rimborso economico del danno causato su merci et alias res – ma anche con la garanzia politica che il governo popolare dei Difensori era disposto ad aprire loro gli stessi spazi istituzionali del periodo dodicino. Inoltre i commissari fiorentini sembra-vano rendersi perfettamente conto dello squilibrio che si era creato in città all’interno della compagine magnatizia, dove la crescita di potere dei Salimbeni – grazie all’appoggio imperiale e alla completa dedizione del “populus” ratificata nei giorni se-guenti alla rivoluzione del 23 settembre 1368 124 – doveva aver innescato meccanismi di rivalsa e gelosia negli altri “nobiles”, affatto propensi a subire la grandigia di loro pari a danno e limitazione del loro status. E dunque pienamente consapevoli del rischio destabilizzante di questo squilibrio mostrarono l’in-tenzione di volerne eliminare alle radici le cause.Emblematica di questa consapevolezza e di questa volontà, fu l’ampia motivazione data alla revoca dei castelli concessi dallo stato popolare:

considerantes quod ipsa concessio redundavit et redundat in non modicum preiudicium et diminutionem status dictorum aliorum nobilium, ideo pronumptiamus, sententiamus et ar-bitramus quod [castra predicta] perveniant ad manus et sub dominio […] Comunis Senarum;

e anche più esplicite furono le parole con cui veniva revocata ai Salimbeni, insieme al privilegio di portare armi, la provvisione mensile di 300 fiorini per pagare i fanti armati a loro difesa:

quia dictum privilegium et dictum stipendium seu provisio si sic remanerent, caderent in preiudicium non modicum et diminutionem status dictorum aliorum nobilium […], et ut

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omnes nobiles civitatis Senarum sint pares et cesset causa om-nis invidie inter eos cum non debeat uni tantum concedi unde alii scrupoloso corde moveri possint 125.

Condizione per la pacificazione interna era insomma agli oc-chi degli arbitri quella di cancellare sbilanciamenti e riportare i Salimbeni entro l’alveo del normale gioco dialettico tra forze sociali, riconducendoli all’obbedienza dei governanti.

RapitoLa pervicace opposizione di questa famiglia al processo di pace era stata, senza dubbio, una delle cause che insieme alle divi-sioni operanti tra il Populus avevano ritardato il compimento dell’accordo 126: il 3 maggio 1369 due giorni dopo il primo – ed effimero – compromesso ratificato tra i gentiluomini, il Comune e i Salimbeni, Cione di Sandro catturò a Castiglion d’Orcia Spinello di Salomone Piccolomini: per Spinello l’imboscata fu una sorpresa: fidandosi e avendo fatta pace co’ Salimbeni, e tut-ti i nobili di Siena 127. La cronaca racconta che Cione fu spinto al rapimento per indurre il Piccolomini a restituire a Siena il castello di Batignano: in realtà è più probabile, visti gli svolgi-menti successivi, che il Salimbeni volesse servirsi del prigioniero per alimentare i disordini nella speranza di allontanare o far sfumare ogni prospettiva di accordo e per godere di un’arma di contrattazione sia con i nobiles ribelli sia con i popolari, più che per recuperare al Comune un castrum occupato 128. Cione insomma doveva coltivare qualche segreto, personalissimo di-segno che gli impedì, anche quando ormai la pace era cosa fat-ta, di liberare il suo ostaggio: liberazione che i Priori fiorentini avevano posto ai Difensori di Siena come una delle priorità del governo e imposto ai Salimbeni come condizione della pace: tutti i prigionieri, avevano sentenziato, devono essere rilasciati entro quindici giorni e maxime dominus Spinellus Salomonis de Piccolominibus de Senis qui ad presens detinetur captivus per Cionem Sandri de Salimbenis”. Per il suo rilascio il Comune si era formalmente impegnato a facere et curare 129.

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All’indomani del lodo vengono mandati ambasciatori da Cione ma senza nessun risultato, nei mesi seguenti il Comune appare incapace di arrivare ad una conclusione soddisfacente, i fioren-tini lamentano la mancanza di incisività dei senesi in un’affa-re 130 che nel gennaio del 1370 non è ancora stata risolto e la cui discussione nell’aprile di quell’anno si trascina senza pro-spettiva di schiarite in Concistoro 131.Spinello, nell’isolamento aspro di quella fortezza abbandonata da Dio e dagli uomini 132 si sarà disperato. Passò la primave-ra. E passò anche l’estate di quell’anno. Ma poiché talvolta la disperazione aguzza l’ingegno una notte di settembre tanto fe’ cor uno bastone e coll’ogne che ruppe per uno necessario, e si fugì … Fuggì, capitò a Campagnatico, e qui alfine sicuro ripa-rò, così scrivendo un lieto fine, secondo Donato di Neri, alla rocambolesca storia 133.Che per tentare di comprendere varrà forse la pena sottolineare come gli arbitri, dopo aver esplicitamente deliberato l’annul-lamento delle concessioni castrensi ai Salimbeni, avessero de-mandato però al Comune di Siena la decisione dei tempi e delle modalità con cui il casato avrebbe dovuto restituire ai popolari i castelli valdorciani, con la clausola che tali decisioni per essere valide avrebbero dovuto essere approvate dai 2/3 della signoria e che avrebbero perduto efficacia giuridica nel caso in cui il termine per la riconsegna “excederet et transcenderet tempus eorum offitii”, nel qual caso la potestà di deliberare in mate-ria doveva passare ai successori 134: dunque Cione poteva avere tutto l’interesse a non privarsi di un’arma che gli consentiva, bimestre dopo bimestre – mandato dopo mandato – di tenere sulla corda i governanti popolari che spinti ad una risoluzione tempestiva della faccenda dai Priori fiorentini e probabilmente dal fratello di Spinello, Pietro, non avrebbero avuto il coraggio di rompere la trattativa, con il risultato o di rinviare per deci-sione concorde la sentenza decisa dai compositori o di spaccar-si al loro interno circa la via da seguire, che voleva dire, in altre parole, non raggiungere il quorum necessario alla delibera: in

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definitiva facendo ciò che Cione era interessato ad ottenere: una dilazione all’infinito della revoca.Fosse questa o meno la spiegazione dell’atteggiamento del Salimbeni certo è che i Difensori contrariamente al detta-to del lodo che dichiarava l’utilità e la necessità di riportare Castiglion d’Orcia, Piancastagnaio, Montegiovi, Boccheggiano, Montorsaio e Rocchetta Tederighi “ad manus et sub dominio et possessione et gubernatione libera Comunis Senarum” non procedettero in tal senso fino al 1374 quando però un nuo-vo governo, costituito da una netta maggioranza di popolari minuti ed emerso in seguito a una rivolta dei lavoratori della lana del luglio 1371, intese punire il casato resosi colpevole di alcune cospirazioni ai suoi danni e di devastazioni e saccheggi nel contado 135.

Una formale obbedienzaAnche a Pietro di Salomone era stato fatto obbligo di restituire il castrum di Batignano ma in quel caso gli arbitri posero come condizione, per la restituzione, l’accordo congiunto della signo-ria di Siena e di quella di Firenze riguardo al tempo e alle cir-costanze in cui tale consegna doveva essere fatta, concedendo esplicitamente al Piccolomini la facoltà di “possidere et habere et tenere libere […] ipsum castrum cum suis iuribus et perti-nentiis […] sine aliquo impedimento Comunis Senarum” fino a quando i due comuni non avessero disposto in contrario 136.

Magnifici signori come io credo che ala vostra signoria fu manifesto io Piero di Salamone cavaliere de Piccoluomini ò tenuta et posseduta pacificamente et liberamente la terra di Batignano per spatio di sedici anni o più; et per lo Comune di Firenze fu sententiato che io dovesse pacificamente possedere la detta terra senza alcuna molestia et che io non dovessi re-stituire la detta terra se priori di Firenze et Difensori che alora regevano Siena di ciò non fussero in concordia […]; di che con ogni riverentia humilmente prego la Signoria Vostra che vi piaccia di concedarmi la detta terra di Batignano con ogne

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sua iurisdictione et territorio liberamente acciò che io possa sempre rimanere vostro fedele figliuolo et servidore […] 137.

Nel 1385, sedici anni dopo la celebrazione del lodo di pace, Pietro era ancora titolare di quei diritti castrensi che, nell’occa-sione, chiedeva ai nuovi governanti di confermare. I termini del lodo del 1369 si configuravano insomma – riguardo a Pietro – come un contenitore vuoto che i Difensori potevano riempire pragmaticamente ed empiricamente sulla base degli sviluppi in atto e dei comportamenti del magnate. Il figlio di Salomone, una volta ratificata la pace rientrò, con qualche fatica e non senza tensioni, nei ranghi della liceità e, sporadicamente, tra le fila del personale militare e politico del Comune 138, in un tenta-tivo di adeguamento alle esigenze di composizione che il grup-po dirigente cittadino aveva mostrato di voler perseguire: nel corso delle settimane e dei mesi successivi all’estate 1369 lasciò andare, al pari di molti altri nobili 139, i prigionieri che aveva catturato – due capitani del Comune di Siena cioé el Capitano generale et quello della montagna e più di trenta altri tra citta-dini e contadini – e fece formale dichiarazione di voler tornare ad obbedientiam Comunis 140.L’inquietudine dei Salimbeni che tramavano di continuo con-tro i Riformatori – non sufficientemente controbilanciata dalle scelte ampiamente ideologiche e propagandistiche di quei nobi-li che ripudiando la loro condizione chiedevano di entrare a far parte della consorteria di Popolo 141 – contribuiva ad alimenta-re in quegli anni un atteggiamento di sospetto nei confronti dei gentiliuomini, deviati dal volere del Popolo. Anni soltanto qua e là rischiarati da alcuni lampi di spettacolare convergenza tra le parti. Come quella che vide, in un giorno dell’agosto 1371, “Riformatori, Gentiliomini e Populo Schietto” dirigersi insieme a fare “una offerta alo Spedale dela Scala a laude e reverentia dela Vergine Maria” in una processione ininterrotta di ceri che il cronista ligrittiere Donato di Neri (assai vicino al governo) affermò essere una “delle belle cose che mai si facesse” – e che

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sembrò palesare un’unità e una concordia cittadina in realtà assai lontane a venire 142.La situazione precipitò nel corso del 1384 quando alcune cla-morose sconfitte di politica estera – tra cui il mancato acquisto di Arezzo che passò sotto il dominio di Firenze – e l’incitamento dato a gentiluomini, noveschi e dodicini dal nuovo governo fio-rentino di matrice borghese, che “temeva molto de’ regimento de’ Riformatori di Siena”, operarono perchè un nuovo fronte nobiliare si compattasse e facesse cadere i popolari minuti 143.Pietro di Salomone a cui il tempo non aveva cancellato il risen-timento verso un governo che non aveva mostrato sufficiente fermezza nella questione del rapimento del fratello – per me furo observati tutti li patti … et lassai prigioni che io avevo … e misser Spinello mio fratello doveva essare lassato liberamente di prigione per vigore de’ predetti patti, e non ne fu fatta alcu-na cosa 144 – si fece autore e protagonista, al fianco di Niccolò Salimbeni e Lapo e Bettino Ricasoli di una pericolosa e belli-gerante cavalcata contro Siena 145 che precedette di poche setti-mane la fine dei Riformatori. Tra il 24 e il 25 marzo 1385 una nuova coalizione di governo, alla presenza degli ambasciatori fiorentini, perugini e pisani, si insediò a palazzo 146.

La danza dei regimiLa nascita del nuovo “regimen” frutto di una ribellione di cui era-no stati principali sostenitori Piccolomini, Malavolti, Cerretani, Salimbeni insieme ad esponenti dei noveschi e dei dodicini fu se-guita dallo smantellamento di ogni “forestaria”, per essere ormai la città “pacificata e sicura”, e dalla volontaria resa dei castelli del contado e delle comunità che si erano ribellate e che “contente e liete ubbidiro” 147, mentre Siena era invasa da grandi manifesta-zioni di gioia e di allegrezza. Nella piazza si fecero molti cavalieri novelli, tra i quali Salomone, il figlio di Pietro Piccolomini. E poi falò, balli, giostre e armeggiamenti, “desinari e cene e balli di don-ne e di omini”: da tutto el mondo arrivarono lettere di felicitazio-ni; da Firenze grandi donativi di “veste di veluto scarlato” 148.

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Al posto degli antichi ‘iniqui governanti’ fu nominato un nuovo collegio composto da dieci membri – quattro dei Nove, quattro dei Dodici e due di Popolo minore – che “in onore a’ fiorenti-ni” presero la denominazione di ‘Priori’. La sostanza di questa svolta di cui già fornì un evidente segnale la formula icastica con cui gli atti ufficiali proclamarono l’avvenuto passaggio del potere nelle mani di ottimati e togati 149, diventò di lì a breve più chiara: con atto del 26 novembre 1387 una legge giunse ad attuare un riassetto generale dei poteri allo scopo dichiarato di riportare la concordia tra i cittadini. Indicando con esattez-za la misura della partecipazione di ciascun gruppo all’eserci-zio del potere, il numero dei seggi della magistratura più alta venne innalzato da dieci a undici per poterne riservare uno ai Riformatori, che venivano accomunati con i popolari di recen-te ammessi ai pubblici onori sotto il nome di altro popolo 150; fu ribadita la ineleggibilità dei gentiluomini all’ufficio dei si-gnori, ma, per compensarli in qualche modo fu loro assicurata una posizione di preminenza nelle altre magistrature ordinarie: gli uffici di Biccherna, di Gabella, dei Regolatori, del Sale e la Dogana dei Paschi 151; mentre la Mercanzia, quello dei Pupilli e gli Statutari sarebbero stati in numero di quattro 152. I 37 seggi complessivi venivano dunque così distribuiti: 13 ai grandi, 8 ai noveschi, 8 ai dodicini e 8 ai popolari 153. Infine podesterie e capitanati ordinari dovevano essere conferiti esclusivamente ai nobili 154.L’impronta ‘moderata’ di questo governo monopolizzato nella realtà da un’oligarchia borghese formata da noveschi e dodici-ni con larghe aperture ai settori nobiliari e appena permeabile ad una lieve incidenza dei ceti di più bassa estrazione, riportò il potere nell’ambito di una gestione a vantaggio dei ceti più alti, segnando, come è stato sottolineato, una sorta di involuzione rispetto al decennio precedente che aveva visto compirsi sotto l’egida dei Riformatori una esperienza istituzionale caratteriz-zata da una eccezionale circolazione del potere: tra gennaio 1369 e febbraio 1385 l’80% dei popolari minuti che arriva-

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rono a sedere su uno degli oltre 1.000 seggi disponibili non ricoprirono più di una volta il mandato 155, marcando in questo senso una forte discontinuità rispetto alle pratiche rigidamente oligarchiche di Nove e Dodicini.Oltretutto nel febbraio 1385, un mese prima della loro caduta, i Riformatori consapevoli della precarietà degli equilibri citta-dini proposero anche un allargamento della base degli eleggibi-li alla signoria attraverso un’annullamento delle differenze tra i gruppi di Popolo, decretando che tutti i noveschi e i dodicini ol-tre ai popolari che avessero ricoperto uno degli uffici comunali dal 1368 in qua, anche se ammoniti, sarebbero stati in futuro di quel collegio, “cum omnibus gratiis et privilegiis concessis aliis Reformatoribus”; e allo scopo di frenare il malcontento che serpeggiava chiaramente fra i grandi con la stessa provvisione formalizzarono la concessione ai nobili delle podesterie, moti-vando la decisione pro maiori contentamine et pace civium et ut nobiles habeant materiam honorandi populum Senarum 156.Ma a quel punto era ormai troppo tardi. Dodicini e Noveschi alleandosi ad alcuni segmenti nobiliari particolarmente ambi-ziosi o insoddisfatti della piega politica riuscirono con l’appog-gio dell’altro popolo, quello cioè escluso fino a quel momento da ogni partecipazione alla vita politica, a rovesciare il governo per imporre un gioco più favorevole ai loro interessi.

Pietro di Salomone non poté trarre vantaggio dal regime che contribuì, probabilmente, a creare sull’onda di chissà quali spe-ranze, di quali circolari ossessioni che con ritmica precisione lo accompagnavano da quella primavera del 1355. All’indomani dell’investitura del figlio Salomone, in una città che i cronisti descrivono attraversata da un brivido di gioia irrefrenabile – vertigini di giostre, di vino, di confetti 157 – Pietro era già avvia-to verso il suo destino. L’ultima immagine è quella che nel pieno dell’estate del 1386 ce lo mostra riscuotere otto moggi di grano per 12 fiorini d’oro da alcuni comitatini di Corsignano 158. I fratelli Spinello e Tommaso lo avevano preceduto. Di Tommaso

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si perdono le tracce nel gennaio 1364: sulla sua testa pende una condanna a morte pronunziata dal Conservatore e forse man-data ad esecuzione 159. E Spinello, se è vero ciò che scrisse sulla sua cronaca Donato di Neri, riuscì a sfuggire il 5 settembre 1370 a Cione di Sandro Salimbeni, recuperando la sua libertà, ma dentro quell’ultima avvincente pagina della vita di un miles ribelle, fece perdere le sue orme 160.

Eredità

Il XIV secolo lascia in eredità al Quattrocento il formale rico-noscimento di cinque fazioni politiche che le crisi del secondo Trecento hanno portato alla ribalta: con esclusione del Monte dei nobili o Gentiluomini, comprendente i magnati esclusi dal vertice istituzionale nel 1277, i Monti dei Nove, dei Dodici, dei Riformatori e del Popolo riuniscono i discendenti di quanti, in tempi diversi, hanno retto la repubblica, sostituiti di volta in volta da quei gruppi sociali che, dal basso, premevano per con-quistare maggior spazio politico 161. Il cerchio si chiude con la rivolta del 1385 quando l’emersione dell’ultimo dei tre Monti popolari che, contribuendo alla caduta dei Riformatori, si era guadagnato un posto nella coalizione di governo di noveschi e dodicini, portò alla luce l’insufficienza della tripartizione del populus quale appariva nel 1368:

quando in aliqua scriptura esset mentio fienda de popu-lo parvo dicatur de populo majoris numeri – scrivevano i Riformatori – et si de gente duodecim esset fienda mentio dicatur de populo mediocris numeri, et si de gente novem dicatur de populo minoris numeri 162.

Parallelamente al complicarsi e all’arricchirsi della fisiono-mia del Popolo, i processi di redistribuzione della ricchezza, la fluidità sociale che caratterizza il secondo Trecento spinsero perché i membri dei Nove e dei Dodici si innalzassero dalla

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loro originaria condizione, avvicinandosi per ricchezza e stile di vita ai gentiluomini. Alla fine del Trecento quel dualismo tra “populus” e “nobiles” che aveva caratterizzato il quadro poli-tico precedente e trovato una sua lucida perfetta sistemazione ideale nell’opera propagandistica novesca appare incrinato: la dicotomia viene ad essere complicata dall’esistenza di più rag-gruppamenti tutti richiamantesi al populus e dall’emergere di affinità sociali ed economiche tra alcuni di questi gruppi e i gentiluomini.Ma uniformità di status, identiche propensioni e affinità di atteggiamenti non impedirono che ciò che a livello sociale ed economico e culturale era superato, mantenesse intatta la sua forza sul terreno istituzionale dove l’opposizione restò e i no-bili continuarono ad essere privati della magistratura più alta. L’opera di progressiva assimilazione tra gentiluomini, noveschi e dodicini si estese nel prosieguo degli anni anche agli apparte-nenti degli altri due Monti: ogni volta che nuovi gruppi familia-ri, qualunque fosse la loro estrazione, ascesero a responsabilità di governo dando vita a nuove oligarchie politiche, si innescò un meccanismo che con il tempo condusse quei gruppi, o alcuni dei loro nuclei più consistenti, ad isolarsi sempre maggiormente dagli strati della società che li avevano generati, indirizzandoli verso modelli di vita superiori. Una chiusura, uno slittamen-to verso l’alto, conseguenza dell’atteggiamento di gelosa tutela dei privilegi acquisiti e dei mutamenti indotti da un prolungato esercizio del potere 163.L’appartenenza ai Monti decide il destino politico dei suoi ade-renti condizionando non solo gli equilibri di governo – giacché dal 1385 il vertice istituzionale si assetta sulla formazione di coalizioni realizzate con diversità di formule e soluzioni che ora includono tutti e quattro i Monti ‘popolari’ ora margina-lizzano ed escludono quello che di volta in volta si macchia di delitti contro lo stato e manifesta propositi sovversivi – ma an-che la distribuzione degli incarichi nell’apparato burocratico. L’accesso al potere si sposta cioè da una dimensione individuale

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a quella di gruppo perché “il diritto alle cariche spetta al singo-lo […] non come individuo bensì come membro di una famiglia che insieme ad altre costituisce un Monte” 164.Far parte di una famiglia piuttosto che di un’altra marca in-somma la propria storia che non è disgiunta da quella del grup-po di cui la famiglia è parte, e che a seconda della qualificazione e dei periodi può essere esclusa dai diritti di governo (come ad esempio i Dodici espulsi nel 1403), ammessa continuativa-mente ma limitatamente ad altri (i nobili), o ammessa in toto (come nel caso dei tre ‘monti’ di Nove, Riformatori e Popolari che dettero vita al regimen tripartito che guiderà la città fino al 1480). Fatto salvo ovviamente che l’appartenenza ad un Monte più che sanzionare dei diritti offriva della facoltà: non tutti i membri di tutte le famiglie costituenti i cinque gruppi avranno potuto approfittare delle possibilità istituzionali che l’apparte-nenza garantiva.Questa caratterizzazione della politica se da un lato acutizzò la lotta fra le fazioni che si contesero il potere in un gioco conti-nuo di alleanze, tradimenti, violenze e tentativi di sopraffazio-ne reciproca 165, dall’altro creò una solidarietà interna e una coesione tra gli esponenti di ciascuna fazione che proprio dal riconoscimento di interessi comuni trassero motivo di compat-tezza: così anche i gentiluomini che mai avevano saputo unirsi in uno schieramento duraturo, furono obbligati, dagli sviluppi della storia cittadina, a legare la tutela dei propri interessi non più ad una dimensione individuale o familiare, ma ad un qua-dro di riferimento più ampio, che li individuava come facenti parte del mons nobilium e come tali destinatari di cariche e funzioni.Si misura, in questo terreno, rispetto alla situazione di fine Duecento e primo Trecento un elemento di forte discontinuità, perché allora nessuna urgenza obbligava gli esponenti dei casa-menta individuati dalla normativa antimagnatizia del 1277 a riconoscere nei loro pari i possibili alleati per il raggiungimento di un obiettivo comune. Il ‘sistema’ policentrico di potere ren-

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deva insomma possibile, ove non fosse fine consapevolmente perseguito, una frammentazione del gruppo magnatizio impos-sibilitato a compattarsi non solo dalle rivalità e dalle inimicizie personali, ma anche dalle possibilità relativamente facili di ac-cesso ai centri periferici del potere, che l’oligarchia novesca era ampiamente disposta ad aprire a coloro che rendessero i propri comportamenti compatibili con le esigenze di quiete cittadina, valutando caso per caso l’attitudine dell’individuo a ricoprire funzioni pubbliche e il suo grado di fedeltà al gruppo dirigente.E tuttavia. Nonostante la situazione maturata a fine Trecento avesse chiaramente predisposto con l’istituzionalizzazione di nuovi strumenti per la lotta politica, ad un cambiamento di atteggiamento di fronte alla prassi e ai rapporti politici, non sembra che la nascita dei Monti e dei meccanismi di spartizio-ne dei poteri ad essi conseguenti risolvesse d’improvviso tutte le ambizioni individuali di cui i magnati si erano fatti porta-tori. Ambizioni che al contrario mal sopportavano la rigidità dell’ingranaggio istituzionale. Esemplare di questa insofferenza è la storia dei Salimbeni che ancora durante i primi anni del Quattrocento insistevano a perseguire progetti personalissimi di ascesa utilizzando e piegando a questo scopo artificiosi gio-chi di alleanze con potentati stranieri – ultimo il re Ladislao d’Angiò Durazzo – che li posero in collisione con i governanti e che sfociarono nel clamoroso annientamento del casato negli anni 1418 166.Dimostrando che le scelte di forza e i tentativi di destabilizza-zione del regime non pagavano 167.

Patrimoni e discendenzeQuando il 27 giugno 1385 – a poche settimane dalla rivolta che aveva spazzato via i Riformatori – Pietro di Salomone, virum nobilem et militem egregium, indirizzava la petizione ai Priori del Comune di Siena per ottenere conferma delle prerogative sulla terra di Batignano con ogne sua iurisdictione e territorio, egli divideva prerogative e diritti castrensi con i nipoti, figliu-

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oli dell’ormai defunto misser Spinello: riconfermata in quel-la occasione dalla signoria collettiva cittadina, l’unico argine che veniva posto alla concessione in loro favore era – insieme all’obbligo al pagamento dei censi consueti alla dominante – il divieto di alienazione del castello senza espresso consenso delle autorità e di esazione sulle merci in transito 168.Un sonno di circa vent’anni avvolge a partire da quel momento la fortezza maremmana. Ma mentre i figli di Spinello dirottava-no i loro interessi sul castello della Triana, adagiato sulla valle dell’Albegna, comprato nel 1388 per 850 fiorini d’oro dai con-ti Aldobrandeschi di Santa Fiora 169, il silenzioso valzer delle morti, il gioco delle successioni, la corsa degli eventi dentro il tempo che correva, trasportarono il castello di Batignano nelle mani di due figli di Pietro: Giacomo e Guglielmo. Dove lo ritro-viamo in un giorno di piena estate del 1404.Quel giorno del 25 agosto i due

nobiles viri Jacobus et Guglielmus, fratres et filii olim egre-gii et nobilis militis domini Pieri Salamonis de domo et pro-genie Picolominum de Senis, in presentia magnificorum et potentium dominorum, dominorum Priorum gubernatorum Comunis […], sponte et ex eorum certa scientia et delibera-tione matura, non vi, non metu, vel dolo aut subgestione vel errore inducti […], remiserunt, renuntiaverunt et refutaverunt […] iura et actiones reales et personales, utiles et directas, ta-citas et expressas, persecutorias, medias sive mixtas que et quas dicti Jacobus et Guglielminus […] habent vel habebant […] in et super terra, castro, cassaro, curia, iurisdictione et districtu seu pertinentiis Batignani diocesis Grossetane, quo-cumque modo vel causa.

Obbligati alla cessione – a titolo donationis intervivos a ca-rattere perpetuo e irrevocabile 170 – dalla rivolta degli uomini della comunità che avrebbero ucciso il loro fratello il miles no-vello del 1385 Salomone 171, Giacomo e Guglielmino assistet-

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tero impotenti alla ribellione di Batignano. Che il 21 agosto di quell’anno, proclamando di aver finalmente expulsa seva tirannide quondam domini Salomonis, Jacobi et Guiglielmini quondam domini Pieri Salomonis de domo Piccolominum de Senis qui dictum castrum aliquo tempore violento brachio et ausu temerario detinuerant occupatum, affermò di voler tor-nare sotto la piena giurisdizione cittadina 172. Novanta uomini componenti il Consiglio Generale della comunità, riunito fra le mura del castello, nella chiesa intitolata a San Martino, nomi-narono i loro procuratori per presentarsi di fronte ai governa-tori di Siena, fare atto di sottomissione e giurare loro obbedien-za e fedeltà in perpetuum. Due giorni più tardi i Piccolomini rinunziarono ai loro diritti in favore del Comune cittadino e il 27 agosto un successivo atto, rogato in Concistoro, ratificava il giuramento dei batignanesi, gli accordi fra la loro comunità e Siena, e il divieto fatto aliquis de domo Piccolominum de Senis, et nominatim filii domini Pieri et domini Spinelli Salomonis et eorum descendentes non possint in perpetuum morari vel stare in dicta terra Batignani vel eius curia et districtu 173.Non sono note le dinamiche e le ragioni che portarono ad un dissidio tanto aspro tra la comunità e gli eredi di Pietro. Ma i pochi lampi luminosi che tagliano il cono d’ombra dentro il quale si nasconde la storia del castello e le vicende antecedenti a quell’anno 1404, lasciano poco spazio al dubbio. La formula notarile che trasmette l’epilogo di quel dissidio, smorza a fatica l’eco della rabbia e della violenza divampata nel castello: la ti-rannide nobiliare fa sollevare la protesta contro coloro che agli occhi degli abitanti, illegittimamente e violento brachio hanno occupato aliquo tempore Batignano, sottraendolo al magnifico Comune et Popolo della città di Siena. Domini vessatori e pre-varicatori: uno di loro, forse quello che risiede nel castrum o che più pervicacemente interpreta il suo ruolo signorile, ne farà le spese, vittima colpevole delle proprie ingiurie: Batignano e gli uomini amazorno misser Salamone de Batignano, annota il cronista 174.

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La qualità e la quantità delle rendite derivanti a Pietro e ai suoi figli dal possesso fondiario e dai prelievi, a vario titolo imposti agli abitanti del castello, non sono quantificabili, ma non dove-vano essere di poco momento: perché se le alterne vicende che avevano interessato il castrum – prima acquistato (1336 cir-ca), poi venduto al Comune (1368), poi illecitamente occupato (1369) ed infine concesso, dopo il lodo della pace, alla repub-blica da cui era stato riottenuto (1370 e 1385) – è possibile che abbiano in qualche modo finito per comprimere e avvilire, con quel loro andamento altalenante interfacciato dall’interferenza delle autorità, i privilegi connaturati all’esercizio del dominato castrense, la formula con cui Pietro esplicitava, vendendo, la portata dei suoi diritti su Batignano e poi, la ‘reazione’ quat-trocentesca dei comitatini ad una gestione/pressione signorile giudicata intollerabile, fanno propendere per una valutazione importante dei proventi, originati dal possesso di

totius terre et castri, murorum, fortiliatiarum comitatus for-tie territorii et districtus de Batignano site et siti in contrata Mariptime diocesis Grosseti et cum territorio Grosseti et qua-rundum aliarum terrarum dicte contrate confinantis…cum omnibus pertinentiis suis; dall’esercizio del merum et mix-tum imperium … cum omnibus … iuribus, usibus, privilegiis et immunitatibus, exemptionibus dicto castro debitis vel ad ipsum spectantibus de iure, usu, consuetudine … et omnia bona immobilia, pontes, fontes, vias, domos, terras, iura pa-tronatus, vassallagii, et fidelitates sive fidelitates vassallatica, feuda, census, enphiteosis, iura percipiendi, pedagii, kabelle, tolonea et alias quascumque prestationes …

A cui si aggiungeva quoddam hospitium nella corte di Batignano 175.Con la ‘confisca’ nel 1404 da parte di Siena e della comunità, cui gran parte dei beni erano stati subito ceduti dai governan-ti 176, la via del ripiegamento era stata imboccata.

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Ai disagi e alle difficoltà in cui si era impigliata un’esistenza, forse inaspettatamente impoverita, reagiva trent’anni dopo la perdita di Batignano il vecchio dominus Guglielmino, con una lettera mossa e bella indirizzata ai governatori. Vincendo il pu-dore nel “manifestare le sue fatighe […] e le strette tante che si vergogna de narrarle” ma che per “necessità non può tace-re più”, il figlio di Pietro raccontava di come si era “reducto in contado … né per fare massaritia – che non à el modo a poterla fare – né per diletto, che avendo [egli] desiderio di vi-vere civilmente, el contado è nemico ala volontà sua; ma solo per necessità di non potere stare ala ciptà colla famiglia sua”. Guglielmino raccontava delle sei figlie femmine, la più grande di 13 anni, “l’altre digradano di mano in mano”, raccontava dell’unico maschio e della moglie incinta, “che s’aspetta de dì in dì” l’arrivo della settima; raccontava delle possessioni “arse e guaste per la guerra”, dei grani “guasti che v’erano semina-ti”, della “impotentia del non potere comprare de buovi o fare le prestançe a meççaiuoli”, delle terre “sode” o affittate “ad quarto”; raccontava di tutti sacrifici, “lo vino acquato et altre miserie” che era costretto a sopportare per “governare la sua famigla”: e ciò non basterebbe “s’ale volte non fusse stato facto delli aiuti dale buone persone, le quali sentendo e suoi desagi n’ànno avuto et ànno compassione”, concludeva nel richiedere la cancellazione di alcuni debiti che lo affliggevano e che era impossibilitato a soddisfare, a meno di non andare “mendican-do” 177.Le accorate parole di Guglielmino, anche liberate della scorza che riveste e ingessa di un pathos speciale tutte le suppliche, redatte al fine di ottenere sgravi o agevolazioni governative, risucchiano ogni illusione di antico splendore. Le difficoltà quotidiane e strutturali nella gestione del patrimonio terriero, i danni provocati dalla guerra, le spese ingenti per sostenere una famiglia troppo declinata al femminile, alimentano un clima di sventura e di catastrofe in cui sembra dissolversi quel ran-go, quella ricchezza, quel rispetto che ancora a metà Trecento

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sollevava il padre al di sopra della generalità di gran parte dei cittadini senesi.Il disagio non era momentaneo. A venti anni di distanza, nel 1453, la vedova e le orfane di Guglielmino presentavano agli ufficiali un quadro patrimoniale desolante. Allirate per 450 lire, nella categoria fiscale più bassa della piramide familiare 178, Elisabetta e Giovanna, dopo che le altre sorelle se ne erano andate – alcune per sposarsi altre per farsi monache del muni-stero di Santa Marta – erano rimaste sole a vivere con la ma-dre Costanza. La quale alla preoccupazione del vivare e alle grandissime fatighe del quotidiano, ai debiti per preste vechie col chomuno di Siena, ai legati del marito defunto da onorare, aggiungeva l’ansiosa inquietudine di dover far sposare la figlia maggiore, Giovanna, la quale, in età da non istare più, attende-va, senza poter ancora attendere molto, la pichola dote necessa-ria per finalmente accasarsi. Le due orfane e la vedova vivevano in una casa posseduta a metà con i due figli di Giacomo, fra-tello del padre defunto: una meza chasa descritta con poche e povare massaritie dentro, logge, scale e tetto traballanti; posse-devano terra e case ad Avena, nel cuore delle aspre crete senesi, e un po’ di terra nei pressi di Montepulciano ma le case per i lavoratori minacciavano rovina (stanno pessimamente in modo che volendole acconciare bisognerebe uno denaio mirabile), gli appezzamenti a causa della difficoltà economica in cui le donne versavano (non aviamo né buoi né denari) erano fatti lavorare a quarto ma, quell’anno, per la ghuerra, non erano stati semi-nati; nei magazzini le scorte alimentari – grano, vino e olio – apparivano a una attenta conta appena sufficienti per l’anno in corso, voglia Dio che ci basti, e delle parecchie bestie vaccine che avevano dato in soccida a un abitante di Corsignano le donne non sapevano bene né il numero né le loro condizioni, perché da oltre un anno non ne ricevevano informatione dal comitatino 179.Dunque il disagio manifestato nel 1434 non era momentaneo. E non toccava solo Guglielmino. La sua ‘crisi’ non era l’occa-

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sionale imperizia di un uomo sfortunato o poco attento alla ge-stione delle proprie risorse: i cugini, Pierozzo e Tommaso, eredi e figli dello zio Giacomo e di Ganoccia Malavolti 180, sembrano versare parimenti, in quel 1453, in brutte acque. Il loro impo-nibile stimato 1.775 lire, superiore a quello della vedova e delle figlie di Guglielmino ma ben al di sotto della soglia della ric-chezza, disegna una situazione patrimoniale ugualmente com-promessa, con i tre fanciulli da crescere, uno dei quali a balia, le possessioni di Avena male in ponto, che per non poter prestare a’ mezzaiuoli e perché aviamo caro d’uomini et per non poter conprare buoi si lavora a quarto, una vigna posticcia, lavorata a loro mani; terrenaccio, quello nella villa di Tuoma, senza casa e senza vigna, due poderi sodi per le guerre, un mezzo mulino ferato et ghuasto da’ fiorentini da cui non se ne ricava fructo alcuno 181.I saccheggi e i danni provocati dalle guerre, aggravati dalle ca-lamità naturali che si susseguono a frequenza ravvicinata a par-tire dalla metà del XIV secolo, apportano alla vita delle orfane e dei figli di Giacomo la loro quota di disgrazia. All’aprirsi del XV secolo quelli che essi chiamano ‘cattivi temporali’ mani-festano un’implacabile virulenza: una pestilenza nel 1401, la guerra con Firenze nel 1404, una carestia nel 1408, l’arrivo del re Ladislao di Napoli nel 1409, una nuova carestia nel 1411 se-guita dalla grave mortalità del 1412, dalla pestilenza del 1419 e dal passaggio della compagnia di Braccio di Montone, furono soltanto l’inizio di una serie di catastrofi destinate a influire pesantemente sulle loro vite non meno che sull’assetto demo-grafico ed economico dello stato. Che alle soglie di quel 1453 – anno della rilevazione fiscale – usciva da un quinquennio inaugurato dalla venuta di Alfonso di Aragona, segnato dalla moria del 1448-1450 e conclusosi con la guerra contro Firenze ancora in corso 182. L’eco di questi avvenimenti è vivissima nel-le dichiarazioni compilate dai Piccolomini. Che lamentano la posizione della proprietà ai confini con il nemico – le terre di Tuoma, scrivono le orfane, sonno di pocha valuta per essere a

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confini; l’impossibilità di seminare i campi, et per la ghuerra non vi seminiamo nulla; la charestia degli omini che fuggono dalle possessioni meno produttive; e poi ancora furti di bestia-me, saccheggi del seminato, rovina degli immobili e dei fondi devastati: e tutte le case aviamo dentro nel palazo[di Tuoma] ci sono state arse da fiorentini 183.Chome possiamo vivare nelle ghuerre quando per la pacie vivia-mo con grandissime fatighe?, chiede la vedova di Guglielmino ai governanti elencando le perdite subìte e la difficoltà a supe-rare la grave situazione che sta vivendo 184.Proliferazione della discendenza, passaggi di truppe, razzìe, ca-tastrofi naturali hanno precipitato il valore e la redditività di patrimoni di media entità a dimensioni che hanno il connotato di un residuo; hanno assottigliato dotazioni cospicue a livelli che sono insufficienti a garantire il mantenimento dei fasti del passato: nel caso di Guglielmino e di Giacomo spoliazioni im-provvise di beni, non controbilanciate da attività in grado di ammortizzare le perdite, hanno gettato gli antichi domini castri sull’orlo di quello che, nella prosa accoratamente retorica della scrittura fiscale, appare un collasso patrimoniale.Con qualche necessaria scrematura.La ‘distorsione’ congenita alla natura di scritture prodotte dai contribuenti e destinate a suscitare un atteggiamento di clemen-za da parte del Comune nei confronti dei ‘poveri’ e ‘sventurati’ sudditi, illumina di una luce obliqua i dati resi nelle denunzie fiscali 185. Elisabetta e Giovanna orfane povare di robe e d’aiu-to, hanno fra tanti disagi e stenti, scorte alimentari per un anno e per loro stessa ammissione una importante attività di alle-vamento (parecchie bestie baccine in soccio) a Corsignano 186; Pierozzo e Tommaso fra un grano e l’altro del loro rosario di affanni, incarichi e graveze devono dichiarare di aver investi-to fiorini 90 in sul Monte, di averne messi 115 sul ‘banco di Niccolò Colombini’, di godere dell’usufrutto di un podere nella corte della Torre a Castello in su l’Onbrone, di avere crediti da riscuotere per 1.464 fiorini d’oro: hanno due fanti a loro

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servizio, anche nella loro dispensa c’è vino et grano per proprio logro e, in uno poderuccio che tengono in affitto, quaranta fra pechore et capre e un paio di buoi che servono a lavorarlo 187.Il prestigio familiare del ramo del ricchissimo Salomone di Bartolomeo ha subìto certo un duro colpo rispetto al quadro trecentesco. Ma l’impoverimento di questi lontani discendenti ha valore relativo: la capacità fiscale di Pierozzo e di Tommaso, inscrivibili in ragione di quella nel variegato ‘ceto medio’ ur-bano, ed i redditi e la dotazione patrimoniale, assai più esigui, delle due orfane – che il ruolo d’imposta assimila a quelli dei salariati, dei piccolissimi artigiani cittadini che costituivano lo spettro sociale dei contribuenti collocati in questa categoria 188 –, sembrano comunque tali da porli probabilmente al riparo da quelle situazioni di miseria estrema che, solo in un impennarsi retorico, facevano paventare a Guglielmino e alla sua famiglia l’esser costretti ad andar mendicando… 189. Egli nel suo testa-mento aveva disposto una dote per le figlie da monacare di 200 fiorini ciascuna ed una serie abbastanza lunga – lamen-tava la vedova – di pii lasciti in denari contanti alle povare di Castelvechio, a più persone e a Dio direttamente 190; il fratello Giacomo aveva sposato, nel quadro di un comportamento per-fettamente endogamico, una donna appartenente a un nobile li-gnaggio, ancorché di una nobiltà un po’ più polverosa di quella del secolo precedente: Ganoccia Malavolti, sorella della meno fortunata India, vedova del nobilis miles Salomone e sposa sen-za figli forse per essere troppo presto entrata nello stato vedo-vile, la cui eredità era destinata a passare proprio nelle mani della moglie di Giacomo, e poi in godimento ai loro figli maschi … 191. Verità volutamente elusa… o velatamente espressa. Nel 1453 i figli di Guglielmino e di Giacomo sono dunque, a uno sguardo più attento a penetrare tra le pieghe di quella articola-ta verità, i discendenti (almeno quelli conosciuti) più impoveriti e meno fortunati del ramo di Salomone: impoveriti e sfortuna-ti in modo diverso. La morte di Guglielmino dovette rappre-sentare per le figlie e la moglie un duro colpo, contribuendo

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ad affossare un livello di vita non alto: il padre rappresentava l’unica garanzia di integrazione delle scarse o inesistenti ren-dite derivanti da possessioni guaste e sode attraverso i cespiti derivanti dall’assunzione di uffici pubblici e cariche di governo del territorio: quegli offitia Comunis che infatti i governanti, non obstantibus quibuscumque in contrarium disponentibus, decisero bene di concedere a Guglielmino in quello sventurato anno 1434 192.Il peggioramento delle condizioni di vita delle due orfane, così come dei cugini Pierozzo e Tommaso, assumendo come metro di paragone la generazione dei loro nonni resta un fatto ben vi-sibile ed esente da dubbi. E segna profondo non solo il distacco tra una classe magnatizia – generalmente impoverita rispetto alla situazione di primo Trecento – e molte famiglie novesche, subentrate poco a poco al suo posto nel vertice della piramide patrimoniale e fiscale cittadina, ma evidenzia anche, all’interno di quella compagine, l’intercapedine esistente tra magnati che – pur nel quadro di una ‘caduta verticale e generalizzata’ del loro ceto – appaiono ancora detentori di patrimoni cospicui e rendite fondiarie, finanziarie o di altro tipo di tutto rispetto, e una frangia più esterna ed estrema colpita in modo durissimo dalla congiuntura, e fors’anche da vicende personali, nelle sue tradizionali fonti di sussistenza. Come Guglielmino di Pietro e i suoi nipoti.Al di là di quell’intercapedine, più felice appariva la sorte de-gli eredi del miles ribelle Spinello, le cui proprietà non erano state ‘alleggerite’, a differenza di quanto era capitato ai figli di Pietro, dall’azione erosiva e congiunta di comitatini rivoltosi e governanti. Salamone, figlio del Niccolò acquirente del castello della Triana nel 1388, titolare di un ruolo di imposta di 6.000 lire, nel 1453 si presenta al fisco come componente dell’alta borghesia cittadina, universo lussuosamente arredato da mem-bri degli antichi casati e da gruppi familiari ascesi a più re-centi fortune 193. Ancora proprietario dei tre quarti del castello nelle parti di Montamiata, di due poderucci a Montefollonico,

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appezzamenti sciolti di sodo e vignato nei vicini centri di Monticchiello, Rocca a Tentennano, Petroio, San Quirico d’Or-cia 194, Salomone unisce ai consistenti fondi rustici, oltre alla casa della propria abitazione nel ‘terzo’ di San Martino, una proprietà immobiliare urbana formata da quattro botteghe, due ciglieri nel chiasso di San Martino dalla cui locazione ri-cava una rendita 195. Ma gli elenchi dei beni immobili rivelano soprattutto scorte importanti di grano e vettovaglie – 60 moggi fra Corsignano e Montefollonico – e una fiorente attività di allevamento: dugiento pecore e trenta bestie baccine date in soccio a più persone. Salomone è legato anima e corpo alla terra, l’agricoltura e l’allevamento costituiscono per lui – come per il consorte Spinello, ancorché meno agiato, che detiene la rimanente quota parte della Triana 196 –, il cuore della sua ric-chezza. E nel contado e negli interessi ad esso agganciati la sua fortuna resiste.

Fra XIV e XV secolo la città mercantile va spostando il suo centro di gravità verso la terra. Congiunture esterne ma an-che sviluppi interni spingono e premono in quella direzione. Siena ha rafforzato la sua sovranità sul territorio. Ha ricon-dotto pericolosi dominati magnatizi e decine di comunità che si sono ribellate sotto la sua giurisdizione, contemporanea-mente dilatando i suoi confini in ogni dove, verso sud, sud-est, e a occidente verso il volterrano e il dominio degli Elci. Ha impresso una maggior organicità alla struttura burocratica e amministrativa periferica, ponendo al centro della sua azio-ne politico-economica la campagna: quella campagna dove un forte calo della popolazione, prezzo imposto dalle carestie prima e dalle epidemie poi, ha provocato una redistribuzione dell’habitat 197.La città non fa mistero della volontà di promuovere le attività agricole. Il favore accordato ai proprietari cittadini nel serrato dialogo che essi intrattengono con i lavoratori delle loro terre, dopo che la grande peste ha reso improvvisamente preziosa la

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mano d’opera; l’azione di ripopolamento delle aree più colpite dalla mortalità demografica e la trasformazione in pascolo di quelle maremmane – che con la creazione della Dogana si cerca di far fruttare al meglio – sono sotto gli occhi di tutti. La mez-zadria ricopre il paesaggio, per circa un terzo. L’allevamento transumante va a fare del ‘vuoto’, una fonte di imprevedibile guadagno 198.Le caratteristiche del territorio e della politica governativa aprono dunque ai cittadini prospettive ‘certe’ di investimento: la città promette di fare della campagna “la principale fonte di ricchezza per lo stato e per i singoli” 199, i cittadini ci credono e in campagna indirizzano i loro capitali 200.Nel diffuso declino delle attività mercantili e finanziarie che contrassegna il quadro familiare del secondo Trecento, il vol-gersi di Salomone di Bartolomeo, e poi dei suoi eredi, Pietro, Spinello, e infine degli eredi di questi, Guglielmino, Giacomo, e Spinello e Salomone, verso la terra e il godimento delle proprie rendite patrimoniali, a svantaggio di altre forme di azione e investimento, rientrava dunque in un comportamento ‘pilotato’ e diffuso 201. Figli di una civiltà mercantile al suo tramonto – la banca internazionale che aveva fatto la ricchezza del loro lontano avo, Bartolomeo di Ugone, era scomparsa per cedere il posto a forme nuove e nuovi protagonisti del credito e del mercato finanziario 202 – essi accentuarono la tendenza, già in atto in realtà dalla fine del XIII secolo, ad indirizzare le proprie energie nel contado, dove i poderi, pensarono, potevano frut-tare molto e dove i castelli potevano diventare preziose pedine nello scacchiere di una politica cittadina sempre più violenta e incandescente, legata com’era a poderose forze esterne.Nella grande ricchezza di notizie che, grazie ai dati della Lira, illumina la vita dei Piccolomini a metà Quattrocento, la scelta degli eredi di Salomone di Bartolomeo è un rivolo che si perde fra i rivoli di un mare che porta in superficie la straordinaria preponderanza esercitata dalla proprietà fondiaria nel com-puto della ricchezza familiare 203. Fra tutte le immagini di una

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famiglia che appare, alla lente fiscale, quasi totalmente ‘ruraliz-zata’ nei suoi cespiti di entrata, brilla l’immagine del più ricco dei Piccolomini allirati nel 1453: Pietro di Bartolomeo, solido proprietario fondiario e dominus castri, prevalentemente ric-co di mulini, possessioni e bestie, che con il suo imponibile di 12.825 lire arrivava a toccare le vette della piramide patrimo-niale urbana 204. Terra, terra e ancora terra. Ma non sempre la terra porta ricchezza.La strategia fondiaria perseguita con tanta decisione dagli uo-mini del casato, doveva rivelarsi, al contrario, per qualcuno densa di rischi e foriera di crisi. Laddove la qualità dei fondi rustici, la scarsezza di capitale rendono impossibile un proget-to imprenditoriale, uno sfruttamento razionale del possesso o anche solo forme di speculazione, laddove attività integrative insufficienti o inesistenti, non vanno ad ammortizzare perdi-te sempre più frequenti, indotte da cicli congiunturali negativi sempre più frequenti, si spalanca la prospettiva del tracollo. E’ terreni si lavorano a quarto per non avere denari per buoi e per prestare a mezaiuoli 205: benché tormentati da un cari-co sempre maggiore delle spese di gestione di un patrimonio fondiario su cui è necessario trattenere lavoratori e mezzadri a suon di prestanze 206, benchè esasperati da un andamento ne-gativo della rendita – non aviamo fructo – perché Guglielmino, Tommaso e Pierozzo, icone casuali della folla meno fortunata di rentiers che popola la città tardo medievale, non invertirono quella tendenza che verso una terra non più capace di dispen-sare sufficienti frutti, li tracimava? Perché non provarono ad uscire da un circuito economico che, coinvolgendo lo stato ed i singoli, dalla terra partiva e alla terra tornava con esiti, per loro, fallimentari? 207.Guglielmino cercò risposta ai suoi problemi nelle reti della so-lidarietà privata – li aiuti delle buone persone le quali sentendo e suoi desagi n’anno compassione – e in quelle dell’assistenzia-lismo pubblico, disponibile a dispensare sgravi fiscali e uffici statali, anche derogando alle norme 208: ma queste soluzioni

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non avevano e non potevano avere il respiro di una alternativa. Erano piuttosto l’effimero tamponamento al precipitare di una situazione ormai precipitata.La terra continuava a rimanere il centro del suo e del loro mon-do: verso la terra questi uomini continuavano ad indirizzare, anche quando furono finiti i capitali, le energie disponibili (la vigna facciamo a nostre mani dichiaravano i figli di Giacomo) e soprattutto le loro speranze: nell’attesa che ‘l tempo s’accon-ciasse altrimenti 209. Se l’incerto sviluppo di una industria ma-nifatturiera cittadina, se l’incapacità del Comune di fare del credito pubblico una prospettiva allettante e credibile di inve-stimento, contribuirono probabilmente a circoscrivere aspira-zioni e attività verso la campagna, ciò fu dovuto anche a una forte spinta ideale 210: nella limpida cristallizzazione dell’idea, quell’agricoltura praticata da Tommaso e Pierozzo con le pro-prie mani, con grande fatica de la persona et dell’animo et grande spesa, era e continuava ad essere per i governanti e i loro cittadini la migliore arte che fu 211, e il contado pur nelle tormentate vicende che lo squassavano era ancora, agli occhi degli uomini del Quattrocento, quel luogo del diletto e del fare massaritia che riverberava luminoso nella memoria e nella fede di Guglielmino: nonostante lui fosse stato costretto a ridurvisi per non potere stare ala ciptà … co’ la famiglia sua 212.

1 Il testamento fu rogato il 28 giugno 1340, a Siena, “in domo dicti Salamonis testatoris, coram fratre Bernardo de Castiglioni Aretino, ordinis fratrum predicatorum, fratre Donato de Aretio eiusdem ordinis, fratre Johanne Minii, de Montalcino, et fratre Johanne de Montelatrone de ordine fratrum minorum”. Diplomatico Ricci, 1340 giugno 28. Nell’ottobre di quell’anno Salomone era morto (vedi nota 3). Poiché in un atto del 5 gennaio 1324, Salomone del fu Bartolomeo, erede del defunto Guglielmino, era definito, nell’atto di vendere assistito da alcuni consorti certi diritti di credito, ‘mino-re di anni 25 e maggiore di anni 14’ (Diplomatico Ricci, 1323 gennaio 5), ciò significa che quando la morte sopravviene nel 1340, egli aveva un’età compresa fra i 31 e i 40 anni.

2 L’atto di vendita in Diplomatico Martinozzi, 1334 luglio 30 - agosto 1.3 Diplomatico Bichi, vol. 16, n. 212 (1340 ottobre 25).

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4 Salomone fissò a 25 anni, l’età in cui i figli, e i loro discendenti, avrebbero potuto, una volta che almeno tre di loro avessero raggiunto quel termine, “aliquam possessionem vel rem immobilem vendere seu aliquo modo alie-nare”. Diplomatico Ricci, 1340 giugno 28.

5 Diplomatico S. Eugenio, 1314 giugno 21.6 Guglielmo quando muore era già sposato e già da poco rimasto vedovo

di Francesca di Benuccio Salimbeni. Aveva istituito suoi eredi i tre fratelli. L’atto datato 1349 gennaio 9, è contenuto in Diplomatico Bichi, vol. 16, n. 212.

7 Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, 1931-1939, pp. 569-685; per gli avvenimenti citati pp. 577-578.

8 Sulle richieste giunte dai cittadini di una modifica costituzionale e di un allargamento del priorato, vedi la vicenda di Cione di Alamanno, retro p. 289, nota 173.

9 Bowsky, Un comune italiano, p. 106.10 Cherubini, I mercanti e il potere, 1987, pp. 163-221: 187-188.11 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 578.12 Consiglio Generale 131, cc. 64v-65v; cfr. Bowsky, The Impact of the Black

Death, p. 33.13 Bowsky, Le finanze del comune, 1976, p. 367.14 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 577.15 Consiglio Generale 142, c. 6r-v (1348 gennaio 22); su Carlo IV, cfr. Rossi,

Carlo IV di Lussemburgo, 1930.16 Esprimendo in questi termini la decisione di aderire all’arrivo dell’imperato-

re e porsi sotto la sua tutela: “cum intersit cesaree maiestatis in pace regere ac protegere universum fovendo virtutes et vitia vindicando, iuste quidem comune Senarum ardenti desiderio semper excolens mores pacis, orrens fe-ros guerrarum turbines Tuscia irruentes, ad protectione maiestatis predictae refugit et recurrit …”: Consiglio Generale 152, c. 4r (1353 febbraio 9).

17 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 546-547.18 Vedi anche il resoconto in Cronaca senese di autore anonimo, in Cronache

senesi, pp. 41-172: 149-150.19 Non c’è concordanza di opinioni sul numero di questa commissione scelta

il giorno stesso della rivolta da Carlo IV: secondo Donato di Neri, sarebbe stata composta di “12 cittadini de’ grandi e 18 popolari minuti de la città di Siena” con il compito di “riformare la città in buono stato e a buoni cittadini a regimento escetto che non vi fussero nessuno de’ regimento de’ Nove, né loro figliuoli” (Cronaca senese di Donato di Neri, p. 578); secondo un altro cronista invece l’imperatore “chiamò XX uomini e’ megliori della città che avesero a riformare la terra per quello modo che lo’ pareva, e che veruno di quegli che fuseno stati de’ Nove non posino avere ufizio in cho-muno né loro, né ancho e loro figliuoli, né di loro giente” (Cronaca senese di autore anonimo, p. 150). In realtà quando la commissione presenta al Consiglio Generale la sua proposta essa si dice composta da venti cittadini (“nobiles, strenuos et prudentes viginti consiliarios reformationum civitatis

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et comituatus Senarum”). Per Malavolti essa sarebbe stata composta da 8 nobili e 12 popolari. Malavolti, Dell’Historia di Siena, 1599, p. 112.

20 Le notizie sono tratte dalla Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 578-579. Una ricostruzione degli avvenimenti di questo periodo nell’introduzione di Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti politici del comune di Siena dal 1354 al 1369, 1906, pp. xxix-lxxxvii.

21 “Quelli cittadini che furo eletti a riformare al città e reggimento di Siena, furo levati via; e gentiliomini per lo soperchio volere furo levati d’esso col-legio, che erano in palazo; e così di volontà di Giovanni d’Agnolino e d’altri gentiliomini fu stabilito che li sopradetti 18 popolari fusse rimesso piena-mente la signoria de la città e del contado di Siena […]”. Cronaca senese di Donato di Neri, p. 579.

22 Ai figli di Agnolino viene confermata la trasmissibilità dei feudi di Tintinnano, della Ripa d’Orcia, di Bagno Vignoni e di Montenero dove il magnate gode dell’esercizio del “merum et mixtum imperium”. Sul ruolo del Salimbeni Carniani, I Salimbeni, pp. 213 sgg. Secondo le cronache Carlo IV di ritorno da Roma avrebbe fatto a Siena “circa 60 cavalieri cittadini de’ nobili di Siena e popolari. Ed erano presi i cittadini di peso ed erano portati dal popolo a lo’nperadore ch’ei facesse cavaliere alcuni contra sua voglia” (Cronaca senese di Donato di Neri, p. 579). Vedi anche Rossi, Carlo IV di Lussemburgo e la Repubblica di Siena (1355-1369), in “BSSP”, XXXVII (1930), pp. 5-40, 179-242; per gli avvenimenti citati p. 24.

23 Così in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. xxx sgg.24 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 581; Luchaire, Documenti per la

storia dei rivolgimenti, p. xl; Carniani, I Salimbeni, p. 222.25 “Dominus Petrus domini Salamonis de Piccolominibus unus ex dictis

XX consiliariis, surgens in dicto consilio […] dixit […] quod dicta civitas Senarum reformetur per dictum consilium viginti de Popularibus civibus dicte civitatis eligendis ad scruptineum et partitum per dictum consilium viginti […] quod regimen et oficium sit, vocetur et nuncupetur oficium Duodecim gubernatorum et administratorum rei publice civitatis Senarum […]”. Sull’istituzione del collegio: “et quod etiam reformetur dicta civitas Senarum de Nobilibus et magnatibus de stirpibus et casatis et similiter de-beant scruptinari et optinentes per duas partes sint electi et approbati ad ofitium quod sit et appelletur Collegium, quod Collegium una cum ofitio Duodecim administratorum debeat convenire pro negotiis disponendis et ordinandis in comuni Senarum; et quod ofitium XII administratorum sine dicto Collegio aut duabus partibus dicti Collegii nicchil possint disponere vel ordinare […]”. Statuti 31, c. 26r (31 marzo 1355), edita da Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 1-3.

26 Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 3-4.27 Il 19 aprile Pietro di Salomone presentò la proposta di annullare tutti i

privilegi goduti dai Nove; il giorno seguente Biagio di Granello Tolomei, facente parte della stessa commissione chiese che si desse facoltà ai Dodici di scegliere e nominare “quot numptios et domesticos familiares voluerint,

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et vigintiquinque famulos armigeros ad custodiam et servita [eorum]”. Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 4-5.

28 Consiglio Generale 155, c. 11v (22 aprile 1355).29 Per comprendere la fisionomia del gruppo popolare protagonista degli av-

venimenti del 1355 che dette poi vita alla magistratura dei Dodici si rive-lano essenziali, Moscadelli, Apparato burocratico e finanze del Comune di Siena sotto i Dodici (1355-1368), 1982, pp. 29-118; Idem, Oligarchie e Monti, 1995, pp. 267-278: 267-273; Wainwright, Conflict and popular government in fourteenth century Siena: il Monte dei Dodici, 1355-1368, 1983, pp. 57-79. Per una rapida ma efficace sintesi degli effetti devastanti della peste Piccinni, Siena e la peste del 1348, 1995, pp. 225-238.

30 Consiglio Generale 155, cc. 16v-17v (9 giugno 1355).31 Cfr. la ricostruzione in Cronaca senese di Donato di Neri, p. 581; Carniani,

I Salimbeni, pp. 219-221; Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgi-menti, pp. xl-xli.

32 “Benefitia salutaria et felicia que rei publice civitatis Senarum ex immensa prudentia et virtute Nobilium et magnatum dicte civitatis innumera et inex-timabilis commodi processerunt et precipue quod dicti Nobiles, nequaquam ambitiosi vel cupidi inanis glorie seu pompe, sed ferventes et avidi status pa-cifici populi et comunis Senarum, hiis diebus pro exaltatione et augumento ofitii et honoris dominorum Duodecim gubernatorum et administratorum rei publice supradicte, et pro statu pacifico et securo dicte civitatis, mira voluntate acque concordia se ofitio collegii exuerunt, profecto merentur, immo debite alliciunt et conpellunt senensem populum ad affectionem prontissimam perpensi amoris ad nobiles antedictos, et in comunicandis eisdem honoribus ofitiis et commodis vices gratitudini debite repensare, non solum animo sed effectu, hinc est quod magnificum et laudabile ofitium dominorum Duodecim predictorum, previa dispositione consilii compagna-rum elegit quosdam prudentes viros cives senenses ut super honorandis et gratificandis dictis nobilibus et super comunicandis eisdem ofitiis honoribus et commodis ut ipsi nobiles perfecta concordia et indissolubili unione cum dicto populo animis et viribus perseverent, provisiones edentur, quas magis decentes cognoscerent et discretas: qui prudentes ad hec posita cura et dato sollicito studio infrascriptas provisiones […]”. Statuti 32, c. 29r (edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, p. 15) [mio il corsi-vo].

33 In particolare i provvedimenti decisi deliberavano che 1) da quel momento in avanti tre “de dictis Nobilibus”, scelti dai Dodici uno per terzo ogni due mesi, avrebbero costituito l’ufficio dei “defensores status pacifici comunis Senarum”; gli eletti avrebbero avuto una vacazione da quell’ufficio per un anno, i loro consorti e le loro casate per il tempo di un mandato. 2) A nobili e Dodici spettava l’elezione dei Provveditori della Biccherna e degli Esecutori di Gabella: insieme dovevano scegliere tre nobili e tre popolari del terzo di Città, e due nobili e un popolare per gli altri due terzi: i dodici nomi così ottenuti sarebbero stati sottoposti al voto consiliare e i quattro

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più votati sarebbero stati eletti; essi terminato il loro mandato avrebbero ricevuto una vacazione di due anni dalla carica ricoperta e di un anno da ogni altro ufficio; le loro casate, i figli e i consorti non avrebbero potuto ricoprire la carica occupata dal loro congiunto prima di sei mesi (termine di durata di un mandato). 3) Provveditori, esecutori e difensori andavano a far parte del vertice delle magistrature del comune, i cosiddetti Ordini della Città. 4) A loro e ai Duodecim era demandata l’elezione per ogni carica di podestà e capitano nelle terre del contado di tre nobili, i cui nomi dovevano essere votati in Consiglio Generale e chi tra questi avesse ottenuto più con-sensi doveva considerarsi eletto alla podesteria o al capitanato: terminato il loro ufficio avrebbero ricevuto una vacazione di un anno e i loro casati di sei mesi. 5) Infine, ogni tre mesi, Dodici e Ordini avrebbero eletto nove cittadini, tre per ogni terzo di cui due nobili e un popolare, da destinare alla carica di ufficiali della mostra del Comune di Siena; il Consiglio Generale doveva esprimere la propria preferenza sui due nobili e il popolare da eleg-gersi per tale carica: Statuti 32, cc. 29r-30v; edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 15-17.

34 Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. xl-xlv; Wainwright, Conflict and popular government, pp. 60-65. Vedi anche Carniani, I Salimbeni, 1995, pp. 213-236.

35 Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, 1982, pp. 29-118: 51.36 “Ita quia necessarium probatur rei publice viros actos regiminibus eligere, et

experientia fidem facit indubiam quod viri nobiles ad regimina sunt tum na-tura tum prudentia et moribus ad regimina actiores, providerunt quod elec-tio potestatum capitaneorum ordinum terrarum singularum comitatus, di-strictus vel iurisdictionis Senarum ad quas pertineret comuni Senarum vel in posterum pertinebit destinare vel eligere potestatem vel capitaneum ex pacto et forma statutorum fiat hoc modo, videlicet quod per dominos Duodecim et Ordines civitatis eligantur pro quolibet ofitio potestarie vel capitanatus tres nobiles de casato cives senenses, qui scruptinentur ad lupinos albos et nigros in generali consilio campane […] et qui habuit in dicto scruptineo plures lupinos albos sit potestas vel capitaneus predictus et vacet a dicto ofitio uno anno et eius domus et consortes sex mensibus”. Statuti 32, c. 30, edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, 1906, p. 17.

37 Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, p. 51.38 Tra i provvedimenti presi il 9 giugno 1355 il primo si riferisce alla nomina

e ai poteri del capitano del Popolo da scegliersi non più fra stranieri ma fra cittadini senesi (Statuti 33, c. 1r; edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 7-8). Eletto dai Dodici ogni sei mesi secondo un criterio di turnazione fra i tre terzi cittadini, accompagnato da “tribus consiliariis etiam popularibus”, il “capitaneus populi et gonfalonerius justitie” quale si configura attraverso la riforma del 9 giugno – poi ampliata da alcune prov-visioni nel mese di agosto – è una magistratura dai connotati assolutamente diversi dagli anni precedenti. Non più strumento di governo sottoposto di-rettamente al volere dei priori, come sotto i Nove, adesso il magistrato entra

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a pieno diritto a far parte del Concistoro avvantaggiato rispetto ai Dodici dal fatto che mentri essi dispongono di un mandato bimestrale, egli viene rinnovato ogni sei mesi; Luchaire lo definisce “presidente del consiglio” a evidenziare quasi la sua supremazia nell’esecutivo (Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, p. xlv), Moscadelli lo chiama “ministro dell’ordine pubblico” (Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, pp. 53-54) per dire come quest’ufficiale rappresentasse una specie di braccio forte del governo collegandosi i suoi compiti alla tutela della sicurezza e della pace in città [le deliberazioni riguardanti la carica del Capitano del Popolo in Statuti 33, c. 1 (9 giugno 1355), 9r-15v (7 agosto 1355), edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, 1906, pp. 7-9, 27-34; le aggiunte del 7 agosto riguardavano le norme di elezione, di vacazione, e i problemi di tutela dell’ufficiale]: Sulla figura del Capitano e le innovazioni rispetto al periodo novesco Catoni, I ‘Regolatori’ e la giurisdizione con-tabile della Repubblica di Siena, 1975, pp. 46-70: 49]. Contemporanea a questa un’altra deliberazione votata il giorno 9 andò a precisare le funzioni delle compagnie militari cittadine in caso di disordini: Statuti 33, cc. 3r-8v; ed. Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 10-15.

39 La realizzazione del nuovo regime passò attraverso altri atti importanti, successivi a questa prima fase, che è necessario richiamare per comprendere la fisionomia del governo dodicino. Il primo di questi provvedimenti risale al dicembre 1355, e al novembre 1356 si inserì nell’ottica di dare maggiore legittimazione al vertice, cercando appoggio nel mondo delle arti. Tutti gli artigiani e i commercianti si dovevano iscrivere alle Dodici Capitudini delle Arti i cui priori avrebbero formato un collegio detto appunto dei Dodici Priori delle Arti. Questi che sarebbero stati i consiglieri del Capitano del Popolo, egli stesso iscritto ad una delle Arti e “principalis Prior omnium Priorum”, godevano del diritto di partecipare al Consiglio Generale e alle riunioni dei Dodici; in seguito una riforma previde la possibilità per i mem-bri delle dodici Arti di entrare a far parte degli eleggibili alla carica dei Dodici. Un secondo provvedimento risalente probabilmente ai primi mesi del 1357 sancì la nascita di un organismo inedito, detto il Consiglio dei Somiglianti di cui entrarono a far parte di diritto tutti i riseduti all’ufficio dei Dodici, rappresentando una sorta di “partito” dodicino che diventa però istituzione della repubblica. Giustamente ne è stata sottolineata l’impor-tanza nel rappresentare uno strumento di continuità che mancava ad uno stato il cui vertice politico era rinnovato ogni due mesi. Sui mutamenti le-gati alle trasformazioni dell’apparato di governo compresa l’istituzione di nuove magistrature Catoni, I ‘Regolatori’, 1975; Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, 1982. Sulla riforma delle arti, Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. xlvii-l.

40 Consiglio Generale 155, c. 17v (seduta “pro amotio collegii nobilium et magnatum”).

41 Citazioni tratte dall’atto dell’11 giugno 1355, Statuti 32, c. 29r, edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, p. 15.

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42 Bowsky, Un comune italiano, pp. 94, 105, 112, 241, 242, 364, 404; Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, pp. 41-42; Lisini, Notizie genealogiche, 1898, pp. 81-82.

43 Pietro di Salomone il vecchio il 5 gennaio 1324 presenziava all’atto, dando il suo consenso, con cui il padre dell’altro Pietro (non ancora nato), Salomone di Bartolomeo, alla data minore di 25 anni e maggiore di 14, erede univer-sale di Guglielmino di Guglielmo, vendeva ad Antonio di Meo Tolomei al prezzo di 300 lire certi diritti di credito contro alcuni comitatini di Chiusure (Diplomatico Ricci, 1323 gennaio 5). Era comparso per la prima volta al-cuni anni prima, nel marzo 1320, tra i consanguinei che approvavano la vendita di Niccolò di Salomone Piccolomini di certi diritti di credito al congiunto Guglielmino Piccolomini (Diplomatico Archivio Generale, 1319 marzo 11). Ebbe per fratelli Andrea ed Ambrogio, che affianca nella lite che li oppone insieme ad Andrea di Francesco, alle cugine Tessa e Vanna di Conte Piccolomini [Diplomatico Bichi, vol. 14, n. 6 (1324 ottobre 13)]. Nel 1334, Pietro prendeva in affitto da Minuccio di Cione Piccolomini una bottega posta nel Campo (Diplomatico Bigazzi, 1334 aprile 9). È già morto nel 1363 quando i figli Andrea quondam domini Petri e la nipote Ceccha, filia quondam Tomassi quondam dicti domini Petri, entrambi maggiori di 25 anni, vendono al consorte Enea di Corrado un casa a Corsignano per 100 fiorini d’oro (Diplomatico del Carmine I, 19, 1363 dicembre 14).

44 Ricordo che l’atto di acquisto di quel castello, in copia, è in Copie cavate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico di Casa Piccolomini, cc. 146r e 149r, citato retro, p. 312.

45 Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Provveditori, 1725 [ms.], c. 97.46 Il 18 dicembre 1341 di fronte alla proposta di aumentare i poteri del

Capitano di guerra a cui doveva essere data licenza di agire e reprimere non soltanto le violenze commesse “inter magnates et potentes ex una parte et populares ex altera” ma anche quelle “inter magnates et magnates”, Pietro appoggiò risolutamente la proposta coalizzando un consenso di 247 voti contro 37 [Consiglio Generale 129, cc. 57r-60r (18 dicembre 1341)]; alcuni anni dopo quando nella stessa sede si profilò la possibilità di un allargamen-to della base degli eleggibili al priorato su richiesta di tal Niccolò di Grifo – tema a cui l’oligarchia aveva sempre mostrato di voler rimanere sorda – il figlio di Salomone si schierò contro il tentativo di una modificazione del ri-gido sistema elettorale dei Nove, e il voto gli dette ragione nonostante l’area del dissenso fosse questa volta abbastanza corposa (134-93): Concistoro 2, cc. 12r-13v.

47 Nel giugno 1349 – probabilmente in conseguenza del clima di insicurez-za derivante dagli effetti destabilizzanti dell’epidemia – il podestà richiese all’assise cittadina di votare sulla riduzione dei membri dei casati all’interno delle liste da cui erano tratti i consoli dell’arte di Mercanzia, magistratura costituente uno degli Ordini della città: fino a quel momento quegli ufficiali erano votati dal Consiglio Generale sulla base di un elenco di 12 candidati (6 di un terzo e 3 per ciascuno degli altri due) al cui interno entravano di

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diritto almeno 4 magnati: adesso la mozione prevedeva che tale presenza fosse ridotta da 4 a 1. Pietro di Salomone espresse e motivò il suo parere favorevole e la proposta fu approvata con il margine notevole di 170 contro 30: Consiglio Generale 144, cc. 46v-47v (16 giugno 1349).

48 Il 19 ottobre 1351 Pietro fece parte insieme a Giovanni di Agnolino Salimbeni ed alcuni noveschi della commissione incaricata di rispondere a Giovanni Visconti che voleva sincerarsi dei propositi di Siena (Concistoro 3, c. 64r); alcuni giorni prima – 12 ottobre – aveva ricevuto l’incarico di rispondere a Firenze che chiedeva quale fosse l’atteggiamento di Siena nei confronti della possibile venuta dell’imperatore; in questa occasione erano affiancati al Piccolomini un Montanini e un Foscherani (Consiglio Generale 150, c. 27r-v).

49 Citata supra, Statuti 31, c. 26 (1355 marzo 31), edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, p. 1.

50 Vedi supra, nota 14.51 Sulla crisi del sistema novesco, le risultanze e i motivi cfr. gli accenni in

Cammarosano, Le campagne senesi, 1979, pp. 221-222; Isaacs, Fisco e politica, 1973, pp. 42-43; Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, 1982, p. 56.

52 Vedi Carniani, I Salimbeni, pp. 223 sgg.53 Il matrimonio documentato in Diplomatico Bichi, vol. 16, n. 212.54 Diplomatico Opera Metropolitana, 1390 settembre 17 (si tratta del testa-

mento di Bartolomea, nel quale istituisce i cinque figli maschi suoi eredi: a quella data dei cinque, soltanto Salamone è indicato con il titolo di mili-tem).

55 Diplomatico Archivio Generale, 1347 ottobre 13 (testamento di Meuccio); il testamento di Salomone in Diplomatico Ricci, 1340 giugno 28 (“in primis iudicavit, voluit et mandavit corpus suum sepelliendum apud ecclesiam et locum beati Francisci et fratrum minorum de Senis”).

56 Concistoro 6, c. 5v-6r (1355 febbraio 6): attestato come “nobilem militem dominum Petrum Salamonis ambaziatorem transmissum …”.

57 È dal testamento, rogato il 26 giugno 1358 “in domo habitationis Lani Nicholai Lani de Maconibus”, che si risale al suo matrimonio con don-na Vangelista di Cino da cui erano nati Francesco, Salomone, Niccolò, Bartolomeo, Caterina e Tofana (Notarile 79, cc. 221v-224v). Nel 1359 Spinello vendeva la metà “pro indiviso unius platee et orti” nel popolo di San Cristoforo a Giovanni carnaiolo per il prezzo di 48 lire (Notarile 80, c. 78v-79r); un anno dopo riceveva dal fratello Tommaso la terza parte “pro indiviso” di certe case “cum platea ante dictas domos in castro de Corsignano”, e la terza parte di altre due case, nello stesso luogo (apparte-nuta al defunto fratello Guglielmo) (Notarile 75 c. 161).

58 Concistoro 2401, cc. 101v, 108r, 115v, 130v, 132r.59 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 581-582.60 “In Siena fu uno grande sospetto, unde la città alquanto romorò perché

si disse (e fu una arte) come Giovanni d’Agnolino Bottoni de’ Salimbeni

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con certi altri grandi e de’ Nove faceano uno trattato di disponare e l’uf-fizio de’ Dodici, e’l conservadore misser Lodovico tenea al detto trattato: e questo fu rivelato per misser Antimo cavaliere di San Giovanni friere di Monticchieello. O che fusse a arte o altrimenti, seguì che e’ signori Dodici déro arbitrio al podestà di Siena, e’l detto podestà fé pigliare Nicolò di Mignanello Mignanelli e Tavenozo d’Ugo di Tone Cinughi e Renaldo del Peccia e Bartolo di Buoristoro, e più altri e molti altri grandi e de’ Nove […]”. Cronaca senese di Donato di Neri, p. 597.

61 Nel 1359 fu scoperta un’altra cospirazione (Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 581-582); nel 1361 “fu grande sospetto e […] fecesi molte guardie di dì e di notte ale porti e a la città” (Cronaca senese di Donato di Neri, p. 594).

62 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 597.63 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 597-598.64 È abbastanza significativo del clima di timore e di sospetto che i Dodici

mantennero nei confronti dei grandi una norma di chiara ascendenza an-timagnatizia in vigore sotto il governo novesco che essi emblematicamen-te ripresero e che faceva divieto in caso di tumulto ai popolari di recarsi presso le abitazioni dei nobili sotto pena di 500 lire (Statuti 33, c. 3r; edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, p. 19). Tuttavia la politica di “irreggimentazione” a cui i Dodici sottoposero la cittadinanza” (la definizione è di Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, p. 52) non dovette bastare a eliminare i pericoli e gli attentati contro il governo se esso fece ricorso ad un certo punto anche all’arma della delazione, pro-spettando compensi assai generosi a nobili e popolari che avessero svelato una congiura consentendo di catturare i colpevoli. È del 18 dicembre 1364 la seguente delibera: “Se alcuno rivelerà alcuno tractato, giura, cospiratione o secta la quale si facesse, ragionasse o attentasse di are per subversione o guastamento del popolare stato de la città di Siena o dell’ufficio de’ Signori Dodici o Capitano di Popolo d’essa città presenti o che saranno, per lo quale rivelare seguitasse condempnagione o punitione d’alcuni cittadini o contadini di Siena nela persona abbi quello che tale tractato rivelerà, dela moneta del Comune di Siena cinquecento fiorini d’oro […], et tucti e beni di quelli tali che per essa cagione condampnati saranno, assegnare dare et con-cedere interamente et con effecto a colui che tale tractato rivelerà […]. Et se quelli che […] rivelarà alcuno tractato del quale di sopra si fa mentione fusse gentile huomo sia da ine innanzi reputato popolare […] e possa avere e usare e godere tucti e’ benefici e ufici e quali si danno a’ popolari […]. Et se paresse a signori Dodici et Capitano che elli che rivelasse meritasse et fusse abile et acto a essere all’ufficio de’ Signori Dodici allora […] el faccino ponare allo scruptinio in uno consilio di 150 huomini almeno e quali sieno stati all’ufficio de’ Signori Dodici. Et se ine si vincerà per la maggior parte d’esso consilio metasi el decto tale […] all’ufficio […]”. Consiglio Generale 171, c. 123r-v.

65 I nomi dei ribelli che fecero ritorno erano Giovanni di Agnolino Salimbeni,

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Vanni di Francesco Malavolti, Spinello di Salomone Piccolomini, Cinque di Arrigo Saracini, Francesco di Branca Accarigi, Andrea di Pietro Malavolti, Giacomo di Vannuccio di Baldiccione, Guiduccio Ruffaldi, Terozio di Mino di Teri, Cione di Sandro Salimbeni, Pietro di Giacomo familiare di Giovanni di Agnolino, Tommaso di Ugo Cinughi, Tommaso di Francesco di Ranieri detto Carnesecca, Pietro di Reame Salimbeni, Pongatello di Niccolò Salimbeni, Branca di Francesco di Branca, ser Nardo di Bando, Tommaso di Francesco Ruffaldi, Nastagio di Guidone di Montalcino, Farsotto di Mino, Giovanni di Tura di Geri, Guelfo di Conte; Pietro di Bartolomeo, Silvestro di Meo dei Marzi, Tone di Fazio Piccolomini, Benuccio di Naddo. La deli-bera del richiamo degli esiliati e i loro nomi in Statuti 31, cc. 17r-19r (1363 settembre), edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 110-114.

66 Il 12 aprile 1363 “nobilis militis domini Petri domini Salomonis de Piccolominibus narravit qualiter in executionem facta contra dominum Spinellum Salamonis de Piccolominibus rebellem et in conbustione facta […] de domo dicti Spinelli sita in territorio Montecchielli mandato presen-tis domini conservatori, fuerunt conbuste domus dicti domini Petri conti-gue domus predicti dicti domini Spinelli …”; due mesi dopo il Consiglio Generale rimborsò Pietro del danno subito con una somma di 30 fiorini. Consiglio Generale 170, c. 34r (1363 giugno 9).

67 Il contratto di acquisto del castello è perduto. Dal resoconto di Agnolo di Tura del Grasso, risulta che nel 1336 il castello era già in mano di Salomone (“Abatino e li figliuoli del Malia fèro accordo col Comuno di Siena e diero Grosseto a dì 27 luglio [1336]. El Comuno di Siena lo’ promisse di dar lo’ certi denari, i quali il Comuno di Siena aveva avuto per loro da Salomone Piccolomini de la compra di Batignano”: Cronaca senese di Agnolo, p. 516). Nel febbraio 1339 Salomone già proprietario del “castrum” indirizza una petizione al Comune con la quale il Piccolomini chiede di essere esonerato dal pagamento della gabella del contratto di vendita, pari a 148 fiorini e mezzo, onere che dice spettare ai venditori: Consiglio Generale 124, cc. 15r-18r (19 febbraio 1339). Per le vicende di Grosseto anche in relazio-ne alla signoria degli Abati e alla ribellione verso Siena cfr. Ciacci, Gli Aldobrandeschi, 1935, II, n. 305; Moggi, Storia della Repubblica Senese dal 1328 al 1355, in “Miscellanea Storica della Valdelsa”, LXVIII (1962), pp. 55-76, 161-195, 162-166.

68 Consiglio Generale 170, cc. 55v-59v: 56rv (27 ottobre 1363).69 Consiglio Generale 170, cc. 55v-59v (27 ottobre 1363).70 Ma il Comune prevedeva anche il pagamento di un interesse a rimborso

della dilazione “ad rationem septem pro centenario”: Consiglio Generale 170, cc. 55v-59v: 57r (27 ottobre 1363).

71 Consiglio Generale 170, cc. 55v-59v (27 ottobre 1363). Il 31 ottobre ve-nivano cassate le condanne e ribanditi 38 abitanti assidui del castello: Consiglio Generale 170, cc. 59v e 62r (1363 ottobre 31).

72 Il contratto di vendita con le clausole e i termini contenuti nella delibera del

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Consiglio Generale in Capitoli 3, cc. 483r-484v (27 ottobre 1363): nell’atto, stipulato “in consistorio palatii comunis” alla presenza di due consorti di Spinello, Enea di Corrado e Beringhieri di Gualtieri, si dice che il termine entro cui Pietro dovrà dare il suo assenso alla vendita è di un anno. Poi Spinello si impegna affinché anche la moglie Evangelista ratifichi la transa-zione.

73 Così nella delibera del Consiglio Generale: “[ut] … tertia pars dicte terre, curie et districtus spectet et pertinet ad Comunem Senarum vigore senten-tie et ad iudicatum bonorum facte in sententia et condemnatione facta per dominum Conservatorem contra dominum Tommasum dicti Salomonis”: Consiglio Generale 107, c. 57r.

74 Sull’interpretazione della rivolta come macchinazione ai danni dei magnati insiste il cronista Donato di Neri che scrive: “[…] in Siena fu uno grande sospetto, unde la città alquanto romorò perché si disse e fu una arte come Giovanni d’Agnolino de’ Salimbeni con certi altri grandi e de’ Nove faceano uno trattato …”; e poi narrando dell’azione del nuovo conservatore Orsini: “[…] presero il detto misser Lodovico [dei Pigli] […] e fu subito posto a la colla, rotto e straziato: era ferito le braccia e la gola e le gambe […] fattoli rivocare condenagioni che avea fatta a certi Talomei, e fattoli confessare per carta che l’avea fatta falsamente a petizione di Giovanni d’Agnolino Salimbeni, e motre altre cose simili […]”: Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 597-598.

75 Le citazioni sono tratte da Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgi-menti, p. lx. Anche il cronista Donato di Neri notando la contraddizione tra l’operato di Giovanni di Agnolino e gli avvenimenti successivi alla co-spirazione, sembra rilevare l’ingiustizia dei provvedimenti presi dal governo contro il Salimbeni: “E questo fu el merito che fu renduto […] a Giovanni d’Agnolino e a’ suoi, dell’aver dato Montalcino al comuno di Siena e levato da la divotione de’ Fiorentini”: Cronaca senese di Donato di Neri, p. 598. Sulla figura e l’operato di Giovanni di Agnolino Carniani, I Salimbeni, pp. 223-229.

76 Il 27 marzo il Comune riconoscendo il vantaggio a lui derivato dall’acqui-sto di Batignano deliberò di pagare a Pietro Piccolomini quando ratificasse il contratto “incontinenti et sine dilatione ultra aliud pretium eum tangens […] ducentos florenos quos camerarius maioris Dogane salis comunis Senarum solvere sine sui preiudicio teneatur” (Consiglio Generale 171, cc. 30r-32r). In data 11 aprile “nobilis et probus milex dominus Pierus […] au-dito et intellecto quoddam instrumento vendictionis facte per nobilem mili-tem dominum Spinellum quondam dicti Salamonis et eius fratrem carnalem vice et nomine ipsius domini Pieri de tertia parte pro diviso vel indiviso totius terre castri, cassari, palatiorum, fortilitiarum et domorum Batignani […] ratificavit et approbavit […]; et promisit in perpetuum […] contra con-tenta in dicto instrumento vendictionis non facere vel venire aliquo modo […] sub pena dupli pretii”: Capitoli 3, c. 485r. Per la carica di capitano di San Quirico: Concistoro 2403, c. 24v. Pochi giorni prima della ratifica

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della vendita il Comune vendette agli uomini di Batignano le rendite che in virtù della sua recente acquisizione del dominio sul castello gli sarebbero spettate, mantenendo per sé alcuni proventi, esonerando i batignanesi dal pagamento di alcune gabelle e vendendogliele altre per un prezzo di 420 fio-rini all’anno per otto anni. Facendo precedere l’elencazione dei patti dalla dichiarazione di voler “tractare in omnibus, […] filios suos et sudditos […] cum benignitate et cum amore” furono portati all’attenzione del Consiglio Generale i termini della vendita: 1) “in prima che lli executori vendano tucte le rendite et proventi et tucto ciò chel comune di Siena può ricolliere per taxagione et per qualunque modo nela terra, corte et distrecto di Batignano; et tucte le rendite dele possessioni, alberghi et casamenti et molino che fuoro de fillioli di Salamone de Piccolomini di Siena poste in Batignano et sua cor-te, et ciò che signori che fuoro di Batignano collievano et poteano colliere et possedevano […]”; 2) “che la decta vendita si faccia solamente per tempo di opto anni […]”; 3) “conciò sia cosa che sia honesto ora per lo principio di non gravare troppo e Batignanesi nele gabelle però che quando erano de’ Signori non pagavano cabelle che la gabella del vino in Batignano e sua corte e distretto sia del comune di Siena, colliendosi solamente de’ sei denari l’anno et non più […]”; 4) “item perchè e’ Paschi e rendite de Paschi d’esso comune di Batignano non vengano in questa vendita ma rimangano al comune di Siena, che sia licito a ciaschuno batignanese cioè capofamillia tenere per lo decto tempo d’octo anni quella quantità di bestie la quale sarà dichiarata [da Siena], nel distrecto et pasco di Batignano franche sença pagare alcuno erbatico, considerando che mai al tempo di Signori che furo-no non pagarono erbatico […]”; 5) “che solamente le condampnagioni de’ danni dati sieno del comune di Batignano et tucte l’antre condempnagioni, malefici, excessi et quasi rimangano al comune di Siena […]”. Oltre a questi patti fu stabilito che il comune di Batignano dovesse provvedere alla ma-nutenzione di tutti “casamenti, possessioni, et maximamente el molino che fuoro de filliuoli di Salamone” in modo da lasciare il mulino “macinante” e le possessioni “melliorate et non peggiorate”. Il Consiglio Generale accettò questi patti con una maggioranza di 141 voti contro 54. Consiglio Generale 172, cc. 36v-38r.

77 Il 19 gennaio 1364 fu presentata al Consiglio Generale di Siena una peti-zione da parte degli eredi di Domenico di Giovanni i quali dicevano come nonostante fosse stato deciso il risarcimento dei danni loro provocati dalle malversazione e dai furti di Tommaso Piccolomini, attualmente sbandito e condannato dal conservatore degli Orsini alla pena capitale e alla restituzio-ne del maltolto per una somma di 1.200 fiorini, essi non erano ancora stati risarciti. Il Comune accettò la richiesta impegnandosi a pagamenti rateali. Consiglio Generale 171, c. 9r-v.

78 Consiglio Generale 177, c. 25r-v (3 novembre 1367).79 “Per lo peccato di quelli che governano Siena, erano divisi in due sette cioé

Canischi e Grasselli, come di sopra è detto. La parte de’ Dodici chiamata Grasselli dissero a li Salimbeni che teneano co’ lo’: ‘armatevi e state in ordi-

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ne imperoché i Canischi fanno raunata e anno trattato contro di noi’. E così li Canischi diceano a’ Talomei che teneano co’ loro ‘fatevi forti, imperoché noi sentiamo che li Grasselli anno trattato contra di noi e fanno grandissima raunata’ […].

80 La gestione della rivolta da parte del governo seguì queste scansioni: il 25 aprile un grande consiglio dei Somiglianti è congregato dai Signori, e sen-te che un certo frate minore chiamato frate Francesco per ora rinchiuso nel palazzo stesso, asserisce che gli è stato rivelato un trattato segreto fat-to contro il pacifico stato, ma rifiuta di dire da chi gli sia stata fatta tale confessione. Così il consiglio decide di fermare il frate finché non abbia dichiarato i nomi di congiurati (Concistoro 47, p. 47). Quando si decide a parlare il frate accusa alcuni dei Somiglianti e Meo di Rinaldo Tolomei. Interrogato quest’ultimo rifiuta di dire i nomi dei cospiratori nonostante le promesse di impunità per lui e gli altri ribelli (Concistoro 47, p. 49). Infine nella seduta del 29 aprile arriva la deliberazione di rimettere la scelta delle condanne al consiglio dei Somiglianti (Concistoro 47, pp. 51v-52r). Il 7 maggio il podestà e il conservatore dopo aver svolto la loro inchiesta ne espongono i risultati al consiglio, nel volume la deliberazione non è re-gistrata, comunque sembra che non si decida nulla e tutto viene rimesso nelle mani di una commissione (Concistoro 49, p. 5r-v). I documenti citati sono editi in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, 1906, pp. 125-132. Sulla congiura cfr. Cronaca senese di Donato di Neri, p. 615, dove si dice che in seguito alla rivolta “molte case de’ Piccolomini furo guaste per lo comuno di Siena, e fuvi a guastarle 22 maestri, sterovi 3 dì”; e a p. 618 sulla divisione in fazioni: “Sanesi si regievano per Dodici signori e uno capitano di populo gonfaloniere di justizia, e tutti erano del populo minuto […] e ocorse in questo regimento che si era tripartito in due sette, l’una era nominata Canischi e l’altra Grasselli e così governavano la città e’l conta-do. Li Canischi s’acostavano co’ li Talomei, e li Grasselli co’ la casata de’ Salimbeni, e in questo modo aveano tripartito i gentiliomini”.

81 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 615.82 Definizione di Moscadelli, Apparato burocratico e finanze, p. 56.83 Cherubini, I mercanti e il potere, p. 197.84 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 617-619 (citazione a p. 617).85 “[…] Riformoro la città a regimento de’ consoli, cioè uno d’ogni schiatta

de le cinque maggiori, e cinque altre de le minori schiatte, e tre di quelli che furono de’ Nove. E dicevansi consoli e lo priore proconsolo […]”. Il primo consolato fu formato da Giacomo Tolomei, Niccolò di Niccolò Salimbeni, Spinello di Salomone Piccolomini, Niccolò di Guido Saracini, Guido di Niccolò Malavolti; e poi Ghino di Arrigo Forteguerri, Ludovico di Naddino Marescotti, Goro di Goro Sansedoni, Neruccio Tornacini, Latino di Gheri Rossi; e i noveschi: Rinaldo del Peccia, Pietro di Pica, Silvestro di Placido. Cfr. Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 618-619; e Cronaca senese di autore anonimo, pp. 159-160.

86 “E gentiluomini di Siena durante il loro regimento in palazo con quelli tre

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de’ Nove s’aforzaro molto nelle loro case, e teneano molta fanteria per loro sicurtà ed erano pagati i detti fanti dal comuno di Siena. E anco féro aconciare e’ ponti e le torri de’ Malavolti e a fortificare tutte le porti e forteze di Siena. E teneano in palazo a la guardia de’ consoli cento fanti da Montalcino e da Massa. E li sopradetti fanti erano distribuiti nelle case, chi più e chi meno, secondo che era ordinato e continuo stavano in casa loro a la guardia, cioè: Picolomini nelle loro case stava 150 fanti, Tolomei stava nelle loro case 120 fanti, Salimbeni […] 120 fanti, Malavolti […] 120 fanti, Saracini […] 120 fanti”. Oltre alle cinque schiatte maggiori il cronista elen-ca 15 famiglie: Forteguerri 35 fanti, Rossi 20, Ranuccini 20, Ugurgieri 20, Cerretani 20, Barattucci 20, Sansedoni 15, Bandinelli 15, Ragnoni 15, Scotti 15, Montanini 15, Renaldini 10, Lotterenghi 8, Buonsignori 8, Bernarducci 6. Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 619-620.

87 Il resoconto dell’arrivo del vicario di Carlo con 800 cavalieri e della rivolta del 23 settembre 1363 in Cronaca senese di Donato di Neri, p. 619 (“[…] Fuvvi grande e aspra battaglia […] e combatteasi per Siena il popolo in più di X luoghi co’ li gentiliomini e furo rotti […]. El popolo entrò con misser Malatesta in palazo e robbò, li gentiliomini che erano consoli furo lassati in farsetto …”). Una petizione presentata al Consiglio Generale da parte di tale Francesco di Cola “barbectarius” che si qualificava “filius et fidelis” del reggi-mento popolare restituisce un’immagine della battaglia che il 23 settembre si combatté in città per togliere il potere ai nobili: Francesco raccontava come “cum aliis hominibus dicte contrate [Porte Arcus] preliando ala Postierla iuxta turrim et palatium de Forteguerris pro recuperando statum popularem presentem, fuit a dictis nobilibus de turri predicta de quodam saxo percussus super spatula sinistra” e come in conseguenza di tale ferita fosse “et est quasi inutilis de dicta spatula et toto brachio”; dunque in cambio dei servigi resi al popolo chiedeva per sé e i suoi discendenti di essere riconosciuto ‘vero, legitti-mo, originario e antico civis civitatis Senarum’ godendo tutti i benefici di tale condizione (Consiglio Generale 179, cc. 52v-53r, 1369 luglio 13). Sui poteri e i privilegi attribuiti a Niccolò Salimbeni cfr. Carniani, I Salimbeni, pp. 239-247. Il 1 ottobre il regime popolare rilasciò ai Salimbeni un ampio attestato di gratitudine per il fatto di essersi schierati “contra alios nobiles” e di aver in-trodotto in Siena Malatesta Ungaro di Rimini. Essi furono ricompensati con i castelli di Castiglion d’Orcia, Piancastagnaio, Montegiovi, Boccheggiano, Rocca Tederighi e Montorsaio e con l’attribuzione di molte prerogative politi-che. Ottennero di essere considerati membri di diritto del Consiglio Generale, in forza di un privilegio trasmissibile anche agli eredi. Godettero immunità riservate ai governanti (“ut contra eos non procedatur de malefitiis”), fu tri-butato loro un posto d’onore nelle solennità ufficiali accanto al Malatesta, e ogni cittadino se non voleva essere reputato sospetto e come tale essere esclu-so dagli uffici doveva fare atto di giuramento a favore dello stato popolare, di Carlo IV e dei “nobiles de progenie Salimbenensium”.

88 Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, p. lxix. Cfr. anche Cronaca senese di Donato di Neri, p. 622.

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89 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 620-622. Vedi anche Malavolti, Dell’historia di Siena, 1599, II, p. 131: i nobili fuorusciti occuparono nu-merose fortezze e di lì riferisce lo storico “cominciarono a guerreggiare per tutto il contado di Siena, impedire che non vi si portasson vittovaglie, gua-star le molina, e correr predando spesso volte fino alle mura, tenendo […] la città come assediata”.

90 Concistoro 50, cc. 4r-v (2 e 3 novembre), 5v (5 novembre), 7r (6 novembre), 8r-v (7 e 8 novembre).

91 “Consideratis iniuriis et gravibus dannis factis adversus comune Senarum et singulares personas civitatis et comitatus Senarum per nobiles de do-mibus Tholomeorum, Picolominum, Malavoltorum, Saracenorum, Forteghuerrarum et Cerretanorum, videlicet per quosdam ex dictis domibus que non obedunt domino imperatori, consideratis etiam hiis que dicti nobi-les inobedientes parant ad faciendum similes offensas et minores si possent quid absit quod per comune Senarum fiat ghuerra contra dictos nobiles ino-bedientes et commissores facinorum predictorum adversus personas et res eorum viriliter et potenter dum tamen dicta ghuerra non fiat contra aliquas mulieres vel pupillos vel contra bona ipsarum mulierum vel pupillorum”. Concistoro 50, c. 16r (20 novembre 1368). Cfr. anche Cronaca senese di Donato di Neri, p. 622: “Sanesi ordinoro […] che sei schiatte di gentilio-mini tutti non potessero stare nella città e nel contado di Siena, né a presso XX miglia, in pena dell’avere e dela persona e d’essare ribelli, e non stare in terra non sottoposta a lo’mperatore, e mandare carte d’ogni quattro dì di confino: non ubidiro: e’ quali sono queste sei schiatte, Talomei, Malavolti, Picolomini, Ceretani, Saracini e Forteguerri”.

92 “[…] E li detti gentiliomini sforzaro e rupero le strade e ardeano e caval-cavano infino a le porti […]. E Signori Difensori mandaro l’esercito del comuno di Siena. Andovi el podestà di Siena per capitano di ghuerra co’ li balestrieri dela città, e le Masse con tutti li soldati del comuno di Siena, con molti cittadini: e questo fu di dicembre. E andavano contra i gentiliomini per acquistare le terre che teneano del comuno di Siena” (Cronaca senese di Donato di Neri, p. 622). In tempi successivi gli abitanti delle comunità di Trequanda e di Santa Maria a Pilli lamenteranno i gravi danni subiti per le loro scorrerie: i nobili facendo leva sulle loro postazioni castrensi si avvale-vano di schiere di “complices, sequaces et adherentes” per fare “robbarie” e “hominum captiones” (Consiglio Generale 179, cc. 52r e 59v, 13 e 30 luglio 1369).

93 Consiglio Generale 179, c. 3r (1368 gennaio 25). La proposta di nominare “excellentem dominum marchionem […] Montis Ferretri in arbitratorem” riceve la maggioranza di 525 voti contro 17.

94 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 626-627.95 Consiglio Generale 179, cc. 8v-9r (1368 febbraio 20).96 Consiglio Generale 179, cc. 15r (1368 marzo 14).97 Consiglio Generale 179, c. 27v (1369 aprile 27). Cfr. Cronaca senese di

Donato di Neri, p. 628.

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98 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 628-629: “La pace fra gentiliomini e’l popolo di Siena a dì primo di magio si publicò e si lodaro gli ambascia-dori fiorentini solennemente co’ molti capitoli, e tolsero a’ Salimbeni e’ fanti e la bandiera e le castella per lo detto lodo. Per la qual cosa el popolo non fu contento, e non volsero che li Salimbeni perdessero i fanti, né la bandiera, né le castella e si romoreggiaro […]”. Dopo tale ribellione, dice il cronista, “li gentiliomini […] andaro in persona e liberamente si rimissero ne le mani de’ signori Difensori e del popolo di Siena umilmente”.

99 Vengono nominati 4 popolari per ciascuno terzo e i nobili Bartolomeo di Orlando e Cione di Guido Malavolti, Raimondo di Biagio e Pietro di Giacomo Tolomei, Carlo Montanini, Andrea di Francesco e Buonsignore di Fazio Piccolomini, Cristoforo Cerretani, Nastoccio e Niccolò di Guido Saracini, Sozzo Bandinelli e Ghino Forteguerri “pro pace tractanda”. Concistoro 51, c. 2r-v (1369 maggio 3).

100 Consiglio Generale 179, cc. 27r-v (1369 maggio 8). Vedi anche Concistoro 51 cc. 4r e7r (nomina di commissari e ambasciatori). “E signori Difensori di Siena féro uno consiglio generale di 700 consiglieri e fu di concordia rimes-so nel Comuno di Firenze la pace fra Gentiluomini e’l Popolo di Siena […]”. È da notare che soltanto tre giorni prima a stare al racconto di Donato di Neri, il governo improvvisamente insospettitosi dei Gentiluomini aveva fatto chiamare a palazzo 16 di loro con la scusa della pace e poi, racconta il cronista, “quando ebero desinato non furo lassati uscire di palazo”; il fatto avrebbe provocato la fuga dei nobili che “si fugiro per le mura e aguatta-vansi per paura”. L’8 di maggio i nobili detenuti in palazzo furono lasciati andare. Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.

101 “Cum facta sit consortaria Populi civitatis Senarum et quanto plus augetur tanto melius est et fortior erit; et ammictere nobiles ad ispam consortariam est elevare discordias que inter populum et nobiles viguerunt, et est eos invitare ut in civitate cum populo in pace morentur et etiam si ex ipsis nobilibus ad consortariam populi ammictuntur augetur numerus populi et diminuitur numerus nobilium …”: con queste parole si motivava l’utilità di ammettere i nobili alla consorteria, precisando tuttavia subito dopo che con tale ammissione essi avrebbero potuto godere di tutti i privilegi e i be-nefici derivanti dall’appartenenza alla struttura associativa ma che tale am-missione non avrebbe comportato la qualifica di popolare (“non propterea intelligatur popularis”), né il godimento di tutti li altri “beneficia popoli” (Consiglio Generale 179, cc. 39v-40v). La consorteria del Popolo – che ha i caratteri di un’associazione armata – proposta ai Riformatori il 5 febbraio e approvata il 4 aprile nasceva dalla volontà di contrapporre all’unione dei nobili un parellelo strumento di matrice popolare (“Cum sit ut dicitur facta consortaria inter nobiles, et utile sit similiter populares ad consortariam ligari pro eorum defensione et franchigia …”); il regolamento prevedeva che non tutti i popolari potessero farne parte, perché i soci dovevano essere eletti dai Riformatori che dovevano scegliere i suoi aderenti tra ‘i popolari ritenuti atti alla conservazione dello stato popolare’, potendo anche essere

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questi ultimi abitanti della campagna. Capo della consorteria era il capitano del popolo a cui i soci dovevano assoluta obbedienza, in cambio di avere garantita una vigile protezione. Tra i privilegi a cui erano ammessi i suoi aderenti era quello di portare armi e far dipingere alle porte e alle pareti delle loro case le insegne di popolo. Dunque probabilmente a questi benefici si riferisce la deliberazione del 7 giugno. Sulla consorteria del popolo vedi i documenti editi in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, 1906, pp. 224-226 e 227-235. In quel 7 giugno venne eletta anche una balia “ad providendum et provisiones facere circa pacem et guerram tractandam et fiendam cum nobilibus civitatis Senarum […] et eorum sequacibus, colle-gatos et aderentes […]”, Concistoro 51, c. 13v.

102 Notizia dei furti in Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629: “[…] inter-venne che Adovardo di misser Nicolò Malescotti essendo a uno suo castello di Foiano presso a Bagno a Maciareto, e con certi compagni venero più vol-te al ponte a Foiano e ine robavano e pigliavano chiunque trovavano, e pas-sava per la strada mercatanti e vetturali”. Particolarmente ben documentato è il furto operato da questi magnati contro certi mercanti catalani lungo la strada che da Talamone, dove questi erano arrivati con due navi, portava a Siena. Presentando una petizione in Consiglio Generale per essere rimborsa-ti questi mercanti denunciavano che Notto di Mino Montanini, Meoccio di Meoccio Picchi, Spara di Francesco Saracini, Bisigno di Adoardo Marescotti avevano rubato a Michele Baruffone catalano 455 reali di maiolica del va-lore di 491 fiorini d’oro, 4 anelli, 6 reali di maiolica del valore di 31 fiorini, 1 cavalla, 18 fiorini, 1 coltello, una spada fiorita d’argento del valore di 4 fiorini; ad Antonio da Bagno catalano 29 reali di maiolica, 2 anelli d’oro, 1 valigia e 1 mantello, un paio di calze e una cuffia di seta, 1 coltello, una spada, una lancia, uno giubbone, un ronzino, per un valore totale di 77 fiorini; a Biagio di Giugno 22 reali di maiolica, 1 mantello, 2 cappucci, un paio di calze, un farsetto, una spada, un coltello, uno giubbone, un ron-zino (79 fiorini d’oro il valore complessivo). Dopo aver compiuto questi furti i nobili si erano diretti verso Foiano, dove avevano derubato altri tre mercanti, rifugiandosi nel palazzo di uno di loro dove alcuni testimoni li avevano visti con la refurtiva (“la notte tutti questi robbatori capitaro nel cassaro d’Adoardo [Marescotti] in casa d’Adoardo, et co’ lui insieme vi-decieli dentro giuocare et tenere i denari in mano, messer Mino di Carlo, Petro di messer Jacomo Benvenuto Bonanuccii et molti altri”). In totale essi dichiaravano di aver ricevuto un danno pari a 803 fiorini. Oltre a questo proseguivano i catalani, alcuni abitanti di Montalcino che accompagna-vano Stefano di Aldobrandino Tolomei e Andreotto di Andreotto Tolomei ci rubarono “in su la strada di qua da Paganico” molte sacche di lana per un valore di 450 fiorini d’oro che poi i malfattori dopo averla nascosta nel castello di Argiano di Bindino Tolomei, “vendero a uno cortonese”; e i signori di Monteantico rubarono a Niccolò Albergati catalano 9 “fascia di boldroni” e un sacco di “miccino” per 50 fiorini, e poi “le mandarono a Cinigiano”. Consiglio Generale 179, cc. 88v-90r (1369 dicembre 6).

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103 Il lavorìo diplomatico che si sviluppò intorno a questa questione è docu-mentato dal carteggio intercorrente tra i priori e i commissari fiorentini e il governo senese: Concistoro 1777, nn. 454, 459, 467, 469, 471, 474.

104 Cronaca senese di Donato di Neri, pp. 629-630.105 Vedi supra, nota 88.106 La notizia della presa di Batignano arrivò in Consiglio Generale il 26 feb-

braio 1369 quando fu posto all’ordine del giorno “novitatem factam de terra Batignani per nobiles videlicet quod occupata est excepto cassaro” (Consiglio Generale 179, cc. 9v-10r). E al proposito scrive Donato di Neri: “I gentiliomini di Siena a dì 26 di febraio cavalcaro con gente a pié e a ca-vallo in grande quantità e presero e tolsero Batignano al Fonda” (Cronaca senese di Donato di Neri, p. 627). Informazioni successive consentono di collegare la presa di Batignano ai due figli di Salomone; infatti nel lodo definitivo della pace decidendo in merito ai rimborsi dei danni fatti durante la guerra dei nobili si diceva che “eo tempore per dominos Spinellum et Petrum de Piccolominibus de dictis nobilibus fuit ablatum et occupatum castrum de Batignani domino Johanni et Fonde de la Muccha civibus se-nensibus” e che durante l’occupazione del castello gli stessi in unione con i loro seguaci avevano rubato a ser Giovanni di Minuccio di Siena “certa quantitas tritici et alterius bladi quod ipse ser Johannes habebat in dicto castro Batignani”; inoltre tra le varie accuse che furono mosse ai due c’era quella di aver sottratto 24 cavalli, 16 armature, denaro “et alias res” a un conestabile del comune di Firenze che si trovava a Batignano. Capitoli 81, c. 7r-v.

107 Concistoro 1777, n. 422.108 Il riferimento a beni di Spinello a Corsignano in Notarile 79, cc. 221v-224v

(testamento).109 “Misser Spinello di Salamone dei Piccolomini passando presso a Castiglione

di Valdorcia che veniva da Santa Fiora, e fidandosi e avendo fatta pace co’ Salimbeni, e tutti i nobili di Siena, Cione di Sandro de’ Salimbeni si lo prese con tre compagni, e sì li pose che infra 5 dì rendesse Batignano […]. E ten-nelo in prigione a Castiglioncello Oltonoro, che mai persona non lo vide né li parlò, né novella si sapesse […]”, Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.

110 Vedi supra, Concistoro 51, c. 2r.111 La ribellione contro il governo non coinvolse l’intero casato: discrimine

chiaro al Comune che infatti dichiarava di muoversi contro quosdam del lignaggio quando fece dichiarazione di guerra ai Piccolomini, oltre che a Tolomei, Cerretani, Malavolti, Saracini, Forteguerri il 20 novembre 1368 (Concistoro 50 c. 16r). Tra le fila del fronte moderato, Andrea di Francesco, vecchio tutore dei figli di Salomone (retro, nota 3 e 4), che non aveva mai interrotto i contatti con loro (nel 1349 affiancava Tommaso di Salomone in un prestito al Comune di San Gimignano e nel 1364 era testimone alla vendita di Batignano fatta da Pietro al Comune di Siena: Diplomatico San Gimignano, 1349 maggio 25, e retro, nota 76) vantava esperienza politi-

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ca e amministrativa. Nominato procuratore da Ghinozzo e Longarello di Pepone da Sassoforte nel maggio 1316 per sottomettere il loro castello a Siena (Diplomatico Riformagioni Massa, 1316 maggio 27; Diplomatico Riformagioni Massa, 1316 giugno 9), nel 1343 era Provveditore di Biccherna, e ancora nel 1350; nel 1355 fu inviato dal Comune a sedare alcune discordie nate a Casole; fu più volte ambasciatore fuori dai confini dello stato (nel 1359, 1360, 1363) e membro di balìe: Concistoro 22, c. 9v-10r; Concistoro 51, c. 2; Concistoro 63, c. 22v. Vedi Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, tabelle, pp. 541-544.

112 Concistoro 1777, n. 465 (si tratta di una lettera spedita alla signoria in data 7 giugno 1369).

113 Concistoro 1777, n. 473 (l’affermazione di Andrea è riportata nella lettera spedita alla signoria da Francesco, suo figlio, capitano di Asciano, in data 11 giugno 1369).

114 Concistoro 51, c. 4.115 Nella lettera manca l’anno: presumo possa riferirsi al 1369; riporta soltan-

to il giorno e il mese: 24 giugno, a sera. Lettere di Piccolomini ai Priori e Governatori, carta sciolta, segnata IV.

116 Il 16 giugno 1369 i Riformatori votarono a costituire gli “Ordines” della città Carlo di Guidone Saracini, Niccolò di Guglielmo, Giacomo di Cino Ugurgeri, Buonsignore di Fazio Piccolomini, Cecco di Feo, Giovanni di Andrea e Niccolò di Cione, Giovanni di Cione Salimbeni, Bartolomeo Malavolti, Ildebrandino di Francesco Tolomei, Chimento di Meo Accarigi, Cecco di Lando e Giovanni di ser Gano: Concistoro 51, c. 18r.

117 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 630.118 Il 26 giugno proclamarono in una seduta del Consiglio Generale che nono-

stante fosse stato deliberato come i “nobiles” dovessero essere riammessi a tutti gli uffici pubblici adesso “ob novitates et robbarias secutas dubitatur an populus contententur quod adimictantur ad presens”, e dunque dove-vano eleggersi popolari solamente: Consiglio Generale 179, c. 43v (1369 giugno 19), c. 45v (1369 giugno 26); edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, 1906, pp. 242-244.

119 Ratifica della tregua in Consiglio Generale 179, cc. 49r-50r; e della pace in Consiglio Generale 179, c. 57r-v e Concistoro 52, c. 11r. Vedi Cronaca senese di Donato di Neri, p. 631: “Fiorentini déro el lodo de la pace […] fra li gentiliomini e’l popolo di Siena, presente molti cittadini fiorentini, ed eravi presenti molti nobili di Siena usciti, e presenti sei sindachi del popolo di Siena, il qual lodo si dé nel palazo de’ signori di Firenze. E’ nobili di Siena ne furo tutti contenti perché el popolo di Siena lo’ tolleva ogni dì qualche forteza e mandavali male. El detto lodo fu ratificato nel conseglio generale di Siena peroché fu onorevole per lo popolo di Siena […]”.

120 Capitoli 81. Il quaderno, mutilo alla fine, non contiene gli estremi crono-logici e le informazioni relative al luogo della stipula, ai testimoni, al nome del notaio che rogò l’atto: motivo che può aver causato l’errore di datazione che gli è stata attribuita. Attualmente infatti accanto alla segnatura archivi-

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stica compare nell’inventario la data 1375 giugno 30, ma l’analisi del testo indica chiaramente che esso si riferisce alla pacificazione del 1369.

121 Era consentito invece ai Difensori e al capitano del popolo di Siena punire tutti mallefficia che non fossero collegati alla guerra, previa notificazione ai priori di Firenze entro 15 giorni dalla pubblicazione del lodo; Capitoli 81, c. 2r.

122 Spinello e Pietro avevano sottratto a Sandro de Calisten stipendiario del Comune di Firenze “vigintiquattuor equi et sedecim armadure, pecunia et alias res […] tempore dicte guerre in terra castri Batignani”, per un va-lore totale di 700 fiorini d’oro che dovevano essere restituiti al conesta-bile entro un mese in due diversi pagamenti, uno a cura del comune, per 200 fiorini, e l’altro a cura dei Piccolomini (500 fiorini); inoltre essendo accusati di aver sottratto a un notaio senese, Giovanni di Minuccio, certa quantità di frumento “quod ipse habebat in dicto castro Batignani” erano tenuti alla restituzione, da farsi secondo la stima degli ufficiali di Biccherna e dei Regolatori a cui era però vietato imporre un rimborso superiore a 24 moggia di grano (Capitoli 81, c. 7r-v). Le altre disposizioni particola-ri sentenziavano che: 1) Niccolò di Niccolò, Antonio di Vanni, Andrea e Mariano di Niccolò Salimbeni devono restituire entro due mesi a Griffolo di Digo degli Incontri il bestiame che gli avevano rubato a Montemassi (140 vacche, 4 cavalle, 60 vitelli); 2) il comune deve ricostruire entro sei mesi il ponte “seu volta et quodam edifitium quod erat super dicto pon-te in via publica” di proprietà di Ghino di Antonio Forteguerri distrutti senza ragione; 3)Naddo di Francesco Malavolti, Cione di Mino di Carlo Montanini, Cecco di Giovanni di Bindino Tolomei, Laurenzio di Ambrogio, Giacomo detto Malioso, Cecco di Pietro Guerri, Matteo de la Mazza detto Testuccia e Carlo del Mazza, Frezzocco di Lao e Niccolò di Corsignano devono restituire a Branca conestabile fiorentino “quedam arma, arnesia, equi, pecunia, res et bona” che gli furono rubate “in comitatu Senarum”; 4) i conti di Santa Fiora devono restituire 5 muli e 1 asino rubati ad Andrea di Vanni “pillacchero” di San Casciano, 14 bufale e un ronzino a Gerio dei Pigli cittadino fiorentino che egli utilizzava per trasportare il sale dal porto di Talamone a Paganico e certa “quantitatem pannorum inghilensium colo-ris albi” al mercante fiorentino Minato di Nuccio derubato mentre andava “ad portum Talamonis”; 6) il comune di Asciano deve risarcire Antolino di Gabrioccio Tolomei dei danni causati al “palatium” e alle “domus” che il medesimo Antolino aveva dato a detto comune “ad bellandum et guerram faciendum” e che il comune senza licenza del proprietario aveva alienato a certi “inimicis dicti Antolini” che “dictum palatium et domos et supel-lectilia que in eo erant comburserunt”; 7) i “nobiles” devono risarcire con 200 fiorini d’oro il “providus vir” ser Cecco di Andrea popolare le cui case e capanne erano state gravemente danneggiate nella villa di Rapolano; 8) Neri di Cino, Nuccio di Balduccio, Cino di Meo de Bigozzo devono resti-tuire agli eredi di Deo di Niccolò Malavolti tutto il frumento e le altre cose che essi rubarono ai Malavolti nel castello di Bigozzo da loro venduto e

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poi occupato illecitamente durante la guerra; 9) il castello di Caldana deve essere restituito a Giovanni di Cione “quomodo et quando” stabiliranno i Regolatori e gli ufficiali di Biccherna. Cfr. Capitoli 81, cc. 6r-8v.

123 Basti pensare che venne riconosciuto pieno valore legale a tutti gli atti con-cernenti i “negotia” che i nobili fecero rogare fuori dalla città da tale ser Filippo di Grimaldo – che notaio non era – allo scopo evidente di non pro-curare danni economici ai ribelli: “[…] considerantes quod ser Filippus ser Grimaldi […] fuit scriba dictorum nobilium et in eorum negotia multa fecit instrumenta et scripturas […] et cum dicti nobiles exititii […] non potuerint habere notarium senensem et per hoc eorum negotia non potuissent com-mode facere, ideo laudamus […] quod omnibus instrumentis et scripturis in publica forma redactis per ipsum ser Filippum usque in hodiernam diem confectis stari debeat et eis plenaria fides adhibeatur ac si facta forent per notarium senensem […]”. Capitoli 81, c. 8r.

124 Vedi nota 87.125 Capitoli 81, cc. 4v-5r.126 Ricordo la rivoluzione che i Salimbeni scatenarono in seguito al lodo dato

il 1 maggio 1369; ma si legga anche quanto scrive Donato di Neri rela-tivamente all’8 maggio: “E’ signori Difensori di Siena féro uno consiglio generale di 700 consiglieri di capo, e fu di concordia rimesso nel comuno di Firenze la pace fra gentiliomini e’l popolo di Siena e prolungato termine 6 mesi a coregiare il lodo dato d’agiognare e minuire […]. Li Salimbeni e li Dodici sempre contradicevano palesemente pure si vense di poco con gran fadiga […]”. Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.

127 “Misser Spinello di Salamone dei Piccolomini passando presso a Castiglione di Valdorcia che veniva da Santa Fiora, e fidandosi e avendo fatta pace co’ Salimbeni, e tutti i nobili di Siena …”: Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.

128 “Cione di Sandro de’ Salimbeni […] sì li pose che infra 5 dì rendesse Batignano e pagasse quattro milia fiorini d’oro se no li sarà tagliata la testa …”: Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.

129 Capitoli 81, cit.130 Concistoro 1778, n. 583 (si tratta della lettera spedita da Firenze dall’am-

basciatore Mino di ser Domenico al comune di Siena, datata 1370 gennaio 28).

131 Elezione di ambasciatori a Cione per trattare della liberazione di Spinello in Concistoro 51, c. 4v (10 maggio 1369), 6v (18 maggio); Concistoro 53, c. 7v (15 gennaio 1370); Concistoro 54, c. 32r-v (9 aprile 1370).

132 “E tennelo in prigione a Castiglioncello Oltonoro, che mai persona non lo vide né li parlò, né novella si sapesse”: Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.

133 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 629.134 Capitoli 81, c. 4v.135 Autore della rivolta del 14 luglio 1371 fu la compagnia del Bruco che face-

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va capo alla contrada cittadina abitata da molti lavoranti della lana. Non è molto chiaro che tipo di rapporto questi lavoratori abbiano avuto con i popolari minuti al governo della città e con gli esponenti dei Nove e dei Dodici – a cui apparteneva senza dubbio la maggioranza dei loro datori di lavoro – fatto sta che si è parlato di un raccordo tra i rivoltosi e i minuti al governo perché quando nell’accendersi della ribellione i lavoratori si re-carono a palazzo reclamarono l’uscita dalla signoria di dodicini e noveschi soltanto (“siene tratti e’ Dodici e’ Nove”). In una situazione interna partico-larmente convulsa caratterizzata soprattutto dai tentativi di sovvertimento di Salimbeni e dodicini, il governo optò per una politica moderata, ma in seguito al saccheggio e alle uccisioni perpetrate contro i lavoratori della lana da Salimbeni e Dodicini questi ultimi furono tolti dal governo che ri-mase a prevalente maggioranza di popolo minuto (12 su 15) con l’apporto dei noveschi. Sui caratteri della rivolta e le risultanze anche in relazione all’ordinamento della corporazione della lana possono vedersi Broglio D’Ajano, Tumulti e scioperi a Siena nel secolo XIV, 1907, pp. 458-466. Rutenburg, Le vie et la lutte des Ciompi de Sienne, 1965, pp. 95-109; Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e del ’400, 1971; Cherubini, I mercanti e il potere, 1987, pp. 197-200 (da cui è tratta la citazione); Franceschi, La rivolta di ‘Barbicone’, 1995, pp. 291-300. Sulle vicende che videro impegnati i Salimbeni in questi anni cfr. Carniani, I Salimbeni, pp. 248-252.

136 Capitoli 81, c. 3v.137 Concistoro 126, cc. 55v-56r (1385 giugno 27).138 Il 17 giugno 1379 Pietro era nominato capitano in Maremma, Concistoro

97, c. 17 (1379 giugno 17); nel maggio 1384 Pietro detiene in custodia per il Comune il castrum de Stacchilagio: Concistoro 122, c. 10 (1384 maggio 31).

139 “El comuno e il popolo di Siena mandarono tutti i prigionii gentiliomini e’ qual erano presi nelle forteze acquistate e in altri luoghi, i quali mandoro nelle mani di Fiorentini nel castello di Colle di Valdelsa, i quali mandoro a dì 21 d’agosto [1369] i quali lassassero e rendessero quando i gentiliomini rendessero i prigioni del popolo di Siena, che teneano: e così furo liberati ognuno”. Cronaca senese di Donato di Neri, p. 631. Secondo il lodo dato dai priori fiorentini il vicario di Colle Valdelsa doveva agire da mediatore nello scambio dei prigionieri.

140 È nella petizione presentata ai governatori nel 1385 che Pietro dichiarava: “per me furono observati tutti e’ patti predetti et lassai liberamente due capitani del comune di Siena cioé el capitano generale et quello della mon-tagna e più di trenta altri tra cittadini e contadini … et a Piero d’Alba et a certi altri caporali 2.000 fiorini …” (Concistoro 126, c. 55v). Comunque i rapporti tra il governo e i Piccolomini nonostante le dichiarazioni di Pietro di volersi piegare alla volontà dei popolari erano ancora nel marzo 1370 – non ancora liberato Spinello – improntanti alla cautela; prova ne sia che

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quando Nanni di Giovanni Piccolomini chiese licenza di passare nel con-tado senese con la sua gente d’arme (60 cavalieri e 600 fanti) fu deciso di non concedergliela (Concistoro 54, c. 7r-v, 1369 marzo 10, da cui è tratta la citazione nel testo).

141 Il 31 agosto 1369, poco più di un mese dopo la sentenza di pacificazione, Meo di Rinaldo e Carlo di Francesco Tolomei indirizzavano una petizione alla signoria nella quale si professavano convinti assertori dello stato popo-lare prendendo le distanze dagli atteggiamenti sovversivi dei loro congiunti e chiedendo di essere ammessi nella consorteria di Popolo: “[…] expongono e vostri fedeli et devoti filliuoli et servidori […] che come è manifesto e chia-ro a tucti e’ cictadini di Siena, essi come è tenuto ciaschuno cittadino che vuole bene vivare, continuamente sono stati et habitati nela città di Siena et facta ogni obbediença et reale et personale come li antri cittadini habitanti cole loro famillie […], e mai non volsero essere né giurare né alcuna factione fare colli antri gentiluomini e’ quali si sono deviati dal volere del popolo et per questa cagione sono stati scacciati et perseguitati da loro et factolo grande danno et disinore come potuto sapere et vedere, et essi desideran-do sempre essere coll’avere e colle persone all’ubidienza del Popolo et de’ popolari sicuramente ricorrono ala signoria e paternità vostra e supplicano con ogni debita humiltà et reverença che degni loro et ciaschuno di loro et loro filliuoli et discendenti per linea masculina ricevere et ammectere per voi et per li bisognevoli consigli del Comune di Siena in popolari et nel numero del Popolo dela città di Siena, con ogni et ciaschuna sicurtà et franchecça et immunità che hanno et avaranno li antri popolari dela città di Siena per quello modo et con quelle limitationi et correctioni che ala signoria vostra parrà et piacerà ale quali sempre staranno taciti et contenti. Non entendendosi per questo che essi possana essere all’uficio et dell’uficio de’ Signori Difensori né del capitano del Popolo né ad altro popolare né di po-polari se no come piacerà a voi et a vostri successori […]”. Nel presentare la proposta al consiglio cittadino il Podestà sottolineava che i Tolomei e i loro figli nonostante l’assunzione alla consorteria di Popolo sarebbero stati considerati ut nobiles et casatis nell’assegnazione degli uffici, delle rettorie e podesterie: in questo periodo il cambiamento di status pertanto non aveva valenza ‘reale’ quanto piuttosto ideologica e politica. Consiglio Generale 179, cc. 70r-71r (1369 agosto 31).

142 Cronaca senese di Donato di Neri, p. 643.143 Cfr. Cronaca senese di Paolo Montauri, pp. 702-704.144 Capitoli 4, c. 19 (e in Concistoro 126, c. 55v): così la citata petizione del

1385.145 Il 12 gennaio 1385 uno dei membri dei Difensori raccontava in consiglio ge-

nerale “quomodo dominus Niccolaus de Salimbenensibus e dominus Pierus Salamonis et Lapus et Bettinus de Ricasulis sunt rotturi stratas et moturi guerram comuni Senarum […]”, Consiglio Generale 194, c. 104r. La notizia anche nella cronaca del Montauri: “Gente a cavallo e a piè si partino da Brolio, cioè Lapo d’Arigo, Bettino e queli da Cachiano, e’ Picolomini e tutti

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quelli di Chianti e forestieri, e cavalcorno in quello di Siena e venero infino a Vigniano”, Cronaca senese di Paolo Montauri, p. 709.

146 “Li Gentiliomini e’ Dodici e’ Nove e loro seguaci s’armoro e preseno tutte le boche del Canpo intorno intorno, in breve tutta la città di tutti e tre e’ terzi fu ad arme e trasero e conbaterno in più luoghi ed ebero di grandi izufe. Uno giudeo disse a’ Gentiliomini: ‘gridate viva la pace e tutto el popolo terà con voi’ e così fu, tanto che in breve tutti i Riformatori furno tosto rotti e caciati dal Canpo […]”. Cronaca senese di Paolo Montauri, p. 710.

147 Sulla ribellione di Campagnatico Consiglio Generale 194, c. 11r (1384 feb-braio 28).

148 La descrizione tanto pervasa da toni entusiastici è della Cronaca senese di Paolo Montauri, p. 711. Il 5 aprile 1385 “magnifici honorabiles domini, domini Priores gubernatores comunis popoli civitatis Senarum” decidevano di eleggere una balía con il compito di togliere le armi ai vecchi governanti e preparare gli elenchi dei Riformatori da mandare al confine (Concistoro 126, c. 60r); il 20 maggio i priori considerando “gratiam ab altissimo recep-ta de recuperatione feliciter statum civitatis Senarum et expulsione iniquo-rum olim regentium civitatem” decidevano di derogare le norme suntuarie per consentire a tutti “gaudium suscipere et illud operibus demonstrare ritibus tamen honestis et civilibus que ut plurimum per indumenta et alia ornamenta demostratur et appareat”: Concistoro 126, c. 27r.

149 Consiglio Generale 195, c. 1r.150 “Quattro sieno de’ Nove, quattro de’ Dodici e tre dell’altro popolo, de’

quali tre sieno ogni volta due di quelli che non sieno stati de’ Riformatori […] et uno di quelli che ne sieno stati”.

151 Queste mgistrature dovevano essere ricoperte da cinque cittadini, “due nobili e tre popolari, cioé uno de’ Nove, uno de’ Dodici et uno degl’altri popolari”.

152 “Uno nobile, uno de’ Nove, uno de’ Dodici et uno degl’altri popolari”.153 Da dividersi questi ultimi tra i Riformatori e ‘l’altro popolo’.154 Questa e le altre citazioni tratte da Consiglio Generale 196, cc. 33r-35v.

Vedi Brizio, L’elezione degli uffici politici nella Siena del Trecento, 1991, pp. 16-62: 55-58.

155 Cherubini, I mercanti e il potere, p. 200. Sui Riformatori l’unico studio è Wainwright, The Testing of a Popular Sienese Regime. The ‘Riformatori’ and the Insurrections of 1371, 1987, pp. 107-170.

156 Consiglio Generale 194, cc. 106v-107v (1384 febbraio 9).157 Cronaca senese di Paolo Montauri, p. 711, cit.158 Notarile 179, fascic. IV (1386 luglio 8). Nel 1390 la moglie, Bartolomea

Arzocchi, è vedova: vedi supra, nota 54.159 Vedi supra, nota 77. Prima di quella data: nel 1352 vende ad un Petroni

una casa (Diplomatico Bichi, 1352 giugno 25). Una particola di testamen-to, atto di incerta datazione (1390?) rogato “in camera habitationis Mini Battisti Caffini de Piccolominis in qua iacebat Tomassus testator” si riferisce alla scelta di Tommaso di istituire i suoi nipoti Giacomo e Guglielmino do-mini Pieri de Picolominibus, suoi eredi: Diplomatico Alberti, 1390?

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160 La prima attestazione che documenta la morte di Spinello è del 1385 quan-do il figlio, il nobilis vir Niccolaus quondam nobilis militis domini Spinelli Salamonis de Piccolominibus de Senis, riscuote 10 fiorini d’oro per lodo dato. L’atto fu rogato a Corsignano, dove evidentemente gli eredi di Spinello continuavano a possedere beni. Diplomatico Santa Maria del Carmine, I, 41 (1384 marzo 23).

161 Sui Monti oltre al saggio ormai datato di Paoli, I ‘Monti’ o fazioni nella Repubblica di Siena, 1891, pp. 401-422; possono vedersi Isaacs, Popolo e Monti nella Siena del primo Cinquecento, 1970, pp. 32-80 che centra l’ana-lisi al XVI secolo; Marrara, Riseduti e nobiltà. Profilo storico-istituzionale di un’oligarchia toscana nei secoli XVI-XVIII, 1976, alle pp. 59-85 che ripercorre le tappe della loro formazione; Moscadelli, Oligarchie e Monti, 1995, pp. 267-278. Alcuni spunti in Ascheri, Siena nel Rinascimento: isti-tuzioni e sistema politico, 1985, pp. 28 sgg. e Catoni, La faziosa armonia, 1982, pp. 225-272 che fornisce una brillante lettura dello spirito partigiano e fazioso dei senesi, cercandone le radici storiche nelle vicende della città.

162 Concistoro 1589, cc. 101-103v (1368 dicembre 17), edito in Luchaire, Documenti per la storia dei rivolgimenti, pp. 197-200 (citazione p. 198).

163 Agli inizi del Cinquecento le distanze tra i Monti si erano quasi del tutto assorbite sia sul piano numerico, sia su quello economico: i quattro rag-gruppamenti esistenti al 1509 – a questa data il Monte dei Dodici si era estinto, risucchiato da quello dei Gentiluomini – potevano contare su una consistenza demografica assai simile e su una medesima articolazione socia-le che vedeva all’interno di ciascun Monte la preminenza di poche famiglie ricchissime – spesso solcate da differenze marcate anche al loro interno – che emergevano su una maggioranza di modesta o modestissima fortuna: vedi Isaacs, Popolo e Monti, pp. 57-63; Marrara, Riseduti e nobiltà, pp. 73-77.

164 Isaacs, Popolo e Monti, p. 53.165 Proprio questi caratteri della lotta cittadina sollevarono le critiche di quei

cittadini allarmati dallo spirito di parte che spingeva la città sull’orlo della divisione; così Alessandro Piccolomini lamentava nel corso del XVI secolo: “con che ragione, con che esempio ci siamo in tante parti così divisi? […] noi soli infelicissimi soprattutti, in tre, in quattro, in cinque parti, habbiam crudelissimamente smembrata la città nostra”, incitando i senesi a liberare la città “dagli humori amarissimi di questi Monti”: “deposti gli odii, tolte le invidie, e i rancori da i nostri petti, abbracciatevi, e restringetevi all’esal-tazione, e a la grandezza della città vostra; non lasciate al presente questa bella occasione, che col favor del Cielo, e del mondo vi si porge di poter farlo; a tempo sete, se voi volete, d’haver tosto a restituirla più felice e più florida che fusse mai”. Citazioni tratte da Catoni, La faziosa armonia, p. 235 e Bassi, Osservazioni su Alessandro Piccolomini come ‘pensatore poli-tico’, 1961, pp. 129-170: 153.

166 Per l’analisi e la descrizione dei ripetuti tentativi signorili dei Salimbeni Carniani, I Salimbeni, in particolare pp. 269 sgg.

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167 E che, parallelamente, il sistema di organizzazione che la classe dirigente senese si era dato era in grado di tenere: sottolinea la capacità dei Monti di rinnovarsi entro un sistema apparentemente rigido ma dotato invece di maggiori articolazioni di quanto sembra Moscadelli, Oligarchie e Monti, pp. 277-278.

168 I Priori senesi succeduti alla magistratura dei Riformatori, riunito il con-siglio nella sala delle Balestre con un voto di 138 contro 62 deliberarono che Pietro possedesse “pacificamente e liberamente la terra di Batignano” con la clausola di non vendare né impegnare la detta terra senza licentia del comune e che non si possa cogliare passagio né kabella d’alcuna mercantia che passasse per lo territorio di Batignano da alcuno cittadino. Concistoro 126, cc. 55v-56r e Capitoli, 4, c. 19r-v, 1385 giugno 27.

169 L’atto di acquisto della Triana si trova presso l’archivio della famiglia nel palazzo Piccolomini di Pienza dove si conserva un’abbondante documen-tazione – quasi esclusivamente attinente all’età moderna – riguardante il castello e il ramo di discendenza dei figli di Spinello che unì al proprio cognome la specificazione ‘della Triana’. Il 6 giugno 1388 “Marsilius et Niccoluccius fratres et filii Joannis olim comitis Andree vocati Burchio de Sancta Flora […] promiserunt Niccolao et Nanni fratribus et filiis olim domini Spinelli de Piccolominibus de Senis eisdem vendere infra mensem presentem junii, fortilitium dell’Atriana [sic] et eius castrum, iurisdictionem et districtum, nemora et alias res spectantes ad dictum fortilitium situm in partibus Montis Amiate […] pro pretio octingentorum quinquaginta flore-num auri”; il 27 di quel mese l’atto fu concluso; il procuratore dei conti di Santa Fiora, Niccolò di Berignone, vendette la fortezza ai due Piccolomini. Documenti della Triana, 1388 giugno 27.

170 Capitoli 4, cc. 103v-104r.171 [1404] “Batignano e gli uomini amazorno misser Salamone de Batignano e

déro la terra al Comuno di Siena”. Cronaca senese di Tommaso Montauri, p. 762. Salomone si era sposato con India di Pierozzo di Uguccione Malavolti che testa nel 1417: Diplomatico San Domenico, 1417 settembre 7.

172 Il 21 agosto 1404 il Consiglio Generale degli uomini di Batignano decise concorditer et nemine discordante di voler “redire sub magnifico et poten-ti dominio magnificorum et potentium dominorum, dominorum Priorum Gubernatorum Comunis et Capitanei et Populi Senensis, antiqui patres et domini eorundem” e nominò alcuni procuratori per comparire davanti ai governanti senesi a manifestare tale volontà. I procuratori Valenza di Compagno, Guidone di Giovanni, Manno di Ugolino e Cola di Francesco dovevano rendere noto ai priori che “dictam terram et castrum eiusque cassarum et fortilitias cum iuris et pertinentiis suis, suamque curiam et di-strictum fore et esse de comitatu Senarum, et ipsos homines dicti loci fore et esse comitatinos et de comitatu Senarum”, che gli uomini di Batignano desideravano che la loro terra “cum iurisdictione et gladii potestate ac mero et mixto imperio et omnibus suis iuribus et pertinentiis pertinere et spectare ad prefatum magnificum Comune et Populum dicte civitatis Senarum pleno

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iure dominii proprietatis et possessionis”; oltre a questo i procuratori ave-vano autorità di ricevere dai priori quelle prerogative, immunità, franchigie e ordinamenti che i governanti avrebbero accordato alla comunità. Capitoli 4, cc. 100r-101r.

173 I capitoli di sottomissione e giuramento di fedeltà degli uomini di Batignano a Siena si articolavano in alcuni punti prevedendo anche la concessione alla comunità maremmana di alcune esenzioni e privilegi: 1) tutti i beni mobili e immobili e i redditi spettanti ai Piccolomini erano ceduti alla comunità – ad eccezione del cassarum e dei diritti sui pascoli che passavano alla dominante – con la condizione di non potere alienare nessun di tali beni e diritti senza consenso di Siena; 2) Siena si impegnava a far si che Guglielmino e Giacomo di Pietro e Niccolò e Nanni di Spinello Piccolomini rendessero agli uomini di Batignano “bonam et puram pacem ipsis comuni et hominibus Batignani […] de omnibus homicidiis, iniuriis, offensionibus et robbariis ac dannis et interesse cum plena remissione et liberatione omnium predictorum cum solennibus contractibus”; 3) i batignanesi erano esentati dal pagamento di preste e dazi del Comune di Siena e delle gabelle “dicte terre” in perpetuo, dagli altri oneri per il tempo di dieci anni trascorsi i quali essi dovevano versare a Siena in rate bimestrali 100 lire di denari all’anno; erano tenuti invece a servire in “hostibus et cavalcatis” e altri servizi armati richiesti da Siena e ad offrire ogni anno alla chiesa cattedrale di Siena “in vigilia assumptionis gloriose virginis Marie” un palio del valore di 6 fiorini d’oro; 4) alla comunità era concessa una bandita; 5) era concessa l’esenzione dal-le gabelle sui pascoli; 6) era concessa l’esenzione dall’obbligo di pagare il salario al capitano mandato al governo del vicariato di Marittima; 7) era assolta dai debiti che vantava verso il Comune di Siena; 8) era assolta dai debiti che aveva verso Paolo di Francesco Tegliacci e altri cittadini senesi; 9) era concesso agli abitanti di portare armi ovunque eccetto che nella città di Siena; 10) il Comune di Siena era obbligato a non vendere o alienare “castrum, terram et cassarum” o qualsiasi altro bene della curia e distretto di Batignano; 11) era fatto divieto ai membri della famiglia Piccolomini di abitare nel castello e suo distretto assolvendo tutti i batignanesi da ogni obbligo di obbedienza verso di loro; 12) ai batignanesi era demandata la scelta di tre notai tra i quali il Comune avrebbe scelto il vicario del castello; 13) alla comunità spettavano i proventi delle condanne per danni dati; 14) i batignanesi potevano trasportare merci, derrate, animali fuori dalla comu-nità senza pagamento di gabelle; 15) il castellano nominato da Siena alla custodia del cassero non poteva in alcun modo “se intromictere de factis [dicte terre] nec [homines Batignani] in aliquo gravare; i batignanesi erano tenuti al suo mantenimento e al pagamento del suo salario. Capitoli 4, cc. 101r-103v.

174 Vedi supra, nota 171.175 La citazione da Consiglio Generale 170, cc. 55v-59v: 56v (1363 ottobre

27), vedi supra.176 Nei capitoli di sottomissione a Siena si prevedeva la concessione alla co-

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munità maremmana di tutti i beni mobili e immobili e i redditi spettanti ai Piccolomini, ad eccezione del cassarum e dei diritti sui pascoli che passavano alla dominante- con la condizione di non potere alienare nessun di tali beni e diritti senza consenso di Siena: Capitoli, 4, cc. 101r-103v, citata supra.

177 Consiglio Generale 218, c. 109r-v (1434 dicembre 23).178 Lira 57, c. 73v. Nel 1453 erano ventiquattro i capofamiglia allirati. Il più

ricco, Pietro di Bartolomeo aveva un imponibile di 12.852 lire; in quattro si collocavano nella soglia oltre le 5.000 lire. La base (imponibile inferiore a 500 lire, nella fattispecie fra le 175 lire di Diprovegga di Marchionne e le 450 lire delle orfane di Guglielmino) era occupata da cinque nuclei fami-liari: Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, tabelle (La ‘lira’ del 1453: Gli imponibili).

179 Lira 144, c. 213 (denunzia): Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, tabella (La ‘lira’ del 1453, denunzie), pp. 563-564.

180 Ganoccia era sorella di India di Pierozzo, andata in sposa a Salomone di Pietro: notizia nel testamento rogato da quest’ultima, nel 1417: cit., nota 191.

181 Lira 144, c. 15. Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, Appendice, tabella (La ‘lira’ del 1453, denunzie), pp. 545 e 547.

182 Sugli esiti demografici ed economici della crisi, sulla cronologia della morta-lità Ginatempo, Crisi di un territorio, in particolare per gli eventi citati pp. 261 sgg.

183 Lira 144, c. 15 e 213, cit.184 Lira 144, c. 213r.185 Nessuna sorpresa che anche il consorte più ricco, quel Pietro di Bartolomeo

che ha un ruolo d’imposta di 12.852 lire, (indice che qualifica l’élite citta-dina) proprietario di metà della fortezza di San Sano Gherardi, di alcuni mulini, di una “pocissione” valutata 1.200 fiorini a Radi, di case, botteghe e fondaci in città, padrone di 49 bestie date in soccida, coinvolto in un “pocco traficho e merchantie” che gli vale un credito di 600 fiorini verso più perso-ne, faccia appello al grande numero della sua famiglia e alla figlia di dodici anni che gli è “di grande ispessa” per convincere accoratamente gli ufficiali comunali a diminuire il peso del suo carico fiscale: Lira 144, c. 324r. Sulle ‘omissioni’ patrimoniali nelle denunzie fiscali presentate da ricchi banchieri cittadini, nonché sui limiti di obiettività della fonte, risulta rivelatrice la lettura fatta da Tognetti, ‘Fra li compagni palesi et li ladri occulti’, 2004, pp. 27-101.

186 Lira 144, c. 213, cit.187 Lira 144, c. 15, cit.188 Catoni, Piccinni, Famiglie e redditi nella Lira, p. 295.189 Così nella petizione del 1434: vedi supra, nota 177.190 Lira 144, c. 213v cit.191 Nel suo testamento India Malavolti, vedova del nobile cavaliere Salomone,

disponendo di essere sepolta con l’abito delle mantellate della penitenza di San Domenico nella tomba di famiglia, ‘a mano destra dell’entrata nella

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chiesa di San Domenico, in Campo Regio’, ordina dei legati a favore della nipote Tora, figlia di Giacomo di Pietro Piccolomini, ed istituisce sua erede la sorella Ganoccia, moglie di Giacomo Piccolomini, con il vincolo che alla morte di lei subentrino nell’eredità i suoi figli maschi per uguale porzione: Diplomatico San Domenico, 1417 settembre 7, cit.

192 Così terminava la petizione, cit. Consiglio Generale 218, c. 109v.193 Catoni, Piccinni, Alliramento e ceto dirigente, pp. 455-458 e Idem,

Famiglie e redditi nella Lira, p. 295. L’alliramento di Salomone in Lira 57, c. 72v.

194 Lira 144, c. 190.195 “E più ò a Siena la chasa della mia abitazione … cor una buttigha sotto che

nnò di pigione all’anno fiorini otto e mezzo … Ed evi colla detta pigione una stalla di detta casa. E più ò nel chiasso di Sa Martino due ciglieri che restano nel chiasso delle Scolte che mi costò ell’uno fiorini centodieci … E più ò una buttigha de arte di lana … E più ò uno buttighuccio sotto la torre dei Montanini … E più ò una buttigha da fare arte di seta appiei la costa di Fonte Branda”: Lira 144, c. 190.

196 Spinello di Spinello, abitante a Siena, in San Martino, in una casa di sua proprietà, era allirato per 2.825 lire. Oltre alla proprietà di due botteghe sul Campo, affittate, la sua ricchezza era per gran parte costituita da beni fondiari: una pocissioncella nelle Masse di Camollia, di circa 12 staiori, due possessioni a Montefollonico, parte di una possessione a Monticchiello, ed infine nella corte di Roccalbegna la quarta parte della Triana. Tra i beni mobili, scorte di grano e di vino. Anche Spinello pratica allevamento. Lira 144, c. 209 e Lira 57, c. 73r (alliramento). L’area fiscale in cui è collocato, definibile come intermedia, raggruppa in città soprattutto piccoli mercanti e lanaioli: Catoni, Piccinni, Famiglie e redditi nella Lira, p. 295.

197 Per l’evoluzione di questi anni Isaacs, Le campagne senesi fra Quattro e Cinquecento: regime fondiario e governo signorile, 1979, pp. 377-403; Idem, Magnati, comune e stato a Siena nel Trecento e all’inizio del Quattrocento, 1983, pp. 81-96; Piccinni, Il contratto di mezzadria nella Toscana medievale, 1992; Pinto, Tra ‘onore’ e ‘utile’: proprietà fondiaria e mercatura nella Siena medievale, 1993, pp. 37-50. Ginatempo, Motivazioni ideali e coscienza della ‘crisi’, 1984, pp. 291-336; Ginatempo, Crisi di un territorio, 1988; Idem, Potere dei mercanti, potere della città: considerazioni sul ‘caso’ Siena alla fine del Medioevo, 1996, pp. 191-221; Idem, Uno stato semplice: l’organizzazione del territorio nella Toscana senese del secondo Quattrocento, 1996, pp. 1073-1101. Sulla politica territoriale, Ascheri, Ciampoli, Il distretto e il contado della Repubblica di Siena: l’esempio della Valdorcia nel Quattrocento, 1990, pp. 83-112.

198 Sull’affermazione della mezzadria, nonché sull’evoluzione dei patti mezza-drili nell’epoca apertasi con la peste, vedi Piccinni, Il contratto di mezza-dria, in particolare pp. 95-104; Pinto, I mercanti e la terra, 1987, pp. 264 sgg. Sullo sviluppo della transumanza e le istituzioni di ‘dogane’ oltre a Piccinni, Il contratto di mezzadria, 1992; vedi Cherubini, Risorse, pae-

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saggio ed utilizzazione agricola del territorio della Toscana sud occiden-tale nei secoli XIV-XV, 1988, pp. 219-239; Pinto, La Toscana nel tardo Medioevo, 1982, pp. 63-65, 78-89, 442-449. A cavallo tra XIV e XV secolo non solo Siena organizzò la transumanza con la creazione della Dogana dei Paschi in Maremma ma più aree italiane ed europee conobbero lo sviluppo di tale sistema; per il Patrimonio può vedersi Maire Vigueur, Les paturages de l’Eglise et la Douane du bétail dans la province du Patrimonio (XIV e XV siécles), 1981.

199 La citazione è tratta da Piccinni, Il contratto di mezzadria, p. 14.200 Hicks, Sources of Wealth in Renaissance Siena: businessmen and landow-

ners, 1986, pp. 9-42. Una analisi di tipo demografico e socioeconomico condotto sulla stessa fonte in Piccinni, Catoni, Famiglie e redditi nella Lira senese del 1453, 1984, pp. 291-304. Vedi anche la lettura comparativa di Pinto, Per la storia della struttura sociale delle città toscane nel Trecento: la distribuzione della ricchezza a Firenze e a Siena, 1988, pp. 183-199.

201 I pochi documenti relativi alla seconda metà del XIV secolo si riferiscono quasi esclusivamente ad attività legate alla compravendita, alla gestione e allo sfruttamento della proprietà fondiaria e immobiliare: Notarile 70, c. 24 (1351 novembre 24); Diplomatico Bichi, 1352 giugno 25; Notarile 71 c. 106 (1354 maggio 30); Notarile 80, cc. 78v-79r (1359 giugno 19); Notarile 75, c. 161 (1360 gennaio 4); Diplomatico Opera Metropolitana, 1379 set-tembre 6; Notarile 179, carta sciolta, IV fascic. (1386 luglio 8); Sporadici i riferimenti ad attività finanziarie, di credito al consumo e pratiche fenerati-zie: Notarile 75, cc. 40v-41r (1360 luglio 10); Diplomatico San Gimignano, 1349 maggio 25 (prestito di 464 fiorini a quel Comune da parte di Andrea di Francesco e Tommaso di Salomone).

202 Come ha recentemente appurato Gabriella Piccinni, a metà Trecento – e per almeno una trentina d’anni – l’Ospedale di Santa Maria della Scala funzio-nava di fatto come una banca pubblica accettando depositi e finanziando all’occorrenza il deficit comunale e nel 1472 finanziava a fondo perduto la nascita del primo, in Italia, Monte dei pegni laico e pubblico: come dire, scrive la studiosa, che “le professionalità del denaro che si erano sviluppate nel privato e poi ritirate dal mercato internazionale si riciclarono anche nel pubblico” (Piccinni, L’Ospedale e il mondo del denaro, 2003, pp. 17-27, vedi in particolare pp. 20-23, a p. 23 la citazione). Ma il Quattrocento co-nosce anche rinnovati slanci da parte di banchieri senesi che portano i nomi dei Benzi, Chigi, Tommasi, Spannocchi, i quali “forti di una tecnica che non aveva nulla da invidiare a quella vantata dai celebri cambisti fiorentini”, seppero sopravvivere alla recessione economica riuscendo ad entrare nel giro di affari gravitante intorno alla corte pontificia, a mettere radici nel mercato cambiario veneziano, romano e napoletano e ad di inserirsi nei circuiti finanziari della penisola iberica: Tognetti, ‘Fra li compagni palesi et li ladri occulti’, 2004, pp. 27-101: 100-101.

203 L’analisi delle denunzie presentate nel 1453 in Mucciarelli, I Piccolomini di Siena, pp. 373-408 e Appendice, tabelle (‘La lira del 1453: gli imponibili

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/ le denunzie), pp. 545-572 e (tabelle, La proprietà in campagna/le forme di sfruttamento), pp. 572-585; per una sintesi dei risultati desunti dalla fonte fiscale quattrocentesca in relazione alle dinamiche di slittamento di risorse e capitali familiari verso l’investimento fondiario vedi Mucciarelli, Dal ‘banco’ al podere, Dinamiche sociali e comportamenti economici di una famiglia di magnati. I Piccolomini: metà XIV- metà XV secolo, in corso di stampa.

204 Lira 144, c. 324r. Pietro di Bartolomeo era allirato per 12.825 lire: un ruolo che lo poneva fra i più ricchi della città.

205 Così nella denunzia di Pierozzo e Tommaso, Lira 144, c. 15, cit.206 Il problema degli anticipi ai mezzadri viene fuori con regolarità nella ‘Lira’.

Così per esempio scrivevano Niccolò e Mariano di Andrea commentando la partenza di due famiglie di mezzadri da Modanella: “e li altri che sonno rimasti ho promesso dar lo la metà della spesa per tutto marzo per vedere se si potrà lavorare” (Lira 144, c. 163r).

207 Parafraso in questa domanda lo stesso interrogativo che si poneva, in termi-ni più ampi, Gabriella Piccinni in una riflessione sulla rendita fondiaria in Italia nel periodo appunto considerato: Piccinni, L’evoluzione della rendita fondiaria in Italia: 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo, 1993, pp. 233-271 (in particolare p. 251). La citazione da Lira 144, c. 15. Un tenta-tivo di valutazione delle rendite che i Piccolomini traevano dai loro fondi a metà Quattrocento, Mucciarelli, Dal ‘banco’ al podere, cit.

208 Così nella citata petizione del 1434, Consiglio Generale 218, c. 109v.209 Lira 144, c. 15, cit. (dichiarazione di Pierozzo e Tommaso di Giacomo).210 Vedi Ginatempo, Potere dei mercanti, p. 220, a cui rinvio anche per una ana-

lisi del ruolo del credito pubblico a Siena (sullo stesso tema anche se relativo alle situazioni di Firenze, Genova e Venezia spunti interessanti in Molho, Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia, 1993, pp. 185-216). Sulla campagna ideologica – e non solo – a favore dell’agricoltura condotta dal gruppo dirigente Piccinni, Il contratto di mezzadria; sulla fisionomia delle attività manifatturiere resta fondamentale Tortoli, Per la storia della produzione laniera a Siena nel Trecento e nei primi anni del Quattrocento, 1975-1976, pp. 220-238.

211 Consiglio Generale 227, c. 28r-v (1455 maggio 9). La dichiarazione era di un altro Piccolomini: Guido di Carlo che indirizzava una petizione al consiglio cittadino protestando contro la discriminazione nelle cariche del Comune verso chi “non fa arte” chiedendo di poter essere ammesso a svol-gere gli uffici con la motivazione appunto di fare quella più utile allo svilup-po della città.

212 Petizione, cit. vedi nota 177.

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CONCLUSIONI

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la MetaMorfosi e la MeMoria

1. Non ci si immerge nel passato familiare. Né nella genealogia. E non c’è neppure cronaca degli avvenimenti domestici, grandi o piccoli.

In questo libro saranno scripti tutti li contracti et publicati et parte infirmati col autorità oportuna et parte di mano de propri notarii che sonno o saranno rogati deli contracti apar-tenenti a me Andrea di messer Nanni Piccolomini, cavaliere cittadino di Siena in mia propria particularità: et a li miei successori ad perpetua memoria et acciocché sempre si possi vedere apertamente i miei propri facti: incominciato ad scri-vere questo dì XXX di dicembre 1476. Laus Deo 1.

La memoria di Andrea di Nanni Piccolomini è il suo presente, la sua ricchezza 2. Il libro di contracti iniziato l’ultimo gior-no dell’anno 1476, e continuato dal figlio di lui Pierfrancesco, raccoglie in copia tutti i rogiti notarili comprovanti diritti e interessi del cavaliere cittadino: gli acquisti, le donazioni, le permute, le prese di possesso dei beni che in una lunga, in-finita galoppata abbracciano giorno dopo giorno sempre più terra, sempre più cielo, ampliando la proprietà del Piccolomini Todeschini in ogni direzione 3. Mulini nella Valdimerse, terre a Bibbiano Guglieschi, terre lungo il corso dell’Arbia, castel-li a Porrona, Castelrozzi e Piano d’Alma, poderi, vigne, orti, lavorativi a Pienza, una possessione alle porte di Siena, case, botteghe e fondaci in città dove la dotazione immobiliare di Andrea si è da poco arricchita di un palazo magnifico, fatto co-struire insieme al fratello Giacomo, che gli ufficiali dell’ornato chiamati ad esaminare i lavori nell’ottobre 1469 hanno definito opara maravigliosa e dignissimo ornamento dela città nostra 4.Un palazzo nel ‘terzo’ di San Martino, quod vocatur palatium novum, prope Campum Fori: Andrea e Giacomo hanno fatto

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scolpire sulle sue mura lo stemma di famiglia, a chiunque è impedito distruggere o cancellare quelle arma et insigna, so-vrapporre o affiancare a quello stemma altre immagini, altri stemmi: anche sulle mura della loggiam, a fianco del palazzo, edificata dalla felice memoria di papa Pio c’è l’arme e ci sono le insegne della domus Piccolominea 5, quell’arme e quelle inse-gne su cui vola maestosa l’aquila imperiale concessa alla felice memoria di papa Pio dal sovrano imperatore Federico III nel 1453, prout in eius privilegio apparet 6: questi sono privilegi e ogni privilegio per essere riconosciuto deve avere fondamento giuridico. La pratica della legittimazione nobiliare passa anche attraverso la conservazione delle proprie carte. L’interesse per la tenuta di un archivio è il primo indizio, o almeno un indizio, di una volontà di legittimazione 7.L’avvio delle ricerche genealogiche che si accompagna all’or-ganizzazione di un archivio familiare è il secondo. Saggi di letteratura ingenua o cortigiana, deferente, celebrativa, merce-naria, panegirici, genealogie fantastiche sospingono le origini familiari agli eroi della Roma antica, di Troia, e anche più in là, fino all’Olimpo, grazie a fantasiose etimologie, improbabili assonanze onomastiche: bisogno nobilitante di antichità 8.Il processo di elaborazione del passato familiare, il percorso di formalizzazione del rango aristocratico, si mostra complesso, ambiguo, contraddittorio. Ma ha chiaramente una data di av-vio. Essa si colloca nel ventennio quasi, compreso fra la reda-zione del libro di Andrea e de I commentari di Pio II.

Flentem inquit et adomodum dolentes Urbem reliquimus, quae patria nostra est non minus quam Senae. Nam domus Picolominea quae nos peperit olim ex Roma Senas migravit, sicut Aenadum nomen ac Silviorum in famiglia nostra fre-quens ostendit … 9.

Così il pontefice umanista Enea Silvio Piccolomini, risponden-do agli oratori romani che lo pregavano di far ritorno alla città eterna, buttava indietro le sue origini.

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2. Una domenica d’agosto dell’anno 1458 alcuni messaggeri provenienti da Roma portarono ai governanti senesi una mis-siva di Leonardo Benvoglienti, ambasciatore della repubblica alla curia.

Magnifici gloriosique Domini mei singularissimi – scriveva il diplomatico – questo dì ad hore quattordici et mezo – la let-tera era datata 19 agosto 1458 – essendo in quel punto creato el Sommo Pontefice cioè el nostro felicissimo cittadino misser Enea chiamato papa Pio secondo, scripsi immediate due let-tere per diversi cavallari che di volata tale gloriosa novella di perpetua felicità de la città nostra dovessero adnuptiare a le vostre magnifiche Signorie […]. Egli è una cosa mira-bile quanto questo popolo romano s’è mosso in universale allegreza et tutta la corte de la exaltatione di questo sommo pontefice, come se fusse stato patre o fratello di ciascuno di loro. Questi ambasciatori di re di Spagna, re di Napoli, re di Portogallo, di duca di Milano, di Venitiani et di più signorie non solo desideravano la sublimatione di costui, ma effica-cemente ne pregavano et singhularmente el re di Napoli, el duca di Milano et tutti veduto essere al pontificato assumpto si sono tanto rallegrati che con penna non potrei esprimare […]. Di costui è paruto una cosa divina et dal populo desi-derata sì che tutto el popolo, e’l paese reputa havere grande felicità di questo pontificato ne la persona del vostro cittadi-no, reputato com’è doctissimo, prudentissimo, non partiale, pacifico, benigno, devoto et humano et molto experimentato et noto infra le nationi et principi cristiani, più che prelato havesse la chiesa. E così è la verità. Se tanta felicità reputano havere gli altri di questo pontificato, quanto maggiormente resulta in gloria, felicità et triumpho de la sua, nostra città sanese? quanto ghaudio, leticia et alegreza die essere in el po-pulo di Siena, con terrore de l’inimici suoi et di chi vostra cit-tà à voluto turbare […]. Certamente magnifici signori miei è da ringraziare Idio haverci tanto dono concesso et benché per lo passato grandi venture io abbia la città nostra conosciute da Dio mandate, questa mi pare eccessiva, apta non solo fare gloriosa Siena per li tempi presenti, ma per li tempi futuri con longha memoria … 10.

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Enea Silvio Piccolomini eletto papa il 19 agosto 1458 e consa-crato il 3 settembre, era nato a Corsignano da Silvio e Vittoria Forteguerri nel 1405 11. Unico maschio sopravvissuto insieme alle sorelle Caterina e Laudomia di diciotto figli, a diciotto anni aveva lasciato il borgo della Valdorcia per recarsi in cit-tà a perfezionare la sua istruzione, ospite di alcuni consorti. Alla decisione presa dai governanti, nella primavera del 1431, di entrare a far parte della lega che univa Milano e Piombino contro i Fiorentini reduci da una sconfitta infertagli da Niccolò Piccinino che militava per i Visconti, Enea fu costretto a inter-rompere gli studi, lasciare patriae dulce solum 12 e seguire il cardinale Domenico Capranica che si trovava a passare in quel tempo da Siena, alla volta di Basilea. Domenico Capranica a cui era stato appena tolto il cardinalato da papa Eugenio IV si recava nella città svizzera, dove era riunito il concilio ecu-menico, a rivendicare i suoi diritti, e forse il Piccolomini che lo accompagnò nelle vesti di segretario non si rese conto, sul mo-mento, dell’importanza di quella sua scelta: ma la partenza per Basilea segnò il principio di una fortunata carriera, influenzata dall’incontro con Federico III non meno che dal suo genio per-sonale, culminata molti anni dopo nell’avvento al soglio pon-tificio 13. Una elevazione destinata a pesare sulle vicende della città e della sua nobiltà e a imprimere una svolta nella storia del lignaggio.Quando Enea Silvio diventò papa Siena era governata da un regimen tripartito che dal 1404, dopo la breve parentesi viscon-tea e la successiva eliminazione del ‘monte’ dei Dodici accusato di collusione con Firenze e per questo escluso dal governo e i suoi membri allontanati dalla città, aveva portato al potere esponenti del Popolo, dei Riformatori e dei Noveschi. L’ascesa al soglio pontificio del ‘nobile’ Enea Piccolomini se era auspi-cata dal governo popolare come sicuro appoggio e difesa nel delicato equilibrio fra gli stati italiani, era d’altro canto temuta per la frizione che sarebbe inevitabilmente nata con il pontefice sulla struttura del governo della repubblica.

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Fin dalla prima ambasceria spedita al papa il 4 ottobre 1458 composta da gentiluomini e popolari di spicco nella vita pub-blica senese, Giorgio Luti, Ludovico Petroni, Tommaso di Doccio, Niccolò Severini, Pierozzo Piccolomini, Giovanni Bichi, Francesco Luti, Leonardo Benvoglienti, due nodi, l’uno di poli-tica estera e l’altro di politica interna, si posero infatti immedia-tamente al centro della discussione. Il governo nel congedare i suoi ambasciatori si era raccomandato che essi, dopo aver fatto le debite e le “accomodate oblationi” al pontefice, parlassero “con affectuose parole dela speranza certa et indubitata” che la città riponeva in lui “tenendo per firmo” che egli avrebbe posto fine a tutte le adversità e persecutione de’ maligni contra lo stato” 14, ma il pontefice dopo aver rassicurato gli amba-sciatori che era sua ferma intenzione mettere “per salvamento di Siena” tutto il potere di Santa Chiesa, lasciò chiaramente intuire che si aspettava di essere contraccambiato: lui intendeva “fare tanto bene a Siena che per molto tempo si ricordasse di papa Pio sanese”, tuttavia diceva, “bisognava che l’amore fusse reciproco” 15.Il problema della reintegrazione dei Gentiluomini si pose dunque da subito, fra le righe, come elemento fondamentale di discussione e di contrattazione dopo che gli ambasciatori erano riusciti ad ottenere preliminari assicurazioni sull’impe-gno papale nella difesa della repubblica contro gli attacchi del Piccinino.Come tributo al nuovo pontefice ma motivando la deliberazio-ne con la necessità di rafforzare dall’interno il ceto dirigente senese svilito dalle perdite delle guerre – così dicevano i gover-nanti per tentare di nascondere le conseguenze di una politica di bandi e di confini adottata contro gli avversari – la famiglia Piccolomini aveva già ottenuto pochi giorni dopo l’elezione di Enea l’ammissione al ‘monte’ del Popolo, il solo che potesse ri-cevere nuovi esponenti, entrando così a far parte degli eleggibili alle cariche di governo:

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quod eius dicti summi pontificis gentiles de domo Piccholominum civium Senarum auctoritate presentis consili-is sint et esse intelligentur de presenti regimine populari […] et quod in posterum gaudere debeant omnibus privilegiis, im-munitatibus et honoribus quibus gaudent alii de dictis tribus Montibus 16.

Una deliberazione che forse nella speranza dei governanti do-veva avere l’effetto di prevenire ulteriori e forse ben più paven-tate richieste da parte di un pontefice che non faceva mistero del favore accordato alle aristocrazie nobiliari dei diversi stati. E non solo italiani 17. Ma se la reintegrazione dei Piccolomini bastava alla famiglia i cui membri molto si erano rallegrati dall’assumarli al reggimento 18, come si è visto non poteva ba-stare a Pio II che scrivendo una lettera al novesco Giovanni di Guccio Bichi, all’indomani del privilegio accordato al suo lignaggio, gli si diceva grato per aver operato affinché la città di Siena restituisse al governo i Piccolomini ma che più grato ancora gli sarebbe stato se avesse richiamato a quel medesimo governo tutti i nobili 19.La reintegrazione dei nobili avvenne nell’aprile 1459 dopo mesi di trattative che fecero capitolare di fronte all’intelligenza del papa il ceto dirigente senese, inutilmente impegnato a cercare di persuadere il pontefice che l’esclusione spontanea dei nobili dal governo della repubblica aveva come unico scopo quello di garantire la concordia cittadina, reputando per altro i gover-nanti la nobiltà, caro et pretioso membro del reggimento atto a rivestire gran parte degli honori et commodi pubblici 20. Il 9 gennaio il Consiglio Generale aveva ratificato una deliberazio-ne di Balìa che riaffermava esplicitamente il carattere popolare della suprema magistratura 21 ma meno di due settimane più tardi gli ambasciatori spediti a Roma ricevevano l’ordine di invitare caldamente sua santità a dimorare a Siena, durante il transito verso Mantova, informandolo che era stato deciso come “li nobili della città li quali in essa hanno domicilio e son-no in quella nati e allevati” erano “habilitati al reggimento” 22.

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La minaccia di sospendere l’aiuto e i favori verso Siena, a cui il passaggio della corte papale apportava tanti vantaggi economi-ci da far dire allo stesso Enea che il transito di cardinali, segre-tari, legati al suo seguito era assai simile ad un gregge di pecore che arricchisce i campi 23; l’azione di influenti cittadini senesi, primo fra tutti Giovanni Bichi, a cui Pio II si rivolgeva diretta-mente per sollecitarne l’impegno 24; l’intervento infine di forze politiche ‘fuori campo’, primo su tutti il duca di Milano 25, che caldeggiavano una soluzione favorevole all’accoglimento delle richieste del papa, dovettero operare in quell’inverno 1459 per-ché i gentiluomini fossero riammessi al governo. Riammissione che benché formalmente decisa all’inizio dell’anno dovette at-tendere alcuni mesi prima che ogni resistenza fosse superata e l’opposizione interna desse il via libera alla sua definitiva ap-provazione.“Pro bono pacis et quiete civitatis” il 12 aprile l’istanza del pontefice Piccolomini fu accolta dal Concistoro 26 e tre giorni dopo erano letti ed approvati in Consiglio Generale i diciotto articoli che regolamentavano la reintegrazione dei nobili nella vita politica cittadina, tornando la famiglia del papa a far parte del ‘monte’ dei Gentiluomini poiché così piace al sommo pon-tefice e perché nessuna ragione rendeva adesso necessaria la loro permanenza fra le fila popolari 27.Se il delicato equilibrio venutosi a creare era stato frutto della strenua volontà del pontefice che aveva saputo guadagnare alla sua causa l’appoggio di potentati stranieri e di settori della so-cietà cittadina, è probabile che a persuadere i popolari senesi ad accogliere le istanze di Pio II contribuisse anche il timore di ulteriori e più imbarazzanti richieste da parte del pontefice. Quando gli oratori mandati alla curia il 21 gennaio, dopo aver rassicurato delle buone intenzioni circa la futura apertura ai nobili, raccomandavano al papa di non “richiedere più oltre fare, ma più tosto favoregiare et mantenere el presente reggi-mento senza alchuna altra alteratione” 28, paventavano forse la possibilità che i progetti di Enea Silvio nascondessero, oltre alla piena reintegrazione dei nobiles nella vita politica, anche quella

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del ‘monte’ dei Dodici e dei fuorusciti esiliati dopo l’accusa di aver aderito alla congiura organizzata dall’influente novesco Antonio Petrucci. Questione su cui il governo era deciso a man-tenere una linea di fermezza.Irremovibile sulla possibilità di riammettere alle magistrature di governo dodicini e ribelli, i popolari cercarono di addolcire Pio II mascherando lo scarso entusiasmo per l’idea della crocia-ta contro il turco che Enea stava promuovendo con fervore – chiamando a raccolta tutti i principi e i potentati cristiani nella dieta di Mantova 29 – e concedendo al pontefice una serie di privilegi tra i quali alcuni a favore di Corsignano, sua comunità natale 30. Ma questo non bastò a distogliere Enea Silvio dalla volontà di realizzare il suo programma. Cominciò con il richie-dere la grazia per Francesco Patrizi, uomo di spicco nella vita culturale senese, esiliato dopo il ’56 – grazia a cui il governo si oppose per essere il Patrizi “uomo molto pericoloso per lo stato nostro” 31 – e finì con il pretendere il richiamo in patria degli sbanditi e l’ammissione dei dodicini al sommo magistrato: era la concordia ordinum secondo Pio II l’unica soluzione per la stabilità di Siena. Ma Siena dimostrò su questo punto di essere pronta alla rottura piuttosto che cedere 32.Nella primavera del 1460 gli oratori spediti ai Bagni a Petriolo dove Enea soggiornava, fecero capire che i Signori non appro-vavano l’appoggio che la curia offriva ai ribelli e nemici dello stato, e massimamente al suo capo Antonio Petrucci, e pertanto lo invitavano a troncare ogni rapporto con gli esiliati 33; un anno dopo nella cornice di Acquapendente una delegazione compo-sta da Bartolomeo Salvani e da un membro della famiglia del pontefice, Giacomo Piccolomini, descrivendo ad Enea lo stato di tensione che agitava la città a causa delle sue richieste, chie-deva al papa di abbandonare il suo progetto perché l’ala intran-sigente – raccontavano i due gentiluomini – rappresentata da Agostino Dati, Bartolomeo Benassai e Leonardo Benvoglienti profittando del malcontento che le continue richieste di Pio II avevano causato in seno al ceto dirigente popolare, minaccia-

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va i nobiles di toglier loro tutti i privilegi acquisiti se egli non avesse desistito dal suo progetto politico 34. E i rappresentanti popolari non scherzavano: nel giro dell’anno successivo – il 26 giugno 1462 – fu presa la deliberazione “di non assentire ad più adcrescimento o altra alteratione del reggimento in admet-tere essi nobili in alcuna cosa più” pena la perdita di ogni dirit-to politico e la confisca dei beni non solo contro chi tentasse il contrario ma anche contro chi osasse parlarne 35.Se nel braccio di ferro che aveva opposto Siena a Pio II sulla questione della reintegrazione degli altri ordini nella vita poli-tica cittadina, i nobili, usati come arma di ricatto e di pressione sul pontefice, erano riusciti fino a quel momento a non compro-mettere la loro posizione, la breve stagione della loro perma-nenza al governo era destinata di lì a breve a chiudersi. Pochi mesi dopo la morte di Enea Silvio, sopraggiunta ad Ancona nell’agosto 1464, il Consiglio Generale decretava la “reintegra-tio popularis regiminis” motivando la sospensione delle prero-gative nobiliari con il fatto che erano state concesse soltanto per “grande istantia et quasi violentia et sotto la speranza delle larghe ed amplissime proferte facte a’ populari” da papa Pio. Con un colpo di spugna vennero cancellate tutte le disposizioni approvate a favore dei gentiluomini nell’aprile 1459, eccezion fatta per i Piccolomini la cui ammissione – dicevano gli esten-sori del provvedimento – era stata “facta spontaneamente et di bono animo dal vostro reggimento populare”: così contestual-mente al ripristino dei limiti posti ai nobiles nell’accesso alle cariche supreme della repubblica era riconosciuta alla famiglia del defunto pontefice la facoltà di godere di tutti i diritti politici di cui godevano i popolari. A ventisette capofamiglia e loro di-scendenti maschi suddivisi, come sei anni prima, nei tre ‘monti’ di Nove, di Popolo e dei Riformatori fu concesso di accedere a tutte le cariche dello stato con l’unico limite della ineleggi-bilità di più che un membro in uno stesso ufficio; mentre tutti i Piccolomini facenti parte del Consiglio del Popolo potevano continuare a farne parte 36.

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Il pontificato di Enea Silvio ebbe dunque tra i suoi meriti quel-lo di garantire agli uomini del suo lignaggio un privilegio di tipo politico che era stato di breve durata per gli altri gentiluo-mini riprecipitati, dopo un’effimera parentesi, negli effetti di una legislazione antimagnatizia tanto vecchia quanto operante. Ma nella scelta del ceto dirigente di beneficiare i Piccolomini di quelle prerogative et inmunità concesse al Popolo contribu-iva non tanto o non solo il desiderio di onorare la felicissima memoria di papa Pio senese 37, le cui ‘illecite’ pressioni per la reintegrazione dei nobiles gli stessi governanti non avevano esi-tato a denunciare, quanto un calcolo di opportunità e di ragion politica che rendeva del tutto consigliabile mantenersi il favore di un casato assurto ormai, proprio grazie alla benevolenza del consorte, a cariche e posizioni di eccezionale rilievo in ambito extracittadino.Le acquisizioni patrimoniali, gli uffici svolti in Patrimonio e in ambito curiale, i legami politici e matrimoniali con la nobiltà nazionale ed internazionale, avevano messo le ali alla famiglia.

3. Gli anni 1458-1464 avviarono con un moto di folle accele-razione la metamorfosi.I mutamenti riguardarono prima di tutto la struttura del ca-sato che pochi giorni dopo l’elezione di Enea si avviò a com-prendere i mariti delle due sorelle Laudomia e Caterina, Nanni Todeschini di Sarteano e Bartolomeo Guglielmi, che ebbero il privilegio per sé e figli di portare il cognome Piccolomini 38. Nel caso di Caterina l’aggregazione non provocò grandi alte-razioni nella genealogia familiare perché quell’unione produsse solo una figlia, Antonia, poi andata in sposa a Bartolomeo Pieri signore di Sticciano, in seguito adottato. Invece l’aggregazione di Nanni Todeschini e dei suoi quattro figli Andrea, Antonio, Giacomo e Francesco, aprendo le porte della famiglia a uomi-ni altrimenti destinati a legare la propria fortuna a un diverso stemma e ad un differente cognome, garantì al pontefice una

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discendenza maschile diretta, senza dover far ricorso a lontani rapporti di consanguineità. Così Antonio, Andrea, Giacomo e Francesco entrati con il titolo di Piccolomini ‘aggregati’ nelle fila della famiglia godettero a pieno titolo dei diritti riconosciu-ti ai Piccolomini ‘originari’: distinzione che nel corso dell’età moderna separava i rami che ab antiquo e per diritto di san-gue portavano quel cognome, da coloro che solo in virtù di un privilegio concesso erano stati ammessi ad unirlo al proprio, insieme allo stemma inquartato 39.Non documentato è che lo stesso Pio II, stando a quanto la tra-dizione erudita familiare riferisce, abbia provveduto a dar vita a una struttura di collegamento tra i diversi rami della famiglia, a cui era demandata la gestione dei beni comuni e la risoluzione di questioni che potevano riguardare il casato nel suo comples-so: influenzato dai suoi studi classici, egli avrebbe individuato nel consortium romano il modello di riferimento al quale atte-nersi per creare l’organismo della consorteria familiare, la cui esistenza è tuttavia attestata soltanto mezzo secolo dopo la sua morte, allorché il nipote Giacomo beneficiò nel suo testamento la domo et progenie Piccolominea di consistenti legati 40.Era il 1507. E l’azione svolta dallo zio materno in favore di Giacomo e dei suoi fratelli aveva già dato i suoi frutti. Al soglio pontificio era arrivato il nipote Francesco, che Enea Silvio ave-va dapprima dotato di una prepositura in una chiesa di Xanten al confine tra il ducato di Clèves e la diocesi di Colonia, poi aveva investito del seggio vescovile di Siena e della commenda del monastero di San Zeno di Verona, e aveva infine elevato alla dignità cardinalizia e nominato governatore del Piceno alla morte del cardinale di Pavia Giovanni da Castiglione 41. A far parte della grande nobiltà titolata era arrivato l’altro nipote, Antonio, nominato governatore di Castel Sant’Angelo al posto di Pietro Luigi Borgia che aveva tenuto quell’ufficio durante il pontificato di Callisto III: a lui Pio II aveva dato in sposa una delle figlie di Ferdinando d’Aragona, Maria 42, unione che aveva guadagnato ad Antonio l’investitura del ducato di

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Sessa, il ducato di Amalfi, il titolo di ‘Gran Giustiziere’, uno dei sette più alti uffici del regno come lo definì il pontefice, e l’investitura della contea di Celano quando, dopo lunga lotta, ne fu cacciato Ruggerotto, figlio della contessa Cobella, che aveva aderito agli angioini 43. Infine a due nobildonne romane, Agnese e Cristofora, appartenenti rispettivamente ai Farnese e ai Colonna, si erano uniti in matrimonio Andrea e Giacomo i quali avevano ottenuto dal duca di Amalfi oltre a tutti i beni che egli aveva nello stato senese 44, Castiglion della Pescaia e Isola del Giglio Andrea 45 e il castello di Montemarciano, nella marca anconitana Giacomo 46.I due figli di Laudomia erano stati poi sontuosamente bene-ficiati da Enea Silvio che aveva riservato loro il vicariato di Camporselvoli cum mero et misto imperio 47, la proprietà del palazzo fatto costruire a Pienza, da dividere con il fratello Antonio 48, il diritto di giuspatronato sulla chiesa cattedrale di quella comunità dopo la sua elevazione, insieme a Montalcino, a sede vescovile: progetto che veniva a completare il sogno di Pio II di fare del borgo natale una città, garantendone alla fa-miglia anche un potere in spiritualibus 49.I quattro fratelli si erano dunque trovati a partire dagli anni di pontificato dello zio al centro di una spinta potentissima che aveva accentrato nelle loro mani poteri e beni che esulavano dallo stato senese.Di questa elevazione sociale e di questa crescita nei suoi risvolti patrimoniali rendono parzialmente conto le pagine di quel li-bro di contracti iniziato da Andrea nel 1476, perché né lui né i suoi discendenti dovessero sforzarsi, allora e in futuro, per re-cuperare le prove dei loro diritti e dei loro privilegi 50. Un libro per memoria, un libro per mettere ordine alla congerie di docu-menti in sua mano che rischiavano altrimenti di scomparire e smarrirsi nella approssimativa tenuta archivistica in cui erano andati accumulandosi negli ultimi decenni. A fronte di tanto or-dine, la grossa ondata di compravendite – protagonista Andrea – che mangia il territorio senese a partire soprattutto dagli anni

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Sessanta, erodendo e disarticolando proprietà pubbliche e pri-vate 51, procede in vorace e potente confusione: il libro conser-va testimonianza degli atti con cui il Piccolomini Todeschini comprava parte di un mulino chiamato el palazo di Serravalle di Valdimerse al prezzo di 140 fiorini che poi permutava un anno dopo con alcune terre in contrada di Castelruozzi 52; dei rogiti con cui cominciava a mettere insieme beni a Bibbiano Guglieschi, prima un pezzo di terra per poche lire, poi lavorati-vo e sodo per 130 fiorini, poi un altro terreno al costo di 3 du-cati 53; delle carte con cui in Valdarbia ampliava la sua proprie-tà per una spesa totale di 278 fiorini 54. E poi ancora la compra del fortilitium Castri Ruozi, nei pressi di Buonconvento, 6.000 fiorini d’oro 55; l’acquisto di Monteferraiolo, 903 fiorini 56; le numerose stipule aventi per oggetto beni e terre a Pienza lun-go circa cinquant’anni 57; i diritti sulla possessione fuori por-ta Tufi “cum domo super ea et tinis et aliis suppellectilibus et cum terris vineatis et lavorativis et cum arboribus domesticis” comprata per 330 fiorini 58; le molte case e botteghe urbane 59, fino ad arrivare all’atto di partigione e divisione dei beni fatta con messer Giacomo, il 9 ottobre 1480, in cui i due fratelli si spartivano in uguali quote il grande casamento che al presente è in piedi posto nella città di Siena nel populo e terzo di San Martino, nella compagnia di Pantaneto, alcune proprietà pien-tine, e il castello di Porrona acquistato nel corso del 1460 per 14.500 fiorini 60.Nel 1507 il figlio Pierfrancesco subentrò ad Andrea nella tenuta di questo mobile archivio patrimoniale: alla carta 87 del libro, exemplando o vero insinuando et publicando il primo dei do-cumenti che sancivano i suoi diritti: il testamento del padre 61. Un impressionante quasi prodigioso viaggio nella ricchezza del cavaliere, magnificus et generosus dominus, dominus Andreas appena defunto.

Non tutti i rami del lignaggio poterono trarre dal pontificato di Enea Silvio vantaggi nella stessa misura o nella misura che spe-

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ravano dalla bonaccia di quello tempo, come raccontava agli ufficiali chi aveva vagheggiato vanamente di ricavarne maggio-re utilità 62. L’analisi delle denunzie fiscali presentate da ventisei capofamiglia nel 1465, a un anno dalla morte di Pio II, indica tuttavia un aumento netto dell’imponibile complessivo del ca-sato di oltre il 100% rispetto alla rilevazione precedente del 1453: balzo viziato dalle importanti aliquote fiscali delle sorelle del pontefice che non comparivano dodici anni prima, ma non imputabile solamente a quelle 63. Se ricchezza e prestigio tocca-rono in sorte soprattutto al ramo Todeschini-Piccolomini, an-che altri nuclei familiari furono investiti dai benefici effetti del pontificato di Enea: Mandolo di Lorenzo – imponibile prece-dente 3.500 lire, imponibile attuale 6.825 lire – dice che ha un figlio arcivescovo di Benevento e un altro con un passato tra-scorso al tempo della santa memoria di papa Pio secondo nella rocca minore d’Assisi 64; Guidantonio di Biagio – imponibile precedente 4.925 lire, imponibile attuale 11.950 – ha avuto da sua santità l’officio dela rocca di Orvieto da cui ha tratto tanti denari: molti dei quali spesi in cose vane e di pompa perché così pensava dover fare per honore del papa e per mantenersi in sua gratia 65; e anche Guido di Carlo – imponibile precedente 8.700 lire, imponibile attuale 16.675 lire – dichiara che ha tenuto un uffitio a tempo di papa Pio in Patrimonio, che gli è costato grandissima spesa, affanno e disagio dela persona 66. Gli esempi potrebbero continuare. Ma non occorre insistere oltre sul nesso tra miglioramento della situazione patrimoniale e godimento delle opportunità di carriera offerte dalla corte papale, da parte di coloro che evidentemente si erano trovati esposti alla bonac-cia di quello tempo. La ‘redistribuzione’ di incarichi e oppor-tunità non fu uniforme: la grande frammentazione del casato in rami differenziati porta alla ribalta le ristrettezze, a volte la precarietà di chi, a fronte del cognome illustre, si audodefinisce “vecchio, povaro et infermo” e dichiara di essersi disfatto di certe sue possessioni a Monticchiello a vantaggio dei “nipoti di papa Pio” 67.

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Che insieme alla madre Laudomia e al padre Nanni occupava-no il primo posto della gerarchia familiare con un’imponibile di 29.325 lire.

4. L’aristocrazia magnatizia, individuata dalla legislazione po-polare della seconda metà del Duecento ha in questa famiglia una delle sue maggiori rappresentanti. In essa si contano so-prattutto professionisti della mercatura che alternano i propri affari con quelli pubblici. La base della particolare forza go-duta dal casato negli anni centrali del XIII secolo è la straor-dinaria ricchezza cui i suoi membri sono pervenuti grazie ai traffici internazionali, in una armonica alternanza tra la cura dei propri interessi e di quelli del Comune e della loro arte: que-sta è la misura politica dell’uomo mercante. Il loro iter indugia soprattutto sui gradini dell’amministrazione finanziaria comu-nale e di quella della corporazione di mestiere, dalla carica di Provveditore di Biccherna a quella di Console dei Mercanti, ma questi mercanti escono spesso anche dalle mura della città e dai confini dello stato per servire ‘il pubblico’, recandosi in contado pro Comuni, o fuori per assolvere incarichi diplomatici. La ric-chezza spalanca ai membri della famiglia le porte della militia: i mercanti si mettono alla testa dell’esercito cittadino, fanno la guerra. E l’onore militare guadagna all’uomo di affari il rango nobiliare.Quale fosse in questo torno di tempo il loro pensiero sui pro-blemi del governo cittadino, il loro rapporto con il Popolo che avanza alla guida del Comune, lo denota senza incertezze, ma non senza conflitti, l’atteggiamento tenuto negli anni dell’of-fensiva antimagnatizia, quando si fanno coautori del processo di ricomposizione e di pacificazione cittadina dopo la grave lacerazione prodotta dallo scontro banchieri guelfi-comune ghibellino del 1262, e danno il loro appoggio all’obiettivo di costruzione di un nuovo ordine sociale perseguito dal ceto di-rigente popolare in via di formazione. Anche se quell’obiettivo

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va a scontrarsi con lo sviluppo, disordinato e pericoloso agli occhi dello stato, dei loro interessi di parte.La crisi della mercatura internazionale che incalza, spinge ad abbandonare quelle piazze per scansare l’ondata di fallimenti che si abbatte, violenta, su molte compagnie di affari tra la fine del XIII secolo e l’inizio di quello successivo: i mercanti devono dunque ripensare il loro sistema di attività. Scelgono di indiriz-zare i capitali nel credito alla finanza pubblica e nel contado, dove prende via via sempre più corpo un progetto di espansio-ne fondiaria che mira ad uno sfruttamento razionale e redditi-zio della campagna. Nel rinnovato clima politico, segnato dalla preminenza di un ceto di medi mercanti guelfi, disponibili a lasciare ai milites e ai magnati larghe occasioni di inserimento negli ingranaggi della politica e dell’amministrazione, alcune traiettorie individuali rievocano e cristallizzano l’intreccio di interessi, le doti di realismo, la capacità di adattamento che guida e innesta questi uomini dentro il ‘sistema consociativo’ di poteri che si viene realizzando. I magnati respirano a fondo l’aria dei consigli e degli uffici, fanno esperienza delle forme di governo del territorio, qualcuno sviluppa in senso professiona-le la vocazione di podestà, qualcuno quella della guerra, se ora si dà mano alle armi è anche per fare carriera. Solleciti alla vita amministrativa e politica dello stato, non trascurano di meno i loro affari.Il sapiente e fortunato incontro fra terra, commercio agrico-lo, attività feneratizie, prestito ai comuni, esercizio del pote-re politico, consolidato tra fine Duecento e primo Trecento in equilibrata e forte architettura, mostra segni di stanchezza e cedimento nei decenni successivi. Quando mutamenti profondi investono la struttura economica, sociale e politica di uno sta-to, tutto impegnato nella riconversione delle sue risorse dai set-tori del commercio, della banca e della manifattura in direzione dell’agricoltura e dell’allevamento. Più profondi si fanno ora i legami e i rapporti che i proprietari fondiari Piccolomini sta-biliscono con il territorio, i fondi rustici, le proprietà castrensi

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verso cui spingono, oltre la borsa e la prospettiva di guadagno, anche altre ragioni. I governi e le istituzioni sono instabili. Lo sgretolarsi dell’esperienza novesca produce formule istituzio-nali mai molto durature. Le più alte magistrature cadono e ri-sorgono sotto la pressione di ciniche e volubili alleanze in cui fronti popolari e fronti aristocratici si dividono, si uniscono, in un gioco strategico estenuante che porta nella guerra domini castri e loro fedeli. Paesaggi istituzionali di rovine incandescen-ti dalla cui cenere risorgono, per i nipoti dei mercanti duecente-schi, rinnovate ambizioni di potere.Le indicazioni compilate per il fisco nell’anno 1453 racconta-no di tanti uomini che hanno attaccato in maniera potente, a volte esclusiva, i loro interessi alla terra. Ma poiché la ruota della fortuna è mutevole, nella disastrata congiuntura del pre-sente gli esiti sono di segno negativo per chi vanta fette mode-ste o molto modeste di beni e non ha altre entrate fra le voci del suo bilancio. Il possesso di fondi rustici costituisce la base economica prevalente di ogni nucleo familiare: ma non con lo stesso risultato. Uomini che resistono, nella ricchezza. Uomini che marciano verso l’impoverimento. Tanto attaccamento alla campagna non produce però un ribaltamento dell’identità pa-rentale che continua a definirsi su base essenzialmente urbana, nonostante l’evidente spostamento del baricentro degli interes-si economici. Vero è che la progressiva ramificazione e l’ecce-zionale crescita del lignaggio rischiano di rendere ogni genera-lizzazione poco aderente alla realtà, che si rivela sempre ricca di soluzioni: ad intenderne quanto ci viene in aiuto la decisione presa in limine vitae da Farsotto di Manno, che benché civis senensis, si farà seppellire nella chiesa di una piccola comunità del contado, Armaiolo.Ma la scelta di Farsotto non può essere definita ‘tradizionale’. Perché ‘in genere’ i Piccolomini ancora in pieno Quattrocento continuano ad avere legami ideali e materiali molto forti con l’ambiente cittadino: i palazzi, le tombe di famiglia, gli uffici pubblici. Un lignaggio urbano che accentra le proprie fonti di

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ricchezza nella terra: i suoi uomini sembrano formare il qua-dro di certa nobiltà senese d’età moderna descritta dal grandu-ca Pietro Leopoldo, allorché notava l’attitudine dei nobili a non uscire volentieri da Siena e ad occuparsi “piuttosto dei propri interessi di campagna” 68. Una chiusura verso l’esterno ma anche un ruolo attivo nel sistema politico e culturale ‘cittadino’, pur nel quadro del prevalere della ricchezza fondiaria, che la fisiono-mia dei Piccolomini quale si presenta alle soglie del 1458 sembra tanto precocemente riassumere e lì linearmente arriverebbe se a far deragliare il tracciato di quella prevedibile evoluzione non giungesse il pontificato di Pio II che spezza quel percorso verso il declino tracciando nuove strade di affermazione 69.Con l’ascesa al soglio pontificio di questo lontano erede di una perduta tradizione mercantile e finanziaria si chiude un capi-tolo della storia familiare, fino a quel momento alimentatasi in modo fondante del rapporto con la città. Da quel pontifi-cato referente imprescindibile della domus Piccolomini diven-ta un potere esterno a Siena e a poteri ‘altri’, la curia, la casa d’Aragona, le famiglie della nobiltà romana, e a strategie di affermazione che esulano dagli strumenti tradizionali, si lega la costruzione delle fortune del casato. Un’epoca è finita. Un’altra si apre. Su uno scenario che torna a spalancarsi in una dimen-sione internazionale.

1 Consorteria Piccolomini 17, c. 1r.2 A Firenze dove il fenomeno della redazione di memorie private è tanto ben

documentato i libri di famiglia rappresentarono il prodotto dei membri dell’oligarchia cittadina che attraverso la narrazione delle vicende e degli in-teressi familiari che li riguardavano o avevano riguardato i propri antenati cercavano di affermare il proprio valore e la propria antichità proponendosi come ceto di governo alla città: vedi i contributi raccolti in La memoria e la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna, 1995 (in particolare Grubb, Libri privati e memoria familiare: esempi dal Veneto, pp. 63-72; Pandimiglio, Libro di famiglia e storia del patriziato, 1991, pp. 138-151. Il caso perugino segnato da un manifestarsi più tardo di tale esperienza è stato analizzato da Irace, La nobiltà bifronte, 1995 (vedi soprattutto pp. 170 sgg.).

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3 Il libro porta la segnatura Consorteria Piccolomini 17; inizia a c. 1r e si interrompe a c. 87r quando subentra Pierfrancesco fino a c. 256v. Per i beni di Andrea cc. 1v-87r.

4 Gli ufficiali dopo l’esame del palazzo inviavano una relazione ai gover-nanti chiedendo l’autorizzazione a “soprapigliare” 10 braccia dalla parte di piazza del Campo affinché il casamento “venghi in quadro”: “Exponsi per li servitori vostri officiali dell’ornato dela città vostra come per debito del loro officio hanno voluto con diligentia examinare lo palazo princi-piato per misser Jacomo et misser Andrea Piccolomini lo quale sarà opara maravigliosa et nela città nostra dignissimo ornamento secondo la inten-tione et disegno di loro spettabilità che a questo essendo non potrebeno meglio essare disposti. Et trovano decti vostri servidori che a volere che le faccie corrispondino a drictura l’una col altra et lo palazo venghi un quadro bisogna soprapigliare dieci braccia dela selice del campo dal canto del chiasso de setaioli […] et andare verso Porrione a filo […]. E quasi non si riparrà havere soprappreso per essare in luogo alquanto cuperto et per la belleza et dignità del lavoro starà molto meglio […]. Et in questo modo lo palazo verrà in quadro et magnifico con tutte le sue proportioni, et a la piaza et a la città nostra rendarà tanta dignità che ciascuno cittadino ne sarà ogni giorno più contento[…]”. Concistoro 2125, c. 106r (1469 ottobre 28). Le acquisizioni di immobili urbani da parte di Andrea sono documentate nel suo libro di contratti a partire dall’anno 1488 quando comprò da Fortunato di Francesco “de nobilibus de Cotone” un fonda-co nel popolo di San Pietro alle Scale; seguirono l’acquisto di una parte di “unum bancum seu apotecam ad usum banci” situata alla Croce del Travaglio da Domenico Migliorini; di una bottega sul Campo dall’ospeda-le Santa Maria della Scala; di metà di una bottega in Porrione da Mandolo di Francesco Piccolomini; di due case nella piazza di San Giovanni da Luigi di Lupo Squarcialupi; di una parte di una bottega in Vallepiatta da-gli eredi di Marco di Rinaldo Pecci; di parte di una bottega sulla piazza del Campo da Elisabetta di Lorenzo del Vecchio (cfr. Consorteria Piccolomini 17, cc. 61v-62r, 66v-67r, 69v, 70r-v, 71r-72r, 72v-73r, 73r-v, 75r, 82r-83r, 83v-84v, 84v-85r).

5 La descrizione delle armi e delle insegne nel palazzo e nella loggia nel testa-mento di Giacomo, in cui è sancito il divieto di cancellazione e sostituzione: Consorteria Piccolomini 32, n. 20, cc. 1r-17v (vedi infra).

6 Diplomatico Archivio Generale, 1453 dicembre 15.7 Vedi per esempio le vicende anche se più tarde in cui il desiderio di nobi-

litazione e ascesa sociale appare saldato all’attenzione per la conservazio-ne dei documenti: Angelini, L’invenzione epigrafica delle origini familiari (Levante Ligure, secolo XVIII), 1996, pp. 653-680.

8 Mucciarelli, Sulle origini dei Piccolomini, pp. 358-376.9 I Commentarii, lib. IV, pp. 804-806. Lo stesso concetto espresso in lib. V,

p. 872. Sull’idea di nobiltà di Pio II rinvio a Mucciarelli, Sulle origini dei Piccolomini. Discendenze fantastiche, pp. 358-376: 359-362. La trattati-

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stica quattrocentesca ripercorsa da Castelnuovo, L’identità politica delle nobiltà cittadine, pp. 228-236.

10 Concistoro 1992, n. 51. Cfr. anche Cronaca senese di Tommaso Fecini, p. 868: “A dì 20 d’agosto venne nuova come misser Enea, vescovo di Siena e cardinale, era creato papa Pio secondo”. Vedi anche: Consiglio Generale 228, c. 48v: “Habuimus novam per […] spectabilem civem Leonardo de Benvoglientibus oratorem senensium apud Calistum III pape nuper defuntus quod heri die sabbati presentis mensis creatus et absumptus est ad apicem summi apostolatus dominus Eneas filius domini Silvii de Picholominibus de Senis, […] divina providentia papa Pius secundum cuius exaltatio sit ad statum bonum civitatis et comitatum Senarum et civium eiusdem […]”. Notizia dei festeggiamenti in Cronaca senese di Tommaso Fecini, p. 868: “E per tre dì co’ le buttighe chiuse si fe’ festa delli tutti ispirituali e temporali e’l contado”.

11 Tra le molte biografie di Enea Silvio Piccolomini mi limiterò a citare alcuni riferimenti d’obbligo: Voigt, Enea Silvio, 1856-1863; Boulting, Aeneas Silvius, 1908; Haller, Pius II ein Papst, 1912; Ady, Pius II the humani-st, 1913; Paparelli, Enea Silvio, 1950; Widmer, Enea Silvio, 1960; Von Pastor, Storia dei Papi, 1961; Mitchell, The Laurels and the Tiara, 1962; Cesarani, Pio II, 1966; Garin, Ritratti di umanisti, 1967; Ugurgieri del-la Berardenga, Pio II, 1973; Totaro, Pio II nei suoi Commentari, 1973.

12 Citazione tratta dai Commentarii composti dal Piccolomini negli anni di pontificato (1458-1464) per narrare – a parte il primo dei dodici libri de-dicato alla vita di Enea fino alla sua elezione a papa – gli avvenimenti più significativi del suo apostolato. L’edizione a cui faccio riferimento è quella curata da Totaro edita nel 1984, alla cui introduzione rimando per un’espo-sizione dei problemi legata al testo: la sua fortuna storica, le edizioni, la struttura e i temi dell’opera. I Commentarii, I, p. 8.

13 Fondamentale si rivelò per la carriera di Enea l’incontro con l’imperatore Federico III – di cui fu segretario – che sollecitò la sua nomina a cardinale (Vedi I Commentarii, I, p. 181). Nel 1453 Federico indirizzava ad Enea un diploma con il quale dopo aver enumerato le moltissime benemerenze acqui-site verso di lui e verso la casa d’Austria da Enea Silvio Piccolomini, episco-po senensi e consiliario nostro dilecto, lo creava Conte Palatino Lateranense e dell’Impero con la facoltà di godere di tutti i “privilegiis, iuribus, immuni-tatibus, gratiis, libertatibus, prerogativis, officiis, honoribus, salariis, stipen-diis” connessi alla qualifica, compreso il diritto di “facere et creare notarios publicos” in tutto l’impero. Dopo la morte di Enea il titolo comitale doveva passare con pari privilegi a un membro del casato nominato dal vescovo di Siena e dopo la morte di quello al “senior miles in eadem famiglia aut, si miles defuerit, senior doctor; milite vero et doctore deficiente, semper unus post alium ex senioribus dicte familie qui ad hoc habilis, idoneus per maiorem partem virorum ipsius domus de Piccolominibus fuerit simpliciter electus et deputatus …”: Diplomatico Archivio Generale, 1453 dicembre 15. Oltre al favore accordatogli da Federico furono le sue doti naturali unite

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alla volontà divina i mezzi che portarono Enea Silvio a diventare capo della Chiesa, così per come egli stesso narra nel libro I dei Commentari dove dà di se un’immagine di persona assolutamente straordinaria rispetto ai suoi contemporanei: non la famiglia dunque, né sufficientemente ricca né tanto potente da innalzarlo alle vette della carriera ecclesiastica, ma piuttosto il suo ingegno e la provvidenza furono i canali che lo portarono sulla cattedra di Pietro: del resto nelle pagine in cui racconta dell’elezione e dei maneg-gi del conclave riportando la parole del cardinale di Rouen che tentava di dissuadere i cardinali dal votarlo, il pontefice non nasconde, ma anzi sottolinea, le sue umili origini: “Che cosa è Enea per te? Perché lo ritieni degno del sommo pontificato? Vuoi dunque darci un pontefice gottoso e povero? Come potrà un papa povero dar sollievo a una chiesa povera?” (I Commentarii, lib. I, p. 199).

14 Concistoro 2146, cc. 52v-54v.15 Concistoro 2146, cc. 55r.16 Balia 9, c. 195r. La proposta ottenne 151 voti favorevoli e 55 contrari. Vedi

anche per la motivazione del reintegro, Balia 10, cc. 142v-143r.17 Sull’atteggiamento di favore di Pio II verso le classi nobiliari cfr. Polverini

Fosi, “La comune dolcissima patria”, 1987, che ipotizza un disegno di Enea mirante a consolidare le aristocrazie in funzione di una maggiore stabilità politica degli stati, e di una maggiore duttilità a stabilire organiche alleanze con il papato.

18 Concistoro 1992, c. 13.19 Diplomatico Bichi, 1458 settembre 19, vol. 2, 120.20 I governanti avevano trasmesso il 14 dicembre 1458 istruzioni precise agli

ambasciatori Battista Bellanti e Francesco Aringhieri: con un raffinato di-scorso circa il bene dello stato essi dovevano allegare “con reverentia” e con “argumenti evidenti et efficaci” le ragioni che impedivano l’ammissione dei gentiluomini al governo. Gli ambasciatori dovevano addurre “li exempli de li antiqui tempi et la memoria di quello che prudentemente fece la nobiltà spontaneamente removendosi da quella amministratione de la quale sonno privati benché con solenne et vuluntaria stipulatione et pacto participino in grande parte li honori et commodi pubblici, et demostra[re] che in tale rein-tegrazione non si potrebbe salvarsi la concordia per la difformità et incom-patibilità de le nature diverse cioè i nobili e popolari senza le altre particulari cagioni le quali non si ricordano per non dire sinixtra cosa contra la nobiltà, la quale reputiamo et trattiamo non altrimenti che caro et pretioso membro del nostro reggimento”. Il Bellanti e l’Aringhieri dovevano chiudere la loro ambasciata affermando che il governo si dispiaceva assai “che la sua santità ci richieda d’alcuna cosa la quale per pace et per bono essere dela città nostra siamo constretti denegare, ma in tutto ci confidiamo nela clementia et beni-gnità dela santità la quale ci rendiamo certissimii che come verace rifugio et firmamento del nostro stato non vorrà seguire quelle vie unde ne sequisse manifesto scandalo come in questa materia”. Concistoro 2146, cc. 55v-56v.

21 “Item providdero e ordinaro questa perpetua et incomutabile legge […]

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che l’altissimo reggimento dela città di Siena sia unitamente et concorditer governato numero ternario, cioè da cittadini di tre Monti solamente, cioè dal monte de’ Nove, del Popolo et de’ Riformatori, [e] che mai per alchuno tempo sia licito a magnifici Signori o qualunchaltro officiale insieme o di per se proponare o partire in alchuno collegio o conseglio cosa alchuna per la quale el reggimento d’essa città altrimenti si governi che nel prefato ternario numero […], si che in effecto el dicto modo di governare per directo o per indirecto non possi essare mutato o alterato”. A questa legge che ribadiva il carattere popolare di governo e la sua immutabilità se ne aggiungeva un’altra che vietava espressamente a tutti i cittadini di Siena, quale fosse la loro condizione, di agire o parlare a favore della riammissione dei nobili al governo, obiettivo per il quale evidentemente lavoravano non solo i genti-luomini stessi ma anche settori a loro vicini (come il novesco Bichi): “Item considerata quanta utilità resulti dalla taciturnità delle cose pubbliche perti-nenti al reggimento, et quanto sia pestifero el parlarne altrove che in palazo et a tempi et lochi ordenati, providdero et ordinaro che a nissuna persona di qualunche grado, stato o conditione si sia, sia lecito tractare o operare per alchun modo che el reggimento della città altromenti si governi che in numero ternario de’ decti tre Monti et cittadini d’essi […]”. Le due provvi-sioni furono votate a grande maggioranza: 116-146 la prima e 124-138 la seconda. Consiglio Generale 228, cc. 74r-77v (1458 gennaio 9).

22 Tale il contenuto delle istruzioni trasmesse il 21 gennaio 1459 agli ambascia-tori Bartolo di Tura, Giacomo di Guidino, Lorenzo di Ghino di Bartolomeo. La decisione di riammettere i Gentiluomini al governo era motivata con il proposito di felicitare sua santità e di “renderla contenta” in occasione del suo passaggio da Siena. Ma a Pio II veniva però chiesto “che ne lo adveni-mento suo e stantia che farà nela città o altrove per alcuno tempo non vogli chiedarci doversi più oltra fare” (Concistoro 2146, cc. 56v-57r). Il provve-dimento “nobiles civitatis habilitentur ad regimen prout videbitur Consilio Populi” fu votato in consiglio il 22 gennaio con una maggioranza di 296 contro 117, Consiglio Generale 228, cc. 78v-79v (1458 gennaio 22).

23 I Commentarii, lib. IX, p. 1667.24 I rapporti tra Pio II e Giovanni di Guccio Bichi sono documentati da una serie

di lettere alcune delle quali inviate dal papa al novesco, la prima delle quali datata 19 settembre 1458, citata sopra: Diplomatico Bichi, 1458 ottobre 23, vol. 2, 121 e 122. L’atteggiamento di protezione di Pio II verso Giovanni Bichi definito “familiaris continuus commensalis et secretarius noster” risulta espressamente dalla bolla del 3 novembre con la quale il pontefice concedeva al figlio Antonio un passaporto che lo autorizzava a viaggiare nei territori del-la Chiesa Diplomatico Bichi, 1458 novembre 3, vol. 2, 124. Il 24 di quel mese una missiva indirizzata a Giovanni lo ringraziava di quanto stava facendo per la realizzazione dei desideri del pontefice: Diplomatico Bichi, 1458 novembre 24, vol. 2, 125. Tre giorni dopo la materia della reintegrazione dei nobili era espressamente nominata al centro dell’azione del novesco: Diplomatico Bichi, 1458 novembre 27, vol. 2, 126.

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25 Nel febbraio così scriveva Francesco Sforza ai Priori senesi dopo aver sapu-to della decisione, da lui auspicata e sollecitata, di riammettere al governo i nobili: “Per una vostra datata a XXII del mese passato restiamo avisati dela difficultà è stata in quello vostro Senato et Populo in compiacere ala Santità di nostro Signore circa la rechiesta quale ve haveva facta de habilitare quelli nobili al vostro reggimento et de le efficacissime rasione et argumenti che li movevano a non consentire alla dicta habilitatione […]. Deinde commen-diamo grandamente la conclusione presa circa questa materia et al parere nostro non porresti haver facto meglio in cosa più honorevole et digna come haver compiaciuto alla Santità di nostro Signore …”. Concistoro 1996, c. 64r. Per ulteriori interventi della diplomazia milanese a favore delle richieste papali si veda la lettera dell’ambasciatore di Milano a Firenze Nicodemo Tranchedini che cercò di convincere i governanti popolari a superare ogni irrigidimento in materia: Balia 495, c. 74r (1458 gennaio 17).

26 Concistoro 55, cc. 22r e 36r-39v (1459 aprile 12).27 “Certi cittadini electi per auctorità del Conseglio del Popolo ad complacen-

tia et contemplatione dela beatitudine sua [Pio II] ànno fatte le infrascripte provisioni. In prima per fare cosa grata ala sua santità che e gentilihomini della cictà, contado et distrecto di Siena sieno da hora innanzi fraternamen-te et benignamente ricevuti et aggregati al presente populare stato et a tutti li offitii et honori publici di dentro et di fuore s’intendino essere habilitati come fosino li altri populari del reggimento nostro. […]. Etiam che la nobil casa de Piccolhomini s’intenda ritornata al monte de nobili poiché così pia-ce al sommo pontefice …: Consiglio Generale 228, cc. 96r-97v (1459 aprile 15). Vedi anche Concistoro 55, cc. 36r-37v.

28 Concistoro 2146, c. 56v e Consiglio Generale 228, c. 79r, citato sopra.29 I Commentarii, lib. II, pp. 417 sgg.30 Dopo che una prima serie di concessioni richieste da Pio II per il suo bor-

go natale erano state rifiutate, il 19 aprile 1459 furono approvate alcune provvisioni che rispondevano al desiderio di compiacere il papa. Esse pre-vedevano l’esenzione perpetua da ogni nuova imposizione; la conversione della gabella del mosto in un contributo forfettario ai castellani di 50 lire; una moratoria decennale e il pagamento rateale per coloro che da un anno avessero lasciato lo stato per debiti; l’esonero dal pagamento di parte dello stipendio del Podestà di San Quirico e correlativo aumento per il vicario di Pienza che vedeva estendersi la competenza anche nel penale; un mer-cato generale a maggio per sei giorni con la consueta sospensione dei de-biti civili. Capitoli 180, cc. 2r-6v. Un mese più tardi il Consiglio Generale concedeva licenza al papa di edificare la chiesa e la casa “apud oppidum de Corsignano” assolvendolo da ogni gabella (Consiglio Generale 228, c. 109v, 1459 maggio 18).

31 L’esito negativo della richiesta papale è contenuta nelle istruzioni trasmesse dai governanti agli ambasciatori Ludovico Petroni e Niccolò Severini man-dati alla dieta di Mantova. Era loro compito informare Pio II che il reggi-mento aveva “ricevuto breve dela sua beatitudine per lo quale richiedeva

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tollersi a misser Francesco Patritio in tutto ogni confine” ma che pur volen-do “in tucte le cose conpiacere et gratificare ala sua santità in tucte le cose importantissime” tale richiesta non poteva essere esaudita essendo cosa che poteva “generare al comuno inconveniente et […] molesta alteratione”. “È notissimo – dicevano gli ambasciatori – che misser Francesco dicto infra li confinati dela città nostra non è de li meno delinquenti perché li suoi concepti et ordinamenti contra la patria non ànno in sé alcuno dubio come esso medesimo testificò per scriptura di propria mano […]. Et di poi che fu di fuore del nostro territorio et apparole et per sue lectere attestò havere riceuta singularissima gratia et che attesa la sua colpa era degno di perdere mille vite ringratiando dela sua conservatione la quale piatosamente pro-curamo per contemplatione dela sua doctrina volendo che prevalesse alla graveza de suoi falli. Et havendo ricevuta tanta clementia […] sarebbe trop-po contrario ala giustitia che quantunche tutti li confinati giustissimamente sieno confinati pure che maggior misericordia consequitasse di chi non è stato de minori anco de precipui a commettare il delitto […]”. Concistoro 2416, cc.63r-64r (1459 settembre 14). Sul Patrizi vedi Battaglia, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi, 1936, pp. 88-100.

32 Sull’idea di concordia come base per la stabilità della vita politica senese e sulla preoccupazione di Pio II per la “lacerazione” determinatasi in seguito al confino e alla decapitazione di molti noveschi e dodicini sono illumi-nanti alcune pagine dei Commentari (I Commentarii, lib. II, pp. 321 sgg.). Una prima risposta negativa ai desideri del pontefice sono nella risposta di Niccolò Severini, ambasciatore a Mantova, nel gennaio 1460 Concistoro, 1996, c. 56.

33 “Duro è ali cittadini del regimento credare che la Sua Santità dia alcuna subventione o porga alcuno subsidio a rebelli nostri et inimici dela nostra republica, et maxime messer Antonio Petruccio li quali mai non hanno stu-diato altro che infestare la quiete di questa città et fabricare pericoli et scan-dali ad ruina et exterminio d’essa …”: Concistoro 2416, cc. 67r-v (1460 giugno 14).

34 “Il sommo pontefice non ci lascia in pace per causa vostra. Chiede ogni giorno di più e non la smette di premere su di noi con lettere e ambascia-tori. Abbiamo promesso tutto ciò che era necessario riguardo al governo; ci viene chiesto ancora di più. Chi può tollerare serenamente tante fasti-diose richieste? Mandate qualcuno a parlargli, intervenite perché smetta di molestarci. Se non vi comporterete con saggezza ne farete le spese. La voce mia è la voce del Popolo. Allontanate da voi la collera della plebe, alla quale siete già abbastanza invisi. Se il pontefice non smetterà di avanzare richieste invece di avere parte nel governo come desiderate soffrirete l’esilio o il carcere”, queste parole pronunciate da Bartolomeo Benassai capitano del Popolo riferirono i due nobili a Enea Silvio. Assai simili le posizioni del Benvoglienti: cfr. I Commentarii, lib. VIII, pp. 1635-1645.

35 “[…] Fu facta precisa deliberatione di non assentire ad più adcrescimento o altra alteratione del reggimento in admettere essi nobili in alcuna cosa

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più, et in questo fermo proposito essendo tucti li cittadini populari di non concedare alli dicti nobili più oltre. Et persuadendosi chel non parlare più di simile materia sia remedio et consilglio saluberrimo ad quiete della città la quale tucta qui si solleva quando se ne parla ànno proveduto et ordinato et stabilito come appresso, cioé che a magnifici signori capitano di Popolo et qualunque altro officiale non sia mai per alcuno tempo licito insieme o di per se proponare o partire in consistorio o alcuno consellio e conselglio cosa alcuna per la quale diretamente o indirette si tentasse d’acresciare el reggi-mento alli decti nobili più oltre o di darlo più officii o in altro modo alloro più concedarli del decto reggimento in alcuna parte, pena a qualunque ten-tasse alcuna cosa in contrario di essare admonito in perpetuo, et confiscati tucti e suoi beni; et esso facto contrafacendo s’intenda essare caduto in dicte pene et qualunque consilgliasse che alli decti nobili fusse in alcuna cosa o parte più conceduto inmediate sia et esare s’intenda rebelle del magnifico Comune di Siena […]” Consiglio Generale 229, cc. 234v-235 (1462 giugno 26). Sulla reazione di Pio II alla decisione del governo vedi I Commentarii, lib. IX, pp. 1665-1669.

36 Consiglio Generale 230, cc. 212r-214r (1464 dicembre 19). La divisione dei consorti del pontefice nei tre ‘monti’ popolari fu recepita negli statuti cittadini con provvisione del 22 dicembre 1464: Statuti 40, cc. 143r-v.

37 Definizione data in occasione dell’approvazione di un ufficio liturgico per il defunto pontefice: Consiglio Generale 230, c. 179v-180r (1464 agosto 20).

38 La notizia dell’aggregazione è contenuta in una lettera spedita il 27 set-tembre 1458 ai governanti senesi da Niccolò di Andrea Piccolomini che si trovava a Castel Sant’Angelo: “[…] El santo padre mi mandò in castello Sancto Agnolo alla compagnia d’Antonio suo nipote avisando le Signorie vostre che el Santo Padre gli à fatti della sua chasa cioè de Picholomini et a dì 23 settembre lo comandò levassero via la loro arme et pigliassero la nostra…”: Concistoro 1992 (n. 77).

39 La pratica delle adozioni e delle aggregazioni svolta da Pio II giocò un ruolo fondamentale nell’aumentare il numero dei rami familiari. Le due moda-lità differivano su un punto importante: mentre le adozioni, assai più nu-merose, conferivano la qualifica di ‘Piccolomini estranei’, con facoltà per i beneficiati di aggiungere il cognome e l’arme dei Piccolomini al cognome e allo stemma propri, le aggregazioni attribuivano ai ‘Piccolomini aggregati’ oltre al privilegi del cognome e dello stemma inquartato anche l’onore di partecipare alle assemblee consortili, con prerogative analoghe a quelle dei ‘Piccolomini originari’: si veda Consorteria Piccolomini 32, pp. 27-28.

40 Alla presunta volontà di Enea Silvio Piccolomini di dar vita all’istituto con-sortile fa riferimento una ‘minuta di ricorso per l’estensione del titolo comi-tale’ compilata nel dicembre 1932 ed inviata dai Piccolomini di Siena alla Regia Consulta Araldica di Roma, esistente in Consorteria Piccolomini 1, p. 3; ma nessun appiglio documentario consente per il momento di stabilire una connessione diretta tra Pio II e la nascita della consorteria che compa-re per la prima volta nel testamento di Giacomo redatto nel 1507. Dagli

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articoli contenuti nelle ultime volontà del nipote di Enea Silvio si sa che dopo la morte del testatore la consorteria sarebbe entrata in possesso della parte a lui spettante del “palatium et domum quod et quam ipse testator habet in civitate Senarum, et in terzerio et parrochia Sancti Martini, quod vocatur palatium novum et noviter constructum et non perfectum prope campum fori […] cum apothecis et aliis pertinentiis suis”; della metà del castello di Porrona “cum omnibus iuribus et pertinentiis dicti tentimenti et castri et cum omni genere bestiaminis que tempore mortis predicti testatoris erunt penes laboratores sive mediarios dicti tenimenti […], et cum debitis et creditis et soccitis cum dictis mediariis”; della metà “omnium apotheca-rum quae sunt in civitate Senarum subter loggiam de Piccolominibus […] quae apothecae sunt pro indivisae cum heredibus magnifici domini Andree de Piccolominibus”; e infine di “unam domum sitam in civitate Senarum in tertierio Sancti Martini et in parrochia Sancti Vigilii vocata la Casa del Canto”. Questi beni che non potevano essere alienati se non a favore degli eredi del fratello Andrea o delle figlie del testatore dovevano essere gestiti e amministrati consorzialmente dalla Domo Piccolominea che era tenuta a “manutenere et conservare perpetuo dictum palatium de omnibus rebus op-portunis et necessariis ne tendat ad ruinam”, a “manutenere et conservare loggiam de Piccolominibus […] cum armis et insignibus et seggiis et tectis et omnibus aliis”, a non togliere mai “arma et insignia que sunt in supradicto palatio et in locis Porrone et in supradictis domibus et apothecis”. Le adu-nanze della consorteria fissate dal testatore al fine di amministrare tali beni dovevano comprendere tutti i maschi appartenenti alla famiglia maggiori di 30 anni fatta eccezione per i religiosi degli ordini mendicanti che pronun-ciando il voto di povertà non potevano vantare alcun diritto di proprietà né individuale né collettivo; alcuni uomini scelti nel suo seno dovevano oc-cuparsi di soddisfare i numerosi lasciti che Giacomo aveva disposto; tutte le deliberazioni dovevano essere assunte con maggioranza dei 3/4 ed infine onere della consorteria era fornire assistenza e farsi carico dei “pupilli, vi-due et pauperes de Domo Piccolominea ac etiam familiares prefati domini testatoris qui fuerunt ad eius servitia”. Il testamento rogato il 21 settembre 1507 da Bartolomeo Lucarelli di Monte Rodio notaio di Senigaglia si trova in originale presso l’archivio familiare di Pienza: una edizione a stampa del 1611 in Consorteria Piccolomini 32, n. 20, cc. 1r-17v.

41 I Commentarii, lib. II, p. 315; IV, pp. 665, 677, 687. Troviamo poi ancora ricordato Francesco a cui era stato “affidato in commenda” nel 1461 il ce-nobio di San Martino sul monte Cimino che gli viene richiesto di restaurare [lib. VIII, p. 1613], e due anni dopo in occasione della morte del cardinale Prospero Colonna, cardinale diacono di San Giorgio in Velabro, Pio II sta-bilì che un castello che questi aveva fatto edificare (Lariano nei dintorni di Velletri) fosse consegnato al cardinale di Siena suo nipote (lib. XI, p. 2191).

42 In occasione delle nozze del duca di Amalfi con madonna Maria, figliuola dello serenessimo re Ferdinando, per rispetto al sommo pontefice, e atteso

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la qualità delli contrahenti questo matrimonio, il Consiglio Generale della città decideva l’acquisto di braccia trenta e otto infino a quaranta di drappo d’oro, non passando la somma di ducati dieci in dodici il braccio o veramen-te tanto argento … non passando la somma di ducati quactrocento ottanta in cinquecento. Consiglio Generale 229, cc. 162r e 168r-v (1461 gennaio 22).

43 I Commentarii, lib. V, p. 919; VII, p. 1359; XII, pp. 2387-2391. L’imparentamento con la casa d’Aragona fruttò anche a Giacomo dei van-taggi: con atto del 13 gennaio 1463 Ferdinando re di Sicilia “proprio motu et speciali gratia” gli conferiva in vitalizio una “annuam provisionem” di 1.000 ducati “ad rationem videlicet carlenorum decem pro ducato quoli-bet”. L’atto è conservato presso la Biblioteca Civica di Trieste, in un mano-scritto appartenente al fondo Rossettiano della biblioteca (segnato ms. II, 58).

44 Con atto del 7 febbraio 1464 Antonio faceva dono ai fratelli Giacomo e Andrea delle possessioni che aveva in territorio senese: la casa e i fondaci situati nella parrocchia di San Martino, le case e vigne poste fuori porta Nuova, le possessioni poste “apud Maremmam senensem” con “omnibus bestiis vaccinis et bovinis ac aliis bestiis, nec non fortilitiis, palatiis, domi-bus et molendinis ac aliis iuribus et pertinentiis universis”, tutte le terre e i poderi di Pienza; unica riserva il diritto di poter risiedere nelle proprietà. Il contratto copiato nel libro di Andrea, in Consorteria Piccolomini 17, cc. 4v-6r.

45 Dai Commentari risulta che Pio II cedette Castiglion della Pescaia che aveva avuto da Ferdinando d’Aragona al nipote Antonio il quale in seguito vi rinun-ciò a favore del fratello Andrea: I Commentarii, lib. IV, pp. 763-767. Ma dal contratto di donazione del castello (trascritta in copia nel libro di contratti relativi ai beni di Andrea esistente in Consorteria Piccolomini 17, cc. 1r-4r) si evince invece che Antonio aveva acquistato il 10 marzo 1460 da Ferdinando d’Aragona “terram seu castrum Castilionis de Piscaria [et] insulam et ter-ram sive castrum Gilii, […] et castrum seu tenimentum Rochette situatis in partibus Tuscie iuxta et intra mare, cum suis arcibus et fortilitiis, tenimentis, territoriis, iuribus et pertinentiis universis” al prezzo di 50.000 fiorini d’oro; beni di cui il 14 gennaio 1464 fece dono ad Andrea trasferendo a lui “iure proprio et in perpetuum” tutti i diritti sulle terre e sugli uomini.

46 L’atto di donazione è riportato nel breve di conferma di Pio II, esistente in copia in Consorteria Piccolomini 20. Montemarciano appartenente al Malatesta era stato da questi ceduto a Ferdinando d’Aragona in virtù di lodo dato dal pontefice che obbligava Sigismondo a soddisfare attraverso tale cessione un debito di 50.000 ducati d’oro che aveva verso il re di Napoli. Successivamente il re se ne era disfatto in favore di Antonio che trasferì i suoi diritti di “vassallagium, superioritatem ac merum et mixtum imperium […] in dicto castro Montis Marciani eiusque territorio ac districtu ac in homi-nibus, incolis, habitantibus et personis eiusdem utriusque sexus” al fratello Giacomo; donazione confermata il 1 febbraio 1463 dal pontefice.

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47 Camporselvoli nella diocesi di Chiusi, a mezza strada tra Cetona e San Casciano dei Bagni, passò nel 1432 nelle mani dei pontefici romani: Pio II concesse il castello in vicariato perpetuo a Giacomo e Andrea con bolla spedita da Pienza il 9 settembre 1462. L’investitura del feudo ecclesiastico nonché l’attribuzione del titolo di vicari apostolici comportava l’esercizio di importanti prerogative come emerge dal testo della bolla: “[…] vicariatum castri Camporselvoli […] haberi volumus cum mero et misto imperio nec non cum potestate erigendi […] castrum sive fortilitium unum vel plura quotiens videbitur liberi nulla etiam romani pontificis licentia requisita et in ipso castro homines ponendi qui eius vassalli dicantur cum eius posses-sionibus, iurisdictionibus, dominio nec non pratis, terris, nemoribus, fructi-bus, introitibus, proventibus, emolumentis, iuribus, territoriis et districtibus, campis, aquarum ductibus, venationibus et cum aliis pertinentiis universis vobis coheredibus et successoribus vestris […] perpetuo tenendum, regen-dum, gubernandum, possidendum auctoritate apostolica tenore presentium donamus […]”. In cambio della concessione gli investiti e i loro eredi e suc-cessori erano tenuti a pagare alla camera apostolica ogni anno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo apostoli, una tazza d’argento del valore di 10 ducati d’oro; la leggerezza del canone era compensata dalla gravità della sanzione per il mancato adempimento dell’onere: nel caso di insolvenza si prevedeva la scomunica e la decadenza dalla signoria (copia della bolla in Consorteria Piccolomini 38). Il privilegio venne ribadito da Pio II con un altro decreto emanato da Bagni a Petriolo il 20 aprile 1464 in cui oltre a confermare l’investitura ai “dilectis filiis nobilibus viris Jacobo et Andree Piccolominibus […] nepotibus nostris” con diritto di passaggio di detto vi-cariato alla loro linea maiorasca, il pontefice stabiliva che nel caso in cui le linee dei discendenti maschi legittimi di Giacomo e Andrea fossero venute meno il castrum e suo distretto passassero al Popolo e al Comune di Siena [copia della bolla in Capitoli 5, cc. 144v-145r; Consorteria Piccolomini 39, nn. 2 e 40 (n. 10)]. Giacomo ed Andrea presero possesso effettivo di Camporselvoli nel corso del 1464 come risulta da una ricevuta del camar-lengo della camera apostolica datata 21 giugno la quale attesta oltre al pagamento della tazza d’argento che il dominio sul castello era passato agli investiti [Consorteria Piccolomini 40 (n. 24)].

48 Con bolla del 18 luglio 1463 Pio II donava ai “dilectis filiis et secundum carnem nepotibus nostris nobilibus viris Antonio duci amalphitano, Jacobo et Andree de Piccolominibus […] palatium nostrum quod nuper in civitate pientina agri senensis in fundo paterno destructa domo que ibi prius erat iuxta illius ecclesiam cathedralem […] ereximus, cum horto seu viridario, nec non stabulis et domo mole olearia atque aliis pertinentiis suis”. La bolla in copia in Consorteria Piccolomini 47 (n. 38). Per la descrizione del palaz-zo si veda il suggestivo passo de I Commentarii, lib. IX, pp. 1747-1757.

49 Con bolla data in Pienza il 28 agosto 1462 Pio II riservò il patronato attivo sulla chiesa cattedrale pientina ai quattro fratelli; in mancanza di una loro discendenza maschile tali diritti sarebbero dovuti passare alle femmine pur-

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ché maritate con maschi di casa Piccolomini. Nella bolla si stabiliva che il nuovo ordinario della diocesi dovesse chiedere licenza per potersi insediare nel vescovato; che i patroni avessero facoltà di eleggere insieme al vescovo il sagrestano della cattedrale; che per qualunque alienazione dei beni della mensa vescovile fosse necessario il loro consenso; che essi avessero facoltà di partecipare insieme al capitolo della cattedrale all’elezione del camarlen-go dell’Opera; che potessero nominare ogni anno due cittadini di Pienza in operai della metropolitana da affiancare al camarlengo. La bolla in copia in Consorteria Piccolomini 47 (n. 3) e 51 (n. 1). Sulla creazione della diocesi vedi I Commentarii, lib. VIII, pp. 1577-1581; Polverini Fosi, La diocesi di Pienza, 1990, pp. 411-446.

50 Vedi supra, nota 1.51 Il movimento di acquisti e permute che rinsaldò i possessi fondiari del ni-

pote di Pio II, procedette grazie al favore e alla mediazione di esponenti del clero senese (controparte interessata fu spesso l’arcivescovado, il capitolo dei frati di Monte Oliveto e quello di Pontignano), grazie ad accordi inter-venuti con l’Ospedale cittadino di Santa Maria della Scala (che aveva cedu-to i diritti giurisdizionali su Castelrozzi); grazie all’erosione dei patrimoni di famiglie senesi (i Tolomei, antichi signori di Porrona, gli Accarigi, i Bichi, i Massaini, i Saracini, i Petroni, gli Elci) che avevano alienato quote dei loro beni al Piccolomini, e procedette infine a danno di altre linee del casato che forse sull’onda di difficoltà finanziarie trovarono opportuno o necessario alienare i loro possessi: Consorteria Piccolomini 17, passim.

52 Il 29 luglio 1474 Andrea comprava da Lionello di Checco Ragnoni, “mi-les”, l’ottava parte “pro indiviso” del mulino al prezzo di 140 fiorini d’oro. Il 7 luglio 1475 procedeva a una permuta con l’arcivescovado scambian-do il mulino con alcune terre nella “contrata de Castelruozi” (Consorteria Piccolomini 17, cc. 27v-28r, 19r-v).

53 Il 9 febbraio 1476 Andrea comprava da Buonaventura di Agostino Borghesi un pezzo di terra a Bibbiano al prezzo di 22 lire di denari (Consorteria Piccolomini 17, c. 32v); il 30 maggio 1476 comprava nella stessa comunità da Giacomo e Matteo Bichi un terreno lavorativo e sodo di 19 staiori al prezzo di 130 fiorini; il 16 luglio un altro terreno al prezzo di 3 ducati (Consorteria Piccolomini 17, c. 22v, 35r-36v).

54 L’ampliamento della proprietà in Valdarbia avvenne grazie agli acquisti di alcune terre fatte da Massaino di Goro Massaini il 2 luglio 1476 al prezzo di 138 fiorini d’oro (Consorteria Piccolomini 17, c. 36v-38r) e da Alberto Aringhieri frate dell’ospedale di San Giovanni Gerosolimitano nell’aprile 1478 al prezzo di 140 fiorini (Consorteria Piccolomini 17, cc. 38v-43r).

55 L’ospedale Santa Maria della Scala decise il 17 giugno 1470 di vendere “fortilitium Castri Ruozi cum possessionibus et molendino” vicino a Buonconvento, al prezzo di 6.000 fiorini d’oro; il 10 agosto il Comune autorizzava l’alienazione a favore del “generoso militi domino Andree de Piccolominibus” che ne entrò in possesso il 25 di quel mese (Consorteria Piccolomini 17, cc. 9r-22v e 58r-60v).

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56 Consorteria Piccolomini 17, c. 76v-77v (1494, gennaio 22), cc. 77v-78r (1494 gennaio 28), cc. 78v-80r (1494 gennaio 23), c. 80v (1496 novembre 9), c. 81 (1497 aprile 6).

57 Fra 1435 e 1499 sono circa 36 i contratti di acquisto di beni localizzati nella corte di Pienza: vedi Consorteria Piccolomini 17, cc. 62v-63v e cc. 1r-45v (nuova numerazione nella II parte del libro). Un elenco dei beni anche nell’atto della divisione dei beni fra Giacomo ed Andrea: c. 53v-57v.

58 La possessione fu comprata nel novembre 1489 da Ambrogio di Lorenzo Luti: Consorteria Piccolomini 17, cc. 65v-66r. Nel marzo dell’anno succes-sivo comprò dai frati di Monteoliveto una casa nello stesso luogo al prezzo di 75 lire (Consorteria Piccolomini 17, cc. 68v-69r).

59 Consorteria Piccolomini 17, cc. 61v-62r (1488 novembre 17), c. 66v-67r (1489 marzo 2), c. 70 (1492 marzo 27), c. 71r-72r (1492 aprile 9), c. 72v-73r (1492 agosto 21), c. 73v-74r (1492 dicembre 22), c. 74v (1492 gennaio 19), cc. 75 (1493 aprile 15), c. 82r-83r (1498 aprile 6), c. 83v-84r (1499 luglio 27), c. 84v-85r (1499 gennaio 8).

60 L’acquisizione della tenuta di Porrona da parte della famiglia avvenne in due fasi nel corso del 1460. In una denuncia registrata tra i contratti di Gabella in data 15 marzo il notaio rendeva noto che Antonio di Nanni Piccolomini a nome proprio e dei fratelli Giacomo e Andrea aveva acquistato da Baldo di Giacomo Tolomei e nipoti i 2/3 delle case, terre e castello di Porrona ed una quota analoga dei possedimenti contigui di Lentischi, Castiglioncello e Pozzuolo – già da tempo incorporati alla tenuta – al prezzo di 9.000 fiorini. Il successivo 4 agosto lo stesso notaio annotava che Andrea e fratelli aveva-no stipulato un secondo contratto di compravendita con i canonici regolari di Santa Maria degli Angeli presso porta Nuova di Siena in virtù del quale erano entrati in possesso dell’altro terzo del castello, per il prezzo di 5.500 fiorini. Le due transazioni furono confermate da altrettanti deliberazioni del Consiglio Generale. Nel 1463 Antonio rinunciò contestualmente ai diritti di patronato sulla chiesa parrocchiale di San Donato di Porrona, anche alla proprietà della sua quota. La documentazione inerente il castello è in Consorteria Piccolomini 95 (n. 3) e 96, cc. 17r-v, 21r-v, 23r-v, 25r-v, 27r. La tenuta del castello fu spartita fra Giacomo e Andrea il 9 ottobre 1480 nel quadro della divisione dei beni detenuti in comune fra i due, tra cui il palazzo urbano: Consorteria Piccolomini 17, cc. 53v-57v.

61 Il testamento era stato rogato il 10 settembre 1505: Consorteria Piccolomini 17, c.87v- 91v: impressionante viaggio nella ricchezza di Andrea.

62 Lira 160, c. 206r.63 Alcuni risultati dell’analisi della ricchezza familiare condotta sulle Lire del

1453 e 1465 in Mucciarelli, Dal ‘banco’ al podere, in corso di stampa; e Idem, I Piccolomini di Siena, pp. 373-408 e 466-469. Le denunzie di Laudomia e Caterina in Lira 160, cc. 105 e 130; Lira 156, c. 19.

64 Lira 162, c. 112r.65 Lira 160, c. 206r.

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66 Lira 160, c. 30r.67 Lira 160, c. 194r.68 La citazione di Pietro Leopoldo tratta dalle Relazioni sul governo della

Toscana è in Ascheri, La nobiltà e la riforma, 1995, p. 125.69 La chiusura, la pregnanza del possesso fondiario, le funzioni e gli incari-

chi svolti in città sono tra gli elementi caratterizzanti la nobiltà senese fra Settecento e Ottocento a cui hanno dedicato la loro analisi Detti, Pazzagli, Le famiglie nobili senesi, 1994. Sul ‘declino’ delle famiglie nobiliari negli anni 1560-1779 inteso sia in senso demografico sia come crollo numerico dell’élite politicamente attiva si veda Baker, Nobiltà in declino, 1972, pp.

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ABBREVIAZIONI

Nel testo utilizzo un sistema di abbreviazioni, qui di seguito riportato.

Abbondanza = Archivio di Stato di Siena, AbbondanzaArchivio Tolomei = Archivio di Stato di Siena, Archivio TolomeiBalia = Archivio di Stato di Siena, BaliaBiccherna = Archivio di Stato di Siena, BicchernaCaleffo Vecchio = Il Caleffo Vecchio del Comune di Siena, a cura di G. Cecchini, Siena, Arti grafiche Lazzeri, 3 voll., 1931-1940; a cura di M. Ascheri, A. Forzini, C. Santini, 4 voll., Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1984 (Fonti di storia senese)Capitano del Popolo = Archivio di Stato di Siena, Capitano del PopoloCapitoli = Archivio di Stato di Siena, CapitoliI Commentarii = Piccolomini E.S. (Pio II), I Commentarii, a cura di L. Totaro, 2 voll., Milano, Adelphi, 1984 (Classici, 47)Concistoro = Archivio di Stato di Siena, ConcistoroConsiglio Generale = Archivio di Stato di Siena, Consiglio GeneraleConsorteria Piccolomini = Archivio di Stato di Siena, Consorteria PiccolominiConventi = Archivio di Stato di Siena, ConventiCronaca senese di Agnolo = Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso detta la Cronaca Maggiore, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XV, parte VI, Bologna, Zanichelli, 1931-1939, pp. 255-564.Cronaca senese di autore anonimo = Cronaca senese dall’anno 1202 al 1362 con aggiunte posteriori fino al 1391 di autore anonimo della metà del secolo XIV, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XV, parte VI, Bologna, Zanichelli, 1931-1939, pp. 41-161.Cronaca senese di Donato di Neri = Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XV, parte VI, Bologna, Zanichelli, 1931-1939, pp. 569-685.Cronaca senese di Paolo Montauri = Cronaca senese conosciuta sotto il nome di Paolo di Tommaso Montauri, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XV, parte VI, Bologna, Zanichelli, 1931-1939, pp. 179-252 e 689-835.Cronaca senese di Tommaso Fecini = Cronaca senese di Tommaso Fecini 1431-1479, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Jacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XV, parte VI, Bologna, Zanichelli, 1931-1939, pp. 841-874.Curia del Campaio = Archivio di Stato di Siena, Curia del CampaioDiplomatico Alberti = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Reale Acquisto Alberti

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Diplomatico Archivio Generale = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Archivio Generale dei ContrattiDiplomatico Bichi = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Legato Bighi BorghesiDiplomatico Bigazzi = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Reale Acquisto BigazziDiplomatico Consorteria Piccolomini = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Consorteria PiccolominiDiplomatico del Carmine = StaatsBibliothek Preussischer Kulturbesitz zu Berlin, Diplomatico Santa Maria del CarmineDiplomatico di Passignano = Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Monastero di PassignanoDiplomatico Giustini = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Reale Acquisto GiustiniDiplomatico Opera Metropolitana = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Opera MetropolitanaDiplomatico Piccolomini Clementini = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Piccolomini ClementiniDiplomatico Ricci = Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico Reale Acquisto RicciDiplomatico San Domenico = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Patrimonio Resti Ecclesiastici di San DomenicoDiplomatico San Francesco =Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Padri Conventuali San FrancescoDiplomatico San Gimignano = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Comune di San GimignanoDiplomatico San Leonardo = StaatsbiBliothek Preussischer Kulturbesitz zu Berlin, Diplomatico San Leonardo al LagoDiplomatico San Paolo = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico San Paolo di SienaDiplomatico San Salvatore = StaatsbiBliothek Preussischer Kulturbesitz zu Berlin, Diplomatico San Salvatore di LeccetoDiplomatico Sant’Agostino = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Sant’Agostino di SienaDiplomatico Sant’Eugenio = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Sant’Eugenio di SienaDiplomatico Santa Maria = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Ospedale Santa Maria della ScalaDiplomatico Santa Petronilla = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Santa PetronillaDiplomatico Tolomei = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico TolomeiDiplomatico Trafisse = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Trafisse di SienaDocumenti della Triana = Archivio palazzo Piccolomini di Pienza, Documenti della Triana

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Estimo = Archivio di Stato di Siena, EstimoGabella = Archivio di Stato di Siena, GabellaLettere di Piccolomini = Archivio palazzo Piccolomini di Pienza, Lettere di Piccolomini ai Priori e Governatori di SienaLibri di Biccherna = I Libri dell’Entrata e dell’Uscita della Repubblica di Siena detti del Camarlingo e dei Quattro Provveditori della Biccherna, regg. 1-25 a cura della Direzione del Reale Archivio di Stato di Siena, Siena, 1914-1942; regg. 26 e 28 a cura di S. De Colli, Roma, 1961 e 1965; reg. 27 a cura di U. Morandi, Roma, 1963; reg. 29 a cura di S. Fineschi, Roma, 1969; reg. 30 a cura di G. Catoni, Roma, 1970Lira = Archivio di Stato di Siena, LiraNotarile = Archivio di Stato di Siena, Notarile AntecosimianoMemorie =Archivio di Stato di Siena, Ospedale Santa Maria della Scala, Eredità, 1188Piccolomini Clementini = Archivio di Stato di Siena, Piccolomini ClementiniRiformagioni = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico RiformagioniRiformagioni Massa = Archivio di Stato di Siena, Diplomatico Riformagioni MassaStatuti = Archivio di Stato di Siena, Statuti di Siena

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INDICE DELLE FONTI UTILIZZATE

Archivio di Stato di Siena

Balia, Deliberazioni 9 (1458 ap.14-1456 giu.4); 10 (1458 ap.14-1458 ott.27)

Biccherna, Entrata e Uscita 111 (1295 gen.-giu.), 127 (1314 lug.-dic.), 133 (1317 gen.-giu.), 135 (1318 lug.-dic.), 140 (1321 gen.-giu.), 165 (1330 gen.-giu.), 176 (1333 gen.-giu.), 181 (1334 lug.-dic.), 183 (1335 lug.-dic.), 191 (1338 gen.-giu.), 209 (1341 lug.-dic.), 213 (1343 lug.-dic.), 217 (1345 lug.-dic.), 219 (1346 gen.-giu.), 224 (1349 gen.-giu.), 226 (1350 gen.-giu.), 230 (1352 lug.-dic.); Banditi e carcerati 725 (1270 lu-1296 giu.), 731 (1321 apr.-1321 lug.)

Capitano del Popolo 1

Capitoli 3 (Caleffo Nero: 1266-1427); 4 (Caleffo Rosso: 1390-1440); 5 (Caleffetto: 1290-1803); 81 (1369); 101 (1389); 180 (1459 aprile 30)

Concistoro, Deliberazioni 2 (1347 nov.1-1347 dic.31); 3 (1351 set.1-1351 ott.31); 6 (1356 mar.1-1356 apr.29); 14 (1359 mar.1-1359 apr.28); 18 (1360 gentile.1-1360 feb.29); 22 (1362 mar.1-1362 apr.30); 24 (1362 lug.1-1362 ago.27); 50 (1368 nov.1-1368 dic.30); 51 (1369 mag.1-1369 giu.30); 52 (1369 lug.1-1369 ago.31); 53 (1370 gentile.1-1370 feb.26); 54 (1370 mar.1-1370 apr.30); 55 (1370 mag.1-1370 giu.28); 63 (1372 gentile.1-1372 feb.29); 82 (1376 nov.5-1376 dic.31); 83 (1377 gentile.1-1377 feb.28); 89 (1378 gentile.1-1378 feb.28); 97 (1379 mag.1-1379 giu.30); 122 (1384 mag.1-1384 giu.30); 126 (1385 mar.23-1385 giu.30); 129 (1385 nov.1-1385 dic.31); 134 (1386 nov.1-1386 dic.31); 138 (1387 lug.1-1387 ago.31); 144 (1388 lug.1-1388 ago.31); 147 (1389 gentile.1-1389 feb.28); 148 (1389 mar.1-1389 apr.30); 183 (1395 gentile.1-1395 feb.28); 186 (1395 lug.1-1395 ago.31); 459 (1442 lug.1-1442 ago.31); 589 (1464 nov.1.1464 dic.31); Carteggio 1774 (1355 nov.24-1365 nov.29); 1776 (1367 ott.2-1368 dic.24); 1777 (1368 dic.25-1369 giu.30); 1778 (1369 lug.1-1370 mar.23), 1780 (1371 gentile.9-1371 mar.24)); 1992 (1458 mar.25-1458 ott.31); 1993 (1458 nov.1-1459 mar.24); 1995 (1459 ago.11-1459 ott.31); 1996 (1459 nov.2-1460 mar.22); Scritture Concistoriali - Ufficiali sopra l’Ornato - 2125 (1427-1480); Scritture Concistoriali - Particolari - 2141 (1406-1413); 2146 (1435-1437); 2154 (1460-1463); Legazioni e Commissarie 2401 (1355 giu.22-1360 nov. 30); 2402 (1360 ott.20-1363 ago.31); 2403 (1363 mag.11-1373 giu.16); 2404 (1375 nov.1-1385 mar-zo); 2405 (1386 apr.26-1403 dic.31); Legazioni e Commissarie - Libro del-le notule o istruzioni agli ambasciatori - 2416 (1453 gentile.31-1475 nov.4); Stipendiati, spie e alloggiamenti 2477 (1459 gentile.1-1460 mag.29); 2478 (1460 gentile.10-1460 ott.15).

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Consiglio Generale, Deliberazioni 12 (1265 dic.12-1270 apr.26); 13 (1270 ago.14-1271feb.28); 14 (1271 feb 23-1271 dic.6); 16 (1272 dic.16-1273 giug.30); 18 (1273 dic. 12-1274 giug. 28); 21 (1276 nov. 5-1277 giu.30); 22 (1278 lug.-1278 dic. 31); 34 (1287 lug.2-1287 dic.28); 37 (1289 gentile. 17-1289 giu.13); 39 (1290 gentile. 7-1290 giu.30); 43 (1291 dic. 8-1292 giu.21); 50 (1296 giu.16-1296 dic.31); 52 (1297 giu.7-1297 dic. 30); 70 (1306 dic.8-1307 giu.29); 71 (1307 lug.8-1307 dic.24); 72 (1307 dic. 7-1308 giu.29); 74 (1308 dic. 7-1309 giu.27); 75 (1309 giu.6-1309 dic.30); 79 (1311 giu. 7-1311 dic.24); 80 (1311 dic. 8-1312 giu. 30); 81 (1312 giu.8-1312 dic. 31); 85 (1314 dic.2-1315 giu.25); 86 (1315 lug.3-1315 dic.29); 87 (1316 lug.1-1316 dic.28); 89 (1317 giu.22-1317 dic.30); 90 (1317 dic.22-1318 giu.28); 91 (1318 giu.21-1318 dic.23); 93 (1319 dic.22-1320 giu.25); 102 (1325 giu.21-1325 dic.24); 107 (1329 gentile.3-1329 giu.30); 113 (1332 dic.28-1333 giu.30); 119 (1336 lug.5-1336 dic.24); 121 (1337 lug.4-1337 dic.30); 124 (1339 gentile.4-1339 giu.29); 129 (1341 lug.6-1341 dic.21); 131 (1342 lug.3-1342 dic.23); 137 (1345 lug.6-1345 dic.30); 140 (1347 gentile.12-1347 giu.29); 142 (1348 gentile.4-1348 giug.2); 144 (1349 gentile.4-1349 giu.29); 148 (1351 gentile.4-1351 giu.28); 150 (1352 gentile.6-1352 giu.26); 152 (1353 gentile.9-1353 giu.30); 155 (1355 gentile.2-1355 giu.16); 156 (1355 lug.2-1355 dic.30); 170 (1363 gentile.4-1363 dic.31); 171 (1364 gentile.3-1364 dic.18); 172 (1365 gen.3-1365 giu.30); 174 (1366 gentile.3-1366 giu.29); 175 (1366 lug.3-1366 dic.30); 177 (1367 lug.5-1367 dic.30); 179 (1369 gentile.3-1369 dic.30); 180 (1370 gentile.3-1370 dic.25); 181 (1371 gentile.5-1371 dic.21); 194 (1384 feb.3-1385 feb.24); 195 (1385 mag.14-1387 mar.21); 196 (1387 mar.25-1391 mar.22); 198 (1396 gentile.11-1399 apr.27); 212 (1427 apr.12- 1428 mar.20); 218 (1434 apr.6-1436 mar.20); 224 (1447 mag.1-1450 mar.10); 227 (1455 mar.6-1457 apr.25); 228 (1457 mag.2-1460 dic.26); 229 (1461 gentile.1-1463 giu.24) 230 (1463 lug.1-1465 giu.28); 231 (1465 lug.7-1467 giu.30).

Consorteria Piccolomini 1-158: 1-24 Memorie e contratti; 30-37 Cause e liti; 38-40 Camporsevoli; 41-43 Palazzi; 44-467 Patronati e canonicati; 92-158 Porrona.

Conventi 161-163 (Caleffi di San Galgano)

Diplomatico: ProvenienzeArchivio Generale dei Contratti; Consorteria Piccolomini; Convento di Sant’Agostino; Legato Bichi Borghesi; Opera Metropolitana; Ospedale Santa Maria della Scala; Padri conventuali san Francesco; Patrimonio Resti Ecclesiastici di San Domenico; Piccolomini Clementini; Reale Acquisto Alberti; Reale Acquisto Bigazzi; Reale Acquisto Giustini; Riformagioni; Riformagioni Città di Massa; San Paolo; Sant’Eugenio di Siena; Tolomei; Trafisse di Siena.

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Estimo 112 (Pantaneto); 113 (Pozzo San Martino); 114 (Porrione); 116 (San Maurizio di dentro a lato della Chiesa); 118 (Sant’Angelo a Montone); 121 (Rialto).

Gabella Denunzie di Contratti 35-44 (1310-1324)

Lira Libri degli imponibili 57; 60; 61; Denunzie 144, 156, 158, 160, 161, 162, 163 (1453 e 1465)

Notarile a.c 45 (Guccio di Vencino:1337-1368); 68-84 (Francesco di Pietro: 1343-1379); 99-124 (Cristoforo di Gano: 1360-1409); 175-179 (Giovacchino di Ambrogio Piccolomini:1365-1399); 182-205 (Cenni di Manno di Giovanni: 1367-1408); 219 (Biagio di Cecco di Landino: 1376-1381); 244-247 (Cino di ser Guido: 1394-1398)

Piccolomini Clementini 761

Statuti di Siena 3 (1274-1282); 23 (1323-1338); 26 (1337-1355); 28 (1343); 40 (1419-1554).

Archivio di Stato di Firenze

Diplomatico, ProvenienzeDiplomatico Monastero di Passignano; Diplomatico Reale Acquisto Ricci

Palazzo Piccolomini Pienza

Documenti della Triana (1388-1823)Lettere di Piccolomini ai Priori e Governatori di Siena (1349-1701)

Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, Berlino

Diplomatico, ProvenienzeSanta Maria del Carmine; San Leonardo al Lago; San Salvatore di Lecceto

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INDICE DEI MANOSCRITTI

Attendenze d’Antichità al vescovado, allo studio, allo stato ed a gentilhiomini di Siena, Archivio di Stato di Siena, ms. D 131.A. Berlinghieri, Della nobiltà senese, Archivio di Stato di Siena, ms. A 2.G. Bichi, Catalogo e serie de’ Consoli di Mercanzia riseduti nel Magistrato detto degli Offitiali di Mercanzia, 1725, Archivio di Stato di Siena, ms. A 99.G. Bichi, Catalogo del magistrato de’ Quattro Proveditori della General Biccherna, 1725, Archivio di Stato di Siena, ms. A 87.G. Bichi, Catalogo de’ riseduti nel magistrato degli Esecutori di Gabella, 1725, Archivio di Stato di Siena, ms. D. 88.G.G. Carli, Notizie della nobiltà sanese, 1750, Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, ms. C.VI.2, cc. 41-108.C. Cittadini, Della nobiltà civile di Siena, discorso del signor Celso Cittadini, 1618, Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, ms. C.V.24.Copie cavate dal volume terzo e quarto del Memoriale Istorico di Casa Piccolomini, cioè contratti e istrumenti de’ secoli XI, XII, XIII e XIV, Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, ms. B.VI.18.Croniche di Giovanni Bisdomini copiate nei mesi di maggio e giugno 1718 da Tommaso Mocenni prete senese per ordine del signor abbate Galgano de’ Bichi, 1718, Archivio di Stato di Siena, ms. D 36.Indice delle Riformagioni di Siena contenente le Deliberazioni del Concistoro, 1778, Archivio di Stato di Siena, ms. C 10-12 bis.Indice delle Riformagioni di Siena contenente le Deliberazioni del Consiglio Generale, 1778, Archivio di Stato di Siena, ms. C 1-2.G. Manenti, Scompartimento delle parrocchie e contrade della città di Siena, fatto terzo per terzo nell’anno 1318 in occasione della lira o presta imposta su’ beni stabili esistenti nella città e territorio Sanese, 1718, Archivio di Stato di Siena, ms. C 46.G. Manenti, Raccolta di denunzie di contratti di matrimoni tanto fra persone nobili sanesi come fra detti nobili e persone straniere fatta a riguardo delle fa-miglie esistenti nel 1714, 1714, Archivio di Stato di Siena, ms. A 58.Manoscritti piccolominei antichi, Biblioteca Civica di Trieste, fondo Rossettiano, ms. II 8, 22, 33, 34, 35, 36, 40, 44, 45, 48, 51, 56, 58.G. Pecci, Compendio de’ contratti sciolti esistenti nell’Archivio di Santa Maria della Scala di questa città di Siena, 1754, Archivio di Stato di Siena, ms. B 65.G. Pecci, Spoglio della Gabella dei Contratti, Archivio di Stato di Siena, ms. C 14.A. Sestigiani, Spoglio dei contratti sciolti in carta pecora che si conservano nel convento de’ molto reverendi padri di San Domenico di Campo Regio di Siena, 1702, Archivio di Stato di Siena, ms. B 72.Spoglio del Diplomatico Reale Acquisto Bigazzi, Archivio di Stato di Siena, ms. B 72, cc. 1r-34r.

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Spoglio dei documenti della famiglia Bichi, Archivio di Stato di Siena, ms. B 25, B 95.Spoglio del Diplomatico Convento San Domenico, Archivio di Stato di Siena, ms. B 55-56.Spoglio delle pergamene del convento San Francesco, Archivio di Stato di Siena, ms. B 38, cc. 315r-576r.Spoglio del Diplomatico Archivio Generale dei Contratti, Archivio di Stato di Siena, ms. B 65; 67.

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INDICE DELLE OPERE CITATE1

A che punto è la storia delle donne in Italia, a cura di A. Rossi-Doria, Roma 2003.Acta Sanctorum Martii, thomus III, ed. J. Bollandus, G. Enichenius, D. Peperbrochius, Venetiis 1736.D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990 (ed. orig. 1988).C.M. Ady, Pius II (Aeneas Silvius Piccolomini) the humanist Pope, Londra 1913.I. Ait, Aspetti del mercato del credito a Roma nelle fonti notarili, in Alle origi-ni della nuova Roma. Martino V (1417-1431), Atti del convegno (Roma, 2-5 marzo 1992), a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma 1992, pp. 479-500.M. Aime, Eccessi di culture, Torino 2004.G. Airaldi, Roberto S. Lopez: un ritratto, introduzione a R.S. Lopez, Benedetto Zaccaria ammiraglio e mercante nella Genova del Duecento, Firenze 1996, pp. vii-xxiv.L.B. Alberti, Libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino 1969.G. Albertoni, Alla ricerca del miglior cavaliere del mondo. Riflessioni su alcu-ne ricerche di Georges Duby dedicate a nobiltà e cavalleria in Francia tra il X e il XIII secolo, in Medioevo e oltre. Georges Duby e la storiografia del nostro tempo, a cura di D. Romagnoli, Bologna 1999, pp. 119-136.Alighieri Dante, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Firenze 1979, 3 voll.A. Allegretti, Diari delle cose sanesi del suo tempo (1450-1496), in Rerum Italicarum Scriptores, t. XXIII, Milano 1733, pp. 767-860.M. Angelini, L’invenzione epigrafica delle origini familiari (Levante Ligure, secolo XVIII), in “Quaderni Storici” 93 (1996), pp. 653-680.G. Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di Maria Bellonci, rela-zione presentata al convegno “Narrare la storia. Dal documento al racconto” (Mantova, 22-24 novembre 2002) a cura di A. Barbero, in corso di stampa.A. Arcangeli, Gli istituti del diritto commerciale nel costituto senese del 1310, in “Rivista del diritto commerciale”, IV (1906), pp. 243-255, 331-371.G. Arias, I banchieri italiani e la Santa Sede nel XII secolo: linee della storia esterna, in Studi e documenti di storia del diritto, Firenze 1901, pp. 75-113.G. Arias, I trattati commerciali della repubblica fiorentina, in Studi e docu-menti di storia del diritto, Firenze 1901, pp. 388-420.P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Roma-Bari 1981 (ed. orig. 1973).

1 L’Indice è comprensivo anche delle fonti edite.

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P. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari 1979, (ed. orig. 1977).Arte e Assistenza a Siena. Le copertine dipinte dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, Catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala, 7 marzo - 31 agosto 2003), Pisa 2003.E. Artifoni, La “coniunctio et unitas” astigiano-albese del 1223-1224. Un esperimento politico e la sua efficacia nella circolazione di modelli istituzionali, in “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, LXXVIII (1980), pp. 7-52.E. Artifoni, Una società di “popolo”. Modelli istituzionali, parentele, aggre-gazioni societarie e territoriali ad Asti nel XIII secolo, in “Studi Medievali”, serie 3, XXIV, II (1983), pp. 545-616.E. Artifoni, Tensioni sociali e istituzioni nel mondo comunale, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, dir. N. Tranfaglia, M. Firpo, II, Il Medioevo, 2 Popoli e strutture politiche, Torino 1986, pp. 461-491.E. Artifoni, I podestà professionali e la fondazione retorica della politica co-munale, in “Quaderni Storici”, 63 (1986), pp. 687-719.E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli 1990.E. Artifoni, Sull’eloquenza politica nel Duecento italiano, in “Quaderni Medievali”, 35 (1993), pp. 57-78.E. Artifoni, Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Atti del convegno (Trieste, 2-5 marzo 1993), a cura di P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 157-182.M. Ascheri, Istituzioni politiche, mercanti e Mercanzie: qualche considerazio-ne dal caso di Siena (secoli XIV-XV), in Economia e corporazioni. Il governo degli interessi nella storia d’Italia dal medioevo all’età contemporanea, a cura di C. Mozzarelli, Milano 1988, pp. 41-55.M. Ascheri, La nobiltà e la riforma delle istituzioni comunali a Siena, in L’ordine di Santo Stefano e la nobiltà toscana nelle riforme municipali sette-centesche, Atti del convegno (Pisa, 12-13 maggio 1995), Pisa 1995.M. Ascheri, Siena nel Rinascimento: dal governo di “Popolo” al governo no-biliare, in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento (cfr.), 1987, pp. 405-430.M. Ascheri, Siena nel Rinascimento: istituzioni e sistema politico, Siena 1985.M. Ascheri Stato, territorio e cultura nel Trecento: qualche spunto da Siena, in La Toscana nel secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale, a cura di S. Gensini, Pisa 1988, pp. 165-181.M. Ascheri, D. Ciampoli (a cura di) Siena e il suo territorio nel Rinascimento, Siena 1986.M. Ascheri, D. Ciampoli, Il distretto e il contado nella Repubblica di Siena: l’esempio della Val d’Orcia nel Quattrocento, in La Val d’Orcia nel medioevo

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(cfr.), 1990, pp. 83-111.G. Astuti (a cura di), Il libro dell’entrata e dell’uscita di una compagnia mercan-tile senese del secolo XIII (1277-1282), Torino 1934.L. Auvray, S. Vitte-clemencet, L. Carolus-Barre (a cura di), Les registres de Grégoire IX. Recuil des bulles de ce pape publiées ou analysées d’aprés les manuscrits originaux du Vatican, Paris 1890-1955, 4 voll.G.R.F. Baker, Nobiltà in declino: il caso di Siena sotto i Medici e gli Asburgo-Lorena, in “Rivista storica italiana”, LXXXIV, 3 (1972), pp. 584-616.D. Balestracci, ‘Li lavoranti non cognosciuti’. Il salariato in una città me-dievale (Siena 1340-1344), in “Bullettino Senese di Storia Patria”, LXXXII-LXXXIII (1975-1976), pp. 67-157.D. Balestracci, Alcune considerazioni su miniere e minatori nella società toscana del tardo medioevo, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ’500 e ’900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, Firenze 1984, pp. 19-35.D. Balestracci, Le armi, i cavalli, l’oro. Giovanni Acuto e i condottieri nell’Ita-lia del Trecento, Roma-Bari 2003.D. Balestracci, G. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e strutture edilizie, Firenze 1977.D. Balestracci, G. Piccinni, L’ospedale e la città, in Lo Spedale di Santa Maria della Scala in Siena. Vicenda di una committenza artistica, a cura di D. Gallavotti Cavallero, Siena 1985, pp. 21-42.L. Banchi, La Lira, la Tavola delle possessioni e le preste nella Repubblica di Siena, in “Archivio Storico Italiano”, VII, parte II (1868), pp. 53-86.L. Banchi, Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV e pubblicati senso i testi del R. Archivio di Stato in Siena, III: Statuto dello Spedale di Siena, Bologna 1871.L. Banchi, I rettori dello Spedale di Santa Maria della Scala di Siena, Bologna 1877L. Banchi, Gli ordinamenti economici dei comuni toscani nel Medioevo e se-gnatamente del Comune di Siena, in “Atti della Regia Accademia dei Fisiocritici di Siena”, s. III, vol. II (1881), pp. 11-80.Banchieri e mercanti di Siena, Roma 1987.A. Barbero, Un’oligarchia urbana. Politica ed economia a Torino fra Tre e Quattrocento, Roma 1995.A. Barbero, C. Frugoni, Dizionario del medioevo, Roma-Bari 1994.A. Barbero, Carlo Magno: un padre dell’Europa, Roma-Bari 2000.A. Barlucchi, Il contado senese all’epoca dei Nove. Asciano e il suo territorio tra Due e Trecento, Firenze 1998.A. Barlucchi, Il credito alle comunità rurali, in L’attività creditizia (cfr.), pp. 105-118.A. Bartoli Langeli, Codice diplomatico del comune di Perugia. Periodo con-solare e podestarile (1139-1254), 2 voll., Perugia 1983-1985.A. Bartoli Langeli, Le fonti per la storia di un Comune, in Società e istitu-zioni nell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), Congresso

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Finito di stampare nel mese di settembre 2005presso le industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.a.

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