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L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria Alessandro Casellato “I testimoni raccontano balle! Non lo fanno apposta. È la memoria che gli gioca degli scherzi”. Quando ero studente ho sentito diverse volte Giovan- ni Levi usare più o meno queste parole per prendere le distanze dalla storia orale. Levi insegnava Storia economica a Venezia ed era stato — con Carlo Ginzburg ed Edoardo Grendi — uno dei fondatori della “microstoria”. Sono cresciuto con l’idea che la tribù dei microstorici e quella degli storici ora- li fossero in guerra tra loro; che la prima fosse una cerchia di persone col- tissime, esigenti e pure un filino aristocratiche, e la seconda fosse popolata da studiosi un po’ irregolari ma alla mano e ben disposti verso la gente co- mune. Tuttavia non riuscivo a spiegarmi come mai alcuni membri autorevo- li dei due gruppi fraternizzassero tra loro e persino si mostrassero recipro- ca stima. Mi ci sono voluti degli anni per capire che c’era stato un tempo in cui le due tribù erano parte di uno stesso popolo e che erano proprio i lega- mi di parentela a creare tensioni reciproche, spesso stemperate nei rappor- ti di scherzo. Ho provato a tradurre questa “presa di coscienza” in un percorso storio- grafico. Ne è venuto fuori un pezzo di storia sociale degli storici (e stori- che) e delle loro “comunità di pratica” 1 tra gli anni sessanta e ottanta, se- guito da un tentativo di enucleare le diverse ermeneutiche che sottendono la storia orale e la microstoria, con l’obiettivo di capire che cosa c’è di peculia- re in ognuna di esse e, infine, di mostrare come possano proficuamente col- laborare. 1 Etienne Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, R. Cortina, 2006; intendo la corporazione degli storici come una comunità di artigiani, si veda Ri- chard Sennett, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 32-34. “Italia contemporanea”, agosto 2014, n. 275

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L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria

Alessandro Casellato

“I testimoni raccontano balle! Non lo fanno apposta. È la memoria che gli gioca degli scherzi”. Quando ero studente ho sentito diverse volte Giovan-ni Levi usare più o meno queste parole per prendere le distanze dalla storia orale. Levi insegnava Storia economica a Venezia ed era stato — con Carlo Ginzburg ed Edoardo Grendi — uno dei fondatori della “microstoria”. Sono cresciuto con l’idea che la tribù dei microstorici e quella degli storici ora-li fossero in guerra tra loro; che la prima fosse una cerchia di persone col-tissime, esigenti e pure un filino aristocratiche, e la seconda fosse popolata da studiosi un po’ irregolari ma alla mano e ben disposti verso la gente co-mune. Tuttavia non riuscivo a spiegarmi come mai alcuni membri autorevo-li dei due gruppi fraternizzassero tra loro e persino si mostrassero recipro-ca stima. Mi ci sono voluti degli anni per capire che c’era stato un tempo in cui le due tribù erano parte di uno stesso popolo e che erano proprio i lega-mi di parentela a creare tensioni reciproche, spesso stemperate nei rappor-ti di scherzo.

Ho provato a tradurre questa “presa di coscienza” in un percorso storio-grafico. Ne è venuto fuori un pezzo di storia sociale degli storici (e stori-che) e delle loro “comunità di pratica”1 tra gli anni sessanta e ottanta, se-guito da un tentativo di enucleare le diverse ermeneutiche che sottendono la storia orale e la microstoria, con l’obiettivo di capire che cosa c’è di peculia-re in ognuna di esse e, infine, di mostrare come possano proficuamente col-laborare.

1 Etienne Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano, R. Cortina, 2006; intendo la corporazione degli storici come una comunità di artigiani, si veda Ri-chard Sennett, L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 32-34.

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La stagione delle talpe: 1960-1968

Storia orale e microstoria nascono dalla comune insoddisfazione di fronte all’offerta storiografica del loro tempo, ovvero dall’esigenza di capire la società com’è e con come dovrebbe essere2. Entrambe si vengono definendo — nel sen-so di darsi un nome e formalizzarsi come insieme di pratiche, luoghi e reti di relazioni — alla fine degli anni settanta, ma hanno radici lunghe e molteplici, in gran parte condivise.

Da un lato, va osservato che i pionieri della storia orale italiana arrivano al-la scoperta delle fonti orali facendo lavori di storia locale: conducono ricer-che circoscritte, empiricamente fondate, cercando nuove gamme di documenti, anche “minori”, in particolare per uscire dalla dimensione etico-politica nella quale era stata imbozzolata la storia del movimento operaio e della Resistenza. Gianni Bosio matura la sua proposta storiografica già negli anni cinquanta nel-la rivista “Movimento operaio”; per questo entra in contrasto con la storiogra-fia accademica e con quella comunista che lo accusa di “filologismo” e “corpo-rativismo”, ovvero di attenzione ad aspetti marginali e politicamente irrilevanti della storia3. Il trattore ad Acquanegra — che Bosio comincia a scrivere nel 1960 e sarà pubblicato postumo nel 1981 — viene presentato editorialmente come “un esemplare caso di microstoria” condotta prevalentemente con fonti orali, il cui obiettivo è dar conto di un passaggio epocale — la meccanizzazio-ne delle campagne e le sue conseguenze nella cultura popolare — attraverso un caso locale studiato in profondità4.

Dai primi anni sessanta gli etnomusicologi percorrono fin gli interstizi dell’Italia rurale e industriale per raccogliere canti sociali; assieme alle canzo-ni, ascoltano aneddoti e storie di vita vissuta che rivelano l’inattendibilità della storiografia corrente, per esempio sul lavoro e le due guerre mondiali5. Dall’ap-prendistato alla ricerca sul campo con il Nuovo canzoniere italiano nasce il pri-mo libro storiografico di Cesare Bermani, che è, di fatto, una microstoria — di una banda partigiana — condotta attraverso testimonianze orali. Esce nell’anno in cui Bosio muore (1971) e rivela una Resistenza molto lontana dall’immagi-ne allora canonizzata6. Anni dopo, ripensando a questo lavoro, Bermani avreb-

2 È la formula usata da Mariuccia Salvati per distinguere la storia sociale dalla storia etico-politica di matrice idealistica: La storiografia sociale nell’Italia repubblicana, “Passato e pre-sente”, 2008, n. 73, pp. 91-110.

3 Gilda Zazzara, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Roma-Ba-ri, Laterza, 2011, pp. 100-105.

4 Gianni Bosio, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadi-na, intr. e cura di Cesare Bermani, Bari, De Donato, 1981.

5 Per due bilanci a distanza di quelle esperienze, si vedano Emilio Jona, Alberto Lovatto, Senti le rane che cantano. Canti e vissuti popolari della risaia, Roma, Donzelli, 2005; Emilio Jona e al., Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie degli operai torinesi, Roma, Donzelli, 2008.

6 Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, 4 vol. pubblicati tra il 1971 e il 2000 dall’Istituto storico della Resistenza di Borgosesia e poi da quello

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be ricordato le riflessioni di uno scrittore — Hans Magnus Enzensberger in Letteratura come storiografia — che lo aiutarono a mettere a fuoco un aspetto importante della sua ricerca: l’interesse per “il dettaglio”, tipico dei narratori, piuttosto che per “la totalità”, alla maniera degli storici che lavorano con “im-mense riduzioni”7.

Se gli oralisti incontrano la microstoria quando ancora non c’era, i microsto-rici frequentano le fonti orali ancor prima che venissero definite tali. Alla fine degli anni cinquanta, per esempio, Giovanni Levi si trasferisce in Sicilia, pres-so Danilo Dolci, e da lui viene iniziato alla raccolta di interviste:

Facevo le interviste ai braccianti. Queste erano improprie; nel senso che erano piene di con-traddizioni. Gli chiedevamo quante giornate di lavoro avevano fatto durante l’anno preceden-te e loro dicevano: “una cinquantina”. Sommandole e dividendole per tutte le attività veniva-no fuori 350 giornate o altre cose di queste genere. Ho allora avuto uno scontro con Danilo Dolci, dicendogli: “guarda queste interviste non si fanno così, non funzionano”. E lui aveva detto: “ma io devo consegnare in quindici giorni il libro a Einaudi”. Ci eravamo separati ma-lamente e poi Lo spreco è uscito senza le nostre interviste oppure con delle nostre interviste molto manipolate. Poi mi sono laureato8.

Negli stessi anni Carlo Ginzburg lavora sulle testimonianze orali trascritte nei verbali dei processi dell’Inquisizione, riconoscendone la natura dialogi-ca9, proprio mentre sua madre Natalia si applica a quella sorta di autoinchie-sta narrativa che è Lessico famigliare (1964), aprendo a riflessioni sul lin-guaggio, sulla memoria, sulla vita quotidiana. La storiografia di Ginzburg, già in I benandanti (1966), si alimenta di questa doppia ascendenza, storio-grafica e letteraria, che lo porta a valorizzare la presenza di tracce di oralità nei documenti d’archivio e a tematizzare l’incontro tra tradizione orale e cir-colazione di testi scritti nel farsi della mentalità popolare10. Sempre nei pri-mi anni sessanta, muovendo — come Ginzburg — dalle ricerche di Ernesto de Martino sul mondo magico, anche Cesare Bermani avvia una ricerca sulla stregoneria popolare, colta però ancora in atto, in un lembo d’Abruzzo. I due percorsi sono coevi, ma paralleli: quel che l’uno cerca in archivio attraverso le voci fossili di “una cultura profondamente diversa dalla nostra”, l’altro in-

di Vercelli. Le critiche mosse dal Pci e dall’Anpi al primo volume, del 1971, impedirono la pub-blicazione dei successivi fino al 1995 e al 1996; nel 2000 l’autore rivisitò e rieditò anche il pri-mo, dando maggiore spazio alle fonti registrate.

7 Le provocazioni della storia orale. Conversazione su fonti orali e trascrizione tra Cesa-re Bermani, Liliana Lanzardo, Sandro Portelli. Agosto 1987, “Primo maggio”, 1987-1988, n. 27-28, pp. 23-27, qui p. 23.

8 Paola Lanaro, Intervista a Giovanni Levi, in Ead. (a cura di), Microstoria. A venticinque anni da L’eredità immateriale, Milano, FrancoAngeli, 2011, p. 172.

9 Carlo Ginzburg, L’inquisitore come antropologo, in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 270-280.

10 Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 1964; Carlo Ginzburg, I benandan-ti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966.

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daga sul campo a partire dall’incontro con una donna che sarebbe diventata sua moglie11.

Un altro luogo di incubazione comune a storia orale e microstoria sono le inchieste condotte negli anni del “miracolo economico”. Rispetto alla stagio-ne del secondo dopoguerra, quando le inchieste — spesso basate sulla raccolta di testimonianze rielaborate letterariamente, come quelle di Rocco Scotellaro o Danilo Dolci — avevano avuto come obiettivo la documentazione e la denuncia di una realtà sociale arretrata, le ricerche condotte su singole fabbriche o su co-munità locali investite dall’industrializzazione e dalle migrazioni vogliono av-vicinare lo sguardo (e l’orecchio) a una realtà circoscritta per meglio compren-dere una trasformazione molto più ampia, che ancora appariva nebulosa e di cui si ignoravano modalità ed esiti12. Danilo Montaldi, per esempio, lavora in maniera intensiva sulle storie di vita degli immigrati, dei marginali o dei mi-litanti politici di base, con sguardo “freddo”, simpatetico ma non compiaciu-to: nei suoi libri ogni autobiografia “viene sempre commentata, smontata, deco-struita, per cavarne tutto quello che essa può dare”13.

Accanto all’utilizzo del questionario scritto o degli appunti presi in diretta, si afferma l’uso del registratore (o del magnetofono, secondo la definizione dell’e-poca), che serve a trattenere le singole parole dei narratori e consente di avere un rapporto filologico con le loro testimonianze14. Aris Accornero si fa prestare da Raniero Panzieri un “costosissimo registratore a filo” e lo usa (di nascosto) quando incontra le operaie e gli operai della val di Susa; oltre a intervistarli, ne osserva le case, dall’interno, e insieme alle trascrizioni conserva delle accurate note etnografiche15.

Oltre a preoccupazioni di ordine scientifico, sono motivazioni politiche a so-stenere queste ricerche, che diventano strumento di azione diretta e intervento sociale da parte di gruppi militanti. Essi si collocano all’interno di una varie-gata “sinistra storiografica” che comprende sia il mondo cattolico postconcilia-re che guarda a don Milani e alla sociologia francese, sia la galassia socialista che si esprime nelle Edizioni “Avanti!” di Gianni Bosio e nei “Quaderni ros-

11 Cesare Bermani, Volare al sabba. Una ricerca sulla stregoneria popolare, Roma, Derive approdi, 2008.

12 Alessandro Casellato, Con le orecchie dritte. Storia orale e inchiesta sociale negli anni del boom economico, “Belfagor”, 2011, n. 6, pp. 685-696; Gilda Zazzara, Con le orecchie dritte. Spostati e piantati. Volti del “miracolo economico”, “Belfagor”, 2012, n. 2, pp. 215-223.

13 Nicola Gallerano, “L’altra storia” di Danilo Montaldi (1986), “Parolechiave”, 2007, n. 2, pp. 59-66, qui p. 61; Jeff Quiligotti, Postfazione, in Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del “miracolo”, Roma, Donzelli, 2011, pp. 327-328.

14 Gianni Bosio, Elogio del magnetofono. Chiarimento alla descrizione dei materiali su na-stro del Fondo Ida Pellegrini, in Id., L’intellettuale rovesciato. Interventi e ricerche sulla emer-genza d’interesse verso le forme di espressione e di organizzazione “spontanee” nel mondo po-polare e proletario (gennaio 1963-agosto 1971), Milano, Edizioni Bella ciao, 1975, pp. 169-181.

15 Aris Accornero, Quando c’era la classe operaia. Storie di vita e di lotta al Cotonificio Valle Susa, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 25.

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si” di Raniero Panzieri, sia le “eresie” comuniste di Danilo Montaldi16. A questi si aggiungono esperienze locali di impegno civile e sperimentazione didattica, cioè le “ricerche d’ambiente” fatte a scuola utilizzando interviste, diari, inchie-ste, narrazioni, che a volte diventano libri presso editori nazionali, portando al-la ribalta piccoli centri come Piadena, Certaldo, Barbiana, Canale d’Agordo, avanguardie paesane di un’Italia provinciale ricca di energie17.

In un ipotetico atlante della storiografia italiana risalterebbe il ruolo che de-terminati luoghi hanno avuto nel formarsi delle “comunità di pratica” che stia-mo indagando. In questa mappa, Genova avrebbe un posto di rilievo, per l’in-treccio tra storia e geografia che vi si produce, soprattutto grazie al contributo di Edoardo Grendi che vi importa dall’Inghilterra la tradizione della local histo-ry, intesa come apertura allo studio empirico del territorio e come attività spic-catamente sperimentale, più che retorica, legata al “paradigma dell’osservazio-ne microscopica”18. Avere il campo, oltre all’archivio, come ambiente di ricerca impone allo storico di modificare la sua epistemologia, allargare il novero delle fonti possibili e soprattutto situarsi all’interno di un contesto spaziale, di un sito — appunto — che si esplora, alla maniera degli archeologi e dei topografi, inte-ressati all’osservazione dei manufatti o delle risorse vegetazionali o delle trac-ce lasciate dalla vita passata, da tenere in dialogo con i giacimenti documenta-ri presenti negli archivi19. Il passaggio, dall’osservazione dei segni per ricostruire le pratiche del passato, all’incontro con le persone che li abitano e all’ascolto del-le memorie localizzate di cui esse sono portatrici, è ormai facile da percorrere20.

16 Paolo Mencarelli, Libro e mondo popolare. Le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio 1953-1964, Milano, Biblion, 2011; “Parolechiave”, Danilo Montaldi, a cura di Costanza Bertolotti, Paolo Ca-puzzo, 2007, n. 2; Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997: trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino, Milano, Jaca book, 1997; Luisa Pas-serini, Storia e soggettività. Le fonti orali e la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988; Stefa-no Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, Feltrinelli, 1977.

17 Mario Lodi, Giuseppe Morandi, I Quaderni di Piadena, Milano, Edizioni Avanti!, 1962; Mario Lodi, C’è speranza se questo accade al Vho, Milano, Edizioni Avanti!, 1963; Bruno Cia-ri, Le nuove tecniche didattiche, Roma, Editori riuniti, 1961; “Venetica”, Quando la scuola si accende. Innovazione didattica e trasformazione sociale negli anni Sessanta e Settanta, a cura di Luisa Bellina, Alfiero Boschiero, Alessandro Casellato, 2012, n. 2.

18 Edoardo Grendi, Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Venezia, Mar-silio, 1996, pp. 12-14.

19 Angelo Torre, I luoghi dell’azione, in Jacques Revel (a cura di), Giochi di scala. La mi-crostoria alla prova dell’esperienza, Roma, Viella, 2006, pp. 300-317; Diego Moreno, Dal do-cumento al terreno. Storia e archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, Bologna, Il Mulino, 1990; Edoardo Grendi, In altri termini. Etnografia e storia di una società di antico regime, a cura di Osvaldo Raggio, Angelo Torre, Milano, Feltrinelli, 2004; Vittorio Tigrino, Storia di un seminario di storia locale. Edoardo Grendi e il Seminario Permanente di Genova (1989-1999), in Roberta Cevasco (a cura di), La natura della montagna. Studi in ricordo di Giuseppina Pog-gi, Sestri Levante, Oltre, 2013, pp. 211-232.

20 Manlio Calegari: “Le domande bisogna farle a se stessi”. Intervista di Marianna Tambu-rini, in Alessandro Casellato (a cura di), Il microfono rovesciato. 10 variazioni sulla storia ora-le, Treviso, Istresco, 2007, pp. 30-31.

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Rovesciamenti, se non rivoluzioni: 1968-1976

Gli anni post-Sessantotto sono caratterizzati da un’inusuale contaminazione tra diversi gruppi sociali e tra culture “alte” e “basse”; ciò che nel decennio prece-dente era appannaggio di gruppi minoritari molto localizzati tende a diffonder-si e generalizzarsi. Questo clima avrebbe creato l’humus che ha consentito, al-la fine del decennio, la nascita — o la formalizzazione — sia della microstoria sia della storia orale.

Studenti e operai, si diceva allora: una generazione di intellettuali subì la fa-scinazione per la classe operaia (vista come soggetto rivoluzionario) e più in generale per i “subalterni” (sub/alterni: subordinati ma alternativi), e cominciò a frequentarli, a interessarsi alle loro vite e condizioni di lavoro, a riconoscer-li come soggetti portatori di storia21. Questi incontri avevano luogo nel sindaca-to e nei gruppi politici, nella scuola dell’obbligo e nelle scuole popolari, serali e delle “150 ore”, nelle biblioteche comunali e nei “centri di cultura” di quartiere e di paese22. Anche quando venne meno la certezza di una svolta politica immi-nente, rimase l’idea che fosse possibile proseguire un lavoro culturale di demo-cratizzazione dei saperi ed emancipazione delle classi popolari. Fu un periodo di grande creatività e ricerca, anche a livello epistemologico: ci si accorgeva di cose — aspetti della vita, soggetti della storia — che fino ad allora erano state invisibili o considerate irrilevanti. L’università e la scuola si aprivano, uscivano letteralmente dalle proprie mura; anche i confini disciplinari venivano abbattu-ti, o almeno abbassati.

Nei primi anni settanta, al Dams di Bologna, Giuliano Scabia recupera la tradizione del “teatro di stalla” e la fa rinascere nella forma di “teatro vagante”, inteso come attività di ricerca e azione itinerante sul territorio: professore e stu-denti percorrono i paesi semiabbandonati degli Appennini e i popolosi quartie-ri operai ai bordi delle città industriali; vi registrano racconti, canzoni, poesie, drammi popolari; raccolgono manoscritti, opuscoli, fotografie; incrociano le at-tività degli insegnanti e dei gruppi folkloristici locali; alla fine rimontano e re-stituiscono le informazioni raccolte attraverso spettacoli teatrali, giornali mu-rali e libri di “vera storia”, che mirano a mettere in discussione le narrazioni codificate del passato23. La public history, in questa fase, è intesa non tanto co-me divulgazione, ma come compartecipazione dei destinatari alla ricerca e ai

21 Francesco Benigno, Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013, pp. 79-80.

22 Giorgina Arian Levi (a cura di), I lavoratori studenti. Testimonianze raccolte a Torino, To-rino, Einaudi, 1969; Maria Luisa Tornesello, Il sogno di una scuola. Lotte ed esperienze didat-tiche negli anni Settanta: controscuola, tempo pieno, 150 ore, Pistoia, Pétite Plaisance, 2006.

23 Gruppo di Drammaturgia 2 dell’Università di Bologna, Il gorilla quadrumàno. Fare tea-tro / fare scuola. Il teatro come ricerca delle nostre radici profonde, intr. Giuliano Scabia, Mi-lano, Feltrinelli, 1974.

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suoi esiti24. Già nel 1970, per esempio, si anticipano le “radio libere” sperimen-tando nuove forme di comunicazione in veste di audiosaggio, come i dischi di “storia orale orale” (provocatoriamente distinta dalla “storia orale non orale” veicolata dai libri) in cui interviste e canti registrati sul campo non sono tra-scritti, ma montati25.

La storia orale prende piede nei gruppi di ricerca locale e nelle scuole, in for-ma di recupero delle tradizioni folkloriche e di didattica attiva. Tra gli universi-tari attivati dal Sessantotto si generalizza l’uso dell’inchiesta, che è il modo più facile per entrare in contatto con gli operai e capire che cosa succede dentro la fabbrica; l’incontro con i medici del lavoro apre una nuova attenzione ai temi della salute, sia dentro sia fuori i luoghi di lavoro; quello con il femminismo in-troduce la pratica dell’“ascolto” come atto insieme conoscitivo e politico, attra-verso il quale fare emergere la soggettività delle donne altrimenti taciuta26.

Nel 1973 nasce “Primo maggio”, che si propone come rivista di “storia mili-tante” che, cioè, mira a legare storiografia e lotte sociali; dalla tradizione ope-raista mutua l’impianto teorico, la curiosità analitica per il funzionamento dell’economia capitalistica e per le trasformazioni della composizione di clas-se. Con l’entrata in redazione di Cesare Bermani, nel 1975, la rivista comincia a dedicare un’attenzione costante alle “testimonianze orali di parte proletaria e al loro uso in quanto fonti funzionali a una storia della e per la classe”27.

Maurizio Gribaudi, in un intervento recente, ha parlato delle origini militan-ti della stessa microstoria, che sarebbe nata, soprattutto su spinta di Edoardo Grendi e Giovanni Levi, come “atto militante e presa di posizione politica” sui modelli e sugli strumenti interpretativi della sinistra 28: a metà degli anni set-tanta, nel gruppo che avrebbe dato vita a quello dei “microstorici” c’erano sta-te lunghe discussioni sulla cultura popolare come diverso modo di leggere una medesima realtà e come contenitore di biforcazioni possibili della storia rima-

24 Lo spirito, infatti, era lo stesso della coeva public history inglese, “con gruppi di storici di professione e non che si riunivano per parlare di storia coltivando l’uso delle testimonianze e delle fonti fornite dalle memorie individuali e collettive, delle memorie popolari in rapporto alla storia politica, ponendo così il problema del nesso tra storia e memoria e viceversa”: Serge Noi-ret, “Public History” e “storia pubblica” nella rete, “Ricerche storiche”, 2009, n. 2-3, pp. 275-327, qui p. 299.

25 Alessandro Portelli (a cura di), Roma, la borgata e la lotta per la casa, Milano, Edizioni del gallo, 1970; Franco Coggiola (a cura di), Milano lotta operaia alla Crouzet, Milano, Edizio-ni del gallo, 1970.

26 Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Milano, La Pietra, 1976.

27 Cesare Bermani, Dieci anni di lavoro con le fonti orali, “Primo maggio”, 1975, n. 5, pp. 35-50. Si vedano La libera ricerca di Cesare Bermani. Culture altre e mondo popolare nelle opere di un protagonista della storia militante, Roma, Derive approdi, 2013; Cesare Bermani (a cura di), La rivista “Primo Maggio” (1973-1989), Roma, Derive approdi, 2010 (con il dvd con-tenente la raccolta completa della rivista).

28 Maurizio Gribaudi, La lunga marcia della microstoria. Dalla politica all’estetica?, in P. Lanaro (a cura di), Microstoria, cit., pp. 10-11.

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ste inespresse. Il dibattito storiografico era legato a quello politico, che “pone-va esplicitamente il problema di sovvertire centralità e gerarchie di spazi e di esperienze sociali”.

Si aprivano contatti, si discuteva con comitati di quartiere o di villaggio, con organismi sin-dacali e gruppuscoli politici. Spesso si partiva in serata per discutere con un gruppo di storia orale di Milano, Aosta o Asti. Poi si andava alla riunione di un gruppo di quartiere ad Ales-sandria, Genova o Mantova. Vere e proprie spedizioni che avevano lo stesso sapore e la stes-sa intensità dei volantinaggi davanti alle fabbriche che avevamo conosciuto nel corso dei pri-mi anni settanta29.

Oltre all’ambito storiografico e politico, si profila nella prima metà degli an-ni settanta una congiuntura culturale molto più ampia che coinvolge varie arti e che rimanda al frammento, al ribaltamento, al recupero archeologico, all’ascol-to di voci sepolte30. Carlo Ginzburg, per esempio, ha ricordato in varie occasioni gli scambi di idee cui partecipò, in particolare con Italo Calvino e Gianni Celati, attorno alla progettata — e mai realizzata — rivista “Alì Babà”31. Punti comu-ni e caratterizzanti erano “una generale insofferenza per molto di quel che oggi si dice e si scrive”32, la discussione sulle tracce e il sapere indiziario (rileggendo Benjamin), lo sguardo da archeologi (o da paleoetnografi) sulla realtà presente e la “delimitazione dello spazio” come strumento per meglio comprenderla33.

Altri segni di fase si palesano alla metà del decennio. Nel 1974 esce e viene subito tradotto anche in Italia Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, una raccolta di frammenti (cose vissute in prima persona “con la mia pelle, la me-moria, l’udito e l’occhio”, insieme a “racconti, ricordi e lettere” recuperati da 227 testimoni diretti34) che, accostati, rivelano una realtà concentrazionaria ri-masta opaca alle stesse persone che l’avevano vissuta; il libro è anche una di-mostrazione di quanta forza possa avere la voce dei sommersi: tanta da incrina-re le verità ufficiali35.

Nello stesso anno Elsa Morante pubblica La Storia e racconta la secon-da guerra mondiale attraverso le vite di individui non illustri, facendo parla-

29 M. Gribaudi, La lunga marcia della microstoria, cit., p. 15.30 È una congiuntura internazionale: due libri sintomo sono Ernst F. Schumacher, Small

is beautiful. A Study of Economics as if People Mattered, London, Blond and Briggs, 1973; Raymond Carver, Will You Please Be Quiet, Please?, New York, McGraw-Hill, 1976.

31 Marco Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 126-127.32 Italo Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura

e società, Milano, Mondadori, 1995 [ed. or. 1980], p. 321; il saggio fu scritto nel 1972.33 Gianni Celati, Il bazar archeologico, in Mario Barenghi, Marco Belpoliti (a cura di), “Alì

Babà”. Progetto di una rivista 1968-1972, Riga n. 14, Roma, Marcos y marcos, 1998, pp. 200-222; il primo nucleo del saggio di Celati era stato scritto nel 1972.

34 Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag. 1928-1956. Saggio di inchiesta narrativa, vol. I, Milano, Mondadori, 1995 [ed. or. 1974], p. 15.

35 Nel 1974 Claude Lanzmann comincia la raccolta di testimonianze sulla deportazione e lo sterminio degli ebrei; il film Shoah uscirà nel 1985.

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re donne, vecchi, bambini, fuggiaschi, cioè i soggetti che erano stati margi-nalizzati dalla memoria istituzionale36. Dietro entrambi i libri c’è la lezione di Tolstoj, la sua filosofia della storia e finanche la sua impronta etica e filo-sofica.

Il recupero linguistico di una tradizione sepolta è quello cui si accinge An-drea Zanzotto in Filò (1976) — scritto per “musicare” il film Casanova di Fel-lini —, emersione della “corrente infera del parlato dialettale” che sgorga pro-prio mentre la terra trema, sotto i suoi piedi e nel vicino Friuli37. Unità di lingua e di luogo, che il poeta percorre quotidianamente in passeggiate circola-ri e di cui conosce ogni piega: Zanzotto conduce, a suo modo, un itinerario tra storia orale e microstoria, ricerca “sul campo” e storia “dal basso”, con una for-te vocazione sperimentale.

Un altro irregolare, cioè uno studioso che si muove attraverso diverse di-scipline, come Piero Camporesi, esplora la cultura regionale e popolare dis-seppellendo storie singolari e minute, pur senza fare microstoria; del 1976 è il suo primo libro — La maschera di Bertoldo —, che inaugura una serie di opere dedicate al corpo, agli odori, alla fame e ai cibi dei rustici e dei villani; precede di un anno un altro grande libro — Il mondo dei vinti —, al centro del quale ci sono ancora i contadini che raccontano la loro storia “separata”: il primo capolavoro di storia orale in Italia è scritto da un non accademico, un “provinciale” che di mestiere fa il commerciante in ferro e di nome Nuto Revelli38.

È in questa congiuntura, cioè all’interno di tale serie di stimoli e di attese, che nel 1976 esce Il formaggio e i vermi, il libro di Carlo Ginzburg con il qua-le si suole far cominciare la stagione delle microstorie39. Alla fine dello stesso anno, all’Università di Bologna, si tiene il primo convegno accademico dedica-to alle fonti orali: lo animano antropologi e africanisti, che introducono in Ita-lia l’esperienza dell’oral history anglosassone; scattano scintille con gli “storici militanti” che erano stati invitati a tenervi una relazione: è il primo sintomo di un conflitto destinato ad allargarsi40.

36 Elsa Morante, La Storia, Torino, Einaudi, 1974.37 Andrea Zanzotto, Filò per il Casanova di Fellini, Torino, Einaudi, 2012 [ed. or. 1976], p.

80; per l’uso della parola ‘microstoria’ da parte di Zanzotto, si veda Carlo Ginzburg, Microsto-ria: due o tre cose che so di lei, in Id., Il filo e le tracce, cit., pp. 241-269, qui pp. 268-269.

38 Piero Camporesi, La maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca, To-rino, Einaudi, 1976; Nuto Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 1977.

39 Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einau-di, 1976.

40 Bernardo Bernardi, Carlo Poni, Alessandro Triulzi (a cura di), Fonti orali - Oral Sources - Sources Orales. Antropologia e storia - Anthropology and History - Antropologie et Histoire, Milano, FrancoAngeli, 1978. Durante il convegno, la traduzione della relazione di Cesare Ber-mani e Sergio Bologna su “Soggettività e storia del movimento operaio” viene interrotta e il te-sto non è incluso negli atti.

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Dal movimento alle istituzioni: 1977-1981

Allo scadere del decennio settanta si stabilizzano le reti e i luoghi di elabora-zione delle pratiche che cominciano a definirsi esplicitamente come microstoria e storia orale. “Quaderni storici” ne è un incubatore tra i più precoci e fecon-di: è una delle riviste di riferimento per la storiografia italiana e si caratteriz-za per l’apertura alle scienze umane, all’antropologia e alla geografia. Nel 1977 ospita per la prima volta un numero intitolato all’Oral history: fra antropolo-gia e storia: Giovanni Levi, Luisa Passerini e Lucetta Scaraffia vi firmano un saggio sulla ricerca che hanno in corso su un quartiere operaio di Torino; nel-lo stesso fascicolo Edoardo Grendi comincia a discutere di Micro-analisi e sto-ria sociale41.

La ricerca su “Cultura operaia e vita quotidiana in borgo San Paolo a Tori-no” è un apripista42: mette insieme un gruppo di lavoro, coordinato da Giovan-ni Levi, sostenuto dall’amministrazione comunale di sinistra eletta nel 1975; il progetto è pensato per coinvolgere il quartiere, le scuole, le organizzazioni poli-tiche e sindacali di base e diventare poi una mostra aperta alla cittadinanza: vuo-le essere “un lavoro di discussione, di raccolta e di riflessione che allarghi il più possibile, al di là degli addetti ai lavori, il numero dei produttori di storia”. Con-cettualmente, la ricerca muove dall’insoddisfazione per il modo in cui la storio-grafia ha interpretato il fascismo, attraverso un approccio politico-istituzionale e categorie macrosociologiche; per questo si propone non di allargare ulteriormen-te il campo d’osservazione a nuovi aspetti finora trascurati quanto piuttosto di in-dividuare “un punto di vista specifico” che consenta di osservare e comprende-re più in profondità la realtà sociale di un paese sotto la dittatura. Introduce una discontinuità anche rispetto alla tradizione operaista: il microscopio non viene puntato dentro la fabbrica, ma su ciò che sta fuori; al centro dell’analisi c’è infat-ti la “vita quotidiana” — intesa come “il luogo in cui si radicano e si generano ideologie, atteggiamenti, mentalità” — in un singolo quartiere operaio, indaga-ta attraverso “la memoria e le tecniche della storia orale”, che sono gli unici stru-menti a disposizione per studiare quel che è inattingibile attraverso altre fonti.

Gli esiti della ricerca sono pubblicati nel 1978, ma il cantiere rimane aper-to e produrrà vari spin-off, più o meno diretti. Il primo, coevo al catalogo della mostra, è un libro curato da Luisa Passerini, che per la prima volta utilizza nel titolo il sintagma Storia orale43: raccoglie un’antologia di studi anglosassoni; lo

41 È “Quaderni storici”, 1977, n. 35, che anticipa parte degli atti del convegno di Bologna.42 Cultura operaia e vita quotidiana in borgo San Paolo a Torino, in Torino tra le due guer-

re (Catalogo della mostra tenutasi a Torino, Galleria civica di arte moderna e Scuola media sta-tale di Borgo San Paolo, marzo-giugno 1978), Torino, Musei civici, 1978, pp. 2-44. Il saggio in-troduttivo al catalogo della mostra è scritto a più mani; le citazioni che seguono sono tratte dai paragrafi che una nota attribuisce a Giovanni Levi.

43 Luisa Passerini (a cura di), Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Torino, Rosenberg & Sellier, 1978.

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pubblica la casa editrice Rosenberg & Sellier — ancora una presenza torinese —, che è in questa fase un altro dei luoghi dove si riversano i prodotti e i dibat-titi della storiografia sperimentale e di frontiera44. Sempre a Torino, nello stesso anno, Guido Quazza promuove un seminario su “Cultura e vita quotidiana del-le classi subalterne in Piemonte”, presso la facoltà di Magistero: la “Rivista di storia contemporanea” — che Quazza dirige — ne ospita i primi risultati e, più in generale, ‘apre’ alla storia orale, con un’attenzione specifica ai nessi tra la ri-cerca e il mondo della scuola, le esperienze didattiche e la formazione degli in-segnanti, con ricadute di lungo periodo nella rete degli istituti per la storia della Resistenza, che fa capo all’Insmli, di cui Quazza è presidente45.

Contemporaneamente un altro gruppo di ricerca, che si è costituito come re-dazione torinese di “Primo maggio”, muove dal presente con le stesse domande di chi stava indagando il passato (che cos’è, oggi, la classe operaia?) e finisce per incontrare gli stessi problemi e tentare le stesse vie d’uscita: per capire me-glio bisogna cercare non la lotta ma la vita quotidiana, ascoltare non le avan-guardie ma l’operaio medio, guardare non tanto dentro la fabbrica ma a ciò che sta fuori. Con questo spirito, ad esempio, durante i 55 giorni del sequestro Mo-ro, Brunello Mantelli e Marco Revelli si mettono davanti ai cancelli della Fiat, nella terra di nessuno dove gli operai di solito corrono per entrare e per uscire; sono gli spazi dove dieci anni prima si era realizzato l’incontro tra studenti e operai, ora ingombri di bancarelle e venditori ambulanti. Registratore alla ma-no, raccolgono un migliaio di interviste, cercando soprattutto i molti che aspet-tano in disparte e di solito non parlano: non lunghe interviste in profondità, ma schegge di oralità rubate a persone in transito, per lo più anonime. Un an-no dopo ne pubblicano una selezione, con prefazione di Guido Quazza46; que-sti avverte che si tratta di fonti strane, scivolose, da maneggiare con cautela. Ne esce, infatti, una cultura operaia intrisa di qualunquismo, risentimento, indivi-dualismo, lontana dalla politica, molto diversa da quella “classe operaia che si

44 Per esempio, Sergio Bologna e al., Dieci interventi sulla storia sociale, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980.

45 Tra il 1977 e il 1981 la “Rivista di storia contemporanea” pubblica otto saggi o note lunghe sulle fonti orali (due di Luisa Passerini, uno a testa di Nicola Gallerano, Anna Bravo con Lucet-ta Scaraffia, Alessandro Portelli, Piero Brunello, Daniele Jalla, Liliana Lanzardo); dopo il 1981 c’è un lungo e significativo silenzio, interrotto solo da un importante fascicolo (1988, n. 2), dedi-cato quasi interamente al seminario svolto tra il 1985 e il 1988 alle carceri Nuove di Torino con diciotto ex terroristi di cui furono raccolte le storie di vita: interventi di Guido Quazza, Luisa Passerini, Bianca Guidetti Serra, Nicola Tranfaglia, Guido Neppi Modona e cinque storie di vita curate da Paola Guerra; si veda Diego Novelli, Nicola Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Garzanti, 1988. Sul ruolo degli Istituti per la storia della Resistenza: La storia: fonti orali nella scuola, Atti del convegno “L’insegnamento dell’antifascismo e della Re-sistenza: didattica e fonti orali”, organizzato dal Comune di Venezia in collaborazione con l’Isti-tuto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e Istituti associati e con l’Uni-versità di Venezia, 12-15 febbraio 1981, Venezia, Marsilio, 1982.

46 Brunello Mantelli, Marco Revelli (a cura di), Operai senza politica. Il caso Moro alla Fiat e il “qualunquismo operaio”, pref. Guido Quazza, Roma, Savelli, 1979.

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fa Stato” canonizzata nel discorso pubblico di partiti e sindacati, ma anche da quella che si era espressa nell’Autunno caldo, cara ai gruppi rivoluzionari. Da blocco coeso che parlava con una voce sola, gli operai della grande fabbrica si rivelano ora opachi, frammentati, incomprensibili, a volte fastidiosi.

Il presente suggerisce nuove piste di ricerca agli storici. Si comincia a vedere la classe, anche nel passato, come un campo di relazioni mutevoli tra individui disparati; la si studia non solo quando lotta o agisce collettivamente, ma anche nelle fasi in cui è silente; in questa direzione si procede empiricamente, ponen-dosi “tutta una serie di domande anche piccole e precise che vanno verificate ‘sul campo’ e confrontate e infine rapportate al paradigma teorico di riferimen-to, che può essere negato dai risultati della ricerca”47. I microstorici, in particola-re, cercano una via alternativa allo strutturalismo e al funzionalismo nello studio delle “classi subalterne”, guidati da una tensione valoriale, oltre che scientifica,

che punta a valorizzare l’autonoma capacità di resistenza e di proposizione degli individui, specie di quelli di estrazione popolare, la loro “lotta di classe senza classe”, per dirla con E. P. Thompson48.

L’esperienza torinese trova rispondenze in altri contesti: a Venezia, a Milano, a Roma, a Firenze, a Reggio Emilia, a Napoli, ricercatori pressoché coetanei si mettono a studiare le stesse cose negli stessi anni; fanno al passato domande for-ti per comprendere un presente sempre più sfuggente, per molti aspetti deludente.

Alla chiusura degli anni settanta, gli “intellettuali militanti” formatisi nel Ses-santotto si riconvertono in ricercatori; per alcuni si aprono le porte delle univer-sità, in maniera stabile con l’immissione in ruolo del 1980; altri trovano più o meno duratura collocazione all’interno di centri studio, come quello di Portici dove Gabriella Gribaudi conduce una ricerca su Eboli con i metodi dell’antropo-logia e della storia orale49, nella pubblica amministrazione — come capita a Gio-vanni Contini, assunto nella Soprintendenza archivistica della Toscana dopo una permanenza a Cambridge — o negli uffici studi di regioni ed enti locali, come l’Ufficio per la cultura del mondo popolare della Regione Lombardia o l’Archi-vio della scrittura popolare nel Museo storico del Trentino, o negli Istituti per la storia della Resistenza, soprattutto in Piemonte e in Emilia-Romagna50. Anche i

47 Bruno Cartosio, Memoria privata e memoria pubblica nella storiografia del movimento operaio, “Studi storici”, 1997, n. 4, pp. 897-910, qui p. 910.

48 Francesco Benigno, Gli affanni della memoria. Un momento di riflessione nella storiogra-fia italiana?, “Storica”, 2005, n. 33, pp. 95-117, qui p. 113.

49 Gabriella Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, note introduttive di Alberto Graziani e Edoardo Grendi, Torino, Rosenberg&Sellier, 1980.

50 Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. 1. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Roma, Odradek, 1999, pp. 62-86; Bruno Bonomo, “Né in biblioteca né in archivio”. Storici e fonti orali in Italia dagli anni Settanta ad oggi, in Francesco Bartoli-ni e al. (a cura di), Lo spazio della storia. Studi per Vittorio Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 503-504.

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sindacati in questi anni aprono centri di ricerca e formazione a livello regiona-le: la Cisl, più della Cgil, si dimostra ricettiva e disponibile a ospitare l’intelli-genza brillante e provocatoria di questa nuova leva di ricercatori51.

Tutti insieme, pur variamente dislocati e permeati dai diversi microclimi po-litici e storiografici locali, costituiscono una rete informale di studiosi, tra loro in comunicazione e dotati di un medesimo imprinting generazionale, che con-dividono domande e affinano strumenti di analisi. Circoscrivono le ricerche e ri-ducono la scala di indagine a città, quartieri, singole fabbriche, fino a inseguire le traiettorie biografiche (individuali, familiari o di gruppo); rifuggono dalle ge-neralizzazioni e da formule interpretative che hanno mostrato di non far più pre-sa sulla realtà. Quasi tutti sono ancora interessati a capire dall’interno il mondo popolare e la classe operaia, cioè le aspirazioni, l’immaginario, le continuità con la cultura contadina, il peso della famiglia e dei legami informali nell’orientare la concezione di sé e le scelte dei singoli; utilizzano fonti sino ad allora non con-siderate da chi aveva studiato la storia del lavoro, come i libri-matricola, i docu-menti d’anagrafe, le testimonianze orali, le scritture popolari; di ogni tipologia di fonte discutono le specificità, per evitarne utilizzi ingenui o distorsioni.

Paradossalmente, gli anni del “riflusso” e dell’eclissi degli operai dal-la scena pubblica coincidono con l’ultima grande stagione della storiografia sul lavoro, nella quale microstoria e storia orale incrociano e raffinano stru-menti e concetti52. Ma le innovazioni proposte dai “giovani storici” produco-no anche reazioni difensive all’interno della comunità accademica più anzia-

51 Se ne vede traccia nel gruppo che realizza la ricerca: si veda Maurizio Carbognin, Luigi Paganelli (a cura di), Il sindacato come esperienza. Una ricerca su fonti orali condotta da Fe-derico Bozzini, Maurizio Carbognin, Marco Girardi, Maurizio Gribaudi, Marco Mietto, Luigi Paganelli, Stefano Ruvolo, tomo 1, La Cisl nella memoria dei suoi militanti; tomo 2, Ventidue militanti si raccontano, Roma, Lavoro, 1981. All’inizio degli anni ottanta erano nati o stavano nascendo i centri studi sindacali a base regionale, come gli Ires della Cgil e, per la Cisl, la Fon-dazione Corazzin a Venezia o la Fondazione Nocentini a Torino.

52 Edward P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di Edoardo Grendi, Torino, Einaudi, 1981; Marcella Filip-pa, “Mia mamma mi raccontava che da giovane andava a fare i mattoni…”. I fornaciai a Bei-nasco tra fonti orali e fonti scritte, pres. Luisa Passerini, Alessandria, Edizioni dell’orso, 1982; Vittorio Foa, Pietro Marcenaro, Riprendere tempo. Un dialogo con postilla, Torino, Einaudi, 1982; Francesco Piva, Giuseppe Tattara (a cura di), I primi operai di Marghera: mercato, reclu-tamento, occupazione. 1917-1940, Venezia, Marsilio, 1983; Franco Ramella, Terra e telai. Siste-mi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984; Luisa Passeri-ni, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Roma-Bari, Laterza, 1984; Giovanni Contini, Memoria e storia. Le Officine Galileo nel racconto degli operai, dei tecnici, dei manager 1944-1959, Milano, FrancoAngeli, 1985; Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e raccon-to: Terni 1830-1985, Torino, Einaudi, 1985; Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987; Duccio Bigaz-zi, Il Portello. Operai, tecnici e imprenditori all’Alfa Romeo 1906-1926, Milano, FrancoAnge-li, 1988; Marco Mietto, Maria Grazia Ruggerini, Storie di fabbrica. Operai metallurgici a Reg-gio Emilia negli anni ’50, pref. Vittorio Foa, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988; Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Marghera 1920-1945, Roma, Lavoro, 1991.

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na. Come spiega Pierre Bourdieu — che in quegli anni conduce una sorta di sociologia retrospettiva e largamente autobiografica, valida per tutta una ge-nerazione di studiosi53 —, nelle università il confronto scientifico si intrec-cia con un conflitto generazionale, che nel caso italiano si sovrappone a uno scontro politico, il quale si radicalizza alla fine dei settanta, a seguito delle derive della “nuova sinistra”, e proseguirà per tutti gli ottanta, con pesanti ri-cadute anche processuali che, a loro volta, avranno ripercussioni negli equili-bri interni al campo accademico54.

C’è un momento che marca una svolta, nel 1981, quando a Mantova si tiene per tre giorni il convegno organizzato da “Primo maggio” su “Memoria ope-raia e nuova composizione di classe. Problemi e metodi della storiografia sul proletariato”55. C’erano voluti due anni per organizzarlo, ce ne vorranno altri cinque per vederne gli atti: se la genesi era stata tormentata, l’esito fu una de-flagrazione. I tre giorni del convegno — cui parteciparono come relatori o udi-tori moltissimi degli studiosi fin qui nominati — si trasformarono in una sor-ta di psicodramma collettivo che fece esplodere le tensioni accumulate. Alla luce di questo convegno — scrisse Bruno Cartosio in un bilancio pubblicato in “Primo maggio” —, “si chiude nella nostra storia politica e culturale, tra il 1980 e ora, quella parabola iniziata nelle scuole e nelle fabbriche e durata po-co più di dieci anni”56.

Il volume degli atti è composto dalla trascrizione delle relazioni e dei di-battiti — registrati col magnetofono — ed è per questo un documento inusua-le, perché franco e non paludato, di un conflitto tra i vecchi “gruppi di affinità storiografica” che avevano ormai preso strade diverse: chi era legato alla “storia militante” — o alla militanza politica tout court — non tollerava gli interventi degli “accademici”, alcuni dei quali avevano chiaramente maturato una disillu-sione nei confronti della classe operaia come soggetto innovativo, alternativo o anche solo vagamente interessante.

Non riconosco la classe operaia torinese in quell’orda barbara, stracciona, che non sapeva par-lare italiano, che ci è stata presentata [nel filmato con fonti sonore Settembre 1980: lotta al-la Fiat] e che — in fin dei conti — ha dimostrato anche a livello politico di non saper lottare, visto che si è lasciata fregare57,

53 Pierre Bourdieu, Homo academicus, Bari, Dedalo, 2013 [ed. or. 1984].54 Due riferimenti ‘interni’ a storia orale e microstoria: Alessandro Portelli, La forma orale

della legge: il processo 7 aprile e la storia, in Id., Storie orali. Racconto, immaginazione, dia-logo, Roma, Donzelli, 2007, pp. 373-395; Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazio-ni in margine al processo Sofri, Torino, Einaudi, 1991.

55 Cesare Bermani, Franco Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione di classe. Problemi e metodi della storiografia sul proletariato, Milano-Rimini, Istituto Ernesto de Martino-Maggioli, 1986.

56 Bruno Cartosio, Memoria e composizione di classe: dal Convegno di Mantova in poi, “Primo maggio”, 1982, n. 17, pp. 55-58, qui p. 56.

57 C. Bermani, F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione, cit., p. 343.

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sbotta per esempio Giulio Sapelli, infiammando un dibattito che si conclu-de con un’altra (e opposta) “provocazione”, di Valerio Marchetti, rivelatrice di un’ulteriore faglia destinata ad allargarsi tra gli ex operaisti, una parte dei quali è ormai affascinata dalle analisi foucaultiane e dalle nuove soggettività posto-peraie: a che cosa serve la memoria? È solo un feticcio, una zavorra, una gab-bia disciplinare? Gli storici militanti sono per questo dei “necrofili” — così li definisce — aggrappati a un passato in decomposizione?58

Che la memoria sia un ostacolo non solo allo sviluppo di nuove soggettivi-tà ma anche alla comprensione del passato, è un dubbio che comincia a serpeg-giare. Negli anni ottanta la memoria diventa un oggetto autonomo di analisi per la storiografia e le scienze sociali, che lo riconoscono come complesso, da studiare e in parte decifrare59. Gli oralisti individuano nella memoria una del-le specificità del loro approccio alla conoscenza del passato60: anche questo fa parte di un processo di autonomizzazione e professionalizzazione degli ex sto-rici militanti che avanza nel corso del decennio e coincide con uno dei momen-ti più conflittuali ma anche più fecondi della riflessione teorica sulle categorie e sugli attrezzi del mestiere.

Un contributo decisivo è portato dal pensiero femminista, che colloca la memoria al centro del proprio progetto culturale tanto da farne il titolo del-la nuova rivista di storia delle donne (“Memoria”, appunto) che comincia a uscire nel 198161. I primi numeri danno chiaramente il senso di un’evoluzio-ne molto rapida dei gusti storiografici: le ultime ricerche sulle operaie di fab-brica, germogliate alla fine degli anni settanta all’incrocio tra i circuiti fem-ministi e gli ultimi sprazzi di protagonismo sindacale, si sovrappongono alle prime indagini sulle “ragazze borghesi emancipate” negli anni del “miracolo economico”, che annunciano come, col procedere del decennio, anche gli in-

58 C. Bermani, F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione, cit., pp. 352-353; il rifiuto della memoria come momento liberatorio è un tema sviluppato in quel periodo da Antonio Negri (Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria, “Metropoli”, 1981, n. 5, pp. 50-53): “il proletariato metropolitano, da Berlino a Brixton, da Napoli a Zurigo, da Amsterdam a Varsavia, conosce la realtà ed è rivoluzionario secondo dispositivi che la memoria non gli ha consegnato”.

59 Pierre Nora, Mémoire collective, in Jacques Le Goff, Roger Chartier, Jacques Revel (a cu-ra di), La nouvelle histoire, Paris, Retz, 1978, pp. 398-401. Nel corso degli anni ottanta usci-ranno il libro di Jacques Le Goff, Storia e memoria (prima in Italia: Torino, Einaudi, 1982; poi in Francia: Paris, Gallimard, 1988); i volumi dell’opera diretta da Pierre Nora sotto il titolo Les lieux de mémoire, Paris, Gallimard, 1984-1992; e la traduzione anche in Italia di Maurice Hal-bwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, postfazione di Luisa Passerini, Mila-no, Unicopli, 1987 [ed. or. 1950].

60 Alessandro Portelli, Sulla diversità della storia orale, “Primo maggio”, 1979, n. 13, pp. 54-60; L. Passerini, Storia e soggettività, cit.

61 “Memoria. Rivista di storia delle donne”, pubblicata da Rosenberg & Sellier, esce dal 1981 al 1991. Per un bilancio si veda Gabriella Bonacchi, Michela De Giorgio, Dai Taccuini di “Memoria”. La redazione al lavoro nei primi anni Ottanta, “Memoria”, 1991, n. 33, pp. 79-94.

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teressi della storiografia di genere tendano a spostarsi verso i ceti medi e lo studio dei consumi62.

La fonte orale, inoltre, diventa documento soprattutto per analizzare la co-struzione del sé e il privato, e meno per fare luce sulla storia sociale e i sog-getti collettivi. Un esempio è il modo in cui Simonetta Piccone Stella affronta uno dei totem più studiati e mitizzati dalla storia militante, cioè “Quaderni ros-si”: intervista le donne che vi hanno preso parte, ma non è interessata al côté politico-ideologico dell’impresa, quanto a capire le motivazioni individuali che spingono all’azione politica organizzata e gli snodi tra contesto sociale e scel-te personali “che segnano l’unicità dei percorsi biografici”63. Studi coevi — che la rivista discute — mostrano come proprio “l’indagine sulle microstrutture e sull’individuo, se condotta fino in fondo, possa mettere in luce le radici di gran-di fatti economici e politici” e rovesciare alcuni luoghi comuni. È quel che fa Fortunata Piselli studiando una comunità calabrese con gli strumenti dell’an-tropologia e della storia orale, osservando gli interni delle case e ascoltando le persone: dimostra che l’emigrazione, dagli anni cinquanta, non è stata una con-seguenza dell’impoverimento ma un fattore di dinamismo, che ha consentito ai singoli di manipolare il proprio destino e accedere alla società dei consumi64.

All’interno di questo cambio di fase, sempre nel 1981, viene varata presso Einaudi la collana Microstorie, diretta da Carlo Ginzburg e Giovanni Levi, che spinge la sperimentazione storiografica sul terreno empirico e insieme teori-co ed epistemologico, scavalcando confini disciplinari, cronologici e geografici; quest’esperienza sarà considerata a livello internazionale come uno dei prodotti più interessanti della storiografia italiana.

Secondo linee parallele ma ormai distinte rispetto alla microstoria, anche il di-battito sulle fonti orali si inserisce in un circuito sovranazionale, all’interno del quale la “scuola” italiana — rappresentata all’estero in questi anni soprattutto da Luisa Passerini e Alessandro Portelli — viene riconosciuta come una delle più originali e ricche, anche di una propria specifica tradizione65. Il confronto con al-tri spazi storiografici, come quello anglosassone, dove l’associazionismo professio-nale è più avanzato, attiva un feed-back positivo in Italia: dopo un incontro inter-nazionale ad Amsterdam nell’ottobre 1980 e uno a Torino nel gennaio 1981, nasce il primo “bollettino nazionale d’informazione” dal titolo “Fonti orali. Studi e ri-cerche”, diretto da Luisa Passerini. Uscirà in soli 5 numeri, tra il 1981 e il 198566.

62 Paola Nava, Storie di vita e di lavoro. Le operaie della Manifattura Tabacchi di Modena, “Memoria”, 1982, n. 3, pp. 99-107; Simonetta Piccone Stella, Crescere negli anni ’50, “Memo-ria”, 1981, n. 2, pp. 9-35.

63 Simonetta Piccone Stella, Voci dai “Quaderni rossi”, “Memoria”, 1983, n. 6, pp. 32-62.64 Luisa Passerini, rec. di F. Piselli, Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una

comunità calabrese, Torino, Einaudi, 1981, “Memoria”, 1982, n. 5, p. 142.65 Bruno Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Roma,

Carocci, 2013, p. 66.66 I convegni internazionali sulla storia orale che hanno preceduto la nascita dell’Interna-

tional oral history association nel 1996 sono stati quelli di Bologna (1976), Colchester (1979),

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In quel torno di tempo, facendo un bilancio per i dieci anni di “Primo mag-gio”, Portelli scrive:

il limite principale che mi sentirei di indicare nel discorso della rivista sulla storia orale sta forse nell’aver puntato soprattutto sull’attendibilità documentaria della storia orale, taglian-do in parte fuori strumenti di analisi più ricchi e complessi che si sono venuti elaborando, so-prattutto in Italia, negli ultimi anni67.

Il riferimento implicito è ancora alla memoria che — sostiene Portelli — ri-sulta più interessante proprio laddove si discosta dai fatti, in quanto permette di accedere a livelli di realtà altrimenti inaccessibili con altre fonti, ovvero di comprendere come i fatti siano stati vissuti, percepiti, immaginati, rielaborati e tramandati impastandosi con la storia successiva. Il libro Biografia di una città, che Portelli pubblicherà nel 1985 (proprio all’interno della collana Microstorie) è una dimostrazione dell’efficacia di questo modo di intendere l’apporto delle fonti orali alla conoscenza del passato.

Alla stessa conclusione, ma dal punto di vista opposto, arriva Maurizio Gri-baudi, che nel 1987 termina con una monografia il percorso di ricerca inizia-to dieci anni prima a Borgo San Paolo, rovesciando per molti aspetti le ipotesi iniziali e ridimensionando le potenzialità euristiche delle fonti orali: la memoria — argomenta Gribaudi in Mondo operaio, mito operaio — restituisce il “mito” e distorce la realtà. Le storie di vita, quindi, vanno lette in chiave indiziaria, con la lente di ingrandimento, prestando attenzione soprattutto alle incongruenze in-terne, perché in quei punti è possibile oltrepassare il velo dell’autorappresenta-zione. A differenza di Portelli, che spinge a valorizzare le valenze culturali e narrative insite nelle testimonianze sbagliate, Gribaudi cerca invece di demistifi-carle e cogliere le dinamiche sociali sottostanti alle narrazioni. Poi si rivolge al-trove per comprendere compiutamente che cosa sia successo nei quartieri operai di Torino negli anni venti e trenta: agli archivi dell’anagrafe, innanzitutto, che registrano i percorsi migratori dalla campagna, gli spostamenti interni alla città, le traiettorie di mobilità sociale, e quindi, in ultima istanza, le strategie messe in atto dagli individui e dalle loro famiglie, che sono i veri soggetti “forti” ed em-piricamente indagabili, di fronte ai quali si sfrangia irrimediabilmente l’immagi-ne ideologica di una classe operaia omogenea, coesa e solidale.

Dopo aver lungamente osservato con un approccio prettamente microstori-co un insieme circoscritto di individui, Gribaudi conclude tematizzando la “dif-ficoltà dell’uso delle fonti orali” per comprendere la realtà, “in quanto basate su

Amsterdam (1980), Aix (1982), Barcellona (1985), Oxford (1987), Essen (1990), Siena-Luc-ca (1993, Göteborg (1996): Annette Leo, Franka Maubach (a cura di), Den Unterdrückten ei-ne Stimme geben? Die International Oral History Association zwischen politischer Bewegung und wissenschaftlichem Netzwerk, Göttingen, Wallstein, 2013. Dopo vari tentativi, l’Associazio-ne italiana di storia orale ha visto la luce nel 2006.

67 Dibattito su “Dieci anni di Primo Maggio”, “Primo maggio”, 1984, n. 22, pp. 57-61, qui p. 61.

272 Alessandro Casellato

ricordi spesso deformati da successive razionalizzazioni”68. I testimoni — spie-ga — restituiscono soprattutto l’“ideologia locale”, cioè il racconto della storia elaborato collettivamente e localmente, rispetto al quale lo storico deve intro-durre delle correzioni grazie alla sua posizione esterna e sovraordinata.

L’occhio e l’orecchio (e la bocca): ermeneutiche a confronto

Già nel 1980 Giovanni Levi aveva messo in guardia dai “molti equivoci” e dall’“incontrollato successo” della storia orale, nella quale “la capacità emoti-va di interessare si è presto sostituita al lavoro di interpretazione e la respon-sabilità dello storico si è celata dietro la passiva funzione di raccoglitore di memorie”69. Quando lo conobbi come docente di Storia economica a Ca’ Fo-scari, a metà degli anni novanta, la sua posizione era ancora più netta: i te-stimoni in genere raccontano frottole, perché le loro narrazioni sono raziona-lizzazioni a posteriori, alterate dalla memoria; nel lavoro con le fonti orali è sempre in agguato il rischio della deriva emotiva del ricercatore; proprio per questo la microstoria è ben diversa dalla storia locale, poiché il microstorico non ha vincoli affettivi con il natio loco, quindi mantiene la distanza dal suo oggetto di studio, l’autonomia di giudizio e il primato della razionalità rispetto alle seduzioni e ai ricatti dell’emotività70.

Negli anni ottanta e novanta, in effetti, la storia orale aveva avuto una no-tevole diffusione, soprattutto al di fuori dei circuiti accademici, spesso assu-mendo curvature estetizzanti (il pathos della testimonianza), meramente cu-mulative (le raccolte monumentali di interviste finanziate da enti locali, partiti, sindacati, fondazioni) o esplicitamente nostalgiche (la storia locale matrice dei leghismi)71.

Ancora oggi Levi conferma la sua distanza e cautela nei confronti della sto-ria orale, qui espresse in un’intervista a Laura Benadiba, a margine di un con-vegno a Tarragona nel 2009:

68 M. Gribaudi, Mondo operaio, cit., pp. XII-XIII. 69 Giovanni Levi, Un problema di scala, in S. Bologna e al., Dieci interventi, cit., p. 80.70 Il piccolo, il grande e il piccolo. Intervista a Giovanni Levi, “Meridiana”, 1990, n. 10, pp.

211-234.71 Tra le prime e più significative raccolte di testimonianze orali, quelle di Bianca Guidetti

Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, 2 vol., Torino, Einaudi, 1977; N. Revelli, Il mondo dei vinti, cit.; Id., L’anello forte. La donna. Storie di vita contadina, Torino, Einaudi, 1985; Anna Bravo, Daniele Jalla, (a cura di), La vita offesa. Storia e memo-ria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, FrancoAngeli, 1987. Sul-le ‘curvature’ che ne sono seguite, si veda Quinto Antonelli, Anna Iuso (a cura di), Vite di carta (Atti del seminario “Archivi autobiografici in Europa. Tradizioni e prospettive a confronto”, Ro-vereto, 30-31 gennaio 1998), Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2000; Annette Wieviorka, L’era del testimone, Milano, R. Cortina, 1999 [ed. or. 1998]; Alessandro Casellato, “Identità veneta” e storia locale, “Memoria e ricerca”, 2004, n. 15, pp. 129-150.

L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria 273

[Benadiba] ¿Y la Historia Oral?[Levi] La historia oral es un método para crear fuentes nuevas y para construir narraciones, pero siempre se deben tener en cuenta sus límites que son, por un lado, la memoria de los en-trevistados, alterada por el tiempo pero también por el funcionamiento mismo de nuestro in-consciente, con sus olvidos, alteraciones, remociones. Por el otro, la emotividad: el historiador debe gobernar las emociones y no dejarse dominar por la empatía y por el sentimentalismo. Es necesario transformar el documento oral con sus falacias en algo racional y critico.El riesgo que siempre se corre al utilizar esta metodología es que los cuentos son más fasci-nantes que la elaboración científica, pero son ambiguos y el historiador debe luchar contra esta situación si quiere darle al lector una comunicación “cuidada”.

[Benadiba] ¿Cuándo y por qué empezaste a trabajar con fuentes orales en tus investigacio-nes? ¿Qué aportes le agregó la utilización de esta metodología a tu tarea como investigador?[Levi] Empecé al principio de los años 70, con colegas como Luisa Passerini y alumnos como Gabriella y Maurizio Gribaudi que después continuaron. Yo lo dejé por las razones que he dicho antes: la Historia Oral vive entre dos extremos, el que podemos llamar el “no gobierno” de la emotividad, que me parece que prevalece demasiado en el gran éxito que tuvo la Historia Oral, y el de la utilización de fragmentos de historia de vida que estaban manipuladas con violencia por los historiadores. Pero aprendí mucho de mis experiencias: sobre la memoria y sus falacias, sobre las fuentes y sus problemas de interpretación, sobre las personas y sus maneras de contar sobre sí mismas. Todas estas cosas han sido después el centro de mi tra bajo como modernista72.

Mi pare interessante discutere questa posizione di Levi perché mette a fuoco il punto di divaricazione tra microstoria e storia orale, che si colloca nei primis-simi anni ottanta, cioè nel momento in cui le due “comunità di pratica” — che pur erano tra loro imparentate, come sappiamo, e al proprio interno tutt’altro che monolitiche — si autonomizzano, progressivamente distillando due diverse ermeneutiche: quella della vista, o dell’occhio, prossima ai microstorici, e quel-la dell’ascolto, o dell’orecchio, propria degli storici orali.

Il saggio in cui Levi esprime più compiutamente la sua idea di microstoria è pubblicato nel 1991 nella raccolta, curata da Peter Burke, New Perpectives on Historical Writing. La parte centrale del testo è dedicata a un confronto con le posizioni di Clifford Geertz, in particolare con la sua prospettiva di lavoro an-tropologico definita come thick description. A Geertz viene rimproverato “il ri-fiuto dell’esplicitazione totale e lo sforzo di costruire un’ermeneutica dell’ascol-to” di derivazione heideggeriana, che sfocia nel relativismo. Lo storico che ha in mente Levi, invece, argomenta, vaglia, confronta, astrae; fa anche entrare il lettore nel suo laboratorio, gli rivela il processo di ricerca e persino gli mostra i limiti documentari, “facendolo partecipare al processo di montaggio del discor-so storiografico”; però mantiene sempre una posizione distinta e sopraelevata rispetto alla sua materia, nello sforzo di “dar senso al mondo”73.

72 Laura Benadiba, Entrevista a Giovanni Levi. El reto de interpretar. La Historia Oral co-mo “didáctica de la diferencia causada por el tiempo”, ora leggibile in http://tehif.blogspot.it/2013/06/entrevista-giovanni-levi-el-reto-de.html (questo, come tutti gli altri indirizzi web cita-ti sono stati consultati il 20 ottobre 2013).

73 Giovanni Levi, A proposito di microstoria, in Peter Burke (a cura di), La storiografia con-temporanea, Roma-Bari, Laterza, 1993 [ed. or. 1991], pp. 119, 125, 126.

274 Alessandro Casellato

Il campo semantico dei termini con cui si parla di microstoria è quello del-la vista: contano le forme, le dimensioni, la scala di osservazione dei fenomeni sociali. La riflessione teorica sulla storia orale utilizza invece, inevitabilmente, metafore di tipo uditivo. La distinzione tra i due campi riflette quella evidenzia-ta da Walter J. Ong nel suo celebre studio su Orality and Literacy (pubblicato nel 1982, quindi coevo all’emersione del nodo storiografico e teorico che stia-mo indagando):

la vista isola gli elementi, l’udito li unifica. Mentre la vista pone l’osservatore al di fuori di ciò che vede, a distanza, il suono fluisce verso l’ascoltatore […]: chi ascolta è al centro del proprio mondo uditivo, che lo avvolge facendolo sentire immerso nelle sensazioni e nell’esi-stenza stessa74.

La medesima, coeva biforcazione, a partire dall’embrione culturale formatosi negli anni settanta, è stata individuata da Marco Belpoliti all’interno del campo letterario75. Conosciutisi nell’estate del 1968, Italo Calvino e Gianni Celati ave-vano avviato un progetto di sperimentazione narrativa che si fondava su accor-gimenti condivisi come lo “sguardo archeologico”, la “delimitazione dello spa-zio” e la “spaziatura delle tracce”. Le loro narrative cominciano sensibilmente a divaricarsi nei primi anni ottanta: “al visivo di Calvino, all’occhio come stru-mento indagatore degli indizi, Celati preferisce le metafore auditive, la musica, il tono, la voce”76. Se Palomar di Calvino (1983) ha per protagonista un osser-vatore solitario e silenzioso, propenso alla riflessione più che allo scambio e in-teressato alla descrizione dei dettagli di realtà che conosce attraverso la vista, Narratori delle pianure di Celati (1985) sancisce invece il primato dell’ascolto e dell’intersoggettività sin dalla dedica iniziale (“A quelli che mi hanno raccon-tato storie, molte delle quali sono qui trascritte”), e il paesaggio prende forma e acquisita significato grazie al “sentito dire” delle voci popolari che lo abitano77. Conseguentemente, Calvino narra le meditazioni di Palomar in terza persona, mentre Celati mette l’io dentro le storie che racconta.

In analogia, se il microstorico pone una distanza tra sé e l’oggetto che studia, per poterlo osservare, lo storico orale deve avvicinarlo, per sentirlo, e farsene al-meno un po’ compenetrare, per ascoltarlo; se il microstorico — semplificando — è uno scienziato sociale che vuole mantenere il pieno controllo sulla sua ricerca, sul discorso che ne deriva e sui suoi significati, lo storico orale è invece disponi-bile — o obbligato dalla natura stessa delle sue fonti, dialogiche e sempre ecce-

74 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986 [ed. or. 1982], pp. 105-106; si veda anche Jack R. Goody, L’addomesticamento del pensiero sel-vaggio, Milano, FrancoAngeli, 1990 [ed. or. 1977].

75 M. Belpoliti, Settanta, cit., pp. 117-145.76 M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 142.77 Italo Calvino, Palomar, Torino, Einaudi, 1983; Gianni Celati, Narratori delle pianure, Mi-

lano, Feltrinelli, 1985.

L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria 275

denti rispetto alle sue domande — a riconoscere che il cerchio della spiegazione della realtà non è mai del tutto chiuso: nel suo modo di argomentare, attraverso lunghe citazioni delle narrazioni altrui, egli incorpora altre possibili spiegazioni, che “lasciano spazio anche all’autointerpretazione dei narratori”78.

“Tanto l’oggetto visto è scrivibile — osserva lo storico francese Michel de Certeau — quanto la voce crea uno scarto, apre una breccia nel testo”. Rispet-to all’ordine del discorso storiografico, la parola ascoltata avrebbe una natura perturbante e non del tutto controllabile, al punto che “ciò che esce dalla boc-ca o ciò che entra dall’orecchio può rientrare nella dimensione del rapimento”79. A voler dare il giusto peso alle parole, infatti, “oralità” richiama la bocca pri-ma che l’orecchio: lo storico orale, allora, non è solo dedito all’ascolto, ma an-che all’assaggio, alla manducazione e all’incorporazione dei racconti altrui — un po’ alla maniera dello storico-orco evocato da Marc Bloch, o del narratore di Walter Benjamin, la cui fonte è “l’esperienza che passa di bocca in bocca”80.

Come ha scritto Gabriella Gribaudi riflettendo sulla propria esperienza di ri-cerca sulla memoria di guerra in Campania, la storiografia è un esercizio di “immersione in un mondo altro”; quando lo storico orale applica la sua agen-da a una ricerca sul campo, anche non lontano da casa, finisce sempre per farsi condurre dai suoi testimoni a esplorare mondi che non conosceva, e a porsi do-mande che da solo non si sarebbe fatto81. Ciò significa che il vissuto e il narra-to in prima persona dai narratori non è mai completamente traducibile nei codi-ci di chi conduce la ricerca, e che il lavoro dello storico sta proprio nel dar conto del viaggio di andata e ritorno dal proprio mondo a quello altrui. Vuol dire anche che le spiegazioni locali — come ha notato Giovanni Contini —, anche quando sono tecnicamente sbagliate, contengono un certo grado di verità, soggettiva ma performativa, che non può essere espunta dall’orizzonte della ricerca82.

Intervistato sul suo libro su Terni, Alessandro Portelli ha osservato:

Carlo Ginzburg, quando esaminò la prima stesura del lavoro, mi fece notare come le mie spiegazioni e i miei commenti fossero riduttivi rispetto ai racconti. Nel materiale cioè c’era di più che non nei miei commenti. Credo avesse ragione83.

78 Alessandro Portelli, Un lavoro di relazione. Osservazioni sulla storia orale, all’indirizzo web www.aisoitalia.it/2009/01/un-lavoro-di-relazione/.

79 Michel de Certeau, La scrittura della storia, Milano, Jaca book, 2006 [ed. or. 1975], p. 249. Si veda Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2003.

80 Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969 [ed. or. 1949], p. 41; Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1995 [ed. or. 1962], p. 248.

81 Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 30.

82 Giovanni Contini, Fonti orali e storia locale. Memoria collettiva e storia delle comunità, in Cesare Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale, vol. II, Esperienze di ricerca, Ro-ma, Odradek, 2001, pp. 41-60.

83 Le provocazioni della storia orale, cit., p. 24.

276 Alessandro Casellato

Invece, una delle caratteristiche della microstoria — secondo quanto ne scri-ve Angelo Torre — è stata quella di credere nella “trasparenza delle fonti” e di non includere nella spiegazione “il punto di vista dell’attore sociale sulla pro-pria esperienza”: il ricercatore agiva come un osservatore assoluto e “un ‘con-trollore critico’ della versione dei fatti che davano gli attori stessi”84.

La diversa ermeneutica si riflette sullo stile narrativo e sui modi di esposi-zione: se le microstorie hanno assunto spesso il modello dell’inchiesta giudizia-ria o dell’indagine poliziesca, basandosi su uno sviluppo lineare e un intreccio avvincente, i libri di storia orale tendono invece a essere proteiformi, a proce-dere per accumuli e digressioni, a includere tempi storici diversi. Tanto le pri-me si presentano come opere compatte, concluse, perfette, come un teorema, quanto le seconde sono magmatiche ed estensibili, perché la memoria non ha fondo e le narrazioni su un avvenimento possono essere moltiplicate potenzial-mente all’infinito. Per questo si potrebbe dire che le microstorie si avvicinano alla forma del romanzo, le storie orali a quella dell’epica85.

Tracce dell’io e opere mondo

Secondo Erich Auerbach, nella tradizione culturale europea ci sono fondamental-mente due modi per rappresentare la realtà: quello logico di Atene e quello nar-rativo di Gerusalemme (quello dei poemi omerici e quello dei racconti biblici)86:

nell’uno, descrizione particolareggiata, luce uguale, collegamenti senza lacune, espressione franca, primi piani, evidenza, limitazione per quanto è sviluppo storico e problematica uma-

84 Angelo Torre, Comunità e località, in P. Lanaro (a cura di), Microstoria, cit., pp. 27-28. 85 Franco Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitu-

dine, Torino, Einaudi, 1994, pp. 83-92; Alessandro Portelli, Il testo e la voce. Oralità, lettera-tura e democrazia in America, Roma, Manifestolibri, 1992, pp. 87-109; Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, pp. 68-74. Sui mo-delli narrativi delle microstorie: Jacques Revel, Microanalisi e costruzione del sociale, “Qua-derni storici”, 1994, n. 2, pp. 568-570; quanto a quelli delle storie orali, ho fatto riferimento ad alcuni autorevoli esempi, come i libri di Gianni Bosio (Il trattore ad Acquanegra, cit.), di Ce-sare Bermani (Pagine di guerriglia, cit.), di Nuto Revelli (La strada del davai, Torino, Einaudi, 1966; Il mondo dei vinti, cit., L’anello forte, cit.), di Alessandro Portelli (Biografia di una città, cit., L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999; America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Roma, Donzelli, 2011), di Gabriella Gribaudi (Guerra totale, cit.), di Manlio Calegari (Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Milano, Selene, 2001), di Antonio Canovi (Pianure migranti. Un’inchiesta geostori-ca tra Italia e Argentina, Reggio Emilia, Diabasis, 2009) e di Antonio Canovi, Marco Fincardi, La Repubblica sulle rive del Po. Guastalla dalla Liberazione al 1948 (Bologna, Cleub, 2009) e Guastalla in chiaroscuro. Il racconto storico di una piccola comunità in guerra (1938-1945) (Reggio Emilia, Aemilia University Press, 2011).

86 Alessandro Portelli ha utilizzato in più occasioni la metafora di Atene e Gerusalemme per indicare i due poli della narrazione storica, per esempio in “Milano Corea” di Montaldi e Ala-sia, “Il Manifesto”, 27 gennaio 2011.

L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria 277

na; nell’altro, rilievo dato ad alcune parti, oscuramento di altre, stile rotto, suggestione del non detto, sfondi molteplici e richiedenti interpretazione, pretesa di valore storico universale, rappresentazione del divenire storico e approfondimento del problematico87.

Le due cittadinanze non sono incompatibili, anzi: storici e storiche hanno da-to buone prove quando si sono sentiti leali sia verso Atene che verso Gerusa-lemme, cioè quando hanno tematizzato e riflettuto su questa doppia responsa-bilità. Lo hanno fatto, con risultati interessanti, ogni volta che hanno voluto usare sia gli occhi sia le orecchie, come in tutte quelle ricerche che hanno inda-gato le “geografie abitate”, ovvero le storie di case, quartieri e città (ma anche di fiumi, valli o lembi di pianura, abitati dalla memoria, come le “piccole Russie” emiliane88), nelle quali le fonti orali sono state associate alla lettura stratigrafica del territorio e all’osservazione degli usi sociali degli spazi, oltre che agli archivi istituzionali e privati, adottando, come è stato scritto in uno dei testi più recenti,

un “pensare per casi” che sfrutta un approccio “micro” all’osservazione dei processi di tra-sformazione urbana e sociale per mettere in discussione alcuni dei racconti consolidati che sono stati costruiti a partire da scale di osservazione più ampie89.

Inopinatamente, però, in certi casi i debiti che l’occhio aveva nei confronti di quel che l’orecchio gli aveva riferito sono stati un po’ nascosti. Come nasce, per esempio, nella testa dello storico, la chiave che apre alla comprensione del-la realtà e che guida poi la ricerca? A volte (quante volte?), alla base di un’intu-izione di ricerca c’è una fonte orale, o un’esperienza diretta, dichiarata o meno. Così come, altre volte, sono una scoperta documentaria — anche negli archi-vi domestici — o un segno incongruo in un paesaggio ad attivare il bisogno di indagare e fare domande, o il rimpianto di non averne fatte abbastanza quando era ancora possibile.

87 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 2000 [ed. orig. 1946], p. 28.

88 Bruna Peyrot, La roccia dove Dio chiama. Viaggio nella memoria valdese fra oralità e scrittura, pref. Luisa Passerini, Sala Bolognese, Forni, 1990; Antonio Canovi, Marco Fincardi, Marco Mietto, Maria Grazia Ruggerini, Memoria e parola: le “piccole Russie” emiliane. Os-servazioni sull’utilizzo della storia orale, “Rivista di storia contemporanea”, 1994-1995, n. 3, pp. 385-404; Marco Fincardi, C’era una volta il mondo nuovo. La metafora sovietica nello sviluppo emiliano, Roma, Carocci, 2007.

89 Filippo De Pieri, Storie di case: le ragioni di una ricerca, in Filippo De Pieri e al. (a cu-ra di), Storie di case. Abitare l’Italia del boom, Roma, Donzelli, 2013, p. XXII; Enrica Asquer, Storia intima dei ceti medi. Una capitale e una periferia nell’Italia del miracolo economico, Roma-Bari, Laterza, 2011; John Foot, Micro-history of a house. Memory and place in a Milane-se neighbourhood. 1890-2000, “Urban History”, 2007, n. 3, pp. 431-453. Almeno un rapido cen-no ad alcune ‘scuole’ locali attente alla geostoria orale: quella romana, attorno a Lidia Piccioni e alla collana “Un laboratorio di storia urbana: le molte identità di Roma nel Novecento” (Franco-Angeli) e ad Alessandro Portelli e al Circolo Gianni Bosio; quella reggiana con Antonio Canovi e il Centro di documentazione storica di Villa Cougnet (http://villacougnet.it); quella veneziana con Piero Brunello e l’associazione StoriAmestre (http://storiamestre.it/).

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Duccio Bigazzi, intervistato da Cesare Bermani nel 1988 sulla genesi di Il Portello — un libro sulla storia industriale e operaia dell’Alfa Romeo, tutto co-struito su fonti documentarie —, dice di avere dedicato dieci anni alla ricerca, ma quello che voleva dimostrare l’aveva già capito all’inizio; afferma, inoltre, che so-no le fonti orali ad avergli consentito di leggere e capire le fonti scritte: “In una ricerca di questo genere il rapporto diretto con gli uomini è un fattore decisivo”90.

Alcune microstorie, che pur discutono con il lettore le fonti, i loro limiti, le diverse opzioni possibili, sono stranamente silenziose sugli inneschi autobiogra-fici e sulle risonanze “empatiche” che le alimentano, come se la presenza dello storico dentro la propria ricerca potesse sporcarne il velo di immacolata scienti-ficità. Persino nel libro Biografia di una città di Alessandro Portelli non si trova la notizia che Terni non è un oggetto di studio qualsiasi, ma la città in cui l’auto-re è cresciuto, e che conosce quindi dall’interno, non solo per via analitica.

“Io detesto la parola empatia, è una menzogna. L’empatia non è possibile”91, ha detto Carlo Ginzburg in un recente colloquio, e ha ricordato una citazio-ne da un saggio di Émile Benveniste, Les relations de temps dans le verbe français, che fu proprio Celati a fargli leggere, ai tempi di “Alì Babà”:

Definiremo la narrazione storica quel genere di enunciazione che esclude ogni forma lingui-stica “autobiografica”. Lo storico non dirà mai io, né tu, né qui, né ora, perché non prenderà mai in prestito l’apparecchiatura formale del discorso, che consiste anzitutto nella relazione di persona io: tu. Nella narrazione rigorosamente storica possiamo quindi trovare solo forme di “terza persona”92.

Ma chi lavora con le fonti orali non può rinunciare a dire io, tu, qui e ora, al-meno quando conduce le interviste, e difficilmente se ne può emancipare quan-do le trascrive e ci lavora; dire tu e io è, per lui, il modo che ha per stabilire prima una relazione e poi una distanza critica rispetto alle parole di un altro.

A volte, certe tracce autobiografiche, che sono state decisive per orientare il ricercatore nella comprensione dei fenomeni sociali, si rinvengono al di fuo-ri dei libri dove pure sono state elaborate scientificamente. Per esempio, solo ascoltando il racconto fatto da Gabriella Gribaudi sulla propria famiglia d’ori-gine in occasione di un esercizio di ego-histoire93, si viene a scoprire che il li-

90 Cesare Bermani, Una storia dell’impresa e della forza lavoro Alfa Romeo, “Primo mag-gio”, 1988, n. 27-28, pp. 73-76, p. 52.

91 Carlo Ginzburg, Storia e microstoria. Incontro con Mauro Boarelli, “Lo Straniero”, 2013, n. 154, all’indirizzo web www.lostraniero.net/archivio-2013/151-aprile-2013-n-154/799-storia-e-microstoria.html.

92 La citazione di Benveniste è riportata in Carlo Ginzburg, Che cosa gli storici possono im-parare da una narrazione sui generis come la Recherche, “L’Indice dei libri del mese”, 14 giu-gno 2013, all’indirizzo web www.lindiceonline.com/index.php/61- l-indice/giugno-2013/786-let-tori-di-proust.

93 Gabriella Gribaudi: “Un certo amore per il racconto degli altri”. Intervista di Valentina Ciciliot, in A. Casellato (a cura di), Il microfono rovesciato, cit., pp. 79-81.

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bro di suo fratello Maurizio — Mondo operaio e mito operaio — ha una chia-ra matrice autobiografica: la tesi di fondo sulle strategie di integrazione urbana a Torino, presentata come il risultato della ricerca, si trovava già inscritta nel-la storia familiare dell’autore; il suo corollario, ovvero la natura fallace e fuor-viante delle testimonianze orali, è in realtà ridimensionato dal fatto che era sta-ta una fonte di memoria — il “sentito dire” in famiglia, pur non formalizzato in un’intervista — ad avergli forse consegnato la spiegazione di ciò che voleva capire prima ancora che la ricerca in archivio cominciasse. (Anche se era stata probabilmente proprio la ricerca — il mettersi alla ricerca — a fargli vedere la propria esperienza familiare dal di fuori, riconoscendola come parte della sto-ria su cui stava indagando).

Anche altri e più recenti esiti dell’incrocio tra approccio microstorico e fon-ti orali mostrano che la memoria personale del ricercatore, e persino le emozio-ni, ovvero il suo posizionamento consapevole dentro il campo di indagine, sono una risorsa. Questo però richiede al ricercatore un “lavoro di anamnesi” che sia in grado di far emergere, e quindi oggettivare, l’“inconscio sociale”94 o la “me-moria implicita”95 che si porta dentro, e di produrre in lui contemporaneamen-te immedesimazione e straniamento, potenziando infine l’immaginazione, cioè quella capacità che gli consente di connettere le tracce del passato che ha a di-sposizione in maniera perspicace e innovativa.

I vivi vedono e, in caso, sentono. Per quel che è delle cose che studia lo storiografo non vede né sente. Legge. Per rendere vita a ciò che legge (residui, raspi, rimasugli), deve aiutarsi con quanto ha appreso dai suoi propri vedere e sentire. Ha da fare affidamento su quella che un sottile teorico ha definito la connessione totale della vita psichica96.

Sono parole di uno storico dell’età moderna, aduso a lavorare sulle carte d’ar-chivio: Gigi Corazzol, muovendo pure lui dal “programma di una rivista che non si fece”97, ha condotto una storiografia fortemente sperimentale utilizzan-do le fonti orali incapsulate nei documenti del Cinquecento e Seicento, presen-tate come “fonogrammi” o “testimonianze raccolte” all’interno di interrogato-ri, denunce e sentenze98. Paradossale storico orale dell’Ancien régime, Corazzol

94 Mirella Giannini, Introduzione, in P. Bourdieu, Homo academicus, cit., p. 17. 95 Boris Cyrulnik, Parlare d’amore sull’orlo dell’abisso, Milano, Frassinelli, 2005, p. 98 [ed.

or. 2004].96 Gigi Corazzol, Florilegio di buoni consigli a uso degli studiosi di storia municipale estrat-

ti da L’Europa delle città di Marino Berengo, in Id., Pensieri da un motorino. Diciassette va-riazioni di storia popolare, Venezia, StoriAmestre, 2006, p. 120 (corsivi nell’originale). Si ve-da Wilhelm Dilthey, Studi per la fondazione delle scienze dello spirito, in Id., Scritti filosofici (1905-1911), Torino, Utet, 2004, pp. 97-146.

97 Gigi Corazzol, Cineografo di banditi su sfondo di monti. Feltre 1634-1642, Milano, Uni-copli, 1997, p. 256: si tratta del dibattito intorno alla rivista “Alì Babà”.

98 Gigi Corazzol, Loredana Corrà, Esperimenti d’amore. Fatti di giovani nella Feltre del Cinquecento, Feltre, Pilotto, 1981; Gigi Corazzol, Trentanove fonogrammi da Mel (con una let-tera del conte). Dialoghi e monologhi tra 1612 e 1655, Feltre, Pilotto, 2000.

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ha sempre cura di contestualizzare le vite narrate nei loro luoghi, che egli può conoscere anche osservandoli e percorrendoli al presente, e quasi invita il letto-re a fare altrettanto, a mettersi fisicamente con lui sulle tracce — per esempio — di una donna “ostinata” del Cinquecento, a “provarla con le gambe quella distanza precisa”, a leggere il teatro dei fatti attraverso la microtoponomastica che le era presente, riconoscendolo come “una specie di spazio parlante”99.

Un esperimento di “microstoria orale” tra i più radicali è stato realizza-to da Luisa Passerini in Autoritratto di gruppo, la ricerca sul Sessantotto a To-rino costruita intrecciando interviste a vecchie compagne e compagni, il pro-prio materiale mnemonico e onirico emerso grazie a un percorso psicanalitico, insieme a più tradizionali documenti scritti come giornali e volantini100. Nel-la stessa direzione (e nella stessa collana di scritture femminili: Astrea, presso Giunti editore) sono andate Marcella Filippa, col suo dialogo-ricerca con Gior-gina Levi condotto sul filo di un’identità di genere e di una distanza generazio-nale, e Bruna Peyrot, che ha raccolto e poi scritto la storia di una “guaritrice”, cui era accomunata dall’essere donna, ma che allo stesso tempo sentiva appar-tenere a “un mondo molto diverso” dal proprio101.

Ma il caso più noto è quello di Nuto Revelli, la cui intera produzione storio-grafica ha origine in un’esperienza personale, la scoperta di un “altro mondo” che egli visse nel gennaio 1943 sul fronte russo:

Lì ho capito quanto fosse grande e preziosa la cultura contadina. Senza la cultura dei miei al-pini semi-analfabeti non sarei uscito salvo da quel disastro. I miei alpini contadini, nella riti-rata di Russia, riuscivano a risolvere anche i problemi più incredibili. Riuscivano a far cam-minare i muli in quel mare di ghiaccio, riuscivano a far risuscitare i muli… E ogni mulo che camminava erano trenta feriti che portavamo in salvo su una slitta102.

99 Gigi Corazzol, Francesca Canton. Feltre 1510-1544, Vicenza, Terra ferma, 2006 [ed. or. 1987], pp. 79, 118.

100 Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 1988.101 Gli esempi di biografia/autobiografia tratte da un’intervista in profondità sono molti, svi-

luppati con diversa sensibilità, storiografica piuttosto che letteraria o giornalistica. Tra i primi, realizzati da storici che utilizzano una tecnica di incrocio o ‘montaggio’ delle narrazioni auto-biografiche con le fonti scritte, segnalo Francesco Piva, Storia di Leda. Da bracciante a diri-gente di partito, Milano, FrancoAngeli, 2009; Cesare Bermani, Filopanti. Anarchico, ferrovie-re, comunista, partigiano, Roma, Odradrek, 2010; Gloria Nemec (a cura di), La giustizia e la memoria. Luciano Rapotez, un caso giudiziario del dopoguerra, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia Giulia, 2011. Un case study esemplare, che per approccio problematizzante potrebbe essere definito anche microstorico, è stato propo-sto da Alistair Thomson in un numero di “Quaderni storici” dedicato alla storia orale, mostran-do come egodocumenti coevi (lettere e diari) e fonti orali retrospettive offrano “strati distinti e tuttavia complementari di conoscenza storica” (Alistair Thomson, Le storie di vita nello studio dell’emigrazione femminile, “Quaderni storici”, 2005, n. 3, pp. 685-708).

102 “Lotta continua”, 19-20 febbraio 1978, cit. in Nicola Gallerano, Il mondo dei vinti, “Ri-vista di storia contemporanea”, 1978, n. 4, pp. 546-558, qui p. 546. Una versione postuma e ‘ri-montata’ di quelle ricerche è stata recentemente pubblicata a cura di Antonella Tarpino: Nuto Revelli, Il popolo che manca, Torino, Einaudi, 2013.

L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria 281

Tutta la pluridecennale ricerca di Revelli è stata un modo per riscattare ed elabo-rare culturalmente il significato di quell’incontro con il mondo contadino che gli aveva salvato (e cambiato) la vita. Un percorso lungo, di conoscenza e di medita-zione, alla fine del quale a Revelli è stato possibile prendersi storiograficamente cura anche di quel che gli era ancor più radicalmente “altro”, distante, finanche nemico: la biografia di un ufficiale tedesco ucciso dai partigiani. Dedicato non più a raccogliere estensivamente storie di vita ma a indagarne intensivamente una sola, misteriosa, il cui protagonista non aveva più la possibilità di racconta-re, Il disperso di Marburg è insieme un testo letterario, un diario di campo e una microstoria, costruita su fonti orali e scritte. È un prodotto d’autore e allo stesso tempo il frutto di un lavoro collettivo, che è potuto arrivare a compimento grazie alla sapienza ecologica e microtopografica di Revelli unita alle competenze ar-chivistiche sovralocali e sovranazionali di chi ha collaborato con lui103.

Un tempo di sedimentazione altrettanto lungo è stato necessario per affron-tare altri traumi legati alle vicende della Seconda guerra mondiale, come quelli del “confine orientale”. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, la zona di contat-to tra Italia, Slovenia e Croazia è diventata un laboratorio dei più vivaci nell’ap-plicazione delle fonti orali alla ricerca storica. In particolare, nel 2012 sono ve-nute a compimento due ricerche parallele sulla storia della minoranza italiana in Istria: una di Gloria Nemec in forma di libro, dedicata al periodo del dopo-guerra (di cui ha scritto, in questo fascicolo, Gabriella Gribaudi), e una di Sa-brina Benussi in forma di video saggio, incentrata sugli anni settanta104. Be-nussi ha utilizzato materiali d’archivio (i programmi di repertorio di Tele Capodistria) e interviste a persone comuni (non i rappresentanti ufficiali del-le comunità degli italiani), ma soprattutto ha lavorato sulla sua memoria perso-nale e familiare. Il punto di vista, straniato e sorprendente, è quello dei nati ne-gli anni sessanta, per i quali il confine è una frontiera porosa e gli “esuli” sono semplicemente gli zii emigrati. Nati vent’anni dopo la fine della guerra, i figli dei “rimasti” parlano il dialetto istroveneto a casa e imparano il croato a scuo-la; guardano la Rai e Tele Capodistria; ascoltano l’hard rock dei Bjelo Dugme ed Extraterrestre di Eugenio Finardi, i vocalizzi di Demetrio Stratos assieme al folk-pop di regime; e tuttavia, crescendo, percepiscono sempre più chiaramen-te il diaframma che separa la sfera familiare — dove la libertà di parola è con-sentita — da quella pubblica, su cui cala un velo di diffidenza. Questa ricerca, condotta su un ambiente circoscritto e doppiamente marginale (una minoranza di confine, indagata nella sua dimensione quotidiana, attraverso lo sguardo iro-

103 Nuto Revelli, Il disperso di Marburg, Torino, Einaudi, 1994.104 Gloria Nemec, Nascita di una minoranza. Istria 1947-1965: storia e memoria degli italia-

ni rimasti nell’area istro-quarnerina, Rovigno, Centro di ricerche storiche, 2012; Sabrina Be-nussi, Vedo rosso. Anni ’70 tra storia e memoria degli italiani d’Istria, prodotto da Associa-zione culturale Fuoritesto, in collaborazione con Tv-Koper Capodistria, Rai Regionale Friuli Venezia Giulia, 2012.

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nico ma affettuoso di una bambina), ha consentito in realtà di affrontare alcuni temi ‘forti’ della storiografia (le identità nazionali, il comunismo, gli anni set-tanta) in maniera non convenzionale, evitando stereotipi. Inoltre, il linguaggio filmico — che procede attraverso il montaggio di immagini, parole e musiche — ha permesso all’autrice non solo di raccontare, ma anche di far ‘sperimenta-re’, a chi guarda oggi, la pluralità e le ambivalenze dei vissuti di allora.

Non occorre affatto essere stati “testimoni” — cioè aver vissuto direttamen-te la storia che si vuole raccontare — per riconoscere che c’è anche la propria ombra sul terreno che si osserva: i legami tra il ricercatore e l’oggetto della sua ricerca sono spesso indiretti, mediati, analogici. Manlio Calegari, per esem-pio, ha studiato la Resistenza perché aveva delle domande che gli venivano dal-la sua esperienza nel Sessantotto, cioè per capire come nasca e che cosa sia un “movimento”: anche in questo caso, il vissuto ha illuminato il passato ogget-to della ricerca, e viceversa. Riconosciuta e validata su di sé questa procedura che lo fa essere proficuamente dentro e fuori il campo di studio, Calegari è sta-to disponibile a concedere anche ai suoi testimoni uno status non solo di ‘fon-ti’ — ovvero di oggetti d’analisi, nelle mani o sotto il microscopio dello stori-co —, ma di compagni di strada, ricercatori, curiosi, soggetti che partecipano alla ricerca, che sono in ricerca, disponibili a “ripensare alla [propria] storia mettendovi al centro altri elementi” che prima erano ai margini105. Con loro ha condotto interviste lunghe, iterate, in profondità, per certi aspetti maieuti-che, attivando in alcuni un vero e proprio processo di revisione autobiografi-ca. Come ha scritto Roland Grele, “la storia la fanno sia gli storici, sia le per-sone che intervistano, e l’intervista si riconosce qui come il luogo d’incontro fra due modi di pensare il passato”, che sono diversi ma che si mettono in ten-sione tra loro106.

Un procedimento analogo a quello seguito da Revelli e Calegari è stato ap-plicato da Alessandro Portelli nel suo lavoro su Harlan County, Usa107. In tutti questi casi, le ricerche si sono svolte all’interno di ambiti geograficamente cir-coscritti — fuori della porta di casa o dall’altra parte dell’oceano: non fa diffe-renza — e di reti di relazioni a maglie strettissime, con interviste ripetute più volte con gli stessi testimoni; sono stati studi lunghi e lenti, durati diversi an-ni o decenni, nei quali il tempo della ricerca si è mescolato inevitabilmente a quello della vita. La frequentazione iterata di un luogo, il “respirare la stessa

105 M. Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 537; Manlio Calegari, La sega di Hitler, Mi-lano, Selene, 2004; Id., Cara Marietta, caro Professore (Maggio-Ottobre 1987), 1a ed. febbraio 2003, all’indirizzo web www.quaderni.net/WebMarietta/Mari00index.htm.

106 Ronald J. Grele, Racconti personali: modalità di presentazione e d’uso, “Ácoma. Rivi-sta internazionale di studi nord-americani”, 1997, n. 10, pp. 4-6, qui p. 6. Si veda Piero Brunel-lo, Potere, oralità e scrittura. Divagazioni sopra un’intervista, in Cesare Bermani e al., Voci di compagni, schede di questura. Considerazioni sull’uso delle fonti orali e delle fonti di polizia per la storia dell’anarchismo, Milano, Centro studi libertari, 2002, pp. 85-109.

107 A. Portelli, America profonda, cit.

L’orecchio e l’occhio: storia orale e microstoria 283

aria” delle persone che si intervistano108, ha consentito di entrare a far parte di una “tradizione” locale e di attivare quel livello di conoscenza che si è soliti at-tribuire esclusivamente ai narratori o ai poeti, capaci di esprimere il genius lo-ci, di far risplendere luoghi sperduti e un po’ oscuri o — come ha detto John Berger — “saper raccogliere quella polvere d’oro che è racchiusa nelle vite re-ali e nelle relazioni tra gli individui”109. Qui, però, non si è trattato di alcun-ché di rabdomantico o irrazionalistico, bensì di un accumulo progressivo di do-mande e ipotesi di lavoro, microtracce e strati di consapevolezza, che nel corso del tempo ha avuto diverse occasioni di rielaborazione scientifica e discussione pubblica, ma alla fine ha condotto a qualcosa che assomiglia a un’opera mondo nella quale la storiografia sconfina nella letteratura, senza perdere però i suoi fondamenti di rigore, verificabilità, tracciabilità del proprio procedere110.

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109 Maria Nadotti, Prove d’ascolto. Incontri e visioni, Roma, Edizioni dell’asino, 2011, p. 278. Considerazioni analoghe in Sabina Loriga, La piccola x. Dalla biografia alla storia, Palermo, Sellerio, 2012 [ed. or. 2010].

110 Sui confini tra storiografia, memorialistica e letteratura si sta riflettendo da parecchi anni — anche grazie alle sollecitazioni della storia orale e della microstoria — soffermandosi di volta in volta sui distinguo o sugli incroci; per due recenti bilanci di questo dibattito si vedano Anna Ros-si-Doria, Memoria e racconto della Shoah, “Genesis”, 2012, n. 1-2, pp. 231-251; Monica Martinat, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo, Milano, Et al., 2013.

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Le fonti audiovisive: una risorsa e alcuni problemi

Giovanni Contini

Da alcuni anni gli storici orali hanno cominciato a utilizzare la videoregistra-zione. Per quanto mi riguarda, ricordo che circa vent’anni fa mi ero un po’ do-cumentato sui risultati degli antropologi visuali, ricordo dei video molto più lunghi e dettagliati di quanto non fossero i documentari cui eravamo abituati. Ritraevano operazioni tradizionali, per esempio massaie che panificavano e che rimuovevano ogni più piccolo residuo di impurità dai pani appena impastati. Video, dicevo, del tutto indifferenti rispetto al problema della durata, e talvolta anche della qualità delle immagini.

Avevo il problema di come registrare la fabbricazione dei coltelli tradizionali a Scarperia, dal momento che le semplici descrizioni verbali erano insufficien-ti: dalle sole parole dell’artigiano mi facevo un’idea molto approssimativa del processo costruttivo, mentre con la telecamera riuscivo a riprendere tutte le fasi della fabbricazione di un coltello e nello stesso tempo potevo registrare i com-menti del coltellinaio. Il quale parlava di altre possibili tecniche per eseguire il passaggio che stavo documentando, oppure raccontava di come suo padre o al-tri vecchi artigiani risolvevano determinati problemi tecnici.

Ma parlava anche di aspetti della vita familiare e sociale non direttamen-te legati alla costruzione di manufatti artigianali, e mi aveva colpito il fatto che ne parlasse in modo particolarmente rilassato, come se parlare durante il lavoro fosse un’abitudine consolidata, sua e degli altri artigiani: parlare a colleghi in visita alla bottega o a apprendisti o a clienti che avevano portato un coltello al quale rifare la lama troppo assottigliata dall’uso.

La stessa rilassatezza nel parlare di tante cose non necessariamente legate a quanto si stava facendo mi aveva colpito anche in un video sulla strage nazista del Padule di Fucecchio, Eccehomini1. Artigiani specializzati nel raccogliere e

1 Eccehomini. Ricordo di una strage (2007), di Marco Folin, Lorenzo Garzella, Filippo Ma-celloni, film documentario che racconta la strage nel Padule di Fucecchio del 23 agosto 1944.

“Italia contemporanea”, agosto 2014, n. 275