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LEZIONI AFRICANE Per un’Architettura Materica, Sociale, Organica e Gioviale Lorenzo Fontana

Lezioni Africane

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LEZIONIAFRICANE

Per un’Architettura Materica, Sociale, Organica e Gioviale

Lorenzo Fontana

L e z i o n i A f r i c a n e

Per un’Architettura Materica, Sociale, Organica e Gioviale

Lorenzo Fontana, Architetto

Ropi (Etiopia), 2011

“Lezioni Africane”Arch. Lorenzo Fontana

Prima Edizione, Gennaio 2012

Hanno letto le bozze e dato un contributo al presente volume: Maria Luisa Barabino., Alberto Boc-cardo, Massimo Corradi, Paolo Rava e Sara Capurro, che ne ha inoltre curato l’impaginazione.In quarta di copertina: disegno dell’autore.

Questo libro è registrato con una licenza Creative Commons CC BY-NC 3.0: non commerciale.Significa che sei libero di riprodurre questo libro parzialmente o del tutto con qualunque mezzo: se non ti è impossibile, compra questo libro anziché fotocopiarlo, avrai immagini a colori ed il ricavato finanzierà progetti di sviluppo a Ropi. In caso contrario fotocopia e scandisci tutto, che non ci sia intralcio alcuno alla circolazione e diffusione dei messaggi importanti, come quelli portati in questo saggio. Puoi inoltre ripubblicare qualunque parte scritta ed illustrativa, a patto di citarne correttamente la fonte.

Dedicato a tutti quelli che ci credono(in qualunque cosa, ma fino in fondo)

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INDICE

0. Premessa................................................................................... 7

0.1 La cooperazione allo sviluppo 0.2 La vera co-operazione allo sviluppo

1. Questioni generali..................................................................... 9

1.1 Architettura e cucina 1.2 Quattro ricette dal Corno d’Africa 1.3 Le relazioni tra Soggetto e Oggetto: s,S,o,O 1.4 Il rapporto soggetto-oggetto nelle attività artigianali e creative 1.5 La tabella generale dell’Architettura

2. Questioni particolari................................................................. 41

2.1 I materiali 2.2 Le strutture 2.3 L’impianto 2.4 L’organismo

3. Progetti..................................................................................... 152

3.1 Prima dell’Architettura: la cupola di Genova e quella di Ropi 3.2 La continenza del progettista: casa per me stesso 3.3 Autocostruzione Assistita: Ermias House, Abbacho House 3.4 Tecnologie Appropriate: il forno solare Sherarit e le fornaci per i mattoni 3.5 Tra tradizione e innovazione: il museo di Awassa ed il Fekat Circus 3.6 Architettura Gioviale: il Training Center e il Community Center 3.7 Tipo e Modello: l’asilo rurale

4. Pensieri conclusivi.................................................................... 172

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0.1 La Cooperazione allo sviluppo

0. Premessa

Un cane zoppica. Avrebbe bisogno di una manipolazione alla zampa, di una fascia-tura e poi di un breve periodo di riposo per rimettersi completamente.Il veterinario però non ha mai visto un cane in vita sua, ha sempre curato sol-tanto gatti.Esamina con attenzione la zampa feri-ta senza però degnare nemmeno di uno sguardo l’animale nella sua interezza, non fa caso dunque al fatto che non si tratti di un felino.Si allarma perchè gli artigli della zampa malata non sono retrattili come quelli di un felino in salute ed i polpastrelli appa-iono insolitamente grandi e coriacei.Decide così di amputare la zampa, e so-stituirla con quella sana di un gatto.Dopo l’intervento le condizioni del cane si aggravano, è evidente il rigetto dell’or-gano estraneo da parte del resto del cor-po, ancora ben funzionante. Urge fare qualche cosa.Il veterinario nota che la zampa di gatto è decisamente più corta delle altre tre, e pensa che sia questo il motivo del ma-lessere del cane. In una sola operazione il veterinario asporta le altre tre zampe e trapianta al loro posto altre tre zam-pe di gatto, pensando così di risolvere il problema.Il cane non riesce più ad alzarsi, tutte le zone dell’intervento sono coperte di infe-zioni ed iniziano ad imputridire. Il veteri-nario, sconsolato, analizza attentamente il corpo dell’animale sofferente, non ri-esce a capacitarsi della persistenza dei

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malesseri del paziente, e procede con accurate analisi cliniche.Il responso degli esami del sangue, delle radiografie e delle analisi di laboratorio suggerisce al veterinario di amputare e sostituire con elementi sani di gatto an-che le orecchie, i baffi, la coda, alcuni organi interni ed il manto peloso.Certo l’operazione è estremamente costosa, ma il veterinario è animato da un vero spirito altruista, cosicché avvia delle raccolte fondi e delle campagne di sensibilizzazione per poterla eseguire.La brava gente si commuove quando vede un animale sofferente, ed elargisce la somma necessaria.Anche queste operazioni falliscono senza lasciare nessuna speranza. Del cane ormai non rimane più molto, e tutti i trapianti fatti vengono rigettati.L’ultimo ed estremo tentativo: il veterinario cambia tutto il sangue del cane sostituendolo con quello di un gatto, ed esegue un difficilissimo trapianto di cer-vello.Il cane, finalmente, muore.“Abbiamo fatto tutto il possibile – dice il veterinario sconsolato – ma la situazio-ne di questo povero animale indifeso era davvero disperata”.Versa una lacrima.I giornalisti sono attratti da quest’uomo così buono, che ha lottato per salvare la vita a un povero animale sofferente, lo lodano e lo incensano su tutti i giornali, lo chiamano le televisioni a parlare.Riceve persino una medaglia al valore civile dal sindaco della città.Fonda un’associazione dal nome AdA, gli “Amici Degli Animali”, istruisce del personale specializzato, impianta cliniche animali qua e là, con finanziamenti sia privati che pubblici.Nelle cliniche si torturano gli animali malati, trattandoli tutti come fossero dei gatti, la quantità di decessi è impressionante.Ma il veterinario scrive trattati, articoli e libri su quale sia la giusta procedura per aiutare gli animali feriti.La gente lo adora, è diventato un simbolo di chi sta dalla parte dei più deboli.Qualcuno si accorge che la spesa per curare gli animali è aumentata di dieci volte da quando il veterinario ha iniziato la sua opera, e che guarda caso nella stessa misura è aumentata anche l’incidenza della mortalità degli animali feriti.Ma alla gente va bene lo stesso.Tutti sono talmente felice di avere un’icona per la protezione dei più deboli, che non sono disposti a pensar male. Arrivederla signor veterinario, capirà se non le auguro buon lavoro.

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La parola “co-operazione” ha un significa-to ben preciso, e vuol dire “lavorare assie-me”.Quando Hassan Fathy scrive il suo libro Bu-ilding With the Poors, sostituendo l’ovvio e prevedibile “for” con quello straordinario, enorme e stravolgente “with”, scardina la concezione caritatevole dell’aiuto ai pove-ri, inizia ad affiancare ai diritti e ai bisogni anche i loro doveri e le loro responsabilità, e di fatto anticipa di circa trent’anni il con-cetto stesso di co-operazione.La lezione non è evidentemente servita come esempio eccellente per la pratica co-mune, ed oggi tutti i principali attori dello sviluppo internazionale (dai grandi organi-smi alle Organizzazioni Non Governative) non solo hanno ereditato le peggiori forme pietiste di aiuto caritatevole dall’alto al basso, ma vivono in un sistema che rende impossibile a chiunque, per quanto ben in-tenzionato, agire diversamente. A parole, non c’è progetto che non metta al centro la sostenibilità, la replicabilità, il radicamento alla realtà locale, l’etica mo-rale e la ricerca di vero sviluppo; ma nella pratica i sistemi di finanziamento e rac-colta fondi impongono di non fare (o fare con risorse assolutamente insufficienti) le indagini preliminari, che sarebbero poi il vero cuore di ogni progetto. I criteri fis-sati dai donatori istituzionali impongono di privilegiare sempre i più bisognosi rispet-to ai più meritevoli, cosicchè si assiste ad un vero e proprio livellamento dello stato di ricchezza nei contesti più depressi, uc-cidendo sul nascere, insieme alla merito-

0. Premessa

0.2 La vera co-operazione allo sviluppo

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crazia, ogni moto di sviluppo endogeno. Gli aiuti umanitari che arrivano gratu-itamente alla popolazione distruggono intere aree di mercato prima pulsanti e ben radicate, faremo un accenno più avanti riguardo il mercato tessile: in quale villaggio africano la gente comprerà correntemente vestiti tessuti a mano dagli artigiani locali, mentre interi container di t-shirts vengono regolarmente regalati nella piazza del mercato quando arriva qualche associazione umanitaria? Di fronte a questa triste realtà neo-coloniale, a questi mostri apocalit-tici che lavorano nel sud del mondo con settantasette mani ma senza neppure un occhio, credo sia necessaria una collettiva presa di coscienza ed un sostanziale ripensamento dell’intero apparato, che prenda atto dell’inefficacia (o dannosità) del sistema esistente. Ci sono quintali di dati e di bibliografia1 a confermare che nell’ultimo mezzo secolo, ossia da quando la cooperazione internazionale esiste, sono costantemente aumentati gli impegni economici per i progetti di sviluppo e ciononostante la situazione dei paesi poveri è in costante peggioramento2. E’ inutile far finta che si tratti sempre di un’emergenza: l’epidemia in Congo, la carestia in Chad, i profughi Eritrei, la siccità in Burkina Faso, … tutte queste non sono affatto emergenze.Lo sono solo se vengono trattate come tali, inventando ogni volta un’azione specifica (in genere costosissima) anziché guardare alla radice dei problemi ed accorgersi che questo continuo prendersi cura delle contingenze ha una forte responsabilità nella mancanza totale di sviluppo in determinate aree del pianeta. Si chiama deresponsabilizzazione dei popoli.Se si volesse parlare davvero di sviluppo non bisognerebbe parlare di pozzi, cli-niche, ospedali, derrate alimentari o distribuzione di vestiti.Bisognerebbe parlare soprattutto di università, di tecnologie, di economia, di reti ed infrastrutture per il trasporto, di commercio, di ricerca, arte, di cultura in generale.Solo questo è in grado di stimolare davvero lo sviluppo, la trasmissione della conoscenza.

1. A. Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?; W. Easterly, I disastri dell’uomo bianco; B. Grill, Africa!; S. Latouche, L’al-tra Africa, ... 2. La dicitura “Paesi in Via di Sviluppo”, PVS, è assolutamente ipocrita: l’Africa è più “in Via di Distruzione” che “di Svilup-po”. Ricordo che nel 2005 ci fu rifiutato un piccolo finanziamento dal Rettore dell’Uni-versità di Genova perchè nel documento di progetto usammo la dicitura “paesi affama-ti” anziché PVS.

E lo strumento giusto per la diffusione, l’integrazione e lo scambio culturale è senza dubbio la co-operazione, il lavo-rare assieme su dei progetti, non neces-sariamente su dei problemi, fintanto che obiettivi e metodologie non divengono un dato assodato comune, e il processo può continuare in autonomia.Non c’è nulla come lavorare assieme che permetta a due persone o gruppi di cono-scersi, scambiarsi informazioni utili e, in definitiva, crescere.

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0.Premessa_La vera co-operazione allo sviluppo

Ho più volte osservato con i miei occhi, durante i workshop che organiz-zo, gruppi di ragazzi italiani ed etiopi che in quanto a vocabolario non potevano intendersi su altro che su “hello” e “thank you” lavorare assieme per ore e – per tutto questo tempo – non smettere neanche per un secondo di comunicare gli uni con gli altri.Il lavoro stimola per necessità i linguaggi non verbali, avvicina le persone perchè le rende interdipendenti nelle attività che non possono essere svolte da un indi-viduo solo (la maggior parte, tra quelle che si fanno in un cantiere), ed in quanto attività nobile, soprattutto, il lavoro presenta di ciascun individuo la parte più sincera. Quando un cooperante o un volontario spedito da una qualunque asso-ciazione in un qualunque angolo del mondo è curioso, diventa lui stesso un occhio del mostro biblico di cui si accennava. La grande grazia che ne deriva è di vedere il mondo per quel che è, il contesto in cui è finito, quel piccolo lembo di realtà che per la durata del con-tratto a progetto sarà la sua casa: chiunque faccia un’esperienza di cooperazione porta con sé questa grazia per sempre.Il rovescio della medaglia è che l’occhio, quando vede il mostro a cui appartiene, capisce che se vuole continuare a essere occhio (lì e non altrove) sarà costretto ad una scelta terribile: o stare lì a vedere tutta la magnifica e complessa realtà che il mostro lentamente mangia e vomita in forma di bidonville, o prendere una lama bella affilata e recidere i propri legami con il mostro, sapendo che questo lo lascerà in mano a sè stesso e privo di qualunque riferimento.Certo non è una situazione semplice, ma si tratta di una sorta di battesimo del fuoco a cui tutti coloro che si affacciano al mondo della cooperazione sono prima o poi chiamati a partecipare.Quando hai capito che un sereno lavoro per una ONG non porterà mai nessun effettivo contributo alla gente della comunità in cui vieni inserito e che ti ospita, ecco la scelta: mettere la testa sotto la sabbia, fare finta di non capire e con-tinuare a fare il cooperante da salotto, oppure accettare la sfida. Cercare di passare, come Hassan Fathy, dal “for” al “with”. In quel momento preciso diventi un cooperante informale.Informale nel senso che non sei legato ad una forma (contrattuale, giuridica, di progetto, professionale, associativa), sei legato semplicemente ad una realtà (sociale, umana, ambientale, culturale) all’interno della quale e a favore di cui vuoi operare. A me sono serviti due anni per prendere il coraggio e decidere di fare il salto, nel frattempo ho cincischiato con lavoretti in diversi studi professionali italiani, lavori sociali non attinenti l’architettura ed un dottorato in ingegneria antisismica (iniziato e mai portato a termine).A Giorgia c’è voluto molto meno, lei lavora ad Addis Abeba con una cooperativa

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di circo costituita da straordinari artisti, per la maggior parte ex ragazzi di stra-da. Enrico sta a Conso, giù al sud, e a lui c’è voluto più che a tutti, trent’anni. E’ antropologo, e ha fondato un centro culturale.Matteo ci ha impiegato quanto me, lui sta dall’altra parte dell’Etiopia, al Nord. Lavora da anni ad Ankober, freddissimo villaggio aggrappato a 3000 metri sulle montagne rocciose, scende a valle di rado e lo si incontra nel centro di Addis Abeba con gli scarponi da montagna infangati ed in volto la serenità del Mahat-ma.Per Fabio e Giovanna è stata una cosa graduale e consapevole, un’avventura di coppia con tre magnifici figli nati e cresciuti in Etiopia, sette anni nella sa-vana attorno a Ziway e poi ad Addis Abeba. Leonardo viene da Bari e ha preso un’altra strada, quella che passa dal Vaticano. E’ missionario nell’Oromo Guji, in Etiopia da 20 anni. Nelle diverse occasioni di guerra e tensione ha cambiato la storia di queste terre, è etiope quanto italiano, parla l’Amarico come un Amhara, e l’Oromo come un Guji ed è una persona straordinaria.Metà dei globuli rossi di Saba invece vengono dal corno d’Africa, e dopo essere cresciuta e diventata adulta in Italia ha deciso di partire cooperante per l’Etio-pia, sta ad Awassa.A lei ci sono voluti pochi mesi, ha capito subito che non poteva stare dentro agli schemi del lavoro formale e si è messa alla ricerca di altre vie, con forme di bu-siness etico che finanziano attività sociali per i bambini, un’ottima strada per la sostenibilità dei progetti. Accenno a queste storie perchè sono tutte straordinarie e meritereb-bero molto più delle poche parole che ho speso; ma pur nella loro meravigliosa unicità tutte invariabilmente presentano la stessa forza motrice: la curiosità por-ta a conoscere, la conoscenza non solo porta ad apprezzare e dunque rispettare, ma anche ad innescare un processo simmetrico e dunque ad essere conosciuto-apprezzato-rispettato; e questo reciproco approccio porta ad instaurare legami fruttuosi e genuini. Un individuo cresciuto e “studiato” in Europa catapultato all’interno di una qualunque contesto Africano, rurale o cittadino, rappresenta un’anomalia, un qualcosa di completamente altro. Quando i legami con il conte-sto non sono buoni esce il peggio delle due identità: l’europeo diventa uno spie-tato colonialista e l’africano un ladruncolo approfittatore (ed è ciò che accade nella maggior parte dei contesti di “cooperazione”).Ma se i legami sono buoni, il cooperante è in grado di insegnare ed imparare a gran ritmo e con reciproca soddisfazione alla e dalla comunità locale. Questo è il presupposto più importante, essere sinceramente e convintamente intenzionati ad imparare altrettanto di quanto si voglia insegnare.Deve essere uno scambio alla pari, altrimenti significa che qualcosa non funziona.E non è retorica o buonismo, l’Africa è piena di costosissimi e potenzialmen-te splendidi regali della cooperazione lasciati in stato di completo abbandono:

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0.Premessa_La vera co-operazione allo sviluppo

ospedali vuoti, scuole senza insegnanti, pozzi guasti, generatori a cui manca la benzina, sul mio computer ho un’intera cartella di fotografie dedicata a questi cimiteri della cooperazione. Non vale la pena spendere tempo ed energie a fare queste cose qui, quasi neanche a parlarne.La ricetta della co-operazione è 50% e 50%, gomito a gomito, dai e ricevi, in-segni e impari, spieghi e capisci, aiuti e ti lasci aiutare.Se dovessi dare un consiglio a qualcuno che per la prima volta affronta un’e-sperienza di cooperazione, questo sarebbe: tieni dei corsi di orticultura? Prendi lezioni di danza tradizionale.Insegni igiene alle giovani madri? Prendi da loro lezioni di cucina locale. Insegni inglese o comunque lavori nel campo dell’istruzione? Sforzati di imparare per bene la lingua di chi ti ospita. Fai delle scuole tecniche per la lavorazione del le-gno e del ferro? Interessati nel tempo libero delle produzioni artigianali di cuoio e bambù. E’ l’unica possibilità per agire nella sostanza delle cose, per arrivare al cuore delle faccende più importanti. Lo studio presentato in questo libro nasce dalla profonda ammira-zione che provo, come uomo e come architetto, nei confronti della produzione spontanea di architettura rurale africana.Qui in Etiopia è tutt’oggi viva, pulsante ed operante una cultura costruttiva stra-ordinaria in proposito: 82 etnie costruiscono correntemente capanne che si di-stinguono per forma, dimensioni, materiali, struttura portante, giunti, legature, partizioni interne, aggregabilità esterna e via dicendo. 82 tipi diversi di capanna, e per ciascuno solo la propria è una “casa”, poiché quello gli è stato tramandato e quello conosce. L’architetto non ha ancora ricevuto la delega sociale in queste società rurali, nel senso che costruire una casa è un fatto culturale collettivo: la casa non si progetta, si fa come va fatta, come si fanno le case. La commozione nel vedere questa sorprendente varietà di soluzioni che di volta in volta, di etnia in etnia si adattano al clima, alle condizioni e la cultura abitati-va, si unisce a quel vago senso di ansia dato dal poter prevedere che quel mondo è destinato a finire.Alcune tradizioni già si sono perse, come pure alcune lingue, sempre più frequen-temente si perderanno in futuro. E’ da quando sono qui che mi sento una sorta di dovere morale di fotografare, catalogare e testimoniare le culture tradizionali da un lato, e dall’altro di incoraggiarle, attualizzarle ed interagirci il più possibile.Sono qui raccolti, rispettivamente nei capitoli 2 e 3, alcuni tentativi di lettura dell’edilizia tradizionale e gli interventi progettuali fatti in questi anni, ad essa in qualche modo correlati.Ma se ogni progetto ha bisogno di una previa lettura, parimenti ogni lettura richiede di essere progettata, ossia focalizzata su alcuni elementi individuati all’interno di un sistema di riferimento noto, e proprio a questo servono i capitoli 1 e 4.

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Incominceremo questo itinerario, questo corpo a corpo con il cuore dell’Archi-tettura, con quattro ricette provenienti dalla cucina tradizionale etiope. Non c’è infatti nulla di più simile all’Architettura dell’arte culinaria, di cui tra l’altro lo scrivente è un discreto conoscitore.Dico che Architettura e Cucina si somigliano perché la ricetta segreta, il coman-damento unico ed imprescindibile per ottenere un buon risultato, è sostanzial-mente lo stesso.Henirich Tessenow, un grande architetto artigiano (e -mi piace immaginare- an-che valoroso cuoco), espresse l’enunciato in modo chiaro e scientifico: “quanto più riusciamo a suddividere e a ricomporre, tanto migliore sarà il risultato” 3. La cucina è proprio l’arte del suddividere e ricomporre: non esiste un piatto al mondo che per essere preparato non preveda la distruzione dell’unità dei sui ingredienti, e la ricomposizione di un nuovo prodotto.I due momenti sono distinti e separati tra loro: alla fase del “suddividere” ap-partengono gesti come rompere le uova, macinare il grano, pestare, sminuzzare, affettare, torchiare, schiacciare, macerare, triturare e via dicendo, mentre della fase del “ricomporre” fanno parte i gesti di impastare, mantecare, condire, far-cire, mescolare, sciogliere, stendere, modellare, diluire, e simili.Le fasi si alternano, una non è più importante dell’altra perché sono coessenziali e il prodotto finale porterà visibili le tracce di tutti i diversi procedimenti.Si possono catalogare in questo senso piatti elementari, in cui cioè vi è un solo atto di suddivisione seguito da uno di ricomposizione, come la frittata, l’hambur-ger, l’insalata o la cotoletta, e piatti invece più elaborati, ossia che richiedono più processi di separazione-unificazione, come i ravioli, la pizza, la pasta al ragù o gli arancini di riso. L’Architettura non è diversa dalla cucina. L’architetto prende l’albero e ne fa travi, il suolo e ne fa mattoni, i prodotti di altoforno e ne fa cemento, la montagna e ne fa pietra da taglio. “Suddivide”.E poi con le travi fa un solaio, con i mattoni muri e cupole, con il cemento fon-dazioni e pilastri, con la pietra archi ed ornamenti. “Ricompone”, o più sempli-cemente “compone”.Nonostante la nobile origine, la parola “composizione”, nel gergo degli architet-ti, è diventata quasi blasfema: l’architetto crea, disegna, progetta, che diamine, non compone!Comporre significa prendere degli elementi esistenti ed assemblarli, mentre l’ar-chitetto crea la sua proiezione progettuale a partire da una libertà assoluta. Questo direbbe qualche professoraccio di Architettura, cosicché quando sentiamo

1.1 Architettura e Cucina

1. Questioni generali

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1. Questioni Generali_Architettura e Cucina

3. H. Tessenow, Osservazioni Elementari sul Costruire.

parlare di “composizione” il nostro im-maginario ci suggerisce immediatamen-te riferimenti al mondo della musica, e l’analogia in effetti è reale.Del musicista si dice che compone per-ché ha 12 note a sua disposizione, e tan-to gli deve bastare. Non ne ha infinite, neppure diecimila, solo dodici. E così ha pure 12 accordi maggiori e 12 minori. Su 12 note e 24 accordi è costruita tutta la musica compresa tra Bach e Britney Spears, e nessun musicista – per quanto straordinariamente dotato – riuscirà mai ad inventare una tredicesima nota o un venticinquesimo accordo. E allora, dato che non può fare altro, “compone”: usa le note e gli accordi come mattoni che, sempre uguali ma aggregati in maniera sempre diversa, possono disegnare un’in-finita varietà di forme. Per essere un buon musicista bi-sogna anzitutto conoscere note e accordi, così come per essere un buon cuoco oc-corre conoscere ingredienti e processi di base.Per essere un buon matematico c’è bi-sogno di conoscere le quattro operazioni e i cinque assiomi di Peano, e per avvi-cinarsi all’Architettura serve conoscere gli elementi costituenti e i gradi fondanti dell’architettura. Di cosa si tratta? Per arrivarci, occorre prima sbrigare la fac-cenda delle ricette.

Granai in bambù intrecciato

Lezioni Africane

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Il nome caffè, coffee, viene dalla città di Caffa, in Etiopia, centro del commercio e dell’esportazione della bevanda origina-ria proprio di queste terre, ma da tempi antichissimi apprezzata in tutto il mondo.Uno dei caffè arabici più pregiati che esistano si chiama Sidama, dal nome dell’omonima tribù che lo coltiva. Ha il seme chiaro e più piccolo del normale, il sapore è molto dolce ed un poco piccan-te, è quello che la gente preferisce.Simile al caffè turco ma senza i tipici fondi spessi, cosa che lo rende molto più godibile, il caffè etiope viene servito in campagna con sale e burro, mentre in città con lo zucchero. L’idea del sale e il burro può sembrare bizzarra, ma sono necessarie almeno due considerazioni: la prima è che in campagna la gente dif-ficilmente ha lo zucchero o i soldi per comprarlo, e comunque non si è abituati al sapore del dolce (cosa molto saluta-re per i denti, tra l’altro, in una società senza dentisti!). La seconda è che, da tradizione, il caffè si beve non dopo ma durante il pasto. Posso garantire che, di-menticandosi che si tratta di caffè e pen-sandola come una zuppa di condimento, in fondo in fondo ha un suo perchè.Ad ogni modo, dolce o salato, queste sono le regole per preparare il caffè:

Ingredienti: chicchi di caffè fresco seccati al sole (20gr. a testa circa) acqua zucchero o sale burro o latte

1.2 Quattro ricette dal Corno d’Africa

1.2.1 Ricetta n. 1:

Il Caffè (“bunna”)

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1. Questioni generali_Quattro ricette dal corno d’Africa

Preparazione:• I chicchi di caffè vengono lavati e to-stati su un piattino metallico, arrostiti su fuoco di carbone o di legna (che però deve essere molto asciutta, per non la-sciare tracce di affumicato nel sapore).• Si mette l’acqua a scaldare in un qualche contenitore metallico sul fuoco vivo o sulla brace; la giusta quantità è una tazzina a testa più una per la caf-fettiera.• Mentre l’acqua si scalda, i chicchi to-stati, una volta raffreddati, si possono pestare nel mortaio. E’ un gesto che richiede una certa perizia per non far saltare schegge di caffè da tutte le par-ti, e porta come risultato alla classica polvere di caffè marrone scuro, appena più fine di quella che noi italiani usiamo normalmente per la moka.• Arrivata l’acqua ad ebollizione, la si trasferisce nella caffettiera di terra cotta (“jabana”) e vi si aggiunge la polvere di caffè in infusione, lasciando-la per qualche minuto sulla brace calda e mescolando di tanto in tanto.• Prima che riprenda il bollore, la jaba-na viene tolta dal fuoco e posizionata su un piedistallo di paglia intrecciata. Grazie al fondo tondo della caffettiera, è possibile regolare l’inclinazione di appoggio in modo tale che sia più oriz-zontale possibile, appena prima che il liquido fuoriesca dal beccuccio.• Tolta la jabana, si mette un poco di incenso sul fuoco per dare un segnale a tutti i presenti, una sorta di campanel-lo olfattivo che il caffè in pochi istanti sarà pronto.• In un paio di minuti tutti i fondi si de-positano. A quel punto si versa mezza

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tazza di caffè, che conterrà i residui so-lidi che si erano depositati vicino al bec-cuccio. Questo primo getto viene trava-sato rapidamente in tutte le tazzine per pulirle, ed infine gettato via.• Il resto del caffè viene versato nelle tazze. A quel punto si aggiunge a richie-sta di ciascuno (e a seconda della dispo-nibilità della casa) sale o zucchero, latte o burro. Alcune volte si aggiunge il te-neddam, erba della salute, che poi sareb-be la nostra ruta.• Mentre il primo caffè viene bevuto, al-tra acqua viene messa a bollire e ripete lo stesso identico procedimento. Senon-chè il caffè è già stato usato, dunque la seconda tazza risulterà più leggera ed acquosa della prima. Il tutto si ripete an-cora una volta per il terzo caffè, dopodi-chè la polvere si ritiene esaurita e si get-ta nell’orto (è un ottimo fertilizzante).

La jabana è il primo modello di caf-fettiera al mondo. In terra cotta, ha il fondo tondo che poggia sempre su tre punti o su un anello, per permetterne qualunque inclinazione

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Costituisce il piatto nazionale più diffuso, un po’ come il nostro spaghetto al pomo-doro anche se relativamente è molto più pregiato, essendo fatto interamente di carne (pecora, capra o vacca), un quarto di chilo per porzione.Può essere preparato in molti modi di-versi caratteristici di una regione o dell’altra, quella che descriviamo qui è la base più semplice.L’Etiopia è lo stato africano con il mag-gior numero di animali per persona, e l’amore per il tibs è decisamente tra le ragioni principali di questo infelice pri-mato. Dico “infelice” (per non usare espressioni più colorite) perchè gli ani-mali, soprattutto le vacche, consumano risorse in termini di acqua e granaglie che, se fossero usate direttamente per l’alimentazione umana, sfamerebbero molte più bocche (o sfamerebbero molto meglio lo stesso numero di bocche).Ad ogni modo non è questa la sede per difendere i diritti delle verdure in Etio-pia, per questo servono i microprogetti di orticultura (rurale ed urbana) che for-tunatamente tante associazioni portano avanti sul territorio. Il tibs è uno status-symbol il cui consumo è tanto ambìto proprio perchè tutti sanno che la carne è una risorsa scarsa e dunque preziosa.

Ingredienti: una capra consenziente carota, cipolla, aglio, peperoncino olio vegetale o burro

1. Questioni Generali_Quattro ricette dal Corno d’Africa

1.2.2 Ricetta n. 2:

Il tibs

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Preparazione:• Innanzitutto si preparano strumenti ed ingredienti cercando di non far intendere alla capra che, al suo prossimo pranzo, la pietanza sarà lei. E’ dimostrato che se al momento della morte la capra ha paura, la carne in qualche modo ne risente e ri-mane più dura.• Approfittando di un momento di distra-zione, si uccide e si scuoia l’animale, se ne tolgono le viscere e si lava quello che rimane, carne ed ossa.• Di lì inizia un paziente lavoro di taglio e affettamento, finchè la carne non è tut-ta ridotta a pezzettini uguali ed indistin-guibili, un po’ come nella nostra carne all’uccelletto.• Si prepara il soffritto in una grande teglia circolare con cipolla, aglio e caro-ta. Localmente si aggiungono varie erbe, come l’alloro, il rosmarino o il timo sel-vatico.• A parte si prepara la salsa piccante a base di peperoncino.• Quando il soffritto è pronto ed il fuoco alto, si aggiunge la carne e si cuoce per una quindicina di minuti, rimescolando continuamente.• Si mangia appena preparato, su un piatto di enjera.

La pelle della capra verrà usata per fare sedie o stuoie per il letto

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A differenza del tibs, il cocho, non è un piatto nazionale ma legato ad una parti-colare tribù, quella dei Gurage, che vivo-no nel sud dell’Etiopia.Per prepararlo è necessario il tronco dell’albero di ensete, che poi sarebbe il falso banano: un albero molto simile al banano, con le foglie più coriacee ed i cui frutti non sono commestibili.E’ usato anche da altre tribù del sud come i Sidamo, i Cambata e gli Hadiya (qui infatti presenteremo la variante Si-damo), mentre tutti gli altri ne fanno uso sostanzialmente solo in periodi di care-stia o emergenza alimentare.Il falso banano è infatti un albero molto resistente alla siccità e, una volta dato fondo alle granaglie, può essere tritura-to e mangiato. Mangiare il cocho da un grande senso di sazietà perchè la fer-mentazione gonfia lo stomaco, anche se l’apporto nutritivo reale è scarsissimo.I Gurage lo mangiano perlopiù assieme alla carne cruda, il kitfo, ma la prepara-zione che ne descriviamo qui è più pove-ra (“Omorcho”).

Ingredienti: tronco di albero di ensete

1.2.3 Ricetta n. 3:

Il Cocho

1. Questioni Generali_Quattro ricette dal Corno d’Africa

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Preparazione:• L’albero viene abbattuto, si elimina il fogliame (lo mangeranno le capre ed i buoi) e lo si lavora quando è ancora fre-sco.• La parte fibrosa viene eliminata con un coltello, la fibra si userà per fare corda-me mentre il cuore, il midollo, è il vero ingrediente del cocho.• Il midollo viene sbriciolato, più viene tagliato fino e meglio avverrà la fermen-tazione. Tradizionalmente si usano col-telli di grandi dimensioni a lama curva, mentre esistono oggi delle macchine in grado di farlo in modo automatizzato.• La segatura di midollo viene avvolta nelle foglie dello stesso albero e lasciata per alcuni giorni in una buca all’ombra.• Quando l’odore di fermentazione è forte, dopo quattro o cinque giorni, si toglie la segatura dalla buca, se non è abbastanza coesiva vi si aggiunge un po’ di burro e si procede alla preparazione senza aggiungere acqua.• Si pesta la massa di segatura fermen-tata, poi la si lavora a mano. Non diven-terà mai una vera e propria pasta perchè i piccoli pezzi di ensete sono fibrosi e non macerano completamente, mantengono una loro entità, qualcosa di simile alla consistenza del cous-cous.• Con le mani si modellano delle piccole focacce.• Cottura su piastra di terracotta.

Un bambino beve acqua da una zucca vuota e mangia cocho

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L’enjera è ciò che veramente distingue l’Etiopia (insieme all’Eritrea, con cui esiste una separazione solo politica), dal resto dell’Africa e del mondo.Anche altre culture africane usano “pia-dine” che si usano in modo simile , alcuni addirittura (come i Somali) la chiamano con lo stesso nome, ma la sostanza è mol-to diversa: per farla qualcuno in Africa (soprattutto a ovest) usa sorgo, miglio o frumento; qualcun altro usa il mais o la semola di grano duro, ma l’Etiopia -tutta l’Etiopia, da nord a sud e da est ad ovest- usa un seme solo, il teff.Il teff è un cereale che non esiste in nes-sun altro posto al mondo.Il seme piccolissimo richiede molto la-voro per essere spagliato e separato da paglia e pula, un lavoro di squadra che richiede due bastoni per uno ed un per-fetto tempismo nella battitura.Il fusto della pianta, alto circa 60 centi-metri quando la pianta è matura, è di un verde chiaro che rende inconfondibile il paesaggio campagnolo Etiope. Si semi-na sostanzialmente sparpagliando i semi, lanciandoli sul campo in modo più possi-bile uniforme, anche senza aratura o con aratura poco profonda. Si usa solo per preparare l’enjera, non ha nessun altro utilizzo (salvo l’impiego della paglia per fare tetti o simili).

Ingredienti: teff acqua

1. Questioni Generali_Quattro ricette dal Corno d’Africa

1.2.4 Ricetta n. 4:

L’Enjenra

Lezioni Africane

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Preparazione:• I semi di teff devono essere seccati e pestati al mulino o alla macina, per ot-tenere una farina bianca molto poco co-esiva. Il teff è un cereale locale, adatto alla vita seminomade perchè i semi sono molto piccoli e il necessario per coltivare un intero campo può stare in una piccola bisaccia; inoltre il teff si conserva senza problemi per più di un anno, altra carat-teristica molto utile nella vita in savana.• Farina e acqua vengono mescolati e la-sciati a macerare per alcuni giorni in un contenitore chiuso posto in luogo fresco ed ombreggiato.• La pasta fermentata viene diluita con acqua, diventando di una consistenza uniforme simile alla pastella per pre-parare le crepes. Dalla qualità del teff dipenderà il colore dell’impasto: quello bianco è il più pregiato.• Da un contenitore munito di beccuccio, si versa la pastella su una teglia di terra-cotta molto calda (preriscaldata su fiam-ma viva) con un andamento a spirale. Ogni etiope ha il ricordo di infanzia della propria madre che compie questo gesto circolare con attenzione e perizia, per ottenere uno spessore costante e niente irregolarità.• L’enjera cuoce in due minuti circa, ri-manendo liscio sulla parte superiore e a bolle sulla faccia inferiore. Deve essere tenuto in un sacchetto o avvolto nella carta per non seccare in fretta, e deve comunque essere consumato molto fre-sco (in poche ore diventa acido).• Qualunque tipo di cibo, carne, verdu-ra, pesce o altro, si serve su un piatto di enjera, che invece non viene mai man-giata da sola.

La pastella dell’enjera si stende sul piatto di terra cotta quando il fuoco è molto alto, e cuoce in pochi minuti

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4. G. Caniggia, Lettura dell’edilizia di base.

Giunti a questo punto occorre seleziona-re due parole più appropriate per defini-re l’opposizione dialettica che fino ad ora abbiamo denominato grossolanamente “suddividere-ricomporre”. Seguendo il vocabolario Mura-toriano, parleremo d’ora innanzi di mani-festazioni seriali (o serializzanti) e ma-nifestazioni organiche (o organizzanti).Tutto ciò che ha a che vedere con il di-sporre, l’ordinare, l’uniformare, il catalo-gare o l’analizzare è da ritenersi seriale, al contrario ciò che attiene il raggrup-pare, il gerarchizzare, l’unificare, l’orga-nizzare o il sintetizzare si dice organico.Per proseguire nel discorso è però ne-cessaria una definizione scientifica, e in questo genere di cose nessuno è meglio di Gianfranco Caniggia, il quale a propo-sito si pronuncia come segue4:

Seriale […] attesta la caratteristica di un’aggregazione fatta di elementi ripe-tuti e intercambiabili, come pure la ca-ratteristica di ciascun elemento di essere a sua volta intercambiabile e passibile di ripetizione; organico, all’opposto, indica il carattere di un’aggregazione fatta di elementi individuati per posizione e forma peculiari, quindi non ripetibili né intercambiabili, come pure il carattere di ciascun elemento componente di essere collocabile in una sola posizione, in un solo ruolo in seno all’aggregazione, e di avere una sua forma e una sua propria funzione […] complementare rispetto […] agli altri elementi.

1. Questioni Generali_Le relazioni tra Soggetto e Oggetto

1.3 Le relazioni tra Soggetto e Oggetto: s,S,o,O

Lezioni Africane

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5. Da leggersi rispettivamente: “esse picco-lo”, “esse grande”, “o piccolo” e “o gran-de”.

La questione è così espressa in termini assoluti, ed è molto chiara: “seriale” ed “organico” sono due categorie che pos-sono riferirsi tanto all’azione del compo-sitore (d’ora in poi “soggetto”) quanto all’intrinsecità degli elementi utilizzati per la composizione (d’ora in poi “og-getto”).Questo delinea quattro eventualità possi-bili, rappresentate dalle quattro caselle della tabella: un soggetto che può agire in maniera seriale o organica nei con-fronti di un oggetto che a sua volta può essere seriale o organico.La tabella individua le quattro nomen-clature Muratoriane per le quattro eventualità che noi chiameremo sempre, per brevità, s,S,o,O5. Se la cosa doves-se risultare troppo astratta ed un poco evanescente, può essere utile riferirsi a questa seconda tabella, che riporta gli stessi concetti esemplificati nelle ricette prima presentate.La polvere di caffè o la segatura di polpa di ensete, ingredienti dei cibi s e o, sono elementi standard, tutti uguali tra loro e non legati da nessun vincolo reciproco. I pezzetti di carne e la pasta di teff, ingre-dienti dei cibi S e O, sono invece decisa-mente organici, nel senso che sono ele-menti predisposti a far parte di un tutto, di questo avrebbero voglia, a prescindere da come vengono poi effettivamente uti-lizzati: la pasta è un elemento plasma-bile per definizione ed infatti l’enjera è un individuo plasmato; mentre la carne avrebbe decisamente più voglia di essere organizzata in modo organico e formare una pecora piuttosto che ritrovarsi spez-zettata nei piatti di tibs.Il caffè si ottiene mediante un’attività

Oggetto

Seriale Organico

So

gg

ett

o

Seri

ale

Org

anic

o

Seriale sistematico

(s)

Seriale occasionale

(S)

Organico episodico

(o)

Organico totale

(O)

Oggetto

Seriale Organico

So

gg

ett

o

Seri

ale

Caffè (s) Tibs (S)

Org

anic

o

Cocho (o) Enjera (O)

Tabella 1

Tabella 2

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1. Questioni Generali_Le relazioni tra Soggetto e Oggetto

6. Bethlemme infatti significa letteralmen-te “casa del pane”.

serializzante (diffusione) su un oggetto a predisposizione seriale (polvere di caf-fè). Seriale + Seriale = s.Il tibs è il prodotto di un’attività seria-lizzante (trituramento) su di un oggetto a predisposizione organica (carne di ca-pra). Seriale + Organico = S.Il cocho si ottiene con un’attività or-ganizzante (modellazione a mano) ap-plicata ad un oggetto a predisposizione seriale (i pezzi di ensete). Organico + Seriale = o.L’enjera si produce attraverso un’attività organizzante (modellazione su piastra di cottura) su un soggetto a predisposizione organica. Organico + Organico = O.

La lettera B, in tutti gli alfabeti derivanti dal Fenicio e dal Protoarabo, ha un qual-che legame con il concetto di casa.In molte lingue il nome stesso della casa è legato a tale lettera6 (bet in Amarico, beth in Arabo ed Aramaico, beta in Gre-co antico...).Inoltre il simbolo utilizzato per rappre-sentare il suono b (o be, o bh) si rifà al disegno di una casa: qualche volta in pianta, come il geroglifico egizio o il pro-tosinaico che rappresentano una casa a vano unico, altre volte in sezione, come nel simbolo amarico o arabo del sud raf-figurante una capanna stilizzata.Nel simbolo alfabetico B vengono posti in evidenza di caso in caso le caratteri-stiche più connotative delle architetture domestiche relative a quella determina-ta civiltà, come la copertura nel caso del

1.4 Due, Beta, Casa

Il grafoma corrispondente alla lettera B, nell’ordine, negli alfabeti: arabo, arabo del sud, egizio, protosinaico, samaritano, amarico (ge’ez), latino,

greco, etrusco

Ancora una volta lo stesso concetto, rappresentato figurativamente

Lezioni Africane

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simbolo arabo o le fondazioni nel samari-tano (palafitta).La B del nostro alfabeto latino, come la beta del Greco o la bida Etrusca, mostra un doppio tratto curvo che potrebbe ri-ferirsi ad una planimetria stilizzata, nel qual caso rappresenterebbe una distin-zione tra zona giorno e zona notte, op-pure ad una sezione, caso in cui il doppio piano raffigurerebbe la distinzione tra casa e stalla (vedi 2.4.2 - XX). Oppure, ancora, potrebbe essere una sezione ruo-tata di 90°, e dunque l’idea sarebbe quel-la di due coperture a cupola affiancate. Quale che sia la corretta interpretazione, rimane certo un riferimento alla dualità, al numero 2. In Fenicio, per scrivere il numero 2, si utilizza proprio il simbolo di una B marcata con un tratto orizzontale sul lato superiore. Il segno dei Gemelli, cui orgo-gliosamente appartiene lo scrivente, è il secondo della serie, corrisponde alla beta, è simboleggiato da un marchio che, oltre a raffigurare la relativa costellazio-ne, ricorda sia un II che la planimetria di una casa rettangolare a vano unico, e vie-ne tradizionalmente interpretato come segno di dualità. Nella quasi totalità del-le culture arcaiche, l’uomo costruisce la propria casa non quando arriva ad una età particolare o quando ne ha le pos-sibilità economiche, ma quando prende moglie. Questa è la discriminante, quan-do da uno si diventa due: pare proprio esserci un legame indissolubile tra la lettera B, il numero 2 ed il concetto di casa.La B è la seconda lettera di molti alfa-beti. In particolare, lo è di tutti quelli in cui la

7. Dibattito che volentieri lasciamo a chi, con più esperienza e cognizione di causa, cerca di avvicinarsi al vero. Mi riferisco in particolare al forum di Wikipedia, che sul-la voce “beta”, come su molte altre, ospita il dibattito tra i maggiori esperti mondiali sull’argomento.

I 12 simboli dello zodiaco, raffrontati con le rispettive lettere dell’alfabeto greco

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A è la prima. La A viene rappresenta con un simbolo che ricorda talvolta il bue, talvolta l’aratro o una parte di esso. In Arabo ogni lettera è legata ad un concetto: la A è il bue, la B corri-sponde alla casa.Qual è la ragione per cui la prima lettera dell’alfabeto, ossia il concetto posto pri-ma di tutti gli altri, corrisponde al bue? La ragione è che il bue (o l’aratro) co-stituisce il vero elemento di novità della civiltà stanziale rispetto a quella noma-de: come si distingue un nomade da uno stanziale? Il primo caccia e raccoglie mentre il secondo alleva e coltiva, attivi-tà che richiedono entrambe dei buoi. I popoli nomadi non scrivono e dunque non necessitano di un alfabeto, i primi a scrivere sono gli stanziali, e dunque mettono al primo posto ciò che anche nella loro vita viene al primo po-sto: il bue, il mezzo indispensabile per coltivare grandi appezzamenti di terra, la fonte di ricchezza e di sostentamento. Al secondo posto viene la casa. Se il bue rappresenta la fonte di sosten-tamento, il terreno arato, i campi ed in definitiva il territorio, la casa è il luo-go della protezione, dell’individuo e del gruppo sociale, ed è dunque l’incarnazio-ne della civiltà. La Civiltà è il soggetto ope-rante dell’Architettura. Non l’uomo, il singolo progettista, ma la Civilità: per quanto ogni singolo condominio costruito nella nostra epoca possa essere proget-tato da questo o quell’architetto, la città fatta di condomini è una scelta culturale e politica comune che va al di là della vo-lontà dell’architetto, trascende il singolo intervento, è lo specchio di una società

1. Questioni Generali_Due,Beta, Casa

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ben precisa. Il Territorio è invece l’oggetto, ciò che l’uomo modifica e piega alle sue necessità: non è più, come per i nomadi, solo una risorsa a cui attingere diret-tamente (caccia e raccolta per la so-pravvivenza, una grotta o un albero per casa), ma come un punto di partenza da modellare ed antropizzare, per ottenere dei fini precisi (il campo arato e la casa costruita). Saverio Muratori intitola il suo testo cardine proprio “Civiltà e Territo-rio” (sarebbe a dire “A e B”), ad evoca-re la tesi e l’antitesi di cui l’Architettura costruita rappresenta la sintesi.Nel prossimo capitolo analizzeremo que-sta opposizione dialettica con speciale attenzione agli aspetti materiali e ma-nuali della faccenda, dato che l’architet-tura è, innanzitutto, un manufatto.

Ogni manufatto, a meno che non abbia finalità puramente simbolico-religiose, viene creato perchè se ne faccia un de-terminato utilizzo, o anche più di uno, e questo determina in modo sostanziale la forma che l’oggetto dovrà avere.D’altra parte però anche l’oggetto in sé, per il materiale di cui è composto e per il processo produttivo con cui nasce, avrà certe istanze per la determinazione del-la forma.Tanto che si può dire che il vero oggetto di artigianato rappresenta sempre, con la sua forma ed i suoi materiali, un punto di incontro tra le due mani: quella che lo

1.4 Il rapporto soggetto-oggetto nelle attività artigianali creative

1 Note

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1. Questioni Generali_Il rapporto soggetto-oggetto nelle attività artigianali creative

L’’incredibile “danza” con cui i vasai etiopici, non conoscendo il tornio, producono i loro manufatti

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ha prodotto e l’altra, quella che lo uti-lizzerà. Anche la casa si può leggere in questo modo, come una soluzione deter-minata dall’incontro delle due “mani”, ma data la complessità dell’oggetto-casa non è immediato rendersene conto.Per chiarire invece il concetto ci servi-remo di un esempio piuttosto eloquente, quello del vaso per la scrematura del latte.Si tratta di un oggetto d’uso comune in tutte le civiltà rurali in possesso di ani-mali da latte, ossia praticamente tutte le civiltà stanziali ed anche buona parte di quelle nomadi: pur prodotto ed utilizzato in aree geo-culturali molto diverse tra loro, presenta delle variazioni formali e dimensionali molto ridotte. E’ costituito da un corpo cavo in terra cotta di forma ovaleggiante, di ca-pacità compresa tra i 3 e i 6 litri circa, con un collo piuttosto largo ed un’unica impugnatura posta nella metà superio-re. Il fondo è trattato grezzo, mentre la metà superiore è liscia e levigata. In prossimità del bordo superiore del collo, che appare leggermente ingrossato, vi è un beccuccio, una doppia protuberanza posta nella stessa direzione dell’impu-gnatura. L’oggetto si utilizza con un coperchio co-stituito da una pezza di pelle legata con uno spago intorno al bordo e fissato al beccuccio.Si tratta di un oggetto elementare, in un certo senso archetipico, il cui carattere di ancestralità è dovuto proprio alla perfet-ta simmetria tra attitudini ed istanze del soggetto-uomo da un lato e potenzialità e risorse dell’oggetto-realtà dall’altra. In altre parole, il processo produttivo

Vasi per la scrematura del latte al mo-mento della cottura dei manufatti

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1. Questioni Generali_Il rapporto soggetto-oggetto nelle attività artigianali creative

(concezione+attuazione) in sé sarebbe già sufficiente a motivare tutte le scelte formali, e così pure il processo utilizzativo (fruizione+risoluzione) lo sarebbe, arrivando alle medesime conclusioni. Questa simmetria, in cui la forma è flucro tra la mano che produce l’utensile e quella che lo utilizza, è il frutto di gesti tramandati nei millenni dai maestri vasai, migliorati e ottimizzati finché possibile, e poi cristallizzati in un tipo. Il materiale terra cotta, per sua natura, è resistente a compressione, debolmente a taglio e per nulla a trazione. Si presta quindi a realizzare strutture sottili a guscio, dal comportamento statico membranale (esattamente lo stesso principio su cui si basa l’incredibile resistenza delle uova). La geometria chiusa conferisce rigidità al manufatto, che tuttavia per essere accessibile anche all’interno durante la lavorazione (per esempio per il controllo dello spessore) necessita di un buco largo abbastanza per il passaggio di una mano. Il buco rappresenta un elemento di debolezza e chiede quindi di essere irrigidito sul bordo, e a questo serve l’inspessimento.Il fondo viene inizialmente lasciato squadrato, quando solo la metà superiore del manufatto viene plasmata. In un secondo momento, quando l’impasto è leg-germente seccato e ha raggiunto la consistenza “cuoio”, il fondo viene lavorato a sezione ovoidale dall’esterno con un coltello, forma che permette il funziona-mento statico membranale a doppia curvatura e dunque una grande resistenza.Fino a questo momento abbiamo parlato solo di influenze oggettivizzanti. Ab-biamo pensato, cioè, alle ragioni della forma in termini di risorse ed istanze dell’oggetto, in quanto materiale e struttura: la mano che crea. Proviamo a spostarci dall’altra parte dell’asse di simmetria e conside-rare le influenze soggettivizzanti, la forma in funzione dell’utenza. Il motivo per cui si ha bisogno di un vaso di questo genere è la necessità di uno strumento atto ad agitare il caglio di latte per separare la parte grassa (che poi servirà per fare il burro) da quella liquida (il siero che, cuocendo, diventerà ricotta). Ecco dunque una geometria chiusa a guscio, utile a contenere il liquido. Il vaso deve essere agitato su sé stesso per parecchio tempo per ottenere la separazione del caglio, dunque il fondo tondo permette di svolgere questo compito in modo semplice, appoggiandosi per terra. La superficie ruvida è utile per non far scivolare il vaso per terra, mentre quella liscia della parte di sopra aumenta il grado di imperme-abilità.Alla fine del processo, dal vaso uscirà una parte di caglio solida, serve dunque che ci sia un buco sufficientemente grande perché non si debba intasare l’unica bocca del contenitore.Qual è allora il vero motivo per cui il fondo di questo vaso è tondo? Per il gesto di chi costruisce il manufatto, ossia per la resistenza della forma a guscio a doppia curvatura, o per il gesto di chi lo usa, ossia per essere agitato a terra? E

Lezioni Africane

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perché è ruvido, perchè viene lavorato con un coltello (gesto del fabbricatore), o perchè la scabrosità aiuta il vaso a non scivolare per terra durante l’uso (gesto dell’utilizzatore)?La bocca è larga perchè il vasaio deve poter raggiungere l’interno del ventre con la sua mano, o perché il lattaio deve estrarne il burro?La risposta a queste domande, e a tutte le altre che ci si possono porre a questo riguardo, è la seguente: entrambe le motivazioni sono vere, poiché il manufatto prodotto della coscienza spontanea è per definizione determinato da un rapporto inscindibile tra attitudini del soggetto ed istanze dell’oggetto, rapporto che rimane per così dire “pietrificato” nella forma. Privilegiare il soggetto significa schiacciare l’oggetto, slegare il prodot-to dalla sua natura materiale e dalla sua concezione tecnico-economica. Privi-legiare l’oggetto significa d’altra parte andare a discapito della relazione tra il prodotto e l’uomo, ossia i suoi aspetti etico-fruitivi ed estetici. L’ispessimento sul bordo della bocca è frutto di un’influenza oggetti-vizzante (la necessità di rinforzare il punto più debole della struttura a guscio) non corrispondente ad una oggettivizzante (non rende il manufatto più comodo da utilizzare o esteticamente più apprezzabile).L’impugnatura sul ventre è frutto di un’influenza soggettivizzante (la necessità per la mano che lavora il caglio di scuotere il vaso) non corrispondente ad una oggettivizzante (non migliora la prestazione statica né risponde meglio alle qua-lità del materiale).La forma ovoidale del vaso è frutto di un’influenza oggettivizzante (dotare la membrana di una doppia curvatura, che ne garantisca la resistenza per forma) corrispodente ad una soggettivizzante (contenere il caglio e permetterne lo scuotimento).Tutte e tre queste caratteristiche formali contribuiscono alla definizione del tipo, ma è evidente che solo la terza rappresenta un carattere imprescindibile e non modificabile, proprio in quanto incarnazione perfetta del rapporto tra gesto della mano che crea e gesto della mano che utilizza. E in tutto questo gran gestico-lare, l’oggetto finisce per essere raffinato, diventa perfetto come l’anfora degli antichi Greci o la coppa degli Assiri, perchè la forma e le proporzioni incarna-no l’unitarietà (individualità), un valore primordiale, intrinseco ed immaterico quanto reale. Un’aura che lega indissolubilmente la materia al movimento e questo alla vita, l’oggetto al gesto ed il gesto all’Uomo.

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1. Questioni Generali_Il rapporto soggetto-oggetto nelle attività artigianali creative

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Ai quattro differenti momenti che abbiamo definito come diversi tipi di relazioni tra soggetto ed oggetto, s,S,o,O, riflettendo in astratto ed in generale, si possono far corrispondere quattro attività (o classi di attività) dello spirito autocosciente.Nell’ordine: logica, economia (e scienze), etica ed estetica. Senza ripetere un’al-tra volta lo schema di lettura, sarà un utile esercizio per il lettore verificare che effettivamente le discipline logiche sono s, quelle economiche S, e via dicendo. Reiterando il sistema rappresentativo della tabella n. 1, di sole quat-tro caselle, si possono ottenere tabelle più articolate. Mettendo per esempio in ascissa le potenzialità e le risorse della realtà già scansita in s,S,o,O, ed in ordinata le attitudini e le istanze dell’Uomo con uguale scansione, si ottiene una tabella come la numero 4, le cui 16 caselle rappresentano una graduale ascesa dal seriale verso l’organico8. La tabella 4 è una libera reinterpretazione da Paolo Maretto9, il quale stava a sua volta liberamente interpretando Giancarlo Cataldi10, nel tentativo di dare un quadro generale ed universale dei grandi temi relativi all’architettura e all’insediamento umano nel territorio.Per noi sarà della massima importanza la prima colonna, le prime quattro caselle: materiali, strutture, impianto ed individuo architettonico11. Questo perchè l’architettura di cui ci occupiamo qui, l’architettura delle capanne, rappresenta il primo passo dell’uomo sulla terra, è ancora priva di tutte le complessità sociali, culturali ed anche tecnologiche che portano alla creazione di “reti” a scala maggiore (edilizia, urbana e terri-toriale). La capanna si relaziona direttamente con il territorio, questa è la sua fiera e straordinaria bellezza, senza alcun passaggio intermedio del tipo strada-vicinato-quartiere-aggregato urbano.Ecco dunque in questo prospetto (tabella 5) le quattro categorie dell’Architettu-ra, su cui ci dovremo concentrare per comprendere il nostro oggetto.La terza colonna del prospetto vuole rappresentare una caratteristica peculiare di ogni possibile scansione di tipo s,S,o,O, dalla cucina all’architettura, dalla mu-sica all’artigianato: procedendo dal seriale all’organico, diminuisce l’importanza dell’oggetto e specularmente aumenta quella del soggetto. Vediamo come.I materiali sono gli elementi primi di cui si costituisce un’architettura e all’ar-chitetto non è dato di crearne di nuovi, egli si limita a sceglierli e selezionarli. La natura mette a disposizione i materiali, l’apporto del soggetto è limitato alla selezione.Le strutture sono i sistemi creati dagli elementi, che rendono resistente la fab-brica e ne costituiscono in qualche modo la natura. Il progettista può scegliere un sistema statico e dimensionarlo, la sua libertà è chiaramente più ampia ri-

1.5 La tabella generale dell’Architettura

39

1. Questioni Generali_La tabella generale dell’Architettura

POTENZIAL ITà E R ISORSE DELL 'OGGETTO (REALTà COSTRUITA)

ATTIT

UD

INI

E I

STA

NZE D

EL

SO

GG

ETTO

(U

OM

O)

Materiali Edifici Unità urbane

elem

enti

Strutture Tessuto urbano

sist

emi

Schema urbano

orga

niin

divi

dui

Architettura Edilizia Urbanistica Territorio

Identif icabilità logica

Iterabi l ità economica

Unificabi l ità etica

Individuabi l ità estetica

Valutazione logico / tipologica

Nucleo territoriale

Attuazione economico /

tecnica

Aggregazione edilizia

Pianificazione territoriale

Motivazione etico /

fruit iva

Impianto distributivo

Composizione edilizia

Disposizione territoriale

Risoluzione estetico / formale

Individuo architettonico

Individuo edilizio

Individuo urbano

Individuo territoriale

(città)

Momento Attiv i tà

Logica

Economia

Etica

Organico totale Estetica

Seriale sistematico

Seriale occasionaleOrganico episodico

Tabella 3

Tabella 4

Tabella 5

Classe Sostanza Presenza sogg. e ogg.

Material i essenze, realtà, natura

Strutture

Organi, disposizione, distribuzione

Organismo, fabbrica, unità

Soggetto – oggetto elementi, componenti,

sistemi resistenti Soggetto – oggetto

Impianto distr ibutivo Soggetto – oggetto

Indiv iduo architettonico Soggetto – oggetto

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spetto alla semplice selezione dei materiali.L’impianto è la configurazione distributiva dell’edificio, comprende la struttura ma non si limita ad essa. Il progettista può disegnare un impianto a suo piaci-mento, liberamente, con i soli vincoli strutturali (campate limitate, presenza di pilastri ed appoggi sufficienti, spessori appropriati e via dicendo).L’organismo architettonico è il risultato finale nelle sue tre dimensioni, con il suo spazio interno ed il suo esterno, la rappresentazione dell’uomo sul territorio, è soggetto quasi al 100% poiché il progettista ne può determinare qualunque parte ed ogni caratteristica. E’ interessante notare che questo fenomeno si ripete davvero in ogni possibile suddivisione di tipo s,S,o,O. Per esempio, come stiamo per vedere nella prossima tabella, si può ancora reiterare il procedimento e definire quattro tipi

8. Altri autori si cimentano con tabelle reali di 256 caselle e teoriche ancora più grandi, ma non è una coincidenza se molti di essi sono in seguito impazziti.9. P. Maretto, Realtà naturale, realtà co-struita.10. “I nomi si dimenticano ma le idee ri-mangono”, disse qualcuno che non ricordo citando qualcun’altro.11. Rispetto alla triade Vitruviana, firmitas, utilitas e venustas, questa quadripartizione affronta separatamente le classi di mate-riali e strutture. Sotto la categoria firmitas, Vitruvio inserisce tanto prescrizioni riguar-danti la natura, provenienza, selezione e verifica dei materiali da costruzione quanto regole sui dimensionamenti, le luci delle campate, le proporzioni delle strutture resistenti. L’utilitas corrisponde poi, nella nostra classificazione, all’impianto distribu-tivo e la venustas all’interezza e all’unita-rietà dell’organismo architettonico.12. Si riconfrontino queste caratteristiche con le ricette. Il caffè in quanto liquido è esattamente come il filo, capace di resiste-re ad un unico sforzo normale (trazione per il filo e compressione per il caffè), dunque prenderà la forma che decide lui senza pos-sibilità di replica dal progettista. Il tibs è fatto di pezzi di carne simili tra loro come lo sono le aste di un sistema reticolare, il cocho è proprio fatto di mattoni di forma unitaria che però si possono aggregare se-condo una conformazione organica, mentre l’enjera ha in comune con il calcestruzzo, oltre al livello di digeribilità, la totale pla-smabilità in forma liberamente decisa dal “progettista”.

di materiale: i primi sono i materiali filiformi, i secondi sono quelli ad aste rigide, i terzi sono a blocchi mentre gli ultimi sono quelli plastici-calcestruzzi. Ora, la differenza tra queste quattro classi è che il filo, sospeso tra due pun-ti, decide da solo su quale linea disporsi (per risparmiare energia sceglierà sem-pre la linea catenaria, perchè è quella con il baricentro più basso possibile), il progettista può solo scegliere i punti di ancoraggio; l’asta impone geometrie chiuse, campate rettilinee e multiple della lunghezza dell’asta ed una divisio-ne tra la struttura portante e l’apparato chiudente. Il blocco lascia invece liberi di disegnare all’incirca le geometre che si desidera con l’unico vincolo del mo-dulo pari alla lunghezza del mattone; il calcestruzzo o il materiale plastico può essere modellato in qualsiasi forma per definizione senza nessun vincolo residuo, e lascia dunque al soggetto-progettista la totale libertà di azione12. Ecco allora i quattro tipi di materiali, i quattro tipi di di strutture, di impianti e di individui, analizzati secondo le quattro categorie di concezione, costituzione, applicazione e conformazione.

41

1. Questioni Generali_La tabella generale dell’Architettura

Concezio

ne

Costitu

zione

Applic

azio

ne

Confo

rmazio

ne

Mater ial i

ele

menti filifo

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traspare

ntem

ono

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ensio

nalis

sele

menti re

ttilinei

colo

ristico

snelli

s

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cchi

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oto

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calc

estruzzi fo

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plastic

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o

Strutture

indip

end

enti

tenso

strutturaa c

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oranti

telaio

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alis

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taglio

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enti

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a resiste

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Impianto

cellula ind

ipend

ente

radiale

imperniato

polare

circ

olare

s

ocellule

ripetute

orie

ntatoquad

rato re

ttangolare

s

pluric

ellulare

aperto

com

posto

pluriassiale

org

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Questa è la tabella generale dell’architettura, nella sua forma più rigorosa e compiuta. Per quanto pazzesco o enorme possa sembrare, l’architettura è tutta qui, chiu-sa in questa fredda tabella, dalla cattedrale gotica al museo d’arte moderna, dalla tenda degli Inuit al villone newyorkese. Non c’è altro, come la musica sta tutta dentro alle 12 note e ai 24 accordi e la pittura è tutta compresa nello spet-tro di colore tra il rosso e il violetto.Questa tabella rappresenta dunque una sorta di grammatica di base dell’Archi-tettura, il progettista non deve sentire sminuito il proprio ruolo per il fatto di non poter creare dal nulla qualcosa di completamente nuovo, così come il poeta non dovrebbe desiderare di avere un’alfabeto infinito a sua disposizione perchè il linguaggio, la sua comprensibilità e dunque la sua bellezza sono possibili proprio grazie alla limitatezza dell’alfabeto, che lo rende un patrimonio comune e quindi condiviso.Un poeta che inventasse nuove lettere per le sue composizioni, così come un calciatore che decidesse di non rispettare le regole del gioco, non renderebbe il suo lavoro più interessante o originale, anzi, decreterebbe la fine della propria disciplina.Ventidue ragazzi decisi a giocare una partita senza alcuna regola non sarebbero più liberi rispetto al gioco del football tradizionale, anzi, si potrebbe dire che è proprio la presenza di regole che li rende liberi di cimentarsi in un gioco piutto-sto che in un altro.Nonostante questo sistema di approccio possa sembrare eccessivamente ridut-tivo, ed in effetti rispetto alla reale varietà della produzione architettonica una qualunque tabella tipologica riassuntiva sarebbe sterile se non risibile, a livello di lettura progettuale questo apparecchio si dimostra un’ottima bussola, una sorta di gps che colloca ogni episodio edilizio all’interno di un sistema di riferi-mento noto e proprio per questo ne rende visibili le qualità sostanziali, al di là delle soggettive e deboli osservazioni formali, simboliche o antropologiche più o meno superficiali alle quali ci si dovrebbe limitare in assenza di un esplicito ed aprioristico quadro logico di riferimento. Non ho in questo caso ricette gastronomiche in grado di spiegare la complessità di questo apparecchio matriciale, e per comprendere pienamente l’essenza di ogni casella sarà necessario passarle in rassegna tutte e ciò infatti sarà l’argomento del prossimo capitolo.

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In estrema sintesi, dopo quanto esposto più analiticamente nel capitolo 1.3, pos-siamo affermare che l’organicità preve-de un forte legame tra gli elementi, men-tre la serialità l’esatto contrario.Un mucchio di sabbia, per esempio, è un’entità seriale o organica? Analizzia-mo il legame tra gli elementi, che sono in questo caso i granelli di sabbia.Essi sono legati solo dal rapporto di simi-litudine (di forma, consistenza e granulo-metria), che è un legame molto debole. Non tanto perchè non ci sia un collante a cementarli fisicamente, ma perchè nes-suna logica compositiva “tiene insieme” il mucchio.Se dal mucchio sottraggo un pugno di sabbia, questo rimane ciò che era, così pure se ne aggiungo, o se ne cambio la disposizione. Il mucchio di sabbia è per questo motivo un’entità fortemente se-riale.Prendiamo in esame un altro esempio, l’albero.E’ fatto di rami innestati sul tronco cen-trale. Il legame tra gli elementi (i rami) è molto più forte che nel caso preceden-te, perchè esistono diverse leggi a “te-nerli assieme”: tutti hanno simile incli-nazione rispetto al tronco (non ci sono rami girati verso il basso per esempio), tutti sono fatti dello stesso materiale, hanno lo stesso colore, proporzioni, e via dicendo. Alcune di queste leggi poi sono più forti ancora, e non prevedono solo un carattere comune a tutti gli elementi (standardizzante) ma anche uno di tipo

2.1 I materiali

2. Questioni particolari

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gerarchico (individuante) come lunghez-za e diametro dei rami, che diminuiscono gradualmente andando verso l’alto, o il disegno del sistema linfatico che porta la vita in tutto l’organismo. Non è pos-sibile nell’albero, come invece lo era nel mucchio di sabbia, aggiungere o togliere a proprio piacimento elementi, o anche solo cambiarli di posizione, poiché così facendo si infrangerebbero le leggi che sovrintendono la strutturazione, ed il risultato ne uscirebbe visibilmente com-promesso. Abbiamo anche sottolineato il fatto che serialità ed organicità sono at-tributi riferibili tanto all’azione del sog-getto quanto alle peculiarità intrinseche dell’oggetto, ed ora è il momento per ve-dere cosa questo significhi per davvero.Quando parliamo di materiale in senso generale, possiamo darne sostanzial-mente due accezioni: una di materiale come soggetto (sostanza) e l’altra di materiale come oggetto (elemento). Utilizzando la visualizzazione grafica già introdotta, in cui l’oggetto è in ascissa ed il soggetto in ordinata, vediamo pren-dere corpo le quattro classi di materiali s,S,o,O, su cui ci interessa dire qualcosa di specifico.

Tabella 7

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2. Questioni Particolari

Di questa categoria, a rigori, dovrebbero far parte esclusivamente elementi come cordame, tele, cavi, catene e via dicendo, ossia tutti quegli oggetti che non offrono nessuna resistenza a compressione e a flessione, essendo disponibili esclusiva-mente a sforzi di trazione pura.Questi elementi, sospesi tra due punti, prendono la forma della linea cosiddetta catenaria proprio perchè essa è l’unica curva in grado di sfruttare il materiale perfettamente a trazione. A noi però converrà inserire qui anche tutti quegli elementi dotati anche di una blanda resistenza a flessione o a compressione, purchè essa risulti tal-mente scarsa da non poter in alcun modo essere messa a frutto in ambito struttu-rale e, rispetto alla corda o alla catena, possa solo garantire il mantenimento della geometria assegnata.Il giunco, la canna palustre, i rami di legno più sottili ancora verdi o le radici dell’albero, le liane, le stoppie di grano-turco e via dicendo: non potranno mai essere usati come colonna o come archi-trave, seppure non siano completamente privi di “spina dorsale” come la corda. Entrambi sono fatti di fibre, la differen-za è che nelle corde e nei cavi esse sono talmente sottili da renderne trascurabile la rigidezza, mentre nel giunco o nella radice la coesione tra le parti determina una qualche resistenza al cambiamento di assetto.E’ facile notare, scorrendo le immagini delle sezione 2.4.2, che i materiali di

2.1.1 La corda di agave e di falso banano, il tessuto di cotone (s)

Curve catenarie ottenute sperimental-mente

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questo tipo sono sempre usati in trazione (legature, fissaggi a terra, ancoraggi) ed al limite con una qualche responsabilità nel conservare la geometria per forma della struttura resistente (anelli di co-pertura, correnti delle recinzioni), ma mai come trave inflessa o come pilastro compresso.Nelle campagne dell’Etiopia si trovano principalmente due tipi di corda: quella economica, sottile e fatta in falso banano e quella costosa, in fibra di agave.La pri-ma è un sottoprodotto del cocho (ricetta al paragrafo 1.2), e non deve quindi stu-pire se l’albero di ensete viene chiamato “il maiale degli alberi”, poiché nulla vie-ne buttato: i frutti per le medicine tradi-zionali, le foglie come mangime per gli animali, la parte soffice del tronco per il cocho, e tutto il resto per fare cordame. Il problema è che la fibra non è di quali-tà eccellente a causa della breve durata in cui marcisce se lasciata esposta agli agenti atmosferici.La fibra di agave è più pregiata non per-chè la pianta sia più rara, è invece molto comune, ma perchè produrre la corda comporta molto più lavoro.Alle foglie devono essere tolte le spi-ne, poi con il coltello se ne fanno sottili striscioline che, ancora fresche, vengono spolpate con un secondo coltello, a lama più grande. L’operazione è dolorosa perchè il succo all’interno delle foglie è leggermente urticante, e la polpa non si separa facilmente dalle fibre. Da questo processo si ottiene un prodotto chiamato sisal, che ha diversi impieghi non solo in edilizia. Per fabbricare la corda è ne-cessario che il sisal sia fresco e appena fatto, e nuovamente il lavoro è più com-

Estrazione della fibra di agave (sisal)

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2. Questioni Particolari_I materiali

plesso che con l’ensete, data la ridotta lunghezza delle fibre (40-50 cm contro un metro-metro e mezzo). Quando la cor-da asciugherà, il trefolo rimarrà formato e non si scioglierà più. Per usare la cor-da d’agave è necessario bagnarla prima di effettuare la legatura, di modo che le fibre si distendano.Quando il nodo è fatto la corda, asciugan-dosi, si accorcia e stringe la morsa ren-dendo più solida l’intera struttura. Alla stessa categoria di mate-riali, anche se in senso più lato, appar-tengono gli oggetti veliformi, come i tessuti. La curva che prende un tessuto pesante sospeso per quattro punti si chia-ma superficie velaria, ed è il corrispetti-vo tridimensionale della catenaria.La lavorazione tessile in Africa è uno di quei patrimoni di artigianato o, più in ge-nerale, di saper fare che è stato quasi completamente raso al suolo dall’arrivo dell’uomo bianco.Non è stato questa volta lo schiavista o il colonialista, ma sorprendentemente sono stati il missionario e il cooperante: in-teri container di vestiti usati che arriva-no gratis via nave dalla ricca Europa che li butta via e che vengono distribuiti ai “poveri” (cioè a tutti) in ogni villaggio, ad opera delle chiese, delle international charities e delle NGOs, tagliano le gam-be a moltissima gente locale che si gua-dagnava onestamente il proprio salario nel tessile, mettendola alla fame: colti-vatori di cotone, commercianti, traspor-tatori, filatori, tessitori, produttori di ve-stiti e venditori al dettaglio. Il tutto per sostituire gli eleganti gabi della tradizio-ne etiope, decorati con bande colorate e legature diverse a seconda dell’etnia di

Lavorazione a telaio di tessuto tradi-zionale in cotone

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appartenenza, con t-shirts e blue jeans. E rendere nuovamente la gente serva dell’importazione, del denaro, del petroldollaro.Fortunatamente sopravvivono ancora sparuti gruppi di artigiani esperti e ca-paci, tanto di fare il loro lavoro quanto di fabbricarsi a partire dal nulla gli stru-menti che gli servono.Si tramandano le conoscenze di genera-zione in generazione, i loro lavori sono oggi apprezzatissimi e ricercati, dunque ben pagati, cosa che rende piuttosto otti-misti riguardo la preservazione naturale di questi tesori di cultura materiale an-che nel futuro. Più un tessuto è soffice, più esso è incapace di resistere a sforzi che non siano di trazione pura. Per questa sua caratteristica il tessuto di seta era usato da Gaudì per i suoi studi sulle strutture a sforzo normale, come quello nella foto-grafia qui a fianco.

Struttura velaria (in trazione pura) utilizzata da Gaudì per ottenere, per ribaltamento speculare, la geometria di un edificio che lavora in compres-sione pura

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2. Questioni Particolari_I materiali

Questi sono i materiali che originano elementi rettilinei, rigidi e resistenti a flessione.Siffatti elementi, come vedremo, si pre-stano a costruire telai, pilastri ed archi-travi, travi reticolari e composte, struttu-re leggere resistenti per forma.Per capire davvero lo spirito di questo tipo di materiali bisogna analizzarli pri-ma che come elementi, come sostanze, ossia nel loro funzionamento interno. Il bambù è senza dubbio l’es-senza vegetale esistente meglio ottimiz-zata dal punto di vista della resistenza strutturale. E’ un albero, dunque nel linguaggio dei meccanici diremmo che è una mensola verticale sottoposta a cari-co orizzontale, infatti il carico verticale del peso proprio è assolutamente trascu-rabile rispetto all’azione orizzontale del vento che viene captato dal fogliame e la cui forza viene trasmessa al tronco centrale, sottoposto dunque a flessione pura o addirittura tenso-flessione.Il bambù è stato progettato da Madre Natura al meglio per poter essere quel-lo che è: una struttura temporanea (il bambù ha la vita molto più breve di un albero) che lavora per inflessione. Se il progettista che costruisce con questo materiale se ne ricorderà, otterrà tutto ciò che desidera dalla riconoscenza del materiale stesso; ma se se ne dimentica sia dannato per sempre, la vendetta del bambù sarà feroce. Vediamo nel detta-glio gli espedienti usati da Madre Natura per rendere il bambù così straordinario.

2.1.2 Aste di legno e di bambù (S)

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• La leggenda narra che Jigoro Kano, fondatore dell’arte marziale del Judo, prese ispirazione per la sua arte del combattimento proprio osservando una canna di bambù palustre, incurvata sotto il peso della neve che si era depositata sulle foglie.A suo fianco c’era una grande quercia, che invece era forte ed orgogliosa, e la presenza della neve non sembrava darle nessun pensiero. Lui meditava e la tem-pesta non passava, e allo spropositato aumentare della neve Jigoro notò che la situazione si era invertita: il bambù, con il suo incurvarsi, aveva finito per an-dare talmente giù che tutta la neve era scivolata ed il fusto, di nuovo libero, era tornato dritto. La quercia invece, pur con tutti i suoi bicipiti, con la sua rigidità non riuscì a reggere il troppo peso e schian-tò a terra. L’incredibile flessibilità del bambù è la sua prima forza. • Il diagramma del momento, che è sem-pre quello che bisogna guardare quando si parla di elementi inflessi, segnala che il punto più sollecitato della struttura è alla base del tronco, con tensioni che via via diminuiscono andando verso l’alto. Per questa ragione la sezione del fusto si restringe verso l’alto, per essere equire-sistente su tutta l’altezza.• La sezione circolare del tronco è cava, il che da una parte alleggerisce la strut-tura e dall’altra dispone il materiale in maniera ottimale, ossia più lontano pos-sibile dall’asse baricentrico. E’ lo stesso principio utilizzato nelle travi di acciaio a doppio T. Con la differenza che la trave di acciaio sa da quale direzione le ver-rà la spinta, e dunque il materiale viene concentrato tutto nelle due ali in alto e

Jigoro Kano, il fondatore dell’arte marziale del judo

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2. Questioni Particolari_I materiali

in basso. Il bambù invece si aspetta vento da qualunque lato, e dunque la sezione è cava-circolare.• Una trave snella di queste proporzioni, sottoposta a flessione, si dimostrerebbe debole al fenomeno locale dell’imboz-zamento, ossia la perdita di circolarità in una sezione, che quindi metterebbe in crisi la stabilità di tutto il sistema. A questo, come i fazzoletti rompitratta vengono posti ad intervalli regolari nelle travi di acciaio, servono i diaframmi che ritmicamente irrigidiscono la sezione della canna.• In realtà la sezione non è perfettamen-te circolare, ma contiene una piccola irregolarità sul perimetro. Questa irre-golarità è sempre presente ma cambia direzione in ogni internodo, girando su sé stessa a spirale. Dal punto di vista biolo-gico questo serve per fare spazio al ramo che si diparte dal tronco all’altezza del diaframma inferiore, ma strutturalmente offre uno splendido ritegno torsionale, che impedisce alla canna di avvitarsi su sé stessa e collassare. • L’attacco a terra, come abbiamo visto, rappresenta il punto più sollecitato. Per resistere anche a forti sollecitazioni, ha bisogno di un vincolo forte e per nul-la cedevole. Un fittissimo apparato ra-dicale svolge questo ruolo, ancorando la canna al suolo in maniera indissolubile. Presso alcune culture costruttive india-ne, si pensi, la terra attorno a dove na-scono i bambù viene tagliata in zolle con il machete e queste zolle rafforzate dalle piccole e fittissime radici, una volta sec-cate vengono direttamente usate come mattoni, stabilizzati da uno scheletro or-ganico sottile ma molto resistente.

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• Se si osserva la sezione di un bambù si nota che le fibre diventano più fitte e re-sistenti verso l’esterno, e più rade verso l’interno. Questo crea delle autotensioni assiali, le stesse che fanno incurvare le due metà di un bambù tagliato fresco e lasciate a seccare. Le autotensioni stabi-lizzano il fusto all’imbozzamento. L’albero, pur avendo sostanzial-mente lo stesso schema statico, rispetto al bambù ha dovuto prendere altre stra-de, e fondare i propri criteri di resistenza in modo diverso. La condizione biologica di partenza è la differente strategia ac-crescitiva: mentre il bambù ha una ma-trice interrata che getta fuori un nodo dopo l’altro come se fosse una trafila e cresce dunque in verticale, l’albero cre-sce concentricamente, uno strato sopra all’altro.Non gli è quindi possibile avere la se-zione cava perchè il centro è proprio la prima parte ad essere occupata, seguita negli anni dagli strati successivi fino a quelli più esterni.Questo cambia tutto, ed impone di tro-vare altri stratagemmi, che sono sostan-zialmente i seguenti:• la sezione circolare dell’albero è com-posta da una serie di anelli concentrici più chiari e più scuri, intervallati. Per-mettono di contare l’età della pianta perchè in estate la linfa scorre vitale, e dunque la crescita è bianca. In inver-no invece rallenta enormemente, ce ne è molta meno in circolazione, l’albero è meno ossigenato e dunque l’anello di accrescimento corrispondente è più scu-ro. Alla differenza di colore che li rende visibili, si aggiunge una differenza resi-stenziale che alla struttura albero torna

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2. Questioni Particolari_I materiali

molto utile: le parti chiare sono più ela-stiche e morbide, quelle scure sono inve-ce più rigide e coriacee, la differenza si può facilmente sperimentare affondando un’unghia su una tavola di legno nelle due parti. Questo rende il legno un ma-teriale anisotropo, e cioè più resistente. Si immagini per esempio che, a causa di una folata di vento particolarmente forte durante una tempesta, un albero superi la soglia della sua resistenza: im-mediatamente si creerà una lacerazione nell’estremità in cui il tronco è teso. Se il tronco avesse consistenza omogenea, la spaccatura passerebbe istantaneamente da parte a parte grazie alla propagazio-ne della fessura, tranciando il tronco di netto nel punto dove è più sollecitato.Dover attraversare strati di diversa con-sistenza invece costringe la fessura a do-ver trovare una nuova via per ogni strato attraversato, cioè cambiare direzione e dover trovare un nuovo inizio parecchie volte ogni centimetro.E’ lo stesso principio che si riscontra nel dispositivo di suture presenti nel cranio umano, in cui linee ispessite ma prefes-surate bloccano ogni possibile frattura che dovesse coinvolgere una parte qua-lunque del cranio, evitando che prosegua indisturbata dividendo così il cranio in due parti. Ancora lo stesso sistema, que-sta volta non in natura ma annoverato tra le astuzie umane, si trova nei cavo’ di molte banche: massicci muri di cemento armato proteggono i preziosi, ma nello spessore del calcestruzzo i costruttori hanno sparpagliato pezzi di legno. Di per sé essi sono molto meno resistenti del cemento dunque indeboliscono l’impasto, ma se una trivella dovesse provare a pe-

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13. Un’altra volta si trova applicato lo stes-so principio nell’architrave prefratturato, illustrato al paragrafo 2.2.114. Tanto la trazione quanto la compressio-ne sono da intendersi in direzione assiale rispetto al fusto.

netrare il cemento, brucerebbe la testa qualora incontrasse il legno, perchè pro-prio la resistenza molto minore la fareb-be surriscaldare fino a fondere13.• Anche l’albero è dotato di un suo invisi-bile dispositivo di autotensioni interne, che ne aumenta la resistenza in modo si-gnificativo. Questa volta le tensioni sono longitudinali, ossia ortogonali rispetto al piano della sezione circolare.La parte interna è precompressa men-tre quella esterna è pretesa, come rap-presentato nei diagrammi qui a fianco. Per spiegare quale beneficio strutturale derivi da questo assetto, è necessario menzionare una caratteristica peculiare dei materiali fibrosi come il legno: la re-sistenza a trazione è generalmente tra le cinque e le dieci volte maggiore rispetto a quella a compressione14, a causa della natura stessa del materiale.Detto questo, se anziché la configurazio-ne a riposo (I) osserviamo quella in cui l’albero è sottoposto ad una forza oriz-zontale di una determinata intensità (II) vediamo che ad un estremo le tensioni di trazione aumentano, ma come abbiamo detto, questo tipo di sforzi non ci preoc-cupa nei materiali fibrosi. Al lato opposto invece la trazione diminuisce. Al cresce-re del vento la trazione in questo secon-do estremo diventa prima nulla (III) e poi cambia di segno, per diventare com-pressione (IV).Quando la compressione avrà raggiunto il limite accettabile da quel particolare tipo di legno, l’albero si romperà. Ma è inevitabile notare che se le autotensioni non ci fossero, il limite di resistenza si sarebbe raggiunto molto prima (XX-c).• All’interno dell’albero vivo scorre la

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2. Questioni Particolari_I materiali

linfa: trattandosi di un fluido segue le leggi fisiche dell’idraulica, cosicchè sulla base del fusto grava il peso di tutta la colonna di liquido soprastante. La pres-sione di questa colonna di liquido, che è alta come tutto il fusto, determina delle forze idrostatiche orizzontali più forti nella parte bassa dell’albero.L’incenso, il sangue di drago e tutte le al-tre resine, infatti, fuoriescono dalla cor-teccia se questa viene incisa proprio in virtù della pressione idrostatica interna.Osservando un fiore reciso e tenuto fuori dall’acqua, si nota che nel giro di pochi minuti il fusto perde la sua rigidità, e cede sotto al peso del fiore: questo acca-de perchè il fluido linfatico, inizialmente in pressione, trova un’uscita dove il gam-bo è stato reciso, e questo ha lo stesso effetto di un buco nella gomma di un’au-tomobile.Lo scheletro rigido fibroso dell’albero è molto più resistente di quello del fiore, dunque conserva una sua propria resi-stenza anche da secco, ma indubbiamen-te l’albero vivo ha questa risorsa resi-stenziale aggiuntiva.

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<<L’atto di costruire in terra racchiude una parti-colare magia, suscitata dal fatto stesso di plasmare l’elemento più essenziale e fecondo del nostro pia-neta. Proprio questa fertilità del materiale sem-bra spesso generare in coloro che se ne servono un particolarissimo slancio creativo, che li porta ad indugiare nel piacere di modellare quella materia vivente, sino a far nascere dalle proprie mani mor-bide rotondità, dolci da accarezzare. […] Da questi interni, modesti o sontuosi che siano, emana quasi sempre una conturbante spiritualità e una sensua-lità tonificante. Grazie al ricorso a un unico mate-riale nel trattamento di muri, volte, pilastri, sedili, camini e piani d’appoggio, queste architetture d’in-terni divengono vere e proprie creazioni artistiche intimamente connesse a ritmi della vita quotidiana, sculture viventi abitate dagli uomini15.>> A.Arecchi

La terra è un materiale pe-sante, resistente a compressione, opa-co-plastico; che si presta a realizzare strutture portanti-chiudenti, continue, taglio-compresse; che costruisce spazi chiusi, organici, aggregati; che infine si presta ad originare individui architetto-nici avvolgenti, con prevalenza dei pieni sui vuoti, organizzati gerarchicamente.Si compone di sabbia (grani grandi), limo (grani medi) ed argilla (grani pic-coli); quest’ultima ha il ruolo del legante, come il cemento nel calcestruzzo. Essa per contro ritira molto in fase di asciu-gatura provocando spaccature, mentre sabbia e limo quasi per nulla. Da qui l’esigenza, per uso co-struttivo, di una terra con un contenu-to d’argilla ragionevole, né troppo alto (troppe fessurazioni) né troppo basso (troppo poca coesione).

2.1.2 La terra (o, O)

Struttura a pacchetti dell’argilla, vista al microscopio elettronico

15. A. Arecchi, La magia della terra

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2. Questioni Particolari_I materiali

16. La formula chimica del caolino puro è: Al2 (OH) 4S i2O5.

17. La prima volta che sentii il nome “mon-tmorillonite” fu dal compianto Professor Mattone del Politecnico di Torino, che me ne mise in guardia. Ero andato a mostrargli dei campioni di terra per sentire cosa ne pensava, e ricordo che mi disse quel nome sillabandolo quasi terrorizzato, con gli oc-chi sbarrati, come se stesse nominando un demonio o una maledizione: “Mont-mo-ril-lo-ni-te!”. Grazie al cielo poi nei miei cam-pioni non ce ne era, altrimenti sono certo

che li avrebbe sottoposti ad un esorcismo. La formula chimica è (Al2 - yMgy ) (S i4 -

xAlx )O1 0 (OH) 2Ex+ y • n[H2O].

Inoltre esistono diverse qualità di argilla (si pensi alla varietà dei colori della ter-ra) differenti per composizione chimica e proprietà.La caolinite16 per esempio è un’argilla molto pura. Bianca, mischiata agli altri elementi dà luogo a terre chiare, grige o beige. Incolla molto e si ritira poco, è l’ideale per costruire.La montmorillonite è il cane delle argil-le17, si ritira fino a perdere il 40% del volume ed ha proprietà coesive molto blande. Purtroppo non esiste un’anali-si scientifica semplice per capire quale tipo di argilla ci sia in una terra: esisto-no analisi scientifiche per nulla semplici come quella dello spettro ai raggi X o la termogravimetria comparata, e poi ne esiste una semplice ma per nulla scien-tifica, che consiste banalmente nel toc-carla, provarla.Non essendo un materiale standardizza-to, è importante ogni volta analizzarlo e verificarne l’idoneità per la costruzione. Esiste un’infinita varietà di prove mec-caniche ed idrauliche per la caratteriz-zazione di una terra, mi limiterò qui ad esporre le 6 più importanti.

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18. J. Rondelet, Trattato teorico e pratico dell’arte di edificare. S è la snellezza, L è la distanza tra due muri di spina consecutivi, d è la diagonale del muro, B è il coefficiente da assegnare per lo spessore in assenza di vincoli laterali.

I – Resistenza a compressione

Vengono prodotti dei provini cubici di 10 centimetri di lato con la terra da ana-lizzare. Si lasciano stagionare per almeno un paio di settimane dopodiché si mettono nella pressa e si schiacciano. Bisogna fare una media dei valori di rottura per ottenere quella di riferimento: considerata l’area di 100cmq del provino, la forza indicata dalla macchina (in Newton) va divisa per quell’area: srottura=N/A. In fase di proget-tazione è poi necessario tenere un certo coefficiente di sicurezza e dunque fare in modo che la sezione più sollecitata dell’edificio non superi, per esempio, un cinquantesimo della tensione di rottura. In formula, smax < srottura/50.Se questa relazione è vera, la resistenza è verificata.Alcune presse da laboratorio più sofisticate, dotate di sensibilissimi deformome-tri assiali e laterali, possono anche disegnare il diagramma s-e del materiale fino alla rottura e determinarne il coefficiente di Poisson.Oltre alla resistenza però c’è sempre un’altra condizione da verificare: la sta-bilità.Bisogna cioè verificare che i muri non siano troppo snelli, condizione che potreb-be mettere la struttura in pericolo anche senza superare i limiti di resistenza. Per questa verifica occorre considerare un parametro che si chiama snellezza virtuale, che dipende dal rapporto tra altezza e spessore del muro ma anche dalla distanza tra due muri di spina consecutivi.La snellezza virtuale delle murature è:s=Lb/d, secondo la formula del Rondelet18, che pure non è del tutto corretta. Per le murature in terra cruda possiamo assumere una snellezza massima di 10 o di 12, a seconda che i muri siano realizzati con precisione da manodopera esperta o con dei fuori-piombo significativi.

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2. Questioni Particolari_I materiali

Diagramma tensione-deformazione relativo a cinque campioni di terra

Test a compressione monoassiale su un provino di terra

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II – Peso Specifico

Qualunque progettista moderno, interrogato su quale sia il parametro più im-portante per definire la resistenza di un materiale che servirà per costruire una muratura, risponderebbe proprio con la srottura di cui al punto precedente.Gli ingegneri dell’800 però usavano un’altra grandezza che simboleggiavano con la lettera H, ed era definita dall’altezza massima della colonna a sezione co-stante, composta di un determinato materiale, appena prima che la base della colonna collassi sotto il suo stesso peso. Immaginiamo per esempio di iniziare ad impilare uno sopra all’altro dei blocchi perfettamente cubici di un metro di lato in marmo: il materiale è molto resistente ma anche molto pesante, per cui arrivati ad una certa altezza il primo cubo si romperà sotto il peso del resto della colonna. Se usassimo un materiale altrettanto resistente ma molto più leggero, come l’alluminio, il valore di H sa-rebbe molto più alto, indicando una maggior resistenza pur a parità di srottura. In formula H non è altro che la srottura divisa per il peso specifico del materiale (H= srottura/g), ed è in assoluto il parametro più interessante per i materiali da mura-tura: esso ci dice infatti quanto di sé stesso quel materiale è disposto a portare, contando sia la propria resistenza sia il suo peso. Un modo semplice per determinare il peso specifico di un certo materia-le (purchè più pesante dell’acqua) con un buon livello di precisione è la pesata idrostatica, che necessita di una bilancia precisa in grado di pesare da un gancio inferiore anziché da un piatto superiore. L’esperimento consiste nel pesare due volte lo stesso provino, una volta normalmente e la seconda immergendolo in acqua.Per evitare che l’acqua penetri nel materiale rovinando la prova, lo si può spal-mare con un sottile strato di impermeabilizzante (cera, vaselina o grasso). La formula per ottenere il peso specifico, detta Paria la prima lettura e Pacqua la se-conda, è la seguente:

Pacqua = Paria / Pacqua

Quando si trasporta terra smossa, per esempio a voler calcolare il numero di carri di terra necessari per fare un certo numero di blocchi, bisogna considerare mediamente che essa, una volta compattata in blocchetti, diminuirà di volume riducendosi ad un terzo.Più precisamente, tre metri cubi di terra possono costruire circa 0,9 metri cubi di blocchi pressati o 1,3 metri cubi di blocchi formati a mano senza pressa.

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2. Questioni Particolari_I materiali

Determinazione del peso specifico attraverso la prova della pesata idrostatica

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19. Eseguite nel Lab.MAC nel 2007, con il Prof. Massimo Corradi e l’Arch. Davide Pedemonte.

III – Trazione

Alla terra, generalmente, non è mai richiesto di resistere a trazione.Questa prova infatti non ha un’utilità fine a sé stessa, ma diventa estremamente interessante considerato che tutti i tipi di terra hanno una resistenza a compres-sione tra le otto e le undici volte maggiore di quella a trazione.Testare un provino a trazione quindi ci dà delle informazioni (anche se non pre-cisissime) sul comportamento di quel materiale a compressione, e considerata la semplicità di questa prova (che si fa con un secchio ed una bilancia) rispetto a quella rigorosa a compressione (che richiede una macchina sofisticata e costo-sissima reperibile solo in pochi laboratori scientifici), per le prove preliminari in situ essa sarà più che sufficiente.Per una terra standard, ad esempio con srottura = 25kg/cm2, a fronte di uno sforzo di 2,5 tonnellate necessarie per rompere il provino a compressione (A=100cm2), la prova per trazione si esaurirà con appena 25kg (A=10cm2).

IV – Taglio

Oltre alla compressione, l’altro sforzo tipico delle murature è il taglio. Qualora si progettasse una cupola per esempio lungo i paralleli si avranno degli stati ten-sionali di trazione. L’apparecchio murario dei blocchi trasferisce questa trazione nei giunti, trasformandola così in taglio, ed è necessario un criterio di verifica che dica se il giunto è in condizioni ti portare questo sforzo oppure no. La resi-stenza a taglio di un giunto dipende direttamente dal peso applicato sopra alla muratura e da altri fattori che qualificano le proprietà del giunto tra i blocchi: scabrosità, elasticità, presenza di incastri. E’ possibile fare delle prove di labo-ratorio con martinetti idraulici orizzontali e verticali19, per disegnare la retta di proporzionalità tra sovraccarico verticale e sforzo tagliante orizzontale.Con questo dato si riesce a verificare la resistenza a pseudo-trazione della cupola ma anche la resistenza a cedimenti fondazionali nei muri, quella al vento ed ai terremoti.

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2. Questioni Particolari_I materiali

Prova al taglio con un martinetto che comprime da sopra ed un altro che spinge il mattone centrale

Prova a trazione; il provino ha forma a “8”, in cui la sezione più sottile misura 5x2cm

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V – Imbibizione e dilavamento

Esaurite le prove di tipo strettamente resistenziale-meccanico, rimane da veri-ficare la capacità della terra di mantenere le proprie caratteristiche all’acqua.I legami tra le argille infatti, al contrario di quelli del cemento o della calce idraulica, rimangono reversibili a meno di non eliminare tutta l’acqua di strut-tura, cosa che si ottiene solo attorno agli 800 gradi centigradi, cuocendo cioè il mattone.Tuttavia anche l’argilla non cotta ha un suo meccanismo di protezione dall’ac-qua: quando si bagna si espande, creando una sorta di camicia fangosa che non si lascia penetrare e protegge la parte interna che rimane asciutta. La protezione non è perfetta, in tanti luoghi dell’Africa gli intonaci in terra si rifanno ogni anno dopo le grandi piogge, ma il fatto stesso che, utilizzando terre di ottima qualità, una stagione di tempeste porti via non più di 4 o 5 centimetri di intonaco, indica che la terra non è poi del tutto indifesa di fronte all’azione dell’acqua. Da questo punto di vista, due sono le caratteristiche interessanti per la fase di progettazione: la resistenza ad imbibizione, ossia la capacità di un provino di rimanere immerso in acqua mantenendo la forma, e la resistenza al dilavamento, cioè la capacità del provino di conservare la sua consistenza sotto l’effetto dell’impatto meccanico delle gocce d’acqua battente. La prima dà indicazioni utili per progettare le fondazioni e le murature conoscendone la resistenza a fenomeni come l’umidità di risalita. La seconda prova invece serve per gli intonaci e gli esterni direttamente esposti alla pioggia.Esistono dei criteri standard per fare queste prove, ma perlopiù l’utilizzo più intelligente di questo tipo di analisi è quello comparativo, confrontando l’esi-to della medesima prova (non ha importanza in quali condizioni, purchè siano sempre le stesse in tutti i provini) sui campioni di tutte le terre che si hanno a disposizione, scegliendo la migliore pur senza poterne quantificare numerica-mente le caratteristiche.

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2. Questioni Particolari_I materiali

Prova comparativa di imbibizione, con 6 provini di terra diversamente stabilizzata

Provino sottoposto a prova di dilavamento

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VI – Il modulo di elasticità

Il modulo di elasticità, o modulo di Young (E), rappresenta la costante di propor-zionalità tra tensione e deformazione dei solidi elastici lineari; si determina, in campo elastico, attraverso la legge di Hooke-Bernoulli:

E = s/e In un riferimento cartesiano ortogonale, il termine E è rappresentato dall’arco-tangente del coefficiente angolare della retta s-e. Si noti però che il rapporto di proporzionalità diretta tra tensione e deformazione è una semplifi-cazione ammissibile solo in campo elastico e solo per alcune classi di materiali.Le gomme, ad esempio, hanno un diagramma s-e per nulla rettilineo, dal mo-mento che la quasi totalità della deformazione elastica avviene in un intervallo limitato di tensione (De), mentre prima e dopo il materiale risulta essere più tenace.I tessuti organici molli, invece, hanno un diagramma s-e simile ad una curva esponenziale, detto diagramma a “J”, e ciò è facilmente verificabile provando a mettere in trazione un qualunque tessuto molle, come il lobo di un orecchio: basta esercitare una piccola forza per provocare grandi deformazioni, ma a forze doppie o triple non corrisponderanno certamente allungamenti doppi o tripli. L’incremento di deformazione diminuisce all’aumentare del valore della tensio-ne.Il motivo di questo comportamento è da ricercare nelle grandi deformazioni a cui sono sottoposti i tessuti molli, poiché il corpo deve potersi muovere senza accumulare energia; essendo l’energia elastica rappresentata dall’area sottesa alla curva s-e, la curva a “J” minimizza l’accumulo di energia a parità di defor-mazione. In questi schemi sono illustrati alcuni diagrammi tensioni-deformazioni di materiali omogenei sottoposti a prove di trazione entro il limite elastico.Per la terra non è valida la semplificazione data dalla formula E= s-e, che pre-vede E costante in tutto il campo elastico. Ai fini di calcolo si può fingere che sia così, non è importante, anzi per la maggior parte degli edifici in terra si può utilizzare il modello rigido-fragile senza considerazione alcuna per le deforma-zioni. L’interesse di quanto sopra enunciato non risiede dunque nel calcolo strut-turale, quanto nel considerare che elementi quali la ghiaia, la sabbia, i silicati o il cemento, se composti con il materiale terroso, tendono a far assumere alla terra un comportamento elasto-plastico, con considerevole accumulo di energia elastica, mentre elementi quali paglia, calce, fibre vegetali, sterco, caseina e, in misura minore, argilla e colloidi tendono a far diminuire la quantità di energia accumulata dal composto. Nel valutare il tipo di stabilizzazione da adottare, dunque, conviene te-nere presenti questi dati, soprattutto in zone sismiche, dove un minor accumulo di energia da parte delle masse architettoniche potrebbe essere determinante per la stabilità dell’edificio.

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2. Questioni Particolari_I materiali

Prova di flessione, per un’approssimativa determinazione del modulo elastico

Diagramma tensioni/deformazioni in un solido

lineare elastico

Diagramma s-e di una gomma in campo elastico

Diagramma s-e di un tessuto organico in campo elastico

Energia elastica accumulatada due differenti materiali a parità di stato deformativo e

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20. Sono tre e non quattro perchè non si riscontrano elementi “s” in terra, data l’im-possibilità di usare la terra in trazione, o di produrne elementi filiformi.

Esistono molte tecniche costruttive im-piegabili per edificare in terra, i metico-losi professori del CRATerre di Greno-ble, con il prospetto qui riportato, hanno raffigurato la fabbricazione di tutti i tipi di muro costruibili in terra cruda. Facendo un ulteriore sforzo di sintesi, si potrà concordare che tutte le tecniche possono essere raggruppate in tre20 fon-damentali categorie: - il telaio leggero con chiusura o tampo-namento in terra (tecniche che chiameremo, con una cer ta approssimazione, con il termine fran-cese torchis): S- la muratura a blocchi (tecniche adobe): o- la scultura monolitica (tecniche pisè): O

Le tecniche costruttive in terra

Le tecnoche costruttive in terra cruda, secondo la schematizazione del CRATerre

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Quello vero e proprio è fatto da una gra-ta di legni o bambù disposti in verticale (per piantarsi nel suolo) ed in orizzonta-le (per collegarsi tra di loro e reggere il rinzaffo di terra), inchiodati o legati tra di loro e ricoperti da uno strato di terra (o terra-paglia). Solo impropriamente si può dire che questo genere di case sono in terra cruda, perché in realtà tutta la responsa-bilità strutturale è affidata allo scheletro ligneo. Proprio per questa caratteristi-ca, però, le tecniche torchis si prestano magnificamente qualora la terra di cui si disponga sia di cattiva o anche pessima qualità. La durabilità di un manufatto in torchis è molto contenuta nel tempo e questo ne rappresenta il principale difet-to: le termiti, l’umidità del suolo, i fun-ghi e le muffe impiegano qualche anno o decennio (dipende molto dalle condizioni climatiche) a deteriorare l’ossatura re-sistente, e perciò questa tecnica si trova molto spesso utilizzata in contesti noma-di, semi-nomadi o neo-stanziali.Richiede una gran quantità di legno: se si usa per esempio l’eucalipto, serviran-no 20-30 alberi per costruire una piccola capanna da tre metri di diametro, e que-sto dato nuovamente lega il torchis alla vita nomade, ossia all’utilizzo spregiudi-cato delle risorse dettato dalla vastità del territorio a disposizione.

2. Questioni Particolari_I materiali

Il torchis

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Si tratta del blocco artificiale più antico della storia, e di tutte le sue varianti ri-scontrabili.Dai ladiri sardi, enormi blocchi pratica-mente insollevabili, ai thub arabi, delle dimensioni che lo rendono il progenitore dei moderni mattoni cotti: 5,5x12x25.Le dimensioni del thub sono determinate a partire dal massimo peso che la mano dell’operaio può agevolmente movimen-tare e collocare con precisione, senza la minima fatica: tre chili circa. La lun-ghezza è stabilita in base allo spessore dei muri che si vogliono ottenere con un muro a due teste (25cm, in grado di portare una casa di due piani, come gli edifici di tradizione araba). La larghezza è la sua metà diminuita di mezzo centimetro, in modo tale che due mattoni accostati di taglio con un cen-timetro di malta in mezzo siano lunghi complessivamente tanto quanto un mat-tone di piatto. La terza dimensione è scelta dimezzando ulteriormente: un blocco molto più alto darebbe dei muri poco resistenti a causa del grande an-golo di ammorsamento, mentre blocchi troppo sottili finirebbero per lo spezzarsi già in fase di asciugatura.Ogni tipo di blocco, con le sue tre dimen-sioni, il suo peso e la sua consistenza, racconta sia quale tipo di terra lo ha co-stituito, sia con quale intento costruttivo è stato fabbricato

L’adobe

L’angolo di ammorsamento della muratura varia a seconda del rap-porto tra lunghezza ed altezza del mattone. Minore è il suo valore, maggiore la resistenza globale del muro

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La parola significa “pestato”, e si rife-risce alla tecnica costruttiva: due assi di legno vengono fissate in verticale con dei distanziali ad una certa distanza tra loro, lo spazio intermedio viene riempi-to di terra umida che viene pestata con un maglio battitore, il tutto su successivi strati orizzontali.Quando la terra pressata ha raggiunto in altezza il livello superiore delle assi, esse vengono rimosse e soprelevate, dunque si procede. Si ottiene così una muratura monolitica continua ed omogenea, gene-ralmente di grande spessore. A differenza dell’adobe, le tecniche pisè non richiedono prefabbri-cazione, consistono di un solo gesto: la terra viene scavata ed immediatamente usata per costruire. Spesso è sufficiente l’umidità naturale del terreno, non serve neppure aggiungere acqua. Le varianti più primodiali sono la terra scavata e quella impilata, sem-pre monolitiche ma di minor raffinatezza realizzativa, non prevedendo cassero e dunque controllo geometrico.

2. Questioni Particolari_I materiali

Il pisè

Struttura in terra impilata, tecnica ge-nitrice del pisè

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Molto spesso la terra non viene utilizza-ta pura ma viene additivata con qualche sostanza in grado di migliorarne le ca-ratteristiche, che prende il nome di sta-bilizzante.Nella storia si sono utilizzati stabilizzan-ti vegetali (paglia, gomma, resina, olio), animali (sugna di maiale, sangue, peli e setole) e minerali (pece, calce, bitume), oggi inoltre esistono anche quelli sinte-tici (silicati, gomme plastiche, paraffina, vaselina).L’inserimento della paglia nell’impasto però sembra essere quasi una costante. In tutte le tecniche costruttive è prevista, almeno tra le varianti. Una spiegazione unica non è possibile, ce ne sono almeno sei:• essendo cava all’interno la paglia al-leggerisce l’impasto, ed il minor peso specifico rende il blocco migliore• conferisce resistenza a trazione alla terra come il ferro la dà al cemento• i colloidi della paglia aiutano l’argilla a tenere insieme i grani di terra• aumenta l’elasticità e la plasticità dell’impasto• in caso di rottura del pezzo, la paglia tiene assieme i cocci evitando pericoli• riduce il fenomeno di fessurazione in fase di asciugatura In altre parole: paglia e terra sono nate per stare assieme, e sarebbe riduttivo volerne individuare un’unica ragione, è così semplicemente perchè è nella natura delle cose.

La terra e la paglia

Mattoni di argilla e paglia, due materiali che per molteplici ra-gioni sembrano chiamarsi l’un l’altro

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21. L’hi tech di Renzo Piano, come lo strut-turalismo di Santiago Calatrava, costituisce una gratuita, seppure intrigante, esibizione di muscoli: negare la loro importanza sa-rebbe disonesto, ma metterli in mostra è,

più ancora che kitch, macabro.

Il rapporto tra la struttura portante ed il suo organismo architettonico è una que-stione centrale nella formazione del lin-guaggio architettonico. Deve essere un rapporto sincero ma non ostentato21, simile a quello dello scheletro con il corpo uma-no: se è vero che grossomodo la sagoma del corpo segue l’andamento della struttu-ra ossea, esso però né lo mette in mostra né ne ricalca fedelmente ogni singola for-ma.Mi sono permesso di selezionare un esem-pio in negativo per rendere chiaro questo principio: lo ho dovuto cercare tra le archi-tetture moderne (e non è stato difficile), perchè tra quelle tradizionali vernacolari è sostanzialmente impossibile riscontrare incongruenze vistose.Si tratta apparentemente di una tenso-struttura appesa a dei puntoni di metallo attraverso dei cavi, o perlomeno tutto il lin-guaggio formale farebbe pensare così.Aguzzando la vista però si nota che al cen-tro del puntone, ossia dove il suo spessore dovrebbe essere maggiore, c’è in realtà un’interruzione nell’elemento. Se si osserva poi l’appoggio del-la parte retrostante a terra, si capisce che l’immagine della tensostruttura appesa è solo un inganno: i tiranti che si diparto-no dalla cima dei puntoni non reggono la struttura di copertura, al contrario, essi sono fissati alla copertura per mantenere in equilibrio il puntone, o perlomeno la sua metà superiore. La copertura in tessuto è poi tenuta in forma da una struttura me-tallica secondaria, altrimenti avrebbe le

2. Questioni Particolari

2.2 Le strutture

Tabella 8

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consuete concavità verso l’alto tipiche di ogni vera e propria tensostruttura.Si tratta di un inganno bello e buono, e non ha importanza se lo scopo è stato raggiunto perchè l’edificio sta in piedi, esso comunque finge di rappresentare una cosa diversa dalla sua reale natura. I tiranti e i puntoni sono solo un ornamen-to, senza alcun significato. Nell’architettura di qualità la struttura non è un “effetto speciale” ma un dispositivo dalle caratteristiche detta-te dai materiali che si è deciso di impie-gare e che a sua volta informa l’assetto planimetrico in quanto a campate, luci, punti nodali e direzioni.Esistono due problemi che la struttura è chiamata ad assolvere, si tratta di re-sistenza (o robustezza) e stabilità (o equilibrio). La prima significa che nes-sun elemento deve rompersi, mentre la seconda significa che non deve perdersi il legame che tiene insieme gli elementi.Se un filo si strappa è un problema di resistenza, se un arco collassa senza che nessuno dei suoi conci si sia rotto è un problema di stabilità, come a dire: la re-sistenza chiama in causa il materiale e le tensioni a cui è sottoposto, la stabili-tà invece si basa sul disegno strutturale e sulle proporzioni geometriche con cui l’oggetto è concepito.Cataloghiamo le strutture secondo l’or-mai noto sistema di identificazione s,S,o,O, ed incontriamo nell’ordine:

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22. Le uniche strutture in trazione che non hanno necessità di riscontro in compressio-ne o flessione sono le cosiddette strutture pneumatiche in cui è l’aria stessa ad es-sere compressa per mantenere in trazione la membrana chiudente. Inutile dire comun-que che si tratta di strutture prettamente moderne, e che ad ogni modo non escono

dalla nostra classificazione.

I - Tensostrutture e Flessostrutture

La ragnatela (che lavora tutta in trazione) ed il nido di uccello (che la-vora perlopiù in flessione), nella nostra classificazione, appartengono alla mede-sima categoria.La differenza sostanziale è che la ten-sostruttura necessita un’ossatura di ri-scontro22 mentre la flessostruttura, come questi nidi o come i cesti di vimini, pos-sono resistere per forma senza riscontro alcuno.Tra le tipologie primitive si trova questo tipo di strutture nei ponti in corda, nelle tende e nei ripari cellulari inflessi (come quello del punto 2.4.2-III). La resistenza di queste strutture è di trazione, mentre la stabilità è affidata alla compressione nei puntoni nel primo caso, o alla flessio-ne del guscio stesso nel secondo.

II - Telai isostatici ed iperstatici

Gli elementi ad aste si presta-no perlopiù a creare strutture a telaio. Il telaio può essere isostatico come in una trave reticolare o iperstatico come in un edificio in cemento armato. Il si-stema fondante di questa struttura, il suo primordio, è il sistema trave-pilastro pietrificato simbolicamente nei triliti. Il concetto è dunque quello di una trave che unisce orizzontalmente due pilastri, delimitando ed allo stesso tempo copren-do tutto lo spazio compreso. La struttura quindi ha una netta prevalenza del vuoto sul pieno, scarica a terra per punti e dise-gna delle maglie strutturali che possono poi essere tamponate con un materiale leggero (come pannelli o a blocchi alleg-

2. Questioni Particolari_Le strutture

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23. “Questa forma classica di tessitura [la muratura a ortostati e diatoni] svela così il suo intento meccanico più significativo: ricostruire con accorto artificio l’integrità della pietra interrotta dalla geometrica parcellizzazione”, A. Giuffrè.

geriti).La resistenza dei telai vede la sua criti-cità nella trazione (nel lembo inferiore delle travi) mentre la stabilità mette in gioco la compressione (nei pilastri o nel lembo compresso delle travi).

III - Scatole murarie

Se il telaio deriva direttamen-te dal prototipo dell’albero, la scatola muraria invece si riferisce a quello della grotta, appartenente all’area geo-mate-riale pesante-plastica.Mentre il telaio resiste per forma (trave-pilastro-controvento), la scatola muraria resiste per gravità. Essa rappresenta una struttura avvolgente, portante chiudente, stratificata.La sua resistenza si basa sulla compres-sione (dei blocchi), mentre la stabilità è fondata sul taglio (nei giunti di malta).La dimensione dei blocchi non è indiffe-rente ai fini della resistenza meccanica: La splendida verità è che il muro di mat-toni, come dimostrato dalle illuminanti ricerche del Prof. Antonino Giuffrè, è una struttura tanto più resistente quanto più piccoli sono i blocchi che lo compon-gon23 . Questo è vero anche per il numero di aste di una trave reticolare, i tiranti di un ponte e grossomodo per ogni altra struttura costituita da elementi omoge-nei.

IV - Strutture monolitiche

Il monolite per eccellenza è la terra, il nostro pianeta, e dunque le pri-me strutture monolitiche sono proprio quelle ottenute scavando nel vivo sotto-

Tre muri di uguale spessore ed altez-za ma costituiti di blocchi via via più piccoli, sottoposti a sforzo orizzontale (spinta di una volta, sisma o vento)

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2. Questioni Particolari_Le strutture

suolo. Tecnica molto usata nel nord Africa (soprattutto Tunisia e Marocco) dove il forte caldo spinge gli uomini a cercare riparo sotto terra, ma anche nel Nord dell’Etiopia dove i Cristiani Orto-dossi, per evitare attacchi e persecuzioni, costruivano chiese e complessi monastici sotto la linea del suolo. Da questo tipo-radice che è la terra scavata si evolvono altre tecniche come la terra impilata e poi il pisè, di cui si è già parlato.La resistenza delle strutture monoli-tiche è incentrata sulla compressione, mentre la stabilità sulla semplice forma dell’oggetto.La monoliticità della struttura è perico-losa in caso di cedimenti differenziati del terreno, ossia di spostamenti assegnati a parti della struttura: mentre in un muro a blocchi un’eventuale fessura è costret-ta dalla geometria del muro a seguire i giunti (e dunque ad un percorso molto tortuoso), nel muro monolitico la fessu-ra può attraversarlo da parte a parte in linea retta. Considereremo ora le strutture solo in quanto seriali ed organiche, senza addentrarsi nelle ulteriori specificazio-ni: i nostri esempi saranno la trave (s) e l’arco (o).In seguito osserveremo i quattro tipi di struttura attraverso altrettante tipologie in grado di riprodurre formalmente la geometria della cupola.

La chiesa ipogea di San Giorgio a Lalibela

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Viene da chiedersi quale sia la differen-za tra un arco ed una trave. Anzi no, non viene affatto da chiederselo, ed è un vero peccato: li per-cepiamo istintivamente come oggetti tal-mente diversi da non aver bisogno di una definizione che li distingua.Mentre se per puro diletto ci spingessimo alla ricerca di un formale enunciato che dicesse qualcosa del tipo: “quando un’a-pertura muraria ha questa e quest’altra caratteristica la chiamiamo trave, in caso contrario la chiamiamo arco”, sco-priremmo che la questione è molto più spinosa di come sembra a prima vista.E’ possibile dare una definizione precisa, ma per arrivarci bisogna affrontare non poche traversie. Riguardo le prime due immagini di que-sto paragrafo non abbiamo dubbi, il pri-mo è un arco mentre la seconda rappre-senta una trave, ma guardiamo la terza immagine: di cosa si tratta? Ha l’intradosso di un arco e l’estradosso di una trave. Ha le imposte inclinate come un arco ma è un monoli-te come una trave. Spinge lateralmente sugli appoggi come un arco ma si rompe al centro come una trave.Un rompicapo che ci spinge a cercare quella definizione di cui si parlava, in grado di dire senza dubbio se si tratta dell’una o dell’altra soluzione di apertu-ra senza lasciare spazio ad ambiguità. Prima di passare a cercare le differenze, sforziamoci di individuare cosa hanno in comune e dunque in quale

2.2.1 La Trave e l’Arco

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2. Questioni Particolari_Le strutture

rapporto stanno tra di loro l’arco e la tra-ve.Iniziamo con il dire che tra le due solu-zioni sicuramente la trave è la più sem-plice e dunque la più antica, e l’immagi-ne qui a fianco in qualche modo rende ragione di questo rapporto: la trave, inflettendosi, genera una fessura nella parte superiore della muratura a forma di arco.Non è ancora un arco vero e proprio per-chè i mattoni che lo compongono sono tutti orizzontali (dunque chiamiamo que-sto assetto “pseudoarco”), ma la sostan-za di quanto illustrato è vera. E’ proprio la trave, dunque, con le sue deficienze di resistenza, ad “in-ventare” l’arco. Osserviamo questa immagine, in cui una trave snella (lunghezza mag-giore di otto volte l’altezza) si rompe a causa dell’eccessivo carico: il punto più fragile è il centro perchè lì è massimo il momento flettente, e dunque lì avverrà la rottura. Un istante dopo il cedimento del materiale, si avrà il cinematismo di col-lasso, raffigurato dalle due metà disposte a “V”.“Una cosa al contrario è il contrario di quella cosa”, e possiamo supporre che qualcuno, avendo osservato diverse travi rompersi, abbia un giorno pensato di ap-plicare questo principio autoevidente e di rendere più resistente la struttura, inver-tendo la configurazione a “V” di collasso, e dunque ottenendone una più forte che non la semplice trave rettilinea. Da qui nascerebbe l’arco a tre cerniere e due elementi, o “architrave prefrat-turato”, contrassegnato con la lettera M proprio per la sua evidente derivazio-

La deformazione della trave sotto carico in una muratura a blocchi in-genera il collasso di una porzione di continuo murario il quale, separandosi dal resto della struttura, si configura

come un falso arco autoindotto

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ne dagli effetti del momento sulla trave snella. Se invece consideriamo una tra-ve tozza (lunghezza inferiore a 8 volte l’altezza, ossia fuoriuscita dalle ipotesi del cilindro di Saint Venant, le prove di laboratorio ed i calcoli dimostrano che l’effetto più pericoloso non è più quello del momento ma diventa quello del ta-glio, e di conseguenza le rotture avver-ranno sugli appoggi (dove il grafico del taglio presenta i valori più alti), non più in mezzeria.A causa della disposizione delle tensio-ni interne le fratture avranno sempre un andamento convergente, tese cioè a se-parare la trave in tre parti di cui quella centrale è un trapezio con il lato minore in alto e quello maggiore in basso. Ripetendo lo stesso enunciato di prima e volendo rovesciare la configura-zione di debolezza per ottenere quella di forza, otteniamo l’arco a tre elementi e quattro cerniere qui contrassegnato con la lettera T, per la sua derivazione dagli sforzi taglianti. Guardando le testimonianze sto-riche più antiche si vedono esempi riferi-bili tanto alla tipologia base M quanto a quella T, il che rende impossibile stabi-lire quale sia stato effettivamente tra i due meccanismi quello che ha portato il primo uomo alla scoperta dell’arco, ma forse è la domanda in sé ad essere sba-gliata, o perlomeno fuorviante. Per approfondire la questione vediamo un altro esempio, riportato in fotografia: una trave in calcestruzzo (non armata con ferri) poggia su due piedritti di legno ed è stata caricata con un peso tale da provocarne la frattura. La sezio-

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24. Quindi la risposta corretta ed indubbia alla domanda di apertura è “una trave-puntone”, finchè non si romperà in mezze-ria innescando la resistenza “di riserva” e

trasformandosi cioè in un arco.

2. Questioni Particolari_Le strutture

ne centrale si è rotta, la struttura-trave in quel momento ha cessato di esistere ma non è collassata: i pesi di acciaio sono ancora tutti al loro posto, se ne possono perfino aggiungere altri senza provocare il crollo. Il motivo è che i due moncherini che una volta costituivano la trave sono entrati in spinta all’estradosso, creando tre cerniere (due sugli appoggi ed una in chiave), che determinano un arco.La trave ha esaurito le sue risorse co-esive perchè il materiale ha una bassa resistenza a trazione e dunque il lembo inferiore è collassato, ma la residua resi-stenza a compressione permette di con-servare l’equilibrio globale a condizione di poter contare su degli appoggi che re-sistono anche lateralmente, e non solo a sollecitazioni verticali. La realtà è che dentro ad ogni arco esiste una linea invisibile che pren-de il nome di curva delle pressioni prin-cipali ed è geometricamente una catena-ria, esattamente come la linea disegnata dalla corda leggera appesa per due punti, solo con concavità verso il basso anziché verso l’alto, specchiata. La trave non ce l’ha, ha le curve isostatiche di compres-sione e quelle di trazione, che però sono un’altra cosa.La curva delle pressioni è ciò che dav-vero contraddistingue l’arco rispetto alla trave24: l’esistenza di una linea in cui si concentrano tutti gli sforzi di com-pressione pura e tiene insieme i conci, che devono essere almeno due. Barlow rese per la prima volta visibile questa linea con un esperimento dimostrativo: costruì un arco con i conci in legno ed, al posto della malta nei giunti, cinque tas-selli di legno tutti uguali.

Trave-arco

Riproduzione migliorata dell’esperi-mento di Barlow (progetto Prof. Mas-

simo Corradi)

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Una volta messo in opera l’arco alcuni di questi tasselli scivolano da soli caden-do a terra, altri si possono togliere senza il minimo risentimento da parte dell’e-quilibrio globale, e così si può arrivare ad avere un solo tassello in ogni giunto. Collegando tutti questi tasselli tra loro si ottiene proprio la curva delle pres-sioni principali, che assicura la stabilità dell’arco.Coulomb è stato il primo ad averne cor-rettamente interpretato il significato, meravigliosamente riassunto nel dise-gno di sette sfere in un equilibrio ma-gico ma matematicamente possibile, ad unica condizione che i punti di contatto tra le sfere siano disposti perfettamen-te lungo una curva catenaria. Si noti che gli appoggi sono inclinati: non sarà mai possibile in condizioni teoriche (ossia in assenza di attrito e coesione tra i giun-ti) avere le imposte orizzontali, perchè la tangente della catenaria non diventa mai verticale. I meccanici dicono che l’arco è stabile se esiste almeno una catenaria tutta compresa nel terzo medio della ghiera. In realtà anche se la curva esce dal terzo medio ma rimane tutta inter-na alla sezione l’equilibrio è soddisfatto, solo che all’intradosso in chiave ed alle imposte ed all’estradosso alle reni25, si genereranno delle tensioni di trazione in grado di fessurare la struttura (collasso senza crollo). Il crollo vero e proprio si ha solo quando la catenaria è costretta ad uscire dalla sagoma dell’arco in al-meno un punto: da quel punto partirà il cinematismo di collasso a quattro o cin-que cerniere, che si estenderà istantane-amente all’intera struttura.

25. Per coloro che delle reni dell’arco non sapessero nulla se non che si trovano a 30°, ossia per la totalità degli architetti: la de-finizione di “reni” è proprio quella, ossia il punto in cui la curva delle pressioni princi-pali è più vicina alla linea di intradosso. Il che, per inciso, non avviene quasi mai pre-cisamente a 30°.

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2. Questioni Particolari_Le strutture

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Quali che siano i materiali e le tecni-che realizzative, per semplici questioni geometriche, la cupola continua ha un assetto tensionale ben definito e sempre uguale.Quella in blocchi e quella in aste differi-scono per il modo in cui le tensioni ven-gono trattate, convogliate e rese stabili, ma l’apparecchio è lo stesso: i meridiani sono tutti compressi dal peso proprio (e da quello portato se esiste) mentre i pa-ralleli sono tesi dal primo a quello che sta a circa 50° dall’asse verticale (che è neutro) e compressi da lì in su. Abbiamo già visto che tanto i materiali ad aste quanto i materiali a blocchi (S e o) sono capaci di soppor-tare gli sforzi di compressione. Quelli di trazione non rappresentano un proble-ma per le aste (casomai diventerà un problema per i giunti, quello è però un problema di ordine tecnologico), mentre per la muratura sono un vero e proprio tormento. Vediamo quattro diverse ap-parecchiature di materiale in grado di generare strutture cupoliformi.

I - La “cupola” inflessa

Una vera e propria tensostruttu-ra definibile come cupola non è pensabi-le.Se si realizzasse, avrebbe bisogno di uno scheletro metallico o ligneo di riscontro, dunque la struttura portante non sarebbe più quella tesa ma quella compressa, a cui l’altra si appoggia. Se d’altro canto

2.2.2 Quattro cupole

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2. Questioni Particolari_Le strutture

si vuole avere una struttura interamen-te tesa, la concavità sarà verso l’alto e non sarà più possibile quindi parlare di “cupola”.L’unica vera struttura “s” che può dare luogo a geometrie cupoliformi è quella inflessa, leggera in materiale tipo-giun-co. I Sidama realizzano con questa tec-nica delle straordinarie capanne a forma di cipolla, una sorta di nido rovesciato. Altrove, aggiungendo uno strato di materiale plastico resistente a com-pressione ad irrigidire e dare continuità alla struttura, si costruiscono strutture chiamate false cupole perchè sono in grado di simulare perfettamente la su-perficie curva ed intonacata di una cu-pola in muratura, con dei costi, dei pesi e delle quantità di materiale ridottissimi rispetto ai corrispettivi murari.La false cupole in canniccio come que-ste assolvono il loro compito strutturale affidando la resistenza per forma ai me-ridiani e gli sforzi di tenso-flessione ai paralleli.

II - La cupola reciproca Leonardesca e quella geodetica di Buckminster Fuller

La cupola reciproca, di origini Leonardesche, ottiene la medesima ge-ometria della precedente con un assetto strutturale inflesso ad aste, perlopiù rea-lizzate in legno o in bambù.Trasforma tutti i carichi in sforzi di fles-sione, che le travi poste in geometria chiusa si passano l’una con l’altra, attra-verso i nodi ad incastro semplice. Si trat-ta da una struttura complessa che trova il suo precedente strutturale (il giunto reciproco26) nel celebre quanto ingegno-

La capanna dei sidamo è realizza-ta interamente in bambù: struttura, manto, fondazioni, porte, pavimento e

legature

Prototipo di cupola reciproca, costruito in 5 ore

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so ponte smontabile di Leonardo, riadat-tandolo in versione tridimensionale.La realizzazione di questo tipo di strut-ture è tanto semplice quanta ne è invece complessa la progettazione. La superfi-cie sferica viene discretizzata in esago-ni e pentagoni (un po’ come avviene nei palloni da calcio) e questi a loro volta in triangoli.I triangoli non sono tutti esattamente uguali, la lunghezza dei lati deve esse-re calcolata con processi tridimensionali non semplicissimi in base alle dimensioni della cupola, al livello di discretizzazione ed al diametro degli elementi stessi.A livello tecnologico invece è tutto mol-to semplice, con giunti legati, chiodati o avvitati. Si costruisce per prima la par-te più alta, e poi si procede per cerchi concentrici. Lavorando in tensoflessione e pressoflessione, la cupola a giunti reci-proci utilizza i materiali ad aste (legno e bambù) al meglio delle loro potenzialità resistenziali. Si noti che questa struttura è massimamente sforzata nella parte su-periore, dove è dunque opportuno uti-lizzare spessori maggiori. Le strutture pesanti, murarie, hanno esattamente la caratteristica opposta. Da questa struttura (eminente-mente S) deriva la più moderna cupo-la geodetica di Buckminster-Fuller. Si tratta di un vero prodigio della mecca-nica che funziona sugli stessi principi geometrici delle strutture reciproche di Leonardo ma con le aste tutte tese o compresse, senza mai sforzi di flessione o taglio. E’ stata adottata con successo per usi in-dustriali specialistici, osservatori meteo-

Il giunto reciproco a quattro vie

Il grafico del momento flettente di una cupola reciproca

26. Altre interessanti tecnologie che si fon-dano sullo stesso principio sono: il solaio serliano e la volta piatta.

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2. Questioni Particolari_Le strutture

rologici, auditorium, magazzini; in breve tempo questo tipo di cupola batté tutti i record di superficie coperta, di volume racchiuso e di velocità di costruzione.Se le cupole in muratura più grandi del mondo non arrivano mai a cinquanta metri di diametro, Buckminster-Fuller fece una prima realizzazione geodetica attorno ai quaranta metri, e poi una se-conda dalle sorprendenti e fino ad allora impensabili dimensioni di 115 metri di diametro. Costruzione e struttura coin-cidono, rendendo quella della cupola geodetica l’immagine forse più rappre-sentativa del miglior modernismo in Ar-chitettura.

III - La cupola in muratura

La muratura non può sopporta-re trazione, così è costretta ad escogita-re un sistema per trasformarla in taglio.La formula della pseudoresistenza a tra-zione della muratura ci è data ancora una volta da A. Giuffrè:

T=nxsxfxN

dove n è il numero di corsi orizzontali di mattoni, s è lo spessore del muro, f il coefficiente d’attrito malta-blocco (de-terminabile con la prova a taglio, vedi 3.1.3 – IV).Giuffrè ci mostra nella parte inferiore dell’immagine come il celebre sistema “spinapesce” del Brunelleschi, se da una parte rendeva autoportante la cupola di Santa Maria del Fiore durante tutta la sua costruzione e dunque ha reso mate-rialmente possibile realizzare una cupola

Una cupola geodetica di Buckminster Fuller: tutta la copertura è costruita con solo 23 tipi differenti di aste. La chiesa di Padre Pio di Renzo Piano, all’incirca gli stessi metri quadri co-perti, è risolta con un sistema di archi che prevedono quasi 1500 conci tutti

diversi tra loro, tagliati al laser

Confronto nella pseudo-resistenza a trazione tra due differenti tipi di tes-

situra muraria

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di quelle incredibili dimensioni (42m di diametro all’imposta), dall’altra ne ha ri-dotto drasticamente la pseudo-resistenza a trazione lungo i paralleli. Brunelleschi sapeva di poter contare da una parte sulla sezione ad ogiva della cupola, che riduce notevolmente gli sforzi di trazione orizzontale all’imposta, e dall’altra su un possente tamburo di muratura ben tessu-ta che avrebbe assorbito le componenti orizzontali dello sforzo e portato sul si-stema di archi e dunque a terra carichi perfettamente verticali. Quindi in via definitiva la cupo-la muraria ha una resistenza per forma data da un sistema di meridiani che fun-zionano come degli archi ed uno di pa-ralleli, quelli inferiori tesi che resistono per taglio (grazie al peso della parte so-prastante) mentre quelli superiori sono degli anelli compressi.

IV - La cupola membranale o “guscio sottile”

Dalla cupola in blocchi derivano le strutture membranali o “a guscio”, che con la loro geometria a velaria elimi-nano totalmente le zone tese e lavorano in compressione pura per forma, così da richiedere spessori veramente minuscoli. Si tratta di strutture monolitiche come le capanne qui presentate27 (Chad), a se-zione di catenaria e dunque interamente compresse.In epoca moderna diventeranno merita-tamente famose quelle in ferrocemento di Pierluigi Nervi, che per primo ne capi-rà le potenzialità. Nell’immagine in bianco e nero si vedono delle abitazioni dello stesso

Una cupola in muratura costruita con un compasso semplice. Quell’asse ro-tante di legno assita ogni bloccon nel-la giusta posizione e con la corretta inclinazione. Per le prime cupole, in Mesopotamia, pare che questo stru-mento fosse sostituito semplicemente da uno spago fissato a terra nel centro della cupola e legato attorno al polso dell’operaio dall’altro capo

Capanna monolitica in terra, Chad. Gli straordinari ornamenti esterni fun-gono anche da appoggio per gli ope-rai quando gli intonaci vanno ripresi (dopo le piogge)

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2. Questioni Particolari_Le strutture

tipo parzialmente distrutte: in queste condizioni le parti rimanenti di una cu-pola muraria collasserebbero all’istante, mentre le membrane si conservano in forma (pur perdendo molta della propria resistenza) anche quando sconnesse o amputate. Gli ingegneri usano con succes-so il modello elastico con il metodo degli elementi finiti per calcolare le strutture a guscio, caratterizzate da uno spessore molto piccolo rispetto al diametro del vo-lume (meno di 1/200), mentre lo stesso metodo risulta assai impreciso nel caso delle strutture murarie a blocchi. Nel 1902, nello stesso anno in cui Hennebique brevettava il cemento armato in Francia, un ingegnere spagno-lo di nome Guastavino, il cui ingegno è ancora oggi sorprendentemente igno-rato dalla buona parte della storiogra-fia dell’architettura, registrava un altro straordinario brevetto di tecnica costrut-tiva. Come il cemento armato, anche il sistema di Guastavino poteva costruire tutti gli elementi principali degli edifici, dai pilastri alle fondazioni, dai muri alle coperture.Il costo ed i tempi di realizzazione erano assolutamente competitivi, così come la resistenza meccanica e quella al fuoco.Ciononostante la tecnica di Guastavino uscì sconfitta, ed ebbe pochissimo riscon-tro.La ragione è che si tratta di una tecnica costruttiva non standardizzabile, la cui resistenza è difficilissima da calcolare e troppo dipendente dalla qualità della mano d’opera.Si tratta di un sistema che prevede l’im-piego di pianelle in terra cotta sottilissi-

27. Giancarlo Cataldi, ottimo studioso di ti-pologie primitive di cui abbiamo già citato il lavoro, si concede una svista clamorosa per questo tipo di abitazione, che viene da lui definito come “in terra armata”, e dise-gnato in sezione con una possente armatura lignea che ne sorregge il peso. La cosa è smentita dall’immagine di capanne diroc-cate qui sopra (in cui si vede che non c’è nessun tipo di armatura nel muro), oltre che dalla chiara forma a catenaria che si rifà morfologicamente agli sforzi di compressio-ne del materiale portante chiudente, che è

soltanto terra impilata.

Un guscio monolitico in ferrocemento progettato da Pierluigi Nervi

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me (2 cm) legate con malta di gesso.Le pianelle vengono disposte su più strati (da 3 a 5) a giunti sfalsati così da gene-rare un sottile guscio elastico, general-mente utilizzato per dare luogo a volte o cupole fortemente ribassate.Pur essendo strutture in blocchi e non monolitiche, il tipo di legame tra gli ele-menti è forte, le caratteristiche del gesso e quelle della terra cotta sono molto si-mili, cosicché davvero si può considerare un guscio a blocco unico.Guastavino colse ispirazione da una tec-nica tradizionale catalana denominata boveda tabicada, quella con cui è stato realizzato l’arco nell’immagine qui sotto.

L’arco ribassato in triplo strato di pia-nelle in terra-paglia, secondo la tecni-ca della boveda tabicada

Cupola realizzata dal Professor John Ochsendorf del MIT, seguendo la tec-nologia dell’Ingegner Guastavino

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Per “impianto” si intende l’assetto distri-butivo-funzionale dell’edificio, espresso graficamente dalla sezione orizzontale, o planimetria. Esso è determinato dal tipo di struttura portante che, con i suoi orientamenti, le sue campate e le sue proporzioni, identifica la maglia struttu-rale su cui si articolerà l’edificio. Mentre i materiali si selezio-nano e le strutture si dimensionano, l’impianto si progetta (e l’organismo si modella): l’architetto ha infatti piena li-bertà di congegnare i corpi edilizi a suo piacimento, con l’unico vincolo di rima-nere all’interno dei limiti strutturali.

I - L’impianto imperniato-polare

L’impianto imperniato-polare (s) configura un organismo monocellula-re, inespandibile, definito solamente dal-la posizione del perno e dalla lunghezza del raggio.Il perno è il simbolo dell’uomo, del capo-famiglia, mentre il raggio rappresenta la piccola porzione di territorio strappata alla natura ed addomesticata per la dife-sa e la protezione della famiglia.Il terzo elemento di cui si compone que-sta tipologia (oltre al palo centrale ed il muro) è la porta. Per analogia formale e funzionale essa è la bocca dell’edificio, con le sue proporzioni e caratteristiche connota l’intero edificio.

2.3 L’impianto

2. Questioni Particolari

Tabella 9

I bassorilievi attorno all’ingresso rap-presentano le porte aperte, simbolo di

accoglienza e di ospitalità

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II - L’impianto mono- o pluri-assiale

Il passaggio dal percorso circolare o puntiforme dell’impianto precedente al percorso rettilineo tipico degli impianti assiali è qualcosa di più che una faccenda formale, è una conquista culturale.Qualcosa di simile avviene con il pas-saggio dalla considerazione del tempo in quanto aiòn (ossia tempo ricorrente, stagionale, circolare) a quella in quanto krònos (tempo che scorre, universale, rettilineo): l’idea che qualcosa possa estendersi definitamente in una direzio-ne è senz’altro più seriale di un elemen-to che torna a richiudersi su sé stesso a cerchio: da qui nasce il concetto stesso di storia, e dunque anche quello di Civiltà. Abbassare il grado di organicità dell’elemento è dunque indispensabile per alzare quello della composizione di elementi: la capanna imperniata polare è in sé più organica di quella rettangola-re, ma il fatto di passare a questa secon-da tipologia permette l’aggregazione tra elementi che in sé sono più seriali, ma riescono nel complesso a dare vita ad un individuo più organico (perchè più gerar-chizzato) di quello monocellulare.

III - Impianto a cellule combinabili

Al crescere del livello di organi-cità dell’impianto, cresce anche il livello di complessità dei percorsi.Se l’imperniato-polare ha un percor-so circolare o puntiforme, l’assiale ha percorsi rettilinei e l’impianto a cellule combinabili ha dei punti di singolarità e di snodo, gerarchizzati rispetto ai per-corsi rettilinei.

Le palafitte, per questioni tecnologi-che, sono sempre costruite con ma-teriali S (ad aste). Questo porta alla realizzazione di strutture S (a telaio) e dunque di impianti S (direzionali): non esistono testimonianze al mondo, infatti,di neppure una palafitta ad im-pianto circolare

Una chiesa del villaggio di Tore, Sud Sudan. L’abside termina organica-mente l’edificio, lo stacco tra muro e tetto provvede illuminazione all’inter-no dall’alto

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L’esempio tipico è l’incrocio tra navata principale e transetto di ogni chiesa, luo-go dove in genere una cupola in copertu-ra segnala la nodalità.Nell’immagine precedente un semplice impianto rettangolare termina con una semicirconferenza, un abside, atto ad identificare un punto speciale dello spa-zio interno (in questo caso, la collocazio-ne del tabernacolo).

IV - Impianto a cellule complementari

L’impianto è al suo massimo grado di organicità quando, con la forza delle leggi interne che ne governano la composizione, esso non permette più al-cuna variazione, sottrazione o addizione di elementi.Questo livello può tornare ad avere la forma circolare come l’imperniato-po-lare, perchè è caratterizzato dalla sua stessa unitarietà (pluricellulare anziché mono-), ma non sarà mai caratterizza-to da un pieno centrale (come il perno della prima categoria): l’Uomo non ne-cessita più di un referente simbolico come il palo centrale perchè è lo stesso edificio ad aver assunto quel carattere, è l’edificio nella sua interezza ad aver assunto un tale livello di organicità da non necessitare più di un simbolo o di un elemento particolare per rappresentare l’individuo.

Si parla propriamente di cellule “com-plementari” quandoesse non sono più in grado di essere isolate dal resto dell’organismo, né strutturalmente né

compositivamente

2. Questioni Particolari_L’impianto

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Parafrasando Hunderwassel28, possiamo identificare tre “pelli” di cui l’uomo è ri-coperto, strato dopo strato: la pelle vera e propria, la casa ed il recinto.Il recinto è l’ultima pelle, quella diretta-mente a contatto con la pelle degli altri e con le vie di comunicazione, è la deli-mitazione della proprietà e dunque della famiglia allargata (clan).La casa è una pelle più intima, più vicina al centro, rappresenta la famiglia ristret-ta (padre, madre e prole).Tra la pelle vera e propria e la seconda pelle (la casa29) è compreso lo spazio di vita del nucleo familiare. Gli elemen-ti essenziali e fondanti di questo spazio sono: 1- Il palo centrale 2- La muratura perimetrale 3- la porta 4- il focolare 5- il letto 6- il ricovero per gli animaliDegli elementi 1,2 e 3 abbiamo già par-lato. Il focolare è il vero baricentro della casa. Attorno ad esso si raduna la famiglia per mangiare o per scaldarsi, rappresenta la convivialità e la vitalità della famiglia, quasi sempre è posto in prossimità del palo centrale e con esso collabora a separare l’ambiente interno in due parti: il primo verso la porta è la zona giorno (e zona notte per i figli grandi), mentre quello più interno è la zona notte, dove dormono i genitori con i bambini più piccoli.

2.3.1 Tra la prima e la seconda pelle

28. Secondo il quale ogni uomo è dotato di cinque pelli: la pelle vera e propria, il vesti-to, la casa, il quartiere ed il mondo.29. Si noti che in lingua Amarica, “fami-glia” si dice “betesaeb”, ossia letteralmen-te “gente-di-casa”: è la casa che determina il gruppo familiare, e non viceversa.

Il focolare (in primo piano), il palo centrale ed il canniccio divisorio in-terno, il posto degli animali (a destra)

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2. Questioni Particolari_L’impianto

Non esiste ancora, in questo tipo di edili-zia, un camino vero e proprio. Il letto è una branda in pelle tesa su un telaio di legno, una tensostrut-tura, a ricordo del rifugio primordiale (2.4.2-IV) che era esso stesso un involu-cro teso, ed al suo interno ospitava solo un giaciglio. Le dimensioni in pianta del letto (due metri di lunghezza ed 1,2 o 3 metri di larghezza, a seconda del numero di per-sone per cui è fatto) sono l’elemento che dimensiona l’intera casa. Le Corbusier con la sua teoria del modu-lor, in fondo, proponeva soltanto di stan-dardizzare ed accrescere in progressio-ne geometrica le misure della casa sulla base di quelle del corpo umano, pratica che in realtà è ed era già nelle cose fin dalle architetture più antiche. Il ricovero per gli animali è la zona della casa che rappresenta la ric-chezza della famiglia.Si tratta infatti di un soppalco al di sot-to del quale trovano posto gli animali di proprietà (asini, vacche, buoi, muli, ca-pre e pecore) ed al di sopra di cui ven-gono sistemati, come in una dispensa, le granaglie durante la stagione secca. La trave portante è general-mente costituita dall’aratro (che viene usato solo nella stagione della semina, quando cioè i granai sono vuoti ed il so-laio è dunque inutilizzato), su di essa e sulla parete della capanna si appoggia-no le travi di orditura secondaria, primo progenitore del solaio ligneo, che più avanti darà luogo a case a più piani.

la zona della capanna preposta a ricovero animali: la trave orizzontale

da cui la bambina si dondola è il braccio dell'aratro

La zona della capanna preposta a ri-covero animali: la trave orizzontale da cui la bambina si dondola è il braccio

dell’aratro

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Ci occupiamo adesso della porzione di spazio compresa tra l’involucro della casa ed il recinto del terreno, lo spazio cioè di competenza della famiglia allar-gata.In questo intorno, gli elementi fissi ricor-renti sono: 1- casa 2- cucina 3- toilette 4- granaio 5- recinto

La casa è l’insieme di tutti gli elementi passati in rassegna nel precedente para-grafo; nel terreno le case rappresenta-no i singoli nuclei familiari: le famiglie musulmane sono dotate di una casa per ogni moglie, perché lei con la sua prole costituisce un’entità (soprattutto a livel-lo economico) separata dalle altre. La cucina nasce come una zona funzionale della capanna (il focolare) ma, ad un certo punto della linea evo-lutiva, si separa in un edificio a sé (una capanna più piccola di quella dove si abi-ta) o perlomeno prende autonomia dal resto della casa, spostandosi all’esterno di essa.La ragione è evidente, è la quantità di fumo che tutta la famiglia è altrimenti costretta ad inalare cucinando a fuoco aperto all’interno della casa. Chi è abituato a vivere in questo modo non fa nemmeno più caso all’aria irrespi-rabile, e per di più si separerà a malin-cuore da questa abitudine, poiché il fumo

2.3.2 Tra la seconda e la terza pelle

Casa con cucina esterna

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2. Questioni Particolari_L’impianto

andando verso l’alto annerisce la paglia ed i legni del tetto, rendendoli più imper-meabili all’acqua e agli insetti. La toilette diventa un luogo specifico e coperto all’interno del recinto solo quando la densità abitativa da rura-le si fa urbana, ed il libero espletamen-to delle proprie funzioni porta ad odori indesiderati nelle strade e soprattutto ad epidemie di malattie a trasmissione oro-fecale (colera, giardia, ameba, tifo, …). Nasce quindi per ragioni igieniche la toilette, che nella sua manifestazione più semplice non è altro che un riparo leggero costruito sopra ad una buca pro-fonda 4-5 metri. Il granaio è un archetipo di casa, un manufatto che in ogni cultura è simile o comunque in stretta relazione con la tecnologia utilizzata per l’abitare. Viene posizionato al centro del terreno, in un posto facile da controllare e da pro-teggere in caso di emergenza.Assomiglia alla casa perchè deve rispon-dere agli stessi problemi di base: con-tenere qualcosa, sollevarlo30 da terra, ripararlo dal cielo e proteggerlo late-ralmente. Il recinto è la terza pelle. E’ interessante notare che è proprio lui (2.4.2-I) ad evolversi fino a diventare casa, non è la capanna: essa si dividerà nelle due zone per diventare camera da letto da una parte e soggiorno dall’altra, la toilette invece si trasformerà in bagno quando le tecnologie permettono di aver-lo in casa senza conseguenze pericolose per l’igiene, il focolare diventerà cucina quando altre tecnologie permetteranno di avere una fiamma priva di fumo (gas, kerosene o elettricità) o con fumo con-

Granaio coperto (Aje, Etiopia)

Granaio soprelevato (Tore, Sud Sudan)

30. Il problema del sollevare nasce dalla necessità di proteggere il raccolto dalla marcescenza che si innescherebbe in assen-za di una fondazione adatta a causa dell’u-midità di risalita. In determinate condizioni di temperatura e pressione, l’umidità può anche provocare nel grano la produzione di sostanze chimiche simili nella composizio-

ne e negli effetti all’LSD.

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trollato (cappa e camino), mentre il gra-naio diventerà dispensa.In questa analogia, il recinto rappresen-ta le mura perimetrali di casa, il vero contenitore della vita privata31.Anche il recinto, come la capanna, nasce a pianta circolare (quello dei nomadi) e si trasforma in quadrato solo più tardi: lo diventa quando la demografia impone di affiancare le proprietà terriere a contat-to le une con le altre.La conseguente parcellizzazione del ter-ritorio prevede proprietà rettangolari ed assi viari rettilinei ortogonali (cardo-decumano).E’ interessante notare come questo as-setto territoriale possa generare, a se-conda della volontà sociale, un sistema di scatole chiuse e non comunicanti oppure un organismo equilibrato ed ordinato.Leon Krier mostra graficamente le con-seguenze di questi due diversi modi di agire, definendo il primo “antiurbano” (o -potremmo correggere noi- “di deri-vazione rurale”) ed il secondo “urbano”.Nel primo caso il proprietario vuole do-minare il suo terreno, dunque costruisce al centro, in una logica di sicurezza e difesa. Le espansioni della casa saranno attorno al nucleo originario (fase due) e le limitazioni tra i terreni saranno solo simboliche (fase tre).Nel secondo caso invece il proprietario costruisce sul perimetro, in una logica di aggregazione e crescita. Le espansioni continuano a seguire il perimetro, dun-que si creano degli spazi privati interni con delle limitazioni fisiche, costituite da corpi costruiti. Krier usa questo schema per in-segnare all’architetto cosa deve e cosa

31. Nei contesti rurali, quando si visita qualcuno, è cortesia fermarsi e segnalare la propria presenza quando si è alla soglia del recinto, non a quella di casa. Suonerebbe ironico qualcuno che chiedesse “permesso” alla porta di casa: sarebbe come entrare senza invito in una casa italiana e fermarsi a bussare solo alla porta del salotto.

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2. Questioni Particolari_L’impianto

non deve fare.Qui ci è utile invece per la pura lettura, con l’intento di capire le diverse presta-zioni dei due differenti assetti e le dif-ferenti ragioni che portano la gente di campagna a preferire il primo e quella di città ad adottare il secondo.Il fatto (cui si riferisce Krier) che esi-stano molti architetti moderni che scel-gono l’assetto anti-urbano per presa di posizione culturale (poiché l’architettura è un monumento e non deve essere ag-gregabile con la comune edilizia) è cosa che consideriamo assolutamente folle, ma rappresenta un egocentrismo speri-mentale che non si può in alcun modo chiamare “architettura”, e dunque non deve entrare in questo discorso.

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Vinicio Capossela sostiene che “a volte si fa un torto a una musica, a volerla legare troppo ad un autore, ad un epoca o ad un luogo particolare”. Qualcuno crede che le migliori opere d’arte siano quelle che meglio in-carnano lo spirito di un’epoca. Ma l’intera produzione artistica storica (si pensi a quella musicale quanto a quella architettonica) sta lì a dimostrare esattamente il contrario, ossia che le migliori opere sono quelle che, grazie all’abilità dell’ide-atore, parlano una lingua universale comprensibile ed apprezzabile da chiunque, in qualunque tempo e luogo.I più grandi tesori del passato, dal Partenone al Borobudur, sono in grado di parlare ancora oggi a tutti proprio per i loro caratteri intrinseci di giustezza, proporzione ed armonia, dunque di universalità. Quando gli americani si sono dati il pensiero di mandare nello spazio una capsula per presentare il genere umano a chiunque nell’universo dovesse prima o poi rinvenirla, per prima cosa ci hanno inciso su la Quinta Sinfonia di Beethoven.Non si può fare a meno di rilevare che l’idea è assolutamente idiota, considerate le possibilità esistenti che un qualunque extraterrestre di passaggio -ammesso che esista- noti la capsula tra l’infinità di detriti spaziali che ci sono nell’univer-so; cionondimeno è intimamente corretta l’idea che la proporzione, l’armonia, la bellezza della classicità, la concimnitas o comunque la si chiami, sia quanto di più universale ed assoluto si possa immaginare.Al di là della singola sinfonia o del singolo tempio greco, esiste questo linguaggio universale legato fondamentalmente alla natura e alla realtà, alla proporzione e all’ingegno, che tutti sono in grado di comprendere istintivamente. Qualche volta gli architetti si dimenticano che gli edifici sono chiamati a parlare un linguaggio comune che sia espressione della comunità, che la rappre-senti ed in cui essa si riconosca.Con il moderno sistema dei concorsi internazionali, gli architetti sono perlopiù chiamati a progettare e costruire in luoghi che non conoscono per nulla, di cui non sanno niente: risorse, materiali, problemi, modo di vivere locale, peculiarità. Non hanno modo di parlare con la gente o tempo per le indagini preliminari, e alla maggior parte di essi questo non dispiace per nulla: loro hanno un proprio linguaggio, che la gente non capisce perchè è arretrata e troglodita. Non voglio-no discutere del significato delle forme e dei corpi edilizi in progetto perchè i loro significati sono altrove, non nella costruzione stessa. Esprimono questo modo insensato ed autoreferenziale di progettare con un vocabolario tutto loro, in cui un elemento “fa un gioco” con un altro, un

2.4 L’organismo

2. Questioni Particolari

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32. “Modernetto” è da intendersi con riferimento all’accezione che ne dà il mio maestro Stefano Fera, il qua-le lo pone in relazione al Movimento Moderno della prima metà del 1900 esattamente come il Barocchetto si colloca rispetto al Barocco originale: un’esasperazione dei caratteri formali nella totale perdita di quelli sostan-

ziali e fondanti.

volume “lavora” in un certo senso, senza che queste parole siano mai legate ad una realtà costruttiva o realmente pro-gettuale, sono semplicemente tentativi pseudo-intellettuali di giustificare un di-segno che essi già avevano deciso a prio-ri perchè semplicemente gli piaceva più degli altri. Gli edifici creati in questa ma-niera, da quelli che a buon diritto pos-siamo chiamare architetti modernetti32, non parlano la stessa lingua della gente normale, e rimangono degli equivoci nel tessuto urbano.Leon Krier, teorico dell’architettura noto, oltre che per l’umorismo inglese, per saper sintetizzare qualunque pensie-ro in maniera ineccepibile con la sua arte grafica, elabora lo schema qui riportato. Gli oggetti della prima colonna sono correttamente denominati “di lun-ga vita”, non perchè abbiano qualità ma-teriali migliori rispetto agli altri ma per-chè, corrispondendo l’immagine alla loro reale essenza, tutti saranno pronti ad accettarne istintivamente la presenza, a quell’oggetto sapranno dare un nome, la città lo “metabolizzerà” volentieri. Una colonna è un elemen-to verticale sottoposto a compressione semplice. Questo significa che la sezione sommitale è incaricata di portare il solo peso sovrastante (l’architrave) mentre quella di base, oltre ad esso, porta il peso della colonna stessa, è ciò spiega l’enta-si.Le due estremità, base e cima, sono sog-gette a carichi non perfettamente distri-buiti nella sezione e dunque superiori, e di qui nascono il basamento ed il ca-pitello. In entrambi i punti sarà sempre

2. Questioni Particolari_L’organismo

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necessario recuperare qualche piccola imprecisione, e questo spiega come mai è bene che sia il basamento che il capitello siano composti di diverse stratificazioni (modanature). Non serve altro per capire l’essenza di un oggetto così splendi-damente nominabile, è lì per portare, soprelevare, sollevare, ed è tutto chiaro, evidente nella forma organica e nella logica gerarchica di aggregazione dei suoi elementi costituenti.Gli oggetti di questo tipo sono il vocabolario dell’architetto che intenda parlare il linguaggio della gente, e che non voglia abusare del potere che gli proviene dalla propria delega sociale, sostituendo una sua personale allucinazione individuale alla visione comune e condivisa della realtà. Esiste una discreta bibliografia a proposito di questo genere di lettura degli elementi edilizi, ma qui concentreremo tutta l’attenzione su un’unica paro-la del vocabolario progettuale: la parola “casa”. O, come la chiameremo via via, riparo, capanna, pseudo-casa e, soltanto alla fine, casa. Nel paragrafo seguente, il vero cuore di questa trattazione, affrontere-mo una plausibile ricostruzione del processo tipologico che ha portato alla de-terminazione di tutti gli elementi caratteristici con cui intendiamo normalmente il concetto di casa.Quando parlo di “plausibile ricostruzione” intendo dire che la presentazione è un crescente livello di complessità nei quattro livelli dell’Architettura, una tipo-logia non strettamente connessa ad una crono-logia degli eventi.Affronteremo la questione dal punto di vista dell’oggetto, cioè della casa, senza tenere minimamente in considerazione fattori importantissimi come il contesto climatico, sociale, ambientale, le richieste di prestazione, e tutto quanto nella realtà contribuisce largamente alla determinazione della tipologia abitativa. Lo faremo per ricostruire in purezza la storia della casa dal suo punto di vista, come la racconterebbe lei. La quasi totalità delle fotografie inserite sono state scattate in villaggi rurali dell’Etiopia, dove perlopiù ognuno si costruisce casa con le proprie risorse, non esistono progettisti o architetti, e la mano dei costruttori di questi splendidi edifici perlopiù non è guidata da una serie di ragionamenti e scelte: essi sanno come si fa una casa, e cercano di farla meglio possibile. Non sanno se stanno facendo una capanna a doppia calotta o un riparo imperniato polare, stanno semplicemente facendo una casa, come un uccello si fa il nido.

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Dal I al XXIV, è presentato per gradi crescenti di complessità il processo di evoluzione tipologica che porta a ciò che oggi chiamiamo casa.Nei prospetti affianco alle immagini principali sono evidenziate le conquiste fondamentali ai quattro livelli dell’Archi-tettura ed a livello generale.

2.4.2 La casa di Adamo

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La Cacciata dal Paradiso di Natoire Charles Joseph

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33. Un moderno contratto di affitto di un terreno stipulato in Etiopia recita: “il ter-reno ha per confine a est la fila di agavi di fronte alla porta di casa; a sud la linea che parte dall’ultimo agave ed arriva alla radice del sicomoro tagliato e, da lì, drit-to fino al dosso con l’incisione “ABC”. Ad ovest il confine è cinque metri prima della linea stradale, e a nord è all’altezza delle tre agavi allineate, in modo tale che l’an-golo di nordovest coincida con l’unico aloe dei paraggi”.

I- Il confine territoriale (albero,masso, fiume)

Il primo segno antropico sul territorio con un significato di presenza (proprietà), e quindi in qualche modo an-tesignano della casa, è il confine: un se-gno che marca un “di qua” e un “di là”, “fino a qui è mio, da lì in poi è tuo”, che si tratti di pascolo o di campo coltivato.Si tratta di una divisione sostanzialmen-te simbolica, nel senso che non impedisce il passaggio né scherma la vista. Alcune volte è addirittura costituito solo da una linea ideale che congiunge alcuni punti concordati (un grande masso, un albero, una sorgente)33.Si tratta dell’oggetto a più alto livello di serialità a cui si possa pensare: elemen-ti legati tra loro da un approssimativo allineamento e da null’altro, essi sono tutti diversi ma non perchè assolvano a compiti particolari gerarchizzati, sono al contrario tutti equivalenti ed intercam-biabili senza alcun risentimento da parte dell’insieme.

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II- Il recinto per animali

Un gradino più in su della linea di confine si trova lo steccato.Più fitto ed organizzato del precedente, con connessioni interne tra gli elementi (stecche) più strutturate: non solo per la presenza di correnti orizzontali che uni-scono i puntoni, ma soprattutto perchè questi ultimi sono legati da una legge di uguaglianza (materiale e geometrica) ed equidistanza. Serve per delimitare uno spazio più piccolo: non più un campo o un pascolo, ma generalmente una zona di orto oppure recinto per animali. Marca un “di dentro” e un “di fuori”, ed in ge-nere impedisce l’accesso, che viene così limitato ad un ingresso, una porta.I materiali sono tensoinflessi (s), la strut-tura è a telaio (S), mentre non c’è classi-ficazione per impianto ed organismo che, coincidendo con il semplice terreno, non si sono ancora determinati. Osservando un ingresso del re-cinto, si nota meglio il legame costitutivo tra gli elementi verticali e quelli oriz-zontali: mentre i primi costituiscono il radicamento al suolo, i secondi servono da connessione interna, tanto è vero che nella porta (che deve muoversi e quindi ha più bisogno di connessione che di ra-dicamento) si diradano i primi e si infitti-scono i secondi.

Nel cancello gli elementi oriz-zontali e verticali si invertono

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III- Il granaio

Stringendo ancora il cerchio, disponendo gli elementi adiacenti l’uno con l’altro ma mantenendo inalterata la struttura, si ottiene il granaio.E’ realizzato con le stoppie di granoturco come i precedenti, ma il contatto tra gli elementi ha trasformato la struttura (che nella staccionata è per punti) a qualco-sa di simile ad una superficie continua, chiudente. Nella stagione delle piogge il grano sta nei campi, i granai servono solo nella stagione secca quindi non è strettamente necessaria una copertura. E’ invece richiesto un rialzo da terra per-chè le granaglie non marciscano a con-tatto con l’umidità del suolo, e anche per cercare di rendere la vita almeno un po’ difficile ai roditori.

Un granaio più elaborato, foto-grafato in Mali

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IV- Il riparo delle partorienti Jinka

Le donne della tribù dei Jinka partoriscono tradizionalmente in solitu-dine, senza nessun aiuto. Per farlo cer-cano il posto giusto (solitamente nelle immediate vicinanze di un fiume) e vi si costruiscono un riparo dove passano gli ultimi giorni di gravidanza. Rimangono lì, nessuno sa come facciano, non rivela-no i loro segreti, appresi dalle loro madri, a nessuna donna che non appartenga a quella etnia. La tipologia di questo ripa-ro è rimasta immutata da chissà quanto tempo, con solo pochissime modifiche (la stuoia o il telo di plastica in sostituzione della pelle di animale è un cambiamen-to di materiale che non porta sostanziali differenze tipologiche).La struttura portante (riscontri della tensostruttura) è realizzata con giun-chi flessibili annodati ortogonalmente come nella staccionata o nel granaio, con la differenza che il piano d’orditura è orizzontale anziché verticale e conca-vo verso il basso. La stuoia copre questa rete resistente per forma, e la protegge dalle intemperie. E’ la prima struttura che incontriamo dotata di copertura, e che dunque definisce l’esistenza di un interno ed un esterno. I giunchi sono incrociati ortogonalmente formando quindi due ordini di paralleli senza che vi sia alcun meridiano, e questo fa si che lo spazio interno sia indifferenziato ed uniforme: questa struttura non ha alcun polo centrale, il centro è un punto come tutti gli altri.

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V- L’albero vivo

Il riparo di cui al punto prece-dente può servire per una partoriente o per determinate attività specialistiche, ma non si presta per qualità dello spazio ad un uso propriamente abitativo. A questo punto della storia, per-chè la casa possa prendere la posizione eretta lasciando all’interno uno spazio sufficiente per stare in piedi, entra in gioco l’unico referente naturale che ab-bia senso chiamare in causa quando si tratta di crescere verticalmente: l’albe-ro.L’albero è sostanzialmente un elemento verticale piantato nel suolo alto a suffi-cienza per ospitare un uomo in piedi e dunque interessante per la soluzione di questo problema.Degli steccati disposti con più o meno cura ad una certa distanza dall’albero possono ricreare la divisione interno-esterno del riparo precedente, e l’albero funge insomma da colonna vertebrale della casa, sorreggendone lo slancio ver-ticale che la flessostruttura da sola non era in grado di creare.

Affastellamento di legni sul tronco

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VI- La capanna monofase dei Wolayta

Come abbiamo detto nel primo capitolo, le quattro classi di materiali re-lative alla scansione sSoO sono: giunco, asta, blocco e calcestruzzo. Fino ad ora tutti i rifugi presentati erano in materia-le tipo-giunco, ossia prevalentemente in-flessi. Ora entra invece in gioco il primo elemento tipo-asta: il palo centrale. Si tratta di una notizia talmente importante da rendere necessario un cambio di ter-minologia per il riparo che da ora in poi si chiamerà capanna. Il palo centrale è ad un tempo memoria dell’albero, come testimoniato dalle versioni di capanna con tanto di ramificazione a mezza altez-za, e rappresentazione del capofamiglia, l’individuo che regge la casa (dunque la famiglia) e vigila sul campo di proprietà circostante, e cioè sui propri beni. L’analogia tra il palo centrale-simbolo fallico ed il capofamiglia è chiara ed ine-quivocabile, e le conseguenze a livello architettonico sono straordinarie: • la pianta si fa perfettamente circolare perché il palo sia baricentrico rispetto alla strutturazione e prenda più forza perché diventato asse di simmetria ra-diale.• tutti gli elementi di classe di organici-tà inferiore (i giunchi che costituiscono la parete circolare) si inflettono verso di lui e sembrano chinarsi in venerazione al cospetto dell’asta rigida S, assumendo rispetto ad essa un ruolo minore s• l’orditura secondaria assume andamen-to ad anelli concentrici, quasi si trattasse di riverberi del palo .Questa tipologia porta la voce

“astrazione” per l’albero artifi-ciale che sostituisce quello natu-rale del tipo precedente

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VII- Verso una capanna bifase

Conquistato l’impianto imper-niato polare, diventa urgente risolvere una questione che riguarda l’ultimo dei quattro livelli dell’Architettura, l’organi-smo nella sua interezza: il problema del recinto (chiudere) e quello del rifugio della partoriente (coprire) sono distinti tra loro e devono essere trattati in due maniere differenti. Lateralmente lo spazio abitativo ha biso-gno di essere protetto dagli sguardi indi-screti, dagli animali selvatici, dal vento e dai malintenzionati.Superiormente invece necessita di una protezione dal sole e dalla pioggia, e tan-to basta per poter dire che i due proble-mi necessitano di soluzioni differenziate.In questa fase le due componenti di muro e tetto stanno per separarsi, ma non sono ancora del tutto convinte. La paglia è usata come manto per entrambe le fasi, ma il trattamento superficiale è differente. I legni della copertura sono rigidi ma “costretti” a flettere cambian-do inclinazione goffamente da dei rac-cordi in giunco legato.Il profilo è cuspidato per conferire mag-gior resistenza per forma.

La capanna in costruzione, si no-tino i connettori tra muro e tetto che cercano di raccordare le due superfici

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VIII- La capanna bifase (o “a doppia calotta”)

Ecco qui la scansione muro-tet-to giunta a maturazione. Il muro verrà intonacato con terra (per chiudere ogni spiraglio e renderlo resistente) mentre la copertura sarà coperta di paglia (per traspirare e renderla impermeabile alla pioggia). La forma del prospetto rimane a curvatura cuspidata perché alcuni dei legni di orditura radiale del tetto partono dall’imposta ed arrivano in sommità, ma altri partono direttamente da terra (vedi immagine in basso) cosicché muro e tet-to sono in realtà due calotte sovrapposte una dentro all’altra, trattate poi in ma-niera diversa in quanto a tamponamento. La parte laterale (fino a 2 metri da ter-ra) è anche irrigidita da legni verticali aggiunti a quelli della calotta.

La fase di elevazione (muro) in costruzione: si notano le con-giunzioni già presenti per la copertura

astrarre

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IX- La capanna cilindro-conica matura

Lasciando a sedimentare la conformazione del punto precedente, si trova presto che muro e tetto sono chia-mati ad un diverso tipo di lavoro statico: mentre il muro è pesante, compresso, portante-chiudente, verticale, il tetto è leggero, inflesso, con struttura portante non chiudente, inclinato. Questo merita un ripensamento in termini di materia-li, che si devono differenziare ed essere opaco-plastici nella parte muraria (in questo caso sono blocchi di terra cruda) e trasparente-coloristici in copertura (in questo caso legno). Liberare le pareti da quel re-siduo di flessione che era rimasta nella capanna a doppia calotta significa poter (e dover) insistere maggiormente sul-la loro verticalità e nello stesso tempo poter “raddrizzare” il profilo della co-pertura che, non più cuspidata, può ora essere conica: gli elementi radiali sono tutti saltati di classe, da tipo-giunco (s) a tipo-asta (S). Questo passaggio porta con sé il concetto di elemento standardizzato: così come il blocco è il modulo del muro, il legno (determinato in rettilineità, lun-ghezza e diametro) lo diventa della co-pertura.

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X- La capanna trifase pesante

Con l’aggiunta della zona basa-mentale, le fasi della capanna diventano ora tre: basamento, elevazione muraria e copertura. Base, fusto e capitello. Ar-chitrave, fregio e cornice. Dorico, Ionico e Corinzio. Inizio, svolgimento e fine. La necessità viene dal fatto che la muratura pesante, portante chiudente, a blocchi, che si era determinata nella capanna cilindro-conica, non si può impu-nemente appoggiare a terra come fosse una staccionata lignea, ma ha bisogno di un attacco a terra. Un piede largo che porta tutti gli sforzi della muratura a terra, evitando cedimenti differenziati e movimenti locali.Dotare la capanna di fondazioni è senz’altro un passo notevole verso la vita stanziale (si dice “mettere le radici”), verso un tipo di architettura di carattere permanente che sta prendendo le distan-ze dalla “capanna” e si avvicina già al concetto maturo di “casa”. Si noti che a destra e a sinistra dell’ingresso lo zoccolo di fondazione di-venta occasione per ospitare due sedute, i cui schienali sono simbolicamente mo-dellati a bassorilievo sulla parete. Subito sopra, altri ornamenti circolari circonda-no piccoli ritagli di specchio.

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XI- La pseudo-casa a pianta quadrata

Con la pianta che da circolare si fa quadrata, si assiste ad una prima ge-rarchizzazione degli elementi murari.Dal quadrato nasce lo spigolo e dunque l’ammorsamento a “L” dei blocchi, nasce l’angolo retto quindi la divisione degli ambienti.Nasce anche la cellula edilizia, che ora può avere qualche carattere di riferimen-to. Per esempio per la capanna tonda, la porta è semplicemente una zona di di-scontinuità del muro, non può avere una collocazione precisa perchè il perimetro è indifferenziato ed uniforme. Nella ca-panna quadrata invece la porta può stare al centro o da un lato, lasciare un certo margine o andare a ridosso della parete perpendicolare.Queste piccole cose non sono indifferenti ai fini del risultato nello spazio abitativo interno, e gettano già il seme per divi-sioni degli spazi interni molto più strut-turate.La pianta quadrata origina automatica-mente un fronte, un retro e due fianchi. Il vano unico di questo tipo di capanna tende ad avere una dimensione sempre (intendo dire ovunque nel mondo) vici-nissima ai 3x3. Le variazioni possono essere solo di poche decine di centime-tri, poiché questo è lo spazio esatto ne-cessario per poter dormire in molti (uno a fianco all’altro) ed avere ai piedi an-cora lo spazio sufficiente per passare. Il quadrato 3x3 è uno spazio primordiale ed universale, un mattone che sta alla base di tutto quello che segue in termi-ni di complessità. La misura successiva è il raddoppio 6x6, che consente oltre a

Assetto interno di una capanna 6x6 ottenuta per raddoppio

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dormire anche di svolgere all’interno le altre attività specialistiche. Ancora oggi l’edilizia corrente europea ed americana adotta in genere la soluzione standard del telaio iperstatico in acciaio, cemento armato o legno con campate 6x6, misu-ra ereditata da questa tappa evolutiva. Si noti tuttavia che la copertura non ha ancora assimilato la novità dell’assetto, e si ripropone uguale a quella della capanna a pianta circolare, solo adagiata a forza su un profilo differente.Possiamo immaginare che in questa situazione i paralleli orizzontali in giunco di orditura secondaria saranno particolarmente inflessi in corrispondenza delle dia-gonali del quadrato, dove sono forzati dall’angolo ad un raggio di curvatura molto stretto, e lì tenderanno a spezzarsi. Quattro travi principali che collegano gli spi-goli del quadrato di imposta al colmo saranno di conseguenza sottoposti ad uno sforzo maggiore di tutti gli altri, e quindi tenderanno a spezzarsi per inflessione.I due problemi strutturali verranno risolti nel prossimo esemplare in maniera opposta, come vedremo: nel problema dell’orditura secondaria gli anelli che tendono a spezzarsi nei quattro angoli verranno effettivamente divisi in quattro elementi rettilinei, assecondando così la volontà degli elementi a rompersi. Il problema delle diagonali nella struttura primaria verrà invece risolto con l’ir-robustimento dei quattro elementi deboli, che verranno chiamati diagonali di falda e daranno luogo ad una copertura più gerarchizzata, quindi più organica. Questo tipo presenta quattro caratteri innovativi, che elenchiamo:• aggregabilità: la pianta a lati rettilinei porta con sè la possibilità di affiancare a contatto due corpi edilizi• fronte strada: da questo momento in poi, la casa è rappresentata da un fronte, posto in gerarchia rispetto agli altri tre lati (si osservi 2.3.2-XIII: la facciata principale è l’unica ad essere intonacata)• cantonale: da quando nasce la pianta quadrata nasce anche il problema di am-morsare due murature tra loro perpendicolari, e dunque il problema dell’angolo• pilastro angolare: se la muratura non è realizzata in blocchi ma in palificata li-gnea, l’angolo non è risolto con il cantonale ma con l’uso di un pilastro più impor-tante degli altri (più grosso e di legno di qualità migliore), il pilastro d’angolo.

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XII- Dal polare all’ortogonale

Il progressivo passaggio da im-pianto imperniato-polare ad impianto or-togonale si apprezza osservando la gia-citura delle due orditure in copertura: si noti come, per la prima volta, i meridiani sono gerarchizzati (non tutti della stessa dimensione).Le sue implicazioni vanno però molto ol-tre alle sorti di questo singolo elemento dell’organismo edilizio, coinvolgendo la sostanza stessa dell’idea di casa.La fine di un tipo (capanna) e la nascita di un altro (casa) è decretata da un pas-so evolutivo dalle implicazioni talmente stravolgenti da mettere in discussione la definizione stessa del tipo.Il palo centrale fino a questo momento è stato l’unico possibile riferimento, defi-nendo un sistema geometrico incentrato sull’Uomo, un sistema polare che da una parte dava ordine e misura, ma dall’al-tro impediva un qualunque operazione di ingrandimento, rifusione, unione, du-plicazione, espansione del corpo edilizio. La capanna è un individuo architettonico talmente definito da non ammettere nes-suna operazione aggregativo-compositi-va.Se lo spazio non basta più, non si ha altro da fare che costruire un’altra capanna vi-cino alla prima. Neanche troppo vicina, di modo che dai tetti non si scarichino l’acqua piovana sui muri a vicenda. Passare da un sistema polare ad uno ortogonale si-gnifica passare dal soggettivo all’ogget-tivo, da un sistema chiuso ad uno aper-to, dall’individuo concluso in sé a quello aggregabile con altri. Il cerchio per sua

Questa capanna cerca di “allargarsi”, ma non ha modo per farlo se non il

raddoppio

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natura geometrica non è aggregabile mentre il quadrato lo è. Questa tipologia mostra un assetto più versatile, non è un universo chiuso come l’imperniato-pola-re.

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XIII- La casa monocellulare ad impianto aperto

Nel passaggio (in copertura) da impianto polare ad ortogonale con diagonali di falda, si è sostanzialmente scaricato il palo centrale da tutte le sue diverse valenze: non è più un perno a cui fissare i giunchi della parete, non è più un polo da cui si emanano a cerchio le orditure secondarie della copertura, ri-mane solo un artificio statico per evitare che le falde scarichino forze inclinate sui muri, abbattendoli verso l’esterno.Avendo dunque perso il suo carattere simbolico e di riferimento, presto si tro-va un’altra soluzione strutturale che eviti la necessità di un albero di tali dimen-sioni tagliato per costruire ogni casa. La prima soluzione è una pseudocapriata, una trave composta a forma di “A”, che consiste esattamente nella divisione in due per il lungo del palo centrale ed al suo “salto” in copertura, che libera così lo spazio centrale a terra. Questa prima soluzione si evolverà in altre più raffina-te come capriate, reticolari e travi com-poste.

Le travi di falda stanno cam-biando disposizione da polare a cartesiano, e si trovano in un as-setto intermedio: si noti infatti che non sono né perfettamente radiali né ortogonali

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XIV- Aggregazione ripetitiva irrisolta

Da quando la pianta si è fatta quadrata, la capanna è formalmente pronta per aggregarsi in tessuti pluri-cellulari, ma rimane ancora un problema di carattere tecnologico: se si affiancano tante cellule una adiacente all’altra, si crea una convergenza delle falde di co-pertura a contatto che prende il nome di compluvio.Nella costruzione moderna si ovvia a questo problema con pendenze minime, canali di scolo, scossaline, guaine bi-tuminose o altri espedienti tecnici. Nel nostro discorso però dobbiamo riferirci ad un grado di tecnologia commisurato all’oggetto in discussione, e a questo li-vello l’impluvio rappresenta un problema semplicemente irrisolvibile: l’acqua pio-vana proveniente dalle due falde del lato a contatto andrà per forza ad inondare l’una o l’altra cellula.Questo significa che la semplice aggre-gazione “Ctrl C – Ctrl V” reiterata del-le cellule quadrate non funziona se non come espediente compositivo, come nel ristorante presentato in questa immagi-ne.

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XV- La casa pluricellulare (rifusione a falda unica)

L’espediente che permette ve-ramente di affiancare cellule edilizie è la rifusione dell’edificio sotto una sola copertura a falda unica.E’ importante riuscire a risolvere il pro-blema dell’aggregazione non solo per poter avere abitazioni composte di più vani, ma anche perchè si risparmia una notevole quantità di materiale, lavoro e risorse economiche in questo modo: i muri infatti “contano doppio”, costruire dieci case 3x3 separate impiega quasi il doppio di materiale strutturale rispetto a farne una unica di dimensioni 30x3 divi-sa in dieci stanze.In quest’ottica di economia ante litte-ram, nasce concettualmente la casa a schiera.Da questo momento in poi le case avran-no a disposizione un’altra forma rispetto alle due fino ad ora riscontrate (cerchio e quadrato), il rettangolo; e così pure nasce il concetto di organismo edilizio pluricellulare, anche se le cellule sono ancora legate tra loro nel modo più pri-mitivo che esiste, ossia per ripetizione rettilinea indeterminata, un po’ come il recinto per animali al punto II. Notiamo pure che, nel momento in cui si costruisce non più al centro del lotto ma da un lato, questo è il primo edi-ficio in grado di originare, dal punto di vista urbano, una strada vera e propria.

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XVI- La cellula rettangolare

In questo passaggio, la novità avvenuta al punto precedente salta di categoria, dal tutto alla parte, dall’orga-nismo all’organo: la forma ret-tangolare diventa prerogativa

anche della singola cellula, e non solo dell’edificio formato di cellule quadrate affiancate.Si conquista così un grado di autonomia molto maggiore nella com-posizione dell’impianto, che da semplice ripetizione di quadrati può diventare or-ganizzazione di spazi tra loro gerarchiz-zati, dando origine a tipologie come la casa a corte, la villa o, dal punto di vista urbano, la piazza.Queste manifestazioni sono più organiche di quelle riscontra-te al punto precedente: la casa a corte è la rappresentazione di una famiglia cresciuta, poiché è così che funzionava; il padre aveva un terreno su cui aveva costruito una casa rettangolare, i figli al momento di prendere moglie costruiva-no la casa per sé adiacente a quella del padre, e poi ancora, girando poi l’angolo per formare un corpo a C ed avere così uno spazio comune semiprivato al cen-tro (la corte, appunto), che rappresenta l’unitarietà della “famiglia allargata”, pur nell’indipendenza delle singole cel-lule abitative.Anche le gerarchie tra le abitazioni formalmente rappresentano il gruppo familiare in quanto difficilmente i figli si azzarderanno, per rispetto, a co-struire per sé una casa più alta di quella del padre. E così il profilo stesso della casa, con successive aggiunte, sopreleva-zioni, demolizioni e rifusioni, descrive le persone, le famiglie e le loro sorti. Or-ganico, appunto. Così pure la piazza, un comitato di case sedute in riunio-ne attorno a qualcosa (un mercato, un pozzo, un simbolo), è organico rispetto alla relativa serialità di una via.

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XVII- Il corpo doppio con fronte speculare

Le singole cellule a falda unica possono essere ripe-tute per affiancamento seriale, come al 2.4.2-XV, se vengono tra loro giuntate lungo i fianchi, ma cosa può succedere ad unirle con altri criteri e su altri assi? Specchiando in orizzontale la cellula a falda unica ed usando come asse il muro di altezza maggiore, otteniamo quella che

-ironia della sorte- viene comunemente chiamata “copertura a capanna”. Due falde giunte al colmo e spioventi verso l’esterno dell’edificio, la forma di casa che disegnano tutti i bambini, quasi un’i-dea a priori di casa.In realtà, nonostante la copertura sia già quella, manca ancora un passo per arrivare davvero alla casa come quella dell’immaginario infantile, in cui la por-ta di ingresso è immancabilmente al cen-tro, a memoria della bocca di un uomo. Non è per il momento possibile occupare il centro con un vuoto, e questo si vede chiaramente dall’immagine in cui l’edifi-cio simmetrico per eccellenza, la chiesa, ha la porta fuori asse. Deve essere così e non può essere altrimenti, non fino a quando verrà risolto il problema del pila-stro di spina. L’edificio è infatti formal-mente unico, ma ricorda ancora molto bene di essere composto di due parti au-tonome ed unite al centro. Si legge facil-mente dalle due bucature (posizionate in riferimento alla metà di appartenenza, e non all’intero) ed infatti i pilastri princi-pali che nel corpo singolo si trovavano si-gnificativamente solo nei quattro angoli, ora invece sono presenti anche sull’asse di simmetria, rendendone impraticabile lo svuotamento: i carichi verticali prove-nienti dal colmo dalla copertura devono essere scaricati a terra, questo è quanto, la porta va spostata dal centro. Edifici di questo genere, anche se a rigori secondo la geometria euclidea andrebbero chia-mati simmetrici, vengono definiti in un altro modo: il termine “simmetrico” si riserva agli edifici con il vuoto al centro, mentre se l’asse centrale è tutto pieno, l’edificio si dice “speculare”.

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XVIII- Corpo unificato con fronte simmetrico

Eccola, finalmente, la casa del disegno di tutti i bambini.L’edificio ha raggiunto la sua quadripar-tizione matura, composta di fondazione, elevazione, unificazione e copertura.Il nuovo elemento si trova alla quota di imposta del tetto, chiude strutturalmen-te il sistema triangolare di copertura e scarica perciò l’asse centrale dell’e-levazione da qualunque responsabilità strutturale, la porta può dunque essere collocata al centro e l’edificio diventa simmetrico propriamente detto.A questo punto anche le altre bucature si dispongono in modo regolare a rafforza-re il significato dell’asse di simmetria, e nasce la tipologia della casa a corridoio centrale (corpo triplo), nonché qualun-que altro tipo di organizzazione planime-trica con un numero a piacere di campa-te strutturali e distributive.Questa quadripartizione, nell’ordine classico, diventerà: basamento, elevazio-ne (muri e colonne), architrave e timpa-no.

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XIX- Casa con copertura a padiglione

Se prendessimo una casa a pianta quadrata imperniata-polare (2.4.2-XIII) e la tagliassimo in due ver-ticalmente lungo l’asse di simmetria, do-podichè sistemassimo le metà alle due estremità di una casa con copertura a capanna (2.4.2-XVIII), otterremmo concettualmente la casa con copertura a padiglione.La copertura a capanna è seriale perchè ammette sempre l’aggiunta di una nuo-va cellula a doppio spiovente, che può essere affiancata a quelle già esistenti. Inserire le due falde laterali girate or-togonalmente rispetto alle prime ha in sostanza due effetti: a livello tipologi-co fa diventare l’impianto più organico perchè più individuato, senza più possibi-lità di aggiungere o togliere campate; a livello morfologico invece nel prospetto scompaiono i timpani, tutta l’imposta dei tetti va a combaciare sulla stessa quota: questo assegna ancora maggior importanza alla zona di unificazione ed aumenta la percezione dell’edificio come di un’entità unica ed indivisibile.

I due tipi che, fusi tra loro, origi-nano il tetto a padiglione

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XX- Aggregazione verticale: piano +1

Tutte le aggregazioni di cellule che abbiamo visto fino ad ora riguarda-vano moltiplicazioni o rifusioni in oriz-zontale, mentre a questo punto dell’e-voluzione siamo in grado di compiere un raddoppio in verticale. Se l’affianca-mento orizzontale (giunti verticali) per sua natura è seriale, la stratificazione verticale (a giunti orizzontali) è una ma-nifestazione organica, che dunque preve-de una gerarchizzazione tra gli elementi.Questa regola è impossibile da dimenti-care perchè custodita da un “vigile” as-solutamente incorruttibile, che si chiama gravità. Il vigile impone che il leggero vada messo sul pesante e mai viceversa, che piani successivi debbano presentare un alleggerimento nel progredire in al-tezza e che i materiali più resistenti sia-no messi in basso34. La casa rappresentata in figu-ra, fotografata nel Nord dell’Etiopia, è composta di due piani: il primo in pietra, molto basso, è la stalla. Il secondo è in le-gno tamponato con terra, più alto, funge da abitazione. Gli animali e le persone, che fino a questo momento avevano con-diviso gli stessi spazi, vengono separati e collocati in maniera ottimale: oltre a te-ner presente fattori di sicurezza (i ladri di bestiame) e strutturali (il leggero sul pesante), questa sistemazione garantisce anche il riscaldamento naturale (“effet-to Betlemme”, si può chiamare), dato che l’aria scaldata dagli animali và verso l’alto, e quindi a scaldare la famiglia.

34. Naturalmente esistono molte eccezioni a questa regola, dal meraviglioso Palazzo Ducale di Venezia (che ha una muratura chiusa superiore poggiante su un loggiato tutto aperto) alla mostruosa Unitè d’Habi-tation di Le Corbusier (in cui un gran corpo scatolare in cemento poggia su delle ridi-cole e sproporzionate zampette di cemento armato.Questa regola comunque, nonostan-te le non trascurabili eccezioni, ha sempre avuto una grande importanza nella crea-zione del linguaggio architettonico, in tutte le epoche: gli ordini dorico-ionico-corinzio che si snelliscono via via, l’entasi stessa del-le colonne, il bugnato nella piano terra dei palazzi, la rastremazione delle strutture nei grattacieli e perfino i colori più scuri usati sempre nelle parti più basse dell’edificio.

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2. Questioni Particolari_L’organismo

Lezioni Africane

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XXI- Aggregazione orizzontale spontanea

In questa fase le unità (mono-, bi- e pluri-cellulari) si legano tra loro in modo spontaneo, replicando liberamente le aggregazioni, le rifusioni, i raddoppi, le soprelevazioni e tutte le altre opera-zioni elementari che abbiamo passato in rassegna fino a qui.In questa immagine, le unità formate da una o due cellule si sono adagiate sul terreno in modo sensato, seppure ancora poco organizzato: le case non si tirano l’acqua addosso l’una con l’altra dalle co-perture, il fronte stradale è unico, e tra le unità vi sono gerarchie individuate. Questo è un primordio di tessu-to edilizio, che si distingue dal tessuto urbano (mostrato in 2.4.2.XXIV) per i più forti legami connettivi: il tessuto edi-lizio rappresenta infatti, a livello di signi-ficato primordiale, la presenza del clan, la famiglia allargata all’interno della quale ciascun nucleo familiare è poi rap-presentato dalla propria abitazione. Corrisponde oggi all’idea di condomi-nio, isolato, o al limite gruppo di isolati; mentre il tessuto urbano (derivante dal territorio occupato da una certa etnia, organizzazione di famiglie allargate), corrisponde analogamente alle vie, ai quartieri ed alle circoscrizioni.

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2. Questioni Particolari_L’organismo

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XXII- Aggregazione orizzontale connotata

Un embrionale esempio di ag-gregazione connotativa è già stato espo-sto, ed è la casa con copertura a padiglio-ne (2.4.2-XIX). Le due falde triangolari sono infatti come “testa e coda” di un oggetto altrimenti indeterminato nella sua lunghezza.Questo stesso concetto può estendersi dalla copertura-unificazione all’impian-to, dunque alla zona di elevazione, come nell’immagine.In questo caso la legge che sovrintende l’aggregato è la simmetria, e rende i cor-pi (organi dell’organismo) strettamente legati tra loro: non è possibile aggiun-gere, togliere, modificare o scambiare di posto alcun elemento senza che ne risen-ta tutto l’insieme.Notiamo però che è ancora estremamen-te semplice, nella lettura, individuare le singole unità componenti rispetto all’as-setto organizzativo globale, sia a livello strutturale che compositivo-architettoni-co. Questo significa che non siamo ancora al massimo grado di organicità: questo edificio è, come il cocho, “o”.

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2. Questioni Particolari_L’organismo

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XXIII- Aggregazione organica ad organi complementari

Ed eccoci giunti al enjera dell’architettura, l’aggregazione pluri-cellulare in cui ogni cellula ha un ruolo ed una forma complementare rispetto alle altre, tanto da non potersene più se-parare.Qualunque tentativo di individuare ed isolare una cellula, porta ad osservare la parte di un tutto e non qualcosa di concluso in sè, che non può stare da sola ed ha condizioni al contorno solo per essere inserita in quel preciso posto di quell’edificio.Come nella colonna che è fatta di basa-mento, rocchi di dimensione decrescente e capitello, ciascun elemento di questo edificio è fortemente connesso agli altri, da essi non separabile, non inseribile in diversa sequenza o posizione, ed ha un ruolo specifico collaborante a quello dell’edificio intero.Non esiste, a livello di singolo individuo architettonico, nulla di più organico di ciò.

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2. Questioni Particolari_L’organismo

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XXIV- Tessuto di organismi, città come rete di relazioni gerarchiche

Il successivo piano di osservazione, secondo l’ordine logico che abbiamo seguito fino ad ora, è quello che considera l’edificio intero come una cellu-la, ed il tessuto non è più quello edilizio ma diventa quello urba-no o, successivamente, territo-riale.Qui però la nostra “storia” si

deve fermare, constatando che esiste un nuovo ciclo in cui l’unità non è più il mat-tone, il muro o la stanza ma è la casa, che poi sarebbe il passaggio alla seconda colonna della tabella 4. Questo percorso si intitolava “la casa di Adamo”, mentre nel momento in cui si passa al livello ur-banistico, per forza di cose, ci deve esse-re una “urbe” di cui parlare, una città, e quando è nata la prima città Adamo era già passato da un bel pezzo.Una volta una persona che lavora ad Addis Abeba con i bambini di strada si è stupita del fatto che a Ropi, il mio vil-laggio, 30.000 abitanti, non ce ne fos-se nemmeno uno. Dice: “perchè?”. La risposta è lapalissiana: niente strade, niente bambini di strada. L’idea stessa di città sottintende una quantità di costrut-ti evolutivi sociali e culturali talmente ingombranti da togliere qualunque ca-rattere di spontaneità all’architettura (ed infatti perde la “A” maiuscola), che diventando simbolo, monumento, rappre-sentazione, business, non rappresenterà mai più in modo naturale la relazione tra Uomo e Territorio. Sarà un rapporto molto più mediato e complesso su cui non si intende qui dare alcun giudizio di ca-rattere etico-morale (l’esempio dei bam-bini di strada, fenomeno esclusivo delle città, è controbilanciato da una quantità di oggettivi vantaggi delle realtà urba-ne rispetto alla campagna), ma che non emanerà mai più quel brillio di tutto ciò che è stato fino a qui, quello straordina-rio corpo a corpo tra l’uomo-architetto e la natura-risorsa, che è il cantiere di au-tocostruzione spontanea.Tutti gli edifici presentati in questo capitolo, infatti, non sono mai stati progettati.

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2. Questioni Particolari_L’organismo

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Per gli architetti appassionati di costru-zioni povere in contesti africani, un rife-rimento assolutamente imprescindibile è il già citato architetto Fabrizio Caròla.Partendo dalla tradizione Mediterranea e soprattutto da quella Mesopotamica, per intercessione di Hassan Fathy, Ca-ròla inventa una tecnologia costruttiva in grado di costruire una cupola ogivale a sesto rialzato autoportante.Il concetto della cupola è infatti quello di risparmiare legna in copertura, cosa piuttosto importante in aree desertiche o comunque poco vegetate. L’impiego della cupola a blocchi in effetti risolve il problema di copertura senza necessita-re di legna, ma la tecnica in questione fa di più: essendo autoportante in ogni momento della costruzione, non neces-sita neppure di struttura provvisoria di appoggio (centinatura). Niente legna, dunque, nemmeno per la fase di costru-zione. La cupola poi ha il diametro mas-simo rialzato da terra di circa un metro e venti, risultando dunque più spaziosa sotto all’altezza delle spalle, dove cioè il corpo umano è più ingombrante. Una struttura fortemente connotata, intrin-secamente giusta, semplice da costruire, esteticamente perfetta.Operando principalmente in Mali e Mau-ritania, Caròla ha costruito alcune del-le architetture più belle e sincere del secolo appena terminato. L’Ospedale di Kaedi, a forma di fiore in pianta, è stato meritatamente premiato con l’Aga Khan e rimane il suo capolavoro principale.

3.1 Prima dell’Architettura:la cupola di Genova e quella di Ropi

3. Progetti

L’ospedale di Kaedi, di Fabrizio Ca-ròla

La cupola realizzata a Genova, con l’arch. Francesco Frassinelli

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3. Progetti_Prima dell’Architettura:la cupola di Genova e quella di Ropi

Assieme al collega Francesco Frassinelli, nel 2004, riuscimmo ad ottenere alcuni fondi dall’Università di Genova. Invitam-mo Caròla a tenere una conferenza nella nostra facoltà e comprammo i materiali necessari per costruire una piccola cupo-la sperimentale.L’esperienza fu entusiasmante: sotto la guida illuminante del Professor Massimo Corradi costruimmo l’intera cupola in appena cinque giornate di lavoro con un gruppo di otto studenti.A dir la verità per la maggior parte era-no studentesse, e ricordo che questo can-tiere al femminile in pieno Agosto costò a me e a Francesco non poche invidie da parte degli altri direttori lavori, nei can-tieri circostanti. Continuo ad ammirare questa tecnica costruttiva e le sue potenzialità espressive.Dopo i primi entusiasmi, che mi porta-rono a costruire un granaio come una cupola ogivale di quattro metri e mezzo, analizzai però la faccenda dal punto di vista pratico:- la struttura è pesante e chiede buone fondazioni- la parte inferiore è tesa lungo i paral-leli, dunque richiede blocchi di ottima qualità- i tempi di produzione dei blocchi e re-alizzazione della cupola sono superiori a qualunque altro tipo di copertura- la durabilità di queste cupole, fuori da contesti desertici, non supera quella di un buon tetto in paglia- la cupola è tanto facile da realizzare (basta un compasso ligneo) quanto dif-ficile da progettare. Le intersezioni tra superfici curve sono complesse, ed il

Il magazzino granaio costruito a Ropi, con la medesima tecnica e dimensioni raddoppiate rispetto all’esperimento

di Genova

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know-how è difficilmente trasferibile alla manodopera locale Per questa serie di motivi mi sono convinto che la tecnica in questio-ne è valida, ma opportuna solo in una ri-stretta rosa di edifici specialistici, in cui i conti costi/benefici vengono fatti con criteri differenti da quelli dell’edilizia ordinaria.Il gusto architettonico di voler risolvere tutto (fondazioni-elevazione-unificazio-ne-copertura) con un unico gesto curvo è straordinariamente evocativo applicato ad un’architettura muraria, ma le conse-guenze dal punto di vista pratico (tempi e costi di realizzazione soprattutto) pe-sano sull’altro lato della bilancia.Il più grande fascino di queste archi-tetture risiede nell’identità totale tra struttura e costruzione. Non ci sono muri portanti e altri no, non c’è telaio e tam-ponamento: la struttura è essa stessa avvolgente-chiudente, in una morsa iper-statica che rende il tutto straordinaria-mente stabile, se progettato con atten-zione alle proporzioni e realizzato con buona precisione.Nel caso della cupola isolata poi, la cel-lula corrisponde con l’intero organismo, il che rende il tutto ancora più unitario e compatto. Ho partecipato alla costruzione di diverse cupole, e posso dire con certez-za che questa unitarietà, questa compat-tezza di cui si parlava, è sensorialmente percepibile durante la costruzione, ed ogni partecipante al cantiere ne potrà dare una conferma certa: mentre i primi blocchi si dispongono malvolentieri nella posizione corretta e con l’inclinazione giusta, scivolando in continuazione da

La chiusura degli ultimi anelli nella cupola di Ropi: tutta la costruzione è avvenuta senza centine

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tutte le parti, una volta chiusi un certo numero di anelli sembra attivarsi una sorta di magnetismo per cui ogni mat-tone pare collaborare più volentieri alla costruzione, ed accettare di buon grado la giacitura corretta.Arrivati in chiusura gli ultimi blocchi sembrano addirittura andare a posto da soli: si ha l’impressione che basterebbe lanciarli nella direzione giusta perchè questi vadano a completare gli ultimi tasselli mancanti per volontà propria.

Costruire la propria casa, per un archi-tetto, è sempre un’esperienza straordi-naria.Significa non dover incrociare le proprie volontà con quelle dei committenti ma progettare in assoluta libertà.A questo si aggiunga che il contesto Etiopico è piuttosto povero di leggi e normative sull’edilizia privata, cosicchè tutte le decisioni di ogni ordine e grado diventano direttamente responsabili-tà del progettista: progetto strutturale, impatto ambientale, relazione idrogeo-logica, dimensionamento dei vani, buca-ture, scelta dei materiali, e via dicendo: nessuna normativa vincolante, nessun parere richiesto da specialisti vari come il geologo, l’impiantista o l’addetto alla sicurezza.In ultimo, costruendo questa casa con materiali locali (terra di termitaio) ma con una tecnologia assolutamente nuova per la zona (il muro a blocchi), il proces-so non è partito dalla forma dell’edificio,

3. Progetti_Prima dell’Architettura:la cupola di Genova e quella di Ropi

3.2 La continenza del progettista: casa per me stesso

Esterno della casa di Ropi

Lezione-proiezione durante il wor-kshop del 2011

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ma dal progetto del singolo blocco, dalla ricetta per la malta, dal calcolo dei pesi specifici e della portanza. Rimasto quindi, sostanzialmen-te, come unico vincolo quello economico (il budget per la costruzione), il progetto ha seguito una strada molto particolare.Pianta circolare o rettangolare? Strut-tura voltata o copertura leggera? Mono-locale o vani separati? Unico edificio o corpi aggregati? Muro o telaio?Imbarazzato dall’infinita varietà di ma-teriali, strutture, impianti e tipi di orga-nismo recuperabili in questo progetto, scelsi l’unica strada che mi paresse non autoreferenziale: avrei costruito per me la casa che ogni uomo di Ropi avrebbe desiderato per sé, con l’unica condizio-ne di usare il muro di terra al posto del telaio ligneo, unica tecnica costruttiva conosciuta a Ropi. Ciò che mi interessava non era infatti dimostrare che sapevo costruire la casa dei miei sogni, bensì la casa dei sogni di Ropi. Io avrei, per dirne una, vo-luto il soffitto più basso, ma alla gente di qui il tetto alto dà l’idea di famiglia ricca: ho fatto il soffitto alto.A me sarebbe piaciuta una forma più ori-ginale, ma alle persone del posto sarebbe sembrata una bizzarra sperimentazione, non una casa. Lo zoccolo rosso su livelli di-versi è un tributo alle case tradizionali Harar, non distanti da qui e abitate da persone Oromo, cioè della stessa tribù di maggioranza a Ropi. I pannelli solari (sopra alla ve-randa) garantiscono alla casa autosuf-ficienza energetica per l’illuminazione (led a 12 V) e qualche altro piccolo uti-

Vista interna del soggiorno

L’edificio, come l’uomo, è ricco di dettagli percepibili a scale diverse, al contrario delle architetture concepite come grandi macchine

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lizzatore (computer, cellulari, proiettore, saldatore). La muratura della casa è realiz-zata ad una sola testa, con uno spessore di circa 20cm e blocchi in terra di termi-taio e paglia. L’intonaco è in terra, con intonaco di cemento senza sabbia steso a pennello e pittura.Lo zoccolo di fondazione è largo il dop-pio della muratura, in pietra legata con malta di cemento.

<<Se osserviamo una casa moderna di tipo medio non dubitiamo che il costruttore abbia pensato alla soluzione migliore per ogni particolare e che abbia voluto e saputo trovarla; tuttavia di questo non pos-siamo farcene una ragione a prima vista, riusciamo a capirlo solo dopo che ci sono state fornite le più ampie spiegazioni, e anche allora malgrado ciò non tutto ci è chiaro; infatti per quanto ci riguarda tutto avrebbe potuto anche essere completamente diver-so; come noi, così anche i muratori, i falegnami, i fabbri, insomma tutti coloro che hanno collaborato alla costruzione, a loro volta non hanno capito.>> E. Tessenow

Personalmente ritengo un in-dicatore di qualità molto rilevante il fatto che la manodopera specializzata coinvolta nella realizzazione di progetti sia soddisfatta del proprio contributo al cantiere. Adesso i ragazzi che hanno co-struito la capanna ci portano in visita le loro fidanzate per mostrare loro di cosa sono stati capaci, e questa è una delle soddisfazioni più belle che si possano ot-tenere.Ermias e Abbacho House sono le prime abitazioni in blocchi di terra costruite per delle famiglie private di Ropi, con la

3. Progetti_La continenza del progettista: casa per me stesso

3.3 Autocostruzione Assistita: Ermias House e Abbacho House

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locale cooperativa Nu Fi Nu.Nel villaggio si costruisce sostanzial-mente secondo due tipologie: la capanna bifase circolare e la casa rettangolare a cellule aggregate, con tetto di lamiera.Ci interessava pertanto affinare la tec-nica della muratura pesante e calibrarla sui due tipi ricorrenti.Trovammo due famiglie intenzionate ad autocostruirsi la casa, una in un modo e l’altra nell’altro, e nell’estate del 2009 realizzammo questi due edifici.La prima, Ermias House, è una capanna di circa 6 metri di diametro a vano strut-turale unico.La partizione leggera centrale divide zona giorno e zona notte.Forme e proporzioni sono proprie della tradizione locale, tanto che il tetto è sta-to realizzato dalla famiglia autonoma-mente. Il muro in mattoni crudi non ha fondazione in pietra ma ancora in terra e riveste una funzione portante nei con-fronti della copertura.L’impianto è imperniato polare, ed i pali lignei esterni sono stati aggiunti succes-sivamente alla costruzione, per stabiliz-zare ulteriormente la struttura.Le lesene irrobustiscono la muratura, ed al contempo muovono la facciata. Le finestre sono state una precisa richie-sta del committente, che da quando era bambino sogna una casa un po’ più lumi-nosa di quella tradizionale. I blocchi sono stati prodotti con una pressa meccanica, uno strumento che si è rivelato inappropriato, perlome-no per il contesto rurale.Il vantaggio è il risparmio di circa il 50% dell’acqua necessaria perchè la pressa non ha bisogno di fango ma di ter-

Ermias House

La produzione dei blocchi per Ermias House con la pressa meccanica

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ra appena umida (12% di umidità circa).Lo svantaggio è la dipendenza da una serie di sostegni difficili e carissimi da rintracciare.Non è raro che con l’uso un cuscinetto debba essere sostituito, o che serva una saldatura, o ancora che gli ingranaggi vadano ingrassati. Tutti questi materiali sono carissimi, mentre riparazioni come la saldatura prevedono addirittura il tra-sporto della pressa fino alla città più vi-cina dotata di corrente elettrica.Per tutti questi motivi qui si è conclusa la nostra esperienza con le presse meccani-che, che pure in contesti urbani potrebbe rappresentare una soluzione interessan-te. Abbacho House è invece la tipi-ca casa a baracca con tetto in lamiera e veranda frontale. E’ divisa in tre vani, l’ultimo dei quali è girato verso la strada (negozio). Le murature sono in blocchi realizzati in cassetta di legno e sono di grandi dimensioni. La casa riprende le caratteristiche salienti del tipo locale, mantenendo per esempio la determi-nazione delle dimensioni in pianta con modulo di 90 centimetri in facciata e 190 in senso perpendicolare, essendo le dimensioni della lamiera ondulata 1x2 metri e le sovrapposizioni previste di 10 centimetri in entrambe le direzioni.L’edificio si trova sul lato interno della piazza del mercato, ed ha dunque por-tato una certa visibilità a questo tipo di costruzioni. Entrambe queste case sono sta-te autocostruite dalle famiglie che le avrebbero poi abitate, con un’assistenza tecnica e cantieristica per la parte inno-vativa del progetto.

3. Progetti_Autocostruzione Assistita: Ermias House e Abbacho House

Il fronte principale di Abbacho House prima dell’intonacatura e della posa

del tetto

Wondemu Kedir, il manager della co-operativa Nu Fi Nu, al lavoro

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“Tecnologia appropriata” è un termine, ormai entrato nel lessico degli architet-ti, che indica quel tipo di tecnologia che tende a fornire una risposta tecnica con-gruente agli obiettivi specifici d’interven-to, come afferma Ceragioli. Essa prende quindi diverse accezioni a seconda delle situazioni e dei condizionamenti presen-ti, delle risorse economiche ed umane di-sponibili, delle ipotesi di miglioramento delle condizioni ambientali e dei costi sociali, delle iniziative di salvaguardia e di sviluppo di prodotti e tecniche tradi-zionali.Nei due casi qui portati ad esempio, si parla di tecnologie a risparmio energeti-co per la cottura, di cibi nel primo caso e di mattoni nel secondo.

IL FORNO SHERARITSherarit vuol dire “ragno” in Amarico, questo forno prende il nome dalla forma del treppiede che sorregge la pentola di cottura. Il forno solare è un’ottima so-luzione per la cottura di cibi laddove la legna e gli altri combustibili tradizionali siano insufficienti o comunque scarsi.L’Etiopia, vicinissima all’equatore e po-sizionata su un altipiano, è il contesto ideale per questo tipo di tecnologie.Lo schema scelto è quello del concentra-tore parabolico, che focalizza tutti i raggi del sole in un punto, dove viene posto il cibo da cuocere. Il materiale struttura-le della parabola è un impasto di terra e letame, mentre la superficie rifletten-te è ottenuta con un foglio di alluminio:

Il forno solare modello Sherarit, pro-gettato nel 2008

3. Progetti

3.4 Tecnologie Appropriate: il forno Sherarit e le fornaci

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esposto alle intemperie la sua durata è limitata, ma il costo è talmente basso da permettere sostituzioni successive, sulla medesima struttura.Il treppiede è un tondino da cemento armato saldato, mentre la pentola è fa-cilmente reperibile ovunque sul mercato etiopico.

LE FORNACI PER MATTONI COTTIVicino ai fiumi, soprattutto nelle zone con scarsa pendenza, spesso si trovano dei depositi naturali di argilla, derivan-ti dalle varie esondazioni che nel corso degli anni stratificano questo materiale sulle sponde. E’ così anche a Kachachul-lo, nei pressi del fiume Billate, dove ogni 2 o 3 anni il fiume straripa allagando tutta la zona circostante. Questo porta uno strato di argilla, in alcuni posti spes-so anche 3-4 metri, che oltre ad essere molto fertile è anche un ottimo materia-le da costruzione. Come si fa a cuocere un mattone?Non ne avevo la minima idea. Una vec-chia donna Walayta che abita da queste parti produce vasellame, dunque sono andato a vedere come faceva per cuoce-re i suoi manufatti: da tradizione, cuoce il vasellame semplicemente lasciandolo per diverse ore su una pira di legna.Il metodo funzionava anche con i mat-toni, ma lo spreco di legno era enorme, perchè quasi tutto il calore si disperdeva verso l’alto. Così è nata l’idea di fare un forno.Si poteva fare in terra cruda, che intanto poi si sarebbe cotta dall’interno, diven-tando refrattario dopo le prime cotture, ed infatti così è stato. Il problema era dimensionare i muri del forno: più spessi

3. Progetti_Tecnologie Appropriate: il forno Sherarit e le fornaci

Le due fornaci per mattoni

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sono i muri, meno si disperde il calore: ecco che allora abbiamo deciso di scava-re il forno dentro la terra, sotto il livello del suolo. In questo modo lo spessore dei muri è virtualmente infinito, e il calore si disperde molto di meno; inoltre la terra scavata per fare posto al forno sarebbe poi stata utilizzata per produrre nuovi mattoni.Scavare un forno nella terra risolve il problema della dispersione su 3 lati, ma ne rimane ancora uno: la copertura. La abbiamo fatta ancora in terra, con una volta in mattoni crudi. Ad un’estremità del forno c’è il fuoco, e subito dopo par-tono 5 metri di tunnel pieno di mattoni. Ora il problema era convincere il fuoco a percorrere questo tunnel cuocendo tut-ti i mattoni anzichè andare verso l’alto. Ogni tanto gli ingegneri servono a qual-cosa, e dunque mi è stato detto che, per le dimensioni del mio forno, bisognava mettere all’altra estremità del tunnel un camino alto almeno 3 metri a sezione variabile (che si rastremasse verso l’alto, in modo da far procedere a velocità co-stante i fumi che perdono temperatura, e dunque volume). Questo avrebbe convin-to il fuoco a fare la deviazione, prenden-do la via più lunga.Ma un forno non è abbastanza, perchè prima che i mattoni cotti si raffreddino bisogna aspettare almeno un giorno, poi un altro giorno per svuotarlo e riempirlo di nuovo, così per due giorni non si produ-cono mattoni. Posizionare un altro forno accanto ha la funzione di poter lavorare senza interruzioni, alternando le due for-naci. Inoltre il calore sprigionato da un forno intiepidisce già l’altro, funzionando da pre-riscaldamento.

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Ad Awassa sperimentammo un tipo di co-pertura interessante. I muri sono norma-lissimi, in blocchi di terra. La struttura del tetto invece è in bambù, ottenuta con il seguente procedimento: un capomastro locale ha costruito una capanna larga tre metri ed alta altrettanto, non ancorata a terra. La capanna è stata tagliata in due su un asse di simmetria, e le due metà sono state ricongiunte sul semidiametro massimo. Il guscio così ottenuto è stato poi intonacato di terra stabilizzata con il bitume, per resistere alle piogge.Il cantiere, compresa la produzione dei mattoni per fondazioni e muratura, si è concluso nella sorprendente durata di un mese.Due pseudo-capriate ad “A” sono poste al centro, per rinforzare la struttura. Il Fekat Circus è invece un Circo Sociale di Addis Abeba, diretto da Dereje Dagne e supportato da CIAI (Centro Ita-liano Aiuto all’Infanzia).I membri del circo sono tutti ex bambi-ni di strada, usciti dalla povertà proprio grazie a queste attività. Oggi sono una realtà economicamente autosufficiente, fanno tournée all’estero ed insegnano gratuitamente circo ai bambini del loro quartiere.Volevano un teatro-palestra, un luogo dove performare ogni giorno ed eserci-tarsi, e volevano costruirlo da soli.La tecnica muraria dei blocchi crudi è stata integrata con parti pannellate leg-gere, mentre il lato aperto è costituito da una trave reticolare prodotta artigia-

3.5 Tra tradizione e innovazione: il museo di Awassa ed il Fekat Circus

3. Progetti

Il museo di Awassa, vista esterna

La copertura del museo di Awassa, vista da dentro: la linea verticale al centro rappresenta il giunto tra le due

semi capanne

Lo stage del Fekat Circus, ad Addis Abeba

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nalmente con aste di legno e tiranti di acciaio. I tenditori nel cavo di acciaio ad ogni internodo della trave ne permettono “l’accordatura”, cosicchè la controfrec-cia può essere assegnata direttamente in opera.

CHE COS’E’ L’ARCHITETTURA GIO-VIALESi può parlare di architettura gioviale quando l’oggetto architettonico produce e favorisce giovialità in ogni sua fase e tra tutti gli interlocutori, animati ed inanimati.“In ogni sua fase” significa dal concepi-mento allo smaltimento: progettazione, finanziamento, processo legale-buro-cratico, cantierizzazione, realizzazione, vita, cura, riparazione, restauro-recupe-ro-riuso, invecchiamento ed infine demo-lizione.“Tra tutti gli interlocutori” significa quelli animati (committenti, utenti, pro-gettisti, costruttori, visitatori, passanti e simpatizzanti) e quelli inanimati (conte-sto naturale e costruito, materiali, clima atmosferico, strutture, elementi costi-tuenti, suolo, cielo e paesaggio).Per “giovialità”, infine, intendiamo quel-lo spirito costruttivo che porta alla cre-

I ragazzi del Fekat Circus al lavoro

3.6 Architettura Gioviale: il Training Center e il Community Center

Il progetto “esecutivo” del Training Center

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azione di legami profondi e diretti, siano essi affettivi, sociali, chimici o logici.

COME SI FA L’ARCHITETTURA GIOVIALE- L’architettura deve nascere da un preciso desiderio e da una specifica esigenza- L’utenza dell’edificio deve entrare nella realizzazione non solo a livello di ma-nodopera nella realizzazione ma con forte coinvolgimento fin dalla fase di pro-gettazione- Durante tutta la costruzione, la cura dei legami è fondamentale: dalle buone relazioni tra gli operai, all’adesione della malta di allettamento tra i blocchi, alle proporzioni tra cellule edilizie adiacenti- Il progetto non deve essere vincolante come potrebbe essere il copione di un film ma piuttosto informativo come il canovaccio di una rappresentazione tea-trale, che lascia spazio all’unicità del ruolo di ciascun attore all’interno di un disegno generale soltanto abbozzato dal regista- La scelta di materiali, dimensioni, proporzioni e schemi statici non deve preve-dere virtuosismi che rendono la difficoltà tecnica così elevata da richiedere tutta l’attenzione e la cura del cantiere solo per sé. Le menti di chi costruisce devono rimanere sufficientemente libere per continuare a progettare durante tutto il cantiere- Tutte le lavorazioni devono poter essere fatte a mano o con strumenti semplici, senza l’uso di elettricità o altre energie che ingigantiscano troppo la potenza del gesto umano. Materiali non troppo resistenti come la terra ben si prestano ad essere modellati e perfezionati in cantiere: correggere l’andamento di un muro di terra con una punta è semplice quasi come cancellare e ridisegnare un tratto impreciso di matita- Gli elementi devono appartenere per la grande maggioranza al vocabolario dello spirito del tempo e del luogo, perchè l’edificio parli da subito la stessa lingua della gente- Ogni lavoratore (specializzato e non) che lavora al cantiere deve sentire il proprio contributo come originale e prezioso, insostituibile: l’edificio deve essere una sorta di lastra fotografica su cui rimangono indelebilmente impressi tutti i protagonisti, le vicende, gli umori- Ciascuno deve essere consapevole che il proprio umore, il proprio ottimismo e la propria buona disposizione avranno un effetto benefico alla costruzione tanto quanto il buon uso del filo a piombo e la cura nel bagnare ogni blocco prima di metterlo in opera- L’edificio non deve riportare firme, scritte, date o altri tipi di egoistici marchi a futura memoria, perchè la memoria si deve uniformemente distribuire su tutta la costruzione- I gruppi di lavoro devono essere piccoli e pressochè autonomi, scambiandosi spesso

3. Progetti_ Architettura Gioviale: il Training Center e il Community Center

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Il cantiere del Training Center

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3. Progetti_ Architettura Gioviale: il Training Center e il Community Center

- I dimensionamenti devono essere parti-colarmente generosi a favore di sicurez-za- La fretta di terminare i lavori non deve mai infettare il cantiere- Mentre le congiunzioni (tra elementi omogenei) vanno progettate in partenza, le connessioni (tra elementi disomoge-nei) vanno risolte in cantiere- Ogni lavoro che si può fare a mani nude, và fatto così- Il metro deve essere usato solo per i tracciamenti principali, tutte le dimen-sioni sotto i tre metri devono essere sta-bilite a occhio o in base a moduli pre-fissati (mattone, mezzo mattone, spanna, braccia)- Canti, balli e pasti effettuati in cantiere hanno un effetto benefico da subito sulla materia del’opera. Il Training Center (nome esteso: Appropriate Technologies Research and Training Center, ATRTC) è la sede della cooperativa Nu Fi Nu a Ropi. Composta di 5 stanze laterali adibite rispettiva-mente a: ufficio, meeting room, training room, exposition space e magazzino, la torre centrale serve invece da sala let-tura nella parte alta e da sala proiezioni nella parte bassa, dove rimane non illu-minata.La struttura centrale presenta muri ra-diali e concentrici, dunque ammorsature tra le pareti molto efficaci e regolari. Le bucature, le relazioni tra le stanze, le esatte proporzioni, le tessiture murarie ed i dettagli di connessione sono stati tutti progettati in cantiere, in corso d’o-pera. Le coperture in paglia sono state fatte dalla manodopera qualificata lo-cale, mentre i muri sono stati realizzati

L’interno dell’ingresso del Training Center

Prospetto principale del Training Center

Lezioni Africane

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dalla stessa cooperativa Nu Fi Nu.Le fondazioni sono in terra.La resa strutturale di questo impianto è molto buona, misurata in metri quadri di superficie coperta / metri cubi di mate-riale murario impiegato: se per casa mia questo rapporto era di 1,59m-1, per que-sto edificio raggiunge i 2.70m-1: quasi tre metri quadri di stanza per ogni metro cubo di terra impiegato. Il Community Center è stato in-vece commissionato e voluto dalla Mu-nicipalità di Ropi, l’autorità pubblica. Desideravano un luogo dove i comitati (quello dell’acqua, delle donne, degli anziani, …) potessero fare le proprie ri-unioni, all’interno del terreno della Mu-nicipalità. Nello stesso tempo la Woreda (che sarebbe l’autorità di livello superio-re, come da noi la Provincia) desiderava che io dessi un training teorico-pratico ad una quarantina di giovani provenienti da tutto il distretto, sulle costruzioni in blocchi di terra.“Politiche per lo stimolo di piccole im-prese”: l’idea mi piacque da subito, ed il Community Center fu, per così dire, l’e-sercitazione pratica di fine corso.Dopo aver imparato le regole fondamen-tali, la soluzione di tutti i nodi salienti e le tecniche per il controllo geometrico della costruzione, i 40 ragazzi organizza-ti in diversi turni hanno costruito questo edificio in circa un mese. Tutti i materia-li furono pagati dalla Municipalità, e la manodopera risultò gratuita.

Il Community Center in costruzione

La tessitura muraria per le fondazio-ni del Community Center: un modo per risparmiare blocchetti a parità di spessore finale

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Si tratta di un asilo rurale, un tipo che presenta alcune innovazioni, e che costi-tuisce un progetto pilota in questo paese: in Etiopia infatti non esistono asili rurali (salvo pochi privati, soprattutto di orien-tamento religioso), e non esiste ancora una legge che ne descriva i requisiti. Il governo sta lavorando ad un disegno di legge, ma è più che disposto a ricevere input da associazioni ed enti, per trovare soluzioni sostenibili (si pensa all’ibrido pubblico-privato).In questo progetto si parte dal model-lo, dall’idea che si vuole sperimentare e proporre come pratica eccellente all’au-torità pubblica, e che descrivo per punti: • Iscrizione mensile e non annuale: in stagione di semina e raccolto i bambini in casa danno fastidio, e gli asili dovran-no essere stracolmi. In stagione normale, specie prima del raccolto, tante mamme non avranno i mezzi per pagare le quote, o comunque preferiranno tenere i bam-bini in casa.• Insegnamento della lingua Oromo per le minoranze etniche, in modo che i bam-bini possano poi andare a scuola capendo la lingua delle lezioni. Gli insegnamenti possono avvenire con semplici ed econo-mici strumenti multimediali alimentati a pannello solare, oltre che con lezioni e tecniche di gioco.• Il budget delle attività, anziché essere interamente coperto dalle quote, viene parzialmente coperto dalla vendita di verdure prodotte dall’asilo, con il coin-volgimento dei bambini e sotto la respon-

3.7 Tipo e Modello: l’asilo rurale

3. Progetti

L’impianto imperniato polare dell’asi-lo. La copertura si posa sull’esosche-letro ligneo, e non direttamente sulla

muratura

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Il momento sacro di ogni cantiere imperniato polare: la messa in opera del palo centrale. Secondo tradizione, avviene con l’aiuto e la benedizione di tutto il vicinato

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3. Progetti_ Architettura Gioviale: il Training Center e il Community Center

sabilità delle coordinatrici dell’asilo. Le quote saranno quindi più basse ed alla portata di tutti.• Per invogliare le mamme a portare i loro bambini all’asilo e a farlo in tempo, tra le otto e le nove di mattina viene of-ferto un tè ai bambini ed alle mamme, e settimanalmente c’è un pranzo per tutti a base di verdure autoprodotte.• L’asilo è piuttosto esteso, con un’aula coperta, un invaso artificiale (500 me-tri cubi) di raccolta acqua piovana, ed un grande spazio aperto concepito come un villaggio in miniatura, con alberi, vie (sentieri), piazza centrale (giochi all’a-perto), e soprattutto campi: ogni bambi-no ha “in uso” una porzione di orto pari a 4 metri quadri. Ha alcune responsa-bilità come annaffiare il proprio campo in stagione secca, estirpare le erbacce, piantare i semi e raccogliere i frutti. Le maestre gestiscono il percorso esperien-ziale-didattico dei bambini, e da sole (in cooperativa) provvedono alle responsa-bilità più complesse (aratura, utilizzo di pesticidi naturali, vendita ortaggi...).• Nell’asilo è presente una cucina solare, per il tè del mattino e per i pranzi• Dal punto di vista dell’architettura, il progetto cerca di trovare soluzioni più possibile sostenibili e prodotte con ma-teriali locali, ma al contempo stimolanti per i bambini.

il muro “o” si muove liberamente tra la rigida struttura lignea “S”

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Proviamo ad analizzare, secondo le cate-gorie acquisite nei capitoli 1 e 2, la ca-panna nella figura sottostante.I materiali portanti sono terra (fondazio-ne e muratura) e legno (unificazione e copertura).La struttura è muraria nella parte in-feriore ed a telaio iperstatico in quella superiore.L’impianto è quadrato, con una porta a lato del fronte principale ed una piccola finestra sul fianco. L’organismo è quadri-fase, dove l’unificazione è costituita da una cintura quadrata di dormienti sulla sommità dei muri. Adesso soffermiamoci sulla de-corazione dipinta sui muri in blocchi di terra: la parte superiore è pitturata di giallo (pigmenti ottenuti dall’argilla di fiume) mentre quella inferiore è marro-ne (argilla scavata in profondità).La linea orizzontale di separazione tra i due colori presenta un punto singolare in prossimità degli spigoli, dove la parte in-feriore guadagna spazio rispetto a quella superiore.Immaginiamo di trovarci in un villaggio dove pressochè tutte le capanne sono fatte in questo modo (il villaggio esiste veramente, si chiama Tore).Potremmo speculare sulle ragioni per le quali questa tipologia si sia diffusa ed abbia prevalso sulle altre in quest’area, attribuendo alcune particolarità alle ri-sorse offerte dal territorio in zona ed altre alle specifiche esigenze di quella particolare tribù, ma limitiamo il discor-

4. Pensieri Conclusivi

Capanna quadrata in blocchi di terra con copertura in legno e paglia. Si noti la decorazione dipinta sulla muratura

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so alla questione dell’ornamento dipinto.I pigmenti sono senza dubbio forniti dal-la natura, e le argille sono le pitture più semplici da realizzare.Il fatto di mettere il colore più scuro in fondo ed il più chiaro in alto potrebbe in prima istanza essere classificata come una faccenda di istinto compositivo, qua-si una legge di natura, come l’olio che galleggia sull’acqua proprio perchè è più leggero, il chiaro “galleggia” sullo scuro.Ma veniamo ai punti singolari nei quat-tro spigoli: perchè questa forma?Osservando il processo costruttivo di questo tipo di case, la risposta sembra fornirsi da sola.I primi mattoni che vengono posiziona-ti sono quelli d’angolo, che strato dopo strato vengono controllati con un filo a piombo. Dopodiché si procede alla co-struzione dei muri tra uno spigolo e l’altro, senza più usare il filo a piombo ma limitandosi al controllo orizzontale con le lenze tese. L’ornamento angola-re dunque è da intendersi come una re-miniscenza della fase costruttiva, in cui queste “V” rovesciate si formano sponta-neamente nei quattro angoli, prima che il resto dei blocchetti venga posizionato. Ma non accontentiamoci di una spiegazione univoca: come nel caso del vaso di terracotta (vedi 1.4) o dell’ar-co murario (vedi 2.2.1), cerchiamo una seconda spiegazione che non invalidi la prima, ma dia anzi ancora più forza alla sostanza e alla correttezza di quella so-luzione.Osserviamo che la parte superiore della muratura è molto ben protetta dal tetto in paglia, e di conseguenza non sarà mai sottoposta alla pioggia battente.

4. Pensieri Conclusivi

La tecnica costruttiva, da cui l’anda-mento degli ornamenti della figura

precedente

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La parte inferiore al contrario, in caso di pioggia con vento, può essere diretta-mente intaccata dal dilavamento.Il tetto in paglia non si può realizzare a forma di quadrato perfetto in pianta, per il semplice motivo che la falda non si può tagliare geometricamente, come sarebbe possibile per esempio con una lamiera. In particolare, in ogni falda triangolare, i due vertici inferiori saranno i punti più critici, poiché gli ultimi ciuffi di paglia dovrebbero essere troppo corti, e di fatto non vengono posizionati.Questo spiega il motivo per cui la pioggia battente di stravento, qualora andasse ad attaccare una capanna in terra scura dipinta interamente di colore chiaro, fini-rebbe col tempo per ridisegnare la stessa decorazione da cui siamo partiti (imma-gine qui a fianco).La decorazione viene dunque eseguita ad una precisa altezza della capanna, os-sia dove gli agenti atmosferici comunque la disegnerebbero nel giro di poche sta-gioni di pioggia. La sapienza necessaria per ar-rivare a questo livello di raffinatezza nella scelta di ogni dettaglio progettuale richiede spesso non anni, ma intere ge-nerazioni di osservazioni, prove, miglio-ramenti e successivi aggiustamenti.Ciò avviene in modo spontaneo nelle culture tradizionali, nel senso che i cam-biamenti rispetto al tipo noto sono sem-pre piccoli e graduali, un po’ come avvie-ne nell’evoluzione delle specie animali: strutture complesse ed intimamente cor-rette (pensiamo all’occhio, il cervello, lo scheletro ma anche al manto di paglia, la capriata, l’arco) sono il frutto di infinite riproduzioni, ciascuna solo leggermente

Ancora gli stessi ornamenti, questa volta non disegnati dall’uomo ma sca-vati dalla pioggia: in giallo rimane la parte che la copertura pone in ombra pluviodinamca, in marrone la super-ficie intaccata meccanicamente dalla pioggia

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diversa dall’esemplare precedente. Un occhio, un femore, una ca-panna, non si progettano. Sono il frutto di una selezione naturale appartenente ad una catena evolutiva.Può l’architetto, coscienza critica per ec-cellenza, con il suo ingegno progettuale ottenere un risultato migliore della co-scienza spontanea?Per quanto la risposta non possa essere in alcun modo dimostrata, lo scrivente non ha dubbi in proposito e spero, dopo quanto illustrato, possa dirsi lo stesso per il lettore.La risposta è un categorico NO.Non può l’architetto fare meglio di quel-lo che la coscienza spontanea sta conti-nuando a migliorare da molte generazio-ni. E allora qual è la via da percorrere?Ancora una volta la risposta è semplice: l’ibridazione.Grazie al cielo, sono ormai superate tut-te le ideologie pseudo-scientifiche che attribuiscono, in qualunque contesto, ca-ratteristiche di superiorità ad una razza (cultura, etnia) rispetto alle altre.Da ogni campo della ricerca arrivano in continuazione notizie in senso contrario.E’ dimostrato per esempio che i cani bastardi sono mediamente più resisten-ti alle malattie rispetto a tutte le razze canine pure. Allo stesso modo, i bambini che parlano più lingue sono più recettivi a scuola di quelli che ne parlano una sola.Così anche le culture ibride sono più “forti” di quelle “pure”, se mai ne do-vesse esistere una veramente tale.Progettare in un luogo dove una coscien-za spontanea è ancora viva ed operante è un enorme valore aggiunto che necessita

4. Pensieri Conclusivi

Le trabercole ossee del femore uma-no: esse si dispongono sulle curve iso-statiche di massimo e di minimo per garantire la più alta resistenza con il

minor peso possibile

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una fase istruttoria ampia ed approfondi-ta, in modo da integrare il proprio contri-buto progettuale all’interno di una rete di saperi locali. C’era una volta un villaggio dove uno stregone si prendeva cura della salute di tutti.Con i suoi infusi, preparati d’erbe, rimedi naturali dalla foresta, guariva chiunque avesse un problema di salute.Nel villaggio un giorno arrivò una clinica.I dottori promuovevano la loro struttura, convincendo la gente a non rivolgersi più allo stregone, le cui capacità erano limi-tate. D’ora in poi chiunque avesse avuto un problema si sarebbe dovuto recare in clinica, dove gli ultimi ritrovati scienti-fici avrebbero potuto fornire una cura più efficace e sicura. Lo stregone di lì a qualche anno morì, e con lui tutti i saperi che per generazioni si erano tramandati di padre in figlio. Nel villaggio affianco tuttavia arrivarono altri dottori, che la pensavano diversamente.Appena giunti sul posto, vollero subito incontrare lo stregone.Lo osservarono lavorare, gli chiesero con quale criterio scegliesse una cura piuttosto che un’al-tra. Notarono che per la grande mag-gioranza delle malattie più ricorrenti, lo stregone già conosceva i rimedi corretti.Lo supplicarono di estendere i suoi sape-ri ad un gruppo di giovani del villaggio, dopodichè gli fornirono dei training e la strumentazione necessaria per imparare a curare anche quelle poche malattie che fino ad allora non sapeva trattare.Ecco, dove lo stregone e il dottore cam-minano per mano: questo è il villaggio dove vogliamo lavorare.

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4. Pensieri Conclusivi

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I - MATERIALI

F. Storelli, 1996. Habitat e architetture di terra, Gangemi Editori: Milano.G. Scudo, B. Narici, C. Talamo, 2001. Costruire con la terra, Sistemi Editoriali: Napoli.Marcia Southwick, 1988. Build with Adobe, Sage: Chicago.V. Rigassi, CRATerre, 1985. Compressed Earth Blocks: manual of production, Ed. Gate: Lengerich.R. Nova, 2002. Fondamenti di meccanica delle terre, Publishing group: Milano.AA.VV., 1998. Traité de construction en terre, Parentheses: Grenoble.Z. El Gharbi, 1994. Mode operatoire pour la realisation d’essais de resistance sur blocs de terre comprimee, Materiaux et Constructions, vol. 30, n. 203, pp. 515-517.AA.VV., 1988. Terra, incipit vitae novae, CLU: Milano.C.H. Bamford, C.H.F. Tipper, 1980. Chemical kinetics, Ed. Elsevier Scientific, New York.G. Minke, K. Grasser, 1990. Building with Pumice, Ed. GATE: Lengerich.B. Bee, 1997. The COB builders Handbook, Ed. Groundworks, Murphy.A. Beamish, 1993. Village level Brickmaking, Ed. GATE, Lengerich

II - STRUTTURE

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Bibliografia organica

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Bibliografia organicaG. Minke, 1982. Earth, construction Handbook, Witpress: London.E. Benvenuto, 1981. La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Sansoni: Firenze.G. Bollini, 1991. La ricerca universitaria sull’architettura di terra, Edicom Edizioni

III - IMPIANTO

G.Caniggia, 1981. Lettura dell’edilizia di base, Ed. Alinea, FirenzeL. Quaroni, 2001. Progettare un edificio, Ed. Kappa: Roma.Luciano Minetti, 2001. Small Dams and Weirs in Earth and Gabions Materials, FAO, RomaM. Giovannini, 2003. “Oasi Tunisine”: Controspazio, n. 105, pp. .G. De Carlo e altri, 1980. Autocostruzione e tecnologie conviviali, Clueb: Bologna.F. Ago, 1987. Moschee in adòbe, storia e tipologia, Kappa: Roma.

IV - ORGANISMO

Vitruvio, 1988. De Architectura, nella versione di Carlo Amati, 1830, Riedito da Alinea.E.E. Viollet-le-Duc, 2002. L’architettura ragionata, Jaca Books: Milano.P. Maretto, 1993. Realtà Naturale, Realtà Costruita, Alinea: Firenze.Nader Khalili, 1997. Arch-itecture, in www.calearth.orgH. Fathy, 1974. Costruire con la gente, Jaca Books: Milano.P. Graham, 1989. Adobe and rammed earth buildings, UA: Tucson.E. Galdieri, 1982. Le meraviglie dell’architettura in terra cruda, Laterza: BariE. Allen, 1980. Come funzionano gli edifici, Dedalo: Bari.J.N.L. Durand, 1986. Lezioni di Architettura, CittàStudi Editore: Torino.R. Busata, 2002. Piccolo manuale per affrontare un progetto di architettura, Gangemi, Roma.G. Cataldi, 1982. Tipologie primitive, Alinea, Firenze.G. Cataldi, 1984. All’origine dell’abitare, Grafistampa, Firenze.B.F. Dubor, 1986. Fernand Pouillon, Electa: Paris.S. Di Pasquale, 2003. L’arte del costruire tra conoscenza e scienza, Marsilio: Venezia.

O - AFRICA

J. Steele, 1982. Hassan Fathy, Academy Editions: London.S. Paris, 2003. Tecnologia, Ambiente, Sviluppo tra Nord e Sud del Mondo, Gangemi Editore: RomaR. Mattone, 2004. Riqualificazione degli insediamenti per la cooperazione e lo sviluppo, Mantova.A. Kabou, 1990. E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?, L’Harmattan Italiana: Torino.E. Guidoni, 1975. Architettura Primitiva, Alinea: Firenze.L. Cupelloni, 2002. Mozambico. Pensare, fare, insegnare architettura, Alinea: Firenze.G. Ceragioli, 1986. Tecnologia e sviluppo, FOCSIV.G. Ceragioli, 1972. Glossario progettuale di tecnologie edilizie in p.v.s., Clut, Torino.AA.VV. , 2001. La qualità della vita nel mondo, EMI: Bologna.P. Bairoch, 1997. Il fenomeno urbano nel terzo mondo, Ed. L’Harmattan Italiana, Torino.

PREGHIERA NERA Per le nere facce di questa nera terra

Per chi di loro è in pace, per chi di loro è in guerra

Per ogni forma di culturaper quanto assurda

per quanto dura

Per ogni loro contraddizione(e per ciascuna una mia disperazione)

Per il calore della notte sotto la coperta in treper il tanto che manca

e per il poco che c’è

Per le callose strette di magre, nobili maniper il gallo, gli asini, le capre e i cani

Per il villaggio, le capanne, i parenti miei e tuoiPer lo spirito del sicomoro,

il grano turco e i buoi

Perché cambi in fretta tutto,e perché tutto cambi in fretta...senza che nel vero cambi nulla,

poi però

Lorenzo Fontana (1980) è Architetto, vive e opera in Etiopia dal 2005. Lavora come ricercatore e come progettista-costruttore nel campo delle tecnologie ap-propriate, in collaborazione con diverse Organizzazioni Non Governative (CIAI, Progetto Continenti, SDCOM, LVIA, 13 Sunshine) ed Istituti Universitari (Facoltà di Architettura ed Ingegneria di Genova, Politecnico di

Milano, SUPSI di Lugano, Università di Hawassa).

L’Architettura è la rappresentazione dell’Uomo sul Territorio. Questo è più evidente nella cosiddetta Architettura Primitiva, in cui il linguaggio ancestra-le della capanna esprime ad un tempo l’universalità trascendente della Civiltà umana e la particolarità specifica di quel determinato gruppo sociale (etnia, clan, famiglia). Appropriarsi (o riappropriarsi) del linguaggio primordiale dell’architettura, attraverso una lettura critica e puntuale come quella proposta nel presente volume, è una grazia per il progettista, un potente sortilegio in grado di “vaccinarlo” dalle nefaste influenze di cattivi maestri, profeti di un fu-turo già passato, e di pessimi esempi, che troviamo in ogni pagina di ogni rivista di settore, cataloghi di

allucinazioni individuali.

...chi non sa comprendere uno sguardo, non potrà capire lunghe spiegazioni(proverbio arabo)