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«L’Alighieri» Rassegna bibliografica dantesca 15 - Nuova Serie 2000

Lezioni dantesche di Arturo Graf tra i manoscritti di Ferdinando Gabotto

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«L’Alighieri»Rassegna bibliografica

dantesca15 - Nuova Serie

2000

DirettoreAldo Vallone

Comitato scientificoIgnazio Baldelli, Italo Borzi, Patrick Boyde, Enzo Esposito

Robert Hollander, Mario Marti, Michelangelo PiconeLuigi Scorrano, John Scott, Achille Tartaro, Silvio Zennaro

Indexed in:IBZ - International Bibliography of Periodical Literature

IBZ - CD-ROM

I contributi dattiloscritti dei collaboratoridovranno essere accompagnati da un dischetto

con il testo memorizzato, definitivo e completo di note,e con l’indicazione del programma usato.

Amministrazione: A. Longo Editore - Via Paolo Costa, 33 - 48100 RavennaTel. 0544.217.026 Fax 0544.217.554

e-mail: [email protected]

Abbonamenti: c/o Longo Editore, Via P. Costa 33, 48100 RavennaAbbonamento 2000 Italia: L. 50.000 (due fascicoli annuali)Abbonamento 2000 estero: L. 66.000 (due fascicoli annuali)

Un fascicolo L. 30.000 (Italia), L. 40.000 (estero)I pagamenti vanno effettuati anticipatamente

con assegno, con vaglia postale,con versamento sul ccp 14226484

o con carta di credito (solo VISA o Mastercard)e intestati a Longo Editore - Ravenna

© copyright 2001 A. Longo EditoreAll rights reserved

Printed in Italy

Finito di stampare per A. Longo Editorenel mese di ottobre 2000

da Edit Faenza snc

15, Nuova Seriegennaio-giugno 2000

anno XLI

L’ALIGHIERIRassegna bibliografica dantesca

fondata da Luigi Pietrobono

Direttore Aldo Vallone

LETTURE E NOTE

Michelangelo Picone 7 Il corpo della/nella luna:sul canto II del Paradiso

Giovangualberto Ceri 27 L’Astrologia in Dante e la datazionedel «viaggio» dantesco

Emanuela Bufacchi 59 Lezioni dantesche di Arturo Graftra i manoscritti di Ferdinando Gabotto

Maurizio Palma di Cesnola 117 Teseo, Creonte e la morte di Tiresia(Inf. XX 58-59)

Willem M. Roggeman 127 Het praalgraf van Dante - La tomba di Dante(traduzione di Giorgio Faggin)

RECENSIONI 131 Dante Balboni, «La divina Commedia»,poema “liturgico” del primo Giubileo(Tullio Santelli)

SCHEDE 135 a cura di Emanuela Bufacchi, Enzo Esposito,BIBLIOGRAFICHE Sara Esposito, Valentina Pennacino, Tullio

Santelli, Luisa Sisti

EM A N U E L A BU FA C C H I

LEZIONI DANTESCHE DI ARTURO GRAFTRA I MANOSCRITTI DI FERDINANDO GABOTTO*

Un capitolo importante, ma poco frequentato, della produzione grafianaresta quello delle lezioni universitarie1. Assenti tra i volumi della ricca bi-blioteca del professore, dove Vittorio Cian aveva auspicato fossero conserva-te2, le dispense dei corsi di letteratura italiana tenuti dal Graf presso l’Ate-neo torinese riaffiorano alla luce sporadicamente, grazie al provvidenziale in-teresse di qualche antiquario o allo zelo di affezionati studenti. Al fondo pri-vato di un attento bibliofilo, quale fu Franco Antonicelli, appartengono duelitografie di lezioni grafiane, dedicate, rispettivamente, a Francesco Petrarcae al Quattrocento3; queste, affiancate a quelle su Giovanni Boccaccio e su

* Il testo che qui si riproduce è una rielaborazione di parte del lavoro di tesi su Il danti-smo critico di Arturo Graf svolto dall’autrice per il Dottorato di ricerca in «Studi storici diletteratura italiana» (Tutor: prof. Enzo Esposito).

1 Le testimonianze dei contemporanei non lasciano dubbi sul rilievo critico dei corsigrafiani. Con ammirata memoria ne parla Rodolfo Renier: «Ordinata e simmetrica era la suavita al pari delle sue lezioni mirabili, che si presentavano come un organismo chiuso. Egli lescriveva tutte le sue lezioni, sebbene avesse doti non comuni di parlatore improvviso; le scri-veva appunto perché le voleva sobrie, lucide, in tutto conseguenti e ben disposte, sì da riusci-re quasi opera d’arte» (Cenni su Arturo Graf uomo, «Nuova Antologia», a. XLVIII, vol. CL-XV, 1913, fasc. 996, p. 604). Per l’originalità dei contenuti li ricorda Vittorio Cian: «ognunodi quei corsi annuali era un vero e proprio lavoro originale, che gli assorbiva il meglio dellesue energie durante buona parte delle vacanze e dell’anno scolastico; un lavoro in cui peraltroil ricco materiale era atteggiato nella forma più adatta all’esposizione cattedratica ma senzaessere punto cattedratico» (Arturo Graf maestro, «Nuova Antologia», a. XLVIII, vol. CLXV,1913, fasc. 996, p. 610).

2 «[...] esse erano tanto coscienziosamente preparate e pensate, ch’egli soleva stenderlesulla carta tutte, dalla prima all’ultima; onde i suoi corsi si devono serbare fra le sue carte,che andranno, insieme con la sua pregevole libreria, ad arricchire la biblioteca della Scuola diMagistero annessa alla Facoltà torinese di lettere, alla quale egli volle, con nobile pensiero,lasciarle in dono» (V. CI A N, Arturo Graf maestro cit., p. 613).

3 A. GR A F, Lezioni di letteratura italiana del prof Arturo Graf raccolte dallo studente A.Timo, Torino, Tip. Lit. C. Giorgis, 1901, pp. 472; A. GR A F, Lezioni di letteratura italiana. IlQuattrocento, [s. n. t.] a.a. 1903-1904, pp. 326. I due volumi, di cui credo nessuno abbia se-

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Ludovico Ariosto, di cui è data notizia nell’edizione di Medusa curata da An-na Dolfi4, offrono un quadro parziale, ma significativo, degli interessi versocui dovette orientarsi l’impegno didattico grafiano5.

Tra gli argomenti trattati, anche l’Alighieri e la sua opera dovettero rive-stire un ruolo non secondario: Rodolfo Renier, commemorando l’operato deldefunto maestro, rammenta, infatti, più di un corso universitario su Dante6,inducendoci a ritenere che il pensiero grafiano sul poeta della Commediaavesse trovato più ampia e rilevante esposizione proprio durante i corsi uni-versitari. È lo stesso Graf, del resto, che, scrivendo all’amico triestino Vitto-rio Mendl, ricorda, fra i tanti, proprio un faticosissimo corso su Dante che«gli venne in fantasia di fare»7. Affidato alla sola testimonianza epistolare, èprobabile che quel corso, tenuto durante l’anno accademico 1899-1900, do-vesse costituire la prima parte di un’indagine unitaria su Dante, Petrarca eBoccaccio che avrebbe avuto seguito nei due anni successivi8. Tale progettodi studio non era nuovo al Graf che, come rivela9 l’inatteso e casuale ritro-vamento di un sostanzioso volumetto conservato presso la Biblioteca Civicadi Torino, aveva già tenuto lezioni su quello stesso argomento diversi anniprima. Il documento in questione riproduce in stampa litografata, la trascri-zione manoscritta, ad opera di Cesare Damilano e del più noto FerdinandoGabotto, del corso svoltosi durante l’anno accademico 1886-1887 e intitolato,come premette chiaramente il frontespizio, a Dante, Petrarca e Boccaccio10. Ilvalore del testo è degno di nota essendo da un lato, autografo, almeno in par-te, di uno storico piemontese di spicco quale fu il Gabotto11 e, dall’altro, te-

gnalato sino ad ora l’esistenza, sono attualmente conservati presso il Centro Studi Piero Go-betti di Torino. Della litografia d’argomento petrarchesco mi è nota anche la versione mano-scritta custodita nel fondo Flecchia della Biblioteca nazionale di Torino.

4 A. GR A F, Giovanni Boccaccio: lezioni di letteratura italiana, Torino, Lit. Bertero,1902, pp. 336; Dispense di letteratura italiana «Ludovico Ariosto». Lezioni fatte nella R. Uni-versità di Torino l’anno accademico 1904-1905, Torino, Lit. Gili, 1905, pp. 432 (cfr. A.GR A F, Medusa. Con un’appendice di memorie autobiografiche, cur. A. Dolfi, Modena, Muc-chi, 1995, p. XXIX).

5 Si veda a tale proposito il quadro delle lezioni grafiane offerto da Cian (Arturo Grafmaestro cit., pp. 607-609).

6 R. RE N I E R, Arturo Graf. Commemorazione, «Nuova Antologia», a. XLVIII, vol.CCLII, 1913, fasc. 1007, p. 484, nota n. 6.

7 Lettera di A. Graf a V. Mendl datata Torino, 26 giugno 1900 in A. GR A F, Lettere a unamico triestino, cur. Baccio Zilotto, Trieste, ed. dello Zibaldone, 1951, p. 212.

8 Come risulta dalle succitate dispense, i corsi degli anni accademici 1900-1901 e 1901-1902 furono rispettivamente dedicati a Petrarca e a Boccaccio.

9 Si ricordi inoltre la testimonianza del Cian che riferisce al biennio 1878-1879\1879-1880 un corso sull’Alighieri ed uno su Petrarca e su Boccaccio, precursori dell’Umanesimo(cfr. Arturo Graf maestro cit., p. 609).

10 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci secondo le lezioni delprof. Arturo Graf, Torino, Lit. Bonelli, 1886-1887, pp. 581.

11 Durante l’anno accademico in cui si svolsero le lezioni grafiane Ferdinando Gabottofrequentava l’ultimo anno di studi alla facoltà di lettere e filosofia dell’Ateneo torinese dovesi laureò nel luglio del 1888 con una tesi su Giason Del Mayno e gli scandali universitari nel

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stimonianza, inedita, della riflessione critica grafiana. Il corso, comprensivodi quarantaquattro lezioni, si compone, appresso a due paragrafi iniziali dipresentazione complessiva12, di venti sezioni d’argomento dantesco13; seguo-no le letture su Petrarca e Boccaccio presentate, insieme a quelle su Dante,

400, primo di una serie di saggi con i quali avrebbe rapidamente ottenuto la fama di serio co-noscitore dell’Umanesimo. Di quest’ampia e proficua attività storico-letteraria, che vanta unnumero complessivo di oltre settecento scritti, è data pressoché completa notizia bibliograficanel breve saggio commemorativo di Emilio Guasco Gallarati di Bisio (Ferdinando Gabottonel quarantesimo anno della sua morte 1918-1958, Alessandria, Tip. ITA di A. Cocito, 1958,pp. 13-46) al quale si rinvia anche per una prima informazione biografica e critica).

Indubbiamente il Gabotto si avvalse del consiglio grafiano nella scelta di alcuni argomentidi studio che lo occuparono negli anni ’80-’90, quali gli Appunti sulla fortuna di alcuni autoriromani nel Medio evo, Verona, Donato Tedeschi e figlio, 1891, pp. 74 (estr.: «Biblioteca delleScuole Italiane», III, 1891, 13). In essi il riferimento al contributo grafiano dato alla materiaè esplicitamente privilegiato: «Una trattazione sintetica egregia, specialmente per quanto ri-guarda le leggende, in GR A F Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medio evo, t. II,pp. 153-368, dove sono in ispecial modo studiati Virgilio, Cicerone, Catone, Orazio, Ovidio,Seneca, Lucano, Stazio, Boezio» (p. 4, nota n. 2, cfr. pp. 19, 28, 30, 34, 50, 51, 53, 60, 64 ).Alla formazione grafiana rimandano anche alcuni brevi contributi sui racconti medievali qualigli Appunti per la storia della leggenda di Catilina nel Medio evo (Torino, Tip. Roux, 1887,pp. 16; cfr. pp. 3, 4, 12); La leggenda di Merlino («Gazzetta popolare domenicana», V, 1887,32), ed, in particolare, la sezione del volumetto di Saggi critici di storia letteraria (Venezia,Tip. dell’Ancora, 1888), dedicata alle Leggende d’Oltretomba, dove, tra le fonti, oltre ai volu-mi su Roma, viene menzionato l’articolo Appunti per la storia del ciclo bretone in Italia e ilsaggio sulla Leggenda del Paradiso Terrestre (cfr. pp. 3, 11). Dall’insegnamento grafiano do-vettero essere sollecitati anche gli interessi maturati intorno alla commedia cinquecentesca acui è dedicata parte dei Saggi critici. I riferimenti sono rivolti agli Studi drammatici (cfr. p.159) e al volume sul Cinquecento (cfr. p. 245); apprezzati in particolare per le osservazionisulla Mandragola: «Macauly in poche righe, il Graf in un saggio critico stupendo, il Panzac-chi in una conferenza che precede la prima rappresentazione della Mandragola discorsero delMachiavelli, della sua comedia del Cinquecento» (p. 160). Ancora il Graf di Attraverso ilCinquecento (con il saggio Un buffone di Leone X) è uno dei principali referenti del più tardostudio su La epopea del buffone. Studio, (Bra, Tip. Stefano Racca, 1893, cfr. pp. 10, 24, 31,46, 55). Non di meno, le presenti lezioni offrirono spunto ad uno scritto dal titolo Il Marito diBeatrice. Studio (Bra, Tip. Racca, 1890, pp. 20). Nel breve studio su messer Simone de’ Bar-di, il riferimento al corso grafiano è esplicito (cfr. p. 13); ad esso il Gabotto ricorre per trova-re conferma alla tesi «che Dante nella vita privata non fosse affatto illibato, non fosse supe-riore ad ogni sospetto» (p. 14).

12 Rispettivamente intitolati: Cause del precoce risveglio letterario in Italia (pp. 1-15) eLa legge di ereditarietà nella Storia Letteraria (pp. 15-29).

13 Gli argomenti distintamente trattati durante ciascuna lezione si presentano ordinatinella seguente successione: La fortuna di Dante (pp. 29-46), L’ambiente religioso in cui sorseDante (pp. 46-60), L’ambiente filosofico e scientifico (pp. 60-75), L’ambiente letterario (pp.75-90), L’ambiente politico (pp. 90-105), L’ambiente morale (pp. 106-119), Il genio di Dante(pp. 119-133), L’indole ed il carattere di Dante (pp. 133-148), L’amore di Dante (pp. 149-162), La lirica di Dante (pp. 162-178), Il Convivio e la filosofia di Dante (pp. 178-194), Esi-lio di Dante, e sue cause (pp. 194-209), La politica di Dante (pp. 209-225), Le opere minori(pp. 225-240), [Commedia] (pp. 240-256), L’Inferno e Satana nel Medio Evo (pp. 256-269),L’arte di Dante (pp. 270-285), L’allegoria generale della Commedia (pp. 285-300), Allegorieminori (pp. 300-314), Beatrice ed il Paradiso Terrestre (pp. 314-328). Seguono quattordici le-zioni su Francesco Petrarca e otto su Giovanni Boccaccio.

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come trattazioni congiunte, ma in distinta successione. Tale disposizione na-sce dalla convinzione che i tre autori costituiscano «propriamente una triadeche, divisibile sotto un certo aspetto, è indivisibile sotto un altro» e dalla per-suasione che «lo studio collettivo», o meglio, con termine grafiano, compara-tivo, consenta di «distinguer meglio i caratteri specifici di ciascuno, le diffe-renze per una parte, per l’altra le somiglianze». In Dante, Petrarca e Boccac-cio, il critico rinviene la manifestazione di un «unico movimento letterario estorico»14 di straordinaria importanza perché espressione dell’‘‘inesplicabile’’precocità della grande arte italiana. Sarà la ricerca delle cause generanti talefenomeno, ricondotto ad un più «largo e complesso risveglio della vita arti-stica, civile e politico-economica»15, ad introdurre lo studio sui tre scrittori,così da vincolare preliminarmente l’indagine letteraria all’analisi storica. Trale diverse spiegazioni proposte («anzitutto i grandi, i mirabili ricordi dellaRomanità»16, quindi la natura stessa dello spirito italiano «più libero, piùspregiudicato e, per conseguenza, più pronto al rinascere, più destro, che glialtri»17, «la mancanza di unità»18, «la stessa lingua che fino dal principio sipresta strumento più acconcio ad una maggior perfezione»19) si evidenzia«un’altra ragione meno apparente, più recondita, ma non meno reale, nonmeno efficace, la quale comprende tutte le altre, una ragione di natura essen-zialmente diversa, che può essere enunciata con un solo vocabolo: la eredi-tà»20. L’osservazione, riguardante essenzialmente l’eredità fisiologica e stori-ca dell’antica latinità di cui avrebbe goduto, nel suo formarsi, la civiltà italia-na, manifesta, d’un lato, l’adesione grafiana ai ‘‘principi’’ del determinismostorico e anticipa, dall’altro, le conclusioni sull’importanza rivestita dallostudio dei classici per la comprensione dell’opera dantesca21, storicamente ri-condotta a matura manifestazione dell’età medievale:

l’età nostra incomincia veramente quando alla coltura Cristiano-cavalleresca suc-cede la coltura dell’Umanesimo: coll’Umanesimo incomincia l’Età Moderna. Ciòposto, Dante appartiene ancora al Medio Evo, ma il Petrarca ed il Boccacci apro-no la nuova età. Dante corona e compendia in sé il Medio Evo: il suo Poema nonsarebbe nato, se non fosse nato in tali condizioni: una delle ragioni del valore su-perlativo del suo Poema nasce appunto dal comprendere esso in sé tutta una

14 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., p. 2.15 Ibidem, p. 9.16 Ibidem, p. 12.17 Ibidem, p. 13.18 Ibidem, p. 13.19 Ibidem, p. 14.20 Ibidem.21 Del culto dantesco per l’antichità classica, specialmente per l’antichità Latina, si tratta

più estesamente nella diciannovesima lezione, dove ricorrono osservazioni su Virgilio, Stazio,Catone e, più in generale, sulla conoscenza dantesca degli scrittori latini, già esposte in Romanella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo. Con un’appendice sulla leggenda diGog e Magog, Torino, Loescher, 1881-1883, vol. 2, pp. XV, 464, 602 .

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grande età storica. Il Petrarca, per contro, è già un uomo dei tempi nuovi: Danteè ancora un uomo del Medio Evo, non del tutto, ma pressoché del tutto: il Petrar-ca è già quasi dentro all’età nuova, anzi lo è già senz’altro; ma talvolta si rivolgeancora indietro, e guarda con sentimento di venerazione e di paura al passato. IlBoccacci non ha ormai più tali scrupoli: il Boccacci è più moderno ancora chenon sia il Petrarca22.

Si preannuncia, da subito, l’importanza accordata all’esame dell’ambien-te, quale strumento prioritario per la conoscenza del poeta e quindi della suaopera:

Prima di studiare il poeta, prima di ricercare le fasi della vita sua, noi ci trovia-mo ancora dinnanzi un altro studio necessario, senza il quale quello del Poetanon sarebbe completo né sufficiente, ossia ci si impone lo studio di quello, che sidenomina con un vocabolo, cui i puristi non iscrivono, che sottolineato, e nonistampano, che in corsivo: voglio dire lo studio dell’ambiente. Di questo ambien-te si parla ora moltissimo: nei critici contemporanei c’è tutta una scuola, che tie-ne in gran conto l’ambiente, e sprezza coloro, che trascurano quel complesso dicondizioni e di fatti, per cui l’ambiente si forma23.

Trovava, così, applicazione quanto già teorizzato dal Graf, proprio a pro-posito dell’Alighieri, nella nota prolusione Di una trattazione scientifica del-la storia letteraria24, i cui principi esegetici sono chiaramente riecheggiatinel paragrafo riservato allo studio de L’ambiente letterario:

È necessario pertanto a studiare un grande ingegno, formarsi un esatto concettodell’ambiente, in cui questo grande ingegno è vissuto. Né alcuno trovi questocontraddire ad un’opinione molto divulgata, ma falsa. Noi siamo avvezzi a consi-derare gli uomini grandi come uomini, che sorgano e vivano quasi intieramentesegregati dalla vita, che loro si agita intorno. Ma questa non è che apparenza: igrandi spiriti appartengono all’età loro anche quando sembrano contraddirla, an-che quando si atteggiano a grandi avversarî della loro società. Un ingegno, perquanto grande esso sia, è per la massima parte foggiato dall’ambiente, perché daquesto ambiente riceve la sua educazione, ed un modo di percepire le cose, di cuipotrà spogliarsi in parte, in tutto mai − riceve i convincimenti della società, incui vive. Le energie dell’uomo d’ingegno sono sparse nell’ambiente, in cui eglivive: il grande ingegno in molti casi non è che un apparato condensatore, checoncentra in sé le sparse energie che foggia insieme meravigliosamente. E nonbisogna neppure credere, che un grande ingegno quando si senta già costituito ematuro possa sbrancarsi in tutto dalla società in cui vive, ed a cui appartiene: i

22 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 28-29.23 Ibidem, p. 47.24 Di una trattazione scientifica della storia letteraria. Prolusione al corso di letteratura

italiana letta nella R. Università di Torino il 28 novembre 1877 in Storia letteraria e compa-razione, cur. E. Ajello, Roma, Archivio Guido Izzi, 1993, pp. 134-135 (1aed.: Torino-Firenze-Roma, Loescher, 1877).

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grandi ingegni partecipano poco alla natura esteriore di questa società, ma parte-cipano tanto più alla natura profonda e latente della società in cui si svolgono.[...] non bisogna farsi un falso concetto di Dante, ed esagerarne le lodi: Dantenon è un novatore, anzi è un retrogrado: il che sembra una grave accusa, e non laè, perché senza di ciò la Divina Commedia non sarebbe nata25.

Tale stringente dipendenza del poeta dall’ambiente, ribadita anche l’annosuccessivo in polemica con la tesi sostenuta da Emilio Hennequin ne La cri-tica scientifica26, veniva precisata poco oltre e, al contempo, ridimensionata:

Noi abbiamo veduto quale fosse l’ambiente prima di Dante, e quale ai tempi dilui. Non c’è nella vita intellettuale e morale di lui un aspetto, in cui non si riflettaun lato di quell’ambiente, che si cercò di tratteggiare e descrivere. Dante è il pro-dotto di quelle energie, di quella vita tutta intera: egli non sarebbe, se non avessedietro di sé una lunga tradizione che egli compendia e riassume in una forma sin-tetica, cui il tempo non poté e non può cancellare. La dottrina di Dante varia edestesa, gli ideali suoi, il modo di concepire la passione d’amore, l’arte sua stessa,ciò, che in lui sembra essere più proprio e personale o per l’una o per l’altra viasi può ricondurre a pensamenti, a rivolgimenti di quel mondo, a cui appartiene.Dante è come uno di quei grandi specchi concavi, che ricevono su di sé la lucedel sole e la riflettono con somma intensità27.

La metafora dello specchio che riflette, ma al tempo stesso, intensifica laluce del sole, lascia trapelare l’esigenza di sottrarsi alla prospettiva cieca-mente deterministica dei cultori del milieu, decisamente smentita dalla suc-cessiva riflessione sull’originalità del genio dantesco:

Fuori dell’azione dell’ambiente, al di là di questa azione v’è ancora qualche cosa:Dante reca qualche cosa, che gli è propria, che lo distingue come personalità, chelo separa da tutto ciò, che lo circonda. Questo qualcosa di originale, che Dantereca con sé è il suo genio28.

Dallo studio dell’ambiente l’attenzione si sposta, così, sull’individuo,esaminato, non attraverso i dati esterni della biografia, quanto piuttosto nellepeculiarità dell’indole e del carattere:

non mi pare dovermi soffermare su molte particolarità, che essa [la biografia] of-fre, su molte incertezze e punti oscuri e discussi. Questa indagine è lavoro ditroppa lunga lena, e molte questioni sono anche vane, come quella, che si fa sulladata precisa della nascita di Dante. Io rivolgerò l’occhio alla formazione del ca-

25 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 50-51, 118.26 Cfr. A. GR A F, Questioni di critica, Torino, Loescher, 1889, pp. 16-17 (estr. da: «Atti

della R. Accademia delle Scienze di Torino», XXIV, 1888-1889, disp. 8, pp. 424-25).27 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 119-120.28 Ibidem, p. 120.

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rattere di Dante, prendendo a considerare alcuni punti, alcuni avvenimenti princi-pali della sua vita29.

Ponendo da parte gli interrogativi sui singoli dati biografici, verso i quali sierano rivolti con eccessiva acribia i cultori dell’indagine storica, Graf sceglie-va di soffermarsi sugli avvenimenti importanti della vita del poeta («come l’a-more, l’esilio da Firenze, e la vita trascinata poi lungi dalla patria»30) mirandoa tracciare un ritratto della personalità sulla base delle notizie rinvenibili nel-l’opera, ritenuta la principale e più attendibile testimonianza dell’autore:

Anzitutto noi dobbiamo porgere attenzione a ciò, che egli stesso dice di sé, la suatestimonianza è più importante, che quella, assai scarsa, de’ contemporanei. No-tando certi luoghi delle sue opere, specialmente della Divina Commedia, si pos-sono raccogliere le testimonianze, che Dante porta di sé31.

L’esercizio alla storicizzazione delle informazioni, che spiega anche il ri-lievo attribuito al testo quale, pur come opera d’arte32, primo, affidabile, do-cumento della vita e dell’animo del poeta, acquistava una particolare impor-tanza nell’analisi delle singole opere, in quanto consentiva di vagliare, ricon-siderare, talvolta smentire l’attendibilità di diffusi giudizi sull’originalità dan-tesca. Vengono così ridimensionate opinioni correnti, ma infondate, sul Con-vivio:

Antitutto questa osservazione generalissima: noi non dobbiamo cercar nel «Con-vivio» ciò che nella mente di Dante stesso non era: non bisogna cercare in Danteun pensatore originale, e nelle opere sue filosofiche novità di dottrine. Questopotrà parer strano a chi abbia questo convincimento, che Dante anche in filosofiaabbia veduto assai più lontano, che gli altri uomini del suo tempo; ma questa èun’opinione errata. È inutile cercare in Dante un filosofo, un pensatore originale;non si devono cercare nelle sue opere dottrine nuove33.

Con analoga determinazione è, poi, avversato l’ingiustificato apprezza-mento espresso dallo Stoppani a proposito della Quaestio:

Non bisogna però esagerarne il merito, come fa lo Stoppani, che vi scrisse intor-no un’apposita dissertazione. Per lo Stoppani Dante non solo avrebbe trattatol’argomento con molta dottrina, ma presentite ancora molte verità, messe in sodonei tempi moderni: che di questi presentimenti e di questi accenni ve ne siano: ècerto, ma non bisogna farne un merito speciale di Dante. Il sapere di Dante è

29 Ibidem, p. 132.30 Ibidem, p. 133.31 Ibidem, pp. 133,134.32 L’equivalenza, stabilita dal Graf, tra poeticità e sincerità espressiva, su cui avremo

modo di tornare nelle pagine successive, rende ragione dell’attendibilità accordata, dal criti-co, alle informazioni ricavabili dal testo artistico.

33 Ibidem, pp. 179-180.

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quello del tempo suo, ma egli ha il sapere, la scienza più larga [...]34.

È ancora un confronto storico, operato tra la Commedia e gli antecedentiprodotti del genere letterario delle visioni, a smentire l’opinione di coloro chevorrebbero ridurre la Commedia a mera opera di imitazione:

La visione di Alberico ha molta rassomiglianza colla Divina Commedia e si èdubitato che Dante ne avesse tolte idee rimanendo così offesa la sua originalità.Dante non imitò alcuno, né la sua originalità rimane menomata. Egli doveva leg-gere ed esaminare quelle visioni, che erano comuni alla coscienza cristiana. Datoche avesse fatto ciò, egli ne ricorda parecchie, e certamente le conobbe: può darsianche che ne abbia tolta qualcosa. [...] La satira e la Storia danno al poema mag-gior grandezza degli altri. Durante tutto il Medio Evo si parla dell’argomentodella Divina Commedia e si imita immensamente, e si intende come facessegrande impressione indipendentemente dal suo valore letterario e poetico.

Se la Divina Commedia ha non pochi punti di contatto con le Visioni del Me-dio Evo, per molti aspetti ancora se ne diversifica. Nelle Visioni ora è il senti-mento religioso, che domina, ora l’interesse politico, ora il concetto satirico. Cer-to nella Divina Commedia noi troviamo tutto ciò ma bisogna pur dire, che la Di-vina Commedia, se tali cose contiene, non ne fa il suo scopo principale: la Divi-na Commedia è soprattutto, essenzialmente opera poetica35.

Le qualità poetiche della Commedia erano così stabilite non sulla base diun soggettivo giudizio di valore, ma attraverso l’esercizio dell’analisi compa-rativa «nella quale [il Graf] era veramente maestro, soccorrendolo la stermi-nata coltura e la conseguente copia di accostamenti felici»36. Il rilievo asse-gnato all’indagine storica e alla comparazione, quali strumenti di valutazioneestetica veniva, poi, confermato dalle osservazioni esposte a proposito dellaVita Nuova. Il vigile esercizio della coscienza storica permetteva di smentireil pregiudizio critico su cui si era fondata la nota ‘‘stroncatura’’ desanctisiana:

In questo libro si trovano molte stranezze, visioni e simboli in copia, sofistiche-rie, pedanterie scolastiche parecchie, che certo ad un lettore moderno fanno assaicattiva impressione, luoghi pieni di astruserie scolastiche accanto ad altri in cui ilpoeta effonde liberamente l’animo suo. Ma noi non dobbiamo giudicare Dante daquesto, perché il nostro modo di concepire ha fatto molte mutazioni, perché èmutato tutto l’ambiente in cui viviamo, nella «Vita Nuova»: assai difficilmenteDante avrebbe potuto escludere certe cose dall’opera sua: per esempio, egli abusòdella visione e del simbolo; ma tutta la Divina Commedia non è altro che unagrande visione, e la visione è un fatto vero e reale di quella vita, fatto vero e rea-le nel senso, che molti credevano aver veduto nel rapimento e nell’estasi coseche veramente non avevano vedute. Ai sogni allora si credeva in una certa misu-ra, si credeva che la divinità se ne servisse per far conoscere all’uomo cose, che

34 Ibidem, p. 235.35 Ibidem, pp. 268, 269, 270.36 V. CI A N, Arturo Graf maestro cit., p. 613.

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diversamente non avrebbe potuto conoscere. Bisogna tener conto di questa cre-denza, se si vuol fare del procedimento tenuto dal Poeta un giusto giudizio. Cosìsi può dire dei simboli; tutto quel simbolismo ci spiace; ma il simbolo allora erauno dei mezzi a noi consueti della significazione del pensiero; allora tutto è sim-bolo di qualche cosa, che trascende il contingente, il presente, il reale. Ho dettogià che cosa Beatrice divenga nella fantasia del Poeta; non è soltanto la donnaamata, ma colei, che fa lui capace di quanto fa: è il simbolo d’ogni purezza ed’ogni virtù. Beatrice nella mente del Poeta cresce a dismisura e si compenetracon quanto è nel mondo di più sublime e di più recondito: è noto ciò che Beatricedivenne poi nella Divina Commedia: quasi una dea: sentendo un amore a questomodo, bisogna poi naturalmente, che se ne risenta tutta la storia di questo amore,tutta la descrizione di questa donna. Se Beatrice stessa finisce per risolversi nelsopprasensibile, bisogna bene che la storia dell’amore, che lei aveva ispirato, ri-corresse alla visione. Così rimane giustificata dal punto di vista della relativitàanche per questa parte l’opera di Dante, la forma della sua «Vita Nuova [»]: ilpoeta era condotto da cause quasi irresistibili a tener questo modo e non un altro.Ad ogni maniera c’è nella «Vita Nuova[»] un sentimento vivo e profondo. Dantenon si potrà sottrarre all’influenza di certe tendenze, di certe discipline a cui egliattese lunghi anni; ma in lui c’è un sentimento vero e reale, che scoppia di quan-do in quando, e allora il poeta scrive pagine mirabili37.

La rilettura storica dell’opera impedisce la condanna della forma in cuiessa si presenta, ma non libera il giudizio di valore da una preconcetta equa-zione tra veridicità di sentimento e poesia. Alla luce di un tale criterio esteti-co la qualità poetica della Vita Nuova emergerebbe solo laddove il sentimen-to si presenta più «vero e reale». Da qui anche la svalutazione della liricadantesca, destinata a smentire i presupposti teorici esposti nei noti versi diPurg XXIV:

E qui [Purg. XXIV 52-60] allude a quella, che a Bonaggiunta, cioè, in questo caso,allo stesso Dante, sembra esser stata causa prima della superiorità della nuova poe-sia; il dittatore, colui che detta, qui è Amore, ispiratore d’ogni poeta. Questi poetidel «dolce stil nuovo» furono più ispirati, che i poeti della scuola antica. Dante siriduce quasi nella condizione di un semplice interprete, che non fa che rivestire diparole, di suoni ciò che per virtù d’amore gli si muove nell’animo. Ciò, che Dantedice qui in poche parole si risolve in questo, che il sentimento e l’ispirazione si ri-conoscono oramai quali fonti supreme e vive della poesia: e con ciò si viene a con-fessare tutto un passaggio, tutto un opposto indirizzo, tutta una poesia, che nasceda un’altra tradizione. Per Dante e per quelli, che insieme con lui appartengono aquesta scuola, che Bonaggiunta Urbicciani chiama «del dolce stil nuovo» la poesianon è più un’arte d’intarsio, non consiste più nel mettere insieme frasi ben fatte,ma è qualche cosa di vivo che deve naturalmente sgorgare dall’amore.

Quì abbiamo dunque non solo una riforma, ma un rivolgimento, una rivolu-zione che, se si non si compie, si accenna; ma bisogna poi vedere che cosa nellapratica di questa poesia si rechi in atto.[...] Dante come poeta lirico non può dun-

37 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 174-177.

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que essere giudicato un grande innovatore, in lui troviamo quella psicologia arti-fiziosa e convenzionale, che non sa fare la storia della vita anteriore, senza ricor-rere a certi espedienti di cattivo gusto, che erano proprî di tutta la Scuola del«dolce stil nuovo». Dante ricorre come tutti questi poeti alla personificazione:egli fa movere gli affetti, i sentimenti, come altrettante persone: tutto ciò per noiè noioso e stucchevole; ma bisogna pensare, che allora era, se non impossibile,certo tuttavia assai difficile fare altrimenti, attingere la vita piena e reale dellospirito, descriverla, narrarla, senza ricorrere a questi espedienti. Troviamo dun-que in Dante tutta la solita psicologia, i soliti simboli, tanto più necessari quantopiù l’amore non si considerava ormai più come cosa umana ma come qualche co-sa che trascendeva, che eccedeva oltre l’umanità e la donna amata si consideravacon forme eguali a quelle con cui si considerava l’amore. La scuola del «dolcestil nuovo» per questa parte, invece di correggere i difetti della scuola preceden-te, li aggrava, perché introduce nell’amore l’elemento filosofico: il pensiero poe-tico, che aveva per oggetto l’amore, doveva diventare sempre più astruso e cade-re nella sofisticheria scolastica: tutto ciò abbiamo in Dante, cosicché in genere sideve dire, che Dante nelle sue liriche, non esce dalla sua scuola e non dà ancoraprove di quella somma potenza d’ingegno, che mostrò poi nella Divina Comme-dia. Diciamo «in genere» perché talvolta lascia già intravedere, esprime nelle sueliriche sentimenti di squisita delicatezza, immagini vive e smaglianti, versi checolpiscono; s’intravede come sotto un velo, il poeta della Divina Commedia38.

Il giudizio negativo che grava sulle personificazioni, i simboli e, più ingenerale, sulle «sofisticherie scolastiche» della lirica dantesca si estende an-che alla Commedia:

Nella Divina Commedia sono molto frequenti i luoghi, in cui la poesia quasi sidibatte sotto il lavorio angoscioso della disquisizione filosofica e di un pensieroscolastico, e questi certo non sono i tratti più belli della Divina Commedia, equasi vorremmo non trovarli; ma questi luoghi sono ricomprati da tanti altri, chesono i più ricordati, i più celebri, dove il Poeta dimentica qualsiasi erudizione,non pretende più investigare di filosofia, ma sente, e quel che sente dice. Gli epi-sodi di Francesca da Rimini, del Conte Ugolino ed altri non hanno bisogno di es-sere ricordati39.

Se alla base di questa opinione opera certamente una reminiscenza desan-ctisiana, non c’è dubbio che in essa possa scorgersi l’effetto di una più perso-nale coscienza estetica che nega valenza artistica a quanto non sia espressio-ne genuina della vita interiore del poeta:

Per riuscire gran poeta bisognava che fosse altro in lui: il fondamento principaledel poeta in Dante, è la natura stessa di Dante, è l’ingegno di Dante, è l’anima diDante. A questo proposito ricorderò i versi del Canto XXIV del Purgatorio, incui dice:

38 Ibidem, pp. 164, 165, 167, 168, 169.39 Ibidem, p. 140.

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«Io mi son un, che, quandoAmore spira, noto, ed a quel modoChe detta dentro vo significando» [vv. 52-54]

Da queste parole appare che il poeta non fa che abbandonarsi all’ispirazione: quìegli non parla d’imitazione o di studio, ma di qualche cosa, che si muove dentrodi lui: il poeta non cura altro che l’organo, che scrive ciò, che questa virtù internagli viene dettando. Con queste parole Dante rinunzia a tutto ciò, che vi può esse-re di artificioso, di mutuato da altrui, di ciò, che può essere messo insieme presoad imprestito da altri: egli fa precipua fonte della sua poesia questa vita interioreformata di tutto ciò, che il mondo, come spettacolo, viene presentando all’animonostro, e di ciò, che nell’animo nostro si viene agitando per virtù dei pensieri edei sentimenti nostri40.

La «vita interiore» considerata non come puro lirismo, ma complessa in-teriorizzazione del mondo, trova compimento nella Commedia:

basta aprire un cantico solo del suo poema per vedere come lo spettacolo delmondo esterno gli si rispecchi nell’animo41.

In questo processo di «rispecchiamento», al quale viene riconosciuto ilvalore sommo di creazione42, trovavano perfetto compimento i principi diun’estetica moderna enunciati dal Graf sin dagli anni del soggiorno romano.Nel 1875, in occasione di un vivace convito al caffè del Parlamento, ricorda-to nelle lettere al Mendl, il Graf aveva esposto le qualità di una poesia sog-gettiva «antropomorfizzante», del tutto simile a quella poi rinvenuta nellaCommedia:

Il Marchese [Marchese Pallavicino] sosteneva che il poeta non deve essere altroche uno specchio, il quale riceve e fedelmente rimanda le immagini che dalla na-tura vengono a riflettersi in lui: io sostenevo che la poesia deve principalmenteinformarsi di soggettività, che pel poeta la natura è una simbolica, ch’egli divi-nizza, l’amplifica, l’antropomorfizza, la inviluppa di sé, c’imprime il propriosuggello; sostenevo inoltre che poetica non vi può essere senza mitologia, nonpiù mitologia greca e romana, intendiamoci, ma mitologia nuova, quale i tempila possono consentire43.

Il riferimento ad una soggettività che «inviluppa» in sé la natura, percepi-ta come simbolica44, così come il riconoscimento della poeticità di una «mi-

40 Ibidem, pp. 280-281.41 Ibidem, p. 245.42 Ibidem, p. 246.43 A. GR A F, Lettere a un amico triestino cit., p. 12.44 Il Cesareo ha illustrato chiaramente questo aspetto della poesia grafiana: «[..] la stessa

legge vale per i simboli. L’intelletto che, come avvertimmo, prevale sul sentimento, istintiva-mente coglie i riscontri fra l’interno e l’esterno, fra l’anima e l’universo; e in una visione, in

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tologia nuova» dimostrano che il Graf non intende negare valore poetico allaretorica o alle componenti filosofico-erudite in quanto tali, ma, piuttosto, aquegli elementi imposti da una, pur inevitabile, «soggezione» al pensiero deltempo e dunque esterni all’intimo convincimento del poeta. La «cerchia an-gusta del dogma»45, in cui il critico vedeva arenarsi la presunta originalità delConvivio, finiva, così, per soffocare la poeticità della Commedia, non inquanto elemento in sé impoetico, ma perché estraneo all’interiorità del poe-ta46. La precisazione non comportava una semplice distinzione tra sinceritàsoggettiva e artificiosità imitativa, ma coinvolgeva una valutazione prima cheestetica, morale. Il giudizio di impoeticità che grava sui versi segnati dall’as-soggettarsi del poeta ai vincoli teologici-filosofici del suo tempo senza cheegli, almeno nella convinzione del critico, li condivida intimamente, riflette,infatti, l’insofferenza grafiana per la morsa stringente delle convenzioni, edunque la condanna per quanto venga prodotto dall’ingerenza di essa.

La lettura di Dante ci appare, così, strettamente congiunta e, dunque, vin-colata ai più generali principi estetici del Graf poeta, non meno che alle in-quiete riflessioni esistenziali dell’uomo. Il distacco con il cui il critico avevainiziato ad analizzare storicamente l’oggetto della sua indagine sembra affie-volirsi man mano che il rapporto con il testo dantesco diventa più diretto; ilgiudizio di valore finisce inevitabilmente per essere guidato dai principi teoricidel poeta che legge un altro poeta, così come le scelte citazionali, gli exempladalla Commedia, selezionati dal professore per i suoi allievi, non possono nontradire le preferenze dell’artista, suggerendoci frammentarie fonti dei suoi ver-si. È in particolare la capacità descrittiva manifestata da Dante nella raffigu-razione dei paesaggi, ad affascinare maggiormente il Graf che vi ritrova quelparticolare sentimento della natura a cui la sua stessa arte aspira:

E Dante ancora ha nell’ingegno suo una qualità, che va congiunta con queste: gliuomini di sottile ingegno, nati alla filosofia, hanno i sensi poco aperti alla con-templazione diretta, immediata della natura: per contro quale contemplatore dellanatura è Dante! Non è in tutto il Medio Evo chi veda la natura con occhio cosìinnamorato, chi abbia il senso così aperto a tutte le impressioni del bello, della

una leggenda, in una favola, in una qualunque immaginazione oggettiva il poeta vede riflesso,e per tal guisa la mostra altrui, la propria anima. Tale è l’uso che fanno dei simboli i veripoeti: la realtà oggettiva è elaborata dalla fantasia con piena libertà e indipendenza; salvo cheil poeta ricolorandola, com’è suo diritto, del proprio sentimento, le dà quasi un’altra signifi-cazione e più profonda e più intera» (G.A. CE S A R E O, Arturo Graf, in Critica militante, Mes-sina, Trimarchi, 1907, p. 115).

45 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., p. 183.46 Con una tesi del tutto analoga Luigi Russo intenderà superare la frattura crociana tra

poesia e non poesia: «non la dottrina opprime e falsifica l’arte, ma la dottrina che mancad’impeto di freschezza, di originalità» (L. RU S S O, La critica dantesca e gli esperimenti dellostoricismo, in La critica letteraria contemporanea, vol. II: Da Gentile agli ultimi romantici,Bari, Laterza, 1946, pp. 9).

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forma, che abbia così il gusto dell’arte47.

È la contemplazione della natura che consente di avvicinare Dante aipoeti moderni, tanto che, in occasione della poco nota conferenza su La mo-dernità di Dante48 tenuta presso la Società dantesca di Milano, nel gennaiodel 1897, Graf ricorderà i «mirabili versi che dipingono il tramonto» dellaprima terzina di Pur. VIII, come esempio di «poesia non mai intesa fino allo-ra, e così vivamente sentita ed espressa dai moderni»49. L’Alighieri diventerà,allora, un modello esemplare di quel «sentimento vivo della natura», ricono-sciuto dal poeta novecentesco come elemento non secondario della poesiamoderna e della sua stessa poesia:50

Dante ha ancora un sentimento vivo della natura: egli contempla la natura da ve-ro osservatore, ne scorge anche gli aspetti che più facilmente sfuggono a chi lacontempla più distrattamente, e di quì l’evidenza di certe sue descrizioni, di certeimmagini, di certe comparazioni. E riesce felicissimo: in qualunque forma egliprenda a trattare, in qualunque forma esso si cimenti, mostra sempre questa suavirtù poetica: potentissimo nelle narrazioni, come nelle due accennate, potentissi-mo nelle descrizioni come in quella di Gerione, in quella difficilissima, della tra-sformazione dei ladri morsi dai serpenti infernali, come nella descrizione del Pa-radiso Terrestre, di quelle pitture e scolture che il Poeta incontra nel Purgatorio,è pieno di [abilità] nelle descrizioni, che incontriamo nel Paradiso, che sono cer-tamente le più difficili, nel modo, con cui egli ha concepito quel mondo eterno efatto tutto di luce e di candore. Basterebbe questo solo fatto di vedere, come eglisia insuperabile nel costrurre questi due mondi così diversi come l’Inferno ed ilParadiso, per riconoscere la potenza descrittiva di Dante51.

Non c’è dubbio che quelle immagini, nelle quali il critico indicava la mi-gliore riuscita della potenza descrittiva dantesca esercitassero un’influenza

47 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 140-141.48 Di questa lettura completamente ignorata dalle bibliografie, ma ben documentata dalla

corrispondenza privata (cfr. C. AL L A S I A, «Gli studi cari ad entrambi»: lettere di Arturo Grafa Francesco Novati, «Giornale storico della letteratura italiana», a. CXI, vol. CLXXI, 1994,fasc. 554, pp. 254-255), resta testimonianza nel sunto pubblicato da Arturo MA G N O C AVA L L Osul «Giornale dantesco» V, 1898, pp. 91-92.

49 A. MA G N O C AVA L L O, Conferenze e letture dantesche a Milano cit., p. 91.Una breverecensione uscita sul «Corriere della Sera» riferisce similmente le parole di Graf :«E Dante èmoderno nel godimento della natura per sé stessa e nel saper significare i sentimenti che essasuscita in noi; è moderno nel grande spirito di osservazione, qualità che non era certo deitempi della scienza tradizionale e compilatoria» (Alpinus, La modernità di Dante. Conferenzadi Arturo Graf, «Corriere della sera» (Milano) 25-26.I.1897).

50 Il Cesareo, che riconobbe al Graf poeta il merito di essere un «sensitivo emozionale»,evidenziò l’attenzione riservata da questi alle descrizioni naturali nelle quali vedeva rispec-chiarsi «una nuova figurazione del sentimento ond’è afflitto il poeta». (G.A. CE S A R E O, Artu-ro Graf, in Critica militante cit., pp. 110 e sgg.).

51 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 283, 284,285.

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del tutto particolare sul poeta diventando da esempi caratteristici di potenzadescrittiva, suggestive fonti di ricreazione poetica. È il caso della descrizionedi Gerione che suggerisce alla potenza fantastica dell’autore di Medusa unospunto per il plastico movimento del battello infernale di Speranza:

Di mezzo all’onde morte una gran rupedi livido basalto alza le terga,e orribil mostro par che dalle cupeprofondità voraginosa emerga

Lì, bilicato sulla pietra bruna,si leva un brigantin; nessun sa dondevenuto e come, né per qual fortunalassù lanciato dal furor dell’onde52

Ma è poi la rappresentazione dantesca del Paradiso Terrestre, già ricorda-to tra gli esempi di maggior rilievo descrittivo, e nuovamente menzionato aproposito dell’incontro tra Dante e Beatrice53, ad ispirare al poeta di Dopo iltramonto i versi di Resurrexit. Sullo sfondo di un paesaggio, più che edenico,purgatoriale, domina la figura implacabilmente severa della Beatrice di Purg.XXX:

Oh come bella e contegnosa, oh comeEra pura e gentil, cinta d’un lieve,Immacolato lin, sparse le chiomeDi luci d’oro sopra il sen di neve!Le sembianze le ombrava una serenaMelanconia che le facea più belle:Non era il riso suo cosa terrena,Brillavan gli occhi suoi come due stelle.

Di me s’avvide, e con benigno risoDisse: Credevi tu ch’io fossi morta?Onde tanto stupor? Guardami in viso:

52 A. GR A F, Medusa, cur. A. Dolfi, cit. pp. 19-20.53 Nel capo XXX del Purgatorio Dante descrive e narra il suo incontro con Beatrice: è

uno dei tratti più importanti e più belli, intorno a cui si sono affaticati molti ingegni di com-mentatori. Beatrice fa tanto più amorevoli rimproveri a Dante per essere uscito dalla rettavia, quanto, per dichiarazione della stessa Beatrice, egli Dante, aveva più alto intelletto, equindi maggior f[a]cilità di mantenersi nella via del bene, da cui molti escono, ma trovano lascusa nella pochezza loro. Beatrice adunque dice di Dante queste parole:

Questi fu tal nella sua vita nuovaVirtualmente, ch’ogni abito destroFatta averebbe in lui mirabil pruova [vv. 115-117]

Parla Beatrice, ma è Dante che la fa parlare (F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrar-ca e il Boccacci cit., p. 130).

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Se morta fui, mira che son risorta.

E veggendomi star muto e sospesoCom’uom cui falso immaginar disvia,Soggiunse: Hai dunque l’intelletto offeso,Che non conosci più la Poesia?

Guardami: io quella sono; io son coleiChe tu fanciullo amavi già d’amore:Io quella sono, e tu pur quello sei,Che per età non hai mutato core.

Io quella, io quella son; se a mente l’haiUnica amica tua salda e verace,Io le lacrime tue vidi e asciugai;Io sola diedi a quel tuo cor la pace.

E il dì ch’ultimo a te segni il destino,E ponga fine al viver tuo dolente,Io sola, io sola ti sarò vicino,Io chiuderò le tue pupille spente.

Com’ebbe detto, un luminoso e blandoFior mi donò, figlio d’ignoto suolo;E l’ali caldissime spiegando,Per l’aria immota si prosciolse a volo.

Io la vedea salir, cinta da un nemboDi roseo lume, angelicata e pura;E salendo lentissima, dal gremboVersava fiori sulla terra oscura.

E com’eccelsa fu, sovra le terseAli ristette e salutarmi parve;Poi nella tetra nuvola s’immerseFolgoreggiando a guisa d’astro e sparve.

Pure in alto io mirava, e in suo vïaggioLei seguia col pensier: dall’orizzonteSpuntava in quella il sole ed il suo raggioFervido e chiaro mi feriva in fronte54.

54 A. GR A F, Le poesie, Torino, Chiantore, 1922, pp. 248-250. L’apparizione di donnaPoesia rimanda immediatamente alla Beatrice della Vita Nuova; in primo luogo gli attributiusati nella prima quartina (pura e gentile) richiamano il dantesco gentile ed onesta (sì adornae si pura, V.N. XIX 11; novo miracolo e gentile, V. N. XXI 4); così come l’Immacolato linriprende la veste di colore bianchissimo di V.N. III 1 (bianchissime vestimenta XII 3), fino alparagone che chiude la seconda quartina Brillavan gli occhi suoi come due stelle variazionedel noto verso di Inf. II 55 (Lucean li occhi suoi più che la stella). Su gli ultimi canti del Pur-

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Non c’è dubbio che il tema della Beatrice dantesca eserciti sull’animo delpoeta un fascino del tutto particolare. L’insolita determinazione con cui il cri-tico, di solito reticente a prendere posizione nelle «questioni irrisolte», mo-stra di aderire alla tesi danconiana del realismo della «gentilissima»55, attestauna singolare predilezione per l’argomento; confermata, del resto, dalle deli-cate riflessioni sul ruolo dell’amore nella poesia dantesca:

L’amore per Beatrice imprime nella vita del Poeta un carattere, che le inevitabilitraversie e tutti gli avvenimenti posteriori non cancellano più: è da questo suoamore che gli viene l’alta, invincibile idealità, che lo accompagna in tutta la suavita: egli non esagera quando invoca Beatrice: essa è divenuta per lui la sua veraMusa, la sua divinità, da cui fa venire tutti i benefizi di cui egli si loda e si glo-ria. Beatrice è il soggetto nel quale l’anima ardente del poeta, togliendole in so-stanza da sé, viene raccogliendo tutte quelle virtù e tutte quelle qualità, che lafanno poi tale, quale egli la loda e la esalta. Ad ogni modo è Beatrice, che fa dilui quel poeta, che, come sente dentro, così viene significando56.

Per comprendere a fondo la natura di questa sottile introspezione criticasarà forse utile ricordare alcune acute osservazioni di Carlo Calcaterra:

Quand’anche prescindiamo dal delicatissimo romanzo Il Riscatto, che finisceproprio con il riconoscimento della potenza redentrice e riparatrice dell’amore, edalla chiusa del poemetto Il Laberinto, che mostra essere la Fede, la Speranza el’Amore il più possente viatico spirituale per superare i maggiori perigli; quan-d’anche si dimentichi che il poemetto La risurrezione di Lazzaro chiudesi con uninfiammato incitamento al più generoso e fervido amore umano e che lo scrittoL’Amore dopo la morte termina con l’affermazione non dubbia che «l’Amore èpiù forte d’ogni cosa», certo è che tra le pieghe più profonde e più gelose di quelcuore ferito è celato lo strazio acerbissimo, da lui provato per un’Amatissimaperduta, che egli per tutta la vita invano cercò di dimenticare. Di tratto in trattoquel lacerante ricordo ritorna nel funebre canto, in cui piangesi la vanità d’ognicosa, come un grido dell’anima.

Che hai fatto di quell’amore(anche il ricordo n’hai spento?)che già t’aveva redentodalla colpa e dall’errore?

No quell’amore mai non si spense, anche quando egli più bestemmiò la vita e

gatorio si costruisce quindi la sezione dialogica. Le riprese lessicali tradiscono un confrontodiretto con il testo dantesco: Veggendomi star muto e sospeso (tutto sospeso, E disioso ancoraa più letizie, Purg. XXIX 32-33) Com’uom cui falso immaginar disvia (Imagini di ben se-guendo false, Purg. XXX 131, Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar, Par. I 88-89), Guar-dami: io quella sono; io son colei (Guardami ben: ben son, ben son Beatrice, Purg. XXX 73).

55 Cfr. F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., p. 149.56 Ibidem, pp. 246-247.

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con disperate negazioni più si sforzò di stordirsi e di dimenticare, anche quandogli parve di aver ormai mutato il suo cuore in pietra57.

C’è da supporre che quell’amore «non si spense» nemmeno di fronte allalettura critica della Beatrice dantesca, ma anzi ispirò, in grazia di una parteci-pazione del tutto personale, le parole di una suggestiva interpretazione del li-bello dantesco, lasciandoci un saggio significativo di quelle «rivelazioni» chenelle sue «più belle lezioni» il «Graf poeta faceva di un poeta»58

Beatrice poi è presente per un sentimento tutto particolare, che influisce in tuttaquesta poesia amorosa di Dante: tutta questa poesia di Dante è informata ad unpresentimento della fine prossima, immatura di Betrice stessa. Donde questo pre-sentimento potesse venire, Dante non ci dice, e non ci dice quale fosse la ragionee l’origine di certi timori; ma questo è un pensiero che rimane continuamente nelsuo spirito [...] Ma qual fosse la ragione di questa preoccupazione, certo è chequesto presentimento è in tutta la poesia d’amore di Dante, come c’è nella «VitaNuova». Quindi sentimenti e pensieri che punto non conoscono gli altri poeti diquesta Scuola, tanto meno i poeti della scuola precedente. In questa sono pochisentimenti, che ritornano sempre; nulla di personale e di caratteristico: un pensie-ro come questo, una preoccupazione come questa, che la donna amata possa pre-sto morire, noi non troviamo: ora questa novità di sentimento, questa novità dipreoccupazione dà alla poesia di Dante un carattere nuovo, che altrimenti nonavrebbe avuto, accenti nuovi e profondi, che diversamente cercheremmo invano.Ed è specialmente in una canzone:

Donna pietosa e di novella etade

che egli s’informa a questo presentimento. In questa canzone egli narra una vi-sione, che ebbe, in cui gli parve che la donna sua fosse morta. Questa poesia èpiena di una tenerezza di ricordi, di una amaritudine di rimpianti, di una foga diaffetti, che non ha riscontro nella poesia della scuola amorosa, a cui egli appar-tiene. La donna è distesa sul suo letto coperta di un velo, soffusa di una dolcezzaindicibile: i pochi versi di Dante fanno ricordare certi quadri di Frate Angelico,dove è una mirabile soavità di linee e purità di colori. Così Dante, pur senza al-lontanarsi dalla sua scuola, dà qua e là a conoscere due cose: che questo suoamore era reale, che tutta l’anima sua ne era presa: e che aveva ingegno pari aquesti affetti, e che, se non fossero stati certi impedimenti, avrebbe potuto narra-re tutto ciò in modo più perfetto di quello, che non avesse fatto59.

Non sorprende trovare enunciata dal Graf, che, come indagatore dei miti,leggende e immaginazioni medievali, era affascinato dal «concetto della va-nità della vita [...] che al sentimento della morte intonò molte poesie, che so-

57 C. CA L C AT E R R A, Arturo Graf, «L’idea Nazionale», 20.IV.1922; La poesia di ArturoGraf, «Arte e vita», IV, 1923, 2, pp. 76-77.

58 G. GA L L I C O, Le lezioni di Arturo Graf cit., p. 69.59 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 169-172.

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gnò sempre di fare un libro che avesse per titolo: la storia della morte»60, unacosì acuta percezione del presentimento dantesco della morte. Ma non c’èdubbio che oltre ad una più generica predisposizione per il tema del «sonnoeterno» agisse sul critico anche il personale ricordo dell’Amatissima perduta,generando una sorta di rispecchiamento della vicenda privata nell’esperienzadel poeta trecentesco.

Convincenti conferme alla tesi dell’autoidentificazione vengono, poi, dal-la lettura delle pagine dedicate al carattere di Dante; il confronto di esse conil ritratto del Graf, tracciatoci dai suoi contemporanei, rivela una sequenza dicorrispondenze tali da lasciar ragionevolmente supporre la tendenza ad unasorta di sovrapposizione del soggetto interpretante sull’oggetto interpretato,operata seguendo le tracce di una più generale definizione dei caratteri atti-nenti la genialità. In primo luogo, quella «complessione delicata» che Grafavrebbe indicato tra le peculiarità della sua giovinezza61 trova perfetta corri-spondenza, in conformità ad una caratteristica essenziale del genio che noto-riamente «non gode di una grande forza fisica»62, nell’immagine con cui ilcritico illustrava il suo Dante:

Dante era cagionevole di salute. [...] Che Dante si trovasse appunto in questecondizioni non abbiamo molte testimonianza, né ebbe egli stesso cura di lasciar-ne ricordo. Ma egli stesso dice che il suo Poema lo fece «per più anni macro». Èun accenno solo, ma importante: è il suo genio, che lo divora. Poi il Boccacci cidice, che egli era curvo: ed il ritratto più fedele di lui, quello di Giotto, lo rappre-senta in età di trentadue o trentatré anni con un viso così sofferente, che più nonsi dimentica. Dante non aveva la floridezza perché appunto era Dante, perché eraun genio63.

Nel Dante grafiano, secondo una prerogativa tipica del genio64, si riflette,inoltre, quella «tendenza a trarsi in disparte e a starsene solo» che il criticoavrebbe attribuito anche a se stesso65 anticipando quanto riferitoci dal Cian:

la sua natura di solitario, non espansivo, non fatto per prodigare se stesso nellerelazioni sociali, chiuso abitualmente in se medesimo soltanto per un bisognocontemplativo [..] si trattava di rompere quel ghiaccio apparente; ma una voltarotto, o verificato che non esisteva, che incanto di simpatia, di gentilezza66.

60 G. GA L L I C O, Le lezioni di Arturo Graf, p. 7161 A. GR A F, [A la gràce de dieu] (memorie autobiografiche) cit., p. 224.62 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., p. 125.63 Ibidem, pp. 125-126.64 «Né basta ancora: il genio è per sé stesso un grande solitario nella vita: ora sta scritto

nella Scrittura: «Guai a chi è solo!» Il genio è solitario, perché il suo modo di giudicare, dipensare, di sentire è diverso troppo dal comune, perché egli si compiace di un mondo, a cui ilmondo reale non risponde, che in parte» (F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca eil Boccacci cit., p. 127).

65 A. GR A F, [A la gràce de dieu] (memorie autobiografiche) cit., pp. 224-225.66 V. CI A N, Arturo Graf maestro cit. p. 615

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Il legame tra quella solitudine e l’autocoscienza della propria grandezza,dichiarata apertamente dal Graf che avrebbe detto di se «son troppo solo etroppo in alto»67, trovava nuova corrispondenza nelle osservazioni sulla «con-sapevolezza» dantesca:

«Il genio è sempre cosciente di sé: se veramente sono genî − e certo ne sono stati− incompresi, sono incompresi agli altri, non mai a sé. E sarebbe strano, se il ge-nio, che ha la virtù di scrutar tutto con l’occhio d’aquila, non potesse poi averpiena conoscenza di sé. Dante aveva la consapevolezza del suo genio: è vero cheegli condanna la superbia e l’orgoglio; ma questa consapevolezza può stare collamodestia. Questa consapevolezza non è certo ragione di felicità per Dante: certoè dolce in alcuni momenti della vita avvertire in sé questa potenza quasi divina;ma più spesso il genio, mentre sente sé e misura sé, si paragona cogli ideali suoi,e gli ideali suoi sono sempre superiori al mondo reale. Cosicché questa consape-volezza non è necessaria fonte di compiacimenti: può esserlo in certe occasioni,ma in altre occasioni avviene il contrario [...] Ma v’ha una cosa degna di esserenotata, perché assai poco frequente: in Dante questa altezza di sentire, questo di-sdegno, che non è a confondersi con la superbia − sebbene il Poeta dalla superbianon sia del tutto immune, ed egli stesso lo confessi talvolta con l’asprezza, chedimostra in certi suoi giudizî − è conciliato con una qualità che non si trova disolito negli uomini, che hanno le altre qualità ora accennate, cioè con una grandegentilezza, con una grande pietà [...]ricorderò la testimonianza di un contempora-neo cioè di Giovanni Villani, che dice: «questi fu grande letterato quasi in ogniscienza, tutto fosse laico» [...] E poi soggiunge cose, che vogliono essere notate:«Questo Dante per lo suo savere fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, equasi a guisa di filosofo mal grazioso non bene sapea conversare co’ laici» doveè a notarsi che Giovanni Villani dice una cosa certamente vera, ma della qualenon sa cogliere le vere ragioni. Che Dante fosse schifo e presuntuoso è vero; mabisogna intendere come, se Dante era orgoglioso, questo suo orgoglio doveva es-sere molto temperato, perché gli uomini come lui, se sono un momento orgoglio-si, subito al paragonarsi con gli altri uomini sentono il loro orgoglio fiaccarsi, esuccedergli un senso di modestia e di umiltà. Ma quando si è detto, ch’egli erasdegnoso e schifo, non s’è ancora detto abbastanza. Un uomo come Dante, anchese non è presuntuoso e superbo, può benissimo esser sdegnoso e schifo, intenden-do con ciò un certo abito di fuggire la gente, di far vita da sé, il che nasce dalconversare nell’animo con sé, con pensieri che non sono quelli, a cui attende ilpiù degli uomini, ed allora la cosa viene da sé. Conchiudendo, il Villani narra unfatto vero, ma non ne coglie le vere ragioni. E come s’è detto soggiunge ancora:«a guisa di filosofo mal grazioso non bene sapea conversare coi laici», perchénon era forse troppo affabile cogli uomini profani allo studio e al sapere. Non eraadunque la gentilezza quella, che mancava a Dante, perché abbiamo troppe testi-monianze per dubitarne, ma quella pieghevolezza alle usanze del mondo, alleseccaggini della vita quotidiana, pieghevolezza, la quale non è tanto facile, quan-do noi ci differenziamo dagli altri per gli intimi pensamenti68.

67 Cit. in C. CO R R A D I N O, Arturo Graf, «Nuova Antologia», a. XLIX, vol. CCLII, 1914,fasc. 1019, p. 458.

68 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 126-127, 137,

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La precisazione aggiunta alle considerazioni del Villani sulla natura schi-va del poeta ed, in particolare, l’obiezione mossa al giudizio villaniano suDante, «filosofo mal grazioso», trovano singolare corrispondenza nelle rifles-sioni del Renier sull’«apparente glacialità del Graf»:

Fu, infatti, il Graf uno di quegli uomini che poco si prodigano agli estranei, anziche vivono specialmente in sé medesimi, tutti assorti nella loro attività spirituale[...] molte volte portò il discorso sugli uomini chiusi, che non rivelano se non dirado quanto arde e fermenta nel loro intimo, ma che sentono assai più di quantoappaia. Voleva, in questo modo, quasi scusarsi di quella apparente glacialità, percui la gente superficiale (che è la più numerosa) lo giudicava un egoista poco attoalla via del sentimento e credeva i suoi versi manifestazioni di testa e non di cuo-re. Cosa falsissima. In realtà pochi poeti furono sinceri al pari di lui; pochi poetirifuggirono come lui dall’atteggiarsi e dal sacrificare alla moda; pochi sentironocosì intimamente la gran tragedia degli umani destini, che per tutta la vita incom-bette su di lui [...]69.

Inoltre, come Graf, nel ricordo lasciatoci dal Renier, «aveva in uggia ognidoppiezza, ogni artificiosità malsana, ogni ciarlataneria»70 così il Dante de-scritto nelle lezioni mostra una

assoluta incapacità di simulare: quello che ha detto è quello che pensa. Non co-nosce dunque l’arte così comune di nascondere i propri pensieri71.

I riflessi di una corrispondenza caratteriale tra il poeta trecentesco e il suointerprete si ripercuotono, infine, sulla lettura grafiana della Commedia ed, inparticolare, dell’allegoria che la informa: ricercando il significato allegoricodel viaggio dantesco, il critico sembra di nuovo rispecchiare nello scrittoretrecentesco sé stesso e il poeta del, non meno, allegorico Medusa. La presen-za di tre intere lezioni72 dedicate alle allegorie della Commedia rivela da su-bito la particolare attenzione suscitata dall’argomento, ma sono poi le moda-lità con cui questo viene affrontato a risultare più interessanti. Esclusa, preli-minarmente, una spiegazione certa, impedita dalla «forma mentis [del Graf]che non sapeva adagiarsi in un’opinione definitiva»73 e dalla stessa «naturasfuggente» delle allegorie74, veniva proposta una significazione molteplice

141, 142-144.69 R. RE N I E R, Cenni su Arturo Graf uomo cit., p. 602.70 Ibidem, p. 604.71 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., p. 135.72 La ventesima (L’allegoria generale della Commedia), la ventunesima (Allegorie mino-

ri) e la ventiduesima (Beatrice e il Paradiso Terrestre).73 G. GA L L I C O, Le lezioni di Arturo Graf cit., p. 65. Significativa a tale proposito la ri-

cerca di una interpretazione per le tre fiere che consentisse una certa conciliazione tra le di-verse opinioni (cfr. p. 304).

74 «[...] intendo dire della allegoria, di quell’allegoria generale della Divina Commedia,di cui si è tanto parlato e discusso, e forse troppo parlato e discusso, e di cui non bisogna esa-

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dell’allegoria del poema, distinta in un «significato particolare, il significatoche più specialmente si riferisce a Dante, come uomo»75 e un’accezione piùgenerale riferibile a Dante nelle sue vesti di simbolo del genere umano76:

Ma la selva non ha soltanto un significato particolare: non bisogna dimenticareche Dante molte volte ha voluto rappresentarci contemporaneamente per mezzodi determinati segni, di determinati simboli, più cose, ed è quello appunto, cheaccade per la selva, pel colle, per le fiere in principio della Divina Comme-dia77.

Quel significato particolare − riferito al Dante della «selva selvaggia» −al quale il critico appena accennava, era stato ampiamente spiegato nel corsodi una precedente lezione durante la quale il professore, sorvolate le polemi-che allegoriche, spostava la questione sulla natura del pervertimento dante-sco, formulando uno di quei numerosi interrogativi di «natura curiosissima»,di cui Giuseppe Gallico ricordava essere «costellate le sue lezioni»78:

È noto quello, che Dante narra di sé nel I Canto dell’Inferno e quanto quell’alle-goria del Poeta sia stata fatta argomento di dispute, che non finiscono e non fini-ranno mai. Su questo punto non sono possibili che congetture più o meno verosi-mili. Dante narra di aver smarrita la retta via, il diritto sentiero in una selva asprae selvaggia. Secondo la Scrittura il diritto sentiero è il conformarsi ai divini vole-ri, il bosco è l’errore, il peccato. Ma qui nasce un gravissimo dubbio: Dante ac-cenna ad un suo pervertimento; questo è certo; ma di quale natura era questo per-vertimento?

Era una pura perversione dell’intelletto, della vita speculativa, o ancora unaperversione morale, della vita pratica? V’è chi ha asserito che Dante dopo lamorte di Beatrice si era gettato ad una vita disordinata e quasi scostumata; mavediamo la cosa un po’ più da vicino: se Dante proprio si sia macchiato di colpe

gerare l’importanza, come si è fatto. E perciò accingendomi a parlare appunto di questa alle-goria generale del poema, io non mi perderò in troppe minutezza, e non mi fermerò a trattarequestioni per ora del tutto insolubili.[...] Dell’allegoria generale si sono date almeno trenta in-terpretazioni, perché i commentatori hanno molto annaspato intorno ad essa. Anzi v’è unapretensione degli espositori e dei commentatori in genere, contro cui bisogna protestare innome della sana critica e del buon senso: non è possibile ricondurre ad un senso unico la lar-ga e complicata allegoria del poema: bisognerebbe, per far ciò, che Dante avesse sempre pe-dantescamente tenuto dietro a tre o quattro concetti, per fare che nulla in quella immensa ma-teria guastasse la perfetta coerenza. Ma data la vastità del tema, il concetto fondamentalestesso, che era per sé sommamente complicato, il poeta non può fino dalle origini dell’operasua aver fermato lo schema dei concetti cardinali del suo poema, senza poi mai uscirne nelpiù piccolo modo. Pensare altrimenti è cosa assurda e pazza. Anche non intendendo piena-mente − dico «pienamente» − l’allegoria, il poema si intende assai bene» (F. GA B O T TO − C.DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 286, 291-292).

75 Ibidem, p. 301.76 Ibidem, p. 302.77 Ibidem, pp. 301-30278 G. GA L L I C O, Le lezioni di Arturo Graf cit., p. 67.

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gravi, o se solo in materia di fede e di credenze sia uscito dalla via tracciata.Dante desidera di salire al colle, ma ne è impedito da tre fiere simboliche,

sulle quali [si] è molto disputato. L’opinione più comune è, che le tre fiere rap-presentino tre vizî, superbia, avarizia e lussuria: egli vuol tornare al bene, ma trevizî divenuti in lui una seconda natura lo impediscono. Ma questi tre simbolipossono essere interpretati anche altrimenti: e ricorrendo al simbolismo dellaScrittura si potrebbe dire, che la pantera rappresenta i nemici del popolo eletto, illeone un nemico potente, e la lupa la falsa dottrina, cosicché quella che a lui piùsi opponeva, sarebbe la falsa dottrina. Allora il colle sarebbe il vero, e Dantevorrebbe uscire dalla selva dell’errore al colle della verità. Questa interpretazioneconcorda meglio colla vita tutta di Dante, con ciò che sappiamo del carattere dilui: ripugna credere ad una perversione morale, di cui non abbiamo alcuna prova,ed a cui anzi molte prove sono contrarie. Dante fa di sé una testimonianza assailodevole in più luoghi del Poema stesso: per esempio, quando Dante e Virgiliogiungono al fiume infernale, e Caronte non vuol tragittarli, Virgilio dice :

Quinci non passa mai anima buona;E però se Caron di te si lagna,Ben poi saper omai che il suo dir suona [Inf. III 127-129]

Virgilio adunque considera Dante come una anima buona. Altrove Dante pone inbocca di un interlocutore parole, che dicono, come Dante fosse uno dei due soligiusti che fossero in Firenze. In molti altri luoghi della Divina Commedia Dantecolla serena coscienza dell’uomo onesto si dice schiettamente il poeta della retti-tudine: ora questa sarebbe una volgare contraddizione, mentre altrove si sarebbecosì gravemente accusato. Tutte queste ed altre ragioni inducono a credere, chel’allegoria del I Canto dell’Inferno si riferisca ad un traviamento intellettuale, enon ad un traviamento morale: e questo è di grande importanza [...]Un’altra pro-va sta anche in ciò: Dante, passati i sette gradini del Purgatorio, giunge al Para-diso Terrestre con Virgilio e con altro poeta latino, Stazio, non pagano come Vir-gilio, ma cristiano, il quale scontati i suoi peccati, sale al Cielo. Nel ParadisoTerreste assistono a parecchie scene simboliche. Notiamo, che Dante è puro d’o-gni peccato, perché i sette P sono cancellati; eppure Beatrice al primo incontrarlogli fa molti rimproveri e lo accusa di una apostasia non bene indicata, ma nonperciò meno certa. Quale è la colpa, di cui lo rimprovera Beatrice? Dante che siè purgato del peccato, nel Paradiso Terrestre deve purgarsi di qualche cosa anco-ra: e questo qualche cosa non può essere che un traviamento della mente, un per-vertimento dell’intelletto79.

L’interpretazione piuttosto originale, o almeno isolata, nella prospettivacritica moderna non dovette sembrare meno sorprendente agli occhi dei con-temporanei, se lo stesso Gabotto non avrebbe celato la sua sorpresa ricordan-dola nello studio su Il marito di Beatrice:

Il prof. Graf nelle sue lezioni alla Università di Torino espresse un’opinione non

79 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 157-162.

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ancora, che io mi sappia, recata innanzi da alcuno, che cioè lo smarrimento diDante nella selva non indichi un traviamento morale, ma un traviamento intellet-tuale, che le tre fiere non significano tre vizî, ma tre modi di pensare poco orto-dossi: a me pare invece per nulla improbabile, non che impossibile, che Dante,quantunque allora attendesse agli studî di filosofia, menasse vita men che regola-re e appunto perciò fosse indotto dalla famiglia a prendere moglie. Con tutto ciònon nego la spiegazione che dell’allegoria del primo canto della Comedia dà ilGraf, anzi mi pare accettabile (Cfr. il mio Lorenzo Valla e l’epicureismo nelQuattrocento, pp. 15-16, Milano, Dumolard, 1889)80.

Interrogandosi sull’accettabilità della proposta interpretativa, il Gabottonon sembrava però percepire quanto nel traviamento di natura speculativa,nella deviazione piuttosto che dei sensi della ragione, il Graf finisse peresprimere quello scetticismo, quell’ansiosa ricerca del vero, di cui egli, benpiù del poeta trecentesco, avrebbe avvertito il tormento tanto da trarne mate-ria per i suoi versi. Così nella Voce, quasi novello Dante, inscena il suo smar-rimento in «altra selva»:

Dov’è più fitta la tramadi questa selva remota,da lunge, a lungo, un’ignotavoce mi chiama, mi chiamaLa voce è tenera e trista,la voce è chiara e profonda,come una voce dell’ondaa un grido umano commistaIo che a fatica trascinol’anima stanca ed inferma,Vengo! rispondo, e per l’ermaselva cammino, cammino.Cammino tra scure piante,per balze e ripe, salendo:il luogo muto ed orrendopare la selva di Dante [...]81

Alla luce di questa ipotesi di progressiva rivisitazione del testo dantescoin chiave autobiografica, credo, infine, si debba intendere il chiarimento conil quale il critico, messa da parte l’oculata reticenza a svelare in modo univo-co le allegorie dantesche e premessa l’insoddisfazione per le congetture sinoad allora proposte82, palesava la «sua» interpretazione della Beatrice dantesca:

80 F. GA B O T TO, Il marito di Beatrice. Studio, Bra, Tip. Racca, 1890, p. 13.81 A. GR A F, Le rime della selva, Milano, Treves, 1906, pp. 261-262.82 «Molto si è scritto intorno alla Beatrice simbolica, e furono date varie interpretazioni,

ma nessuna appaga intieramente: e questo si può dire anche dei lavori più recenti e più pre-giati, come è, ad esempio, la Beatrice svelata del Perez» (F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O,Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., p. 322).

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Qual è dunque il significato di Beatrice? Il cercarne un significato particolare èmolto pericoloso; però una significazione un poco larga pare si possa raggiungerecon sufficiente certezza. Dire che Beatrice è la Teologia o la rivelazione non mipare che basti: deve essere qualche cosa di più comprensivo: la [f]ede, lo spiritostesso della religione Cristiana, ciò, che fa che ella sia veramente quello che è,Beatrice sarebbe rimpicciolita, mi pare, se fosse ridotta ad essere la sempliceTeologia, perché senza speculazione vi può essere una religione intima [...] Biso-gna dunque che Beatrice rappresenti quello, che v’è di più alto in quella religio-ne, di cui egli si è fatto apostolo, cioè lo spirito della fede, della religione, dellaistituzione religiosa e spirituale [...]si viene nella convinzione che Beatrice sia lafede più ingenua, l’anima, lo spirito della religione Cristiana83.

La negazione dell’accreditata corrispondenza tra Beatrice e Teologia, laproposta di una identificazione che non riguardi la fede, genericamente inte-sa, ma la forma più ingenua di essa e al tempo stesso più intima e antidog-matica, lasciano scorgere, proiettata ancora una volta in Dante, l’aspirazioneverso una religiosità personalissima, a lungo cercata al di fuori dei sentieriimposti dal credo ufficiale. Si ricordino le parole dell’atto di fede grafiano:

Finalmente la religione che faccia per me dev’essere una religione aperta, libera,mobile, senza dommi immutabili, senza ingombrante mitologia; non la presun-zione d’avere, sin dall’inizio, e per tutti i secoli, raggiunta la verità intera e in-concussa; ma uno sforzo indefesso e incoercibile verso la verità. L’anima dellareligione è la fede, non il preciso contenuto della fede; e molte sono le vie chepossono condurre alla verità [...] Mi son convertito a una religione dello spirito,disviluppata da ogni mitologia, sciolta da ogni pastoja di dommi immutabili; ri-spettosa, sì, in giusta misura, della tradizione storica, ma non punto disposta a la-sciarsi legare ad essa84.

Ormai prossimo alla conversione ufficiale, Graf sarebbe nuovamente tor-nato sulla questione della religiosità di Dante. In una lettera indirizzata alCian nell’aprile del 1901 avrebbe mostrato di condividere le obiezione avan-zate dal discepolo85 ai dubbi sollevati da Gaetano Negri sulla veridicità delsentimento religioso dantesco.86 Graf mostrava di condividere le osservazionidel Cian osservando che «possibili dubbi danteschi sono molti; ma quelliproprio non mi pajono possibili»87 ed esplicitando il suo consenso su quanto

83 F. GA B O T TO - C. DA M I L A N O, Dante, il Petrarca e il Boccacci cit., pp. 324-325,326.

84 A. GR A F, Per una fede, «Nuova Antologia», a. XL, vol. CXVII, 1905, fasc. 803, pp.11, 55.

85 La religiosità in Dante Il Fanfulla della Domenica 23.VI.1901 (Roma) XXIII, 1901,25, pp. 1-2.

86 G. NE G R I, rec. Francesco D’Ovidio, Studi sulla Divina Commedia, (Sandron, 1901),«Il Fanfulla della Domenica», XXIII, 1904, 24, pp. [1-2].

87 Lettera di A. Graf a V. Cian datata: Torino, 25 VI 1901, cit. in Lettere a Vittorio Cian,cur. C. Allasia, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 155.

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osservato dal più giovane professore proprio sull’ortodossia dantesca:

la Commedia non è tutta soltanto questa rigorosa ortodossia e questo scolastici-smo geometrico; ché anzi Dante, a dispetto di esso, sorge poeta religioso ed uma-no, e là dove altri spiriti meno vigorosi sarebbero rimasti − e rimasero − schiac-ciati sotto il peso, o incatenati fra le ritorte del dommatismo scolastico, Egli in-vece trovò la forza di esprimere liberamente il suo profondo sentimento dell’infi-nito, il suo anelito possente irresistibile all’alto come niun altro poeta al mondo[...] Lungi dunque dall’essere una «religiosità apparente» e tale da appagarsi d’unformalismo esteriore, il suo è un sentimento così intimo e sostanziale ed esube-rante, che nel manifestarsi oltrepassa talvolta e quasi viola ogni formalismo e tut-te le formole consuetudinarie88.

Accordando il suo sostegno alla risposta del Cian, il Graf ribadiva quantogià molti anni prima aveva osservato a proposito della religiosità dantescacon quella singolare interpretazione di Beatrice, debitrice di una, già matura,riflessione sulla fede moderna.

Accingendoci a leggere il commento grafiano a Dante sarà allora oppor-tuno fare tesoro di un suggerimento lasciato da Attilio Momigliano:

Chi volesse farsi un’idea precisa della celebre conversione del Graf deve stu-diare, accanto alla lenta evoluzione della poesia, la sua vita di professore all’Uni-versità di Torino, contrassegnata da episodi sintomatici, il suo romanzo e la suaopera di critico89.

Spostando lo sguardo dal poeta trecentesco verso l’uomo del novecentosarà forse possibile scorgere le tracce di quello che solo travisando potremmocredere un repentino «ritorno all’ordine90.

88 V. CI A N, La religiosità in Dante cit., p. 1.89 A. MO M I G L I A N O, Graf critico in Ultimi studi, [cur. W. Binni], Firenze, La Nuova Ita-

lia, 1954, p. 126 (già in «L’Opinione» 28.IV.1946).90 A tale proposito rimane significativa la testimonianza di Renier che colse l’irrequie-

tezza del presunto materialismo grafiano («chi visse col Graf sa quanti dubbi lo agitasseroanche nel suo periodo materialista, dubbi di cui trovansi continue tracce nella stessa Medu-sa»; R. RE N I E R, Arturo Graf. Commemorazione cit., p. 479 nota n. 3) e comprese l’atipicitàdella sua «conversione»: «Il pensatore dichiara di sentirsi soffocare nel finito e d’aver biso-gno per respirare a suo agio, dell’infinito. Difende la necessità immanente e la non sostituibi-lità della religione; ma vuole una religione che si concilii con la vita, con la civiltà, con lascienza, una religione senza dommi, libera, mobile. Professa lo spiritualismo. Ammette l’im-mortalità dell’anima e la libertà del volere; quindi la necessità della legge morale; quindi lanemesi storica. Crede possibile la rivelazione. Ma tutto questo all’infuori di ogni religionepositiva [...] Avvenuta la conversione, a me confessò più volte che non s’era mai sentito cosìlontano come allora dal cattolicesimo» (R. RE N I E R, Arturo Graf. Commemorazione cit., p.488 e nota 2).

Appendice

Viene qui di seguito riportata la trascrizione integrale delle prime otto Lezioni at-tinenti a Dante, rinviando al prossimo numero la pubblicazione delle rimanenti. Ilcriterio di trascrizione seguito è stato il più possibile conservativo: si è rispettato l’u-so della punteggiatura, delle maiuscole e degli accenti anche laddove non risulta cor-retto. Ogni intervento integrativo o di ipotesi interpretativa è indicato tra parentesiquadre.

La fortuna di Dante

Dissi, che Dante, il Petrarca ed il Boccacci costituiscono una triade, che per certirispetti può e deve essere studiata congiuntamente, ma che tra essi vi sono tuttaviadifferenze. Dante è il maggiore: egli è nel mondo dello spirito come un grande solita-rio, a cui si avvicina nessuno. Io dimostrerò in seguito coi fatti, come ciò sia vero;ma quando anche ciò non si potesse rilevare direttamente dall’opera sua, si rilevereb-be da un fatto notevole: dallo studio di cui fu fatto oggetto, il quale ci fa accorgere,come siamo dinnanzi ad un primato. Per questo rispetto Dante merita di andare incompagnia di due soli scrittori, l’uno antichissimo − Omero − e l’altro posteriore alui − lo Shakspeare. Tra questi tre Dante tiene ancora il primo luogo. Non già che iovoglia dire con giudizio sommario e precipitato, che egli sia sopra gli altri due; ma lostudio fatto intorno a lui è maggiore di quello fatto su Omero e sullo Shakspeare.Anche questo è un fatto di capitale importanza, perché questi studî insistenti, che siprotraggono per secoli, attraverso le generazioni, questi studi, che ripetono la gran-dezza stessa dell’uomo studiato, non si possono spiegare con l’andazzo di un momen-to. Se Dante è un degnissimo oggetto di studi in sé, la storia degli studî, a cui diedeluogo è ancor essa un oggetto degno e curioso di studio.

L’ammirazione per Dante e per la massima opera sua incomincia vivente egli an-cora, e si accresce smisuratamente dopo la morte sua. Appena conosciuto, il suo Poe-ma desta il più grande ed universale entusiasmo. Ed era necessario che ciò avvenisse:quell’entusiasmo non è strano né ingiustificabile: la Divina Commedia comprende insé una grande età storica: Dante è il rappresentante di un mondo e di una fede, e nonsolo il rappresentante, ma ancora il pensiero di tutto ciò, l’epitome di tutti i suoi tem-pi. I suoi contemporanei se ne avvidero, e in Dante non salutarono solamente il mas-simo Poeta, ma anche un rivelatore di cose incognite, un profeta. Niuna meraviglia

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quindi, se la Divina Commedia salì tosto a quell’altezza, a cui si mantenne sempre dipoi, salvo alcune interruzioni.

Vediamo subito ingegni in gran numero affaticarsi intorno al Poema, per cono-scerne il recondito significato: incomincia l’opera degli interpreti e dei commentatori,opera che incomincia subito, e non è inutile, per quanto più tardi possa esser diventa-ta tale. Le Chiose anonime pubblicate dal Selmi in Torino nel 1865 furono scritte vi-vente ancora il Poeta, e lui vivo ancora, o subito dopo la morte di lui, fu fatto il com-mento anonimo dell’Inferno pubblicato nel 1848 in Firenze per cura di Lord Vernon evengono immediatamente dopo gli altri commentatori maggiori: i figli di Dante, Ja-copo e Piero, si affaticano intorno al Poema, quantunque i commenti conservatici sot-to il loro nome non siano probabilmente autentici. Poi si affaticano intorno al Poeta ibiografi, e il primo biografo è quello stesso Giovanni Boccacci, di cui dovrò parlarein seguito, e che, sebbene tanto diverso dal Poeta, ha per lui una grande ammirazio-ne. Cinquanta anni dopo la morte di Dante si instituisce a Firenze la prima cattedradi insegnamento Dantesco, questa prima cattedra è affidata appunto al Boccacci. Sev’è qualche cosa che possa dare un adeguato concetto della grandezza della fama diDante, è questa istituzione di una cattedra Dantesca in quella Firenze che aveva cac-ciato in esiglio il Poeta. Io non posso soffermarmi a discorrere di quella copiosa partedella letteratura nostra, che è formata dalle imitazioni della Divina Commedia; masubito dopo la Divina Commedia incominciano le imitazioni della medesima. E sipotrebbe tosto ricordare il Petrarca che seguì da lontano le tracce del gran maestronei suoi Trionfi: e Giovanni Boccacci, imitatore della Divina Commedia nella suaAmorosa Visione. E poi le imitazioni si moltiplicano, e diventano infinite e ricorderòsolo il Dittamondo di Fazio degli Uberti ed il Quadriregio di Federico Frezzi. Tuttociò prova la riputazione impareggiabile di cui la Divina Commedia ha sempre godutonel mondo degli uomini dotti, degli uomini colti. Ma questa grandezza trascende epassa in un altro ambiente: desta meraviglia il fatto della quasi popolarità di un Poe-ma tanto difficile. Certo la popolarità non si poteva estendere a tutto il Poema: vi so-no alcune parti riservate esclusivamente ai dotti, ma altre parti sono accessibili adogni colto intelletto. Abbiamo di questo fatto alcune testimonianze, che, tali quali so-no, se non provano la verità di questo o di quell’altro fatto, cui si riferiscono partico-larmente, provano però sempre il fatto generale, che la Divina Commedia poteva es-sere ricercata ed ammirata da persone che non avevano fatto alcuno studio. Due no-velle di Franco Sacchetti (CXIV e CXV) narrano di un fabbro, che cantava, guastan-doli, dei versi di Dante, mentre stava a bottega, e di un asinaio, che, spingendosi in-nanzi il suo animale, cantava, come dice il Sacchetti, il libro di Dante, aggiungendoviil suo «arri» quando la bestia accennava a rallentare il passo. Se queste novelle nonnarrano il vero, raccontano certo cosa non inverosimile, perché la leggenda non si sa-rebbe formata, se la Divina Commedia non fosse stata nota in mezzo al popolo, comepiù tardi fu popolare in Venezia un altro grande Poema, la Gerusalemme Conquistata.C’è insomma tutta una tradizione, che ha questo manifesto scopo, di mostrare inDante una vigoria di intelletto, quale pochissimi uomini ebbero: una tendenza a nar-rar miracoli del suo ingegno, della sua facondia, della sua prontezza nel rispondere.Questi racconti costituiscono, più che altro, una leggenda, ma sono di grandissimaimportanza, perché attestano questo sentimento generale del grande valore di Dante edel valore altissimo dell’opera sua. Lo stesso Franco Sacchetti racconta un altro fatto,quanto altri mai caratteristico, che si riferisce ad un certo maestro Antonio da Ferra-ra, quasi poeta, che aveva per Dante un culto sconfinato: narra adunque il Sacchetti(novella CXXI) che costui, entrato un dì nella Chiesa dei Frati Minori in Ravenna,

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nella qual chiesa era sepolto l’Allighieri, ed avendo in essa visto un antico crocifissomezzo arso ed affumicato per la grande quantità di candele, che gli ardevano innanzi,diede di piglio a tutte queste candele, e le portò innanzi al sepolcro di Dante, dicen-do: Togli, ché tu ne se’ più degno di lui. Il Signore della terra, messer Bernardino daPolenta, cui fu riferito lo strano caso, più per vaghezza di vedere come avesse a finirela cosa, che per desiderio di punir maestro Antonio, fece sentire all’arcivescovoquanto era accaduto, raccomandandogli lo facesse venire a sé, facendo mostra di vo-lergli formar contro processo per eresia. E maestro Antonio da Ferrara comparve in-nanzi all’arcivescovo, e, invece di scusarsi, sostenne di aver fatto bene, perché Dantemeritava luminaria più che il crocifisso, soggiungendo, come prova della sua asser-zione: « E se non mi credete, veggansi le scritture dell’uno e dell’altro. Voi giudiche-rete, quelle di Dante esser maravigliose sopra natura a intelletto umano, e le coseevangeliche esser grosse; o se pur ve ne avesse dell’alte e maravigliose, non è grancosa, che colui, che vede il tutto, ed ha il tutto, dimostri nelle scritture parte del tutto.Ma la gran cosa è, che un uomo minimo, come Dante, non avendo, non che il tutto,ma alcuna parte del tutto, ha veduto il tutto, ed ha scritto il tutto; e però mi pare, chesia più degno lui di quella luminaria; e a lui da quinci innanzi mi voglio raccomandare;e voi vi fate l’officio vostro, e state bene ad agio, che per lo suo amore fuggite tutti ildisagio, e vivete come poltroni. E quando da me vorrete sapere più il chiaro, io vel diròaltra volta, ecc.» E la novella continua a narrare come, assolto dall’arcivescovo, mae-stro Antonio fu per le buone ragioni, che aveva dette, regalato dal Signore.

Per Dante adunque noi troviamo negli eruditi e nel popolo un vero culto. Ma que-sto culto, che noi vediamo grandissimo immediatamente dopo la morte del Poeta edurante tutto il secolo XIV, non si serba egualmente intenso ed egualmente vivo nelsecolo, che segue. Queste vicende nel culto tributato a Dante sono piene di ammae-stramenti, e giova molto studiare le ragioni del suo rinforzarsi e del suo venir meno.Nel secolo XV non si ha più per Dante lo stesso culto: gli spiriti si volgono ad altrioggetti, vagheggiano un altro ideale, ammirano un’altra coltura : alla coltura cristia-no-cavalleresca del Medio Evo succede la coltura dello umanesimo, che vagheggiaideali, che non sono quelli del Cristianesimo, ma piuttosto paganeggia e tenta far ri-vivere la forma della vita antica. Gli umanisti si scostano da Dante: non si adoranodue divinità nello stesso tempo. Gli umanisti non vedono più Dante, o non lo vedonopiù circonfuso di tanta luce. Però durante tutto quel secolo noi vediamo Dante nondirò dimenticato, ma trascurato, ma lasciato in disparte; il che non vuol dire, che an-che in questo tempo non vediamo qualche buon ingegno, che si volge a lui: anzi ve-diamo appunto Francesco Petrarca, che tiene la stessa cattedra che aveva tenuta ilBoccacci, e la tiene senza retribuzione alcuna, pago di aiutare secondo il suo poterela fama di Dante. E troviamo ancora un illustre commentatore di Dante in CristoforoLandino.

Nel secolo XVI il culto per Dante rinasce: l’antichità è ormai tanto nota, che glispiriti italiani si rivolgono altrove, ed il Cinquecento appunto va segnalato, oltre cheper altri caratteri, per questo carattere singolarissimo, di aver molti obbietti : son pro-prî del Cinquecento quegli uomini meravigliosi, che tutto sanno, che a tutto attendo-no, che sono ad un tempo grandi archeologi, grandi pittori, mediocri poeti, e non cat-tivi politici. E perciò vediamo rinascere il culto di Dante, ma non nella sua integritàantica, perché v’è nel pensiero di Dante qualche cosa di rude e di eminentemente ma-schio, che stuona con un ambiente soverchiamente raffinato, come è quello del Cin-quecento. Il Cinquecento ha un ideale nella vita, e [non ne] ha parecchi nella lettera-tura, ma questo ideale non è Dante, ma il Petrarca, il mite, il dolce Petrarca, il pen-

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siero e la poesia del quale si confanno di più al gusto del Cinquecento, che non ilpensiero e la poesia di Dante. E noi comprendiamo benissimo la ragione, per cuiMonsignor Della Casa nel suo Galateo ricorda certe ruvidezze della poesia Dantesca:egli, che nel suo libro dà le regole non solo del corretto vivere, ma del vivere elegan-te, torce il grifo innanzi a queste ruvidezze, fa lo schifiltoso, e quelle ruvidezze nonintende, perché è troppo impermalito. Ad ogni modo nel Cinquecento Dante è studia-to: ma nel secolo successivo noi assistiamo ad un nuovo scadimento della fama diDante. E non è difficile trovarne la ragione: chi si compiaceva dell’arte del Marinonon poteva dilettarsi dell’arte di Dante: e perché l’arte del Marino è l’arte del tempo,lo scadimento è maggiore nel Seicento, che nel Quattrocento. Sulla fine del Seicentosorge una nuova scuola, l’Arcadia, che si proponeva di combattere la corruzione ed ilcattivo gusto precedenti; ma si sa ciò che dell’Arcadia, della poesia arcadica, dei pa-stori e delle pastorelle dell’Arcadia dice il Baretti nella sua Frusta Letteraria. La Arca-dia certo rappresentava una correzione avvenuta nel gusto, ma segna tuttavia l’ultimogrado della decadenza dello spirito. Dante non è pasto per loro: è già troppo, se ammi-rano ed intendono i sonetti di Francesco Petrarca, del quale si credono imitatori, e nonsono, che spregevoli risciacquatori. E questi sventurati Arcadi durano quasi tutto il se-colo passato, finché avviene sullo scorcio del secolo una gloriosa reazione non solocontro lo spirito dell’Arcadia, ma contro lo spirito della società Italiana in generale.

Sul finire del secolo scorso noi assistiamo ad un grande rivolgimento: lo spiritoItaliano si rinnova, in parte per influsso esterno, in parte in forza di un’antica energia,fatto questo grandissimo, non ancora sufficientemente bene studiato ed inteso. Si ri-tempra la coscienza civile Italiana, e nello stesso tempo si ritempra il gusto letterario,il pensiero poetico. È noto un libro di Saverio Bettinelli, in cui si cerca di provare,che Dante è un povero poeta, e un povero poema la sua Commedia, ma è noto in paritempo un libro di Gaspare Gozzi, che combatte il libro del Bettinelli: il che significa,che, se v’era chi poteva formare intorno a lui così tristo giudizio, v’era già chi potevadifenderlo e vendicarlo.

E d’allora in poi il culto di Dante non viene più meno, anzi si fonde colle più alteaspirazioni della coscienza Italiana: Dante è invocato da tutti coloro, i quali sognanoed aspirano ad un miglioramento nelle condizioni d’Italia, è il rappresentante degliideali più nobili, che si vengono man mano riaccendendo. Non v’è altro scrittore innessun tempo e presso nessun popolo, che s’immedesimi nelle aspirazioni di un po-polo, come si immedesima Dante in quelle del popolo Italiano. Il Varano imitò Dantenelle sue Visioni, il Monti lo imitò in molti passi de’ suoi poemi, prendendo da lui ilmeglio della sua poesia, e si gloria di essere uno dei ristoratori del culto di Dante edell’arte Dantesca in Italia; ma se v’è un poeta, del quale nei pensieri e nelle parolesi possa veder quanto sia stretto questo connubio del ricordo di Dante colle aspirazio-ni della grandezza d’Italia e della sua libertà; questo poeta è Giacomo Leopardi. Unodei primi suoi canti, quando egli era meno preoccupato e vinto dal pensiero del pro-prio e dell’universale dolore, è scritto appunto in occasione, in cui in Firenze si pen-sava di erigere un monumento a testimoniare la gloria del maggior figlio di Firenze.In questo canto il Leopardi dice con bellissimi versi, sebbene non manchi qualchepoco di retorica, mista però a grande potenza di sentimento:

O dell’etrusco metro inclito padre91

91 [Riportiamo di seguito la fonte della citazione così come è registrata, nel testo, in no-

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Se di cosa terrena,Se di costei, che tanto alto locastiQualche novella ai vostri lidi arriva,Io so ben che per te gioia non senti,Che saldi men che cera e men ch’arena,Verso la fama, che di te lasciastiSon bronzi e marmi; e dalle nostre mentiSe non cadesti ancor, s’unqua cadrai,Cresca, se crescer può, nostra sciagura,E in sempiterni guaiPianga tua stirpe a tutto il mondo oscura.Ma non per te; per questa ti rallegriPovera patria tua, s’unqua l’esempioDegli avi e de’ parentiPonga ne’ figli sonnacchiosi ed egriTanto valor, che un tratto alzino il viso.Ahi, da che lungo scempioVedi afflitta costei, che sì meschinaTe salutava alloraChe di novo salisti al paradiso!Oggi ridotta sì, che, a quel che vedi,Fu fortunata allor donna e reina.Tal miseria l’accoraQual tu forse mirando a te non credi.Taccio gli altri nemici e l’altre doglie;Ma non la più recente e la più fera,Per cui presso alle soglieVide la patria tua l’ultima sera.Beato te, che il fatoA viver non dannò tra tanto orrore;Ché non vedesti in braccioL’itala moglie a barbaro soldato;Non predar, non guastar cittadi e coltiL’asta inimica e il peregrin furore:Non degl’itali ingegniTratte l’opre divine a miserandaSchiavitude oltre l’alpe, e non de’ foltiCarri impedita la dolente via;Non gli aspri cenni ed i superbi regni;Non udisti gli oltraggi e la nefandaVoce di libertà che ne scherniaTra il suon delle catene e de’ flagelli.Chi non si duol? Che non soffrimmo? IntattoChe... lasciaron quei felli?Qual tempio, qual altare o qual misfatto? [Sopra il monumento diDante che si preparava in Firenze, vv. 74-119]

ta] Opere di G. Leopardi. v. 2°, canto 2°, Firenze, Frat. Le Monnier, 1845.

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Allo spettacolo di tale miseria, che affligge la patria sua, il poeta non sa a chi al-tro meglio ricorrere se non al poeta, che aveva ai tempi suoi sentita tanta miseria, manon immaginava forse, che tanta miseria potesse diventare maggiore.

Quanto il culto di Dante fosse in Italia diventato cosa congiunta al desiderio delrisorgimento civile d’Italia si vide nel 1865, quando in Firenze fu celebrato il settimocentenario della nascita di Dante: non fu festa di dotti o di letterati soltanto: fu unavera festa nazionale.

Se c’è cosa che dia più giusta misura del crescere e del diminuire del culto diDante, è il numero delle edizioni, che in ciascun secolo ebbe la Divina commedia. Laprima edizione certa è quella di Foligno del 1472: in quel quarto di secolo se ne eb-bero ventidue edizioni; nel secolo successivo quarantadue; nel Seicento quattro sol-tanto; nel Settecento di nuovo trentasei; nel secolo nostro il culto divenne smisurato,e si contano già oggi più di duecento edizioni della Divina Commedia. Del resto que-sto culto non è proprio degli Italiani soltanto, anzi è forse maggiore altrove, che franoi: i Tedeschi hanno una Società Dantesca, gli Americani un’altra: e, per farsi unconcetto dello studio, che i Tedeschi fecero intorno al nostro poeta, basta considerare,che lo Scartazzini mise insieme due volumi di Bibliografia Dantesca. In Italia si hauna cattedra Dantesca: or sono pochi giorni un deputato propose di istituirne un’altrain Roma: le sue parole non ebbero alcuna attenzione.

Fra gli studiosi di Dante e dell’opera sua sono poeti, eruditi, storici, naturalisti.Se una letteratura così copiosa, che ha nella grandezza di Dante la sua origine e lasua ragione, fa testimonianza dell’ammirazione, che sempre si ebbe per il grandePoeta, del culto, onde egli fu ed è oggetto, non è però tutta buona; ed è certo un note-vole esempio di parassitismo letterario, che l’opera dell’Allighieri abbia fornito argo-mento e pretesto non solo allo studio, ma anche al giudizio di infiniti scrittori imparia tanto ufficio. E non solo a Dante, ma a tutti quelli, che lasciarono grande orma nel-la letteratura, capitò così. Pertanto questa smisurata letteratura Dantesca per lo piùriesce, anzi che d’aiuto, di impaccio, perché è difficile raccapezzarsi in mezzo a tantamole di libri. Occorre un criterio: io non nominerò, che quelli, che, per la loro spe-ciale importanza, meritano di essere ricordati.

L’ambiente religioso in cui sorse Dante

Prima di passare allo studio delle opere del sommo Poeta, un altro soggetto diesame e di studio ci si presenta, anzi ci si impone. Noi non possiamo studiare la Di-vina Commedia né gli altri scritti di Dante, se prima non siamo riusciti a formarci unesatto concetto di ciò, che Dante sia, della natura e della potenza del suo ingegno.Della natura e della potenza del suo ingegno non possiamo fare un esatto giudizio, senon studiamo le vicende molteplici di cui la vita del Poeta è intessuta. Senonché an-che in questa parte bisogna procedere in modo, da non fermarsi ad alcun minuto par-ticolare, stando contenti a ciò che è essenziale e significativo, senza occuparci del re-sto, perché a chi tenesse altra via, nonché un anno, dieci non basterebbero.

Prima di studiare il Poeta, prima di ricercare le fasi della vita sua, noi ci troviamoancora dinanzi un altro studio necessario, senza il quale quello del Poeta non sarebbecompleto ne sufficiente, ossia ci si impone lo studio di quello, che si denomina conun vocabolo, cui i puristi non iscrivono, che sottolineato, e non istampano, che incorsivo: voglio dire lo studio dell’ambiente. Di questo ambiente si parla ora moltissi-mo: nei critici contemporanei c’è tutta una scuola, che tiene in gran conto l’ambiente,

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e sprezza coloro, che trascurano quel complesso di condizioni e di fatti, per cui l’am-biente si forma. Quindi non sono necessarie molto parole, per dire che s’intenda perambiente: esso può essere di varie maniere: v’ha ambiente fisico ed ambiente morale.L’ambiente fisico è costituito dal complesso di quelle condizioni, che sono date dallanatura fisica, dalla natura esteriore, l’ambiente morale da quel complesso di condi-zioni, che derivano da ciò, che si dice il nostro intelletto, il nostro morale. L’uno am-biente non è meno importante dell’altro.Consideriamo un po’ più d’appresso l’ambiente morale: l’ambiente morale può essereambiente religioso, se si prendono a considerare le regole religiose, che governano lacoscienza di un popolo: l’ambiente morale può essere scientifico; può essere più par-ticolarmente morale od etico nel senso stretto della parola: l’ambiente può essere po-litico e sociale, e può ancora essere letterario, se si guardi al complesso delle idee,che regolano il pensiero poetico ed il pensiero letterario in genere: insomma lo am-biente può essere specificato e considerato sotto una quantità grandissima di aspetti edi forme. Ne basta ciò, ma vi sono ancora ambienti più angusti o più larghi, che siinvolgono come una sfera maggiore attorno una sfera minore: così abbiamo più am-bienti, che si comprendono l’un l’altro: abbiamo, per esempio, l’ambiente della fami-glia, della città, dello stato, della nazione, che è talvolta diverso da quello, e gli am-bienti più estesi e generali comprendono i meno estesi ed i più particolari. L’ambien-te ha ora acquistata una grande importanza nella Storia: non v’è più alcuno storico,che creda di poter tralasciare la considerazione dell’ambiente, sia fisico, sia morale,ed infiniti esempi si potrebbero qui portare, i quali dimostrano, come la fisionomia diun popolo, il suo carattere in un dato momento storico od in una serie di momentistorici succedentisi dipenda strettamente dall’ambiente: c’è un esempio divenuto qua-si classico: l’antico Egitto. Tutta la civiltà dell’antico Egitto è cosa intimamente con-nessa colle condizioni fisiche del paese e col fatto caratteristico di quella regione, l’i-nondazione periodica del Nilo. A questo grande fatto di ordine fisico tutta la vita del-l’antica popolazione Egiziana, tanto materiale, quanto intellettuale, è legata. Altriesempi si potrebbero arrecare: è stato dimostrato, come la storia del popolo Greco siain istretta relazione coll’atmosfera della Grecia. Ma non mi soffermo in queste parti-colarità, per quanto possano essere interessanti; mi basta aver innanzi il fatto, l’im-portanza della teoria dell’ambiente nella Storia.È necessario pertanto a studiare un grande ingegno formarsi un esatto concetto del-l’ambiente, in cui questo grande ingegno è vissuto. Né alcuno trovi questo contraddi-re ad un’opinione molto divulgata, ma falsa. Noi siamo avvezzi a considerare gli uo-mini grandi come uomini, che sorgano e vivano quasi intieramente segregati dalla vi-ta, che loro si agita intorno. Ma questa non è che apparenza: i grandi spiriti apparten-gono all’età loro anche quando sembrano contraddirla, anche quando si atteggiano agrandi avversarî della loro società. Un ingegno, per quanto grande esso sia, è per lamassima parte foggiato dall’ambiente, perché da questo ambiente riceve la sua edu-cazione, ed un modo di percepire le cose, di cui potrà spogliarsi in parte, in tutto mai− riceve i convincimenti della società, in cui vive. Le energie dell’uomo d’ingegnosono sparse nell’ambiente, in cui egli vive: il grande ingegno in molti casi non è cheun apparato condensatore, che concentra in sé le sparse energie e le foggia insiememeravigliosamente. E non bisogna neppure credere, che un grande ingegno, quando sisenta già costituito e maturo possa sbrancarsi in tutto dalla società, in cui vive, ed acui appartiene: i grandi ingegni partecipano poco alla natura esteriore di questa socie-tà, ma partecipano tanto più alla natura profonda e latente della società in cui si svol-gono.

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Io non posso diffondermi su queste considerazioni: dal poco, che ho detto, si può in-tender il molto, che si potrebbe dire. A me basta aver indicato la necessità di questostudio.Ho accennato alla molteplicità degli ambienti: noi nel caso presente possiamo lascia-re da parte l’ambiente fisico, perché l’ambiente fisico ha nel caso nostro esercitato ilsuo influsso su tutta la società, e questo influsso si è già immedesimato con essa. Ri-volgendoci all’ambiente morale incominceremo da quella specificazione dell’ambien-te morale, che si è l’ambiente religioso.Non è possibile parlare di Dante, autore della Divina Commedia, senza dare unosguardo alle condizioni del sentimento religioso nel tempo in cui Dante vive ed ilPoema è composto. Immenso è il sentimento religioso nel Poeta, e ciò perché nel-l’ambiente morale di quei tempi il sentimento religioso tiene larghissimo posto: ilsentimento religioso domina: tutto il mondo, la società cristiana ha il suo culminenella Chiesa. La società religiosa costituisce un’umanità di più angusti confini, chel’umanità naturale, costituisce quello, che fu chiamato la Cristianità. Ora questa pa-rola non si usa più: certi concetti si sono sbiaditi, le condizioni si sono mutate; manel Medio Evo i popoli credenti in Cristo costituivano come un immenso popolo, laCristianità, e la Cristianità sotto un certo aspetto succedette alla Romanità. La Cri-stianità è una grande società, che contiene in sé le singole società politiche.Il sentimento religioso ci appare dotato di una grande vigoria ed intensità in quei se-coli; ma sarebbe un errore il credere, che la coscienza del Medio Evo sia tutta confit-ta e perduta nel sentimento religioso: considerare il Medio Evo come uno smisuratochiostro è un errore grandissimo: se il sentimento religioso dominava, ciò non vuoldire, che sotto ad esso non si agitassero molte coscienze, e molte coscienze non si ri-bellassero e non tentassero di venire a galla. Già nei primi secoli della Chiesa si ma-nifestano le prime ribellioni delle coscienze nella molteplicità delle eresie, che afflig-gono la Chiesa, e questo lavorìo col progredire del tempo non diminuisce; anzi noncessa più, ed assume certi caratteri, che prima non aveva mostrati. Una cosa ci paredegna essenzialmente di nota, ed è il bisogno, che lo spirito umano sente, di darsi ra-gione della propria fede, di darsi ragione del dogma. Non è più adunque una fede in-genua, ma una fede, che discute se stessa: è tutto un lavorio interno, che tenta sussi-diare la rivelazione, l’autorità colla ragione: la rivelazione, l’autorità sola non basta-no più. Il fatto è importantissimo: con ciò si viene ad attribuire alla ragione un’auto-rità che altrimenti non avrebbe. Gregorio Magno, il grande pontefice, metteva, è ve-ro, l’autorità sopra la ragione, ma incontrava molti e risoluti contraddittori. Berenga-rio di Tours giunge a dire, che autorità e verità sono due principî che assolutamentesi escludono.Cominciamo a scorgere una religione filosofica, segnata principalmente da Abelardo:la rivelazione è sorpassata, e la coscienza assurge ad un grado, che dai seguaci diqueste dottrine si considera come più elevato e più nobile. Il contenuto della rivela-zione si mantiene ancora, ma solo perché, si dice, è conforme ai dettami della ragio-ne: è un raziocinio bello e buono, esercitato, è vero, in servizio della coscienza reli-giosa, ma in sostanza è sempre raziocinio: è l’esercizio della ragione sopra un tema,che cercasi di sottrarre ad essa. È questo un pericolo avvertito da parecchi, e tra glialtri da Sant’ Anselmo, che non voleva questo connubio della fede colla ragione: enoi ritroveremo questo concetto in Dante stesso: la mente di Dante si ritira spauritainnanzi a questo potere della ragione. Sant’ Anselmo aveva ragionato dal suo puntodi vista, quando dicendo «credo quia absurdum» veniva a dire, che la fede non ha bi-sogno della ragione.

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Tra queste due maniere di credenza religiosa, la primitiva intima e spontanea, l’altrariflessa e ragionata, si caccia in mezzo una terza specificazione ancor essa molto de-gna di essere considerata: il misticismo, che nasce dall’aver fiducia né nell’una nénell’altra maniera di credenza. Il misticismo pretende di aver bisogno né dell’autori-tà, né della ragione, ma crede di dar la verità ai suoi seguaci mediante una intuizioneimmediata della medesima, mediante un immediato congiungimento colla Divinità:nell’estasi, nel rapimento, quando la volontà nostra è soppressa, c’è forse bisognodella ragione o della autorità? Questo è il misticismo, che si mette in mezzo alle dueparti contendenti, alle due opposte dottrine.Ma la cosa non finisce qui: questa fede religiosa; che pure appare così intensa non èpiù tale, se si fanno altre considerazioni. Le eresie sono numerose, e contro di esse laChiesa è costretta ad armarsi di armi sempre più formidabili. Ma io non voglio parla-re delle eresie: c’è qualche cosa di più. Vediamo sorgere qualche cosa, che ha moltodi simile con la religione naturale: troviamo molti seguaci di Averroè, il filosofo ere-tico, che dice, che tutte le religioni sono ugualmente cattive: troviamo inoltre traccedi materialismo e di ateismo; non sono molto frequenti, perché il sentimento religio-so è ancora molto potente, ma sono macchie e fenditure in una tavola ben liscia e le-vigata. Lasciando le altre regioni, queste tracce di materialismo sono abbastanza no-tabili in Italia: Giovanni XII, Federico II e Guido Cavalcanti sono accusati di ateismoe dell’ultimo, si dice che appartenesse ad una setta di Epicurei, che negava l’immor-talità dell’anima, e probabilmente anche altro. E di un’altra particolarità bisogna te-ner conto: i ricordi del paganesimo antico, che agivano contaminando la nostra reli-gione ed intaccando l’intensità del sentimento religioso non di un singolo individuo,ma della società cristiana. E queste incertezze, queste negazioni, queste ribellioni noinon troviamo soltanto nelle coscienze degli uomini addotrinati, ma anche nelle plebi.Non sono fenomeni molto grandi, è vero, ma sono fenomeni rivelatori, e di questi fe-nomeni è cagione prima la scostumatezza del Clero, la quale in tutti i tempi ha sce-mato il sentimento religioso. Anche il successo passeggero delle Crociate fu unagrande delusione per le genti cristiane: se v’era speranza ben fondata, era questa, chele armi cristiane portate a liberare il sepolcro di Cristo dovessero avere prospero suc-cesso; e poiché questo successo non fu, che passeggero, la coscienza cristiana ne eb-be una scossa, ed il sentimento religioso ne scemò. Le Crociate poi produssero ancheun altro effetto: posero i popoli cristiani dell’Occidente a contatto coi popoli dell’O-riente: ed allora si vide che questi popoli, che pur professavano una religione esecratadai Cristiani non erano meno onesti e meno morali dei popoli cristiani: si conobbecosì la possibilità di una morale indipendente dal dogma. Tutte queste ed altre ragionigettavano gli spiriti in una specie di indifferentismo religioso, che si rivela in una no-vella del Boccacci, la novella delle tre anella (I, 3). Tuttavia il sentimento religiosodomina tuttora la coscienza dei popoli cristiani del Medio Evo; vi troviamo SanFrancesco coll’opera sua efficacissima, vi troviamo altri fatti molto significanti, co-me il furore ascetico, di cui ci danno prova i Flagellanti, il primo sorgere dei Flagel-lanti è del 1258: sono fatti questi, che mostrano un risveglio del sentimento religioso.E potrei ricordare infinite particolarità, come Giovacchino di Flora e i suoi seguaci ela palingenesi dei loro ideali; ma mi limito ad accennare come due Papi, del secoloXI l’uno, e l’altro del XII, Gregorio VII ed Innocenzo III, condussero al più alto gra-do di potenza l’autorità dei Pontefici, il che non si sarebbe potuto ottenere senza laestensione della fede: e quando nel 1300 Bonifacio VIII bandì il Giubileo, si dice chedue milioni di pellegrini visitarono la Eterna Città. Tutti esempî, che mostrano comesi venivano producendo alcuni moti, segnali di un desiderio di variazioni. Il tempo

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era opportuno e propizio. La Divina Commedia sotto un certo aspetto è pensiero, cheriassume in sé la coscienza religiosa del Medio Evo, ma in pari tempo è grido di am-monizione e di riforma.

L’ambiente filosofico e scientifico

Dirò quest’oggi poche parole intorno alle condizioni della Filosofia in genere edel sapere scientifico nel Medio Evo. Anzitutto è a notare, che il sentimento religiosocristiano nei primi tempi della Chiesa si oppone nel modo più reciso e più risoluto aquella Filosofia, che i Pagani avevano coltivata. Il primo periodo del Cristianesimo èun periodo di repulsione per il pensiero pagano. Questa opposizione non ha bisognodi spiegazioni, ma è naturale. Disse San Paolo, che Cristo, venendo al mondo, ha re-sa vana qualsiasi filosofia: la vita cristiana era una vita incomparabilmente superiorea quella, cui [filosofia] di grandi ingegni aveva potuto faticosamente escogitare. Que-sto è il sentimento del Cristianesimo per tutto il primo periodo della Chiesa: un senti-mento di avversione e di repulsione. Io potrei recare molte testimonianze, ma staròcontento ad alcune poche, sufficienti per fissare le idee. Citerò adunque un esempiocapitale, l’esempio di Sant’Agostino, che ci mostra egli pure l’opposizione, di cui ab-biamo parlato; tendenza, che aveva essa pure le sue ragioni. Sant’Agostino è un gran-de avversario della filosofia Greca e Romana, ma, benché avversario risoluto, qual-che volta si contraddice, e finisce per riconoscere un certo valore là, dove per l’ad-dietro non ne aveva riconosciuto alcuno. Egli sostiene, che la venuta di Cristo ha resavana ogni filosofia: la vera filosofia è la cristiana: è inutile andar cercando speculan-do un’altra filosofia: ogni fatica di mente a questo scopo è nella migliore ipotesi fati-ca sprecata, e nella peggiore ipotesi è dannosa, perché conduce all’errore. Lo stessoSant’Agostino dice, che i filosofi pagani sono assai più meritevoli di derisione, chedi discussione e di confutazione. Questa a noi potrà parere una strana cosa; ma, seper poco noi ci mettiamo dal punto di vista di Sant’Agostino e di quelli, che avevanola sua fede, comprenderemo, se anche non lo giustificheremo, il suo giudizio.

Nondimeno Sant’Agostino si contraddice, e con lui si contraddicono molti altri, ericonoscono, che prima di Cristo erano stati altri filosofi, che avevano intravedute disfuggita alcune verità, poste poi innanzi dal Cristianesimo. Il fatto bisognava ammet-terlo; ma si voleva spiegare come mai questi savi avevano intraveduto ciò, che dove-va restare ignoto alle menti umane prima di Cristo. Una delle spiegazioni è, che unaparte della verità divina fosse stata manifestata, tradita in certo qual modo agli uomi-ni, quando gli angeli si mischiarono colle figlie degli uomini. Sant’Agostino giunse adire, che Platone, quello, che fu poi chiamato il divino Platone, aveva presentito ildogma della Trinità. Ammesso ciò, avviene come necessariamente un raccostamento,cosicché da una parte noi vediamo avversione e repulsione, e dall’altra un raccostarsied uniformarsi. Lo stesso Sant’Agostino dice, che le maggiori verità della filosofiacristiana non si possono intendere senza la filosofia di Aristotile: Così egli viene adistruggere la propria opinione, e ciò perché egli non poteva opporsi ad una naturaletendenza dello spirito umano di indagare e di ricercare, di esercitare, in altri termini,quelle facoltà di raziocinio che sono in lui, che sono sue e naturali. Così fin dai primitempi della Chiesa noi vediamo in essa penetrare il pensiero filosofico, non solo peropera degli eretici, ma anche per opera degli ortodossi. Noi vediamo non solamente ignostici esercitarsi in queste discipline filosofiche, ma i Padri stessi della Chiesa ve-nir confortando la dottrina, che essi espongono, con argomenti tratti dalla Filosofia. E

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ciò facevano non solamente per naturale tendenza dello spirito umano, ma ancora pernon soccombere nella lotta improba, che avevano intrapresa e sostenevano col Paga-nesimo. Cosicché nei primi secoli del Cristianesimo troviamo tutta una filosofia, cheè dei Padri, una filosofia, che è in gran parte mutuata dall’antica. Potevano certamen-te esser altre la Metafisica e, in parte almeno, la Morale, sebbene la Morale, special-mente quella degli Stoici, non fosse in urto affatto colla Morale cristiana; ma la Dia-lettica, la Logica era necessariamente uguale. La Dialettica antica, specialmente laLogica, passa nel Medio Evo per opera particolarmente di Boezio, di Cassiodoro, diMarziano Cappella: passa per opera di questi specialmente la filosofia di Aristotile,ma passa anche la Filosofia di Platone per opera di Sant’Agostino, di Porfirio e delcosiddetto Dionigi lo Areopagita. Per questi canali la Filosofia dell’antichità passanel Medio Evo, e nel Medio Evo trova presto occasione di allargarsi e di rinnovarsi.Certo sembra che il Platonismo doveva piacere al Medio Evo piuttosto, che la dottri-na Aristotelica, perché Platone sente molto di misticismo: tuttavia la Aristotelica è laFilosofia, che prevale, e ciò specialmente perché essa non è conosciuta in tutta la suaestensione, in quella parte, che avrebbe potuto mettersi in urto col Cristianesimo. Lacompleta conoscenza della filosofia di Aristotile è in Occidente procacciata per mez-zo degli Arabi infedeli, degli Arabi così odiati dai Cristiani. Come si vede, il fatto èmolto curioso: senonché quando per tal via si ebbe una più piena conoscenza di quelche era la dottrina Aristotelica, si conobbe quanto una parte di quella filosofia fossepericolosa, e la Chiesa tentò soffocarla, ma invano: la filosofia Aristotelica dominatutto il pensiero del Medio Evo, e l’autorità di Aristotile in tutto il Medio Evo èun’autorità senza rivali e senza paragone. È soltanto molto tardi, in pieno secolo XV,quando ha luogo il Rinascimento, che essa incomincia ad essere contestata. È a que-sto modo, che si costituisce quella, che si chiamò la Scolastica, la filosofia del MedioEvo, una filosofia, che non ha lasciate grandi traccie nella storia delle conquiste del-l’umano ingegno, ma che tuttavia non va giudicata troppo severamente. La Scolasticaè una filosofia formale, senza contenuto: fu una grande palestra, in cui si esercitò lospirito umano: sarà stato un grande combattimento di parole, ma in questi combatti-menti di parole si aguzzavano gli ingegni, e questi giungevano ad un alto grado diforza e di destrezza, tal grado, che talvolta raggiungevano la Sofistica. Cosicché sicomprende, come Simone di Tournay potesse dire, che a suo beneplacito avrebbe po-tuto così rafforzare il dogma cristiano coi suoi ragionamenti, come distruggerlo. Sia-mo adunque in piena Sofistica, ma da questa sofistica viene fuori un grande pensiero,come si è visto nella lezione passata.

In quel tempo la Filosofia non poteva aver vita propria, e di necessità doveva per-ciò avvenire un connubio tra la Filosofia e la Teologia, per sorreggersi e per confor-tarsi a vicenda. Senonché questo connubio non era senza pericoli: Gerberto, che fupoi Pontefice sotto il nome di Silvestro II, già nel decimo secolo − notisi bene − fadella Teologia un’alleata della Filosofia, e Raimondo di Tours? sostiene, che la Filo-sofia non è, che l’ancella della Teologia, denominazione questa, che ricorre per tuttoil Medio Evo. Ma già Gregorio IX si duole, che la ancella tenda ad usurpare alla pa-drona il primo posto.

Il connubio adunque non poteva durare a lungo: o prima o poi bisognava, che laTeologia e la Filosofia si dissociassero, per seguire ciascuna il suo cammino; maquesto non poteva avvenire repentinamente, dall’oggi al domani: bisognava, che pri-ma certi influssi avessero tempo ed agio a manifestarsi. E tra questi si può annovera-re l’influsso della filosofia Averroistica. Averroè è un avversario dichiarato del Cri-stianesimo, e non solo del Cristianesimo, ma ancora dell’Islamismo, di cui dice, che

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è una religione di porcelli, perché Maometto, vietando il mangiar carne di porco, vo-leva favorire questo animale. Ora le dottrine di Averroè si diffusero per tutta Europa,ed ebbero grande numero di seguaci specialmente nell’Università di Parigi: nel 1277la Chiesa le combatté aspramente. Anche nell’Università di Padova la Filosofia diAverroè si diffuse largamente, e noi sappiamo, che Federico II era imbevuto di dot-trine venute di lontano e circondato da persone, che non erano della sua razza. Biso-gnava adunque, che Filosofia e Teologia si dissociassero; ma c’è un lungo periodo, incui la dissociazione, che già avviene internamente, non osa manifestarsi, ed allora lospirito umano ricorre ad un accorgimento molto singolare, del quale sarebbe curiosostudiare gli effetti: ricorre alla invenzione di quella, che si dice duplice verità, unaverità secondo la ragione, ed una verità secondo la fede. E la Chiesa si teneva paga diquesta distinzione, non perseguitando il pensatore, e talvolta non vietandone le ope-re.

Tutto ciò mostra un progresso, una maggiore intensità e vigoria del pensiero filo-sofico, perché se così non fosse, non cercherebbe una libertà di movimento, di cuinon saprebbe che fare. S’avvicina il giorno, in cui lo spirito umano, stanco di batta-gliare intorno alle forme, si rivolgerà allo studio delle cose reali, e si darà a quel-l’Empirismo, che poi cede il luogo alla Scuola Positiva. È con Ruggero Bacone, ilcelebre monaco, che incomincia questo capitale rivolgimento.

Mi basta aver dette queste poche parole intorno alle condizioni del pensiero filo-sofico ai tempi di Dante: basti il sapere che, quando egli compare sulla scena delmondo, la Filosofia si è già emancipata in parte dalla Teologia.

Ed ora veniamo alquanto alla scienza all’insieme delle singole scienze. Anche quìnei primi secoli troviamo il solito atteggiamento della scienza cristiana di fronte allascienza pagana − avversione e repulsione. Del resto non bisogna dimenticare, che ilCristianesimo tende, anzi è costretto per natura sua a combattere, a negare l’anticacoltura pagana, a cui era strettamente congiunta l’antica coscienza religiosa pagana.Quell’avversione e quella repulsione si estendono a tutta la coltura pagana; ma quìv’ha anche una altra ragione di avversione, più recondita e più intima: il concetto,che la coscienza cristiana in quei primordi della nuova fede si era formato del mondomateriale, del mondo corporeo: il mondo materiale, il mondo corporeo era considera-to come causa di male. Origene, per esempio, pensa, che il mondo della materia nonsia sorto, se non dopo la caduta degli Angeli, cosicché tutto questo mondo della ma-teria è congiunto con un grande decadimento morale avvenuto innanzi. Questa dottri-na è pure la dottrina delle varie sette, che costituiscono il Gnosticismo: secondo ladottrina dei Gnostici il mondo materiale non è opera di Dio, ma è opera di una divi-nità molto meno perfetta, che è il Demiurgo, e Cristo, venendo al mondo, si contrap-pone a questa divinità imperfetta, a questo Demiurgo. Secondo il Gnosticismo nelmondo della materia tutto è causa di male: e questa dottrina dà luogo poi alla eresiadei Catari, eresia, che dura per tutto il Medio Evo, e secondo la quale il mondo dellamateria è opera addirittura di Satana. Considerando la natura con questi criteri, certonon si può essere molto attratti a studiarne i fenomeni: una delle prime cagioni delsapere, che si esercita intorno alla natura, uno dei primi stimoli a fare che questo sa-pere sorga, si produca, è il sentimento di simpatia, che l’uomo ha per il mondo cor-poreo, in cui vive ed opera; senza questo sentimento di simpatia l’uomo non può es-sere attratto a creare, a produrre quelle, che si chiamano appunto le scienze della na-tura. Santo Agostino si contenta di dire, che le scienze della natura sono sempre inu-tili, ma qualche volta potevano anche essere pericolose. Sono pochissimi quelli, checon Sant’Atanasio considerano la natura come informata anch’essa dal logos, dal

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Verbo Divino. Ed anche tra coloro, che della natura avevano un concetto migliore,pochi erano attratti a studiarla; perché essi consideravano la natura, il complesso deifenomeni naturali, come una manifestazione dei voleri e dei poteri divini. Allora nonsi aveva peranco il concetto della legge, che regola i fatti naturali: cosicché la scienzapoteva riuscire sospetta sotto un altro rispetto, considerata con un altro criterio: que-sta indagine della manifestazione divina nella natura può sembrare sconveniente, tal-volta anche sacrilega, il ricercare può sembrar sacrilego, per cui Dante stesso dirànella Commedia:

State contenti, umana gente, al quiaChè, se potuto aveste veder tutto,Mestier non era partorir Maria.[Pur. III 37-39]

Quello, che ho notato ora particolarmente per la natura e per le scienze, chel’hanno per obbietto, si deve notar anche per le scienze della Storia: Sant’Agostino,Origene, e tutti gli altri considerano la Storia come una manifestazione divina: il vo-ler penetrare il segreto della Storia è più riprovevole ancora, che il voler ricercare isegreti della natura, perché Dio si manifesta più direttamente ancora nella storia, chenella natura: per cui l’ignoranza anche in tempi posteriori a questo sarà proclamatauna virtù sociale.

Il sapere nel Medio Evo non è un sapere autonomo, che fiorisca di per sé: è lascienza antica, che trapassa nel Medio Evo, come era trapassata la Filosofia: ma, co-me la Filosofia, anche essa si è immiserita. La scienza Medievale è tutta scienza avu-ta per eredità, per tradizione: per tutto il Medio Evo non aggiunge nulla a questo sa-pere antico: sembra alle volte lo accresca, ma in realtà quando crede di accrescerlonon ha che scoperta una qualche parte del sapere antico perduto: non aggiunge nulla,finché non si fa sentire sulla società cristiana l’influsso degli Arabi.

Gli Arabi tengono un grande posto nella storia della scienza: la società cristiana apoco a poco si lascia penetrare dal loro influsso, dall’influsso di una scienza nuova,che a poco a poco penetra nella loro vita, cosicché un’altra volta si svolgono le scien-ze: è un’ [...] che esse hanno ricuperata. E quì ci troviamo innanzi nuovamente Rug-gero Bacone.

Ricordando ancora la tendenza del Medio Evo a raccogliere il sapere in Enciclo-pedie, si potrebbe risalire nella storia di queste Enciclopedie fino a Marziano Capel-la: queste Enciclopedie crescono, aumentano sempre più di numero e di volume, fin-ché si giunge a quella grandissima di Vincenzo Bellovacense in 82 libri e 9905 capi-toli: ha nome Speculum Maius, e si divide in quattro parti, che sono Speculum Natu-rale, Speculum Morale92, Speculum Doctrinale, e Speculum Historiale: però le ultimeparti furono compilate non da lui, ma da altri. Cosicché quando noi perveniamo all’e-tà di Dante, noi ci troviamo al cospetto di una scienza, che in gran parte è stata eredi-tata ed avuta per tradizione, e dentro cui con nozioni vere sono mischiate favole emenzogne; ma già in mezzo a questi organismi si manifesta una nuova vita. Quandosiamo giunti a Dante, noi ci troviamo in presenza di un vero ravvivamento del sape-re.

92 Trattato di etica e morale ormai ritenuto, come è noto, aggiunta spuria di autore ignotodel XIV.

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L’ambiente letterario

Dirò oggi dell’ambiente letterario dell’epoca in cui sorse Dante. In questa tratta-zione dovrei essere alquanto più diffuso; ma questo stesso argomento ho trattato in-cominciando il corso dell’anno passato, e perciò mi contenterò di venir rammentandoalcune cose generali, soggiungendo quello, che già non ebbi agio ed opportunità dinotare. Quel che mi preme far osservare è, che io tratto brevemente un tema assailargo, e che vorrebbe una più ampia trattazione.

Di fronte alla letteratura greco-latina, alla letteratura dei Gentili, noi vediamo lasocietà cristiana prender quello stesso atteggiamento, che la abbiamo vista prendererispetto alla filosofia ed alla Scienza antica. È un sentimento di diffidenza, un senti-mento di repulsione, e sarebbe un errore far colpa di questa attitudine alla società cri-stiana dei primi secoli. La società cristiana dei primi secoli non poteva essere in altromodo. Ci troviamo dinnanzi nel caso della letteratura ad un caso speciale di quellarepulsione generale. Negli Evangeli è detto, che Satana è il principe di questo mon-do, e che Dio è re non di questo, ma di un altro mondo ben diverso: e con dir questosi veniva ad assalir tutto l’ordinamento sociale, tutta la vita di allora. Quella denomi-nazione di «diaboliche» data alle pompe raccoglie in sé un concetto nato appunto daquesta persuasione, che il mondo è in balia di Satana. «Pompa diabolica» era tuttociò che apparteneva alla coltura pagana: era non solo il Gentilesimo considerato co-me religione, ma ancora tutto quello che al Gentilesimo si riferiva, tutto quello, chedel Gentilesimo era parte, e quindi le scienze e la letteratura, che era tutta greco-ro-mana. Quel medesimo Satana, che rispondeva ed ingannava coi falsi responsi deglioracoli, era la musa, che inspirava gli scrittori di Grecia e di Roma, e quanto più que-st’arte, questa poesia rideva impareggiabilmente, tanto più pareva al Cristiano con-vinto di scorgervi un’insidia di Satana nascosta sotto forme seducenti. Di qui l’atteg-giamento di ostilità preso dalla coscienza cristiana di fronte a questa letteratura. Equesto sentimento di repulsione era più vivo verso la letteratura, che non verso le al-tre manifestazioni dell’arte antica, perché quest’arte della parola più facilmente sidiffonde a corrompere gli animi: il libro gira, circola e parla, mentre la statua è im-mobile e silenziosa.

Le prove, le testimonianze di questa diffidenza, di questa ostilità, sono infinite. Sipotrebbe fare un largo repertorio di giudizî, nei quali è espresso questo sentimento,un largo repertorio di atti, che mostrano, come questo sentimento si appalesasse, equali forme prendesse. Io ho ricordati nello scorso anno alcuni esempî abbastanza si-gnificanti: ora non ne ricorderò, che pochi o non ancora ricordati, o per la grande im-portanza meritevoli di esserlo una seconda volta. Tertulliano, ardito apologista, tra lealtre cose, che dice contro la coltura pagana, dice anche questo, che l’ufficio di ludi-magister, di professore letterario è incompatibile colla qualità di Cristiano. E questaopinione, se espressa più recisamente, è l’opinione comune dei Cristiani, tanto di chi,come Tertulliano, fa professione di scrittore e di difensore della religione, quanto dichi crede soltanto ingenuamente. Citerò ancora un esempio molto notevole, l’esempiodi S. Gerolamo: S. Gerolamo in gioventù era stato appassionato cultore degli studiclassici: le opere sue, tanto importanti nella storia del sentimento religioso e del dog-ma cristiano, fanno prova di uno studio coscienzioso e profondo, studio, che eglistesso non ha dissimulato; anzi egli stesso lo conferma, rimpiangendo il tempo malspeso e fremendo al pensare al pericolo, che quella troppa coltura e quell’amore malposto gli fecero correre, e da cui per miracolo scampò. Ora San Gerolamo raccontache una volta gli parve di essere assorto in Cielo al cospetto del terribile Giudice ed

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interrogato, se fosse veramente Cristiano: rispose egli che tale era; ma gli fu data unasolenne smentita dicendogli, che non era Cristiano, ma Ciceroniano. E San Gerolamova anche più in là, e dice, che il giudizio non si fermò ad una semplice ammonizioneverbale, ma egli s’ebbe lì per lì il castigo d’essere flagellato solennemente, perché siricordasse in avvenire, che la qualità di Cristiano non era compatibile con quella diCiceroniano. Questo è uno degli esempi più notevoli e più significanti, che la storiadell’avversione contro la letteratura pagana ci possa fornire.

Ricorderò ancora di sfuggita l’esempio di Gregorio Magno. San Gregorio dice,che lo studio della Grammatica, lo studio letterario in genere è assai poco convenien-te al laico, che faccia professione di Cristiano, e del tutto sconveniente e disdicevolead un vescovo. Questo diceva San Gregorio Magno in una lettera sua diretta appuntoad un vescovo, cui rimproverava il tempo speso nello studio delle lettere pagane...

Questi pochi esempî bastino a confermare ciò, che si disse della diffidenza deiprimi Cristiani verso le arti pagane, e specialmente verso la letteratura pagana. Se-nonché qui noi assistiamo ad un fenomeno singolare, lo stesso, che già abbiamo nota-to per la Filosofia e per la Scienza. Malgrado quella diffidenza a dispetto di quellarepulsione, lo studio delle lettere pagane non perisce. E ciò si comprende facilmente:gli stessi cristiani che tanto odiavano quella poesia e quella letteratura, se volevanoadempiere coscienziosamente al loro ufficio di apologisti della nostra religione e dicontraddittori della religione avversaria, dovevano procacciarsi una cognizione alme-no sommaria di quella letteratura; non si combatte un nemico, senza sapere che cosapensi, che cosa scriva, che cosa abbia fatto. Senonché il giorno, in cui si ponevano astudiare quegli scrittori, il giorno, in cui si ponevano a studiare le pagine di Vergilioe di Cicerone, non potevano fare, che il loro spirito non obbedisse alle leggi naturali:anche in loro c’era sentimento di bellezza, ed anche essi subivano le impressioni, chei capolavori antichi producono sopra un animo non incapace di riceverle, e, per quan-to essi chiudessero gli occhi a certe insinuazioni dell’arte antica, queste insinuazioniavvenivano, ed essi, senza che se ne rendessero conto, ne erano compenetrati. E c’eraancora un’altra ragione per cui quella diffidenza e quella repulsione dovevano venireall’ultima conseguenza cui dovevano arrivare: questi difensori della fede nostra furo-no certamente tratti dallo svolgimento del loro pensiero e dalla deduzione propria aricercare alcune prove di quella religione, che difendevano: importava ad essi mostra-re, come tra gli stessi pagani v’era chi aveva presentite le verità, che il Cristianesimopoi aveva annunziate al mondo: così il compito loro sarebbe stato agevolato. Abbia-mo veduto, che ciò si fece nel dominio delle dottrine filosofiche: lo stesso si fece perle stesse ragioni nel dominio della letteratura, nel dominio della poesia, e si incomin-ciò a dire, che il tale ed il tale altro poeta avevano dette cose contrarie alla dottrinapagana, e presentita la dottrina di Cristo. Ricorderò ad esempio Virgilio, del quale al-cuni versi sul principio dell’Egloga IV furono dai Cristiani considerati, come unaprofezia della venuta di Cristo. Conseguenza naturale di tale scoperta si era, che Vir-gilio non poteva più essere tenuto un seguace di Satana: quindi la tendenza di riacco-stare sempre più Virgilio alla fede Cristiana, di farne un Cristiano anticipato, un Pro-feta: in certe Sacre Rappresentazioni del Medio Evo Virgilio comparisce ultimo tragli antichi Profeti, che avevano annunziata la venuta del Messia: sorge intorno a Vir-gilio tutta una leggenda, che si accresce, si allarga, si compie, e forma di Virgilio unCristiano, e questa leggenda giunge tanto oltre, che si immagina un viaggio appositodi San Paolo al Purgatorio per convertire Virgilio. Questa medesima tendenza si ma-nifesta in altre leggende, che si propongono di mutare in cristiani gli scrittori latiniPagani, ed una, ad esempio, di queste leggende è messa innanzi a proposito di Stazio.

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E questa formazione di leggende era aiutata da un procedimento letterario e critico,per cui si moralizzavano gli scrittori pagani per mezzo dell’allegoria: si pretendeva ditrovare una verità morale sotto le favole dei poeti pagani.

Si vede adunque quali vie lo spirito umano tentasse, per conciliare questi due op-posti interessi, l’interesse della fede da una parte, un interesse più largo di umanitàdall’altra. E noi vediamo fin dai primi secoli della Chiesa la letteratura Greca e Lati-na esser cognita ai Cristiani, almeno a quelli, che fanno professione di studi, e la let-teratura Latina e Greca cristiana prender quelle forme, in cui si era adagiato il pen-siero Latino in Occidente, ed il pensiero Greco in Oriente.

Più tardi di molte cose si perde il sentimento ed il gusto, ma sempre vive l’ammi-razione e lo studio per alcuni, se non per tutti, i capolavori della letteratura latina: espesso ancora si manifesta un risveglio, ed in questi studi si agita e si svolge uno spi-rito nuovo. Prima vediamo la letteratura latina, e la greca in parte, trovare un asilo inIrlanda nel sesto e nel settimo secolo; poi nell’ottavo e nel nono secolo troviamo isuoi promotori ed i suoi fautori alla corte di Carlo Magno: e in seguito vediamo que-sti studî non interrottamente continuati, ora con maggior, ora con minore intensità, ecoltivati e professati unicamente quasi da ecclesiastici e da claustrali.

Ma a questo proposito, a dir vero, le opinioni non sono troppo concordi: quandosi parla di ciò, che gli uomini di chiesa nel Medio Evo fecero per le letterature anti-che, non si è troppo d’accordo nel giudicare l’opera loro. Alcuni dicono, che bisognaringraziare il caso, se i monaci non hanno distrutto quanto ci rimaneva dell’antica let-teratura. Altri ai monaci appunto attribuiscono la conservazione di questa letteratura.Anche in questo caso, come sempre, l’opinione vera è nel mezzo: non si può negareche in quei tempi di ignoranza, i monaci, per procurarsi su che scrivere, abbiano ra-schiate alcune antiche scritture, per cui all’opera loro è dovuta la perdita di alcune diesse: ma questa non è, che una parte dell’opera loro, la parte riprovevole e dannosa.Bisogna pur riconoscere, che i monaci salvarono in gran parte le lettere classiche, leopere principali della letteratura latina. Certo si è che nella solitudine dei chiostri imonaci ai quali avanzava tempo, dopo che per essi si era adempiuto a tutte le prati-che religiose, erano naturalmente spronati, stimolati a cercare qualche occupazionenello studio delle lettere antiche, dacché letteratura nostra non esisteva, od era solonascente e di troppo scarso volume. Sicché fu quasi una necessità per loro attendere aquesti studî: e che in realtà abbiano atteso a questi studî son prova infiniti codici,scritti di lor mano, contenenti le opere di antichi autori latini. Vi furono durante tuttoil Medio Evo dei chiostri, nei quali con più onore e con più amore si attese a questistudî: basti citare San Dionigi in Francia. York in Inghilterra, Fulda in Germania,Bobbio e Monte Cassino in Italia. Ciò senza negare il male che molte volte sciente-mente ed incoscientemente fecero; ma, come non si può negare il male, così non sipuò negare il bene.

Più di una volta ho accennato agli studi intorno agli scrittori latini. Era naturale,che ciò avvenisse: dopo la separazione dell’Impero d’Oriente da quello di Occidente,l’influsso Greco diminuisce, si fa sentire sempre meno. La cognizione della linguagreca nel Medio Evo è sempre meno diffusa: i conoscitori del Greco sono ecceziona-li: appena si possono citare Scoto Erigena e pochi altri. È vero, che durante tutto ilsecolo decimo nel Mezzogiorno d’Italia gli atti pubblici erano scritti in Greco; ma statuttavia il fatto, che il Greco durante il Medio Evo è pochissimo noto, mentre è uni-versalmente noto il Latino. Ora vuol essere notata questa relazione di cose. Danteignorava il Greco, sebbene da alcuni si sia voluto senza una ragione al mondo soste-nere, che egli ne sapeva qualche cosa: similmente il Greco ignoravano il Petrarca ed

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il Boccacci, perché quella poca notizia, che essi ne avevano, non si può chiamare co-gnizione. Egli è solo più tardi, quando il movimento dell’Umanesimo si manifestòche rifiorirono in Occidente gli studi del Greco. Sarebbe una lunga storia quella deivarî gradi, per cui passa la cognizione del latino: basta notare che universale era que-sta cognizione della lingua e della letteratura latina. Non bisogna dimenticare, che laChiesa poteva avere le sue buone ragioni, per avversare la lingua e la letteratura lati-na, ma nemmeno la Chiesa poteva dimenticare, che la lingua latina era la propria: diqui un naturale incitamento ad appropriarsi quello strumento di pensiero nel modomigliore. Cosicché, quali esser si vogliano le vicende di innalzamento e di abbassa-mento, cui abbia potuto andar soggetto lo studio del Latino nel Medio Evo, questostudio non viene meno mai, e vi sono anzi ragioni, per cui fiorisca. E prima del Rina-scimento noi già troviamo in Italia e fuori d’Italia scrittori, che, se non scrivono ilLatino, come più tardi lo scrissero gli Umanisti, già si accostano a loro: basta citareun elegante scrittore del secolo XII, Giovanni Sarisberiense, che è già un mezzoUmanista. Ma, d’altra parte, non ci dobbiamo meravigliare, se in Dante siamo co-stretti a notare lo uso di un Latino assai lontano da quello del secolo di Augusto:Dante si trova rispetto al latino nella stessa condizione di quasi tutti i contemporaneisuoi: il Petrarca solo, come si è osservato, già incomincia ad essere Umanista, e tut-tavia bisogna procedere fino al secolo XV molto inoltrato per trovare quei latinistiche rifanno Cicerone in modo plausibile. Ho citato Giovanni Sarisberiense: vi furonoancora altri, che penetrarono un po’ più addentro nella letteratura antica, i Goliardi,quei Goliardi, nella poesia dei quali non rivediamo soltanto la lingua di Roma, maancora lo spirito dell’antichità, il sentimento che l’antichità ha della vita. Ma questinon sono che accenni.

A noi basta notare questo mantenersi vivo dello studio della letteratura latina du-rante il Medio Evo, ed osservare, come in Italia questa tradizione è più intensa e piùviva, che altrove. Nel secolo X Rotario, vescovo di Verona, si lagna perché in Italianon si fa, che meditare le pagine degli antichi autori Latini, che correr dietro alle lu-singhe ed alle lascivie di Properzio, di Ovidio e di Catullo.

Traendo la conclusione di ciò che, ho detto fino a questo punto, noi vediamo co-me, a dispetto di un sentimento di ostilità viva e risoluta, che la società Cristiana ma-nifesta di fronte alla coltura, all’arte, alla letteratura pagana nei primi secoli e dopo,tutta questa parte della vita e della coscienza pagana si serba e si trasmette. Questo èil fatto considerato nelle sue linee generali, che ci preme di notare. Mi rimarrebbe adire qualche cosa della letteratura Italiana contemporanea, ma già ne ho parlato l’an-no passato. Due sole cose dirò: c’è una letteratura, che si volge tutta intorno ad argo-menti religiosi, letteratura copiosa, larga, la letteratura delle «Visioni» a cui si con-nette la Divina Commedia. In Italia poi prima di Dante è nata una nuova maniera dipoesia, una maniera di poesia, che raccoglie già uno spirito nuovo, quella, che fuchiamata allora e poi la poesia del dolce stil nuovo, di cui fu cultore non solo, ma an-che promotore lo stesso Dante.

L’ambiente politico

Considerati nelle passate lezioni l’ambiente religioso, l’ambiente filosofico escientifico, e l’ambiente letterario, darò oggi un rapido sguardo all’ambiente politico.Ora in questo ambiente un grande fatto colpisce anzitutto, un fatto più d’ogni altrogenerale ed intenso, e questo fatto è l’antagonismo lungo e fiero delle due podestà, la

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temporale e la spirituale. Gesù Cristo aveva detto: «Il mio regno non è di questomondo», ma fu una voce nel deserto: la Chiesa non ne seguiva in questa parte la dot-trina. Noi non dobbiamo cercare per quali ragioni il Vescovo di Roma divenne il ca-po della Cattolicità: le ragioni sono molte, e, pensando a ciò, che fu Roma, si vedesubito come, se un vescovo doveva diventare il Capo della Cattolicità, questo dovevaessere il Vescovo di Roma. Quindi la storia della primazia del Papato si lega alla sto-ria di un’altra primazia, la primazia di Roma. Appena incomincia a formarsi questaprimazia, a costituirsi la gerarchia, incomincia a manifestarsi nel Papato una tenden-za molto difficile a vincersi, la tendenza a trasformarsi in teocrazia: il primato spiri-tuale fa tosto desiderare il primato temporale, perché, quando si incomincia ad avermolto, si desidera troppo. A poco a poco si costituisce quello, che fu poi chiamato −lo Stato di Santa Chiesa − l’origine del quale un’impudente menzogna fa risalire allacosiddetta donazione di Costantino. Dante vi credeva, vi credevano molti nel MedioEvo: i Papi stessi ne erano persuasi; doveva giungere un’età più oculata perché siscorgesse la vanità di questa leggenda: Costantino non ha mai pensato a costituireuno Stato alla Chiesa, Costantino non elevò nemmeno il Cristianesimo a religione diStato; diede solo alla Chiesa la facoltà di arricchire approfittando dei lasciti testa-mentari. Da questo alla donazione, per cui Roma e molte terre circostanti sarebberostate lasciate ai Papi quando Costantino passò a Bisanzio, ci corre assai. Ma già sulpricipio del secolo XII esiste un «Patrimonio di San Pietro» e sarebbe lunga faticacercare come si sia venuto costituendo; ma poi a poco a poco questo nocciolo crescesempre. Pipino venuto in soccorso del Pontefice contro i Longobardi, fa il ponteficestesso signore dell’Esercato di Ravenna e della Pentapoli: e Carlo Magno, disceso inItalia per la stessa ragione, non solamente conferma la donazione di Pipino, ma l’ac-cresce ancora, e d’allora in poi non v’è più ritegno: o per donazioni spontanee, o perestorsioni violente, il Patrimonio di San Pietro diventa sempre maggiore. L’eserciziodelle industrie e delle attitudini a formare uno stato temporale stimolavano semprepiù la cupidigia, cosicché è un solo grido quello, che in tutto il Medio Evo ci vienecontro la rapacità, l’insaziabilità della Chiesa. E questo grido non viene solamente daavversari della Chiesa, dai Goliardi, ad esempio, che potrebbero essere sospetti, mada Ecclesiastici di migliori costumi e di più elevata intelligenza, che gli altri: SanFrancesco inizia la sua riforma in nome di una divinità, per così dire, fino a queltempo molto disprezzata dalla Chiesa, inizia la sua riforma in nome della santa po-vertà, e vorrebbe ricondurre la Chiesa alla sua antica condizione di povertà, che eglicrede la sola legittima e giusta. Certo non poteva riuscire; ma gli Ordini da lui fonda-ti hanno per legge, che li governa, il rinunziare a tutti i beni.

E questo dominio di Santa Chiesa si accresce sempre più: sotto Innocenzo III loStato della Chiesa comprendeva l’antico patrimonio di San Pietro, il quale San Pietronon aveva avuto altro patrimonio, che una rete, il Ducato di Spoleto, la Marca d’An-cona e la Romagna. La potestà spirituale dei Papi si accresce adunque con una pote-stà temporale che tende a divenir, per quanto possibile, maggiore. Furono le condi-zioni dei tempi, che non permisero ai Pontefici di allargare questo dominio, quantosarebbe loro piaciuto.

Ma i Papi non tendevano a questo fine, soltanto, alla dominazione temporale, ten-devano ad un altro fine più legittimo, anzi doveroso, alla piena emancipazione, allapiena indipendenza spirituale. Questa indipendenza non fu molto grande, e non pote-va esserlo: nell’antica Roma, la religione non è che una ruota del congegno compli-catissimo dello Stato, che comprende dentro di sé con tutte le altre questa funzionedella vita sociale, che si può dir religione. Questa condizione muta poi, ma non subi-

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to: i primi Imperatori cristiani, raccolgono i Sinodi, inspirano i Padri raccolti a conci-lio, impongono ad essi la loro volontà. Se ciò fosse durato, la religione di Cristo pre-sto ne sarebbe stata alterata e corrotta, e perciò possiamo dire pienamente giustificatala tendenza dei Papi ad emanciparsi dal potere laico, dal potere civile. La traslazionedell’Impero in Oriente favorì questo loro proposito, e poi le circostanze li aiutarono.Pur troppo vediamo i pontefici ricorrere pel conseguimento di questo fine così lode-vole ad arti poco degne: quando vogliono emanciparsi dagli Imperatori Greci ricorro-no ai Longobardi: e quando vogliono emanciparsi dall’oppressione − ché tale era di-venuta − dei Longobardi ricorrono ad un altro popolo, i Franchi. Questo sistema fuusato molte volte, troppe volte, dai Papi nella loro storia. I pontefici ottengono loscopo loro, la emancipazione spirituale, e la potestà spirituale loro cresce a dismisurae diviene in progresso di tempo addirittura formidabile. Le storie sono piene di esem-pî, e, del resto, la cosa è troppo nota, perché siano necessarî questi esempî. Ne ricor-derò tuttavia uno solo, molto significativo: Leone IX ingelosito dallo accrescersitroppo grande dei Normanni nella Italia Meridionale, pensò di distruggere, o almenodi diminuire la loro potenza: formò una lega contro di loro, e nel 1053 si venne a bat-taglia. I Normanni vinsero, l’esercito della Chiesa fu sconfitto, ed il Papa stessomentre fuggiva fu fatto prigione. Assistiamo allora ad uno strano fatto: noi vediamo iNormanni vincitori alla vista del nemico prigioniero esser presi da un sentimento diriverenza, quasi di sacro terrore: gli si inginocchiano innanzi, e gli chiedono perdono.È questo un esmpio, che dice abbastanza da sé stesso.

Ma i Pontefici non ebbero più misura nell’esercizio di loro potestà spirituale: essiaccamparono la pretesa svergognata e giunsero all’eccesso di voler disporre delle co-rone, di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà e via dicendo. Il Pontefice Bo-nifacio VIII, di cui l’Alighieri si occupa più volte nel suo Poema, giunge all’ultimogrado di queste pretese nella sua famosa Bolla Unam Sanctam emanata nel 1302, incui egli pretende la superiorità così nelle cose temporali, come nelle cose spirituali:egli nega ad Alberto d’Austria l’incoronazione ad Imperatore, e sostiene una formi-dabile lotta contro Filippo il Bello. Anche in questa lotta smisurata egli cadde: volen-do troppo, finì col perdere quello, che aveva, ed i suoi sogni di supremazia universalefinirono con uno schiaffo − mal dato, se si vuole − che toccò in Anagni.

Peraltro di fronte ai Pontefici abbiamo gli Imperatori, ché portano anche essi consé tutta una serie di appetiti, di ingordigie, cui per appagare ricorrono, come i Ponte-fici, a tutti i mezzi. L’impero in Occidente non cessa, o cessa soltanto in un certomodo: l’Impero sussiste come titolo di dignità: Teodorico stesso non nega lo Impero,né la podestà Imperiale, che era allora negli Imperatori Bizantini; anzi la riconosce,come quasi tutti gli altri regali barbari. Teodorico riconosce l’autorità di AnastasioImperatore d’Oriente, e Anastasio, come sovrano, riconosce in Teodorico la dignitàdi Re di Italia.

Nell’anno 800 il Pontefice Leone III incoronava come Imperatore d’OccidenteCarlo Magno, e faceva così un atto ingiustificabile nel diritto d’allora, trasportando ildiritto dell’Imperatore d’Oriente nel Re Franco. Ma, facendo così, il Pontefice consa-crava come cosa esistente e reale l’ Impero, senza prevedere, che questa confessione,questo riconoscimento avrebbe poi dato motivo ai Pontefici di pentirsi di quanto ave-vano fatto, di aver cioè ridato corpo a quello che non era più che un nome. Nel 964 lapotestà Imperiale passa dai Carolingi negli Ottoni, e questa fede, che l’Impero Roma-no non abbia cessato mai, ma solo si sia oscurato, e sia passato dall’una all’altra gen-te senza perdersi mai, questa fede si afforza sempre più, e noi vediamo molti ingegniaffaticarsi a determinare il carattere a cercare i limiti della potestà Imperiale, come se

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questo Impero fosse veramente una cosa reale, mentre invece il più delle volte nonera che una potestà puramente nominale. Ad ogni modo è a notarsi il fatto, che difronte alla podestà spirituale sempre più invadente stà un’altra podestà laica e civile,la podestà imperiale, che tende anche essa a diventare universale, perché l’Impero hain sé il carattere dell’universalità. Così noi vediamo affrontarsi nell’ambiente politicodue podestà: che hanno ambedue lo stesso carattere di universalità.

A cominciare da Ottone I l’Italia è stretta in relazioni assai vive colla Germania;ma gli Italiani non partecipano all’elezione degli Imperatori: l’Italia sopportava l’ele-zione fatta, non vi partecipava, sebbene l’incoronazione del re d’Italia si facesse inMonza od in Milano, e la corona imperiale si cingesse in Roma, in quella Roma, dicui il Pontefice era signore, benché molte volte più di nome che di fatto. Necessaria-mente queste due potestà strette tra loro da relazioni così intime dovevano venire incontrasto, in lotta: bastava un nonnulla, perché la lotta scoppiasse. Ed ecco incomin-ciare quella dolorosissima istoria che è conosciuta sotto il nome di lotta dei Ponteficie degli Imperatori, lotta, che occupa parecchi secoli. Verso la metà del secolo XI traGregorio VII ed Enrico IV imperatore si accende la lotta per le investiture: la lottafinisce col trionfo del Pontefice, che riesce a trarsi ai piedi nel castello di Canossa loImperatore domato, e non lo ammette in sua presenza, se non dopo tre giorni di peni-tenza nei cortili del castello. Poi la lotta si riaccende con la Casa di Svevia, e si fapiù viva con Federico II, ed i Pontefici trionfano finalmente con la tragica morte diCorradino. Trionfano i Pontefici, ma non la Chiesa, che travolta fuori del suo cammi-no, traligna sempre più.

Ma v’è altro con questo e sotto questo, che vuol essere considerato. Mentre Papie Imperatori erano in lotta, crescevano le Città che avevano reggimenti autonomi. Ilpopolo Italiano non ebbe la fortuna di raccogliersi per tempo in un ordinamento saldoe completo di nazione: il disgregamento è uno dei caratteri della nostra storia allora emolto tempo di poi. Le ragioni sono molte, ma la principale, che conosciamo, rendeinutile le altre cioè tanto i Papi, quanto gli Imperatori avevano interesse a mantenerequesta divisione: il giorno, in cui il popolo Italiano sarebbe stato unito, il Papa e l’Imperatore difficilmente avrebbero potuto continuare a fare il giuoco, che facevano:applicavano il noto adagio «divide et impera» Se il Papa fosse stato solo, avrebbe in-ghiottita l’ Italia, ed altrettanto, se solo, avrebbe fatto l’ Imperatore: la loro rivalitàsalvò l’Italia. Le Città adunque crescevano all’ombra di quella lotta, che molte voltele trascinava anche esse, ma talvolta anche agitavasi sopra di esse. Imperatori e Papiconcedevano privilegî a queste Città per amicarsele, e le Città arricchivano, imbal-danzivano, e diventavano gelose di loro indipendenza, amorose di libertà: cosicchévenne un giorno, in cui Papi ed Imperatori si trovarono innanzi a Città meno pieghe-voli di quanto essi avrebbero desiderato, innanzi a città, che non volevano la sogge-zione altrui. Abbiamo esempî numerosi di ribellioni alla podestà civile imperiale edalla podestà religiosa pontificia. Ricorderò la lunga lotta, che a Legnano fiacca laprepotenza di Federico Barbarossa, che è costretto a riconoscere i privilegî delle CittàLombarde. D’altra parte queste città resistono alla volontà del Pontefice, quando que-sta volontà è contraria al loro interesse. Dante dice, che le scomuniche non hanno va-lore, se non provengono da giusta causa: e i Comuni Italiani se lo sapevano, e non sidavano pensiero né delle scomuniche, né degli interdetti. È vero che le Città non siemanciparono mai interamente; ma tuttavia bisogna tener conto dello spirito da cuiqueste parziali e fuggevoli emancipazioni derivano.

Le città nostre mostrano un altro fatto degno di nota per lo studio di Dante: è no-to quanto esse furono afflitte dalle fazioni, e quanto lagrimevole sia quella parte della

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storia nostra, che racconta le lotte delle fazioni entro le mura. Queste fazioni o nasce-vano da gare cittadine, o nascevano da ragioni più gravi, ed erano una ripercussionedi quella lotta, che non cessava mai, tra podestà Imperiale e podestà Pontificia: talisono le grandi fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, che, nate in Germania, sono tra-sportate in Italia e la guadagnano tutta.

Troviamo adunque ai tempi di Dante contendersi in Italia la supremazia due gran-di podestà, la podestà Imperiale e la podestà Papale: troviamo la nazione Italianascissa e divisa, ma già dotata di tanta virtù, che nella stessa divisione vengono a co-stituirsi centri di coltura e di potenza: la loro divisione è una ripercussione di quelgrande scisma, che nasce appunto da questa irriconciliabile nimistà dei due poteri.

Inoltre dobbiamo tener conto dei sogni di certe restaurazioni impossibili. La gran-dezza di Roma antica perseguitava le menti più nobili, e destava in esse un desideriodi riavere quell’antica grandezza, quell’antico primato. Questi nobili ingegni, non es-sendo favorevoli le condizioni dei tempi, riuscivano sognatori. Ricorderò Arnaldo daBrescia, il famoso discepolo di Abelardo, che sogna diversi disegni, uno dei quali siriferisce allo ambiente ecclesiastico, l’altro all’ambiente laico. Arnoldo da Bresciasogna una restaurazione della Chiesa antica ed una restaurazione della RepubblicaRomana. Si sa come finì il sogno di Arnoldo da Brescia: finì con lui, ed egli finì sulrogo nel 1155. Ma questo sogno perseguitava le menti: due secoli prima di Arnaldolo stesso sogno aveva perseguitato Crescenzio: due secoli dopo Arnaldo perseguitaCola di Rienzo: entrambi lo pagarono colla vita.

La condizione politica d’Italia in quella età è certo assai sciagurata; ma non pote-va essere diversa, presa come era tra Papi e Imperatori. E bisogna certo dire, che ilrigoglio della vita nostra fosse allora assai grande, che negli Italiani di quel tempofosse un’energia veramente indomabile se possiamo assistere a quello spettacolo dicittà, che sorgono, arricchiscono, formano una novella civiltà. Ma la condizione poli-tica è assai misera: le città finitime sono nemiche fra di loro, e le fazioni le strazianointernamente ad una ad una. È poi v’è come un oscuramento generale del criterio del-la giustizia. Una condizione come questa sfrena tutte le passioni umane. È questo untempo di libidini formidabili, di orrendi delitti, di passioni irrefrenabili, e nell’urto lastessa podestà imperiale e la pontificia si rompono: ogni momento a Roma mettonola città a tumulto, si ribellano, cacciano il Pontefice, ne eleggono un altro. Si capiscequindi perché Dante tuoni così furente contro la ingerenza illecita, malsana, colpevo-le della Chiesa nelle cose umane, perché con tanta insistenza domandi una ben costi-tuita potestà imperiale, perché fulmini le maledette fazioni, che non lasciano quetareil popolo d’Italia. Per queste intime ragioni la Commedia si collega all’ambiente po-litico dei tempi suoi.

L’ambiente morale

Per finire di farci un’idea generale dell’ambiente, in cui Dante si forma, entro cuisorge poi la Divina Commedia, diamo ancora uno sguardo al costume, e consideria-mo non quale si fu soltanto ai tempi di Dante, ma ancora quale si fu anteriormente, equale via via si venne formando.

È noto quale fosse la corruzione dell’Impero Romano: Tacito, Svetonio, Persio,Giovenale ce ne hanno lasciato un quadro spaventevole. Gli è in mezzo a questa pu-tredine di un Impero, che ruina, che sorge e si espande il fiore del Cristianesimo. ICristiani si distinguono nei primi tempi dai Gentili per una singolare purità di costu-

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mi: la Chiesa ancora non cura tanto il dogma, ma il costume, l’onesto vivere, la mo-rale è ciò, che la preoccupa. Ma questa purità non dura a lungo: i contatti inevitabilierano già di per sé stessi pericolosi: poi, come già ho accennato, era la Chiesa stessa,essa che dava per la prima il malo esempio. A misura che la Chiesa va occupandosidi interessi temporali, va perdendo quella purezza, che non si poteva serbare, se nona patti ben diversi. Il monachesimo, che sorge nel quarto secolo, non è soltanto prote-sta contro il corrotto mondo pagano: è in parte ancora protesta contro la Chiesa, che asua volta è in via di corrompimento. Il monaco si ritrae a vita solitaria perché più nonsa dove fermarsi, dove posare: ciò non sarebbe avvenuto, se la Chiesa fosse ancorstata pura ed incorrotta. Senonché questa grande protesta del monacesimo viene an-che essa guastandosi, perché non si vive perdendosi nella contemplazione; il monace-simo elude il problema, non lo risolve.

Le incursioni dei Barbari non potevano certamente migliorare quella società: Ta-cito nel suo libro sulla Germania fa di quei barbari un grande elogio, e ne descrive icostumi come assai migliori di quelli de’ suoi Romani: egli li loda come esempio ditutte le virtù. Ma può nascere il dubbio, che Tacito abbia esagerate le virtù dei Ger-mani per contrapporre queste virtù come uno specchio al popolo suo: può aver fattoquesto per una illusione del suo spirito, come può averlo fatto di proposito. Ma que-sta è una illusione, che noi da molto tempo abbiamo perduta; i Germani erano sel-vaggi, e se Giulio Cesare, Romano, poteva credere, che la costumatezza regnasse fraloro, noi questa fede da tempo abbiamo perduta. Tuttavia si può credere, che i Ger-mani fossero meno corrotti e colpevoli, che non i Latini: lo afferma anche Flavianomolto tempo dopo. Senonché, quali fossero le virtù loro, una qualità dovevano avere,la quale non era per migliorare, ma per peggiorare il costume: i Germani portavanoseco la ferità del selvaggio, e questa ferità era accresciuta dalle guerre continue, dalleconquiste e dalle passioni suscitate da queste guerre e da queste conquiste. Quindi iGermani dovevano portare nella coscienza dei Latini vinti un elemento, che non do-veva correggerli, ma piuttosto contribuiva a pervertirli: una parte almeno della ferità,che regna in tutto il Medio Evo è dovuta ai Barbari invasori.

Nel quinto secolo Salviano fa una pittura formidabile della corruzione dei costu-mi non meno dei Chierici, che dei laici, anzi piuttosto dei Chierici, che dei laici. Nelsesto secolo Gregorio di Tours fa un’altra pittura spaventosa dei costumi: e qui sitratta di scrittori ecclesiastici. La rapacità degli ecclesiastici va crescendo a dismisu-ra: c’è un capitolo di Carlo Magno dell’anno 811, nel quale egli apertamente rinfac-cia ai chierici di non rifuggire da arte alcuna, pur di arricchire: li accusa persino divendere per denaro il segreto della confessione, ciò è quanto v’è di più sacro: e CarloMagno si lamenta di non aver avuto alcun concorso da parte dei Chierici. La simoniadiventa un vizio generale della Chiesa: durante tutti i secoli del Medio Evo si tirafuori questo spettro della simonia, come la colpa massima degli ecclesiastici. Sigiunge a tanto, che nel secolo decimoprimo Benedetto IX, il più esecrabile dei Ponte-fici, vende a Gregorio VI la tiara per una somma, che varia dalle duemila alle duemi-lacinquecento monete d’oro.

Nel decimo secolo tuona in particolar modo contro la corruzione degli ecclesiasti-ci un uomo integerrimo, e, fatta ragione dei tempi, di grandissima dottrina: Raterio,vescovo di Verona. È un sacerdote, che rinfaccia ai Chierici le maggiori turpitudini,ed a chi veda le prescrizioni, che egli fa ai chierici a lui soggetti, vien naturale la do-manda, se egli aveva a trattare con un chiericato, o con una masnada di malfattori.Egli giunge a prescrivere, che il sacerdote non si presenti a dir messa in istato diubriachezza, perché era cosa comune il darsi a vizi d’ogni specie, né colla spada al

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fianco e con gli speroni ai piedi, perché quegli ecclesiastici erano, più che altro, uo-mini di armi. Nel secolo decimoprimo un santo e venerabile uomo, San Pier Damia-no, fa ampia testimonianza delle turpitudini dei Chierici e scrive il Liber Gomorianus[Liber Gomorrhianus], che è diretto specialmente contro i Chierici, e che col suo ti-tolo già dice qual fine l’autore si proponesse nello scriverlo. Durante tutto il secolodecimoterzo avviene il medesimo: e quanto ciò fosse vero provano certi altri fatti,certi tentativi di riforma, come l’opera di Oddone di Cluny, e quella di San Domeni-co, che non pensava che l’Ordine suo sarebbe diventato il nido della Inquisizione: loprovano l’opera di San Francesco, l’iniziativa del quale fu la più efficace e la piùcompleta, ed il buon volere di alcuni Pontefici − i migliori − e finalmente la storia diparecchi Concilî che ebbero ad occuparsi della condizione disperata della Cristianità.

Senonché, se tali erano i Chierici, quali potevano essere i laici? Se erano migliori− e non è cosa dimostrata − non lo potevano essere di molto, perché gli uomini delvolgo sono quali li forma l’esempio degli uomini a loro superiori −. tale è il discepo-lo, quale il maestro. È però vero, che, passato l’impero degli Ottoni, quando i tede-schi ebbero agio di passare frequentemente in Italia, vediamo, che essi erano moltomeno corrotti, che non i Latini, probabilmente anche perché erano meno civili: maerano barbari in sommo grado, ‘‘lurchi’’ come li chiama Dante, molto dediti al vino:ed uno Storico Milanese, Landolfo Seniore, nella sua cronaca di Milano, scritta versoil 1080, insiste molto su questa ebrietà quasi continua dei Tedeschi: ed a questaebrietà si connettono molte altre cose, come effetto a causa. Probabilmente egli è adun influsso esercitato da loro che si deve la grande ferità dei costumi, che dura in Ita-lia nei secoli XI, XII e XIII; per tutto questo tempo sono in Italia inimicizie mortali,irriconciliabili. Né in Italia è ancora spento affatto questo mal seme: lo spirito di ven-detta si trasmette di generazione in generazione, e produce orribili delitti. Queste ini-micizie producono incendî, rapine, omicidî spaventosi: in Italia quasi non è allora al-cuna città, che non abbia in sé potenti famiglie divise tra loro da un odio micidiale,come i Capuleti ed i Montecchi a Verona, i Cerchi ed i Donati a Firenze, e via dicen-do. Né questo è proprio solamente dell’Italia: in Francia nel secolo decimoprimo lecose giungono ad un punto tale, che bisogna ricorrere ad un espediente speciale: l’e-spediente è conosciuto nella Storia sotto il nome di ‘‘tregua di Dio’’. E questo rime-dio era volonterosamente accettato da coloro stessi, che davano lo spettacolo di ini-micizie di odî implacabili, perché questi stessi si sentivano stanchi. Queste ‘‘tregue diDio’’ duravano a lungo in Francia: si erano stabiliti più giorni, in cui non si potevaoffendere il nemico, né l’offeso poteva vendicarsi. Basta percorrere le nostre storiedel Medio Evo, per imbatterci in casi luttuosissimi, in fatti atroci, che hanno datoluogo a romanzi, a tragedie, e potrebbero dar luogo ad un’altra letteratura. Nella Di-vina Commedia abbiamo alcuni esempî addirittura classici: il Conte Ugolino è accu-sato di aver tradite le castella di Pisa: la vendetta pubblica si esercita contro di lui nelmodo più orribile, condannandolo a perire coi figli innocenti nella ‘‘torre della fa-me’’. Dante non è certo il solo, che se ne risenta, ma è il solo, che se ne risenta contanta passione, che giudichi con tanta severità. Percorrendo la storia di quei Comunie di quei Principati nascenti si trovano altre mostruosità: non è a stupire, se poi Nic-colò Macchiavelli scrive il suo Principe. Basta ricordare Ezzelino da Romano, Ezze-lino, creduto figlio del Diavolo, di cui l’Ariosto dice

Ezzelino immanissimo tiranno.Se poi consideriamo il costume sotto un altro aspetto, troviamo che la sensualità

sotto tutte le forme sue è largamente diffusa non solo in Italia, ma fuori d’Italia anco-ra. Ho detto ‘‘la sensualità sotto tutte le sue forme’’: il già citato Raterio da Verona

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dice, che nessun popolo, come l’Italiano, è dedito al lusso, alla crapula, ad ogni ma-niera di sollazzo. L’anonimo autore del Panegirico di Berengario Augusto, anche eglidel secolo decimo, come Raterio, dice la medesima cosa: certo bisogna tener contodelle esagerazioni: non è già, che qualche giudizio contrario non si trovi; ma questigiudizî esprimono nondimeno la condizione vera, reale: avviene sempre così, quandosi hanno quelle condizioni di vita, che ben presto cominciano ad aversi in Italia, eche poi divengono più generali. Questa sensualità va crescendo insieme con la forza,con la ricchezza e con la prosperità dei nostri Comuni: le industrie fiorenti, i com-merci estesissimi facevan sì, che le città arricchissero, che le cittadinanze diventasse-ro agiate e prospere, ed usassero ed abusassero di queste ricchezze. Uno scrittore nonItaliano, ma Inglese, del secolo decimosecondo, Giovanni Sarisberiense nel suo cu-riosissimo libro ‘‘De Nugis curialium’’ parecchie cose dice del nostro Paese, che nemostrano la sensualità: narra, tra le altre cose, di una ricchissima cena, a cui assistet-te presso un Signore di Puglia, e dice, che, ad appagare il gusto si servivano vini pre-libati di ogni più lontana regione, di Cipro, di Babilonia, di Tripoli. Noi possiamoprestar piena fede a questo racconto di Giovanni Sarisberiense, perché le cose da luidette si accordano con altre: sappiamo, che in Siena fiorì ai tempi di Dante una bri-gata di allegra vita, detta la ‘‘brigata spendereccia’’ Dante stesso fu accusato di esser-si dato ai piaceri, specialmente a quelli della gola, e ciò si vuol rilevare da un passodell’Inferno. Ad ogni modo non mancano prove di questo facile abbandonarsi ai pia-ceri della tavola e ad altri di varia natura: la novella appena nasce tra noi dà una te-stimonianza così larga e così piena, che non si può desiderare la maggiore.

Certo il Cristianesimo rilevò la condizione della donna, che era infelicissima sot-to lo Impero Romano: il Cristianesimo facendo del matrimonio un sacramento, gli dàuna dignità, che per lo innanzi non aveva, e condannando in egual misura il marito ela moglie, che mancassero, stabilì una parità, che prima non esisteva. Ma che val ciò,se tosto il misticismo prese a considerare la donna come un pericolo, e distrusse ciò,che Cristo aveva costrutto ? Di ciò bisogna tener conto, quando si vede quanta e qua-le immoralità nel Medio Evo regni nelle relazioni sessuali: i ‘‘fabliaux’’ ne fanno fe-de. Del resto, se v’è un libro, che ci possa dare una piena conoscenza del costume aitempi di Dante, è la opera di Dante stessa, la Divina Commedia; né solo questa, maaltre ancora: ad esempio, le lettere di Fra Guittone d’ Arezzo.

Il pensiero di Dante si lega a tutta la condizione de’ suoi tempi: non citiamo la‘‘Vita Nuova’’ da cui traspare tutta la dottrina d’amore cavalleresco, che si professa-va in Italia e fuori, ma nel ‘‘Convivio’’ sono rappresentati parecchi pensieri filosoficidi quei tempi − ma il trattato ‘‘della vera eloquenza’’ erompe da quell’ambiente ge-nerale di coltura sostenendo la preminenza della lingua volgare − ma il suo libro ‘‘deMonarchia’’ è strettamente connesso alle gravi questioni, che si agitavano nell’am-biente politico − ma, finalmente, la Divina Commedia si lega a tutto l’ambiente deltempo. Ma non bisogna farsi un falso concetto di Dante, ed esagerarne le lodi: Dantenon è un novatore, anzi è un retrogrado: il che sembra una grave accusa, e non la è,perché senza di ciò la Divina Commedia non sarebbe nata. Dante nei suoi anni giova-nili ebbe una forte tendenza ad emanciparsi in materia religiosa e filosofica: il ‘‘Con-vivio’’ ne reca i segni. Ma giunto ad un certo punto, Dante torna indietro, ed il‘‘Convivio’’ resta interrotto. La fede di Dante nella Commedia è una fede ingenua:egli nelle cose di fede non vuole che si ragioni, e torna così indietro, mentre lo spiri-to dei tempi portava la discussione. In materia politica Dante vagheggia un’idea certosplendida, ma ormai passata e vecchia, l’idea dell’Impero: Dante non vede, che l’Im-pero è irremissibilmente condannato, non sa staccarsi da questo vieto concetto: Dante

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non si guarda innanzi, ma si guarda indietro. Dante non è un precursore, ma piuttostoun ammiratore del tempo passato. Ma di ciò dovremo noi fargli colpa? no certamen-te: senza questo atteggiamento del suo spirito la Divina Commedia non sarebbe nata,la Divina Commedia, che compendia in sé un’età, che sta per perire: era necessario,che Dante comprendesse nella sua mente tutto quel passato e lo riedificasse con unapotenza, che non ha pari, perché nascesse il suo grande Poema.

Il genio di Dante

Noi abbiamo veduto quale fosse l’ambiente prima di Dante, e quale ai tempi dilui. Non c’è nella vita intellettuale e morale di lui un aspetto, in cui non si rifletta unlato di quell’ambiente, che si cercò di tratteggiare e descrivere. Dante è il prodotto diquelle energie, di quella vita tutta intera: egli non sarebbe, se non avesse dietro di séuna lunga tradizione, che egli compendia e riassume in una forma sintetica, cui iltempo non poté e non può cancellare. La dottrina di Dante varia ed estesa, gli idealisuoi, il modo di concepire la passione d’amore, l’arte sua stessa, ciò, che in lui sem-bra essere più proprio e personale o per l’una o per l’altra via si può ricondurre apensamenti, a rivolgimenti di quel mondo, a cui appartiene. Dante è come uno diquei grandi specchi concavi, che ricevano su di sé la luce del sole, e la riflettono consomma intensità.

Senonché adoperando io questa figura vengo a dire cosa di cui non ho ancora re-cate tutte le prove. Fuori dell’azione dell’ambiente, al di là di questa azione v’è anco-ra qualche cosa: Dante reca qualche cosa, che gli è propria, che lo distingue comepersonalità, che lo separa da tutto ciò, che lo circonda. Questo qualcosa di originale,che Dante reca in sé, è il suo genio: Dante è un genio: se v’è un solo uomo nella Sto-ria, che meriti questo titolo supremo, Dante è quello. Ma quando si è detto ‘‘genio’’si è detto un nome, sotto cui a primo aspetto non si vede che cosa si celi. Sarebbelunga e laboriosa un’analisi del genio: il genio non è cosa, che sì sottragga alle leggidella natura; ma è cosa così complessa e di malagevole cognizione, che si richiedonoa studiarlo qualità, quali noi non abbiamo. Tuttavia si può dire, che il genio è unaesaltazione della psiche, comprendendo sotto questo nome quanto appartiene alla no-stra vita interiore e morale, una elevazione della scienza, una espansione di facoltà,di virtù, che paiono eccedere, ed infatti eccedono, i termini consueti, la consueta ca-pacità dell’intelletto umano. Il genio vede, intende, può ciò, che il comune intellettonon vede, non intende, non può. Il genio trascende sopra quanto lo circonda: una cer-ta dominazione è una caratteristica sua delle più spiccate e delle più facili a ricono-scersi. Non è genio quello, che non sovrasta o molto, o poco: dico ‘‘o molto, o poco’’perché il genio, come tutte le altre cose di questo mondo, ha le sue modalità ed i suoigradi: sono genî più angusti e genî più larghi, genî parziali e genî totali, e questa par-zialità e questa totalità e questa diversità di grado sono determinate dal diverso gradodell’assurgere loro, e dalla diversità di quella parte di vita, cui essi sono atti a domi-nare. Potremmo noi dire, che Raffaello da Urbino non fosse un genio? Ma egli è ungenio, che particolarmente dominò il mondo delle forme e dei colori: è questo il suoregno, la provincia da lui dominata. Il genio di Rossini, di Bellini e di altri sommidell’arte musicale è un genio, che domina la provincia dei suoni, come il genio di ungrande matematico, di un Keplero, di un Galileo è un genio che domina i numeri e lemisure. Questi genî adunque sono diversi, secondo le varie provincie, che essi domi-nano. Ma è pur vero, che tanto un genio è più eccellente, quanto è più alta ed estesa

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la sua dominazione: quindi un genio, che sia per raggiungere la massima eccellenza,domina infinite cose, il temporale ed il spirituale, la natura e la storia, ciò, che è, eciò, che fu, l’ideale ed il reale: giunto a questo grado, il genio è un lume solitario,che riplasma e ricrea l’universo. Una delle caratteristiche del genio, uno degli attribu-ti suoi divini, direi quasi, è la creazione.

Perché il genio assurga a questo eccelso fastigio, a questa sublimità è necessario,che lo spirito sia organato ad un certo modo − è necessario, che la vita sua interioresia tutto un concorso vivo di potenze e di facoltà, un concorso, un’armonia e ad untempo, una soggezione di facoltà − è necessario, che l’intendimento, la ragione, lafantasia, la passione stessa, la memoria, che è l’istrumento principale del sapere, sicoadiuvino a vicenda, a vicenda si promuovano: non si può riflettere tutto intorno, sel’universo non si anima internamente: tanto maggiore sarà la potenza dell’animo,quanto più saranno contemperate le sue diverse facoltà.

Il genio così considerato non è che la pienitudine della vita intima e morale, e co-me pienitudine e [ma è] più un essere ideale, che reale. Noi questa perfezione la ve-diamo quasi raggiunta: vediamo molti accostarsi a questo tipo ideale, raggiunto maiinteramente da nessuno.

Dante è uno di questi, e quello tra questi che vi si raccostò di più. Il suo spirito sieleva a vertiginosa altezza, la dominazione dello spirito suo è una estesissima domi-nazione: egli signoreggia tutta la vita del tempo suo, il suo pensiero abbraccia ilmondo della natura, come il mondo della Storia, l’ideale, come il reale, la DivinaCommedia farà testimonianza di questa qualità suprema del genio suo.

Dante è stato un grande infelice: la sua infelicità è una di quelle, che possono es-ser recate come forma di esempio e di tipo nella storia dell’umano pensiero in gene-rale, delle lettere in particolare. A questo proposito è a farsi un’altra osservazione: ilgenio è pressoché sempre infelice. Certo delle sciagure che colpirono Dante, moltaparte si deve dare alla malvagità delle persone, che lo perseguitarono, alla fatalità deitempi; ma, se è vero che il genio ha in sé qualcosa, che lo condanna fatalmente allainfelicità, Dante aveva nella propria natura un germe che lo portava ad essere infelice.

Il genio non gode di una grande forza fisica: egli deve usare il meglio delle fun-zioni, delle energie per essere quel che è: così Dante era cagionevole di salute. Que-sto non ha bisogno di essere confermato: se fosse necessario qualche esempio, baste-rebbe accennare quello di Giacomo Leopardi, di cui disse alcuno che la vita intimaera così intensa, che tutte le funzioni dell’organismo dovevano soffrirne. Che Dantesi trovasse appunto in queste condizioni non abbiamo molte testimonianze, né ebbeegli stesso cura di lasciarne ricordo. Ma egli stesso dice che il suo Poema lo fece‘‘per più anni macro’’. È un accenno solo, ma importante: è il suo genio, che lo divo-ra. Poi il Boccacci ci dice, che egli era curvo: ed il ritratto più fedele di lui, quello diGiotto, lo rappresenta in età di trentadue o trentatré anni con un viso così sofferente,che più non si dimentica. Dante non aveva la floridezza perché appunto era Dante,perché era un genio.

Il genio è sempre cosciente di sé − se veramente sono genî − e certo ne sono stati− incompresi, sono incompresi agli altri, non mai a sé. E sarebbe strano, se il genio,che ha la virtù di scrutar tutto con l’occhio d’aquila, non potesse poi aver piena cono-scenza di sé. Dante aveva la consapevolezza del suo genio: è vero che egli condannala superbia e l’orgoglio; ma questa consapevolezza può stare colla modestia. Questaconsapevolezza non è certo ragione di felicità per Dante: certo è dolce in alcuni mo-menti della vita avvertire in sé questa potenza quasi divina; ma più spesso il genio,mentre sente sé e misura sé, si paragona cogli ideali suoi, e gli ideali suoi sono sem-

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pre superiori al mondo reale. Cosicché questa consapevolezza non è necessaria fontedi compiacimenti: può esserlo in certe occasioni, ma in altre occasioni avviene ilcontrario. Il genio pertanto per sua natura è infelice e travagliato, come fu Dante pertutta la vita sua.

Né basta ancora: il genio è per sé stesso un grande solitario nella vita: ora stascritto nella Scrittura ‘‘Guai a chi è solo!’’ Il genio è solitario, perché il suo modo digiudicare, di pensare, di sentire è diverso troppo del comune, perché egli si compiacedi un mondo, a cui il mondo reale non risponde, che in parte. E il genio è cosa, chefacilmente si leva a volo, e si toglie al presente sia per emigrare nel passato, sia peremigrare nell’avvenire. Questi genî sono di due specie: o si sprofondano nel passato,come fu Dante, o corrono innanzi nell’avvenire, e sognano una condizione di cose,che sarà possibile fra molti anni, forse tra molti secoli nell’avvenire. Ad ogni modo igenî sono solitari, perché in mille modi si contrappongono agli uomini del loro tem-po: negano ciò, che essi affermano, affermano ciò, che essi negano. A questo modoper l’appunto Dante procede, Dante, che fa di sé stesso parte, perché né l’una né l’altra fazione lo rende pago: egli vive da solo.

Il genio ancora sdegna le arti, per cui si acquista il favore del mondo: quindi unaserie di sciagure economiche, politiche, e d’ogni genere, le quali colpiscono svariatiinteressi. Il genio suscita gelosie, e gli son poco note le arti per difendersi dalle insi-die. V’è insomma un complesso di ragioni, che vogliono che il genio sia infelice, e laStoria lo prova con mille esempî.

Ho detto, che Dante ha un giusto concetto del proprio valore e piena consapevo-lezza di sé. Le sue opere ne fanno piena testimonianza. Ne riferirò solo alcuni passi.Nel canto XV dell’Inferno Dante s’incontra con Brunetto Latini, e riferisce alcuneparole, che Brunetto gli aveva indirizzate laggiù nell’Inferno:

‘‘Ed egli a me: − Se tu segui tua stella,Non puoi fallire a glorioso porto,Se ben m’accorsi nella vita bella.

E s’io non fossi sì per tempo mortoVeggendo il cielo a te così benignoDato t’avrei all’opera conforto’’ [vv. 55-60]

Non è Brunetto, che parla, è Dante, che pone in bocca a Brunetto le parole, cheegli credeva opportune.

Nel canto X dell’Inferno vediamo Cavalcante Cavalcanti, che vuole sapere noti-zie del figlio suo e dice:

‘‘Se per questo ciecoCarcere vai per altezza d’ingegno,Mio figlio ove è ? o perché non è teco?’’ [58-60]

Così Cavalcante Cavalcanti riconosce l’ingegno di Dante, il quale dà così a vede-re di tenersi dappiù di Guido Cavalcanti.

Altri luoghi potrebbero essere ricordati, da cui si può rilevare, che egli, a suo giu-dizio, riuniva in sé quasi tutte le virtù. Nel capo XXX del Purgatorio Dante descrivee narra il suo incontro con Beatrice: è uno dei tratti più importanti e più belli, intornoa cui si sono affaticati molti ingegni di commentatori. Beatrice fa tanto più amorevolirimproveri a Dante per essere uscito dalla retta via, quanto, per dichiarazione della

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stessa Beatrice, egli Dante, aveva più alto intelletto, e quindi maggior f[a]cilità dimantenersi nella via del bene, da cui molti escono, ma trovano la scusa nella pochez-za loro, Beatrice adunque dice di Dante queste parole:

‘‘Questi fu tal nella sua vita nuovaVirtualmente, ch’ogni abito destroFatta averebbe in lui mirabil pruova’’ [vv. 115-117]

Parla Beatrice, ma è Dante che la fa parlare. Ed un altro luogo merita di essere ri-cordato: in principio del Canto II dell’Inferno, Dante, che sta per entrare nell’Inferno,è preso da paura della sua pochezza: invoca le Muse del mondo pagano, le quali, se-condo il mito, avevano inspirati gli alti ingegni dell’antichità, e dice:

‘‘O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate’’ [v. 7]

e poi subito aggiunge:

‘‘O mente, che scrivesti ciò ch’ io vidi,Quì si parrà la tua nobilitate’’ [vv. 8-9]

Le Muse sono invocate, ma col semplice nominarle; poi il Poeta si rivolge ad unaltro nume, che lo governa:

‘‘O mente.......Quì si parrà la tua nobilitate’’

Ed ora procediamo innanzi. Io debbo parlare della vita del Poeta e del carattere dilui: e questo carattere è qualche cosa, che egli in parte ritrae da natura, ed in parte siesplica e si svolge in una vita, che lo foggia, lo modella, ne corregge certe tendenzenaturali, o le esagera. Così il carattere non si può esaminare indipendentemente dallavita: il carattere è come una costruzione, che non si compie mai, finché l’uomo è invita. Certo v’è un’età della vita, in cui il carattere ha già in sé gli elementi costitutivipiù notevoli e maggiori, cosicché, tranne il caso di catastrofi, il carattere può consi-derarsi nella piena essenzialità sua come costituito, lo si può studiare come tale. Èadunque necessario studiare il carattere in relazione colla vita.

Io dovrei ricordare alcunché della vita del poeta: ma non mi pare dovermi soffer-mare su molte particolarità, che essa offre, su molte incertezze e punti oscuri e di-scussi. Questa indagine è lavoro di troppo lunga lena, e molte questioni sono anchevane, come quella che si fa sulla data precisa della nascita di Dante. Io rivolgeròl’occhio alla formazione del carattere di Dante, prendendo a considerare alcuni punti,alcuni avvenimenti principali della sua vita: a questo modo il compito nostro si ab-brevia e si facilita di molto. Ci soffermeremo pertanto ai varî capitoli della vita delPoeta, come l’amore, l’esiglio da Firenze, e la vita trascinata poi lungi dalla patria.

L’indole ed il carattere di Dante

Dirò oggi qualche cosa dell’indole di Dante e del suo carattere. Non occorre direquale sia la differenza tra indole e carattere: indole è ciò che l’uomo reca con sé dalla

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nascita, carattere è ciò, che si viene costruendo nella vita, per effetto della vita vissu-ta, per gli influssi, che il mondo, in cui si vive e si opera, esercita sull’uomo. Certouna trattazione simile per riuscire completa ed esatta in ogni sua parte dovrebbe esserfatta con molta precisione e minutamente: ma un tal metodo ci porterebbe troppo inlungo; perciò accennerò soltanto ad alcune delle cose principali, riserbandomi di tor-narci poi su più tardi, quando a me se ne presenti il destro.

Anzitutto noi dobbiamo porgere attenzione a ciò, che egli stesso dice di sé, la suatestimonianza è più importante, che quella, assai scarsa, de’ contemporanei. Notandocerti luoghi delle sue opere, specialmente della Divina Commedia, si possono racco-gliere le testimonianza, che Dante porta di sé.

Quando noi discorriamo di Dante, noi non possiamo altrimenti rappresentarcelo,che come un’anima sdegnosa ed altera: egli stesso si dice tale, facendo pronunziareda Virgilio tal giudizio di lui: cosicché il giudizio viene ad acquistare anche maggiorpeso, perché messo in bocca a persona di tanto credito e di tanta autorità. Ricorderòun luogo dell’Inferno notissimo: là dove il Poeta descrive le anime degli iracondi,che scontano la pena nella palude Stige, vediamo quel tal Filippo Argenti, che stendele braccia al legno, su cui sono i due Poeti, Virgilio lo rigetta, e poi abbraccia Dante:

‘‘Lo collo poi con le braccia mi cinse,Baciommi il volto, e disse: alma sdegnosa,Benedetta colei, che in te s’incinse’’ [Inf. VIII 43-45]

Però questo alto disdegno si accompagna in Dante con un profondo sentimento dimodestia, che specialmente si manifesta nelle relazioni sue con Virgilio, innanzi a cuinon ha altro contegno, che il contegno di discepolo riverente.

Un altro carattere di Dante è l’assoluta incapacità di simulare: quello, che ha det-to, è quello, che pensa. Non conosce dunque l’arte così comune di nascondere i pro-pri pensieri. Ne abbiamo una prova nel canto XXI del Purgatorio, v. 103:

‘‘Volser Virgilio a me queste paroleCon viso che tacendo dicea, Taci:Ma non può tutto la virtù che vuole;

Ché riso e pianto son tanto seguaciAlla passion di che ciascun si spicca,Che men seguon voler ne’ più veraci.

Io pur sorrisi come l’uom che ammicca;Perché l’ombra si tacque, e riguardommiNegli occhi, ove ’l sembiante più si ficca’’ [103-111]

E così Stazio viene a conoscere, che uno dei suoi interlocutori era Virgilio, cheegli tanto venerava.

Altra qualità di Dante, di cui si vuol tenere grandissimo conto, se si pretende dipenetrare nelle ragioni della vita sua non solo, ma dell’arte sua, del suo Poema, sì èla fortezza dell’animo suo, la sua saldezza. Certo non avrebbe potuto sopportare lesciagure, che sopportò senza rimettere mai nulla della sua dignità, se non avesse avu-ta una grande virtù di fortezza. Nel Purgatorio, là dove Virgilio consiglia a Dante diessere saldo come torre, che non crolla giammai (canto V) troviamo un passo, che neappalesa la fortezza d’animo di Dante. Nel canto XVII del Paradiso egli dice, che èarmato contro ogni possibile avversità della vita:

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‘‘Dette mi fur di mia vita futuraParole gravi; avvegna ch’io mi sentaBen tetragono ai colpi di ventura’’ [vv. 22-24]

Questo dice egli a Cacciaguida, che gli predice l’ingratitudine della patria, il do-lore dell’esiglio e l’amarezza del pane mendicato .

Un’altra testimonianza a questo proposito si [è] nel canto XV dell’Inferno:

‘‘Tanto voglio io che vi sia manifesto,Pur che mia coscienza non mi garra,Che alla fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova agli orecchi miei tal’ arra.Però giri fortuna la sua ruotaCome le piace, e’l villan la sua marra’’ [vv. 91-96]

E potrei recare altri luoghi non solamente della Divina Commedia, ma ancoradelle altre opere, dove egli fa di sé questa alta e nobile testimonianza. Ma v’ha unacosa degna di essere notata, perché assai poco frequente: in Dante questa altezza disentire, questo disdegno che non è a confondersi con la superbia − sebbene il Poetadalla superbia non sia del tutto immune, ed egli stesso lo confessi talvolta con l’a-sprezza, che dimostra in certi suoi giudizî − è conciliato con una qualità, che non sitrova di solito negli uomini, che hanno le altre qualità ora accennate, cioè con unagrande gentilezza, con una grande pietà. Egli s’impietosisce molto spesso pei dannatidelle pene dei quali è contemplatore, e ciò non solo in quei casi, in cui la condizionedei dannati pare meritevole di un senso di pietà − nel caso, per esempio, di Francescada Rimini − ma anche in altri casi. Il Poeta si muove a pietà per modo, che più d’unavolta si fa redarguire e rimproverare da Virgilio, che gli dice non esser lecito averpietà per chi è giustamente punito: la vera pietà, dice Virgilio è quella, che quì muo-re. Veramente Dante non pensava diversamente da questa opinione, che fa esprimereda Virgilio; ma se questa era la sua dottrina, il cuore a questa dottrina si ribellava, esentiva pietà anche quando, secondo la dottrina sua, questa pietà era disdicevole anzicolpevole.

Un’altra qualità di Dante vuol essere in particolar modo osservata, perché è ancheessa assai rara, assai difficile a ritrovarsi, e consiste in un difficilissimo contempera-mento di cose, che per lo più si escludono, non si tollerano a vicenda. Nello ingegnodi Dante troviamo una rara armonia. Dante è un pensatore profondo: egli possiedetutta la scienza sua non solo, ma la ripensa ancora: egli non è soltanto un erudito, undotto; è un pensatore ancora: il suo pensiero si eleva a sublime altezza, ed è di indoleessenzialmente penetrativa: non è cosa così difficile ed astrusa, in cui Dante non ab-bia esercitato il suo pensiero e non sia penetrato. Dante adunque è uno spirito acutoche ha tutte le qualità necessarie a coltivare il sapere, che ha tutte le attitudini di unfilosofo e di un filosofo scolastico specialmente. Di solito queste qualità non sonoconciliabili con un’anima passionabile: quelli, che hanno un intelletto così fatto, sonoper solito aridi, infecondi per quanto riguarda il sentimento: se in essi il cuore non èmorto, è almeno muto. In Dante invece troviamo l’opposto, mentre egli ha tutte lequalità degli Scolastici, ha pure una affettività quanto intensa, tanto varia. Come pen-sa, così sente: in lui il cuore non è vinto, sopraffatto dall’intelletto: cuore e mente sisostengono, si sorreggono a vicenda, tanto è viva e potente in lui la natura intelletti-va, altrettanto è viva e potente la natura affettiva. Come si vede, sono facoltà, che per

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solito si escludono; la coesistenza nello stesso individuo di queste qualità è quantov’ha di più difficile. Ora si può considerare Dante in tutti i punti della sua vita, si puòstudiarlo in tutte le sue opere, e lo si vede sempre sotto questo duplice aspetto. NellaDivina Commedia sono molto frequenti i luoghi, in cui la poesia quasi si dibatte sot-to il lavorio angoscioso della disquisizione filosofica e di un pensiero scolastico, equesti certo non sono i tratti più belli della Divina Commedia, e quasi vorremo nontrovarli; ma questi luoghi sono ricomprati da tanti altri, che sono i più ricordati, i piùcelebri, dove il Poeta dimentica qualsiasi erudizione, non pretende più investigare difilosofia, ma sente, e quel che sente dice. Gli episodi da [ma di] Francesca da Rimi-ni, del Conte Ugolino ed altri non hanno bisogno di essere ricordati. E Dante ancoraha nell’ingegno suo una qualità, che va congiunta con queste: gli uomini di sottile in-gegno, nati alla filosofia, hanno i sensi poco aperti alla contemplazione diretta, im-mediata della natura: per contro quale contemplatore della natura è Dante! Non è intutto il Medio Evo chi veda la natura con occhio così innamorato, chi abbia il sensocosì aperto a tutte le impressioni del bello, della forma, che abbia così il gusto del-l’arte. È una qualità ammirabile, che in pochi si ritrova, e che in Dante è tanto piùmeravigliosa, in quanto si congiunge con quelle altre qualità, che abbiamo osservate.Per dirla in una parola, senza pretendere di riassumere in una sola formula il valoredi Dante, c’è in lui il dialettico contemporaneamente al mistico.

Io non faccio se non accennare: tutto questo potrebbe e dovrebbe essere conforta-to con amplissime testimonianze che il Poeta dà di sé; o che noi possiamo trarre dalleopere sue. Ma mi basta l’aver accennato al fatto, e solo ricorderò la testimonianza diun contemporaneo cioè di Giovanni Villani, che dice: ‘‘questi fu grande letterato qua-si in ogni scienza, tutto fosse laico’’ e nota opportunamente «tutto fosse laico» per-ché la scienza era allora patrimonio dei chierici: è con Dante appena che questascienza incomincia ad uscire dalle mani dei chierici. Ed il Villani continua ‘‘fu som-mo poeta’’ − e certo quando Giovanni Villani diceva questo non aveva quelle prove,che ha la critica moderna − ‘‘e filosofo, e rettorico perfetto tanto in dittare e versifi-care, come in aringa parlare, notabilissimo dicitore’’ − è questa un’altra qualità diDante, la quale non ci sarebbe nota, se non ci fosse testimoniata da altri, perché noipossiamo leggere gli scritti di Dante, ma non sentirne la parola − ‘‘in rima sommo,col più pulito e bello stile, che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo e piùinnanzi’’. E poi soggiunge cose, che vogliono essere notate: ‘‘Questo Dante per losuo savere fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosofomal grazioso non bene sapea conversare co’ laici’’ dove è a notarsi che Giovanni Vil-lani dice una cosa certamente vera, ma della quale non sa cogliere le vere ragioni.Che Dante fosse schifo e presuntuoso è vero; ma bisogna intendere come, se Danteera orgoglioso, questo suo orgoglio doveva essere molto temperato, perché gli uominicome lui, se sono un momento orgogliosi, subito al paragonarsi con gli altri uominisentono il loro orgoglio fiaccarsi, e succedergli un senso di modestia e di umiltà. Maquando si è detto, ch’egli era sdegnoso e schifo non s’è ancora detto abbastanza. Unuomo come Dante, anche se non è presuntuoso e superbo, può benissimo essere sde-gnoso e schifo, intendendo con ciò un certo abito di fuggire la gente, di far vita da sé,il che nasce dal conversare nell’animo con sé, con pensieri che non sono quelli, a cuiattende il più degli uomini, ed allora la cosa viene da sé. Conchiudendo, il Villaninarra un fatto vero, ma non ne coglie le vere ragioni. E, come s’è detto, soggiungeancora: ‘‘a guisa di filosofo mal grazioso non bene sapea conversare coi laici’’, per-ché non era forse troppo affabile cogli uomini profani allo studio e al sapere. Non eraadunque la gentilezza quella, che mancava a Dante, perché abbiamo troppe testimo-

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nianza per dubitare, ma quella pieghevolezza alle usanze del mondo, alle seccagginidella vita quotidiana, pieghevolezza, la quale non è tanto facile, quando noi ci diffe-renziamo dagli altri per gli intimi pensamenti. Dice il Boccacci nella sua ‘‘Vita diDante’’ parlando del Poeta: ‘‘Fu ancora questo Poeta di meravigliosa capacità e dimemoria fermissima e di grande perspicacia ed intelligenza la quale testimonianza cimostra la memoria del Poeta congiunta con questa grande potenza d’intelletto e difantasia. Anche questa è cosa notevole, perché la memoria in generale è poco fortedove è così potente la fantasia e l’intelletto’’.

Se noi recapitoliamo le cose dette fino a questo punto, e ne tiriamo la conclusio-ne, veniamo di necessità a riconoscere, che Dante è una delle più integre nature, chela storia dell’umano pensiero conosca: in lui tutte le potenze buone sono svolteegualmente ed armonizzano fra di loro: Dante è un pensatore, un dotto tale, che isuoi tempi non hanno il maggiore, ed ha per giunta un sentimento così vivo e poten-te, che in pochi altri poeti troviamo, anche nei tempi moderni.

In seguito io avrò certamente occasione di accennare ad altre qualità notevoli del-l’ingegno di Dante: per ora basti quanto s’è detto. E passo a dire della sua vita, opiuttosto di alcuni casi capitali della sua vita, perché io non posso tenere l’intierabiografia del Poeta.

Dante nacque, secondo la volgare tradizione nel mese di Maggio dell’anno 1265.E quì subito cominciano le dispute, perché v’è chi crede, che questo non sia esatta-mente l’anno della sua nascita, ma stimano si debba questa nascita trasportare all’an-no successivo. Io non mi fermerò su questa disputa; solo accennerò, che non vi sonobuone ragioni per scostarsi dall’antica tradizione. Molto più ci premerebbe saperqualche cosa dei primi anni suoi, e della prima educazione da lui ricevuta; ma a que-sto proposito si è sognato parecchio, ma di positivo si è detto nulla da alcuno per lapotentissima ragione, che le notizie dei contemporanei ci mancano. Dante dovette at-tendere assai per tempo agli studî, e dovette attendervi con frutto, perché è necessariauna disciplina severa, uno studio necessario e proficuo per giungere a fare quanto afatto. Ma conviene notare, che la coltura propria Dante la deve essenzialmente a sé: ilnerbo del suo sapere è opera sua: Dante è un autodidascalo, è il maestro di sé stesso.E qui non abbiamo bisogno di cadere in congetture, perché egli stesso ci dice parec-chie cose a questo proposito, come per esempio la poesia imparò da sé, che da sé eglistudiò di filosofia. Si ricorda spesso Brunetto Latini come maestro di Dante, e si di-ce, che da Brunetto Latini dovette Dante ricevere molta parte della sua dottrina. Bru-netto Latini non fu propriamente maestro di Dante, nel senso proprio della parola. Ènoto il passo dell’Inferno, in cui Dante si incontra con Brunetto Latini, in un luogodell’Inferno, dove il Latini è punito per una colpa non ben chiara, che fino a questiultimi tempi fu creduta una colpa turpe, ma di cui ora si dubita. In questo passo Dan-te chiama Brunetto suo maestro, ma non maestro propriamente, ma consigliero, e ciòperché Dante attinge molta parte della sua scienza dalle opere di Brunetto. Altre noti-zie, che si hanno circa gli studi di Dante sono assai malsicure. Leonardo Bruni, auto-re di una Biografia di Dante Allighieri, che per molto tempo fu in credito grandissi-mo, ma ora è pienamente sfatata, dice: ‘‘Nella puerizia nutrito liberalmente e dato a’precettori delle lettere, subito apparve in lui ingegno grandissimo ed attissimo a coseeccellenti. Il padre suo Aldighieri perdé nella puerizia: niente di manco, confortatoda’ propinqui e da Brunetto Latini, valentissimo uomo secondo quel tempo, non sola-mente a letteratura, ma agli altri studî liberali si diede, niente lasciando a dietro, cheappartenga a far l’uomo eccellente’’. Leonardi [meo] cambia in un fatto l’opinione, laprobabilità. Il Boccacci afferma, che dopo i primi studî fatti in patria andò a Bolo-

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gna: può essere, ma non è dimostrato, ed il Boccacci non è sicuro narratore della vitadi Dante, per quanto si sia esagerato sulla poca fede da prestarsi al Boccacci. Il Villa-ni dice, che, cacciato di patria, andò a Bologna, e poi a Parigi, viaggio questo, di cuimolti dubitano assai fortemente. Molte altre cose si narrano di sue visite a questa eda quest’altra università, ma sono notizie molto malsicure. Del resto chi voglia meglioaddentrarsi in queste questioni dei primi studî e delle peregrinazioni di Dante, puòvedere il Bartoli nel V volume della sua ‘‘Storia della Letteratura Italiana’’ che trattaappunto della vita di Dante Allighieri.