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La Vus - n° 5 - Giugno 2014 - La festa

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Indice

Editoriale p. 2

Piercarlo Grimaldi, la festa, animali mitici e uomini selvatici p. 6

Sant’Antonio Abate e la luna p. 30

L’uomo selvaggio e il paninodel fantasma formaggino p. 58

How to get a rural identity (part two) p. 70

Agenda Ca’ dal Bosc p. 80

Editoriale

La Vus ritorna dopo qualche mese di inter-ruzione in veste rinnovata, per aggiornare soci e amici dell’Associazione Muricin a proposito delle attività associative in corso, per presentare alcuni temi delle tradizioni popolari che si intende porre al centro delle azioni di recupero e valorizzazione, per promuovere alcuni prodotti enogas-tronomici e per fornire l’agenda dei mesi di giugno e luglio relativi agli appuntamenti presso Ca’ dal Bosc.

Gli articoli pubblicati in questo numero sono stati redatti nei ritagli di tempo rubati all’apprendistato come falegname, ai lavori di ristrutturazione della sede associativa, ai momenti di promozione, alle attività di comunicazione. Inevitabilmente non par-lano delle difficoltà che si incontrano ogni giorno, delle piccole conquiste quotidiane. Si tratta di risultati minimi che tuttavia ci danno fiducia, che sono la migliore con-ferma dell’itinerario di lavoro intrapreso fino ad oggi. In un certo senso tuttavia con questi articoli si vuole colmare uno iato e riconoscere un debito intellettuale, pos-sono aiutare a comprendere una scelta importante relativa alle modalità di valoriz-zazione del patrimonio rurale a partire dai beni demoetnoantropologici che il Muricin

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ha deciso di adottare. L’associazione ha aderito ai Granai della Memoria, un proget-to sviluppato e realizzato dell’Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, dall’Università degli studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro e Slow Food. Si tratta di realizzare un archivio multimediale dedicato a rac-cogliere i saperi orali e gestuali della terra per conservarli e trasmetterli alle nuove generazioni che abiteranno il pianeta. Un obiettivo davvero ambizioso e forse irrea-lizzabile, ma che proprio per l’urgenza e l’emergenza del problema che si propone di affrontare, il rarefarsi delle memorie tradizionali di contadini e artigiani, deve essere affrontato subito.

In questa prospettiva così ampia il Mu-ricin si impegna a dedicarsi alle tradizioni della Lomellina e proprio in questi giorni, nel contesto del Laboratorio di Etnografia Visiva e Multimediale del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale, si definiscono gli obiettivi concreti e i risultati auspicabili più a breve termine. In breve si tratta di dare vita a un archivio multimediale delle tradizioni popolari della Lomellina orga-nizzato per temi. Innanzitutto si tratta di coordinarsi con i tanti soggetti che da anni sono attivi sul territorio lomellino e condividono i valori e gli obiettivi della

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valorizzazione del territorio della Lomel-lina, progetto che sarà raccontato nel prossimo numero di La Vus. Si ringrazia Davide Porporato e il Laboratorio di Et-nografia visiva e Multimediale per la con-cessione delle foto.

Il primo articolo è dedicato a uno dei temi più importanti delle attività di ricerca di Piercarlo Grimaldi, Rettore dell’Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, le feste del calendario tradizionale contadino. Il sec-ondo articolo è dedicato in particolare alla festa di Sant’Antonio Abate dove si ragiona di un saggio di Piercarlo Grimaldi dedicato alle strategie di sopravvivenza delle società contadine. Il terzo arti-colo è una breve bibliografia ragionata relativa al formaggio, utile per chi volesse conoscere meglio un vero e proprio protagonista della gastronomia italiana, interessante, si spera, per chi si volesse avvicinare allo studio delle tradizioni popolari. Il quarto articolo è la prosecuzi-one di How to get a rural identity, dove un po’ si scrive e un po’ si riflette su alcune premesse dell’attività di valorizzazione del patrimonio rurale. Nella prima parte dell’articolo si è sostenuto che l’identità culturale può essere stabilita per mezzo di una rappresentazione, in particolare attraverso un processo di riconoscimento.

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Un’immagine è vissuta come espres-sione di una realtà altra dall’immagine stessa, a questa esperienza si unisce l’affermazione di un legame tra il sogget-to, l’immagine e la realtà condizionata da codici e pratiche culturali. Nell’orizzonte aperto dall’esperienza del soggetto la realtà si dà oltre l’immagine, attraverso l’immagine. È facile ritrovare tutto ciò ogni volta che ci capita di vedere la nos-tra immagine riflessa in uno specchio.

Si è affermato inoltre che il processo di definizione dell’identità può essere esemplificato e ricodificato attraverso l’esperienza del viaggio, in particolare l’articolazione di una dinamica identitaria può svolgersi all’interno di un’esperienza programmata da un progetto di turismo intelligente dedicato alla ricerca del ter-ritorio d’origine. Il punto di partenza consigliato è un agriturismo inteso come spazio culturale e nodo centrale di una rete territoriale che mette a sistema i beni materiali e immateriali del patrimonio ru-rale. Nella seconda parte dell’articolo si espone come il paesaggio rurale possa essere considerato un testo complesso che consiste nel dialogo di differenti forme di espressioni e dare origine a im-magini e significati.

Piercarlo Grimaldi, la festa, gli animali mitici e gli uomini selvaggi. Le rappresentazioni dell’etnodiversità.

Chi sa chi è? Tutti. O quasi. Potreste pensare che la domanda non è chiara. Oppure che la risposta non ci aiuta neppure a comprendere bene la questione. Scritta così, subito dopo il titolo, la domanda potrebbe essere rivolta proprio a Piercarlo Grimaldi. antropologo, Rettore dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, che ha dedicato la propria attività di ricerca anche a chiarire il rapporto tra tradizioni popolari e identità culturale. Altrimenti la domanda potrebbe essere rivolta a proprio a tutti. O quasi. Ora è importante sottolineare che non si vuole escludere nessuno e si è ripetuto ‘o quasi’ per liberare il ‘tutti’ della risposta da qualsiasi ossessione di totalità. Detto questo, ritornando al problema, si potrebbe rispondere con assoluta evidenza che ‘sa chi è chi si chiede chi è ed è proprio chi si interroga su di sé’. Sembra una filastrocca e forse lo diventerà. Senza dubbio è così e si dovrebbe rifletterci almeno un po’.

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Rocca Grimalda - La Lachera.fotografia di Piercarlo Grimaldi

Tuttavia molti non saranno soddisfatti. L’evidenza non è l’unico criterio che definisce una buona risposta, soprattutto se si pensa all’identità culturale. Una buona risposta dovrebbe chiarire bene non solo ciò che accomuna uomini e donne, ma anche ciò che distingue le persone une dalle altre, cosa distingue me da te, noi dagli altri.

Un’altra risposta potrebbe fare riferimento alle scienze naturali. Ogni essere umano è ciò che è in virtù del proprio codice genetico, delle informazioni contenute nel DNA. Ma questa risposta da una parte ci impegna troppo, dall’altra troppo poco. Ci impegna troppo perché spiegare cos’è il DNA è più difficile di spiegare cos’è una persona, o almeno altrettanto problematico. Ci impegna troppo poco perché sappiamo bene quanto possono essere diversi due gemelli, che per definizione hanno lo stesso codice genetico. I gemelli si differenziano uno dall’altro proprio attraverso il loro stesso rapporto, quindi, riconoscendo alla corporeità tutto il giusto valore, dobbiamo pensare che il problema dell’identità personale sia legato a ciò che una persona diventa,

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durante la sua esistenza, gettato nel mondo insieme agli altri.

Un’altra risposta ancora potrebbe ricorrere alle risorse della psicologia. Tuttavia, da una parte è più difficile spiegare l’oggetto della psicologia, divisa tra correnti, movimenti, gruppi di terapeuti, progetti di scienze cognitive, neurologi, psichiatri, ingegneri informatici, di comprendere cos’è una persona, dall’altra, considerando solo le promesse più patologicamente ossessive di alcune correnti neocomportamentiste, anche se riuscissimo ad avere di fronte agli occhi un modello capace di farci ricostruire tutto il nostro passato e prevedere tutto il nostro futuro, ancora non avremmo trovato la nostra identità personale.

Le persone dimenticano il passato, non conoscono il futuro. L’intuizione che voglio esprimere mi rende certo che continuerei a divenire ciò che sono indifferentemente da qualsiasi scelta le situazioni che vivo mi porterebbero a dover compiere, indifferentemente dalla struttura evolutiva della mia mente, dal grado di necessità che posso attribuire alle mie scelte, dal essere sana, malata o traumatizzata la mia psiche.

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Con altre parole, potremmo dire che l’identità personale ha caratteri storico-culturali. Si usa definire la cultura come ciò che una persona apprende in quanto appartiene a una comunità, a un’epoca, a una civiltà. Ma cosa significa appartenere? Cosa potremo intendere oggi con la nozione di comunità? E poi, come le feste della tradizione possono essere legate alle più urgenti questioni identitarie del mondo contemporaneo? A guidarci attraverso questo arduo sentiero è una ricerca di Piercarlo Grimaldi, basata su una teoria di Gian Luigi Bravo, che, come richiede il metodo etnografico, è circoscritta a un territorio ben definito, quello del Piemonte, ma che, soprattutto nella società globale della comunicazione, sarebbe interessante estendere oltre i confini regionali e nazionali.

Donne e uomini diventano ciò che sono interpretando in modo creativo le proprie tradizioni, le proprie memorie culturali, una costellazione di conoscenze e di pratiche condivise tra le persone che possono, proprio attraverso la condivisione, stabilire legami sociali. Una comunità è definita dall’intrecciarsi delle relazioni tra persone in una rete dai

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confini sempre mutevoli, determinanti sono le conoscenze e le pratiche che si riproducono attraverso questi rapporti, le memorie che si conservano ed evolvono all’interno di questi sistemi complessi. Levi Strauss scrisse che i miti vivono in noi e noi pensiamo ciò che siamo attraverso di essi. Con Piercarlo Grimaldi potremmo aggiungere che a vivere in noi è la memoria culturale e che noi ripensiamo ciò che siamo attraverso di essa. Nel libro Il teatro della vita. Le feste tradizionali in Piemonte, si trova un’esposizione esemplare della ricerca etnografica di Piercarlo Grimaldi, è uno studio rivolto in particolare al ruolo delle tradizioni legate al calendario contadino nella società contemporanea.

Come ha spiegato Gian Luigi Bravo agli inizi degli anni ‘80, è l’uomo della metropoli che più sente l’esigenza di recuperare e far rivivere le memorie della tradizione. Le persone dedite ogni giorno all’esplorazione di formazioni sociali ed economiche differenti, impegnate come strumenti efficaci a massimizzare le opportunità offerte dalla società contemporanea, sono inevitabilmente confuse.

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Ma nel rifiorire del tempo festivo questa traiettoria di spaesamento può mutare direzione. Nelle feste l’uomo ‘tecnologico’ “torna a ricercare la tradizione quale tratto qualitativo, espressivo, della formazione contadino-artigianale per investire affettivamente. Una scelta che permette all’individuo di ri-costruirsi un’identità che capitalizzi il passato per rendere affettivamente stabile il futuro” (Grimaldi, 2009, p. 7).

Le feste fanno parte delle tradizioni popolari, in esse si tramandano le radici più profonde della nostra memoria culturale, temi, figure, linguaggi, codici che si ritrovano anche nella letteratura. Tuttavia è molto difficile spiegare cos’è una festa. In ‘Viaggio in Italia’ Goethe, con sguardo sbalordito, ci restituisce una significativa narrazione del carnevale a Roma, prima di raccontare i luoghi, i tempi, la folla e la follia, i costumi e le maschere, scrive: “Nell’accingerci a una descrizione del carnevale romano, l’obiezione che dobbiamo paventare è che sia impossibile in realtà descrivere una festa del genere; una così grande e vivace massa di fenomeni sensibili dovrebbe esser percepita direttamente

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Asti,Uomini indossano costumi per la rievocazione ‘storica’ del Palio

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dall’occhio e osservata ed afferrata da ciascuno a propria guisa. Ancor più fondata l’obiezione quando noi stessi dobbiamo riconoscere che allo straniero che lo veda per la prima volta, e che non voglia e non possa altro che vederlo, il carnevale romano non dà un’impressione gradevole; non è qualcosa che allieti particolarmente l’occhio, né che soddisfi lo spirito. È impossibile dominare interamente con lo sguardo la strada lunga e stretta in cui la gente si accalca movendosi avanti e indietro; nel ristretto ambito del tumulto a noi visibile difficilmente riusciamo a distinguere qualche cosa. È un brulichio uniforme, un chiasso assordante, e il calar della sera lascia sempre insoddisfatti.” (Goethe, 1886-1978-1983=2007(trad. it), Mondadori, Milano, p. 542).

Rimasi stupito quando, parecchi anni fa, iniziavo a conoscere Piercarlo Grimaldi e mi disse di leggere un suo articolo dedicato al significato della parola ‘festa’. Vi trovai una chiosa di Agostino. É noto il suo motto sul tempo. Se non mi chiedi cos’è, lo so. Se mi chiedi cos’è, non lo so. Per Grimaldi potremmo dire la stessa cosa della Festa. Non capii.

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Oggi ancora ci penso. Si tratta di tenere insieme il sacro e il profano, l’eternità e il tempo. Si tratta di qualcosa che si può vivere, ma non descrivere o dimostrare. Agostino, Goethe, Grimaldi. Come se nella festa fosse contenuto in qualche forma muta, la verità del rapporto tra mondo e linguaggio, tempo e racconto. Nel Carnevale Wittgenstein e l’indicibile, Godel e l’incompletezza, folleggiano mascherati.

In questo ampio orizzonte molte sono le dimensioni del tempo festivo che possono essere tratteggiate. Innanzitut-to bisogna essere concreti. È un’altra lezione fondamentale di Grimaldi ‘artigiano della memoria culturale’, che Davide Porporato, caro amico, etnografo ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale, allievo di Grimaldi, traduce con l’imperativo ‘Dobbiamo stare sul pezzo’, frase che ripete spesso quando riflettiamo insieme sui temi e problemi e mi capita di perdere la rotta. Il recupero del calendario festivo è una importante risorsa per la valorizzazione del patrimonio rurale. “La festa riproposta, reinventata, non appare solo più come l’esito di un percorso soggettivo, di un impegno dell’individuo

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o della piccola associazione, della comunità che riscopre il proprio passato e lo vuole riattivare, ma soprattutto come l’impegno di soggetti istituzionali, regione, province, comuni ed enti vari che in essa vedono un mezzo per far rivivere il territorio, per attivare un nuovo modello di sviluppo che nella rinascita della comunità, nella ricostruzione del terroir, vede un alternativo modello economico e culturale” (Grimaldi, 2009, pag. 7).

Ma il tempo festivo può giocare un ruolo come risorsa territoriale perché “La festa in quanto rappresentazione popolare del teatro della vita può anche essere considerata come cura, terapia al malessere che vive l’uomo della complessità. […]. Il Novecento viene generalmente riconosciuto come l’epoca della secolarizzazione, caratterizzata dall’eclisse del sacro. La festa seppure re-inventata ma che non dimentica i tratti profondi che ne definiscono il sostrato etnico diventa un importante commutatore rituale per ripristinare i ritmi del sacro e, dunque, una terapia cerimoniale che ritorna a restituire un progetto sacro all’esistenza dell’individuo e a interpretarlo olisticamente. […] Ma

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questo teatro della vita per funzionare da commutatore di senso, per essere efficace, ha bisogno di paesaggi, ritmi, miti e riti che si riconoscano nel passato, che conservino tracce, che si fondino nella memoria degli antenati.”(Ibid. p.8). Forme e contenuti delle feste della tradizione recano tracce della complessa articolazione di ritmi naturali e culturali, di circolarità e traiettorie, di continuità e discontinuità nello spazio e nel tempo. Conoscenze, memorie che prendono vita all’interno di ritualità contadine e assumono l’aspetto di animali o uomini selvaggi, che hanno uno stretto legame con la luna.

Nel calendario folclorico del Piemonte la festa che più ha conservato la memoria del capacità dei contadini di raccordare i lavori nei campi e il ritmo delle stagioni in base ai ritmi lunari è un carnevale tradizionale, una festa d’inizio anno, che si celebra ancora oggi in Val Susa. A Urbiano, frazione di Mompantero, “il 31 gennaio i bambini del villaggio andavano di casa in casa urlando: “Fora l’ors” e prendevano in giro la gente che usciva, tradita dai loro richiami. Il giorno dopo una persona del villaggio,

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la cui identità doveva rimanere segreta, usciva, travestita da orso, dai boschi vicini. Due cacciatori lo inseguivano e, dopo averlo catturato, lo conducevano in catene per le vie del paese dove la gente lo bastonava pesantemente sulla schiena protetta da un’imbottitura e lo dileggiava. L’orso visitava le stalle dove lo attendevano le famiglie che si offrivano del vino. Egli beveva attraverso un imbuto, oppure lo versava in una sacca che aveva sotto il costume fatto con pelli di capra. Il vino della questua veniva poi spartito con gli amici che lo avevano aiutato nella rappresentazione. L’orso faceva infine irruzione nella sala da ballo e qui sceglieva la ragazza che durante le danze l’avrebbe ammansito definitivamente” (Grimaldi, 1993, p. 90).

Nella maschera carnevalesca dell’Orso rivive il mito dell’orso lunare, figura che rivela agli uomini la conoscenza dei ritmi della natura. Impiegai molti anni a comprendere quanta saggezza si potesse ritrovare nel Carnevale di Mompantero. Molto lo devo a Davide Porporato, che un giorno, scorgendo tutta la perplessità nel mio sembiante, mi insegnò a guardare la luna prima del dito che la indica. Ripeté

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Padova,Particolare degli affreschi del ciclo dei mesidel Palazzo della Ragione.

per me una bella argomentazione basata sulle relazioni tra calendario solare e calendario lunare.

Nella tradizione contadina del Piemonte si riscontra la credenza che le annate marcate da una Pasqua alta sarebbero state grasse, quelle marcate da una Pasqua bassa sarebbero state magre. La Pasqua è alta quando cade in prossimità dell’equinozio di primavera, è bassa, al contrario, quando capita verso il 25 aprile. È noto che la Pasqua è il giorno della prima domenica di luna piena successiva all’equinozio di primavera, e che il ciclo della luna computa circa trenta giorni. È quindi possibile, attraverso l’osservazione dell’astro in diversi giorni di marca, durante l’anno, prevedere il carattere dell’annata agraria.

Il carnevale di Mompantero, che segna ritualmente l’inizio dell’anno contadino, ricorre nella tradizione come memoria viva dei ritmi lunari. L’orso si risveglia dal letargo ed esce dalla grotta “per raccordarsi alla fase lunare presente nella notte folklorica canonica (tra l’uno e il due di febbraio) e decidere la strategia connessa alla Pasqua alta e bassa. Se la Pasqua era prossima al plenilunio

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dell’equinozio di primavera (Pasqua alta), l’orso usciva dalla tana definitivamente e con questo comportamento positivo annunciava ritualmente alla comunità il risveglio della natura e l’arrivo del tempo propizio per iniziare i lavori campestri, se invece trovava la luna piena comprendeva che la Pasqua sarebbe arrivata tardi (Pasqua bassa), verso il 25 aprile, ultima data possibile, e quindi si rintanava di nuovo, tornando in letargo per altri quaranta giorni. L’annata che sarà si disvela dunque dagli elementi rituali indiziari che la figura antropomorfa trasmette alla comunità che assiste alla sua performance” (Grimaldi, Carnevali di Sangue, 2009, p. 124).

Nella tradizione cristiana cattolica il mercoledì delle ceneri, che inaugura i tempi magri della quaresima, segue l’ultimo giorno del carnevale, il martedì grasso e pone termine alle trasgressioni e agli eccessi. Il passaggio tra tempi grassi e tempi magri è marcato dalla luna nuova, quaranta giorni prima, una lunazione e un terzo, della domenica delle Palme, giorno che precede l’apparire in cielo della luna piena della domenica di Pasqua. Solo quando la Pasqua è alta il martedì grasso

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del carnevale nazionale si approssima al carnevale della tradizione, la luna piena che l’orso interpreta come segno di un più lungo letargo è la stessa che anticipa di poco l’equinozio di primavera e che rimanderà ancora di una lunazione la domenica della Pasqua.

Nelle feste della tradizione contadina è l’intrecciarsi dei ritmi solari e dei ritmi lunari, con le loro marcature e ridondanze, a essere intessuto di narrazioni mitiche, motivo d’interpretazione, a essere sorgente di significazioni sociali ed esistenziali. Racconti, rappresentazioni, azioni rituali che debbono forma e sostanza alla circolarità del movimento degli astri come nel ritmico alternarsi delle stagioni, nel capriccioso apparire e scomparire della vegetazione, nella sapiente e selvaggia lotta degli uomini e degli animali (Cfr. Grimaldi, in Grimaldi, Nattino, 2009, pagg. 7-14). Il calendario delle feste della tradizione costituisce un patrimonio culturale ricco e variopinto. Le tante maschere dei carnevali tradizionali, diverse le une dalle altre, resistenti a qualsiasi tentativo d’omologazione, eppure simili come tanti parenti, parte di una grande famiglia composta di uomini

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Ca’ dal Bosc - Sant’Angelo LomellinaToma del Quirico. Il formaggio marca il tempo festivo del calendario rurale.

e animali, di maschi e femmine, giovani e vecchi, sono l’espressione più immediata dell’ampiezza e della profondità di questo granaio di differenti umanità.

Una foto scattata una domenica di Carnevale negli anni ‘50 del Novecento, a Laietto, frazione di Condove in Val di Susa, mostra il gruppo delle Barbuire. Le maschere carnevalesche sono divise in due gruppi, i belli e i brutti. Tra i brutti, più trasgressivi, i personaggi mescolano tratti animali e umani. Il pagliaccio è ricoperto di pelli di capra, i vecchi e le vecchie hanno volti animaleschi, l’uomo selvaggio è ricoperto da un vello, l’orso, tiene un bastone cui è appeso un gallo che ucciderà con un colpo di sciabola alla fine della giornata. (Cfr. Grimaldi, Nattino, 2009, pag. 52).A Chianale, nel cuneese, il Sabato grasso Lou Loup questua per le strade del paese legato a una corda, trattenuto da un cacciatore, ha un campanaccio da vacca attaccato alla cinta, è un oggetto di un margaro, ma il viso è coperto da una maschera a gas della seconda guerra mondiale. (Cfr. Grimaldi, Nattino, 2009, pag. 49).

Spesso le maschere del carnevale sono protagoniste di narrazioni mitiche legate

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a elementi naturali che marcano nella memoria il territorio del paese. A Piane Sesia nei pressi di Serravalle, in regione “Pietra Croana”, c’è un luogo al quale è legata la leggendaria figura del Badish, un fuorilegge costretto a ritirarsi “a vita selvaggia”. Un giorno di ottobre scende a valle, si lascia tentare dal vino ancora a riposo nei tini, ubriacatosi cade mentre cerca di tornare nella sua grotta (Piolo, 1935.1945=1995, p. 689). Oggi il Badik è una maschera ‘selvatica’ del Carnevale tradizionale di Piane.

Diverse considerazioni relative ai caratteri estetici delle feste della tradizione individuati da Goethe, alla ricchezza e la varietà delle forme d’espressione riscontrate dalla ricerca sul campo, la dipendenza dell’orga-nizzazione dei dati etnografici dalle ipotesi di ricerca, la problematicità di ogni schedatura dei dati etnografici che si offra come ultima possibile hanno portato Grimaldi e Porporato, guidati soprattutto dalla metodologia proposta da Leroi Gourhan, mettendo a frutto le risorse cognitive artificiali messe a disposizione dalle tecnologie informatiche, l’Atlante multimediale delle feste in Piemonte.

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Si tratta di un archivio digitale dove una schedatura essenziale delle feste, intese come beni culturali immateriali, può essere correlata secondo molteplici registri a documenti testuali, iconografici, fotografici, video, in modo da poter generare infinite letture e permettere interpretazioni diverse in base alle diverse assunzioni teoriche e metodologiche adottabili. Nel 2008 Porporato scriveva che “L’Atlante si compone di circa milleottocento schede le quali documentano il tempo festivo tradizionale e contemporaneo del Piemonte e generano un archivio di dati etnografici composto da contenuti testuali, fotografici, sonori e filmici. Un patrimonio culturale di beni antropologici immateriali prezioso, unico nel suo genere, depositato in un luogo virtuale e consultabile unicamente attraverso la rete internet. […] Questi beni sono identici e mutevoli e vanno perduti per sempre se non si provvede a registrarli su supporti in grado di conservarli nel tempo.” (Porporato, in Grimaldi, Nattino, 2009, pag. 215).

Quando conobbi Davide Porporato ero uno studente della facoltà di Lettere

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Asti - Sagra delle Sagre,Il taglio della farinata.

dell’Università del Piemonte orientale, si avvicinò a me nel laboratorio audiovisivi, dove lavorava come responsabile, cercavo con difficoltà di seguire un film in inglese, indicò l’abito di una delle attrici e mi fece notare come il carattere del personaggio fosse espresso attraverso l’accostamento di abiti tratti da due diversi contesti culturali.

Oggi è un ricercatore presso L’Università del Piemonte Orientale, insegna antropologia culturale, ed è responsabile del Laboratorio di etnografia visiva e multimediale, insieme a Piercarlo Grimaldi si occupa del progetto Granai della memoria dell’Università degli studi di scienze gastronomiche di Pollenzo, lavora per allestire un’atlante multimediale dedicato alle tradizioni di agricoltori e artigiani; una ricerca condotta per salvare i saperi orali e gestuali del mondo. Ma questa è un’altra storia.

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Vercelli - Jazz-re-foundLa cantante veste un’abito contemporanea abbinato ad accessori etnici.

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Sant’Antonio Abate e la luna di Carnevale

Un recente articolo di Piercarlo Grimaldi mostra come nell’immaginario folklorico della tradizione contadina europea, nel corso dell’evoluzione storica e sociale, il maiale, risorsa alimentare primaria nell’economia della cascina, per il profondo significato simbolico che l’animale ha portato con sé, per secoli ha sostituito un altro animale mitico, l’orso della luna di carnevale. Questa metamorfosi si svolge all’interno di un quadro delineato da un’attenta analisi comparativa. In particolare lo studio prende in considerazione le figure di sant’Antonio Abate e dell’Orso mitico, protagonista delle feste carnevalesche della tradizione contadina, la pratica dell’uccisione del maiale e la pratica, ancora documentata sul territorio piemontese in età storica, della caccia all’orso. La comparazione si basa su dati tratti sia da dettagliate osservazioni etnografiche effettuate in Piemonte, sia da un’attenta lettura di documenti storici, sia dall’analisi iconografica di elementi folklorici rintracciabili nelle opere di Hieronymus Bosch e altri artisti.

Per interpretare le figure del calendario rituale contadino del folklore europeo Piercarlo Grimaldi si serve degli strumenti teorici elaborati dalla scuola sociologica di Gian Luigi Bravo e dalla scuola etnologica francese di Gaignebet, Lajoux e Poirier, sviluppandone le potenzialità in rapporto soprattutto alla lezione di Roberto De Martino mediata attraverso l’insegnamento di Luigi M. Lombardi Satriani e Antonino Buttitta, riuscendo a tenere insieme l’intuizione di Mircea Eliade, lo sguardo storico-antropologico di Carlo Ginzburg e l’attenzione per la vivacità del dato etnografico di Nuto Revelli.

Nell’orizzonte teorico e metodologico qui appena tratteggiato, il carnevale è inteso come un rituale di passaggio tra vecchio e nuovo anno, come un tempo contrassegnato da un’agire simbolico fortemente caratterizzato dalla trasgressione, come un momento strategico per la sopravvivenza delle comunità contadine. L’analisi delle performance carnevalesche diventa occasione per definire un modello di cultura prevalentemente orale all’interno della quale soltanto il sapere della luna,

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la pratiche della carne e del sangue possono permettere la sopravvivenza di una comunità. Di fondamentale importanza nello studio delle feste contadine è la comprensione del ruolo giocato nel calendario. Al centro della nostra attenzione porremo perciò proprio la funzione delle feste nella definizione di una strategia per la gestione delle risorse, nella pianificazione del lavoro, ovvero, in altri termini, nella previsione dei momenti più propizi alle diverse pratiche d’agricoltura e allevamento.

Gaignebet sostiene che questa dimensione progettuale ha caratterizzato l’organizzazione del tempo rurale già nel medioevo. Tempi grassi e tempi magri sono scanditi da previsioni piuttosto che dal computo dei giorni: “Il contadino deve saper progettare l’intero ciclo agrario, pianificare il lavoro, gli attrezzi, le persone, le provviste, gli animali, le sementi, al fine di salvaguardare la sopravvivenza della cascina almeno per un anno. Inoltre la progettualità contadina poteva interessare più anni, quando si doveva preparare il terreno per nuove colture e futuri raccolti” (Grimaldi, 1993, p. 95).

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Alagna - particolre di un casa rurale, affresco raffigurante Sant’Antonio Abate.

In questa pratica di previsione il principale punto di riferimento per il contadino sapiente è la luna. Per Mircea Eliade la luna è simbolo del tempo infranto del ciclo agrario e in particolare “le fasi lunari, cioè la ‘nascita’, la ‘morte’ e la ‘resurrezione’ hanno rivelato all’uomo il suo modo di essere nel cosmo e le sue possibilità di sopravvivenza e di rinascita” (Id.).

Nella prospettiva adottata la festa di sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, è il giorno in cui le comunità contadine ritualizzano e consacrano la macellazione del maiale. Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici è quasi sempre raffigurato con un maialino vicino. Il santo era invocato soprattutto come guaritore del fuoco sacro, detto anche fuoco di sant’Antonio, una malattia ‘prescientifica’ che combinava bruciore e allucinazioni, sintomi che ci permettono oggi di riconoscere confuse malattie diverse quali l’ergotismo, causato dall’ingestione della claviceps purpurea e una grave forma di herpes (herpes zoster), affezione dolorosa curata con segnature di sugna di maiale.

In Europa la devozione per il santo eremita era stata diffusa dai Canonici Regolari di sant’Antonio di Vienne, ordine

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nato proprio in seguito a un voto fatto a sant’Antonio. Tutto era cominciato quando un cavaliere, Jocelin de Chateau Neuf, di ritorno da una crociata in terra santa aveva pure portato nel Delfinato le reliquie di Sant’Antonio Abate, ricevute in dono dall’Imperatore. Le reliquie furono deposte a La Motte St. Didier, vicino a Vienne, dove si trovava un priorato benedettino e dove venne fondato un santuario dedicato a Sant’Antonio Abate.

In questo luogo sacro nel 1095, a seguito del voto fatto dal nobile Gastone, che aveva avuto un figlio guarito dall’ergotismo, nacque la comunità laicale ospedaliera. La confraternita fu approvata da papa Urbano II nel 1095 e confermata da papa Onorio III con bolla papale nel 1218. Nel 1297 papa Bonifacio VIII, con la bolla Ad apostolicae dignitatis eresse i laici in Ordine di canonici regolari e pose l’antica compagine ospedaliera sotto la regola di S. Agostino. In Piemonte, lungo il cammino della Via Francigena nei pressi di Buttigliera Alta, nel 1188 Umberto III di Savoia aveva fondato un complesso, costituito da un’ospedale, una precettoria e una chiesa, dato in uso ai Canonici

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Regolari di Sant’Antonio di Vienne con l’intento di creare un luogo d’assistenza per i pellegrini e di cura per i malati afflitti dal fuoco di sant’Antonio (Cfr. Ruffino, Italo - Studi sulle precettorie antoniane piemontesi: Sant’Antonio di Ranverso nel secolo 13. - Deputazione Subalpina di Storia Patria – 1956) (Guadalupi, Gianni - Sant’Antonio di Ranverso - Franco Maria Ricci – 1996).

I Canonici Antoniani si distinguevano anche per un’attività assidua nella raccolta di donazioni, tanto che Dante nella Divina Commedia ne motteggiò l’ingordigia: “di questo ingrassa il porco sant’Antonio/ e altri assai son ancor più porci, / pagando di moneta senza conio” (Paradiso, canto XXIX, vv.124-126). I Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne avevano inoltre il privilegio di possedere suini, allevati anche per trarne la sugna medicamentosa, nutriti a spese della comunità. Potevano circolare liberi per le strade di paesi e città, appeso a un orecchio appositamente forato, portavano un campanellino che li distingueva come animali sacri da trattarsi con estremo rispetto (Cfr. Italo Ruffino. Canonici regolari di Sant’Agostino di Sant’Antonio

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di Vienne. «Dizionario degli istituti di Perfezione», volume II, Roma, edizioni Paoline, 1975, p. 134-141).

Il carattere sacro dell’animale emerge anche dalla considerazione della pratica della sua macellazione. L’uccisione del maiale è vietata nel giorno della festa di sant’Antonio, divieto che comporta l’istituzione della sacralità dell’animale e il carattere sacrificale di cui si carica l’uccisione del maiale (Grimaldi, Carnevali di Sangue). A Vercelli il tempo festivo invernale è marcato dal ripetersi di una festa profana di carattere famigliare detta “pursalij”. Con le parole di Pino Marcone esperto di tradizioni vercellesi: “La fabbrica dell’appetito vedeva impegnate intere famiglie, donne, uomini, bambini: ognuno con un suo preciso compito culminante nel cosidetto “pursalij” o uccisione del maiale. […] quella fabbrica, lavorava a pieno ritmo in un particolare momento dell’anno, quello natalizio”. L’uccisione del maiale era un vero e proprio rito iniziato con l’acquisto del porcellino, ingrassato nei lunghi mesi prima dell’inverno e poi in dicembre sacrificato con una vera e propria festa: il pursalij, definito da Serazzi e Carlone

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nel loro dizionario “mangiata particolare a casa di chi ha ucciso il maiale”. La festa del maiale iniziava in modo cruento, si rincorreva la bestia e poi la si legava alla tagliola (Marcone P., Voci su Vercelli di Barba Paulin, 2008, pp. 156-157).

Come sottolinea Grimaldi, è importante notare che se del maiale non si butta via niente, tuttavia è ampiamente documentata sul territorio piemontese la pratica di nutrirsi innanzitutto del sangue della bestia sacrificata (Grimaldi, 2009, p. 57). “Quando il norcino sta per piantare la lama del coltello nella gola dell’animale la donna è pronta a raccogliere il sangue che zampilla in una ciotola” (Grimaldi P., pp.120-121). A Vercelli e nel vercellese (ma oggi ormai solo a Desana e ad Asigliano), con il sangue fresco si prepara la brudera, un risotto fatto in un brodo di costine cui si aggiuge il sangue del maiale a cottura quasi ultimata. “una volta ucciso, per mezzo di una catena e abbondante acqua calda, veniva pelato, quindi s’iniziava la lavorazione. Salami, salsicce e mortadelle, appesi in lunghe file ai soffitti di casa, ivi compresa la camera da letto, abbellivano e profumavano gli ambienti, contraddistinti dal fumo e dalle

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Catania, bancarella di un macellaio,mezza testa di maiale

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lunghe ombre proiettate dal fuoco del camino” (Marcone P., Voci su Vercelli di Barba Paulin, 2008, pp. 156-157).

La festa di Sant’Antonio Abate può essere allora considerata un momento strettamente legato al carnevale proprio perché la festa contrassegna il momento in cui le comunità contadine davano inizio al processo di produzione di cibo grasso destinato ad alimentare il tempo festivo del carnevale. Un dato conferma l’evidenza di questo legame: la ricetta della gustosa minestra protagonista delle pantagrueliche fagiolate di carnevale prescrive l’uso di cotiche di suino. In altri termini quindi sembra possibile dire che la festa del 17 gennaio istituisce la carne del maiale come cibo rituale ed esprime l’abbondanza caratteristica del tempo grasso. Se il Maialino di sant’Antonio contribuisce ad annunciare il tempo grasso del carnevale, anche l’orso del carnevale gioca un ruolo importante.

Strettamente legata al sapere della luna, alla capacità di prevedere la Pasqua, La festa di sant’Orso è il giorno a partire dal quale diventa possibile prevedere il tempo festivo della Pasqua. Ad Aosta il primo giorno di febbraio è ricordato

sant’Orso, arcidiacono di Aosta, protettore della terra. Come sostiene Grimaldi, il mondo contadino in un certo senso identifica la figura di questo santo agreste e il mito che attribuisce all’orso la capacità di prevedere l’arrivo della primavera. In val Sagone c’è un detto che dice: “Se Sant’Orso fa asciugare il pagliericcio poi piove”. A Balme, in valle di Lanzo, il proverbio consiglia che, se il tempo è bello, sarà opportuno mettere al sole la paglia per farla essicare poiché Sant’Orso si nasconderà ancora per quaranta giorni (cfr. Canziani, Rohde, 1913, p. 78).

Ma la festa di Aosta non è l’unica a vedere protagonisti orsi con il pallino della meteorologia. In Piemonte si ricorda, nei primi decenni di questo secolo in alcune remote valli alpine, la tradizione di “far uscire sant’Orso” la sera del primo febbraio. I giovani cercavano di attirare fuori di casa la gente del villaggio. Una volta fuori casa, chi avesse risposto all’appello, veniva sorpreso da forti grida: “Oh! L’ors... fora l’ors... Viva, varda che bel’ors” (Farinetti, 1926, p. 1952). “In questo contesto si inserisce la festa dell’orso della frazione Urbiano di Mompantero.

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A memoria d’uomo, il 31 gennaio i bambini del villaggio andavano di casa in casa urlando: “Fora l’ors” e prendevano in giro la gente che usciva, tradita dai loro richiami. Il giorno dopo una persona del villaggio, la cui identità doveva rimanere segreta, usciva, travestita da orso, dai boschi vicini. Due cacciatori lo inseguivano e, dopo averlo catturato, lo conducevano in catene per le vie del paese dove la gente lo bastonava pesantemente sulla schiena protetta da un’imbottitura e lo dileggiava. L’orso visitava le stalle dove lo attendevano le famiglie che si offrivano del vino. Egli beveva attraverso un imbuto, oppure lo versava in una sacca che aveva sotto il costume fatto con pelli di capra. Il vino della questua veniva poi spartito con gli amici che lo avevano aiutato nella rappresentazione. L’orso faceva infine irruzione nella sala da ballo e qui sceglieva la ragazza che durante le danze l’avrebbe ammansito definitivamente” (Grimaldi, 1993, p. 90).

In questo quadro diventano evidenti i caratteri trasgressivi della performance rituale dell’orso marino in particolare per quanto riguarda il carattere propiziatorio

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della sua danza che allude alla fertilità della donna come a quella della terra.

Nella chiesa della Trinità e di san Giovanni, costruita nel XII secolo ad Aregno in stile romanico pisano, sulla facciata ci sono sculture molto curiose tra cui possiamo riconoscere essere raffigurati due orsi (Cfr. “Pisa è vicina”, articolo tratto da MEDIOEVO n.8/2003). La facciata è divisa in tre registri. In alto al culmine del timpano, dove s’incrociano le archettature pensili e dove solitamente si raffigura il padre celeste, c’è scolpito un uomo seduto che tenta di togliersi una spina dal piede e in questo gesto esibisce i genitali. Nella fascia mediana quattro arcate cieche poggiano su capitelli in granito scuro dove troviamo scolpiti cinque animali: ai lati riconosciamo un leone e un lupo, raffigurati mentre sbranano altri animali. Verso il centro si riconoscono due orsi: quello raffigurato a sinistra esibisce le zanne, mentre quello di destra un fallo eretto.

Difficile interpretare la figura del capitello centrale, in parte rovinato, potrebbe raffigurare proprio un maiale selvatico, che, insieme agli altri animali scolpiti sulla facciata, potrebbe essere un

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vivace un bestiario corso, realizzato per insegnare a cercare nella natura tracce delle verità della teologia e ad attendere con prudenza ai tempi grassi e tempi magri del calendario contadino.

Non siamo affatto sicuri di questa interpretazione iconografica e tuttavia siamo certi di trovarci di fronte alla reinterpretazione cristiana di un tema folklorico. Il dato più convincente è tuttavia una festa del folklore piemontese che ci spinge con più sicurezza ad avvicinare la figura dell’orso e quella del maiale. Durante la questua di sant’Antonio abate nella frazione Celle di Bellino, nel giorno del 17 gennaio due maschere in particolare visitano le famiglie riunite per la veglia. Una persona interpreta sant’Antonio Abate, l’altra che cammina a quattro zampe interpreta un maialino. “Il maiale va alla ricerca delle uova che le galline hanno cominciato a deporre dopo il freddo dell’inverno e, nel contempo, scatena contrasti con gli animali della stalla, legittimando la sua selvatica aggressività e va a toccare in modo malizioso le gambe delle giovani che stanno filando. Quando il maiale ha rubato le uova, il santo impartisce

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Aregno - chiesa della Santissima Trinità Spinario, Bestiario scolpito

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la benedizione e il corteo in maschera va a visitare un’altra veglia” (Grimaldi, 2003b, pp. 9-12; Carénini, Grimaldi, 2004). Ma soprattutto Grimaldi sottolinea che “gli anziani del luogo, quando raccontano e rivivono il lontano tempo della vita invernale trascorso nelle stalle, riconoscono l’animale di sant’Antonio sia come maiale, sia come orso. Il ricordo ci introduce in un’area semantica che omologa i due animali e quindi il maiale di sant’Antonio è, da un lato, l’animale che ricorda a tutti che è giunto il tempo di preparare le dispense per il consumo del cibo grasso, dall’altro, anche l’animale carnevalesco che sta per risvegliarsi dal letargo invernale” (Grimaldi 2009, p. 61).

Come sostiene Grimaldi, nel calendario del Folklore contadino la trasgressione può essere intesa come una performance che insieme evoca e propizia l’avvento di un nuovo anno, della fertilità del suolo, il ritorno delle messi nei campi, l’abbondanza dei raccolti. Questo perché a ben vedere la rinascita dello spirito vegetativo dopo la morte autunnale e il lungo riposo invernale devono essere intesi sicuramente come il grado massimo di trasgressione, il rovesciamento di ogni

apparente rapporto tra vita e morte, un vero e proprio ritorno dagli inferi (Cfr. Grimaldi, De Martino…). Nel calendario della tradizione contadina il Carnevale segna dunque un momento in cui era possibile pensare essersi aperto un varco tra il mondo dei vivi e quello dei morti, un momento in cui il sapere della luna che appartiene agli spiriti sotterranei poteva rivelarsi agli uomini.

Se le cose stanno così possiamo anche capire perché è importante individuare quei lineamenti propri dell’orso mitico e del maiale di sant’Antonio che ne rivelano l’appartenenza al mondo sotterraneo. Nella chiesa di san Bernardino, secolo XV Giovanni Spanzotti ha lasciato nell’affresco che descrive il girone infernale dei golosi la figura di un orso demoniaco che furiosamente acceca e ingozza un anima dannata (Grimaldi, 2009, p 175). Anche il maiale prende tratti demoniaci nell’immaginario del folklore europeo. Nel dipinto Le tentazioni di sant’Antonio, trittico del pittore fiammingo Hieronymus Bosch, realizzato negli anni 1505-1506 troviamo la figura di un demone suino davvero sconcertante. “Nel pannello centrale,

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mentre Antonio viene sacralmente rappresentato nell’atto di venerare il Cristo, accanto figure profane operano in opposizione al santo. Studiosi vedono in quest’azione la celebrazione di una sorta di messa sacrilega cui partecipa anche un suonatore vestito di nero con faccia di maiale e civetta sulla testa. Il nostro animale domestico, dunque, assume qui caratteri demoniaci ed è parte della più vasta aggressione simbolica all’eremita” (Grimaldi 2009, p. 56).

In Piemonte nei tratti alpini tra Italia e Francia delle principali vie di pellegrinaggio, è diffusa la raffigurazione pittorica della cavalcata dei vizi. Si tratta della raffigurazione di una scena terribile. Demoni trascinano nella bocca dell’inferno sette figure umane. Ogni personaggio, tormentato in groppa a un diverso animale, è allegoria di un vizio capitale. A Villafranca Piemonte, nella chiesa di Santa Maria di Missione, Nell’affresco dipinto da Aimone Duce nella metà del XV secolo, possiamo riconoscere un orso portare l’ira e un maiale cavalcato dalla lussuria. Si può affermare quindi che nell’iconografia della pittura tardo gotica piemontese

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ritroviamo le figure dell’orso e del maiale avvicinate al mondo infero. A Bastia, nella chiesa di San Fiorenzo, nella cavalcata dipinta dal Maestro di San Fiorenzo nel 1472, non ritroviamo né l’orso, sostituito forse da una iena, né il maiale, sostituito da una capra e tuttavia proprio sopra la bocca dell’inferno verso cui procedono i peccati si vede un orso, al seguito di un demone intento a suonare un piffero e un tamburo, portare in spalla un monaco. Nell’immaginario del Piemonte medievale come nella questua di Sant’Antonio di Celle di Bellino ritroviamo la prossimità tra la figura dell’orso e quella del monaco cui si aggiungono caratteri che confondono elementi carnevaleschi e inferi.

Si è visto in molti contesti diversi, spesso lontani nel tempo e nello spazio, che per motivi diversi l’orso della luna e il maiale di sant’Antonio assumono tratti di ambiguità e trasgressività. Potremmo pensare allora che sia proprio la doppiezza di questi animali che ha permesso loro di svolgere un ruolo di mediazione tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Ma soprattutto, più propriamente, potremmo iniziare a supporre che proprio l’osservazione del letargo

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animale potrebbe essere l’esperienza di pensiero che, ha permesso alle comunità contadine di concettualizzare la morte e il risveglio dello spirito vegetale (cfr. Levi strauss, De Martino, Grimaldi).

Può essere utile in questa prospettiva considerare una scena scolpita da Baldino da Surso nel 1467 per gli stalli del coro della Cattedrale di San Savinio a Ivrea oggi conservati nel Museo Civico d’Arte Antica di Torino. Nel basso rilievo, ai piedi di una vite monumentale carica di grappoli, notiamo un’orsa (?) e uomo vestito di pelli danzare. Ancora una volta il comportamento dell’orso e il ciclo vegetativo sono avvicinati, percepiti come regolati da uno stesso ritmo, sentiti come parte di uno stesso mondo.

Se le cose stanno così si potrebbe supporre l’azione delle medesime strutture cognitive nella comprensione del ciclo vegetativo dell’anno, del comportamento degli animali del letargo, e del ciclo della vita umana: sia il letargo, sia il risveglio primaverile dell’orso potrebbero essere interpretati come trasgressioni sistematiche dell’ordine cosmico.

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Ritorniamo ora a considerare la figura dell’Orso di pelle di Mompantero. Negli anni la festa di Urbano di Mompantero ha perso alcuni tratti, ma è rimasto l’uso di ripetere un proverbio spiccatamente meteorologico: “Se fai bel a Sant’Ors caranta di e na smana a bagna, se invece a Sant’Orso bagna caranta di e na smana fai bel” (Se fa bello a sant’Orso fa brutto per quaranta giorni e una settimana, se invece fa brutto a sant’Orso fa bello per quaranta giorni e una settimana) (Grimaldi, 1993, p. 91).

Tuttavia il rapporto tra il comportamento dell’orso e il sapere contadino non deve essere interpretato in modo superficiale. Lo stesso Van Gennep nota che l’orso non è un semplice indicatore barometrico, ma un regolatore del tempo folklorico (cfr. Van Gennep, 1946-48, volI, p. 373). Come dice Grimaldi, l’orso esce dalla grotta “per raccordarsi alla fase lunare presente nella notte folklorica canonica (tra l’uno e il due di febbraio) e decidere la strategia connessa alla Pasqua alta e bassa. Se la Pasqua era prossima al plenilunio dell’equinozio di primavera (Pasqua alta), l’orso usciva dalla tana definitivamente e con questo comportamento positivo

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annunciava ritualmente alla comunità il risveglio della natura e l’arrivo del tempo propizio per iniziare i lavori campestri, se invece trovava la luna piena comprendeva che la Pasqua sarebbe arrivata tardi (Pasqua bassa), verso il 25 aprile, ultima data possibile, e quindi si rintanava di nuovo, tornando in letargo per altri quaranta giorni. L’annata che sarà si disvela dunque dagli elementi rituali indiziari che la figura antropomorfa trasmette alla comunità che assiste alla sua performance” (Grimaldi, Carnevali di Sangue, 2009, p. 65).

Ma a ben vedere l’orso non è la sola figura cui si può attribuire il ruolo di comunicare il sapere della luna. Nel quadro Madonna tra i santi Antonimo Abate e Giorgio, dipinto dal Pisanello a Rimini nel 1445 e oggi esposto alla National Gallery di Londra possiamo riconoscere la messa in scena pittorica di una performance rituale del tutto analoga a quella dell’orso del carnevale, interpretata però da sant’Antonio Abate, un maiale selvatico o un cinghiale, la Madonna e la luna, san Giorgio e un drago. La Vergine appare in cielo circoscritta da una luna piena abbacinante di luce, sant’Antonio

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Roma, Chiesa di San Giovanni in Laterano, chiostro cosmatesco,Testa d’orso.

Abate sulla destra, accompagnato da un suino selvatico e ringhioso, suona la sua campanella e brandisce il bastone rivolgendosi con il gesto a san Giorgio che brandisce l’elsa della spada serrata nel fodero, ai suoi piedi il drago, intimorito dal maiale selvaggio si ritrae. Nel contesto del calendario contadino la figura di San Giorgio che sconfigge il drago, festeggiato il 23 aprile, appare come un importante santo folklorico, marcatore di quel tempo dell’anno in cui il sole giorno dopo giorno sorge sempre prima e tramonta sempre dopo.

Se le cose stanno così la vittoria del santo cavaliere sul drago può essere interpretata come espressione dell’arrivo del tempo più propizio ai lavori dei campi. Inoltre bisogna notare che il 17 gennaio misura mezza lunazione prima della notte dell’orso del carnevale. In questo quadro la scena dipinta dal Pisanello appare più chiara. Sant’Antonio abate annuncia a san Giorgio che il suo tempo è prossimo. Ma è la considerazione del calendario della luna di Pasqua che ci permette di cogliere meglio il significato del gesto dell’eremita. Se il 17 gennaio la luna è piena, la pasqua sarà alta e le

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comunità contadine potranno consumare festosamente le scorte alimentari dell’inverno e dovranno prepararsi al lavoro dei campi. Sembra possibile sostenere allora che nell’opera del Pisanello la figura di sant’Antonio Abate e dell’animale che lo accompagna interpreta lo stesso ruolo di regolatore del tempo che Van Gennep riconosce all’orso del carnevale.

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Ca’ dal Bosc.Vino offerto in degustazionedal Muricin pressol’officina gastronomicaa Sant’Angelo Lomellina

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Sant’Angelo LomellinaLaboratorio di falegnameriadi Massimo Baldi. Lavoro direstauro di una persiana per un finestrone di una residenzagrande nobiliare sul lago maggiore.

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L’uomo selvaggio e il panino del fantasma formaggino. Osservazioni bibliografiche su alcune fonti utili per un’etnografia del formaggio

Cosa bisogna mettere in luce per capire il formaggio? Facile dire che non basta metterne una fetta sopra uno scanner e trarne un’immagine digitale da duplicare a piacere. Cosa che ho fatto. Sicuramente è indispensabile sentirne il profumo e assaggiarne almeno un po’. Sì, bisogna mangiare una bella fetta di formaggio magari abbinata a un buon vino. Una bella fetta di un buon formaggio da odorare e assaporare è il primo passo di un percorso che potrà portarci a capire cos’è il formaggio, a comprendere cosa si intende con la parola formaggio. Tuttavia è pure ovvio che questo non può bastare per sapere come si può fare il formaggio buono e perché alcuni siano migliori di altri, perché ne esistano tante varietà e come sia possibile ottenere tanti gusti e sapori.

Si dovrebbe provare a farne, oppure avere la fortuna di conoscere un bravo casaro che ci permetta di assistere alla sapiente arte del trarre il formaggio dal latte.

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Scopriremo allora che la bontà del formaggio dipende dalla bontà del latte e questa dall’alimentazione delle vacche, dal luogo dove le placide bestione ruminano e da che erbe e fiori possono distillare nelle grasse mammelle. Dal caglio, dalla cottura, dalla stagionatura. Altrimenti è possibile avere queste notizie da libri o documenti multimediali. Ma sappiamo che la mediazione implica sempre una perdita e un arricchimento. Inoltre questa esperienza non potrebbe bastare per sapere cosa sia il formaggio per i margari. Fare il formaggio è una parte del loro lavoro, ma proprio, per i margari, non si può separare vita e lavoro. Un anno non è un giorno. Una vita non è un anno. Sulle vite pesano la storia, la politica, le trasformazioni sociali ed economiche, le innovazioni tecnologiche. Tuttavia ogni anno ha il suo ciclo, segnato dall’alternarsi delle stagioni, ogni giorno i suoi ritmi, con l’alternarsi della luce e del buio, del caldo e del freddo, del secco e dell’umido, e il variare degli estremi e degli eccessi, la difficoltà di trovare il giusto. Tuttavia si può pensare che ancora non potremo sapere che cosa possa significare il formaggio per

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le persone che lo assaggiano. La prima volta non si scorda mai. Neppure per i cibi. La cosa migliore è chiedere. Perché mangi questo e non quello? Quali sono le ricette preferite? Quali sono le occasioni, i momenti di condivisione? Ma anche ciò che si sente l’esigenza di dire o, magari, di scrivere, di pubblicare sul formaggio, come questa stessa pagina, rivela aspetti di ciò che il formaggio significa per chi lo mangia, per chi lo compra e lo vende, per chi lo fa e per chi ne parla e ne scrive. Il formaggio è oggetto di discorso, di conoscenza, di memoria. Memoria personale, memoria familiare, memoria orale, ma anche memoria scritta, a partire dalle ricette scritte a biro dalla nonna nata a metà del secolo scorso, fino ai saggi scientifici che è possibile consultare sui siti web.

Ricordo una barzelletta che da bambino amavo raccontare che, mi rendo conto, ha un’anima tutta fatta di formaggio e amore per la patria. É notte, in una casa incantata ci sono un francese, un tedesco e un italiano, ognuno dorme nella sua stanza. Arriva un uno spirito purgante nella stanza del francese, dice ululando: sono il fantasma formaggino!

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Il francese quasi muore di paura e fugge dalla casa. Lo spirito visita la stanza del tedesco. Sono il fantasma formaggino!!! Latra come fosse cerbero con le tre bocche sbavanti e le linguacce brutte. Scappa dalla casa il tedesco, veloce come un centometrista. Rimane l’italiano che al lamentoso ectoplasma risponde: vieni qui che ti spalmo sul panino. Ridevo di gusto da bambino, ogni volta che la sentivo e che la raccontavo. L’italiano ha sempre fame. Tanta fame da non poter avere paura e da farsi piacere anche un morto. Poi si racconta tutta la sapienza gastronomica dell’essere italiani, se si parla di cibo, un italiano è sempre a suo agio e sa cosa bisogna fare. Ma perché mai un fantasma dovrebbe chiamarsi formaggino? Cosa ci porta ad avvicinare il formaggio al mondo dei morti? Per comprendere il valore culturale di un cibo è necessario considerare fonti orali e scritte, ricostruire l’orizzonte di senso proprio di una comunità, seguire un metodo, analizzare documenti, argomentare, dimostrare. Sappiamo che in Piemonte il mito dell’origine del formaggio attribuisce all’uomo selvaggio l’aver insegnato l’arte del formaggio.

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Si dice che avrebbe insegnato anche altre cose, ma, sentendosi deriso, si allontana dagli uomini. Si sa inoltre che l’uomo selvaggio appartiene al mondo sotterraneo, è uno spirito ctonio. Cosa si deve mettere in luce per trovare la trama di narrazioni che può avvicinare l’uomo selvaggio e il fantasma formaggino? Bisogna lasciare la parola a un bravo antropologo come Piercarlo Grimaldi, detto ‘Grim’ dai suoi allievi, perché studia miti e storie di animali selvaggi che tanto assomigliano ai personaggi delle favole. Tuttavia, anche una rapida ricerca bibliografica, indispensabile per chiunque voglia scrivere del formaggio senza il rischio, oppure con la certezza, di ripetere cose già scritte, ci permette di mettere in luce alcuni aspetti che il formaggio ha per chi ne scrive.

Basta leggere il titolo del bel libro di Giorgio Ottogalli “Atlante dei Formaggi, Guida agli oltre 600 formaggi e latticini provenienti da tutto il mondo” per capire che l’opera è dedicata ad una forma culturale globale che ha aspetti gastronomici, storici, economici, tecnologici, etnici, culturali. Come forma d’espressione molto variegata che ha

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valori nutritivi, territoriali, sociali, culturali, può essere considerato in rapporto a singole tradizioni o solo sotto alcuni aspetti. Troviamo allora “Formaggio: produzione, origine, tipi, gusto, di Anne Iburg, “I formaggi italiani” di Piero Maffeis, “Alla ricerca del formaggio perduto. Viaggio sentimentale, corredato da mappe, tra gli antichi sopravvissuti caci piemontesi”, “Il gusto del formaggio. Manuale per conoscere le forme del latte” edito da Slow food. Seguono, più serie e coerenti, le monografie: “La Toma, formaggio tipico delle Langhe” di Egidio Marini, Il formaggio “Toma di Lanzo: note storiche”, “Il formaggio Bra” di Giovanni Delforno, “Il Murazzano DOP: il suo ambiente, la sua gente, la sua storia con 100 ricette per usarlo in cucina” di Patrizia Gatti e, con tutta l’aspirazione della gioventù le tesi di laurea come “La produzione del formaggio a denominazione di origine ‘Murazzano’ e la sua influenza sull’economia dell’Alta Langa” di Daniela Maria Riccardi.

Come frutto del lavoro del l’uomo se ne parla in “A muntoo d’Olpe: pascoli, alpeggi e margari nelle valli di Ormea” di Tullio Pagliana, in primo piano si mettono

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le storie di vita, nel contesto dell’orizzonte di senso delle vite dei margari si lasciano emergere i valori culturali delle tome.

Si rendono disponibili anche bellissime fotografie degli strumenti del lavoro, come in “Vita agricola e pastorale nel mondo. Tecniche e attrezzi tradizionali” del celebre Mariel Jean Brunhes Delamarre.

Ugualmente si considera importante per la valorizzazione del latticino il contesto ambientale naturalistico territoriale, come in “Pascoli e vigneti, presidi caseari ed enologici nelle zone alpine e pre alpine del Piemonte” di Gian Vittorio Avondo e Serena Maccari, titolo che ci lascia intuire anche che le vacche spesso pascolano vicino ai vigneti. Come parte integrante e caratteristica che identifica un territorio se ne parla nei libri dedicati ai paesi di montagna, luoghi privilegiati di produzione e commercializzazione (turistica) dei prodotti tipici, si legga “Bagnolo Piemonte, Momenti di vita di un paese” di Elena Sciandra e Valter Boiero, oppure “Santfront. Terra, lavoro, tradizioni”, di Giorgio Di Francesco; potrà mancare un paragrafo dedicato ai margari e al formaggio? Come forma culturale

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della tradizione e della globalizzazione, del quotidiano e della festa, il formaggio ha un posto hai margini del linguaggio, sta un po’ dentro e un po’ fuori, tanto da rendere interessanti anche le parole fatte per parlarne e alcune frasi celebri. Ecco allora “Le Parole del Formaggio. Glossario Enciclopedico per appassionati e curiosi” di Bruno ed Emanuela Pistoni, e “Il formaggio con le pere: la storia di un proverbio” di Massimo Montanari. Ma ecco anche il saggio di Roland Barthes ‘Il vino e il latte’, in Miti d’Oggi, dove il formaggio è considerato portatore di significato tanto quanto il personaggio di un romanzo.

È facile capire quindi perché non può mancare tra i cibi cui rivolgono la propria attenzione gli antropolgi, lo troviamo in opere come “Antropologia del mangiare e del bere” di Alessandro Guigoni, “Buono da mangiare: enigmi del gusto e consuetudini alimentari di Marvin Harris, l’onnivoro: il piacere di mangiare nella storia e nella scienza” di Claude Fisher, Si fa presto a dire cotto: un antropologo in cucina di Marino Niola. Ma si può credere che il formaggio abbia un valore sufficiente da meritare studi monografici

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che ne descrivano il ruolo e il valore squisitamente culturale come in “Latte e formaggio: mito della civilità, a cura di Paolo Antognetti e Roberto Marrocchesi.

Si sente l’esigenza di studi antropologici più approfonditi dedicati a decifrare la ricchezza delle tradizioni regionali dell’Italia e dell’Europa rurale, se, come pensa Carlo Ginzburg nel saggio “Il formaggio e i vermi” l’immaginario legato al goloso latticino offre spiragli che ci permettono di sondare un sostrato culturale preistorico comune alle tradizioni popolari europee.

Al centro del quadro “Combattimento del Carnevale e della Quaresima” di Brueghel il vecchio, si vede una grande toma coronare la testa del cicciotto cavaliere del Carnevale. Una storia che ci piacerebbe sentir raccontare, proprio perché parlerebbe di ciò che ci ha fatto diventare ciò che siamo.

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How to get a rural identity (part two).Agriturismo 3.0 - Spazi d’immaginazione e memorie artificiali.

Ho composto il mio volto di memorie di paesaggi, di risaia e campi di mais, di canali, di boschi, di fiumi e torrenti, di colline e vigneti, di montagne. Identità e territorio sono una nell’altra. Ho fatto mie le radici profonde dei pioppi, degli ontani, dei salici, degli olmi. Le origini più au-tentiche e i ricordi più cari sono sempre selvatici. Il bosco che sorge in mezzo ai campi vicino al mio paese è da sempre nel profondo della mia coscienza dove il tempo persiste e si avvolge attorno a un principio da sempre perduto.

Nell’infinità dello spazio geometrico ogni punto è il centro e non esistono confini. Nello spazio astronomico un solo centro è tracciato rispetto a traiettorie di galassie in espansione la cui memoria di luce sopravanza nel tempo disperse esistenze. Nello spazio misurato dalle comunicazioni digitali il maggiore nodo di trasmissione in un dato istante è il centro che approssima a sé una sfera dal confine vago e intangibile, ogni nodo ripete in sé ogni altro centro. L’entità

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della trasmissione è tutta la misura della distanza che separa; l’inaccessibile è il più oscuro tra gli al di là. Lungo le strade viaggiano corpi, cibi, merci, incarnazioni di avatar mediatici, oltre e attraverso di esse consistono le cose stesse. Le nostre dimensioni sono lo spazio e il tempo della reminiscenza.

Lo spazio urbano si differenzia in centri molteplici, i centri tecnologici e commerciali funzionano come ridondanze dei centri degli spazi digitali, ma molti sono gli spazi vissuti, i luoghi saturi di storie e memorie, che restano intraducibili ai codici degli spazi digitali. Uno stadio olimpico, una fabbrica, una scuola, una cattedrale, una montagna, un fiume irrompono nel vissuto, prossime e differenti da ogni immagine codificata si tenti di sovrapporre a esse. Ogni riproduzione digitale di queste realtà, al contrario, mostra l’arbitrarietà delle dimensioni codificate attraverso le reti digitali, l’inevitabile opposizione tra spazi e tempi virtuali ed esistenza. Se le cose stanno così, lo spazio urbano è tracciato al suo interno e al suo esterno da profonde barriere culturali. Barriere, simili e differenti, si riproducono in modalità

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inedite negli spazi rurali. Sono le pratiche legate all’agricoltura e all’allevamento a marcare sul territorio gli spazi rurali. Nei secoli donne e uomini, lavorando la terra, hanno plasmato il paesaggio, hanno offerto trame alla voce di poeti e narratori italiani e stranieri che hanno lasciato nelle proprie opere memorie e descrizioni. Si pensi a Viaggio in Italia di Goethe e a La luna e i falò di Pavese. Le belle geometrie dei campi coltivati, il colore dei terreni smossi, delle vigne quando l’uva è matura, il profumo dei frutteti in fiore, hanno tutto il valore di un testo, di un’opera d’arte che ‘coesiste’, che fa persistere un dialogo profondo con testi, immagini, narrazioni, un dialogo in cui consiste il paesaggio culturale di un paese. Per comprendere il gioco di parola, scrittura e immagini che accompagna il definirsi di un paesaggio può essere utile cimentarsi in un semplice esercizio. Bisogna scegliere un soggetto da fotografare in aperta campagna, realizzare l’immagine, scrivere una breve didascalia e condividere immagine e testo attraverso il web. Innanzitutto si dovrà dedicare al compito un po’ di tempo, poi si dovrà lasciare la propria zona residenziale, prendere una statale, poi

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una comunale, poi una sterrata e seguire un canale lasciando che lo sguardo segua il ritmo scandito dall’alternarsi delle colture, dai canali, dagli alberi lungo le rive. Ci accorgeremo allora di aver intrapreso un dialogo silenzioso con i campi, potremo assistere nella nostra memoria al riaffiorare di parole in cui echeggia la nostra stessa viva voce a nominare ciò che scorre di fronte ai nostri occhi. Non potremo scegliere di ritrarre qualcosa che non possiamo nominare e, al contrario, sceglieremo ciò che in noi fa scaturire immagini poetiche, ricordi, emozioni. Una cascina, un bosco, la strada stessa che si sta percorrendo affiancata da un canale possono essere buoni soggetti.

Si dovrà scegliere un’inquadratura. Cercheremo di rendere il più possibile riconoscibile il soggetto della fotografia e, nello stesso tempo, di raffigurare ciò che ci ha portato alla scelta del soggetto stesso, qualcosa di unico e di differente dallo stereotipo che ci permette di individuare il soggetto come una cosa di un certo tipo. Questo potrà essere fatto solo attraverso la registrazione di una particolare relazione tra la prospettiva

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adottata, il soggetto e lo sfondo, ciò che si decide di ‘comprendere’ nell’immagine che si sta componendo. Le nostre emozioni o altre connotazioni soggettive possono essere espresse con la luce, i colori, il fuoco. Realizzata la fotografia, possiamo guardarla e paragonarla al soggetto scelto. Ci accorgiamo che assomiglia alla realtà ma ne è radicalmente differente. Ecco allora l’esigenza di apporvi un testo, di riannodare attraverso la scrittura questa traccia al significato della nostra esperienza. Innanzitutto dovrò ricordare la data in cui ho fatto la foto e scrivere il nome del luogo, poi, chiarire in che modo ciò che posso vedere e condividere è un’immagine capace di esprimere un significato, qualcosa di reale che si carica nel mio vissuto di valori ed emozioni.

Pubblicata l’immagine e il testo sul web mi rendo conto che il luogo fotografato è ora differente per me e per chi potrà vedere l’immagine, leggere il testo, cercare il luogo che ha risvegliato in me significati ed emozioni. Quel luogo ha una nuova memoria e, per il tramite di una sua traccia, può essere visto in ogni altro luogo sia disponibile una

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connessione al web. Il luogo non ha più una sola dimensione rispetto a cui è possibile definirne la distanza e la prospettiva. Ma in che modo questa forma di registrazione, questa memoria artificiale modifica la nostra esperienza dello spazio vissuto?

L’agricoltura e l’allevamento furono, per oltre diecimila anni, le principali forme di sussistenza del genere umano, dando senso e sostegno all’esistenza di generazioni che si sono susseguite tramandandosi saperi e tradizioni. Le tante rivoluzioni tecnologiche hanno cambiato il ruolo di queste pratiche. La meccanizzazione delle pratiche agricole ha permesso di ridurre i massacranti lavori di fatica nei campi, permettendo a molti di dedicarsi agi studi e a pensare differenti forme d’imprenditoria. Le più recenti rivoluzioni tecnologiche, legate al web per la creazione e condivisione di contenuti multimediali e ai dispositivi elettronici dotati di sensori per la progettazione e realizzazione di ambienti interattivi, offrono strumenti innovativi per sviluppare modelli d’impresa agricola. Ma soprattutto è la globalizzazione dei mercati a spostare la destinazione

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delle imprese agricole verso una differenziazione delle attività.

I prezzi che possono essere offerti dalle imprese dei paesi emergenti sono tali da impedire alle imprese italiane di essere competitive attraverso la sola produzione. Tuttavia, se consideriamo che il tema dell’Expo che si terrà a Milano nel 2015 è ‘Nutrire il pianeta’, possiamo capire che il futuro delle imprese italiane è già ben definito e si iniziano a vedere i primi segni di questo processo in atto. Le aziende si specializzano in produzioni di qualità, recuperando tradizioni legate ai territori in modo da rendere i propri prodotti e imitabili soltanto a prezzi maggiori e qualità inferiori. Il legame tra prodotti e territori fa delle diverse produzioni di qualità delle imprese italiane risorse culturali e turistiche da valorizzare e giocare sul mercato internazionale. Sempre più diffuse sono inoltre le capacità di tradurre queste realtà in narrazioni adeguate alla comunicazione di massa. Le televisioni, per esempio, sono affollate da prodotti gastronomici presentati da scheff mediatici che diventano presto vere e proprie star, più difficile considerare in

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generale il fenomeno del web soprattutto in rapporto alla ‘mobilità’, la possibilità di accedere a contenuti multimediali attraverso Smartphone e altri dispositivi che incorporano sistemi d’informazione interattivi e adattivi.

Ma se le cose stanno così come sta cambiando lo spazio rurale? È doveroso in questo quadro considerare il caso della Lomellina, il contesto territoriale all’interno del quale è nata e opera l’Associazione Muricin, territorio che possiamo conoscere meglio e che dobbiamo comprendere anche in rapporto alle metamorfosi innescate dai media. Anche solo per il fatto che questo stesso testo è scritto per essere condiviso attraverso il web, arricchisce il testo con fotografie a colori di campi, di luoghi di memorie, di aree naturali d’interesse europeo, aggiunge collegamenti a contenuti video e a siti che permettono di sviluppare i contenuti offerti dal nostro giornalino in un modo che non può essere da noi determinato. Ma facciamo un passo indietro, torniamo a considerare il rapporto tra città e campagna.

(To be Continued...)

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Agenda Ca’ dal Bosc

Sono molte e diverse le occasioni pensate per partecipare alla vita dell’associazione declinate in base alla disponibilità di spazi, alle ritmicità elettive delle stagioni e alle attidudini delle persone. Tutti i giorni è possibile rivolgersi alla segreteria dell’Associazione per avere informazioni relative alle attività associa-tive, ai prodotti artigianali in promozione, alle aziende e alle associazioni partner, ai punti d’interesse culturale e turistico del territorio.Il terzo e il quarto sabato del mese di giugno - 21 e 28 - dalle 18.00 alle 20.00 presso Ca’ dal Bosc, a Sant’Angelo Lom-ellina, 29, in occasione della campagna promozionale ‘La qualità artigianale è un prodotto territoriale’, sarà possibile de-gustare salumi della tradizione lomellina e vercellese, tome valsesiane, verdure fresche, abbinate a vini del monferrato, delle langhe e dell’alto Piemonte.Solo su prenotazione, sempre presso Ca’ dal Bosc, il terzo e il quarto venerdì del mese di giugno - 20, 27 - e delle prime due settimane di luglio - 5, 12 - dalle 18.00 alle 20.00, in occasione della cam-

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pagna ‘Lomellina da gustare’, coordinata alle attività di promozione del Marchio ‘Origine Lomellina - Buona Scoperta’ creato dal GAL Lomellina e alle azioni di valorizzazione della Zucca Bertagnina, prodotto De.CO. della Proloco di Dorno, sarà possibile degustare salumi d’oca di tradizione mortarina abbinati alla birra artigianale di Zucca Bertagnina. Da giugno è possibile aderire al pro-getto ‘L’orto è per i bambini’ dedicato alle famiglie per comunicare e condivi-dere i valori propri delle pratiche lega-te all’orticoltura’. Si tratta, in base alla disponibilità delle famiglie interessate, di programmare un percorso di trasmis-sione di conoscenze attraverso il gioco nel contesto di un piccolo orticello dedi-cato ai più piccoli.In giugno anche si inaugura la collabo-razione con il circolo ARCI Francesco Leone, in via Prestinari a Vercelli, molto frequentato per l’interessante calendario di concerti dal vivo, darà avvio, in col-laborazione con il Muricin, a una serie di appuntamenti dedicati alla valorizzazione dei prodotti artigianali e metterà a dispo-sizione uno spazio per un negozietto.

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Bibliografia essenziale

Bravo G. L. (1984), Festa contadina e società complessa, Milano, Angeli.

Grimaldi P. (1993), Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale, Milano, Angeli.- (1996), Tempi grassi, tempi magri. Percorsi etnografici, Torino, Omega.- (a cura di) (2003), Bestie, santi, divinità. Maschere animali dell’Europa tradizionale, Torino, Museo Nazionale della Montagna. - (2012), Cibo e Rito. Il gesto e la parola nelle alimentazioni tradizionali, Palermo, Sellerio.

Grimaldi P., Nattino L. (2007), Dei Selvatici. Orsi, lupi e uomini selvatici nei carnevali del Piemonte, Torino Regione Piemonte, Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino.- (a cura di) (2009), Il teatro della vita. Le feste tradizionali in Piemonte, Torino, Omega.

Petrini C. (2005), Buono, pulito e giusto, Torino, Einaudi.

Porporato D. (2007), Feste e musei. Patrimoni, tecnologie, archivi etnoantropologici, Torino, Omega

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La vus - cose buoneperiodico anno II n° 5Giugno 2014è un serviziod’informazionedell’Associazionedi PromozioneSociale ‘Muricin’Via Castelnovetto, 29Sant’Angelo Lomellina (PV)

Redazione:Matteo Varia340 [email protected]/muricin

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