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ALMA POLONI «Per avere la signoria a guisa de’ signori di Lombardia». Forme di leadership e progetti di affermazione personale nei maggiori comuni di popolo tra Due e Trecento Questo contributo è incentrato sui maggiori comuni di Popolo, ovvero realtà cittadine che si contraddistinguono per la solida tenuta del quadro istituzionale di matrice popolare e per la perdurante egemonia del linguag- gio e del discorso politico elaborati dal popolo, ma anche per una notevole complessità dell’articolazione sociale. I casi analizzati saranno Firenze, Pisa, Lucca, Bologna e Perugia. Il periodo preso in considerazione è quello compreso grosso modo tra l’ultimo quindicennio del Duecento e il primo ventennio del Trecento. Uno degli aspetti più interessanti di questa fase è l’azione dei capipopolo – come Giano della Bella, Coscetto da Colle, Bonturo Dati, Giuliano Raminghi –, personaggi che seppero imporsi al centro della scena politica grazie alla loro capacità di proporsi come lea- ders di movimenti con ampie basi sociali. 1 Tuttavia, come si cercherà di dimostrare, l’emergere di queste figure deve essere inquadrato come parte di un fenomeno più ampio e generale, che caratterizzò fortemente i decenni a cavallo tra Due e Trecento, e che oggi definiremmo “personalizzazione” della politica, ovvero il manifestarsi di diverse e, in molti casi, concorrenti forme di leadership personale. 1. Firenze E nota che questo è grande esemplo a que’ cittadini che sono a venire, di guar- darsi di non volere essere signori di loro cittadini né troppo presuntuosi, ma 1. Su queste figure mi permetto di rimandare a Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane.

Forme di leadership e progetti di affermazione personale nei maggiori comuni di popolo

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AlmA Poloni

«Per avere la signoria a guisa de’ signori di Lombardia». Forme di leadership e progetti di affermazione personale nei maggiori comuni di popolo tra Due e Trecento

Questo contributo è incentrato sui maggiori comuni di Popolo, ovvero realtà cittadine che si contraddistinguono per la solida tenuta del quadro istituzionale di matrice popolare e per la perdurante egemonia del linguag-gio e del discorso politico elaborati dal popolo, ma anche per una notevole complessità dell’articolazione sociale. I casi analizzati saranno Firenze, Pisa, Lucca, Bologna e Perugia. Il periodo preso in considerazione è quello compreso grosso modo tra l’ultimo quindicennio del Duecento e il primo ventennio del Trecento. Uno degli aspetti più interessanti di questa fase è l’azione dei capipopolo – come Giano della Bella, Coscetto da Colle, Bonturo Dati, Giuliano Raminghi –, personaggi che seppero imporsi al centro della scena politica grazie alla loro capacità di proporsi come lea-ders di movimenti con ampie basi sociali.1 Tuttavia, come si cercherà di dimostrare, l’emergere di queste figure deve essere inquadrato come parte di un fenomeno più ampio e generale, che caratterizzò fortemente i decenni a cavallo tra Due e Trecento, e che oggi definiremmo “personalizzazione” della politica, ovvero il manifestarsi di diverse e, in molti casi, concorrenti forme di leadership personale.

1. Firenze

E nota che questo è grande esemplo a que’ cittadini che sono a venire, di guar-darsi di non volere essere signori di loro cittadini né troppo presuntuosi, ma

1. Su queste figure mi permetto di rimandare a Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane.

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istare contenti a la comune cittadinanza, che quegli medesimi che·ll’aveano aiutato a farlo grande per invidia il tradiranno e penseranno d’abattere; e·sse n’è veduta isperienza vera in Firenze per antico e per novello, che chiunque s’è fatto caporale di popolo o d’università è stato abattuto, però che·llo ‘ngra-to popolo mai non rende altri meriti.2

Questa è la morale che Giovanni Villani trae dalla vicenda di Giano della Bella, e dalla fine ingloriosa della sua esperienza politica. Per il cro-nista il «presuntuoso» Giano aveva voluto farsi «signore» dei suoi concit-tadini. Del resto, Dino Compagni ci informa che dopo l’abbandono della città da parte del della Bella i suoi avversari rilessero la sua azione politica non semplicemente attraverso la categoria della signoria, ma addirittura at-traverso quella della «tirannia», e il «gran beccaio» Dino Pecora si vantava apertamente nei consigli di avere liberato i fiorentini «dal tiranno Giano».3 Quello del capopopolo fiorentino è inoltre uno dei pochi casi nei quali di-sponiamo anche di una testimonianza non cronachistica. In due deposizio-ni testimoniali del 1318, gli anni 1293-94 vengono definiti come «tempus quo Iannes de la Bella habebatur pro quasi domino civitatis Florentie et de factis communis faciebat communiter quod volebat», e si afferma «Gianus de la Bella erat in dominio vel quasi civitatis Florentie cum sequacibus suis».4 Giano insomma non solo esercitava una forte influenza politica, ma nutriva anche evidenti ambizioni di affermazione personale. Per rendere queste caratteristiche, i contemporanei ricorrono al riferimento esplicito alla signoria, magari temperato da un cauto «quasi».

Ma Giano non è l’unica figura che si connota in questo modo. Al con-trario, la “personalizzazione” della politica emerge molto bene dalle pa-gine che Compagni e Villani dedicano al ventennio compreso più o meno tra l’inizio degli anni ’90 e il 1310. Dal punto di vista della struttura nar-rativa, nelle due cronache il racconto è contraddistinto dall’inserimento di lunghi ritratti, che rendono in modo efficace il rilievo assunto da singole personalità. In diversi casi Compagni e Villani attribuiscono ai protagonisti della scena politica aspirazioni signorili. Il richiamo alla signoria non va

2. Villani, Nuova cronica, II, p. 25 (IX, 8).3. Compagni, Cronica, p. 29 (I, 18).4. Pinto, Della Bella, Giano. Oltre alla voce curata da Pinto per il DBI, la figura di

Giano dispone di un’ampia bibliografia; mi limito qui ai lavori più recenti, nei quali si pos-sono trovare riferimenti alla opere precedenti: Parenti, Dagli Ordinamenti di Giustizia alle lotte tra Bianchi e Neri; Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti di Giustizia; Diacciati, Popolani e magnati, pp. 353-355, 365-387.

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ovviamente inteso in senso “tecnico”, come definizione di un regime poli-tico, ma appare ai due cronisti il riferimento concettuale più immediato per inquadrare quelli che ai loro occhi sono chiaramente interpretabili come progetti di potere personale.

Un esempio di questi vivaci ritratti è quello, certamente non positivo, dedicato da Compagni al «gran beccaio» Dino detto il Pecora:

Il gran beccaio che si chiamava il Pecora, uomo di poca verità, seguitatore di male, lusinghiere, dissimulava in dire male di lui [di Giano] per compiacere a altri. Corrompea i popolani minuti, facea congiure, e era di tanta malizia, che mostrava a’ Signori che erano eletti, era per sua operazione. A molti promet-tea ufici, e con queste promesse gli ’ngannava. Grande era del corpo, ardito e sfacciato, e gran ciarlatore, e dicea palesemente chi erano i congiurati contro a Giano, e che con loro si raunava in una volta sotterra. Poco era costante, e più crudele che giusto. […] Sanza esserne richiesto, aringava spesso ne’ con-sigli, e dicea che era egli quello che gli avea liberati dal tiranno Giano, e che molte notti era ito con picciola lanterna, collegando il volere degli uomini per fare la congiura contro a lui.5

Per molti versi, il profilo del Pecora è il rovesciamento di quello di Giano. Quest’ultimo, nelle parole del cronista «era tanto ardito che lui di-fendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altri tacea», aveva cioè il coraggio di sostenere verità scomode, e assumere posizioni impopolari.6 Il beccaio, al contrario, praticava la lusinga, diceva quello che la gente, e in particolare i «popolani minuti», desideravano sentirsi dire, millantava meriti che non aveva e faceva promesse che non poteva mantenere.

Un altro personaggio che ha largo spazio nella cronaca di Compagni è Rosso della Tosa, esponente di una potente famiglia della militia cittadina, appartenente alla grande consorteria dei Visdomini.7 Rosso fu insieme a Corso Donati uno dei principali leaders della parte nera, che prese il potere dopo l’intervento di Carlo di Valois nel 1302. Presto però i rapporti tra i due si deteriorarono, poiché Rosso grazie all’alleanza con le famiglie del popolo grasso esercitava un’influenza politica superiore a quella di Corso. All’inizio del 1304 le due fazioni in cui si era divisa la parte nera, capeg-

5. Compagni, Cronica, p. 29 (I, 18).6. Ibidem, p. 21 (I, 12).7. Tarassi, Della Tosa, Rosso; RESCI, Della Tosa, Rosso; sulla famiglia della Tosa si

veda ora Faini, Firenze nell’età romanica (1000-1211), ad indicem.

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giate dal della Tosa e dal Donati, arrivarono al conflitto aperto. Secondo il racconto di Compagni, Rosso e i suoi seguaci, che controllavano le princi-pali cariche politiche, nominarono il nuovo collegio priorale, senza rispet-tare alcuna formalità elettorale, e lo insediarono in segreto in piena notte.8 La città era sconvolta da gravi disordini, e i fiorentini chiesero aiuto ai neri lucchesi, in quel momento al potere. La delegazione lucchese, alla quale fu garantita totale libertà di movimento grazie alla concessione di una balìa generale, riuscì a riportare l’ordine. Nuove lotte tra le due «sette» della parte nera esplosero nel 1308, e questa volta si conclusero con la morte di Corso Donati.

Dino Compagni attribuisce a Rosso veri e propri progetti signorili: egli «tutto ciò che facea e procurava nella città, era per avere la signoria a guisa de’ signori di Lombardia».9 Anche a lui, «cavaliere di grande animo, […] nimico del popolo, amico de’ tiranni» il cronista dedica un ritratto, in occasione della morte, a mo’ di epitaffio.10

Anche il nemico di Rosso, Corso Donati, detto «il barone», appartene-va a un’antica famiglia della militia cittadina.11 Memorabile il profilo che ne traccia Compagni:

Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, addorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento a malfare, col quale molti masna-dieri si raunavano e gran séguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio a’ Cerchi e a’ loro amici, molto avere guadagnò, e in grande altezza salì: costui fu messer Corso Donato, che per sua superbia fu chiamato il Barone, ché quando passava per la terra, molti gridavano «Viva il Barone», e parea la terra sua; la vanagloria il guidava, e molti servigi facea.12

Anche Villani ne fornisce una descrizione, in occasione della morte:Questo messer Corso Donati fue de’ più savi, e valente cavaliere, e il più bello parlatore, e ‘l meglio pratico, e di maggiore nominanza, e di grande ardire

8. «Messer Rosso dalla Tosa e i suoi seguaci chiamorono il nuovo uficio de’ priori, e misonli la notte in palagio sanza suoni di trombe o altri onori»: Compagni, Cronica, p. 90 (III, 3).

9. Ibidem, p. 87 (III, 2).10. Ibidem, pp. 143-144 (III, 38).11. Raveggi, Donati, Corso; anche sui Donati si feda ora Faini, Firenze nell’età roma-

nica (1000-1211), ad indicem. 12. Compagni, Cronica, p. 68 (II, 20).

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e imprese ch’al suo tempo fosse in Italia, e bello cavaliere di sua persona e grazioso, ma molto fu mondano, e di suo tempo fatte in Firenze molte con-giurazioni e scandali per avere stato e signoria.13

Nell’indicare le motivazioni dell’irrequietezza di Corso, Villani affer-ma che

non gli parea esser così grande in Comune come volea, e gli parea esser de-gno; e gli altri grandi e popolani possenti di sua parte nera aveano presa più signoria in Comune che a·llui non parea, e già preso isdegno co·lloro, o per superbia, o per invidia, o per volere essere signore.14

E ancora, Villani ci informa che gli avversari di Corso lo accusavano che «volea essere signore della cittade e non compagnone».15

Giano della Bella, Rosso della Tosa e Corso Donati erano accomunati da un’ambizione personale che i due cronisti traducono come un «voler essere signori». Se aggiungiamo anche Dino Pecora, tuttavia, è evidente che, al di là di questo elemento unificante, ci troviamo di fronte a forme di leadership di natura sostanzialmente diversa, con fondamenti differenti. Giano era il riferimento di un vero e proprio movimento politico, la cui base sociale appare ampia e molto eterogenea.16 L’unità del movimento dipendeva dalla condivisione di un programma incentrato sull’idea di una diversa distribuzione del potere politico, e in ultima analisi anche socia-le. La leadership di Giano derivava dalla sua capacità di rielaborare le confuse istanze di rinnovamento e di allargamento della partecipazione in un discorso politico coerente, incentrato sulle parole d’ordine del popolo, ormai ben radicate nella coscienza collettiva, e di aggregare intorno a tale discorso componenti sociali diverse per cultura e interessi concreti.

La figura di Dino Pecora è un po’ più difficile da inquadrare. Compa-gni intende trasmettere l’immagine del classico arruffapopolo, che ricorre a un linguaggio demagogico e fa presa su alcuni settori del popolo minuto. Lo stesso cronista, tuttavia, fornisce altri elementi che rendono questa fi-gura più ambigua. Egli scrive che il beccaio era sostenuto dai della Tosa.17

13. Villani, Nuova cronica, II, pp. 190-191 (IX, 96).14. Ibidem, p. 124 (IX, 68).15. Ibidem, p. 187 (IX, 96).16. La composizione dei priorati del biennio di Giano è analizzata in Parenti, Dagli

Ordinamenti di Giustizia alle lotte tra Bianchi e Neri, pp. 241-261, e Diacciati, Popolani e magnati, pp. 353-355.

17. Compagni, Cronica, p. 22 (I, 13).

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Inoltre, trattando dei cattivi rapporti che il Pecora intratteneva con l’Arte a cui apparteneva, che lo perseguiva per frode, Compagni afferma che egli sottoponeva i rettori e gli ufficiali della corporazione a minacce, e imper-versava «con gran possa di uomini e d’arme».18 A quanto sembra, dunque, il beccaio era in qualche modo legato ai della Tosa, ed era in grado di mo-bilitare uomini armati, forse reclutati tra i suoi seguaci, ma forse, anche, messigli a disposizione dalla potente famiglia aristocratica. Egli poteva così esercitare forti pressioni certamente sull’Arte dei beccai, ma probabil-mente anche su altre componenti del mondo artigiano.

Sulle basi della potenza di Corso Donati i cronisti non sembrano avere dubbi. Compagni scrive che con lui «molti masnadieri si raunavano, e gran séguito avea», e ancora lo definisce «amato da’ masnadieri».19 Egli raccon-ta inoltre che nel 1295 il barone «mandò alcuni fanti» per ferire un suo con-sorte.20 Villani narra che alla fine del 1301, dopo l’ingresso in città di Carlo di Valois, Corso, che era sottoposto a bando e quindi era fuori città, «venne in Firenze da Peretola con alquanto seguito di certi suoi amici e masnadieri a piè».21 In occasione dei nuovi disordini del 1308, il Donati, che si era im-parentato con Uguccione della Faggiola, fu accusato di essersi accordato con lui per prendere il potere. Villani osserva che «se i rinfrescamento de la gente d’Uguiccione, e gli altri amici di contado invitati per messer Corso gli fossono giunti a tempo», il popolo di Firenze avrebbe avuto grosse dif-ficoltà a mantenere il controllo della situazione.22 Insomma, il barone era in grado di mobilitare grandi quantità di fedeli armati, provenienti soprattutto dal contado, presumibilmente dalle aree nelle quali i Donati concentravano le proprietà fondiarie e mantenevano una fitta rete di legami clientelari con i contadini dipendenti e gli abitanti dei villaggi.

L’importanza di questo fattore non deve essere sottovalutata. Villani racconta che nel 1295 i «grandi» organizzarono una dimostrazione di forza per ottenere un ammorbidimento degli Ordinamenti di giustizia: «onde – scrive il cronista – della città di Firenze fu tutta gente a romore e a l’arme, i grandi per sé a cavalli coverti, e co·lloro séguito di contadini e d’altri masnadieri a piè in grande quantità».23 I popolari si schierarono in armi,

18. Ibidem.19. Ibidem, p. 68 (II, 20); p. 117 (III, 21).20. Ibidem, p. 24 (I, 16).21. Villani, Nuova cronica, II, p. 77 (IX, 49).22. Ibidem, p. 189 (IX, 96). 23. Ibidem, p. 29 (IX, 12).

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ma non si giunse allo scontro aperto. In ogni caso, il pericolo era reale, e fu preso molto sul serio. I priori introdussero in effetti una modifica in uno dei capitoli più contestati degli ordinamenti, anche se la concessione fu presto ritirata. Bisogna poi considerare che con la frattura della parte nera in due fazioni contrapposte, la maggior parte dei grandi, con il loro seguito di fedeli, si schierò con Corso Donati. In momenti particolarmente delicati, o quando gli equilibri politici erano instabili, la possibilità di creare gravi disordini, grazie alla pronta disponibilità di uomini armati, rappresentava un efficace strumento di pressione, che poteva portare addirittura al rove-sciamento del regime in carica. In occasione dell’episodio del 1295, Villa-ni annota che alla fine «ciascuna parte si disarmò, e la cittade si racquetò sanza altra novità, rimagnendo il popolo in suo stato e signoria».24 L’inizia-tiva dei grandi, dunque, sarebbe stata potenzialmente in grado di togliere il popolo dal «suo stato e signoria».

Anche Rosso della Tosa, probabilmente, poteva contare su fedeli in armi. Egli, tuttavia, dal 1302 pare aver fatto una scelta diversa, garantendo il proprio appoggio alle famiglie mercantili che controllavano il priorato. L’alleanza con l’élite popolare gli consentì di esercitare una forte influen-za, e lo portò, a quanto sembra, a rinunciare a modelli di azione politica tipicamente magnatizi come quelli praticati da Corso Donati.

Il quadro politico fiorentino tra i primi anni ’90 del Duecento e il 1310, tuttavia, non appare caratterizzato soltanto dalla coesistenza e dal confron-to tra diversi modelli di leadership, tra differenti progetti di affermazio-ne personale. Un altro tratto distintivo sembra essere una partecipazione politica eccezionalmente ampia, ma anche estremamente frammentata e segmentata. Dalle cronache emerge che erano attive sulla scena pubblica numerose componenti socio-politiche, in diverse forme e in aggregazioni e alleanze molto instabili. La società cittadina appare attraversata da mol-teplici e sovrapposte linee di frattura. Uno dei soggetti politici individuati dai cronisti è quello che essi chiamano «popolo grasso», ovvero le famiglie di mercanti internazionali economicamente e politicamente più influenti. Il popolo grasso, tuttavia, non operava affatto come un fronte unico, come un blocco monolitico, ma per fazioni assai mutevoli, «sette» nelle parole di Giovanni Villani. In molti casi Villani stesso e Compagni non trovano di meglio, per descrivere la composizione di schieramenti che si scompon-gono e ricompongono continuamente, che elencare i cognomi delle fami-

24. Ibidem, p. 30.

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glie momentaneamente coalizzate. C’è poi quello che i cronisti chiamano «popolo minuto», un raggruppamento in realtà ben poco definito. Il popolo minuto, rappresentato soprattutto dagli artigiani delle arti minori, appoggiò in maniera sostanzialmente compatta il progetto politico di Giano della Bella, ma dopo la fine di quell’esperienza perse di fatto la sua coesione e la capacità di agire in maniera coerente e unitaria.25 Una parte di esso pare dare il suo sostegno al Pecora. Dal 1302, sembra che alcuni segmenti del popolo minuto si aggregassero intorno a Corso Donati, in opposizione al popolo grasso.26

Componente molto attiva erano poi i «grandi», i magnati, divisi da fai-de e rivalità familiari delle quali in particolare Dino Compagni non manca di informarci, ma in grado, come nell’episodio del 1295 sopra ricordato, o nel sostegno a Corso Donati, di agire in maniera unitaria. Un altro attore politico forse meno facilmente individuabile, ma centrale in entrambe le cronache, sono quelli che Compagni e Villani chiamano i «buoni uomini popolari», «la buona gente della cittade», «buoni cittadini popolani e mer-catanti», ed espressioni simili. Si tratta, in senso lato, dei mercanti estranei alle famiglie dell’élite popolare ma anche diffidenti nei confronti del po-polo minuto, politicamente impegnati e presenti con assiduità nel priorato e negli altri uffici cittadini, il gruppo con la quale in fondo si identificano tanto Compagni quanto Villani. Ma emergono anche altre componenti so-cio-professionali capaci all’occasione di agire come veri e propri soggetti politici, come i «maladetti giudici» di Compagni, il gruppo di esperti di diritto che prima collaborò all’elaborazione degli Ordinamenti di giustizia e poi tradì Giano.27

Tra i due fenomeni, la convivenza di forme differenti di leadership personale e la presenza attiva sulla scena pubblica di numerosi soggetti po-litici, esiste probabilmente un qualche tipo di collegamento. Nel contesto eccezionalmente dinamico di quegli anni, caratterizzato dal confronto tra

25. Come appare evidente agli occhi dei cronisti. Commentando la fine dell’esperien-za di Giano, Dino Compagni scrive: «Scacciato Giano della Bella a dì V di marzo 1294 [1295] e rubata la casa e mezza disfatta, il popolo minuto perdè ogni rigoglio e vigore, per non avere capo, né a niente si mossono» (Compagni, Cronica, p. 26, I, 17). Analogamente, Giovanni Villani: «… e d’allora innanzi gli artefici e’ popolani minuti poco podere ebbono in Comune, ma rimase al governo de’ popolani grassi e possenti» (Villani, Nuova cronica, II, p. 25, IX, 8).

26. Compagni, Cronica, pp. 87-89 (III, 2). 27. Ibidem, pp. 19-21 (I, 12).

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diversi progetti politici, trovarono spazio anche diversi progetti di potere personale, portati avanti da figure che, per un tempo più o meno breve, fu-rono in grado di aggregare intorno a sé vari segmenti di un quadro politico-sociale molto frammentato.

2. Perugia

Nessun’altra città dispone di testi cronistici eccezionali come quelli fiorentini. Tuttavia, anche negli altri maggiori comuni di popolo si osserva tra la fine del Duecento e i primi vent’anni del Trecento l’emergere di for-me diverse ma molto incisive di influenza personale. Ciò appare evidente, per esempio, nel caso di Perugia.

«In the office of vexillifer – scrive John Grundman – the Perugians were flirting with the idea of dictatorship: the signoria or “lordship”, which was being founded in many of the Italian communes in this period».28 Il riferimento dello studioso americano è a Filippo Bigazzini, indicato in ge-nere nelle fonti come Filippo conte di Coccorano, membro di una potente famiglia dell’aristocrazia signorile umbra. Contro tutte le norme di rota-Contro tutte le norme di rota-zione, Filippo ricoprì l’ufficio di vexillifer artium et populi, istituito nel 1305, per tutta la durata dell’esistenza dell’ufficio stesso, dal 1305 al 1319. Perugia era retta da un governo popolare radicale. Nel 1303 una fondamen-tale riforma istituzionale aveva portato all’indebolimento dell’egemonia mercantile sulle istituzioni popolari, con la sostituzione dei cinque consoli delle arti con la nuova magistratura dei dieci priori delle arti, che aveva determinato un deciso allargamento del bacino sociale di reclutamento dei vertici istituzionali del comune di popolo.29

Quello di vexillifer era un ufficio creato appositamente per Filippo. Non è noto quali fossero le prerogative di questo ufficiale, ma appare pro-babile che esse non fossero rigidamente definite. Il Bigazzini presenziava molto spesso ai consigli, ma in genere non prendeva la parola.30 Grundman interpreta questo atteggiamento come una manifestazione di tatto e di ri-

28. Grundman, Grundman, The «popolo» at Perugia, p. 237.29. Ibidem, in particolare pp. 229 e sgg; Maire Vigueur, Comuni e signorie in Umbria,

Marche e Lazio, pp. 482-487.30. Grundman, Grundman, Perugia and Henry VII, p 370.

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spetto istituzionale.31 In realtà, si trattava di una scelta che non faceva che rafforzare il suo prestigio personale, promuovendone l’immagine di nume tutelare del regime di popolo, che sorvegliava “dall’alto” il corretto svol-gimento della vita politica, tenendosi fuori dagli accesi dibattiti che spesso degneravano in veri e propri conflitti e nella formazione di correnti e schie-ramenti contrapposti. Del resto, Filippo era spesso presente anche alle riu-nioni dei priori, unico estraneo alla magistratura popolare, una circostanza che non lascia dubbi sul suo forte ascendente politico, e lo accomuna a figure che la storiografia inquadra senza dubbio come signorili.32

Durante l’emergenza legata alla discesa in Italia di Enrico VII, nell’esta-te del 1312, furono concessi a Filippo poteri speciali per provvedere alla custodia della città e alla difesa del bonum et pacificum statum.33 Come è noto, in molte altre realtà la trasmissione di prerogative molto ampie, pres-sochè illimitate, in relazione alla custodia della città rappresentò un varco per l’affermazione di poteri signorili.34 È probabile, come scrive Grundman, che Filippo non nutrisse ambizioni signorili. Ma, al di là di tratti caratteriali molto difficili da valutare, nella pratica c’è ben poco che distingua questa vi-cenda dai tanti percorsi di affermazione signorile seguiti in quegli stessi anni, in altre città, da personaggi in tutto simili al Bigazzini, appartenenti spesso a potenti famiglie della militia o dell’aristocrazia rurale.

Filippo derivava la sua influenza personale dal prestigio della sua tra-dizione familiare, e dalla sua capacità, come si è detto, di proporsi come un punto di riferimento esterno ai conflitti politici e sociali che caratteriz-zarono il periodo compreso tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. Tuttavia, anche a Perugia, come a Firenze, in quegli stessi anni si deline-arono anche forme diverse di leadership personale. Grundman sottolinea in particolare il forte ascendente del mercante Feolo di Libriotto, che egli individua come uno dei fondatori del priorato e definisce «a prominent leader of the popolo»,35 «a central figure during the first two decades of the century»,36 «the most outstanding political leader of the war period»,37 «an

31. Grundman, Grundman, The «popolo» at Perugia, p. 235.32. Grundman, Grundman, Perugia and Henry VII, p. 370.33. Ibidem, pp. 387-388.34. Cfr., per esempio, RESCI, da Polenta, Ostasio; Alidosi, Lippo; Gherardesca, Bo-

nifazio detto “Fazio” della.35. Grundman, Grundman, Perugia and Henry VII, p. 278.36. Ibidem, p. 281. 37. Ibidem, p. 368.

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astute political operator», e, soprattutto, «the master strategist of perugian popular government, founder of a new regime which swam against the prevailing tide of elitism and endured for decades, and which he guided to success through a deadly challenge to its existence».38

Grundman indica Feolo come un leader del popolo minuto, riferendo-si probabilmente al suo ruolo centrale nella fondazione del priorato, che fu il risultato delle forti pressioni delle arti minori, estranee alle corporazioni mercantili. Dalle informazioni fornite dallo studioso americano, tuttavia, non sembra che negli anni successivi egli si ponesse specificamente come il rappresentante e il referente delle istanze politiche degli artigiani. Feolo pare piuttosto un uomo politico in grado di esercitare una forte influen-za personale, molto ascoltato nei consigli, dove prendeva regolarmente la parola. Una di quelle figure insomma, come era stato per un certo tempo Giano della Bella, con una spiccata capacità di creare consenso e aggregare intorno a sé diverse componenti politico-sociali.

Ma nel contesto perugino era attivo in quegli stessi anni anche un personaggio effettivamente assimilabile a un leader del popolo minuto, cioè al portavoce di un raggruppamento sociale identificabile con le arti non mercantili. Si tratta del fabbro Vita di Guido, Vita faber. Anch’egli protagonista di primo piano dei dibattiti consiliari, in numerose occasioni si spese con energia per promuovere proposte politiche, riguardanti per esempio le imposte indirette, o le norme di elezione dei priori, espressione diretta degli interessi degli artigiani.39

Definire i diversi schieramenti politico-sociali attivi a Perugia all’ini-zio del Trecento è molto più difficile che per Firenze. Ciò che emerge da-gli studi di Grundman, tuttavia, che ricostruiscono le continue oscillazioni nelle scelte politiche e i contrasti che sorgevano nel corso delle accese discussioni consiliari, è anche in questo caso una partecipazione politi-ca molto ampia e socialmente differenziata. Una partecipazione, come a Firenze, articolata in solidarietà “di classe” e aggregazioni professionali e corporative, ma anche in cordate e fazioni molto mutevoli, e in reti di relazioni clientelari e familiari. Anche nella città umbra, come si è visto, la complessità di questo quadro politico creava spazi per diversi progetti di affermazione personale.

38. Ibidem, p. 369, nota 145.39. Ibidem, pp. 322, 368.

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3. Pisa

La figura del conte Gherardo (Gaddo) di Donoratico, a Pisa, ricorda molto da vicino quella di Filppo Bigazzini, anche se nel suo caso è difficile dubitare dell’effettiva consistenza delle sue ambizioni signorili. Anch’egli proveniva da una prestigiosa famiglia della grande aristocrazia territoriale, con basi patrimoniali nella Maremma pisana. Come Filippo, egli ostentò costantemente un forte rispetto degli equilibri istituzionali e promosse con attenzione la propria immagine di punto di riferimento al di sopra delle parti e della mischia politica.

Gaddo conquistò una forte visibilità politica all’indomani della ri-volta popolare che, nel 1316, portò alla fine della signoria di Uguccione della Faggiola, rivolta nella quale certamente egli aveva svolto un ruolo di primo piano.40 Subito dopo la cacciata di Uguccione, il Donoratico fu eletto capitano del popolo, ma tenne la carica solo due mesi, per favorire la transizione verso la restaurazione del regime popolare, dopo di che, a sottolineare il ritorno alla normalità istituzionale, lasciò l’ufficio, che fu di nuovo assegnato a un forestiero. Gaddo non ricoprì altre cariche fino al 1319, quando, in seguito a una grave congiura ai suoi danni, organizzata dalla famiglia Lanfranchi, abbandonò le cautele e a quanto sembra assunse il titolo, estraneo alla tradizione pisana, di «capitano generale». Tra il 1316 e il 1319 il Donoratico esercitò la propria influenza decisiva sulla vita poli-tica cittadina soltanto dall’interno delle comissioni di savi, ormai convoca-te regolarmente e pressochè quotidianamente, ma la cui composizione era comunque sempre determinata dagli anziani del popolo.41

Ma, anche a Pisa, quella del conte Gaddo non è l’unica personalità che emerge con forza dalle testimonianze cronistiche e documentarie. In quegli stessi anni la vita politica cittadina conobbe anche un altro protagonista: Bonaccorso detto Coscetto da Colle. Coscetto era un piccolo mercante che gestiva una bottega di lana e pannilana col fratello.42 Come per il conte Gaddo, anche la sua peculiare forma di influenza personale ebbe origine nelle fasi concitate della cacciata del Faggiolano. Scrive Giovanni Villani, narrando della rivolta del 1316: «Sì tosto come [Uguccione] fu in sul Mon-

40. Sulla signoria di Gherardo si veda Poloni, Trasformazioni della società, pp. 275-310; Ciccaglioni, Poteri e spazi politici a Pisa.

41. Poloni, Trasformazioni della società, pp. 283-294.42. Ibidem, pp. 304-310; Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane.

«Per avere la signoria a guisa de’ signori di Lombardia» 153

te San Giuliano, il popolo di Pisa si levò a romore per soperchi ricevuti […], onde fu capo Coscetto dal Colle franco popolare».43 Ancora secondo il cronista fiorentino, negli anni successivi Coscetto, sempre grazie alla sua capacità di mobilitare popolo, diede un contributo fondamentale alla repressione delle congiure organizzate contro il conte Gaddo dalla fazione filouguccioniana guidata dalla famiglia aristocratica dei Lanfranchi. Rife-rendo di una cospirazione del 1317, Villani scrive:

Il quale trattato fue scoperto, e a grido di popolo, onde Coscetto dal Colle di Pisa si fece capo: col consiglio del conte Gaddo corsono a furore a casa i Lan-franchi che s’intendeano con Uguiccione, e uccisonne quattro de’ maggiori de la casa, e più di loro mandaro a’ confini, e di loro séguito.44

Coscetto da Colle è poi il vero protagonista, vagamente mefistofelico, del De preliis Tuscie, il poema del domenicano pisano Ranieri Granchi, i cui primi sette libri furono composti negli anni ’30 del Trecento, pochi anni dopo la morte del capopopolo.45 Molto significativamente, Coscetto è presente addirittura nell’epistola dedicatoria, nella quale il frate riassume il contenuto dell’opera: «videlicet nostre civitatis Pisane multa dispendia, casus arduos et periculosus eventus propter civium pisanorum discordias, divisiones, dissentiones et emulationes civium et Coscepti».46 Granchi de-scrive una vera e propria diarchia, nella quale il conte Gaddo e il da Colle esercitavano insieme il potere invischiati in un difficile rapporto di alle-anza e di controllo reciproco, di sostegno e di contenimento dei rispettivi progetti di affermazione. Una relazione ambigua e non priva di conflittua-lità: il domenicano mette in bocca al Donoratico parole di disappunto per la notevole influenza politica di Coscetto, che poneva quest’uomo di condi-zione mediocre sul suo stesso piano, «atque prius fuerat mercator vendere telas!»; «Unde – conclude il conte – homo tam minimus dominatur robore Gaddi!».47

Al di là del racconto del Granchi, i due erano di certo strettamente legati; dopo la morte di Gaddo, Coscetto andò in disgrazia presso Ranie-ri, lo zio del Donoratico, che ne aveva preso il posto, e fu giustiziato nel 1322 dopo un fallito tentativo di sollevare di nuovo il popolo. Anche le

43. Villani, Nuova cronica, II, p. 281 (X, 78). 44. Ibidem, p. 293 (X, 86).45. Granchi, De preliis Tuscie.46. Ibidem, p. 167.47. Ibidem, p. 211.

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fonti documentarie confermano il forte ascendente politico del da Colle. Anch’egli partecipò costantemente alle commissioni di savi di quegli anni, per lo stesso quartiere di Gaddo, quello di Kinzica. Fu dunque attraverso le commissioni che l’influenza politica del conte e di Coscetto trovò una dimensione istituzionale.

Villani definisce il da Colle «capo di popolo», mentre il Granchi lo etichetta con un più colorito «pestis minorum».48 Egli sembrerebbe il refe-rente e il portavoce di ampi settori della società cittadina, identificabili con i ceti medio-bassi. Ciò che egli aveva da offrire, e che gli consentì un’asce-sa politica tanto sorprendente, fu l’adesione di quelle componenti sociali al programma di ristrutturazione politica e istituzionale portato avanti da Gherardo di Donoratico e dall’èlite politica ed economica cittadina – quel-lo che i fiorentini avrebbero chiamato «popolo grasso» - che lo sosteneva. Ma soprattutto, la capacità, che Coscetto dimostrò in più occasioni, e che gli derivava dall’ampio riconoscimento del suo ruolo di leader popolare, di suscitare sollevazioni e di indirizzarle verso obiettivi specifici metteva nelle sue mani uno straordinario strumento di pressione politica, e lo ren-deva un elemento pericoloso, con il quale Gherardo e il gruppo dirigente cittadino non potevano che cercare un qualche tipo di alleanza.

Il singolare rapporto tra il conte Gaddo e Coscetto da Colle, comun-que, rappresenta un caso particolarmente significativo di quella conviven-za, a tratti pacifica e a tratti conflittuale, di modelli diversi di leadership personale, che sembra tipica della fase compresa tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, e della quale si sono visti e si vedranno altri esempi per altre realtà cittadine. Si può aggiungere, inoltre, che Pisa aveva già conosciuto, negli anni a cavallo tra Due e Trecento, una sorta di lea-dership collettiva del tutto peculiare, quella dei quattro popolari «che più savi erano tenuti», per usare le parole di una cronaca cittadina.49 Si trattava di due mercanti, Banduccio Bonconti e Iacopo da Fauglia, e due esperti di diritto, Gherardo Fagioli e Ranieri Sampante, che seppero esercitare un’in-fluenza politica determinante, percepita appunto con chiarezza anche dalle cronache. In un difficile momento di transizione, negli anni successivi alla fine della signoria di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti (1288), i quattro riuscirono ad aggregare consenso intorno al regime popolare ri-

48. Ibidem, p. 220.49. Su questa esperienza si veda Poloni, Trasformazioni della società, pp. 163-167,

212-220.

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fondato, svolgendo un ruolo per molti versi simile a quello che in seguito sarebbe stato di Gherardo di Donoratico. All’interno del quadrumvirato emerse poi la figura di Banduccio Bonconti, che non a caso, in quanto punto di riferimento fondamentale delle famiglie del gruppo dirigente po-polare, fu decapitato, insieme al figlio Piero, da Uguccione della Faggiola quando questi prese il potere nel 1314.50

Anche a Pisa, sullo sfondo di queste differenti forme di leadership, si intravede uno scenario nel quale erano attivi, e si contendevano lo spazio politico, diversi soggetti. Le grandi famiglie mercantili sembrano agire in maniera più coesa di quanto accada a Firenze; in effetti, furono pochissi-me le famiglie dell’élite che appoggiarono Uguccione, mentre quasi tutte assicurarono il loro sostegno al progetto del conte Gaddo. Più difficile è dare una fisionomia a quell’ampio aggregato che Coscetto era in grado di mobilitare, e al quale Villani si riferisce semplicemente come al «popolo». Ranieri Granchi pare fare allusione a quello che a Firenze si sarebbe chia-mato il popolo minuto. In realtà, però, a un’analisi più approfondita, estesa dai testi cronistici alla documentazione pubblica, si può individuare, tra i sostenitori di Coscetto, un’altra componente socio-politica che possia-mo dire simile ai «buoni mercatanti popolani» e ai «buoni cittadini» delle cronache fiorentine, cioè più o meno l’ampio e indefinito ceto medio pre-valentemente mercantile estraneo al popolo grasso. Ciò renderebbe il da Colle una figura per molti versi più simile a Giano della Bella che a Dino Pecora. Infatti l’analisi dei collegi anzianali degli anni di influenza di Co-scetto mostra una presenza del tutto inconsueta, negli otto seggi riservati ai mercanti – quattro erano riservati agli artigiani – di esponenti delle corpo-razioni mercantili, in particolare dell’Ordine dei mercanti e dell’Arte della lana, estranei all’élite delle corporazioni stesse, e dunque anche all’élite politica cittadina.51

4. Bologna

A Bologna, come è noto, nei primi vent’anni del Trecento si compì la parabola signorile del banchiere Romeo Pepoli.52 Vi si riscontrano molti

50. Ibidem, pp. 232-240.51. Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane.52. Giansante, Patrimonio familiare e potere.

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degli elementi caratteristici dei percorsi di affermazione signorile di que-gli anni. L’influenza politica di Romeo si consolidò attraverso la costante partecipazione alle balìe, le commissioni ristrette che dagli ultimi anni del Duecento furono convocate con frequenza crescente per affrontare le gravi emergenze militari e finanziarie che il comune di Bologna si trovava a fronteggiare. La svolta verso forme più apertamente signorili si ebbe a par-tire dal 1310: dal settembre di quell’anno anziani e consoli vennero eletti in presentia domini Romei de Pepulis.53 Il fondamento del potere del Pepoli è senza dubbio da ricercare nelle sue enormi risorse economiche, che egli mise ripetutamente a disposizione del comune nei ricorrenti momenti di difficoltà, e che si rivelarono efficacissimi strumenti di pressione politica.

Ma accanto alla ben conosciuta vicenda del banchiere emerge quella, più difficile da inquadrare, di un personaggio assai meno noto, Giuliano Raminghi, esponente della società delle armi dei beccai. Giuliano, facen-dosi sostituire in alcuni momenti da uno dei suoi figli, occupò ininterrot-tamente la carica di barisello dalla sua fondazione nel 1307 – o meglio rifondazione, dal momento che essa è già attestata una volta negli anni ’70 del Duecento – fino al 1321.54 Il barisello era un ufficiale di primo piano, che in quegli anni entrò a far parte del vertice istituzionale del comune: egli si riuniva con gli anziani e consoli, con il preconsole dei notai, il premini-strale delle sette società – sulle quali torneremo tra poco – e Romeo Pepoli per dare un indirizzo alla politica cittadina.55 La storiografia ha in genere considerato Giuliano un uomo di Romeo Pepoli, e in effetti tra i due esiste-va uno stretto legame, tanto che la fine del potere del banchiere significò anche l’improvviso declino dell’influenza dei Raminghi.

Tuttavia, le ragioni dell’ascesa di Giuliano non possono essere ricon-dotte interamente alla sua relazione con il Pepoli. Al contrario, è forse da valutare la possibilità che alla base del rapporto che Romeo coltivò con l’esponente della società dei beccai ci fosse la volontà del banchiere di legare a sé una figura che era in grado di garantirgli l’appoggio di alcu-ni settori della società cittadina. L’ufficio di barisello fu creato in seguito all’affermazione politica di una federazione di sette società delle armi ul-

53. Ibidem, p. 58.54. Una descrizione dettagliata degli equilibri istituzionali di quegli anni si trova in

Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, pp. 107 e sgg. Sulle competenze del bari-sello Milani, L’esclusione dal comune, pp. 399-404.

55. Si veda per esempio la deliberazione del consiglio del popolo, del 1310, trascritta da Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, pp. 222-224.

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traguelfe, capeggiate, appunto, da quella dei beccai, che ebbero un ruolo fondamentale nei tumulti che nel 1306 portarono alla fine del regime dei bianchi, guelfi moderati, e all’imposizione dei neri, guelfi radicali.56 Sem-pre molto abile nel fiutare il vento del cambiamento, Romeo, che negli anni precedenti si era allineato alle posizioni politiche dei bianchi, in quello stesso 1306 si propose come punto di riferimento dello schieramento nero che riguadagnava rapidamente terreno. Dopo il 1307 le sette società godet-tero di una notevole influenza, essendo rappresentate, negli organi direttivi della politica cittadina, non solo dal barisello, ma anche da un altro ufficio di nuova creazione, il preministrale delle sette società.

La principale caratteristica delle sette compagnie delle armi che si im-pegnarono attivamente per il cambio di regime era appunto la faziosità politica, ovvero l’accesa fede guelfa. Susan Rubin Blanshei, tuttavia, che ha analizzato la composizione delle sette società, pur nell’ambito di un discorso che mira a negare la caratterizzazione “democratica” o in qualche modo ultrapopolare della federazione, suggerita a suo tempo da Gina Faso-li, dimostra che esse erano, tra le società delle armi, quelle che avevano il più basso livello di preminenza familiare:57 rispetto alle altre, cioè, queste società erano meno caratterizzate dall’egemonia di un gruppo ristretto di famiglie, avevano un profilo sociale in un certo senso più egalitario e “po-polare”. Giuliano Raminghi era il leader della federazione, come prova il suo monopolio della carica di barisello. Egli, dunque, non sembra essere tanto o soltanto un fedele di Romeo, quanto piuttosto il rappresentante e la guida di un segmento del composito mondo popolare bolognese. Il rappor-to tra i due pare davvero molto simile a quello che a Pisa legava Gherardo di Donoratico e Coscetto da Colle.

Il quadro politico della Bologna di inizio Trecento appare particolar-mente complesso e di difficile interpretazione. L’élite politica popolare e la nobiltà erano attraversate dalla frattura tra bianchi e neri, che si sovrap-poneva a quella tra antiestensi e filoestensi – che si connotava in relazione all’appoggio o al contrasto ai progetti espansionistici degli Este signori di Ferrara, Modena e Reggio Emilia – in forme estremamente mutevoli e

56. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, pp. 107 e sgg; Fasoli, Le Compa-gnie delle armi a Bologna, pp. 324-326.

57. Blanshei, Politics and Justice in Late Medieval Bologna, pp. 117 e sgg.

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sfuggenti.58 Per quanto riguarda l’universo in senso lato popolare, che si esprimeva nelle società delle armi e delle arti, esso appare molto attivo e politicamente coinvolto, e la signoria del Pepoli non ottenne il risultato di minarne la vitalità. È assai significativo che il temporaneo esilio di Romeo nel 1316 fosse dovuto a una sollevazione delle società delle arti.59

Anche in questo ampio e assai eterogeneo aggregato sociale si mani-festano però spaccature o perlomeno articolazioni che non è facile rico-struire nel dettaglio. Nel periodo di dominio dei guelfi bianchi, tra il 1301 e il 1306, fu attiva una federazione di venti società delle arti che agì come soggetto politico autonomo.60 A capo di essa fu istituito un difensore delle venti società che acquisì un ruolo istituzionale di grande rilievo, per molti versi simile a quello che, nel successivo periodo di prevalenza delle sette società delle armi, fu del barisello. Le venti società promossero una politi-ca decisamente popolare, con la ripresa e il rafforzamento di disposizioni degli ordinamenti sacrati e sacratissimi che erano state lasciate cadere negli anni precedenti. Tuttavia, la federazione di sette società delle armi che pre-se il potere dopo il 1306 era evidentemente espressione di altre componenti e di altri settori del mondo popolare. La sua affermazione determinò infatti la soppressione del difensore, e in generale la scomparsa della federazione delle venti società delle arti come soggetto politico attivo autonomamente sulla scena pubblica. Anche a Bologna, insomma, come a Firenze, Perugia e Pisa negli stessi anni, siamo di fronte a un quadro politico estremamente mosso e frammentato, nel quale trovano spazio diverse forme di influenza personale.

5. Lucca

La rubrica 165 del terzo libro ha un’importanza centrale nello statuto del comune di Lucca riscritto nel 1308.61 Essa definiva infatti chi non po-teva appartenere alle società delle armi, e dunque, oltre a essere soggetto a una serie di pesanti discriminazioni in ambito giudiziario, non poteva assu-

58. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, pp. 75 e sgg; Milani, L’esclusione dal comune, pp. 377 e sgg.

59. Giansante, Patrimonio familiare e potere, pp. 65-66.60. Vitale, Il dominio della parte guelfa in Bologna, pp. 85-98.61. Statuto del Comune di Lucca, p. 239.

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mere la carica di priore delle società delle armi. La magistratura dei priori delle società delle armi fu creata nel 1292. Eletti dal basso, all’interno delle società, essi riuscirono nel 1300 ad affiancarsi in posizione paritaria, ma assicurandosi la maggioranza numerica – diciassette contro nove –, al più oligarchico collegio degli anziani, imprimendo una svolta ultrapopolare alla politica lucchese.62 Tra gli altri, non potevano immatricolarsi nelle so-cietà delle armi «clerici et conversi et ecclesiastice persone et famuli et familiares clericorum, conversorum et ecclesiasticarum personarum». Ma si aggiungeva subito: «que presens exceptatio non referatur ad Adiutum Roscionpoli». Questo Adiuto Rosciompelli, in effetti, aveva un figlio, En-rico, canonico della cattedrale: egli era quindi senza dubbio il familiare di un chierico.

Adiuto godeva dunque di una tale influenza politica da meritarsi un’ec-cezione “ad personam” – l’unica esplicitamente presente in tutto il testo sta-tutario – in una delle rubriche più importanti dello statuto. Il Rosciompelli era un grande mercante internazionale, appartenente tuttavia a una famiglia di origine recente.63 Egli era stato tra i soci più in vista della compagnia dei Ricciardi, precipitata in una crisi irreparabile nella seconda metà degli anni ’90.64 Adiuto fece parte del gruppo di mercanti internazionali, per lo più appunto di recente ma impetuosa affermazione economica nella Luc-ca dell’industria della seta, che sostennero, incoraggiarono e promossero la fondazione, nel 1292, dei priori delle società delle armi. La nuova magi-stratura era espressione di un ampio aggregato sociale, che, sotto la guida di questi mercanti, comprendeva operatori commerciali di minore caratura, bottegai, artigiani. Nella spaccatura che, anche a Lucca come in tante altre città, nei primi anni del Trecento oppose guelfi bianchi e guelfi neri i priori, e le componenti sociali ad essi legate, si schierarono compattamente con i neri. Nel 1301 l’allontanamento dei bianchi lasciò ai mercanti che dominavano il priorato le leve del potere.65 Negli anni successivi l’ascendente politico di Adiuto andò costantemente aumentando. Si trattava di una figura autorevole, capace, grazie alle sue doti di uomo politico e probabilmente alla sua ampia rete di relazioni, di costruire consenso, simile, per molti versi, a Banduccio Bonconti a Pisa o a Feolo di Libriotto a Perugia.

62. Poloni, Lucca nel Duecento, pp. 155-170.63. Sulla famiglia Rosciompelli ibidem, ad indicem.64. Del Punta, Mercanti e banchieri lucchesi nel Duecento, pp. 193-215.65. Poloni, Lucca nel Duecento, pp. 174-182.

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Anche a Lucca, tuttavia, quello di Adiuto non è l’unico modello di leadership identificabile. Meno afferrabile, ma non meno reale, è la posi-zione di preminenza conquistata da una potente famiglia aristocratica che appoggiava la parte nera (una delle poche, perché la maggior parte delle famiglie nobili si schierò con i bianchi): gli Opizi, in particolare il ramo dei Malaspina. La reazione popolare che portò all’abbandono della città da parte dei bianchi, nel 1301, fu causata dall’uccisione, per mano di due esponenti di famiglie bianche, del giudice Opizo del fu dominus Malaspi-na, ormai avanti con gli anni, e, scrive Giovanni Sercambi, «molto amato dal populo».66 Gli Opizi, nonostante la loro indubbia appartenenza alla mi-litia cittadina, non vennero compresi nella lista dei casastici et potentes, i magnati lucchesi, inserita nello statuto del 1308. Si tratta di fatto dell’unica eccezione – che ricorda, per certi versi, quella di cui beneficiò il Rosciom-pelli –, poiché anche le poche famiglie aristocratiche nere compaiono nella lista.

Questo privilegio non può che essere interpretato come un riconosci-mento dell’impegno dei Malaspina a favore della parte nera e del regime priorale. In che cosa consistesse questo impegno, e quale fosse esattamente il ruolo esercitato dalla famiglia nobile, non è dato saperlo. È probabile, tuttavia, che essa disponesse di ampie reti clientelari tanto in città quanto, soprattutto, nel contado, e che la sua capacità di mettere a disposizione uomini armati non sia da sottovalutare, in un contesto politico in cui, come si è detto, quasi tutte le famiglie della militia, con i loro fideles, si erano schierate con i bianchi. In ogni caso, è interessante notare che un membro degli Opizi Malaspina sposò la figlia di Adiuto Rosciompelli, e un altro la figlia di Bonturo Dati, legami familiari che tentavano di coordinare tra loro i diversi progetti di affermazione personale e familiare che si confron-tavano nel contesto lucchese, e che, come dimostra la vicenda di Bonturo, rischiavano di entrare in conflitto.

Anche Bonturo Dati era un mercante internazionale di grande succes-so, benchè di origine più oscura di Adiuto: Dati era il patronimico, Bonturo non aveva un vero e proprio cognome.67 Egli aveva fatto parte del gruppo dei fondatori del priorato, svolgendovi un ruolo di primo piano. Nel 1310, tuttavia, Bonturo si pose alla guida di un movimento di opposizione che

66. Le croniche di Giovanni Sercambi, I, p. 49; Poloni, Lucca nel Duecento, pp. 170-174.

67. Su Bonturo Dati ibidem, ad indicem; RESCI, Dati, Bonturo.

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impresse una nuova svolta radicale alla politica lucchese. Secondo il rac-conto di Giovanni Sercambi, molte famiglie del «popolo grasso» - tra le quali, presumibilmente, almeno alcune di quelle responsabili della rivo-luzione popolare degli anni ’90 – furono cancellate dalle matricole delle società armate, cioè, di fatto, escluse dai privilegi riservati ai popolari, e, ovviamente, dal priorato.68 Il baricentro sociale del governo popolare sem-bra spostarsi ulteriormente verso il basso, e il bacino di reclutamento degli organi di vertice, priorato e anzianato, allargarsi a comprendere non solo esponenti delle arti minori, ma addirittura, a quanto sembra, settori del proletariato urbano, da sempre esclusi da qualsiasi forma di partecipazione politica.69 Questa esperienza durò tre anni, finchè nel 1313 Bonturo fu co-stretto ad abbandonare la città da una rivolta popolare, che pare lo ritenesse responsabile di un’umiliazione subita a opera dei pisani.

Bonturo è dunque inquadrabile come la classica figura del capopolo. Egli assunse la leadership di alcuni settori del popolo minuto e addirittu-ra, pare, di componenti sociali escluse persino dal mondo delle arti, che fino quel momento non avevano avuto alcuno spazio politico, neppure nel governo popolare radicale dei priori. E anche la conclusione della sua pa-rabola lo accomuna a tante altre esperienze simili. Eppure la sua storia per-sonale è per molti versi diversa da quella di altri capipopolo. A differenza, per esempio, di quella di Coscetto da Colle, l’ascesa politica di Bonturo non dipese dalla sua capacità di proporsi come portavoce del popolo mi-nuto. Bonturo era un grande mercante internazionale, come si è detto tra i fondatori del priorato, e nel 1310 godeva già di una solidissima posizione politica, che ne faceva uno degli esponenti più in vista del gruppo dirigen-te priorale. Fu però facendosi interprete del malcontento di gruppi sociali esclusi o quasi dai vertici istituzionali, pure tutt’altro che oligarchici, del regime priorale che egli tentò di imprimere una svolta alla sua esperienza politica e conquistare un potere personale del quale, uomo politico certo di primo piano, ma uno tra i tanti, fino a quel momento non aveva goduto. Se fosse stato fiorentino, Compagni e Villani l’avrebbero sicuramente anno-verato tra coloro che volevano «essere signori di loro cittadini».

La partecipazione politica, nelle sue varie forme, raggiunse a Lucca un’ampiezza e un’estensione sociale davvero notevoli, eccezionali anche per un comune di popolo. Anche qui, tuttavia, l’articolazione dei raggrup-

68. Le croniche di Giovanni Sercambi, I, p. 57.69. Poloni, Figure di capipopolo nelle città toscane.

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pamenti socio-politici era molto complessa e segmentata.70 Il popolo gras-so, per dirla alla fiorentina, era diviso abbastanza nettamente tra famiglie di più lunga tradizione politica, che si arroccarono nell’anzianato e poi confluirono quasi interamente nei bianchi, e famiglie di più recente affer-mazione economica e dunque anche politica, che si espressero nel priora-to e assunsero la guida dei neri. Le famiglie aristocratiche alimentarono in grande maggioranza le file dei bianchi. L’eterogeneo mondo popolare estraneo all’élite mercantile mantenne a lungo una certa coesione politica e ottenne l’allargamento del vertice istituzionale con la fondazione dei prio-ri; esso si schierò nella sua quasi totalità con i neri, dando vita a un regime ultrapopolare e ultraguelfo. A Lucca dunque la frattura tra bianchi e neri acquisì un connotato sociale piuttosto netto, che divenne eclatante quando nel 1308 il regime nero inserì nella lista dei magnati anche tutte le famiglie di origine popolare, fino a quel momento rappresentate nell’anzianato, che avevano scelto di schierarsi con i bianchi. I bianchi divennero perciò il partito dei magnati, i neri il partito del popolo, con una sovrapposizione perfetta, che credo sia esclusivamente lucchese, della lotta di fazione con il conflitto popolani-magnati. Ma poco dopo la redazione degli statuti una parte apparentemente consistente del mondo delle arti e del popolo minuto entrò in contrasto con la frazione mercantile dello schieramento popolare nero e, come si è visto, cominciò ad agire come attore politico autonomo sotto la guida di Bonturo Dati.

6. Conclusioni

I decenni tra Due e Trecento si caratterizzano dunque, nei maggiori comuni di popolo, per la sovrapposizione di diversi progetti di affermazio-ne personale. I protagonisti di tali progetti avevano fisionomie sociali mol-to eterogenee, ma, soprattutto, attingevano a risorse differenti: dal potere economico, al prestigio di un’antica e nobile tradizione familiare, ai legami verticali di clientela e fedeltà, alle reti orizzontali di solidarietà professio-nale e “di classe”, al carisma e altre doti personali quali l’abilità retorica, l’autorevolezza, la capacità di persuasione. A convivere, non sempre in modo pacifico, non erano cioè soltanto diversi progetti di potere, ma anche diverse forme di leadership e diversi modelli di azione politica. Si pensi,

70. Poloni, Lucca nel Duecento, pp. 145-182.

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nella Firenze degli anni a cavallo tra Due e Trecento, al contrasto tra due figure come Giano della Bella e Corso Donati.

Questa proliferazione di leaders è probabilmente collegata al fatto che nelle realtà considerate il coinvolgimento politico dei cittadini, in forme istituzionali e non istituzionali, raggiunse in questa fase un’ampiezza dav-vero considerevole. La presenza, sulla scena pubblica, di diverse compo-nenti sociali e di molteplici attori politici produsse cioè tale proliferazione, ma, a sua volta, l’azione dei leaders contribuì all’allargamento della par-tecipazione, attraverso il coinvolgimento di settori della società cittadina fino a quel momento politicamente invisibili o quasi. Questa ampia parte-cipazione, come si è detto, era fortemente frammentata. Gli schieramenti si formavano, si scomponevano e ricomponevano velocemente sulla base di rapporti clientelari, solidarietà – o inimicizie – familiari, professionali, di classe, condivisione di programmi politici, producendo anche rilevanti trasformazioni istituzionali, che ovunque tesero in questa fase ad allarga-re il bacino di reclutamento degli organi di vertice.71 Fu in questo gioco complesso che trovarono spazio i leaders, che si presentano come figure capaci, per un tempo più o meno lungo, spesso per la verità molto bre-ve, di aggregare intorno al proprio progetto segmenti diversi di una realtà politico-sociale estremamente composita.

In alcuni interventi recenti Riccardo Rao ha sottolineato come lo stes-so periodo qui considerato, dal 1280 al 1330 circa, sia caratterizzato nelle città dell’Italia nord-occidentale dalla convivenza di più signorie su livelli differenti, sovracittadino e locale.72 Le dominazioni sovracittadine coesi-stettero e si sovrapposero a locali progetti di egemonia familiare, a forme di potere personale scarsamente formalizzate, alla persistente vitalità dei movimenti popolari. Solo dopo il 1330 regimi signorili più forti e stabili ri-uscirono a liquidare i progetti concorrenti e a sottoporre gli spazi politici e istituzionali a un più stretto controllo, ponendo fine, di fatto, al dinamismo un po’ caotico dei decenni precedenti. Mi sembra che esista una qualche analogia con quanto si è visto per i maggiori comuni di popolo. Anche in queste realtà dai primi decenni del Trecento furono gradualmente messi in opera meccanismi istituzionali che tendevano a incanalare la dialettica politica in forme più controllabili, e a disciplinare l’azione politica dei di-versi gruppi sociali. Le élites politiche popolari ottennero in questo senso

71. Poloni, Il comune di popolo e le sue istituzioni.72. Cfr. ora Rao, Signori di Popolo.

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risultati buoni, ma mai definitivi, come mostra bene il caso fiorentino, dove per tutto il secolo quell’ampio aggregato che le fonti indicano come popolo minuto rimase capace, in momenti particolari, di agire come soggetto poli-tico autonomo e addirittura di prendere in mano le leve del potere.73

73. Najemy, Corporatism and Consensus.