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MARCO GIOLA* ESERCIZIO SU UN TRITTICO DI SONETTI TRECENTESCHI AD ARGOMENTO BONIFACIANO EXERCISE ON A TRIPTYCH OF XIV-CENTURY SONNETS ABOUT BONIFACE VIII Abstract e paper focuses on three sonnets of the XIVth century concerning the topic of the fleetingness of the hu- man life examined thorough one of the outstanding figures of the Middle Age: pope Boniface VIII. eir anonymous author combines literary structures with elements that come from the epigraphic sepulchral style and shows himself well aware of the posthumous trial that Boniface’s opponents were carrying on against the pope. e paper offers a critical edition of each sonnet illustrating their manuscript tradition and their cultural background. Keywords Boniface VIII; medieval italian poetry; Papacy and italian litterature; medieval latin and vernacoular epitaphs. . Non è certo ignoto agli studi un terzetto di sonetti trecenteschi che, centran- dosi sulla figura di Bonifacio VIII e sviluppando il tema – abbastanza conven- zionale, a dire il vero – della transitorietà della gloria terrena, invitano alla me- ditazione sulla sorte dell’uomo e al disprezzo per il mondo. Due di essi, che hanno avuto una ridottissima circolazione manoscritta, sono stati editi in tem- pi e frangenti diversi. Il primo, Ahi cosa fera, plena di oscurtate [d’ora in poi son. * Università Cattolica di Brescia; Diparti- mento di Scienze storiche e filologiche; marco. [email protected]. Molti maestri e amici mi sono stati di indispensabile aiuto per la stesura di que- ste pagine: Valentina Arcidiacono, Sandro Bertelli, Andrea Canova, Davide Cappi, Marco Cursi, Ales- sio Decaria, Diego Dotto, Paolo Gresti, Emma Grootveld, Luca Mazzoni, Aldo Menichetti, Ago- stino Paravicini Bagliani, Daniele Piccini e Paolo Trovato. A loro va la mia più sincera riconoscenza. 97 III · 204

Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano, «Studi di Erudizione e Filologia Italiana», 3 (2015), pp. 97-152

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MARCO GIOLA*

ESERCIZIO SU UN TRITTICO DI SONETTI TRECENTESCHI

AD ARGOMENTO BONIFACIANO

EXERCISE ON A TRIPTYCH OF XIV-CENTURY SONNETS

ABOUT BONIFACE VIII

Abstract

The paper focuses on three sonnets of the XIVth century concerning the topic of the fleetingness of the hu-man life examined thorough one of the outstanding figures of the Middle Age: pope Boniface VIII. Their anonymous author combines literary structures with elements that come from the epigraphic sepulchral style and shows himself well aware of the posthumous trial that Boniface’s opponents were carrying on against the pope. The paper offers a critical edition of each sonnet illustrating their manuscript tradition and their cultural background.

Keywords

Boniface VIII; medieval italian poetry; Papacy and italian litterature; medieval latin and vernacoular epitaphs.

.

Non è certo ignoto agli studi un terzetto di sonetti trecenteschi che, centran-dosi sulla figura di Bonifacio VIII e sviluppando il tema – abbastanza conven-zionale, a dire il vero – della transitorietà della gloria terrena, invitano alla me-ditazione sulla sorte dell’uomo e al disprezzo per il mondo. Due di essi, che hanno avuto una ridottissima circolazione manoscritta, sono stati editi in tem-pi e frangenti diversi. Il primo, Ahi cosa fera, plena di oscurtate [d’ora in poi son.

* Università Cattolica di Brescia; Diparti-mento di Scienze storiche e filologiche; [email protected]. Molti maestri e amici mi sono stati di indispensabile aiuto per la stesura di que-ste pagine: Valentina Arcidiacono, Sandro Bertelli,

Andrea Canova, Davide Cappi, Marco Cursi, Ales-sio Decaria, Diego Dotto, Paolo Gresti, Emma Grootveld, Luca Mazzoni, Aldo Menichetti, Ago-stino Paravicini Bagliani, Daniele Piccini e Paolo Trovato. A loro va la mia più sincera riconoscenza.

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], è riportato dal trecentesco codice Barb. Lat. 3953 della Biblioteca Apostoli-ca Vaticana (B), celebre florilegio di rime allestito da (e per) Niccolò de’ Ros-si, oltre che dal suo tardissimo descriptus Barb. Lat. 3989 (B); sulla base del-la lezione di B, il sonetto è stato prima incluso da Leone Allacci nella raccolta di rimatori antichi del 66 (All66) e poi trascritto nel 905 da Gino Lega nel-l’edizione complessiva della silloge barberiniana.2 Il secondo, O tu che per la via del mondo vai [d’ora in poi son. 2], noto solo per il manoscritto Magl. VII, 624 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (FN),3 è stato fatto conoscere, credo per la prima volta, da Isidoro Del Lungo nel 899 in un memorabile volu-me di storia fiorentina, poi più volte ristampato.4 Maggior fortuna manoscrit-ta ed editoriale ha arriso invece al terzo sonetto, Nel mondo stando dove nulla dura [d’ora in poi son. 3], attestato da nove manoscritti (vedi qui al punto 7) e pubblicato, dal Seicento in avanti, almeno una decina di volte. Sostanzialmen-te, però, fino ai contributi più recenti, questo sonetto è stato trattato come se

Mi adeguo, per i manoscritti da lui conosciu-ti, alle sigle introdotte da ORLANDO 204, p. 20, adattando a questo sistema i restanti testimoni.2 L’ampia raccolta di rime antiche organizzata da Niccolò de’ Rossi (in parte autografa e in parte di mano di copisti a lui vicini) contenuta in B è edi-ta integralmente da LEGA 905 con corredo di tavo-le e indici mentre importanti osservazioni su questo codice sono in ROSSI, Canzoniere, I, pp. XLVII-IX; la tavola dei soli componimenti danteschi inclusi nel manoscritto è in DANTE, Rime, I/2, pp. 77-9 [si-gla B]; l ’autografia e il riconoscimento delle diver-se mani che intervengono sul manufatto è confer-mata anche da GRANATA 203, pp. 58-59. Da questo testimone, dovrebbe procedere direttamente il testo pubblicato da ALLACCI 66, p. 90 (oltre ai fatti te-stuali qui discussi, si veda LEGA 905, pp. XI-XIII), mentre, a sua volta, il tardo manoscritto seicentesco B (descritto da MESSINA 978, p. 253 e da DANTE, Rime, I/2, pp. 720-2 [sigla B6]) si mostrerebbe suc-cessivo e dipendente da questa stampa, come docu-menta una nota collocata dal copista a f. r: «Poesie diverse volgari raccolte da Leone Allacci, già stam-pate dall’istesso». Fatta salva l ’indiscussa origine co-mune in B, che resta il padre di questa famiglia che si dirà compendiosamente nel suo insieme B&c, non sempre è ovvia la successione dei descripti All66 > B: come palesa il caso qui trattato a p. 27 (e n. 00)

sembra affacciarsi una maggior complessità nei rap-porti tra i due testimoni seicenteschi: è evidente che una risposta a questo quesito è affidata ad uno stu-dio completo del rapporti intercorrenti tra il codice e la stampa, forse in grado di lumeggiare meglio le prassi editoriali dell’illustre erudito.3 Come già avvertiva BARBI 95, p. 503 n. 2, que-sto codice magliabechiano si completa con il Laur. Plut. XLII,38 dal quale è stato separato già in età antica. Nel suo complesso, il manoscritto originario si costituiva di un’ampia antologia di testi prosastici e poetici che, pur raggiungendo in qualche caso au-tori più antichi, si concentra sul Trecento toscano; le tavole con il contenuto delle due porzioni, molto precise, sono raccolte in BERISSO 993a, pp. 82-88 e BERISSO 993b, pp. 99-0. Dopo DANTE, Rime, I/, pp. -3 [sigla L28] e pp. 236-37 [sigla Mg8], la più completa e recente descrizione dei due spezzoni si trova in BERTELLI 2002, p. 25 § 64 (fig. 79) e BER-TELLI 20, pp. 45-47 § (figg. 69-70) dove vie-ne proposta una datazione compresa tra la metà e il terzo quarto del Trecento (sulla datazione, anche DI GIUNTA, Conciliato d’Amore, Rime, Epistole, p. LXXI n. 57); la presenza dei sonetti bonifaciani è se-gnalata anche in FRATI 889, p. 35, PAGNOTTA 995, p. 94 n. 5 e BERISSO 2000, p. 227 n. 58.4 DEL LUNGO 899, pp. 32-22 [poi 922, p. 320 n. 5].

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fosse tràdito da testimone unico, vuoi a integrazione di schede catalografiche,5 vuoi in trascrizioni complete di manoscritti illustri,6 vuoi in contributi storici o storico-letterari,7 mentre solo in tempi recentissimi è stato debitamente consi-derato entro un sistema pluritestimoniale: prima, nel 20, da Alessio Decaria in un’edizione digitale per il progetto LirIO;8 poi, nel 204, da Sandro Orlan-do che, pur non entrando nei dettagli della tradizione, fornisce un testo corre-dato da un apparato che rende ragione di quasi tutti i testimoni noti e accom-pagnato da una nuova edizione dei sonn. e 2.9 Nonostante questo imponente dispiego di forze editoriali (forse sproporzionato rispetto alla qualità non ec-celsa di questi tre sonetti e alla loro relativa rilevanza sul piano storico-lette-rario) non mi sembra tuttavia inutile ritornare su alcuni punti di queste rime per precisarne alcuni aspetti del contesto culturale di riferimento e della tradi-zione manoscritta, mettendo in gioco qualche testimone finora inutilizzato e avanzando qualche – purtroppo minima – proposta testuale.

2.

Anche se questo aspetto non è stato finora affrontato esplicitamente dalla cri-tica che si è occupata di questi sonetti, non è dubbio che essi costituiscano un episodio letterario dai tratti fondamentalmente unitari e caratterizzato da una forte omogeneità compositiva. Infatti, più che l’ovvio comune denominatore in-terdiscorsivo e più che lo stato materiale di almeno parte della tradizione (il son. è collocato appena dopo il son. 3 dal copista di B che li attribuisce a uno sfug-gente «Butto messo»;0 il son. 2 occupa la stessa carta del son. 3 in FN, entrambi

5 BANDINI 792, II, col. 579; AGNELLI 89, p. 27; PROFESSIONE 967, p. 65; RODDEWIG 984, § 665, p. 286, BONAZZA 202.6 LEGA 905, p. 202.7 GIANNINI 879 (che non ho potuto consultare); DEL LUNGO 899, pp. 32-22 [poi 922, p. 320 n. 5]; SANTANGELO 965, p. 392; SUITNER 983, p. 50; IN-DIZIO 200, p. 0.8 DECARIA 20; ringrazio particolarmente l ’au-tore anche per avermi messo a disposizione i ma-teriali di un suo più esteso lavoro sullo stesso argo-mento (DECARIA 205). 9 ORLANDO 204; ho potuto leggere questo sag-gio solo in una fase avanzata della presente ricerca

ma ho avuto il tempo di trarne utili indicazioni di lavoro. 0 Dichiaro fin d’ora di non avere argomenti per entrare nella complessa questione attributiva di questi sonetti in relazione alle rubriche di B; non posso d’altra parte che concordare con la diffiden-za espressa da BETTARINI BRUNI 2002, p. 298 (cit. anche da ORLANDO 204, pp. 24-5) circa la sicu-rezza con cui, nella seconda metà dell ’Ottocento, Pietro Bilancioni identificava il «Butto messo» con Butto Giovanni (o Giovannini) da Firenze, corri-spondente di Antonio Pucci al quale sono attribuite anche alcune rime morali.

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anonimi), sono i dati formali l’elemento che meglio sembra garantire la coeren-za della terna poetica. Tutti i sonetti presentano, anzitutto, lo schema regola-re ABBA ABBA CDC DCD, con molte rime e alcune parole-rima che, come si vedrà qui sotto, legano indiscutibilmente fra loro i tre componimenti. Si ricon-duce facilmente a questo modello anche il son. 2 nel quale, così come è trascrit-to in FN, si contano 5 versi che lo fanno apparentemente divergere dallo sche-ma comune; tuttavia, il verso che occupa la dodicesima sede effettiva (o bis) è identico al corrispondente v. 2 del son. 3, copiato esattamente sopra e nella stessa disposizione di versi per colonna. La presenza di questo verso nel son. 2 è del tutto ridondante e, sul piano compositivo, credo sia del tutto antieconomico pensare a questo come ad un sonetto caudato, vuoi per la struttura rimica alme-no stravagante che si verrebbe a creare (ABBA ABBA CDC DDC D), vuoi per l’asimmetria che verrebbe a determinare nei confronti degli altri due. Pare per-tanto possibile avanzare con una certa sicurezza l’ipotesi di un banale errore per ripetizione del verso nel son. 2 e sostenere l’opportunità di una sua espunzione in sede editoriale, così da ricondurre questo sonetto alla forma normale. Un al-tro elemento, ancorché minore, cospira a legittimare questa operazione: lo sche-ma regolare ABBA ABBA CDC DCD si estende in FN anche ad altri due so-netti anonimi che occupano la stessa facciata del f. 5 in cui si trovano i sonn. 2 e 3, egualmente incentrati sul contrasto tra il vivo e il morto (molto probabil-mente l’episodio di san Macario e il teschio) e tali da palesare molte affinità con i testi bonifaciani così che, all’interno della stessa pagina, riesce a realizzarsi un contesto molto coerente sia sul piano letterario sia su quello formale.2

Di opinione diversa è ORLANDO 204, pp. 25-6 che – pur notando la stranezza dello schema (p. 25, n. 0) e citando molto opportunamente BIADE-NE 888 – stampa il sonetto in una prudentissima edizione interpretativa con tutti e 5 i versi e discu-tendolo come un sonetto con la coda.2 I due sonetti, legati per le rime (O tu che fosti vi-vo già nel mondo e Servo del vero Idio, i’ ti rispondo), che occupano la prima metà del f. 5r sono anch’essi anonimi. Nel sonetto di proposta è il vivo (identifi-cato poi come santo possente nella risposta al v. ) ad apostrofare per primo un cranio scarnificato al qua-le chiede, ad ammaestramento degli altri viventi, le sue condizioni nell ’aldilà; nella risposta, il trapassa-to, che si dichiara spirito di un religioso dedito al-l ’adorazione dei falsi dèi, confessa la propria dan-

nazione. Tali elementi corrispondono con una certa esattezza alla Vita di san Macario egiziano (Acta Sanctorum, I, p. 0), ben diffusa anche nel Trecen-to volgare attraverso la rielaborazione di autori di ispirazione contemplativa come Domenico Caval-ca o Jacopo Passavanti (GLIXELLI 94, p. 27 e SET-TIS FRUGONI 967, pp. 7-72). Molti, oltre a questo, sono gli aspetti interessanti di questa coppia di so-netti che parrebbe intrecciare qualche relazione con il dittico bonifaciano che li segue, incluso l ’incipit della proposta del tutto affine a quello del son. 2, con il quale condivide anche una rima in -ia. Data la quantità e la qualità di queste componenti, non è possibile qui affrontare una disamina esauriente di questi versi che merita invece di essere sviluppata in sede propria.

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Ricostruita in questo modo, se non mi inganno, la modularità dello sche-ma, è possibile osservare con sicurezza l’importante tessuto di rime che tie-ne in connessione i tre sonetti, rinforzato anche da una certa abbondanza di parole-rima, quasi sempre con funzione marcata.

La più diffusa di queste è la rima -ura che attraversa tutti i sonetti: rima B congiunta-mente per i sonn. e 2 e rima A per il son. 3.3 Data questa condizione, ben tre sono le pa-role-rima che intercorrono tra i sonetti: paura, estesa in sedi diverse in tutti e tre (son. , v. 2; son. 2, v. 7; son. 3, v. 4); figura che unisce i sonn. e 2 nella stessa posizione (v. 3); ventura che, in collocazioni differenti, mette in connessione il son. 2 (v. 2) e il son. 3 (v. 8).

Più circoscritta è invece la diffusione della rima in -enza che collega il son. (rima C) e il son. 3 (rima B), anche qui con una parola-rima, potenza (son. , v. 9; son. 3, v. 2), sfruttata verosimilmente in modo connotativo, dato il tema del componimento.

Analogamente, una rima in -ire connette i sonn. 2 e 3 nella medesima posizione (rima D).

Questo specchietto riassuntivo illustra un’architettura molto coesa e simme-trica nella distribuzione delle rime in cui, oltre ad un ordito comune che strin-ge tutti e tre i testi, si rilevano dei rapporti a due organizzati in maniera estre-mamente proporzionale e tali da consentire, in composizione tra loro, una quasi perfetta triangolazione complessiva. Un’altra spia, molto meno eviden-te ma forse indicativa di un ambiente unico entro il quale si è sviluppata la tra-dizione di questi sonetti prima della loro dispersione, è costituita da un erro-re di un testimone del son. 3: il codice Bo, di cui si dirà sotto, legge al v. 3 Ora son reguso ne la terra squra, infrangendo il sistema rimico che richiederebbe una terminazione in -erra (rima C), normale in tutti gli altri che hanno legitti-mamente terra. L’uscita del manoscritto Bo, se non si tratta di poligenesi, non solo sembra continuare inerzialmente la rima in -ura comune alla terna di cui si è detto, ma riflette anche la lezione cosa scura al v. 6 del son. 2.

Anche fuori dalla posizione di rima si riesce comunque a rinvenire un siste-ma di echi testuali e di parallelismi stilistici che congiungono fra loro i tre so-netti.

3 La rima in -ura pare tuttavia piuttosto comune in componimenti di intonazione affine: essa ricorre anche nei vv. 2-3 e 6-7 del sonetto adespoto Voi gen-te che passate per la via (BETTARINI BRUNI 2002, p. 325) di argomento amoroso, ma il cui contesto sepol-crale – principalmente della prima quartina – mol-

to si avvicina all’accordatura del son. 2. Inoltre, que-sta precisa rima è la medesima del refrain della lauda iacoponica che più si avvicina a questi nel tema del disprezzo del mondo: Quando t’allegre, omo d’altura, che pare accostarsi a questi testi anche nella parola rima (assolutamente pregnante) paura del v. 26.

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Il più forte è indubbiamente costituito dalla serie a tre Deh Bonifazio (son. , v. 9), Ch’io Bonifazio (son. 2, v. 9) e Io Bonifazio (son. 3, v. 2) che tutti i sonetti istallano nella stessa se-de metrica, cioè come primo emistichio dell’endecasillabo con esatto accento di 4a e che, nei sonn. e 2 corrisponde ugualmente al primo verso delle due terzine.4 Un ulteriore elemento congiuntivo pare legato a questi stessi versi: il secondo emistichio del son. , v. 9 (ov’è la tua potenza) e del son. 3, v. 2 (ebbi tanta potenza) che lega i due testi con una parola-rima è ripreso anche dal son. 2 v. 0 (ebbi potenzia), questa volta, però, con collocazione all’inizio del verso.

In tre casi sono i sonn. e 2, cioè quelli non accomunati da prossimità materiale nei codici, a spartirsi parole e sintagmi uguali o echeggianti fra loro: «vista» (son. v. 3 vi-sta d’omo e son. 2 v. 7 mie vista), in entrambi i casi fortemente legato alla parola-rima pau-ra; «senno» (son. v. 2 ov’è il senno e dove la folia e son. 2 v. 0 ebbi potenzia senno ed ardire), termine peraltro più volte riferito all’abilità politica di Bonifacio da Giovanni Villani;5 an-cora, non identiche, ma ugualmente pregnanti, sono anche le due ‘iuncturae’ cosa fera, plena d’obscurtate del son. v. e cosa scura del son. 2 v. 6.

In un caso, infine, la rete vede al centro il son. 3 che spartisce un elemento congiuntivo rispettivamente con ciascuno degli altri due: molto notevole mondo al v. nella coppia sonn. 3 e 2 (rispettivamente Nel mondo stando e per la via del mondo vai), riecheggiato ancora dal son. 2 al v. (del mondo signore); meno netti, ma rafforzati dalla posizione iniziale di verso, nella diade sonn. 3 e , Or sono (son. 3 v. 3) e Or sé (son. v. 5).

3.

Se piuttosto agevole sembra isolare gli elementi formali che radunano i tre componimenti in un’unica struttura coerente e riconoscibile, più articolata è invece la lettura dei nuclei tematici in essi sviluppati: anche se si muovono in-fatti intorno ad un medesimo perno argomentativo, i tre sonetti vengono d’al-tra parte realizzati con componenti diverse in modo tale che si creano affinità più strette tra coppie distinte (nello specifico i sonn. e 2 e i sonn. 2 e 3) senza che venga tuttavia mai perturbata la sostanziale e costitutiva solidarietà della terna. Come ho accennato in apertura, il motivo centrale sul quale si incardi-nano tutti i sonetti consiste nella riflessione sulla morte dei grandi della storia (qui Bonifacio VIII) intesa come ribaltamento vanificante della gloria terrena:

4 Per un caso affine, fuori da questa precisa terna, si veda qui la n. 57.5 «Nel detto anno MCCLXXXXIIII messer Be-nedetto Guatani cardinale, avendo per suo senno e segacità adoperato che papa Celestino avea rifiutato il papato […]», IX VI -4, e «Questo papa Bonifazio

fu savissimo di scrittura e di senno naturale, e uo-mo molto aveduto e pratico, e di grande conoscenza e memoria», IX LXIV -3 (VILLANI, Nuova Cronica, II, rispettivamente p. 9 e p. 9); si veda anche qui a pp. 20-2.

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questo concetto è reso esplicitamente dai tre sonetti attraverso un uso abbon-dante, e talora in posizioni marcate, del verbo potere e dei sostantivi potenza e potente6 che contrastano fortemente con la condizione di irrimediabile impo-tenza propria dello stato ultramondano: questo effetto di vanificazione, se è percepibile in tutti e tre, sembra d’altra parte meglio ottenuto dal son. 3 con l’espressione posso nulla dell’ultimo verso, che riecheggia il nulla dura del pri-mo. Questo tema, che da una tradizionale constatazione sul trascorrere del-la gloria del mondo si è caricato di più rilevati elementi ascetici nel pensiero cristiano, ha conosciuto moltissime esecuzioni letterarie anche nella poesia in volgare immediatamente prossima all’ambiente di diffusione di questi sonetti. Emblematico di questo genere – e già opportunamente fatto reagire con que-sti testi – è il diffusissimo sonetto Alessandro lasciò la signoria in cui l’estinzio-ne dei trionfi terreni del re di Persia è associata a quella di altri magnanimi del passato; correntemente assegnato ad Antonio da Ferrara, questo sonetto è at-tribuito dai manoscritti a diversi altri rimatori trecenteschi (compresi Dante e Cino), ma anche, e solo dal codice B e dai suoi descripti, allo stesso autore dei due sonetti bonifaciani che trascrive, attribuendoli tutti ad un altrimenti sco-nosciuto «Butto messo».7 Ma, molto più che in questo tipo di poesia, i modelli più prossimi di almeno due dei sonetti, cioè e 2, vanno ricercati in un genere specifico che è tradizionalmente indicato come «contrasto del vivo e del mor-to» (o, come in molti casi, francesi e italiani, «dei tre vivi e dei tre morti»):8 nei casi più tipici di svolgimento di questo prototipo letterario, i morti si qualifi-cano immediatamente come “grandi” della società o della storia (di norma del rango «des rois, de dus, de contes /et de gent de molt grant affaire», ma in un testo oitanico prendono parte al contrasto anche un notaio di Curia, un cardi-nale e un papa)9 e proprio sul rovesciamento di condizione operato dalla mor-te il poeta può costruire il caratteristico insegnamento morale sulla caducità del genere umano.

6 «Potere»: son. 2 v. 2, son. 3 vv. 5 e 4; «poten-za»: son. v. 9, son. 2 v. 0, son. 3 v. 2; «potente»: son. 3 v. 2. 7 Per tutta la questione, rimando sinteticamente a ORLANDO 204, pp. 28-20; vedi anche DECARIA 205.8 Per il genere e i suoi sviluppi, rinvio a KÖHLER 900 (sul quale STUSSI 997, p. 52), a ROTZLER 96 e al documentatissimo SETTIS FRUGONI 967. Una raccolta importante di testi francesi del XIII sec.

è stata allestita da GLIXELLI 94; sul versante ita-liano, particolarmente rilevanti sono il cosiddetto Atrovare del vivo e del morto (DE ROBERTIS 970, pp. 43-75, che a p. 44 n. 4 elenca altri esempi del ge-nere) e un Detto campano prodotto in ambiente an-gioino su modelli quasi sicuramente francesi (RO-MANO 985, cit. anche da ORLANDO 204, p. 28).9 La citazione è da GLIXELLI 94, II 8-9 mentre il testo con i personaggi di Curia è quello numerato III.

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Tutti questi elementi compositivi convergono in maniera evidente nei sonn. e 2 che, su questo aspetto, costituiscono un dittico evidentemente compatto: nel son. è il vivo a riconoscere l’identità della larva papale e, attraverso un’in-filata di interrogative retoriche modulate sul tipo dell’Ubi sunt?, a rimarcare il contrasto tra la condizione in vita (v. 5 gran maiestate) e quella in morte (v. co-sa fera, plena di obscurtate); all’opposto, nel son. 2 – sulla base di un topos let-terario di cui si dirà qui sotto – è il cadavere ad apostrofare il vivente, ancora pellegrino per le vie del mondo, e a metterlo in guardia dalla vanità terrena. La stretta adesione a questo genere dei sonn. e 2 si riconosce anche nella condi-visione di alcuni dettagli distintivi: caratteristica infatti di questa produzione romanza – anzi, forse inaugurata proprio da questo genere di poesia in Fran-cia tra XII e XIII secolo – è una particolare tendenza al macabro o, meglio, una certa insistenza sugli aspetti dell’orrido nella rappresentazione dei mor-ti che, a differenza dei modelli precedenti di tradizione classica, «se présentent aux vivants non sous l’aspect de fantômes, mais de cadavres en pleine décom-position ou de squelettes».20 Tale tendenza, che si osserva pienamente forma-lizzata in certe parti del De miseria humane conditionis di Lotario Diacono,2 si esplica in questi testi attraverso un lessico caratteristicamente modulato sui toni dell’orrifico e del raccapricciante,22 accolto anche dai sonetti bonifaciani

20 GLIXELLI 94, p. 27; SETTIS FRUGONI 967, pp. 5-52 n. 36 precisa però, con ricchissimo corredo di riferimenti bibliografici, che la rappresentazione specifica dello “scheletro” non è un’innovazione me-dievale ma era già ben istallata nell ’immaginario del mondo antico. 2 A questo tema è dedicato l ’intero capitolo IV del libro III, per cui si veda l ’edizione in INNOCEN-ZO III, De miseria humane conditionis, pp. 79-80.22 Poco soccorre in questa inchiesta il glossario, molto parziale, pubblicato in calce a GLIXELLI 94, pp. 3-36. Riporto, a corredo di quanto affermato, qualche prodotto di una disimpegnata spigolatu-ra fra i testi editi dallo studioso parigino. Accanto a più o meno dettagliate descrizioni dei corpi scar-nificati dei defunti (I, 50-66, V, -2 e III, 43-44, che insiste sulla «grant defaute de dens»), si rileva-no facilmente alcuni elementi ripetitivi del lessico che attingono specificamente: a. alla laidezza (I, 3 e 3; II, 23; V, 03 e 205); b. alla putrefazione maleo-dorante (I, 57; II, 93; IV, 87 e 4; V 88 e 244); c. al

corpo disfatto dai vermi (I, 2; II, 40; IV, 6; V, 2-3). Molto più rilevanti per i nostri testi sono inve-ce: d. i riferimenti alla dissoluzione del corpo (di-sfatta figura del son. 2 v. 3 e e vista d’omo no mostri e figura del son. e v. 3): «deffiguré/-és» V, 0, 23, 37 e 9, «descarné» II, 2; e. il rilievo della natura oscu-ra del morto (cosa fera, plena di obscurtate del son. , v. ): «oscur» I, 0, 7 e 03. Nell ’Atrovare del vivo e del morto, la figura del morto – in forte analogia con il son. 2 v. 3 – è detta «bructa e desfacta» (I.5.3) e frequenti sono gli indugi dell ’autore sugli aspet-ti della decomposizione come «sfegurada» (I.4.8), «e [’n] niente è tornada, le cosse e le çunture e lo co-stado» (I.5.3-4); i vermi e gli altri animali repellenti (rospi, draghi, serpenti e scorpioni) che martoriano il corpo dei morti sono invece nominati tra le pene dell ’inferno e del purgatorio (I.32.-2, 34.-2 e 40.7; II.25.6, 28.6, 30.7 e 3.8, III.3.5, 22.4, 28.-2 e 5-7). Analoghi elementi si trovano anche nel Detto cam-pano: «so tornatu lurdura – li vermi me so’ segno-re» (v. 4).

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per descrivere la decomposizione del papa cadavere: più garbatamente reticen-te il son. 2 v. 3 disfatta figura, più esplicito il son. v. 3 e vista d’omo no mostri e figura e – soprattutto – v. 7 da vil animal tu sè or pastura (che traduce quasi al-la lettera De miseria III IV 3: «mortuus [scil. homo] vermes plurimos impin-guabit»).23 Sul piano letterario, questi aspetti si realizzano nell’horror avver-tito dai vivi alla sola vista delle turpi condizioni dei morti; questo ingrediente topico24 si rinviene anche nell’impasto di almeno due dei sonetti qui esamina-ti entro una coppia di versi che sembrano dialogare strettamente tra loro, uni-ti anche dalla parola-rima paura: son. v. 2 se tanto ad ogli oma’ che fai paura e son. 2 v 7. per Dio, mie vista ti metta paura.

Se molto evidente è la linea tematica che intercorre tra il son. e il son. 2, non meno clamorosa è l’affinità che lega il son. 2 con il son. 3, cioè la condi-zione che si verifica materialmente all’interno del testimone FN. Come è sta-to notato già da Franco Suitner e – con argomentazione più approfondita – da Sandro Orlando,25 i due sonetti contengono molti elementi che rimandano al linguaggio epigrafico e, specificamente, a quello delle iscrizioni sepolcrali. Più palesi e meglio studiati sono gli elementi propri dell’epitaffio che si rinvengo-no nel son. 2: immediatamente nei vv. -3 (O tu che per la via del mondo vai / ed hai voler di gloriosa ventura, / resta e vedi me, disfatta figura) si trova un’inter-pretazione tipica dell’apostrofe al viandante, qui sul modello virgiliano del «Si-ste gradum», che, parallelamente ad una larghissima diffusione nelle scritture esposte, ha conosciuto cospicua fortuna letteraria, anche con esempi straordi-nariamente illustri come la vigorosa allocuzione di Farinata a Dante nel «cimi-tero» degli eretici (Inf. X 22-24) o, su un piano diverso, i primi versi della boc-cacciana Elegia di Costanza.26 Sempre nel son. 2, per ben due volte, è sviluppato anche il tema – connesso strettamente con il precedente – dell’«Es nunc quod fueram»: ai vv. 5-8 (Quello ch’ i’ sono, essendo, no ’l pensai / di divenir cotanta co-sa scura:/ per Dio, mie vista ti metta paura / pensando quel che sè e che sarai!) e 2-4 (Quello ch’ i’ sono non poté fuggire. /Tu uom che sempre vuogli esser maggio-

23 INNOCENZO III, De miseria humane conditio-nis, p. 80. Molto più incerto è invece il caso di infuso dentro nella terra (forse ‘lasciato a marcire’) del son. 3 v. 3, di cui si dirà più avanti.24 Nei poemetti francesi pubblicati da GLIXEL-LI 94, si veda l ’uso di paour nei contesti di I.27-35, II.25 e IV.3. Sul versante italiano, nell ’Atrovare del

vivo e del morto: «spaurosa» (I.4.8), «vegne una gran paura» (I.5.6), «tremore» (II.4 e III.36.3), «trema-xon» (III.36.4); nel Detto campano, il concetto ri-torna invece ai vv. 9-2.25 SUITNER 983, pp. 49-50 e ORLANDO 204, pp. 26-8.26 BRANCA 958, p. 204.

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re, /pensa e vedi come de’ finire).27 Molto più sottile, ma già ben rilevata da Suit-ner, è invece la componente epigrafica del son. 3: in essa si verificano infatti le condizioni compositive dell’epitaffio sepolcrale previste da Boncompagno da Signa, secondo il quale all’elenco dei meriti terreni doveva sempre tener dietro una riflessione sulla vanitas e sul disprezzo del mondo: «fiunt enim epitaphia et dictantur carmina, quibus posteris ad memoriam reducuntur magnitudi-nes et merita defunctorum et semper in fine sit mentio de contemptu mun-di».28 Come è evidente, gli elementi individuati da Boncompagno si ravvisano con chiarezza nel sonetto: i merita e le magnitudines di Bonifacio (nel conte-sto, ovviamente, di segno negativo) sono espresse nella lunga campata dei pri-mi 2 versi nei quali è riassunto il curriculum politico-diplomatico del papa nel-la grande partita tra Francia, Inghilterra e Impero, nei suoi interventi ambigui e distruttivi verso Firenze e il Meridione d’Italia e nella drammatica “crocia-ta” contro i Colonna;29 negli ultimi due versi è svolto infine il tema della vanità della gloria dopo la morte. In questa prospettiva, non stupisce nemmeno il fat-to che i riconoscimenti terreni del pontefice siano espressi solamente sul pia-no della politica; se è vero, infatti, che sembrano più frequenti i casi in cui i me-rita mondani elencati nelle iscrizioni sepolcrali dei papi e dei grandi dignitari di Curia riguardino le virtù morali, la saggezza, la perizia nelle discipline colti-vate in vita (principalmente il diritto), l’erudizione o l’eloquenza,30 non manca-no tuttavia esempi in cui i trionfi dei maggiorenti della Curia sono espressi sul piano politico e militare: è appena il caso di menzionare la lapide del più gran-de decretalista del Duecento, Guglielmo Durand († 296), nella quale, ancora

27 ORLANDO 204, pp. 26-8: oltre alla biblio-grafia allegata a questo saggio, si veda, sul tema del-l ’apostrofe al lettore, l ’ampia trattazione erudita di CONSOLINO 976 e i pochi ma eloquenti esempi di FAVREAU 997, pp. 45-46; sul trionfo della morte nell ’uso epigrafico medievale, KAJANTO 980, pp. 5-56 (con alcuni rilievi interessanti sui registri maca-bri del linguaggio alle pp. 52-53). Per un utilizzo del tòpos del ‘Siste gradum’ in ambiente papale prima di Bonifacio VIII, si confrontino i primi versi dell ’epi-taffio del cardinale Guglielmo Fieschi († 265) e di quello di Clemente IV († 268), entrambi pubblicati da GUARDO 2008, pp. 34 e 53.28 PETRUCCI 995, p. 76; si vedano, con esatto ri-ferimento al son. 3, SUITNER 983, p. 49 e, con in-teresse per questo aspetto del linguaggio epigrafico,

HERKLOTZ 985, p. 239, GUARDO 999, pp. 26-3 e GUARDO 2008, pp. 3-6.29 Il quadro storico è sunteggiato da ORLANDO 204, pp. 22-4, che si avvale dell ’utile SERIACO-PI 2003. Per un profilo generale ma esaustivo della complessa figura di Bonifacio e della sua azione po-litica in Europa tra fine Due e inizio Trecento, sono fondamentali DUPRÉ THESEIDER 97 e PARAVICI-NI BAGLIANI 2003. Per approfondimenti ed aggior-namenti bibliografici rimando sinteticamente ai cinque saggi del 2003 contenuti in Bonifacio VIII e dedicati alla politica interna ed estera di papa Cae-tani oltre che, ovviamente, a PARAVICINI BAGLIANI 200, ad indicem. 30 Se ne vada un’esemplificazione in GUARDO 999, pp. 27-28, ripresa in GUARDO 2008, pp. 3-5.

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prima dell’esaltazione per la sua sapienza nel giure, è ricordato per i suoi fieri successi durante la reggenza della Romagna: «[…] extitit infestus super ho-stes more leonis. / Indomitos domuit populos ferroque rebelles / impulit Ec-clesie victos servire coegit: / comprobat officiis. Paruit Romania sceptro / bel-ligeri comitis Martini tempore quarti» (vv. 7-).3 Se si prosegue la ricerca su questa linea, altri elementi convergono a svelare il modello epigrafico del son. 3 o, almeno, un tentativo di forte mimesi con questo tipo di linguaggio: l’or-dito retorico del sonetto bonifaciano che si innerva sull’opposizione insanabi-le tra potere e non potere di cui si è detto sopra, sembra anch’esso costruirsi in-fatti su elementi propri delle formule sepolcrali, delle quali un esempio molto noto riconduce ancora alla corte di papa Caetani: così infatti recita il carme in-ciso sull’urna funeraria di Niccolò Bonsignori, potentissimo mercator della Ca-mera Apostolica morto attorno al 300: «In me cognosce, qui perlegis, quam breve posse / est hominis: potui, dum qui es, ipse fui. / Amodo nil possum, quia tantum pulvis et os sum, /sic tu nil poteris, quando sepultus eris» (vv. 3-6).32 Versi questi che non solo si esprimono nel modo e nella forma del son. 3, ma che sembrano anche compendiare i temi che si sono visti come costituenti la trama dell’intera terna.

La componente sepolcrale che si è finora discussa solo sul piano compositi-vo pare trovare riscontro anche in un dato espresso dalla tradizione del son. 3 che allude esplicitamente ad un epitaffio ma che crea, d’altra parte, un ulteriore problema nel trattamento di questi sonetti: come si dirà in modo più circostan-ziato qui al punto 7, due dei manoscritti trecenteschi che lo riportano (Ch e I, del tutto affini e riuniti nel gruppo k) premettono al testo la rubrica: «Verba infrascripta (Ch inscripta) post mortem pape Bonifacii poita (Ch poīta) fue-runt supra tumulum eius». L’indicazione – in ragione anche delle due varian-ti che la interessano – non è perspicua: non è chiaro infatti, secondo la versione a disposizione dei due copisti, in che modo i versi siano stati scritti (o collocati) sulla tomba papale e cioè se si alluda ad un’iscrizione lapidaria reale, ad un te-sto d’occasione semplicemente appoggiato sul tumulo (accettando una lettura po(n)ita per Ch e seguendo in qualche modo la pista dell’intonazione pre-pa-squinesca del sonetto sostenuta da Giulio Santangelo)33 o, infine – se è valida

3 GARMS - SOMMERLECHNER - TELESKO 98-94, II, p. 97 § 27; traduzione e commento in GUARDO 2008, pp. 2-24. Per un esempio più antico, si veda MONTINI 957, p. 46.

32 GARMS - SOMMERLECHNER - TELESKO 98-94, II, pp. 36-37 § 6 e GUARDO 2008, pp. 35-45.33 SANTANGELO 965.

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la variante poìta di I, grecismo già sdoganato da Dante – a dei versi concepi-ti o composti nella cappella funeraria di papa Ceatani. Se, ragionevolmente, nulla si può dire di certo sulla seconda e sulla terza possibilità, anche la prima ipotesi sembrerebbe da escludere: infatti, anche se questo complesso funera-rio, fatto costruire da Bonifacio dentro la basilica vaticana nel 295 con gli in-terventi di Arnolfo di Cambio e di Jacopo Torriti, è stato smontato all’inizio del XVII secolo durante il lavori di riassetto della basilica vaticana e disper-so nelle sue varie componenti, non si ha notizia di un’epigrafe funeraria dedi-cata a papa Caetani né da elementi archeologici né dalle fonti antiche.34 Di un epitaffio di questo genere non fanno menzione i visitatori trecenteschi come Sigfrido di Balhausen († 308) che pure hanno lasciato una precisa descrizio-ne del sacello;35 non lo notano gli eruditi cinquecenteschi come Tiberio Alfa-rano o il Ciaconio che hanno tuttavia dedicato qualche attenzione al monu-mento;36 non compare nei due dettagliati acquerelli commissionati a Domenico Tasselli di Lugo dal Capitolo vaticano per documentare lo stato della cappella di Bonifacio VIII prima del suo smembramento; non lo ricorda infine Giaco-mo Grimaldi, lo scrupoloso notaio che nell’ottobre del 605 stese il rendiconto dell’ispezione al tumulo papale prima della sua dissacrazione e del suo sman-tellamento.37 Se pare, almeno fino a prova contraria, poco probabile il riferi-mento ad un reale epitaffio dedicato a Bonifacio VIII, non si può d’altra parte escludere (ma è molto improbabile) che l’indicazione dei due copisti trecente-schi sia il prodotto di un cortocircuito nel quale entra in gioco un’altra epigrafe pontificia, la cui storia si intreccia con quella del tumulo del Caetani. Come è noto infatti, Bonifacio VIII fece costruire il proprio sacello nel luogo dove sor-geva quello di Bonifacio IV (608-65), il papa santo a cui il Caetani aveva voluto legare la propria memoria: nelle complicate opere di rifondazione della cappel-la sepolcrale (conclusesi entro il 6 maggio del 296, data della solenne consacra-zione del complesso monumentale), il pontefice regnante aveva fatto rimuovere

34 Le vicende del sacello bonifaciano, sia sotto l ’aspetto storico-artistico sia sotto quello archeolo-gico, sono esattamente ricostruite da MACCARRO-NE 99; importati interventi su questo monumen-to sono in LADNER 94-84, II, pp. 302-3, MONTINI 957, pp. 6-8 e GARDNER 992, p. 57 (per altra bi-bliografia recente, rimando alle voci raccolte in PA-RAVICINI BAGLIANI 200, pp. 225-26, §§ 828-38).35 SIGFRIDUS DE BALNHUSIN, Compendium histo-

riarum, p. 72.36 Rispettivamente in ALFARANO, De basilicae Va-ticanae antiquissima et nova structura, pp. 65-66 (con le note di commento ad loc.) e in CHACÓN, Vitae, II, p. 30.37 GRIMALDI, Descrizione, dove si trovano anche le riproduzioni dell ’Album pittorico di Tasselli; si ve-da anche, per un preciso inquadramento di questi dati, MACCARRONE 99, pp. 23-35.

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e collocare in altra sede l’iscrizione del VII secolo dedicata all’omonimo prede-cessore, i cui versi, effettivamente, sembrano allinearsi al modello del disprezzo per il mondo dei sonetti qui in esame.38 L’antica epigrafe era – nonostante i suoi spostamenti – un modello letterario autorevole ed imitato: copiata nei mano-scritti anche dai pellegrini stranieri,39 doveva essere ben nota ancora alla fine del Duecento se, come pare, fu fonte di ispirazione per il celebre Doctrinale car-men di Bonaiuto da Casentino, dedicato alla sepoltura del Caetani e sul qua-le si tornerà più avanti.40 D’altra parte, nonostante l’innegabile analogia tema-tica, troppo deboli sembrano le linee che congiungono la veneranda lapide con i sonetti bonifaciani per sostenere la possibilità di un contatto diretto. In con-clusione, mancando (almeno per ora) elementi che permettano di valutare sto-ricamente l’affermazione delle rubriche di Ch e I e, come si dirà, non essendo raggiungibile con certezza una loro collocazione stemmatica tale da misurarne il rango genealogico (e, quindi, l’autorevolezza), sarà necessario sospendere il giudizio sulla veridicità di questa informazione. Potrebbe infatti anche darsi il caso più banale – reso tuttavia ancora più verisimile dalla tendenza all’innova-zione che si vedrà propria di questi due manoscritti – che la notizia espressa da queste rubriche sia soltanto una ricostruzione per autoschediasma dovuta a un copista, una sorta di razo dedotta dall’intonazione e dal contenuto del sonetto del quale era stata facilmente intuita la componente epigrafica.4

4.

Individuate in questo modo le direttrici tematiche lungo le quali si è sviluppa-ta l’elaborazione poetica dei tre sonetti bonifaciani, è possibile a questo punto tentare di descrivere alcune loro caratteristiche peculiari per meglio lumeggia-re i profili di questo episodio minimo ma interessante della poesia del Trecen-to e per provare a riconoscere le coordinate culturali e le intenzioni dell’auto-re (o degli autori) di questi testi. La tradizione manoscritta, se in alcuni casi è

38 Il versi della lastra, ora perduta, sono stati tra-scritti da Pietro Mallio e si leggono in MALLIO, De-scriptio, pp. 40-02 (si veda anche PETOLETTI 200, p. 400 n. 88).39 MACCARRONE 99, p. 209 n. 0.40 Il testo del carme (VIII) è edito criticamente da PETOLETTI 200, pp. 429-30, che discute i possibi-

li influssi dell ’epitaffio di Bonifacio IV alle pp. 400-0 appoggiandosi anche all ’opinione di MACCARRO-NE 99, p. 22.4 L’indicazione della rubrica è senz’altro ritenuta «perlomeno fantasiosa» da ORLANDO 204, p. 28 n. 26.

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utile ad una datazione abbastanza precisa dei sonetti (almeno per quanto ri-guarda il son. e il son. 3, tra il 303 – data della morte di Bonifacio – e la me-tà del secolo, cioè alla morte di Niccolò de’ Rossi la cui mano interviene sul fa-scicolo del ms. B che li attesta), pochissimo soccorre al riconoscimento della personalità dell’autore: è solo il codice B che in rubrica riconduce la paterni-tà dei sonn. e 3 al nome di «Butto messo», al quale assegna anche il sonetto Alessandro lasciò la signoria, analogo ad essi sul piano tematico. D’altro canto, l’isolamento di questa attribuzione e le molte incertezze che gravitano intorno al nome di questo rimatore (l’antica proposta del Bilancioni di farlo coincidere con Butto Giovannini, come si è detto, pare tutt’altro che sicura)42 impongono, almeno per ora, di sospendere il giudizio sulla paternità di questi testi.

Se nulla di esatto si può dire circa l’identità del loro autore (o, al limite, dei loro autori), molti elementi interni a questi sonetti permettono tuttavia di ri-costruire con una certa precisione l’ambiente culturale nel quale è maturato questo esercizio poetico. È anzitutto evidente la distanza enorme, sul piano politico e letterario, che separa questi sonetti dai due precedenti poetici più il-lustri: Dante e Iacopone. Da una parte, nulla rimane infatti della violenta in-vettiva dantesca né delle ragioni profondamente politiche della condanna ri-volta contro chi, illegittimamente («usurpando»), aveva fatto «cloaca» della tomba di Pietro: nei tre sonetti, infatti, Bonifacio è soltanto il paradigma del-l’infezione morale del singolo uomo – la vanagloria con orizzonti unicamente terreni – e non si avverte nessun riferimento alla simonia, contagio endemico della Curia additato da Dante come causa incancrenita della corruzione della Chiesa. Dall’altra, non si percepiscono più i toni asperrimi della “epistola” ia-coponica LXXXIII (O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo) la cui requisi-toria si innerva sulla denuncia delle terribili colpe attribuite al papa regnante – nepotismo, disposizione allo scandalo, avidità, blasfemia, vanagloria – e che Franca Brambilla Ageno ha provato essere esattamente corrispondenti ai ru-mores diffusi dalla pubblicistica di parte colonnese.43 Come è ben noto, le tre-mende imputazioni avanzate da questo agguerrito fronte di oppositori, le cui prime mosse palesi risalgono almeno al maggio 297,44 defluirono in quell’epi-sodio di dimensioni europee che fu il processo post mortem contro Bonifacio VIII. Intentata congiuntamente da Filippo IV di Francia e dal partito dei Co-lonna, questa causa durò per ben nove anni (303-3), durante i quali, a fa-

42 Si veda anche la n. 0.43 AGENO 964, p. 374 e PIO, 2007.

44 Il testo del celebre “manifesto” di Lunghezza è edito ora in COSTE 995, pp. 32-42.

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si alterne, si discusse sulla legittimità del papato di Bonifacio e sulle accuse di eresia che erano state più volte avanzate sul suo conto. Il potente apparato ac-cusatorio affiancava però a questioni prettamente giuridiche e dottrinali (re-lative quindi all’integrità della funzione pontificia del Caetani) un poderoso fuoco di fila di imputazioni dirette alla persona, non solo mirate alle intempe-ranze caratteriali e sessuali, ma anche, e con una certa compiaciuta insistenza, ad aspetti per così dire “neri”, come l’adorazione degli idoli, la magia e la con-sultazione delle potenze infernali; letteralmente un processo di “demonizza-zione” che ora, dopo lo stupendo lavoro di Jean Coste, si conosce come pon-derata costruzione di parte colonnese e della cui gestazione si sentono gli echi nella potente immagine iacoponica del trono pietrino spostato da Bonifacio nella biblica sede dell’Anticristo: «da parte d’aquilone» (vv. 47-52).45

Nei tre sonetti qui in esame mancano, come evidente, tutti questi elementi: e non solo quelli più sconvenienti e diabolici, ovvero quelli più sottilmente dot-trinali e relativi alla legittimità e alle accuse di eresia, ma anche quelli più vul-gati e pertinenti al traffico delle cose sacre o all’inesausta attività di favoreg-giamento familiare. E, insieme ad essi, vien meno anche la violenza verbale e l’aggressività dei due illustri modelli. Ciononostante, chi ha scritto questi so-netti, non è del tutto a riparo dalla forza d’urto della polemica antibonifacia-na, dalle cui onde di propagazione è lambito probabilmente in modo indiretto ma del cui influsso – ancorché scaricato dell’energia originaria – restano alcu-ne spie. Una delle principali accuse rivolte a Bonifacio (e forse propriamente) era quella di non promuovere la pace tra i cristiani, peccato orrendo per il vica-rio di Cristo: «Item, contra speciale legatum Christi, factum suis propriis filiis, dicentis “Pacem relinquo vobis”, veniens, toto posse pacem impedit inter Chri-stianos et discordias et guerras nititur seminare».46 Questa nefanda imputa-zione, che molto dovette impressionare i contemporanei (basti, ad illustrarlo, il rossore di Pietro in Par. XXVII, 46-5), ricompare infatti, seppure non in ter-mini di accusa ma adombrata tra i merita politici di Bonifacio, nei vv. 3-2 del son. 3. La lunga lista di imprese mirate alla preminenza sui principi della terra,

45 Grazie alle benemerite fatiche di COSTE 995, che ha messo a disposizione degli studi tutta la do-cumentazione nota prodotta intorno a questa azio-ne giudiziaria dal 297 al 32, è possibile ora avere un’idea chiara dell ’immagine di Bonifacio veicola-ta dai suoi nemici verso l ’opinione comune. L’indice degli oltre 250 capi d’accusa (pp. 9-20) è stato poi

opportunamente commentato da PARAVICINI BA-GLIANI 2003, pp. XIII-XX. Lucide analisi sul conte-sto e sulle misure di questa polemica sono proposte da CAPITANI 200 e PIO 2002, mentre una precisa valutazione delle sue ricadute letterarie è offerta da DE MATTEIS 2003.46 COSTE 995, p. 50 [= B 20].

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evidentemente basate sulla strategia della divisione e del terrore (di me dottaro ed ebbonne paura v. 4) e concluse dall’eloquente ad ogne potente mi fe’ ubidire (v. 2), rispondono esattamente ad una voce fatta circolare dai suoi avversari e co-sì declinata nella memoria processuale di Pietro Colonna del 306: «Item pro-babitur quod ipse Bonifacius dicebat: “Si inter reges et principes mundi non est discordia, papa Romanus non potest esse papa. Sed si inter eos discordia, tunc est papa et quilibet timet ipsum, unus prae timore alterius, et ipse domi-natur eis set facit quicquid vult”».47 È particolarmente interessante, inoltre, che in questa medesima relazione vengano progressivamente evocati – ovviamente dal banco dell’accusa – quasi tutti i “potenti” nominati nel sonetto: oltre al re di Francia, parte in causa nel processo, sono sistematicamente denunciati i ma-neggi di Bonifacio e l’ambiguità della sua politica nei confronti della Germa-nia e dell’Impero [H 60, 70-72], della questione siciliana [H60, 67-69], del regno d’Inghilterra [H 60, 62], delle Fiandre [H 64-66] e della guerra con-tro i Colonna [H 7, 75]. Se è facile riconoscere l’origine ideologica e politica di questa componente del sonetto, è d’altra parte molto improbabile che l’auto-re si sia servito direttamente delle fonti processuali, che pure dovevano essere ben diffuse dalla pubblicistica colonnese, come dimostra il caso provato di Ia-copone. Chi ha scritto questi sonetti avrà più facilmente avuto accesso a que-ste notizie tramite la lettura dei testi di cronaca o degli annali: molto probabil-mente fonti specifiche e dettagliate come Giovanni Villani,48 ma forse anche autori che di Bonifacio di sono occupati in maniera meno diretta come Dino Compagni. Di una possibile memoria dell’opera di quest’ultimo sembra infat-ti essere testimonianza la lezione accesi guerra al v. del son. 3: l’espressione, estremamente rara almeno in volgare, si ritrova infatti un uno dei rari passaggi della Cronica diniana dedicati a papa Caetani: «Della sua morte [scil. di Boni-facio] molti ne furono contenti e allegri, perché crudamente reggea, e accendea guerre, disfaccendo molta gente e raunando assai tesoro» (II 64).49 Una situa-

47 COSTE 995, p. 297 [= H 74]; nella medesi-ma memoria, il Colonna ritorna più volte su questo aspetto: H 69, 75-77.48 Come è noto, Giovanni Villani dedica quasi per intero il libro IX della sua Cronica agli anni com-presi del regno di Bonifacio VIII, non solo trattan-do i complessi rapporti del papa con Firenze ma il-lustrando largamente anche la sua azione politica nei confronti potenze europee. Si vedano qui anche le note 5, 55 e 03.

49 COMPAGNI, Cronica, p. 8 (con l’ottima nota di commento a p. 300). Scarsissimi sono gli altri esem-pi trecenteschi di questo sintagma, e mai esatta-mente corrispondenti a questo uso: se ne vedano, tra i pochi altri, i casi in Guittone («unde accese son le guerre»: GUITTONE, Rime, p. 273, son. 248 v. 9) e in Antonio Pucci («onde tra loro gran guerra s’acce-se», Centiloquio, cap. 3; ed. DI SAN LUIGI 772-75, III, p. 92).

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zione affine si verifica anche per le ribadite affermazioni sulla pienezza del po-tere papale in spiritualibus e in temporalibus affidate ai vv. 9- del son. 2, con l’espressione intensa del mondo signore (v. ) e l’impressionante dittologia pa-pa imperatore (v. 9). Sono questi, ovviamente, aspetti caratterizzanti e pecu-liari della teoria politica bonifaciana, perseguita anche con uno straordinario apparato iconografico e rituale palesemente improntato sull’imitatio imperii:50 stupisce ancora il lettore moderno, d’altra parte, l’insistenza su questo aspet-to – ovviamente declinato in negativo – con cui essa ritorna nella documenta-zione processuale nella quale, ancora nella memoria di Pietro Colonna, si tro-va una formulazione di fatto identica a quella del v. : «quicqumque est papa, est dominum omnium spiritualium et temporalium et est dominus mundi», espressione a quanto pare – anche se apparentemente generica – del tutto in-frequente in contesti di questo genere.5 Anche in questo caso, si riconosce sen-za difficoltà la dimestichezza dell’autore con i testi di cronaca che, ancora una volta, offrono dei paralleli puntuali e pregnanti: come aveva già potuto notare il Del Lungo infatti,52 l’esatta espressione papa imperatore sembra la sintesi con-cettuale di un episodio molto famoso all’epoca, avvenuto a Rieti nel 298 du-rante un ricevimento papale al quale erano presenti gli ambasciatori di Alber-to d’Asburgo. Secondo le versioni trecentesche di Francesco Pipino e Paolino Pieri, Bonifacio si sarebbe presentato ai diplomatici tedeschi seduto sul trono in armi e cinto della tiara (nominata espressamente «diadema Constantini»), pronunciando, con la spada in pugno, le memorabili parole (qui nella versione di Pipino): «Numquid ego Summus Pontifex? Nonne ista est Chatedra Petri? Nonne possum Imperii iura tutari? Ego sum Caesar: ego sum Imperator».53

50 Per una chiarissima disamina di questo aspet-to del pensiero bonifaciano (e dei suoi predecessori) rimando senz’altro a PARAVICINI BAGLIANI 996. Per quanto riguarda l ’aspetto iconografico e ritua-le, si vedano PARAVICINI BAGLIANI 994, pp. 39-33, PARAVICINI BAGLIANI 998, pp. 6-84 e PARAVICINI BAGLIANI 2003, pp. 280-302.5 COSTE 995, p. 279 [= H 46]; alla n. 5 della stessa pagina lo studioso afferma che questa formu-lazione non ricorre né nei documenti della Curia né in nessun atto ufficiale emesso da Bonifacio.52 DEL LUNGO 899, p. 322.53 PIPINO, Chronicon, col. 745 D, che ripete lo stes-so episodio già narrato, quasi esattamente negli stes-si termini, a col. 739 A. Nella narrazione del Pieri

sembra trattarsi invece di una sorta di autoincorona-zione: «in presença de’ cardinali, si mise la corona a ssé medesimo et in più lettere scrisse ad memoria[m] in proemine così: “Bonifaçius episcopus servus ser-vorum Dei et eiusdem omnipotentis gratia romanus inperator et senper a[u]guste”» (PIERI, Croniche, p. 84, dove auguste del manoscritto potrebbe forse esse-re corretto in augustus). Il fatto è narrato anche nel-l’Historia di Ferreto da Vicenza (FERRETI, Historia, I, pp. 32-34, in una redazione simile a quella di Pi-pino ma mancante della dichiarazione imperialista di Bonifacio) e nel Compendium di Riccobaldo da Ferrara (RICCOBALDO, Compendium, II, p. 750). Su questo episodio, COSTE 995, p. 279 n. 5 e, soprattut-to, PARAVICINI BAGLIANI 2003, pp. 89-9.

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Non nemico scoperto della memoria bonifaciana dunque, ma certo nem-meno suo partigiano, l’autore – o gli autori – di questa triade di rime si colloca su quella linea mediana, in parte perseguita dai cronisti e caratteristica degli scrittori pienamente trecenteschi,54 in cui il giudizio nei confronti di Bonifa-cio VIII permane certamente negativo (o almeno ambiguo tra ammirazione per la sua grandezza e detestazione per le sue intemperanze)55 ma in cui non si avvertono ormai più gli odi di parte e la violenza verbale degli strenui avver-sari della prima ora. Nei tre sonetti, la valutazione storica e politica passa in-fatti in subordine rispetto al tema ascetico e gnomico: le esatte coordinate bel-liche e politiche sciorinate a mo’ di lista dal son. 3 (vv. -2) sono sì irraggiate, come si è detto, dai bagliori del violento scontro sulla memoria di Bonifacio, ma servono qui – prive di veemenza espressiva e di condanne esplicite – quasi da malinconico fondale sul quale viene fatta risaltare la sproporzionata poten-za terrena del papa prima che fosse irrimediabilmente annullata dalla morte. Scariche di aggressività e di verve polemica sembrano persino, in questa luce, le pressanti interrogative retoriche del son. (vv. 5-4) modulate in larga par-te sul modello dell’Ubi sunt? nelle quali il registro meditativo e l’andamento pensoso e introspettivo prevalgono sul sarcasmo e sul sogghigno sardonico. La scelta di centrare su Bonifacio un sistema di rime sulla transitorietà della glo-ria risulta così priva di implicazioni politiche e pare piuttosto dettata dalla ne-cessità di individuare un emblema del potere assoluto ancora presente alla me-moria dei contemporanei, certo più efficace che le impersonali silhouettes degli antichi magnanimi evocati in componimenti analoghi. Di un’operazione simi-le si ha traccia anche in un altro sonetto anonimo, forse già quattrocentesco, nel quale i profili di Bonifacio VIII e di Celestino V vengono impiantati (un po’ duramente) nella consueta teoria dei grandi del passato: dell’uno la morte ha cancellato «la gran memoria», dell’altro, all’opposto, «il suo fuggir monda-na vanagloria».56 In questo testo (che mostra anche qualche analogia formale con i tre sonetti tale da far sospettare un bacino più ampio di composizioni in

54 Una rassegna molto precisa dei luoghi letterari è in MAZZANTI 2006 che analizza spassionatamen-te il punto di vista degli autori contemporanei o im-mediatamente successivi all ’età di Bonifacio.55 Eloquente è lo schizzo che di lui traccia Gio-vanni Villani: «era superbo e dispettoso, e ardito di fare ogni gran cosa, come magnanimo e possente

ch’egli era e si tenea» (VILLANI, Nuova Cronica, II, p. 3).56 Il sonetto De[h], di Nembrot ov’è il gran potere (cit., seppure con una piccola svista, anche da OR-LANDO 204, p. 26) è edito in BETTARINI BRUNI 2002, pp. 338-39.

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rete tra loro)57 la figura di Bonifacio risulta però decisamente priva di profon-dità, come un medaglione di serie nella galleria degli antichi, ben diversa da come appare, isolata e rilevata, nei casi qui in esame.

La presenza esclusiva e connotata di Bonifacio VIII entro componimen-ti poetici che riflettevano sulla vanità del mondo era, d’altra parte, tutt’altro che inedita già alla fine del Duecento anche se il suo trattamento letterario mostra accenti ben diversi da quelli che si rinvengono nei tre sonetti: sicura-mente precedente ad essi è infatti il carme VIII del Diversiloquium di Bonaiu-to da Casentino, composto attorno 296 «in laudem domini Bonifacii», quan-do il pontefice stava facendo costruire la propria cappella sepolcrale.58 Affine ai tre sonetti in alcuni elementi formulari, tuttavia troppo scarsi per poterlo con-siderare un modello diretto,59 il dotto carme esametrico sviluppa però il tema del disprezzo per l’«applausum fragilis vite» (v. 2) muovendo da un elemento occasionale: il lettore è qui esortato a elevare lo sguardo dalla precaria dimen-sione terrena sull’esempio di Bonifacio che, «vigil arbiter orbis / nec non terre-nus eterne claviger aule» (vv. 2-3), aveva rivolto un precoce pensiero alla mor-te, ordinando, ancora vivo, l’erezione della propria sepoltura. Diversamente da questo raffinato carme in cui il motivo ascetico viene modulato nella tonali-tà dell’elogio verso il papa regnante (perfettamente in linea con la provenienza curiale di Bonaiuto, cappellano pontificio e poeta della corte caetanesca), i tre sonetti insistono invece in maniera più diretta sulla fugace caducità degli ono-ri terreni e sull’annullamento che la morte produce in colui che troppo confida nella gloria durante l’esperienza mondana.

Sfruttare retoricamente dunque la figura di un papa per costruire, in for-te contrasto con il suo comportamento dentro la storia, una riflessione poeti-

57 Più che alla struttura di interrogative sul tipo dell ’Ubi sunt?, propria anche del son. , molto più notevole mi sembra il primo emistichio del v. 9 Di Bonifazio che replica la condizione già notata qui a p. 02 per tutti e tre gli altri sonetti, per di più al medesimo verso nei sonn. e 2.58 PETOLETTI 200, pp. 429-30.59 Oltre alle evidenti componenti epigrafiche del linguaggio, pare registrarsi convergenza anche sul topos del cadavere roso dai vermi (vv. 7-8 del car-me: «te vermibus escam / sponte para» del carme e v. 7 del son. : Da vil animal tu sè or pastura). Secon-

do MACCARRONE 99, p. 22, inoltre, in alcuni ver-si del carme l’autore si sarebbe compiaciuto di «ce-lebrare l’azione politica di Bonifacio VIII rivolta a ricondurre la pace tra i re (si riferisce ai tentativi di pace tra i re di Francia e d’Inghilterra), o giungere perlomeno a tregue (riferimento all’Italia) e perse-guire il grande programma papale della Crociata»; se così fosse (ma i riferimenti sicuri sono veramente fragili) sembrerebbe possibile anche istituire un con-fronto – seppure nella chiave di un ribaltamento – con i vv. -2 del son. 3.

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ca sul trascorrere effimero del mondo, doveva già essere di per sé significativo per un membro della societas christiana del Trecento che aveva già da tempo ri-tualizzato il richiamo all’umiliazione per i successori di Pietro. Da almeno tre secoli, infatti, nella cerimonia di incoronazione, mentre venivano fatti brucia-re dei fascetti di stoppa, l’officiante ripeteva al nuovo pontefice la formula dive-nuta poi proverbiale: «Sancte Pater, sic transit gloria mundi».60 A maggior ra-gione questo contrasto doveva risultare incisivo con Bonifacio che, più di ogni altro prima di lui, aveva perseguito una politica fortemente centrata sulla per-sona del papa e sulla sua immagine (terrena e, a tratti, imperiale) che il ponte-fice comunicava visivamente ai contemporanei attraverso un ben calcolato pro-getto iconografico mirato a far coincidere inequivocabilmente la figura umana del papa con l’emanazione del potere civile e religioso.6

Tale strategia per immagini e simboli, come è ben noto, fu sfruttata da Bo-nifacio anche per rappresentare la sua posizione circa i rapporti tra la potestas papae e la sua estensione dopo la morte del pontefice, interpretando in manie-ra singolarissima le complesse linee del problema – dottrinale e politico insie-me – che nel Medioevo investiva il “corpo del papa”. A differenza del re, infat-ti, a cui – come ha dimostrato Ernst Kantorowicz – erano riconosciuti due corpi (quello naturale, caduco, e quello “mistico”, immortale e che sopravvive-va nel regno), il papa ne possedeva uno soltanto, cioè quello naturale che mo-riva con lui. Ciò che rimaneva – come ha sintetizzato esattamente Reinhard Elze – non era quindi la dignitas, intimamente legata alla sua persona viven-te (e che quindi restava vacante fino all’elezione del nuovo successore di Pie-tro) bensì «Cristo […], la chiesa romana, la sede apostolica»; e non il papa.62 A questo delicato concetto di eternità del pontefice e della sua figura sembra al-ludere, e non troppo velatamente, l’audace progetto iconografico che Bonifacio pensò per il proprio mausoleo, fatto situare nel luogo più rappresentativo della cristianità, la basilica vaticana: infatti, oltre alla consueta statua giacente col-

60 Sui riti con cui si simboleggiava la caducità e la transitorietà della persona del papa, si veda ELZE 977, p. 40 e PARAVICINI BAGLIANI 994, pp. 6-8.6 Si veda in proposito PARAVICINI BAGLIANI 2003 p. 335. Come è ben noto, questa caratteristi-ca della politica di Bonifacio VIII fu sfruttata dai suoi avversari per costruire un’efficace accusa di cul-to della personalità e di induzione all ’idolatria (si veda, ad indicem, COSTE 995, p. 93 §§ 32-2.2). Sul

piano strettamente storico-artistico, la più ricca di-samina dei ritratti bonifaciani è raccolta in LADNER 94-84, II, pp. 286-340.62 ELZE 977, p. 36; da questo saggio prende di-chiaratamente (pp. XV-VI) ispirazione PARAVICI-NI BAGLIANI 994, che costituisce la più completa trattazione sull ’argomento; una sezione apposita di questo volume, posta in epilogo (pp. 39-48), è dedi-cata specificamente a Bonifacio VIII.

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locata sul coperchio del sarcofago, il Caetani fece collocare – in posizione dia-logante con essa63 – un busto con il proprio ritratto da vivo, con il triregno in capo e le chiavi di Pietro in mano, «la prima immagine di un papa ancora vi-vente posta presso la propria sepoltura ed […] anche la prima, documentata ed identificabile, a essere posta in una chiesa».64 Sia la statua del gisant, che a dif-ferenza di altri esempi di scultura sepolcrale coeva non riproduce i tratti sfat-ti dalla vecchiaia e dalla sofferenza ma possiede una «calma classica che vince la morte» (così Gerhart Ladner),65 sia il busto trionfale sembrano chiaramente avere la funzione ideologica di far aggettare oltre il limite della fine biologica la persona di Bonifacio – riconoscibilissimo nei suoi tratti fisionomici –, non solo nella sua figura umana, ma anche nell’immagine della pienezza del pro-prio ufficio. Questa rappresentazione dovette risultare temeraria e scandalo-sa già agli occhi dei contemporanei: come si sa, infatti, fra’ Dolcino da Novara, in una lettera del 303 citata dall’inquisitore Bernardo Gui, paragona Bonifa-cio al proposto del Tempio di Gerusalemme, «qui fecit sibi fieri monumentum et imaginem supra petram sicut esset vivam».66

Gli effetti di questa straordinaria tensione tra vita e morte, tra corpo e fun-zione, tra tempo storico ed eternità incarnata da Bonifacio VIII e il perples-so (o indignato) attonimento che doveva suscitare nelle coscienze del suo tem-po sembrano raggiungere perfettamente l’immaginario di chi ha composto questi versi. L’autore di questi sonetti intercetta e restituisce attraverso la me-diazione poetica il sentimento diffuso che doveva essere percepito nella me-moria del pontefice, sfruttandolo per rappresentare letterariamente una medi-tazione esistenziale con l’emblema che meglio la esplicava. Anche nel cogliere e nel ritrarre questo aspetto, però, vengono evitati da chi scrive gli echi diret-ti delle murmurationes che, più o meno debitamente, dovevano correre sul con-to di Bonifacio e sul suo speciale intendimento del corpo e della sua mortalità. Non si trova in questi testi infatti nessun accenno alla diffamante accusa cir-

63 Secondo Sigfrido di Balhausen, «iuxta tumbam in pariete» (SIGFRIDUS DE BALNHUSIN, Compen-dium historiarum, p. 72); si veda anche MACCARRO-NE 99, pp. 233-34.64 PARAVICINI BAGLIANI 2003, p. 226; sulla sim-bologia legata a questa statua (soprattutto circa la tiara) rimando a PARAVICINI BAGLIANI 2009a.65 LADNER 94-84, II, p. 308 (utilizzo la traduzio-

ne di questo passo in PARAVICINI BAGLIANI 994, p. 32 e PARAVICINI BAGLIANI 2003, p. , dove si trovano anche notizie e bibliografia sulla scultura sepolcrale pontificia precedente a Bonifacio VIII).66 Essa è contenuta in GUI, De secta, pp. 7-36: 23 rr. 2-4, ed è citata in proposito da MACCARRONE 99, p. 228 n. 60 e da PARAVICINI BAGLIANI 994, p. 32.

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ca l’attaccamento del papa alla vita biologica a scapito delle cose spirituali, co-sì come la formulava Arnaldo da Villanova, suo medico personale (ma anche alchimista e, a quanto pare, studioso di teorie sulla rigenerazione del corpo e sul prolungamento della vita organica): «Papa enim non curat nisi de tribus et circa hoc totalis sua versatur intentio, ut diu vivat et ut adquirat pecuniam, tercium ut suos ditet, magnificet et exaltet. De aliqua autem spiritualitate non curat».67 Neppure, ad appendice di questo, si danno qui riscontri con le prati-che magico-alchemiche o con gli oggetti esoterici (amuleti e anelli talismani-ci) ai quali si diceva che Bonifacio ricorresse nella prospettiva un vagheggiato prolungamento della vita, elementi sui quali faceva invece leva, e in modo af-fatto esplicito, l’attacco di Iacopone: «Pensavi per augurio la vita perlongare» (LXXXIII 75).68 Da ultimo, se non forse per una velata allusione negli oscu-ri vv. 3-4 del son. (ov’è vertù de la tua intelligenza / ch’a l’alma no, ma a te è ita via?), mancano anche riferimenti diretti alla terribile accusa – certo la più pervasiva nel campo delle imputazioni dogmatiche – che gli avversari muove-vano a Bonifacio, cioè quella di non credere all’immortalità dell’anima e alla resurrezione dei corpi, in una sorta di nichilismo materialista portato a negare qualsiasi destino ultramondano, fosse esso la dannazione o la beatitudine.69

5.

Dopo aver esaminato (seppur lasciando qualche dubbio irrisolto) il contesto storico e culturale in cui è avvenuta la produzione di questi testi, è possibile a questo punto affrontare i tre sonetti sul piano testuale e tentare di proporne un’edizione, iniziando dai casi la cui tradizione – di fatto unica – non permet-te confronti con altri testimoni e si riduce ad un non sempre facile esercizio di critica congetturale.

67 Il testo è edito da FINKE 902, p. XXXI, ed è ri-preso da PARAVICINI BAGLIANI 994, p. 346 n. 26, il quale (pp. 335-38) commenta il passaggio e conte-stualizza sinteticamente i rapporti tra il medico ca-talano e il papa. 68 Su questo verso e i suoi rapporti con le accuse di indulgenza alla superstizione e alla magia si veda AGENO 964, pp. 389-90. Oltre a questo studio, si raccomandano PARAVICINI BAGLIANI 994, pp. 337-38 e PARAVICINI BAGLIANI 2003, pp. 259-75, che

forniscono alcuni particolari sulle pratiche di pro-longatio vitae e di cure corporali al limite tra medi-cina, astrologia e alchimia collegate dagli avversari agli ambienti della corte bonifaciana.69 Sono parecchie decine i punti individuati da COSTE 995 (si veda ad indicem p. 99 §§ 425-26) nei quali sono raccolte – più o meno tendenziosamente costruite o manipolate dai nemici – le voci dei testi secondo i quali, più volte, Bonifacio avrebbe espres-so questa posizione.

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Il primo di questi testi, Ahi, cosa fera, plena d’obscurtate [son. ], è collocato dal codice B a f. 73r, prima del son. 3 e del problematico Alessandro lasciò la si-gnoria di cui si è detto, tutti e tre rubricati dal copista sotto il nome di «Butto messo» (detto «da Florentia» solo in questo). Del tutto inutile alla fissazione del testo è la testimonianza dei due descripti B f. 95r e All66 p. 90 che repli-cano fedelmente B (chiamo B&c l ’accordo dei tre) introducendovi solo qual-che minima divergenza: entrambi omettono la prima di tua al v. 3 mentre il solo B legge nostri in luogo di mostri al v. 3; di difficile lettura, sempre in B, è la lezione è ita del v. 4 che, se non si tratta di un eccessivo prolungamento del taglio della ‘t’, potrebbe forse corrispondere alla lezione aberrante etta. Di-sponendo di fatto quindi solo della testimonianza di B, è anzitutto agevole ri-condurre a norma di endecasillabo alcuni versi eccedenti: i vv. e 4 si regola-rizzano introducendo le forme sincopate obscurtate e prospertate in luogo delle forme piene del manoscritto;70 il v. 7 arriva ad undici sillabe se si modifica ani-male in animal (molto meno oneroso e più prudente, data la attestazione sin-gola, di una eventuale ricollocazione di or dopo animale per consentire la si-nalefe); per il v. va ammessa poi dialefe in mistero avea (più probabile della dieresi avëa) e per il v. 3 diesinalefe in tuaˆintelligenza.

Se pochi interventi sono sufficienti a restaurare la coerenza metrica del so-netto, molto più complesso è restituire il significato di alcune sezioni. Il primo problema è costituito dal v. 2, sia per il significato della lezione adogli sia per i rapporti sintattici che lo legano agli altri componenti della prima quartina, con eventuali ricadute sulla seconda. Una prima ipotesi potrebbe essere avanzata ammettendo la lezione adogli come 3a sing. del rarissimo, ma non sconosciuto verbo «addogliare»:7 in questo caso l’articolazione sintattica si strutturerebbe in un ampio periodo ipotetico, la cui protasi sarebbe costituita dal v. 2 (comprensi-vo anche di una proposizione consecutiva) e dai vv. 3-4, ad esso legati per coor-dinazione, mentre l’apodosi andrebbe ricercata al v. 5. Il senso dei vv. -6 sarebbe di conseguenza questo: ‘Ahi, cosa orrenda, piena di oscurità: se dai tanto dolo-re all’uomo da fargli paura e non mostri sembianze umane e non pare che tu ab-bia nessuna felicità, sei forse tu quella gran maestà che volle superare ogni altra

70 Escluderei con un certa sicurezza, per questi versi, una rarità prosodica come quella data da en-decasillabi sovrabbondanti in cesura (cosiddetta “epica”) con indipendenza del primo emistichio qui-nario dal resto del verso, osservando le assai dovu-

te precauzioni raccomandate da MENICHETTI 993, pp. 86-87 e 69-72.7 Il corpus del TLIO registra solo quattro occor-renze di questo verbo, una delle quali in posizione di rima nel Canzoniere petrarchesco (XXIX 25).

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natura?’. Una seconda possibilità che preveda ancora il se del v. 2 come congiun-zione subordinativa e adogli come voce verbale potrebbe essere accampata valu-tando om come soggetto neutro “alla francese” e, soprattutto, intendendo adogli come forma settentrionale di «adocchiare», diffusa proprio in Niccolò de’ Rossi, responsabile dell’insieme costituito dal manoscritto B;72 in questo caso, ma con forte inarcamento delle proposizioni interne al verso, il che andrebbe inteso co-me pronome relativo e, integrando al limite una «a» in adogli‹a›, il significato del verso verrebbe a suonare in questo modo: ‘Ahi, cosa orrenda, piena di oscurità che fai paura se soltanto qualcuno ti adocchia ecc.’. Se entrambe queste spiega-zioni del testo sono legittime e ammissibili, è anche vero il fatto che esse creano strutture sintattiche non lineari, piuttosto lontane dalla tendenza media degli altri due componenti della terna che si articolano in periodi semplici, costrui-ti con membri dai rapporti tra loro prossimi e immediatamente riconoscibili. Di contro a queste, credo sia possibile avanzare una terza eventualità, conside-rando om del v. 2 come un errore di anticipo della lezione omo del v. 3. Ammes-sa questa possibilità, se si intende la prima parola del v. 2 non come congiunzio-ne ma come voce del verbo «essere» sè (forma, almeno sul piano grafico, comune tanto al toscano quanto al veneto del copista),73 se si scrive ad ogli separato e lo si intende non come predicato verbale ma come complemento di termine ‘agli oc-chi’ e si corregge infine om in oma’ (‘ormai’),74 il v. 2 così ottenuto – sè tanto ad ogli oma’ che fai paura –, darebbe senso complessivo perspicuo e sintatticamente fluido: ‘Ahi, cosa orrenda, piena di oscurità, sei ormai [scil. nel tuo stato di de-composizione] tanta cosa agli occhi che fai paura ecc.’.

Allo stesso modo, è difficile da sciogliere compiutamente il nodo costitui-to dai vv. 2-4: nel primo verso della terzina, le interrogative retoriche insisto-no sul destino del senno e della follia di Bonifacio, con un lessico non casuale, ma frutto probabilmente di una scelta ponderata da parte dell’autore. Il pri-mo, come detto sopra, è già proprio del lessico villaniano per contesti affini ed

72 Questo uso è registrato tre volte nel Rossi, nei sonetti 23 v. 8, 277 v. e 322 v. (rispettivamen-te in ROSSI, Canzoniere, I, pp. 49, 82 e 204; per un’annotazione linguistica sul fenomeno -CL- > -gl- nel codice B, ROSSI, Canzoniere, II, pp. 99-200).73 CASTELLANI 200 per il primo e ROSSI, Canzo-niere, II, p. 228 per il secondo.74 La forma tronca oma’ – preferibile per economia d’intervento alla forma intera – è attestata da una decina di occorrenze registrate nel corpus TLIO

per testi toscani (Guittone, Francesco da Barberino, Cino, Sacchetti) o veneto-toscani (Giovanni Qui-rini), tutto sommato non incoerenti con la prove-nienza e la cronologia di B. Ritengo questo emen-damento migliore rispetto all’altro possibile, cioè la interiezione omé!: pur in presenza di altre (Ahi v. , Deh v. 9) che deporrebbero per la sua legittimità, la troppa vicinanza tra questa e quella del v. creereb-be infatti un contesto eccessivamente singhiozzante per il registro stilistico medio del sonetto.

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echeggia il v. 0 del son. 2;75 il secondo, tradizionale antagonista dell’altro (si confronti almeno Tesoretto 60-2: «Chi ha la lingua adorna, / poco senno gli basta, / se per follia no ’l guasta»),76 è collocato qui tra il significato di ‘intem-peranza’ o di ‘temerarietà’, propri del carattere del Caetani (quasi a riecheggia-re la «temeritatis insania» delle fonti processuali)77 e quello più connotato dot-trinalmente di ‘deviazione dai limiti del volere divino’ che Umberto Bosco ha dimostrato essere, almeno nell’uso dantesco, impiegato in speciale relazione con il peccato di superbia,78 costituente nodale non solo di questo sonetto ma dell’intero trittico. Meno agevole è invece interpretare con sicurezza gli ultimi due versi del testo nei quali la voce del poeta chiede al papa morto: ov’è vertù de la tua intelligenza / ch’a l’alma no, ma a te è ita via? Credo tuttavia, pur nel-la scarsa chiarezza complessiva che investe questo verso, che sia possibile chio-sare qualche elemento di questo passaggio facendo riferimento ad una nozione filosofica circa il destino dell’anima e delle sue facoltà al momento della mor-te, concetto probabilmente piuttosto diffuso e messo in versi anche da Dante nel XXV del Purgatorio ai vv. 79-87. Come è noto, secondo una teoria pseudo- agostiniana che doveva essere tra le fonti del poema dantesco,79 al momento della separazione tra carne e anima, quest’ultima trascina con sé le due facol-tà umane (vegetativa e sensitiva) e quella divina (intellettiva); ma se le facoltà peculiari del corpo si disattivano con la morte che le priva dello strumento at-traverso il quale si erano esplicate in vita, quelle proprie dell’anima razionale (memoria, intelligenza e volontà, secondo la triade agostiniana), ora scevre del-l’impedimento corporeo, sono più “attive” di quanto non lo fossero nella con-dizione terrena: in queste condizioni l’anima, per impulso proprio, “cade” ver-so la salvezza o verso la dannazione.80 L’autore sembra quindi possedere con

75 Si veda sopra a p. 02 e n. 5.76 LATINI, Tesoretto, p. 232.77 COSTE 995, p. 344 [H 76].78 BOSCO 966, pp. 55-75 che specifica (a p. 58) che si tratta di casi legati a quello speciale tipo di super-bia «che consiste nell ’eccessiva fiducia in sé stesso», allegando esempi dell ’uso di follia o di folle in cor-rispondenza con le figure di Aracne (Purg. XII 43-45), dei re di Scozia e d’Inghilterra (Par. XIX 22), di Adamo (attraverso parole di Beatrice in Par VII 93) oltre che, ovviamente, con quella di Ulisse (Inf. XXVI 25).79 Così almeno secondo DANTE, Commedia, nel

commento a Purg. XXV 80-8, dove si cita lo spurio De spiritu et anima.80 Oltre al commento dantesco citato nella nota precedente, che su questo aspetto sembra il più in-formato, si rimanda alla mirabile sintesi di NARDI 960, pp. 55-56. La distinzione tripartita delle facol-tà dell’anima razionale, dipendente dal De Trinitate agostiniano (AGOSTINO, De Trinitate, pp. 329-32, X 7-9), era ben nota anche fuori dall’ambiente stret-tamente filosofico e divulgata, ad esempio, dalla pre-dicazione in volgare (es. GIORDANO DA PISA, Quare-simale fiorentino, p. 75: «Ben è vero che l’anima hae tre parti, come memoria, intelligenzia e volontà»).

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una certa chiarezza il concetto della sopravvivenza dell’intelligenza nell’anima dopo la morte e della sua separazione dal cadavere che è l’oggetto (cosa fera v. ) al quale si rivolge direttamente (tu v. 5) come se l’avesse di fronte e che costi-tuisce l’elemento centrale della composizione. In questo corpo il poeta non ve-de più la forza (vertù v. 3) dell’intelligenza che aveva connotato il viaggio ter-reno di Bonifacio: essa, che non ha lasciato l’anima alla quale appartiene e con la quale continua ad essere (nello stato di dannazione, probabilmente), si è se-parata da quel corpo che chi scrive sta contemplando e che si trova così ora privato della luce dell’intelletto: pleno d’obscurtate (v. ).

Questo dunque il testo del son. :8

Ahi, cosa fera, plena d’obscurtate, sè tanto ad ogli oma’ che fai paura, e vista d’omo no mostri e figura e non par ch’abi alcuna prospertate.5 Or, sè tu quella grande maiestate che vincere volesti ogni natura? Da vil animal tu sè or pastura: çò non vinçe quant’avesti bontate.

Deh, Bonifatio, ov’è la tua potenza?0 Ov’è la molta e çentil compagnia ch’al tuo mistero avea providenza? Ov’è il senno e dove la folia, ov’è vertù de la tua intelligenza ch’a l’alma no, ma a te è ita via?

. obscurtate] obscuritate B (B All66 osc-). 2. oma’] om B&c. 3. mostri] nostri B. 4. prospertate] prosperitate B&c. 7. animal] animale B&c. 3. de la] de B All66. 4. è ita] etta (?) B.

8 In questo, come negli altri testi qui pubblica-ti, osservo questi criteri generali: divido la scriptio continua e introduco le maiuscole e i segni diacriti-ci secondo l’uso corrente; sciolgo tacitamente i com-pendi e le note tironiane (salvo casi dubbi che si col-locano tra parentesi); adeguo alla grafia moderna le

oscillazioni tra i, j e y e gli usi incoerenti di h (com-presi gli inserimenti sul tipo Ay > Ahi e De > Deh) e di q (squra > scura); indico infine con asterisco gli spazi corrispondenti a singola lettera lasciati in bianco dal copista.

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

6.

Più piana è invece la situazione documentata per il son. 2, O tu che per la via del mondo vai, attestato esclusivamente dal testimone FN al f. 5r che, nel suo complesso, si costituisce di un dittico di sonetti anonimi per le rime contenen-te un dialogo tra un santo e un teschio82 e dai sonn. 3 e 2 (solo quest’ultimo in-trodotto dalla rubrica I‹n› nome del decto papa Bonifazio). È già stato detto so-pra al punto dell’opportunità di espungere il quasi certamente abusivo v. bis (che ripete il medesimo del sonetto precedente) e di ricondurre anche questo allo schema comune di tutta la terna. Operato questo intervento, che si quali-fica come il più invasivo per questo testo, resta solo da ridurre divenire in dive-nir del v. 6 e, analogamente, uomo a uom del v. 3 per ripristinare la misura dei due versi, mentre altri tre casi si spiegano ammettendo rispettivamente die-resi (umilïando v. 5) e dialefe (senno ed v. 0 e pensa e v. 4). Resiste, da ultimo, un dubbio al v. 2 nel rendere il verbo della principale in poté (come voleva Del Lungo, che lo scriveva con apostrofo) o in pote (come preferisce invece ora Or-lando); entrambe le soluzioni hanno infatti dei vantaggi sul piano semantico o su quello stilistico: la prima lega meglio questo verso a quanto espresso dalla terzina precedente, la seconda sviluppa meglio il motivo dell’Es nunc quod fue-ram, con il monito del morto al vivente. Pur giudicando ragionevolmente ir-risolvibile sul piano della certezza la rivalità tra queste due lezioni, sono più propenso ad optare per poté, essendo la forma pote nel sistema toscano quella più normale per la 3a sing. e non per la 2a, richiesta dal contesto.

I‹n› nome del decto papa Bonifazio

O tu che per la via del mondo vai ed hai voler di gloriosa ventura, resta e vedi me, disfatta figura, umilïando il core altero c’hai.5 Quello ch’ i’ sono, essendo, no ’l pensai di divenir cotanta cosa scura: per Dio, mie vista ti metta paura pensando quel che sè e che sarai!

82 Si veda qui p. 00 e n. 2.

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Ch’io Bonifazio, papa imperadore,0 ebbi potenzia senno ed ardire tanto ch’io fu’ del mondo signore: quello ch’i’ sono non poté fuggire. Tu uom che sempre vuogli esser maggiore pensa e vedi come de’ finire.

6. divenir] divenire FN. bis. Ad ogni potente mife ubidire FN. 3. uom] huomo FN.

7.

Se molti dubbi investono la lezione dei sonn. e 2, ancora più arruffate appaio-no le condizioni testuali in cui versa il son. 3 Nel mondo stando dove nulla dura. Del breve componimento poetico sono noti nove testimoni manoscritti (di cui tre, B B FN, come si è visto, riportano anche gli altri sonetti):

B = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 3953, f. 75v (XIV sec., I metà);83

B = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Lat. 3989, f. 95r-v (XVII sec.)84;

Ch = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. L.V.67, f. 278v (XIV sec., II metà);85

Bo = Bologna, Biblioteca Universitaria, 00, f. 75v, (XIV sec., metà);86

83 Vedi n. 2; edizione del sonetto: LEGA 905, p. 202.84 Vedi ancora n. 2.85 Il codice si costituisce quasi per intero della Commedia dantesca, accompagnata dai capitoli di Iacopo e di Bosone da Gubbio; al termine di questi è riportato un «prophetische lateinische Verse auf italienische Städte, auf Imperium u‹nd› Kirke» (ff. 277v-278v) a cui segue il sonetto bonifaciano. De-scrizione (con edizione del sonetto) in RODDEWIG 984, § 665.86 Il corpo principale del codice – proveniente dal convento di San Paolo in Monte a Bologna – è co-stituito dalle opere in latino di Albertano da Bre-scia (ALBERTANO, Liber, p. LIV § 30) ed è databi-le tra la fine del XIII sec. e l ’inizio del successivo

(FRATI 909, pp. 52-56, e, soprattutto, VECCHI 982-83, pp. 78-85; alcune informazioni si repe-riscono anche in ANTONELLI 2007, p. 9, che ne pubblica il testo, e in SPONGANO 20, pp. 34-35). Il sonetto è l ’ultimo di una serie di sei componi-menti poetici vergati da mani diverse, cui tengono dietro due ricette «ad malum lapideum», testi tut-ti ascrivibili alla metà del XIV sec. Le rime di am-biente bolognese – due sonetti molto danneggia-ti sulla spedizione di Giovanni di Boemia del 333 e una canzone di argomento politico – sono pubbli-cate da CIPOLLA - PELLEGRINI 902, pp. 77-78, e da FRATI 95, p. 28; una ballata di argomento amoro-so è invece edita da ANTONELLI 2007, p 20; un’al-tra edizione parziale si legge infine in FILIPPINI 893.

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

F = Ferrara, Biblioteca comunale Ariostea, II/280, f. r (XIV sec., metà);87

FN = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. VII 624, f. 5r (XIV sec., II metà-terzo quarto);88

FL = Firenze, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Conventi Soppressi 22, f. 24v [già f. 308v] (XV sec., I metà)89;

FL = Firenze, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Strozzi 74, f. 6r (XV sec., II metà);90

I = Ivrea, Biblioteca Capitolare, 80 [= XV], f. 39v (XIV sec.).9

A questi si aggiunge, come per il son. , la stampa allacciana del 66 (All66) della quale il son. 3 occupa la p. 9.

87 Il manoscritto è occupato quasi interamente dal Tresor di Brunetto Latini (in francese, ma mol-to probabilmente copiato in Italia: GIANNINI 20), accompagnato da una parafrasi dell ’Ave Maria e da una succinta guida ai Luoghi Santi, entrambe sem-pre in francese. Descrizioni in AGNELLI 89, p. 27 n. 2 (con edizione), DANTE, Rime, I/, p. 82 [sigla Fe] e BONAZZA 202 (con edizione); segnalato in DEL LUNGO 899, pp. 32-22 [poi 922, p. 320 n. 5]. Le rime italiane (forse tutte della stessa mano, ma con gradi diversi di corsività) sono così disposte ne-gli spazi bianchi del codice: f. r, son. 3 e Dante Ali-ghieri, Guido i’ vorrei che tu e Lippo e io; f. 72r, son. Uccel spennato che prender me voi, anonimo; f. 74r, Pietro dei Faitinelli, Hercules Cimbro nesto e la Mi-nerva (il testo è completamente eraso ma qualche parola è leggibile con la lampada di Wood) e son. Traficta ’l cuore non ci à che de lingua, anonimo.88 Vedi n. 3. Edizioni: DEL LUNGO 899, pp. 32-22 [poi 922, p. 320 n. 5] da cui SANTANGELO 965, p. 392 e SUITNER 983, p. 50. 89 Il codice – proveniente dal convento fiorentino della SS. Annunziata – è una ponderosa crestoma-zia di rime e (in parte minore) prose di autori preva-lentemente toscani, con una speciale attenzione alla produzione senese (CAMBONI 202, p. 28), città nel-la quale molto probabilmente operava il copista (ve-di qui n. 95); la tavola più completa disponibile del-l ’opera, pur con qualche ammanco, si deve ancora a DEL FURIA 858, mentre per le sezioni d’autore si ri-manda almeno a DANTE, Rime, II/, pp. 6-65 (per Dante: sigla L22) e a SERDINI, Rime, pp. XXII-III § 26 (per il Saviozzo: sigla LC2); segnalo come il con-

tributo organico più recente sul manoscritto, an-che se non ho potuto avvalermene per questo lavo-ro, CAMBONI 2004. 90 Il celebre testimone laurenziano dei Triumphi petrarcheschi, copiato dal fiorentino Bese Ardin-ghelli (sul quale CURSI 2007, p. 07), è accompa-gnato, come sintetizza esattamente DECARIA 2008, da una serie di sonetti sui personaggi illustri, rico-nosciuti da STOPPELLI 977 come opera del giulla-re Malizia Barattone, alias Giovanni di Firenze; in questa breve raccolta (nell ’assetto codicologico at-tuale probabilmente incompleta e forse mal rias-semblata rispetto al suntuoso apparato iconogra-fico, come già si notava in SALUTATI, Epistolario, IV/, pp. 56-64) è incluso il sonetto bonifaciano. Per la descrizione complessiva si rimanda ai com-mentari della riproduzione fotografica del codice in PETRARCA, Trionfi (ed. Rao). Altre descrizioni si trovano in BANDINI 792, II, col. 578-79 (con edizio-ne) e DECARIA 2008, p. 20; segnalato in DEL LUN-GO 899, pp. 32-22 [poi 922, p. 320 n. 5].9 Come si deriva dalla descrizione approntata da PROFESSIONE 967, pp. 64-65 (dove si trova anche l ’edizione), il codice eporediese si compone di una decina di prose latine di epoche diverse che spazia-no da trattati storico-morali come il Liber de ludo scacchorum di Iacopo da Cessole o la Disciplina cleri-calis di Pietro Alfonsi al Liber Sancti Patrici de Pur-gatorio a testi senecani, accogliendo anche carmi go-liardici e ricette per la preparazione degli inchiostri. Segnalato in DEL LUNGO 899, pp. 32-22 [poi 922, p. 320 n. 5] e SANTANGELO 965, p. 392.

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MARCO GIOLA

Uno sguardo d’insieme sulla tradizione manoscritta è indicativo della este-sa fortuna conosciuta da questo sonetto: come mi suggerisce anche Alessio Decaria,92 la circolazione del son. 3 è infatti tutt’altro che localizzata e si inca-nala entro due direttrici principali più o meno equamente ripartite: la Toscana e il Nord-Est. I codici toscani sono tre: FN FL FL, due dei quali fiorentini: se non vi è dubbio infatti circa la schietta fiorentinità di FL, assegnato ormai con sicurezza alla mano di Bese Ardinghelli,93 alla stessa provenienza si riconduce di massima anche la fisionomia grafo-fonetica dello scriba di FN, seppure forse di un poco più tardo.94 Sempre toscano, ma senese, dovrebbe essere invece FL, come già sostenuto da Francesco Flamini che ne identificava il copista in un ser Dota attivo verso la metà del XV secolo.95 Al Nord-Est, ma con molti ele-menti che convergono precisamente verso l’area emiliano-bolognese, sembrano essere ascrivibili invece i quattro testimoni B Bo F Ch: bolognese è senza dub-bio Bo sia per la storia del codice sia per la lingua del sonetto e delle altre scrit-ture poetiche che lo accompagnano sui due lati della carta finale;96 all’area fel-sinea sembra ricondurre anche Ch, costituito quasi nella sua interezza da una Commedia vergata da Bartolomeo de’ Bartoli da Bologna: il sonetto, collocato alla fine del poema dantesco e forse di mano dello stesso copista, lascia traspa-rire qualche tratto settentrionale (potio, strusione, hubedire), seppure in misura meno evidente rispetto al testo che lo precede; F, da parte sua, gravitava in am-biente ferrarese (luogo della sua attuale conservazione) probabilmente già nel XIV secolo, come attesta una nota in fondo al codice (f. 74v «B(ar)tolomeo de ferraria de xiiij nove(m)b(r)e fratrj usque ad habere»)97 coeva circa alla co-piatura di altri sonetti collocati negli spazi bianchi di un codice steso intera-mente da una mano più antica; riferibile sicuramente al Nord-est (e, verosimil-mente alla Marca Trevigiana) è, come ben noto da tempo, B, in parte steso da Niccolò de’ Rossi – che d’altra parte si era formato allo Studio di Bologna –, in parte, compresa la sezione interessata dai due sonetti, da copisti differenti

92 DECARIA in c.d.s.93 Una probabile permanenza del codice in cir-cuiti strettamente fiorentini pare confermata anche dalla presenza dello stemma dei Bencivenni, rico-nosciuto – seppure con qualche dubbio – in un’illu-strazione da PETRARCA, Trionfi (ed. Rao), pp. 4-6.94 Particolarmente evidente è l ’aggettivo mie per mia segnalato da MANNI 979, pp. 3-32 (diffuso già nella seconda metà del Trecento), qui al son. 2 v. 7 e al son. 3 v. 5.

95 FLAMINI 89, p. 82 n. 4. Nonostante que-sta probabile provenienza, forse settentrionale era il modello per questo sonetto, la cui patina resiste-rebbe in forme come Franza, Cholognesi, Ziziliani, Franzesi, Fiammenghi.96 Vedi n. 86.97 Cito dalla recente scheda curata da BONAZZA 202: in modo sensibilmente diverso legge DANTE, Rime, II/, p. 82: «B(ar)tolomeo de ferraria de xiiij nove(m)b(r)e fu usq(ue) ad Hall…».

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

ma molto vicini al notaio che, come già notava Gino Lega, fu comunque «colui che diresse la compilazione di questa raccolta poetica, messa insieme per tutto suo conto e uso».98 Meno esattamente si ricostruisce invece l’origine di I, anche se alcuni elementi sembrano tuttavia ricondurre anche questo codice all’Italia del Nord: si sa infatti che nella prima metà del XV secolo questo manoscritto apparteneva al curato di Châtillon, segretario di Amedeo VIII di Savoia e ca-nonico di Ivrea;99 anche in questo caso, qualche debole spia fonetica (chiusu-re metafonetiche: francischi, acisi e scempiamenti: fatura, Colonesi) riconduce la mano dello scriba ad una provenienza settentrionale.

Una geografia della tradizione frantumata in aree così distanti – del re-sto tutt’altro che inaudita nella storia testuale di molta lirica trecentesca – e un’escursione cronologica tanto ampia lasciano presagire, già in fase di istrutto-ria, una tendenziale non omogeneità della lezione documentata dai testimoni. Infatti, come si proverà ad illustrare nelle pagine che seguono, l’escussione dei manoscritti ha confermato questo pregiudizio iniziale, aggravato per di più da una serie di accidenti materiali (scritture su rasure irrecuperabili, spazi lasciati in bianco) e di interventi volontari (doppie lezioni, restauri metrici, zeppe) che hanno perturbato le linee reali della tradizione al punto che essa richiede, solo per essere descritta, un paziente avvicinamento per gradi. Anzitutto, come de-bita operazione preliminare, la tradizione può essere alleggerita da almeno due descripti che si denunciano come tali per i fatti testuali che documentano: ana-logamente a quanto si verifica per il son. , B e All66 replicano infatti il testo di B fin nelle caratteristiche fonetiche settentrionali più marcate (es. v. 7 ag colo-nes, v. 2 poscente) ereditandone anche due varianti caratteristiche: v. ebbi tanta potenza > B&c de tanta potenza e v. 3 dentro nella terra (Bo F FL om. dentro) > B&c sotto la terra. I due descripti coincidono inoltre in diffrazione su una lezio-ne ambigua di B: in questo codice, al v. 2 si legge nettamente ka(r)lo ma con la a e il titulus che la sormonta ritoccati su rasura (probabilmente dal Rossi stesso) e preceduti da una k con una forma anomala che potrebbe ricordare una h: que-sta incertezza grafica del modello pare avere delle ricadute evidenti sui due di-scendenti che leggono rispettivamente kanlo B e hanCo All66.00

98 LEGA 905, p. XXXI; si vedano anche, in propo-sito, le osservazioni di Brugnolo in ROSSI, Canzo-niere, I, pp. XLVIII-IX.99 PROFESSIONE 967, p. 65.00 Poco rilevante ai fini classificatori, come ov-vio, è la sequenza interna dei due descripti; come si è

detto qui alla n. 2, un’attestazione del copista docu-menta una diretta discendenza di B dall ’edizione allacciana: se così fosse, come pare, mal si spieghe-rebbe la lezione kanlo che parrebbe più facilmente dipendere dalla lettura di B che dalla lezione hanCo di All66.

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MARCO GIOLA

Sottoponendo quindi ad una preliminare ispezione metrica gli otto mem-bri principali della tradizione (sono esclusi i due descripti di B), essi mostrano immediatamente una sospetta irregolarità nel profilo prosodico al punto che, di fatto, nessuno dei testimoni della tradizione riesce a raggiungere pienamen-te la correttezza nella scansione dei 4 endecasillabi. Riassumo qui sotto in ta-bella il risultato della scansione sillabica dei testimoni, procedendo in maniera piuttosto “tollerante” ed ammettendo in qualche caso anche specialità proso-diche quali la dieresi d’eccezione o, in posizione plausibile, l’anasinalefe (vv. 9-0), forse non del tutto ordinarie ma comunque accettabili anche in una pro-duzione di registro medio come questa. Per comodità di lettura (e anticipando la discussione testuale che seguirà) nelle colonne ho collocato vicino tra loro i manoscritti che mostrano maggiori analogie; segnalo con asterisco (*) gli en-decasillabi la cui scansione è imperfetta a causa di errori per scorso di penna e con una barretta obliqua (/) quelli non calcolabili per mancanza di porzioni del verso:

Questo quadro prosodico si ottiene, come detto, con una lettura “tollerante” dei versi e tale da concedere qualche margine di eccezione entro un sistema che si qualifica come non del tutto rigoroso:

FN B FL FL F Bo I Ch

- - - - - - - -

2 - - - - - - - 2*

3 - - - - 2 - - -

4 - - - - - - - -

5 - - - - - - - -

6 0 - - - - - - -

7 - - - - 2 2 - -

8 - - - - - - - -

9 - - - - 2 2 - -

0 - 2 2 0 - - - -

- - 2* - 4 3* - -

2 - 2 - - 2 - 2 2

3 - - - - - 2* - -

4 - - - / 2 4* - -

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

v. 5 – il computo sillabico dell’endecasillabo in FN si raggiunge nel modo più economico con potëi dieretico seguito da sinalefe: potëi e; questo quadro si ritrova anche in B Ch I (in quest’ultimo leggendo fue monosillabo); al contrario, FL, a causa della lezione sin-golare che lo arricchisce di una sillaba (per), richiederebbe o assenza di dieresi + diale-fe (poteo e) oppure dieresi + sinalefe (potëo e); da ultimo F, con lezione singolare e fu de fermo, è riconducibile alla norma solo con assenza di dieresi + sinalefe: potea e. Quan-to ai rimanenti testimoni che hanno la prima parte del verso differente: FL richiede-rebbe assenza di dieresi + dialefe (potentia e) oppure, ma più duro, dieresi + sinale-fe (potentïa e); Bo, da parte sua, necessiterebbe congiuntamente di dialefe (puoti e) e di dieresi di eccezione su mïa.0

v. 6 – quasi tutti i copisti sembrerebbero intendere struzïone dieretico, compreso B, per il quale questa possibilità sembra migliore di una dialefe grande istrussione; diverge, inve-ce, da tutti invece F che un’eventuale dieresi renderebbe eccedente.02

v. 8 – in Bo la misura è raggiunta solo ammettendo dieresi di eccezione su rïa (meno proba-bile, invece, Cicilïani) oppure con dialefe, forse eccezionale, in tenniˇin; la stessa condi-zione si estende anche a Ch e I.

v. 9 – in FL è improbabile un raggiungimento della misura corretta dieretizzando *folleg-gïare; un computo regolare si ottiene invece consentendo dialefe in folleggiare il.

v. 0 – per i copisti di Ch FN I (in dubbio per FL, comunque eccedente), è forse ammissi-bile anasinalefe tra il v. 9 e il v. 0: i due versi sono strettamente uniti fra loro sul piano sintattico in quanto costituiscono un periodo coerente retto da una principale (v. 9) alla quale sono subordinate due infinitive (v. 9 e v. 0) legate da un rapporto di coordinazione per polisindeto incardinato all’inizio del v. 0 (e) che rende piuttosto agevole la giunzio-ne in lettura tra i due versi;

v. 2 – al contrario, è molto improbabile ammettere un’anasinalefe capace di riportare a mi-sura l’endecasillabo in B Ch F I, dovendo essa avvenire in posizione di forte stacco (an-che se forse attenuabile per l ’uguale natura delle vocali, -a e ad, coinvolte);

v. 3 – in B l ’endecasillabo regge soltanto se si ammette dialefe – molto dura tra due vocali atone – in sono infuso; in FL la scansione del verso è molto dubbia: scartata ovviamente la dieresi impossibile *conchïuso, occorre ammettere una lettura in dialefe a inizio verso et ora che va tuttavia contro il sistema di questo copista che al v. 4, nella stessa posizio-ne, avrebbe regolare sinalefe et a; in FL è molto probabile invece una dialefe, collocata dopo parola tronca: qui esito.

Non si legga questo (a dire il vero, un po’ ozioso) prospetto metrico come acca-nimento nella lettura di una tradizione poetica che, come moltissime altre, non lascia intatte le strutture prosodiche del modello originario; lo si veda piutto-

0 Così sembra infatti suggerire ANTONELLI 2007, p. 20 nella sua edizione.02 Per la «libertà nel trattamento per -zione» nei

minori del Trecento, a differenza di usi più rigorosi in Dante e Petrarca, si confronti MENICHETTI 993, pp. 22-25.

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MARCO GIOLA

sto come il quadro sintomatico di un’effettiva instabilità nella trasmissione di un testo che poteva causare ai copisti qualche imbarazzo nel computo sillabi-co, specialmente in presenza di dialefe o di dieresi che potevano suonare più o meno plausibili alle diverse sensibilità degli scribi. Tale condizione, unita ad una sostanziale facilità del senso, potrebbe aver favorito una certa liberta de-gli amanuensi che, sull’accordatura del proprio orecchio, sembrano aver inflit-to più o meno consapevoli distorsioni ai loro modelli nella prospettiva di un più o meno legittimo restauro della prosodia. Si noterà infatti che la maggior par-te dei versi con scansione problematica o dubbia sono concentrati, di massima, dopo la prima quartina che appare abbastanza regolare: questa situazione, co-me si vedrà più sotto, corrisponde allo stato testuale del sonetto nel quale, fatto salvo per un caso – peraltro circoscritto – al v. , il maggiore movimento dei te-stimoni si verifica dal v. 5 in giù, e con particolare intensità nella prima terzina. Difficilissimo ovviamente è individuare con chiarezza questi probabili inter-venti entro un sistema così complesso, ma alcune spie sembrano francamente sintomatiche del problema: un esempio abbastanza eloquente è quello del v. 9, dove la estesa diffrazione che si rileva sembra l’esito di diversi tentativi dei co-pisti mirati a restituire la misura dell’endecasillabo (danneggiato già in arche-tipo?), ora con l’aggiunta di una e all’inizio di verso (FN), ora con gli altri con-cieri che si vedranno nella tavola qui sotto. Lo stesso si può dire probabilmente anche della dieresi struzïone del v. 6, percepita come tale da tutta la tradizione, escluso forse il copista di F che, non avvertendola, poteva sentirsi autorizzato a raggiungere la misura dilatando la parola in destruçione; questa variante si veri-fica tuttavia all’interno di un luogo particolarmente tribolato, con molti ondeg-giamenti della lezione (si veda il luogo corrispondente nel prospetto qui sotto) che lasciano presagire una maggior diffusione del problema e che rendono di fatto quasi impossibile seguirne le tracce esatte dentro la tradizione.

Date queste premesse, il risultato dell’escussione puntuale di testimoni (an-che in questo caso, restano fuori dalla disamina le due copie dirette di B) ha prodotto – come era a preventivo – dei risultati che poco dicono circa i rap-porti genealogici intercorrenti tra i medesimi. Questi i dati verso per verso, a mo’ di collazione ragionata degli elementi principali:

Rubr. Solo B riporta l’attribuzione: Buco messo; FL, al contrario, riporta una rubrica in-completa: Sonetto fecie; FN premette: In nome di papa Bonifazio; Ch I [= k] aggiungono una annotazione in latino (lezione base I): Verba infrascripta (Ch inscripta) post mortem pape bonifacii poita (Ch poīta) fuerunt supra tumulu(m) eius.

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

v. . Contro la lezione più diffusa Nel mondo stando, si appartano Bo (Stando nel mondo) e Ch I [= k] (In questo mondo con omissione del verbo al gerundio che tuttavia non com-promette il senso della prima quartina);

v. 5. Alla lezione più diffusa Ancor (FL -che) potei et fu mie fattura (con varianti minori) si oppongono FL Ebbi potentia et fu mia f., F Io potea e fu de fermo mia f., Bo Perch’ieo puo-ti e fo mia f.

v. 6. Tutti i testimoni presentano una lezione diversa nella prima parte del verso; più prossi-mi tra loro appaiono B Ch F FN I (B FN la strucion crudele; F la crudel destruçione; Ch I [= k] la crudel struxione) mentre più complessa sembra la situazione dei restanti tre: FL la mortal destruzion (probabile errore di anticipo del v. 7), Bo la grandeisstruxione, FL la struction del comun di.

v. 7. Si segnala in Ch, a causa di un danno della pergamena (forse dovuto ad una piega), una lezione di dubbia lettura sere(n)za in luogo del legittimo sentenza.

v. 8. Alla lezione più comune tenni (con varie forme) si oppongono FL puosi (come per v. per cui si veda sotto) e FL produssi.

v. 9. Ch I [= k], che leggono gran re ed FL che legge buon re si distaccano dal resto della tra-dizione che non reca aggettivi; FN, isolatamente, riporta la congiunzione e all’inizio del verso. Sia le verosimili zeppe di Ch I [= k], FL sia la e iniziale di FN, sia le oscillazio-ni tra forme mono- e bisillabiche del verbo ( fe’ FL, fei B FL k, feci F, fieci Bo) sembre-rebbero, come detto, tentativi di restauro per recuperare la misura di un endecasillabo danneggiato;

v. 0. Contro la lezione, abbastanza stabile, della tradizione El conte di fiandra i francie-schi fallire, si separano FL FL che, pur in modo diverso, recano la variante fiammin-ghi (sostanzialmente corretto FL franzesi e fia(m)menghi fei fallire; erroneo FL el comte di Fiandra co’ fianminghi fallire) che sembrerebbe essere legittima nell’uso dagli storici contemporanei come Dino Compagni e, soprattutto, Giovanni Villani per questo spe-cifico contesto.03 Da parte loro, Bo F hanno, contro il singolare conte di tutti, il plura-le cunti: la lezione isolata, seppure forse deteriore (nelle cronache, ad esempio, è regolare «conte di Fiandra»),04 non può essere però considerata un errore: la lunga vertenza tra la Francia e le Fiandre coinvolse infatti, anche in conseguenza di un tortuoso sistema di

03 Villani, che dedica diversi paragrafi ai fatti di Fiandra nel libro IX, esprime in questi termini le manovre del papa tra Francia, Germania, Impero e Fiamminghi: «Dopo la detta discordia nata tra pa-pa Bonifazio e il re Filippo di Francia ciascuno di loro procacciò d’abattere l ’uno l’altro per ogni via e modo che potesse: il papa d’agravare il re di Fran-cia di scomuniche e altri processi per privarlo del reame; e con questo favorava i Fiamminghi suoi ri-belli, e tenea trattato col re Alberto della Magna, e studiandolo che passasse da Roma per la benedi-zione imperiale, e per far levare il regno al re Carlo

suo consorto, e al re di Francia fece muovere guer-ra a’ confini di suo reame da parte d’Alamagna» (IX LXIII -; VILLANI, Nuova Cronica, II, pp. 5-6); da parte sua Compagni: «e tennesi fusse congiura fatta con re di Francia […] e la guerra de’ Fiamminghi fat-tali contro si disse fu per sua diliberatione» (II 62; COMPAGNI, Cronica, p. 8).04 Così infatti nella anonima Cronica fiorentina edita in SCHIAFFINI 926 (p. 50, rr. 2-3), in Pao-lino Pieri (PIERI, Croniche, p. 84) e poi in Giovanni Villani (IX passim; VILLANI, Nuova Cronica, II, pp. 9-20).

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MARCO GIOLA

politiche matrimoniali, non solo il conte Guido, ma l’intera famiglia dei Dampierre, in particolare nel momento della contesa per la successione tra Guido stesso e il fratello Giovanni.05 Da ultimo, in B l ’intero verso è su rasura di mano del copista e la scriptio in-ferior non è leggibile nemmeno a lampada.

v. . Dalla più comune lezione accesi guerra (con varie forme) si separano FL puosi g. (si ve-da anche v. 8) e FL arrosi g. (da intendersi come degenerazione paleografica o, forse pre-feribilmente, come perfetto di arrògere, ‘aggiungere’); Bo riporta la lezione singolare tra li ulaguri (derivata, verosimilmente, da un metafonetico magiuri); in B la lezione tray di inizio verso è su una rasura indecifrabile come nel caso del verso precedente.

v. 2. Contro il diffuso Ad ogne potente, Bo legge Ad o. grande ompotente, con ompotente cassa-to da un frego (la stessa variante grande, sempre singolare di Bo, era già emersa al v. 8).

v. 3. Tre testimoni recano il predicato verbale legato semanticamente a fondere: B FN infu-so dentro (B i. sotto), FN co(n)fuso demtro; quattro testimoni riportano invece composti del verbo chiudere: Ch I [= k] rechiuso dentro, F conchiuso nella; meno chiaro B reguso ne la. Si isola infine FL che legge esito nella.

v. 4. Nei testimoni con lezione più diffusa (cioè quelli con almeno il secondo emistichio per ver si può dire stabile: FN B F I Ch) si rilevano queste coincidenze: nulla posso B + Ch I [= k] vs. posso nulla Bo F FN (F possa n.). I testimoni Bo F hanno lezioni affini, ma Bo ha la seconda parte dell’emistichio divergente da tutto il resto della tradizione: F ch’io possa nulla per vero se po’ dire, Bo ch’ieo poso nulla per veritate poso dire. Ancora escluden-do FL FL di cui sotto, FN + Ch I [= k] sono introdotti da e, mentre Bo F FN da che (F Bo con pronome, rispettivamente ch’io / ch’ieo). Infine FL ed FL deviano dal resto della tradizione: FL con la lezione accettabile niente i(n)vero di me no(n) si può dire, FN con l’intero verso compromesso da uno spazio bianco riempito da puntini corrispon-dente circa a 7-8 lettere: E quella posso (per) ******** solo dire.

Il quadro delle varianti documentate dai testimoni principali della tradizio-ne mostra in modo abbastanza palese una situazione difficilmente districabi-le per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, la recensio non sembra di fatto mai denunciare – al di là dei guasti singolari di alcuni individui – erro-ri in senso stretto condivisi da più manoscritti in grado di stabilire famiglie certe; l’esame delle copie sembra piuttosto esibire varianti di tendenza poli-genetica sulle quali, per certi casi, si può nutrire qualche sospetto di erroneità ma che risultano, alla fine, sempre accettabili all’interno del contesto. Dall’al-tra parte, i raggruppamenti parziali che si possono riconoscere intuitivamente (non famiglie, quindi, ma sottoinsiemi individuati per affinità), se combinati

05 Questo preciso fatto è narrato da Villani (IX LVII 24-66; VILLANI, Nuova Cronica, II, pp. 03-

04). Per la storia della Contea delle Fiandre, resta tuttora insuperato KERVYN DE LETTENHOVE 854.

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

tra loro, tendono spesso ad entrare in contraddizione, come si proverà qui sot-to ad illustrare, nel tentativo di razionalizzare almeno qualcuno dei dati sopra elencati.

Due aggregazioni, ciascuna costituita da una coppia di testimoni, sembre-rebbero – nonostante alcune componenti di vettore contrario – distinguersi con maggior evidenza:a) FL ed FL sembrano essere ragionevolmente vicini tra loro in ragione di

due varianti prodottesi verosimilmente per diffrazione in assenza che li iso-lano dal resto della tradizione (v. 8 produssi/puosi vs. tenni; v. arrosi/puosi vs. accesi); altro elemento connettivo sembra intravedersi nella variante si-nonimica fiammenghi vs. conte di Fiandra al v. 0; da ultimo, al v. 4, lo spa-zio bianco lasciato da FL e la lezione isolatissima (non erronea, ma diver-gente da tutta la tradizione) di FL, potrebbero dipendere da un guasto di un comune modello. Li separa tuttavia una serie di lezioni importanti al v. 5 che, nel primo emistichio, sembrano legare FL a F e Bo, mentre FL se-guirebbe tutto il resto della tradizione (vedi sotto al punto d); allo stesso modo FL si distingue da FL per la zeppa buon re, che (ma potrebbe darsi il caso di coincidenza poligenetica) avvicinerebbe questo testimone a quanto si verifica nei due testimoni Ch I [= k] (vedi sotto al punto b).

b) Ch I [= k] riportano una lezione complessivamente quasi identica, sono in-trodotti dalla medesima rubrica (il fatto può essere, d’altra parte, ovviamen-te poligenetico), concordano nella lezione mancante di gerundio (In questo mondo) al v. e leggono, infine, di concerto gran re al v. 9. Quanto ai rappor-ti interni, i due guasti di Ch, cioè la diplografia potentenza al v. 2 e la lezio-ne di incerta lettura sere(n)za al v. 7 potrebbero denunciarlo come descrit-to di I; d’altra parte, entrambi i casi sono facilmente sanabili per congettura e ritengo prudente, almeno in ragione della complessità dei rapporti tra i te-stimoni, non procedere ad eliminazione. In ragione del particolare accordo tra questi due codici, ho assegnato, e solo a questi, la sigla riassuntiva k.

Molto meno persuasiva, ma pur soggiacente a qualche sospetto di attinenza per la tenuità delle varianti che possono essere sfuggite all’occhio dei raffazzo-natori, è un terza coppia, composta da due testimoni, omogenei peraltro quan-to a provenienza geografica:c) F Bo appaiono uniti dal plurale conti al posto del più diffuso conte al v. 0

(si veda però quanto detto sopra); leggono, al v. 3 nella terra contro la mag-gioranza dei testimoni che ha dentro la t. (o sotto la t. di B) che in qualche

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modo però li avvicina alla (problematica) uscita di FL esito nella t. (per cui si veda sotto); ancora meno visibilmente, condividono isolatamente il pro-nome personale all’inizio del v. 4 (ch’io /ch’ieo).

Se già faticosa appare l’operazione di radunare per piccole porzioni singo-li membri della tradizione, ancora maggiori problemi si incontrano quando si tenta di individuare aree più ampie che, sebbene lascino intravedere qualche li-nea di convergenza, mostrano continuamente elementi centrifughi e irregolari che scompigliano le schede dell’editore:d) k + Bo parrebbero convergere al v. con una fenomenologia della lezio-

ne apparentemente riconducibile ad una medesima origine: Bo (Stando nel mondo) mostra una collocazione di stando diversa rispetto al resto della tra-dizione (B F FL FL FN Nel mondo stando); in k, invece, questo gerun-dio manca ed è sostituito dal dimostrativo questo (senza danni tuttavia per il senso); allo stesso modo i tre manoscritti omettono l’articolo all’inizio del v. 8 (l’articolo non è indispensabile ma la sua assenza obbliga, per rag-giungere la misura dell’endecasillabo, una dieresi d’eccezione in rïa, o una, piuttosto improbabile, in Cicilïani); ancora, ma la coincidenza non è esat-ta e – come si dirà più avanti – si verifica apparentemente in lezione buo-na, un’affinità tra questi testimoni parrebbe rilevarsi anche dal verbo al v. 3: k rechiuso, Bo reguso. Di contro, questi testimoni sembrerebbero separati fra loro da due elementi rilevanti: al v. 5 Bo (Perch’ieo puoti) sembra seguire F FL (F Io potea, FL Ebbi potentia) mentre k (Ancor potio) sembra allinear-si invece al resto della tradizione; al v. 6, uno dei più disgregati dell’intero sonetto, k conserva l’aggettivo crudele come la maggior parte dei manoscrit-ti (k crudel struxione, F crudel destruçione, B FN struzzion crudel) mentre Bo (grande isstruxione) diverge da questi insieme a FL (mortal destruzion, per anticipo del v. 7) ed FL (struction del comun).

e) come primo corollario al punto d) appena illustrato, un raggruppamen-to Bo F FL fondato sul primo emistichio del v. 4, oltre ad essere intralciato dalla lezione di Bo al v. , parrebbe anche minare l’affinità di FL ed FL (di cui al punto a) che, almeno all’apparenza dei fatti, è tra le meglio riconosci-bili della tradizione.

f) come secondo corollario al punto d), un’aggregazione k (crudel struxione) + F (crudel destruçione) è ancora ostacolata da quanto accade al v. ; la lezione potrebbe però anche corrispondere a quella originaria e l’inversione struz-zion crudel ad un’innovazione comune di B FN;

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g) k + FL, a differenza del resto della tradizione, presentano al v. 9 un agget-tivo riferito a re d’Inghilterra: k gran, FL buon: il tassello metrico può, d’al-tra parte, essere anche di natura poligenetica.

h) da ultimo, fatta esclusione per FL che riporta il v. 4 con lezione singolare (vedi al punto a), difficilmente riconducibile a ragione sarebbe un’affiliazio-ne di FN con Bo F sulla base della lezione posso (-ssa F) nulla che si oppo-ne a nulla posso di k B, ai quali si accoderebbe anche FL, seppure aberrante: quella posso; allo stesso modo, e parimenti contraddittorio, parrebbe avvici-nare B Bo e F che leggono che (Bo F ch’ieo / ch’io) in inizio verso in opposi-zione a k FL FN che hanno invece e.

Ho tralasciato finora, in questa ingarbugliata disamina, un elemento impor-tante segnalato al v. 3, che – nella fattispecie – sembra interessare tutti i testi-moni e dalla cui difficoltà di giudizio dipende forse in larga parte l’incertezza in cui versa la tradizione. All’altezza di questo verso, infatti, l ’intero testimo-niale sembrerebbe diviso in due da una faglia creata dall’opposizione tra una serie di lezioni dipendenti dal verbo fondere e un’altra che riconduce invece al verbo chiudere. Del primo tipo sono B FN infuso e FL confuso; del secondo k rechiuso, Bo reguso, F conchiuso; indecidibile parrebbe FL esito ma, se si ammet-te una sua affinità complessiva con FL (di cui al punto a), potrebbe ricondursi nel suo insieme al primo gruppo. Ora, seppure con gradi differenti di probabi-lità e fatta esclusione per FL, ciascuna di queste uscite appare plausibile all’in-terno del contesto.

La lezione più difficile appare infuso di B ed FN (accettata dalla vulga-ta e promossa a testo anche da Orlando)06 con il significato traslato di ‘mes-so a marcire, lasciato a sfarsi’ che sembrerebbe molto ben adattarsi al concetto topico della putredo,07 la cui specifica “umida” o “acquorea” ha almeno un pa-rallelo duecentesco nel “sermone” di Ruggeri Apugliese L’amor di questo mon-do («ora so’ fracido nel monimento», v. 56), opportunamente già messo agli atti da Orlando stesso.08 Nonostante la sostanziale accettabilità di questa lezione e la sua pertinenza all’interno del registro macabro, ne ostacola però un paci-

06 ORLANDO 204, p. 22.07 Si vedano, come riferimento di massima, il già citato capitolo III IV (De putredine cadaverum) del De contemptu mundi (INNOCENZO III, De miseria huma-ne conditionis) e le considerazioni qui a pp. 04-05.

08 ORLANDO 204, p. 27, che annuncia di voler tornare sulla lezione di questo componimento dal-la malconcia tradizione; il testo si può leggere per il momento in DE BARTHOLOMAEIS 926, pp. 5-6.

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fico accoglimento l’effettiva mancanza di riscontri nella lingua antica di infon-dere con l’uso figurato che avrebbe in questo contesto, essendo in tutti i luoghi elencanti nella banca dati del TLIO registrato come proprio, e principalmente per testi pratici.09 Potrebbe d’altra parte – ma è ancora dubbio – rivestirsi del significato di ‘sprofondato’ o ‘dissolto’ come composto di fondere, che con que-sta accezione è registrato invece con larga quantità di occorrenze.0 Non si può escludere, infine – ma sia detto senza convinzione e solo per non lasciar fuo-ri dall’agone ecdotico nessuna ipotesi – che dietro ad infuso si possa anche ce-lare una lezione difficiliore o difficillima come infosso: si tratterebbe in questo caso di un durissimo participio latineggiante costruito su infossare, verbo mini-mamente attestato ma usato tuttavia in un contesto straordinariamente simile a quello di questo sonetto, il metro Qualunque cerca gloria mondana del volga-rizzamento boeziano di Alberto della Piagentina (II VII 9-2): «[…] la morte spregia ogni gloria e onore / e l’umil e l’eccelso capo infossa / e al grande ade-gua qualunque è minore». In più, un’eventuale lezione infosso potrebbe lasciar vagheggiare la suggestione di una rima interna con posso del verso successivo e, almeno nel caso di B (nulla posso – come, peraltro anche k – contro posso nul-la di FN: si veda sopra al punto h), darebbe come primo emistichio dei vv. 3 e 4 due quinari esatti, luogo caratteristico della rima interna in endecasillabo, echeggianti tra loro.2 Al netto di questo, vuoi per i molti dubbi morfologici e lessicografici che suscita quest’ipotesi, vuoi per il carattere forse estemporaneo del fenomeno rimico che ne potrebbe derivare (non pare di ravvisare altri pa-ralleli evidenti né in questo né negli altri due sonetti), propenderei per ritenere scarsamente plausibile questa congettura – pur seducente – e, soprattutto, per non giudicarla ragionevolmente autorevole per una sua promozione a testo.

Più agevole sembrerebbe invece la lezione confuso di FL: il verbo «confon-dere» con il significato di ‘distruggere, mandare in rovina’ ha diverse occorren-ze nell’italiano antico:3 in particolare, pare abbastanza notevole l’uso di que-

09 Le occorrenze di infondere con il significato di ‘messo a marcire’, piuttosto abbondanti, si trovano infatti in testi come i volgarizzamenti di Palladio, nella Mascalcia di Giordano Ruffo o nel Serapiom carrarese (per i cui molti riferimenti rinvio alla con-sultazione della banca dati del TLIO).0 Rimando, oltre che al GDLI, s. v. fondere, anche alla voce corrispondente curata per il TLIO da Sara Ravani. Boezio e Arrighetto, p. 76.

2 Per una trattazione dettagliata delle rime in-terne (compresa la loro tendenziale collocazione entro l ’endecasillabo in posizione tale da formare un primo emistichio quinario o settenario) è fon-damentale MENICHETTI 993, pp. 540-48, che sot-tolinea d’altra parte (p. 543) l ’accidentalità della loro presenza nelle strutture regolari come il so-netto.3 Si veda la relativa voce nel TLIO firmata da Francesco Sestito.

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sto verbo associato al concetto di ‘distruzione operata dalla morte’ (bastino ad illustrarlo due esempi, in Cecco d’Ascoli: «fin che si vede da morte confu-so» e in Boccaccio: «Perché non mi confonde tosto morte?»)4 che si esprime so-prattutto nella ben documentata dittologia morto e confuso.5 In più, il peculia-re utilizzo di questo verbo nel linguaggio biblico (principalmente salmistico e profetico), ben si adatterebbe a questo contesto: «confondere» indica normal-mente infatti l’intervento divino a rovina dei superbi (Ps. 8, 78: «confundantur superbi quia iniuste iniquitatem fecerunt in me»), uso che, largamente docu-mentato anche nella lingua antica,6 sembra perfettamente in linea con l’into-nazione del sonetto; ancora più precisamente, l’abituale riferimento di questo verbo a figure emblematiche di soverchio orgoglio contro Dio come il Faraone o il demonio,7 consuona esattamente con le analoghe immagini associate alla persona di Bonifacio dai suoi avversari.8 Non meno pregnanti, seppure forse meno esatti, sono anche i riscontri con gli altri usi specializzati di «confonde-

4 Rispettivamente nell ’Acerba, III VIII 2408 (STABILI, L’Acerba, p. 270) e nel Teseida, III LXXVII 4 (BOCCACCIO, Teseida, p. 97).5 Tra i moltissimi riscontri, si vedano questi po-chi a titolo di esempio: «Si tu nuda gessice, seri morta e confusa» (IACOPONE DA TODI, Laudi, Tratta-to e Detti, XXVI, v. 23) e «Pensanno nel suo amore, sì so morta e confusa» (IACOPONE DA TODI, Laudi, Trattato e Detti, XLI, v. 36); «morti e confusi erano li Greci senza nullo ricovero avere» (DELLO SCELTO, Storia di Troia, p. 285); «la donna che fin qui stret-to ti tenne, / che novamente ti à morto e confuso» (ROSSI, Canzoniere, son. 365 v. 8). Sulla stessa linea, pare abbastanza diffusa anche la dittologia uccidere + confondere: «ben m’ancide e confonde» (Anonimo del XIV sec., in PANVINI 962-64, 50 v. 46 p. 547); «la disperanza m’uccide e confonde» (DELLO SCELTO, Storia di Troia, p. 377).6 Facendo eccezione per i volgarizzamenti biblici e per gli autori che citano esplicitamente i passi della Scrittura (es. PASSAVANTI, Specchio della vera peni-tenza, pp. 224 e 233), ampio è il risultato della ricerca sulle banche dati testuali, dalla quale scelgo qualche caso eloquente: «E ciò fece [scil. Dio] per confondere la nostra superbia» (CAVALCA, Disciplina degli Spiri-tuali, p. 9); «Nacque dunque Cristo umile, di madre umile, in casa umile, in luogo umile, per confondere la nostra superbia» (CAVALCA, Simbolo, II 9); «Qui

lecito mi sia gridare e dire che Dio confonde e avili-sce le aroganti parole che detto avea il tiranno» (VIL-LANI, Cronica, XI 4); l’uso di questo verbo trova cittadinanza anche in contesti mitologici o paganeg-gianti, mantenendo il medesimo significato: «onde Pallas […] per confondere la vanagloria di costei, pre-se forma d’una vecchia» (Ottimo commento, p. 36, r. 5). Frequente è anche un uso più generico e slegato dalla componente divina: «Ma io lo voglio distrug-giare, e suo orgoglio abattere e confondare, e di tutti li Troiani altressì» (DELLO SCELTO, Storia di Troia, p. 455) o, infine, uno astratto: «ché povertate superbia confonde» (STABILI, L’Acerba, IV 2, v. 4655, p. 393). 7 Per il Faraone: «Onde, e però mandò Dio a Fa-raone nello Egitto piaghe di mosche e di zenzare, e di cose vili per confondere la sua superbia» (CAVAL-CA, Simbolo, I 9, p. 42). Per il demonio: «dalli po-destà di confondere lo maligno spirito» (Storia di Barlaam et Iosafas, ed. FROSINI 200, p. 35); «l’an-tico nemico ch’era in quel serpente vinto e confuso per la fortezza e costanza di Martino» (CAVALCA, Dialogo di santo Gregorio, p. 62); «ché per lo padre del cielo, cioè Idio, io isconfonderò lo diavolo e lo suo podere» (Libro di Sidrach, Prologo, p. 29).8 Per il Faraone, COSTE 995, p. 872 [= DS3]; per il demonio (oltre a quanto detto sopra a proposito di Iacopone a p. ), COSTE 995, p. 282 [= H5] e p. 423 [= N46].

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re» in ambito scritturale, riferiti specificamente alla dannazione eterna riser-vata a chi non confida in Dio (Ps. 30, : «In te Domine speravi, non confundar in aeternum»)9 e, soprattutto, agli idolatri (Ps. 96, 7: «confundantur univer-si qui gloriantur in idolis»)20 che, per viscosità di significato, ben si adatta alle accuse di superstizione mosse contro il Caetani di cui si è detto sopra.2 La le-zione è tuttavia attestata isolatamente da un testimone, FL, tendenzialmente incline all’innovazione (si vedano le varianti ai vv. 6, 8, 0, e 4) fatto che, di per sé, getta ben più che un’ombra di dubbio sulla genuinità di confuso.

Sull’altro versante, le lezioni connesse alla radice chiudere sembrano ugual-mente accettabili (così è infatti per Decaria che propone, molto legittima-mente, incluso):22 il verbo pare di uso abituale nello stile epigrafico, al cui linguaggio si rifanno, come detto, questi versi (due volte solo nel già citato epi-taffio trecentesco di Niccolò Bonsignori: v. 7 «Nam placet hoc Christo, tumu-lo quod claudar in isto» e v. 20: «Marmoris absque thoro, nudus hoc claudor in antro»)23 anche se la formula claudo + humus, ovvero claudo + terra, sem-bra estremamente più rara rispetto ad altre soluzioni che alludono alla tomba o alla pietra.24 Tale situazione si ravvisa anche in italiano antico dove la giun-

9 Anche qui, esclusi i calchi esatti (es. in ALBER-TANO, Volgarizzamento dei Trattati, ed. Faleri, p. 278), qualche esempio tratto dalla banca dati del TLIO: «Però che coloro, che fermamente sperano in Domenedio, son defesi e guariti, e non son con-fusi» (ALBERTANO, Volgarizzamento dei Trattati, ed. Selmi, III 2, p. 93); «la sua alma non sirà confusa, / e camperà de molte rie cadute» (IACOPONE DA TO-DI, Laudi, Trattato e Detti, XLIII, vv. 68-69); «Sia fatto, Signore Dio, il cuore mio e ’l corpo mio non maculato, acciò ch’io non sia confusa» (DA VARA-GINE, Volgarizzamento Legenda Aurea, III, p. 453). Talora può avere anche un uso sostantivato con il significato di ‘dannato’: «Dirá lo fio dr’Altissimo ai misri confundui: / “Vedhí com li mei membri fon guast e desperdudhi” […]» (DA LA RIVA, De die iu-dicii, vv. 4-42, p. 96).20 Notevoli anche alcune persistenze di questo si-gnificato in volgare: «Come potete appellare quel-le idule che di mano d’omo sono facte? Gactivo, non ài vergogna? Tu serai confuso e tucti quelli che in ta-li dei àno speranssa (Storia di Barlaam et Iosafas, ed. FROSINI 200, p. 302); «in prima predicarono Cristo al mondo dinanzi gl’imperatori e re, e tutt’i tiranni

ed altre gente, confondendo i falsi iddii, e dando te-stimonio di Cristo per pene e per tormenti» (Simo-ne Fidati, in LEVASTI 935, I 5, p. 67).2 Vedi pp. 6-7.22 DECARIA 20.23 GARMS - SOMMERLECHNER - TELESKO 98-94, II, p. 36 § 6 e GUARDO 2008, p. 35.24 Un breve sondaggio condotto sugli epitaffi papa-li pubblicati da MONTINI 957 in un’estensione cro-nologica compresa tra il III sec. e la prima metà del Quattrocento ha palesato un caso solo di formula-zione claudere + humus (p. 63 § 39, r. ) contro una certa abbondanza di costruzioni ottenute con sepul-chrum (p. § 60 v.; p. 4 § 64, v.5), tumulus (p. 4 § 09, v. 3), sacellum (p. 47 §4, r. ), archa (p. 267 § 206, r. 2) e petra (p. 264 § 204, r. 3); si aggiunga a questi qualche caso di claudere + marmor nelle iscri-zioni di alcune tombe cardinalizie edite da GARMS - SOMMERLECHNER - TELESKO 98-94, II, p. 26 § 37, r. 9 e p. 65 § 55, r. 2. Ovviamente, il campione preso in esame, per quanto coerente con il contesto del so-netto, è troppo ristretto per potervi fare pieno affi-damento e richiede, di conseguenza, un supplemen-to di indagine anche su altri materiali epigrafici.

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tura chiudere + terra con uso specificamente sepolcrale o mortuario è piuttosto rara: nel corpus del TLIO, se non mi inganno, si trova una sola attestazione di questo tipo nella Farsaglia pratese attribuita ad Arrigo Simintendi: «Poi tolse l’ossa meçe arse e no anchora risolute da nervi e piene di merolle no arse, e ri-trassele dall’acqua del mare, e raunate in uno luogo, le rinchiuse in pocha terra» (che traduce Phars. VIII 789: «parva clausit humo»).25

Le malfatate condizioni in cui versa la tradizione del sonetto finora descrit-te gettano nello sconforto l’editore che si proponga di addivenire ad una siste-mazione positivamente dimostrabile di tutti i movimenti dei testimoni e – di conseguenza – alla fissazione di un testo propriamente “critico” (almeno nei termini consacrati dalla prassi lachmanniana). Non solo, come è abbastanza frequente in moltissime tradizioni, antiche e no, non si riescono a determinare gli accadimenti che interessano i piani alti (che qui si mostrano in apparenza divisi in due blocchi principali ma con esiti, si direbbe, sempre plausibili), ma non è nemmeno possibile isolare con certezza i rami bassi che, senza la guida irrinunciabile degli errori evidenti, non si intuiscono se non per affinità o ana-logie in lezioni buone (come si è detto per i tre insiemi k, FL FL e Bo F, di cui sopra ai punti a-c), spesso ostacolate da elementi contraddittori o da vettori orientati in opposizione di fase (come nelle sigle composite Bo + k o FL FL + Bo F, di cui ai punti d-h, solo per segnalare le principali). La situazione, già di suo disperante, è, come detto all’inizio, ulteriormente afflitta da accidenti di copia (versi e parole su rasure illeggibili o “finestre” in bianco nel testo) che rendono parzialmente inaccessibili, o almeno ambigui, i modelli, le operazioni e le intenzioni degli scribi; inoltre, fatti perturbanti come le zeppe o i concieri prosodici – tutti in ogni caso sottomessi al dubbio di poligenesi – contribui-scono a compromettere una lettura pacifica della tradizione. Non è possibile infine, per questo caso, nemmeno ricorrere all’extrema ratio rappresentata da quei criteri estrinseci che, se mai pienamente decisivi, sono stati spesso usa-ti come validi indicatori di tendenze entro tradizioni apparentemente indomi-te o particolarmente povere di elementi di per sé probanti, e cioè: un sistema di luoghi paralleli atti ad individuare l’usus scribendi dell’autore e le seriazioni parallele di opere o di componimenti affini all’interno dei medesimi testimo-

25 Volgarizzamento pratese della Farsaglia, p. 59. Decisamente meno pertinente mi sembra invece un caso registrato nel codice amburghese delle Storie de Troja et de Roma: «Et allora Marco Tullio pro libe-

ratione de Roma vivo se iectao ne la fossa et incon-tinente se rechiuse la terra» (Storie de Troja et de Ro-ma, p. 8).

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ni. Il primo criterio non è sfruttabile in quanto non si può, almeno finora, sta-bilire un corpus dell’autore di questo sonetto ragionevolmente esteso per ten-tare almeno di stanare qualche tratto dell’uso col qual poter meglio soppesare varianti di per sé indifferenti. Il secondo – come già espresso dalle descrizio-ni dei codici – pare altrimenti inutilizzabile dal momento che in almeno metà dei casi il sonetto pare come abbandonato dai copisti in spazi rimasti vuoti al-l’interno dei manoscritti, isolato (Ch) o al massimo accompagnato da qualche pezzo di rimeria municipale (Bo), da brevi testi latini (I) o da altri sonetti, fre-quentemente ad attestazione unica (F); in un caso compare, sembra, come un alieno dentro una corona riconosciuta d’autore (i personaggi illustri di Malizia Barattone in FL); nel caso infine delle grandi sillogi come B o FL, in ragione della compresenza di autori molto diffusi (Dante, Cavalcanti e Cino, soprat-tutto) e di testi molto comuni, i pochi punti di contatto – che sporadicamen-te si estendono anche a qualcuno degli altri testimoni – sembrano ragionevol-mente occasionali.26

26 Pochi frutti ha prodotto un’indagine compara-tiva del materiale poetico contenuto negli otto ma-noscritti (nel calcolo è inclusa ovviamente anche la porzione che completa FN e che, come detto, co-stituisce oggi il Laur. XL, 38, qui FNbis) effettua-ta sugli originali tranne che per i tre testimoni più affollati di rime: in questi casi mi sono avvalso delle schede di DEL FURIA 858 per FL (con indicazione per carte; è noto però – DE ROBERTIS 962, p. 73 – che in questa benemerita lista manchi qualche com-ponimento), dagli indici di LEGA 905 per B (si indi-ca il numero di serie) e delle tavole di BERISSO 993a per FNbis e BERISSO 993b per FN (si indica, an-cora, la numerazione di serie). Fatta esclusione per Alessandro lasciò la signoria (in B, FL e FNbis) di cui si è detto sopra, francamente casuali sembrano gli incontri di medesime rime dantesche, riporta-te in larghe sillogi non identiche da B e FL (DANTE, Rime, I/, pp. 62-64; I/2, pp. 77-9) che, per il caso isolato di Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra (7 = CI), si estendono anche a FNbis (n. 36). Di poco più localizzata è la presenza dell ’effettivamente raro Guido i’ vorrei che tu e Lippo e io (33 = LII) in B (n. 26) ed F, testimoni tuttavia non affiancabili quan-to a lezione (DANTE, Rime, III, pp. 304-06, indica-ti dalle sigle B e Fe); questi due manoscritti condi-vidono anche (B n. 07, F ma quasi del tutto eraso)

il diffusissimo Hercules Cimbro nesto e la Minerva di Pietro dei Faitinelli (numerato XVI in FAITINEL-LI, Rime, ed. Del Prete, e IV in FAITINELLI, Rime, ed. Zilli, pp. 55-58). Tra le rime di dubbia pater-nità e che coinvolgono Dante, Fior di virtù si è gen-til coraggio è in B (n. 4, con attribuzione a Folgóre da San Gimignano) e in FNbis (n. 57, con attribu-zione dantesca). Ancora nei casi di presenze isolate, il celebre sonetto “veneziano” di Ventura Monachi (PICCINI 20) è presente, con molte divergenze fin dal primo verso, in FL (f. 206r Me son chondutto in terra aquaticha, anonimo) e in FNbis (n. 5 Giovan-ni i’ son chondotto in terra ’quatica, Ventura Mona-chi a Giovanni di Lambertuccio Frescobaldi). Mag-giori coincidenze si verificano facendo reagire tra loro B ed FL anche fuori delle ampie sezioni dan-tesche di cui si è detto sopra: queste due ponderose crestomazie, ciascuna in grado di accogliere qual-che centinaio di componimenti poetici, pur con cri-teri di compilazione evidentemente divergenti con-servano insieme alcune rime di ambiente stilnovista o comunque toscano, tutte comunque ad alto tasso di documentazione nei manoscritti. Riscontro, in-crociando le tavole, quattro coincidenze; due sono concordi nell ’attribuzione: Guido Cavalcanti, Don-na me prega (B n. 38, FL f. 207r) e Cino da Pistoia, Quando potrò i’ dire dolze mio dio (B n. 5, FL f. 98r);

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Esercizio su un trittico di sonetti trecenteschi ad argomento bonifaciano

Giunti a questo punto pare francamente improbabile tentare una ricostru-zione stemmatica della storia testuale di questo sonetto che, per spiegare i con-tinui cambiamenti di rotta di alcuni testimoni entro compagini già di per sé traballanti, richiederebbe attività quasi divinatorie per stabilire la direzione delle linee di contaminazione o l’effettiva origine di alcune lezioni; ci si trova, insomma, in una di quelle disgraziate situazioni in cui sembra ragionevole ri-nunciare alla costruzione dell’albero che, in questo caso non solo sarebbe stato soltanto l’usuale «strumento obbiettivo e meccanico inventato per dirimere, in prima istanza, il litigio fra varianti per sé indifferenti»27 ma sarebbe stato an-che decisivo per pesare l’autorevolezza dell’attribuzione a «Butto messo» (in ra-gione cioè del rango di B) o, su un piano diverso, per valutare la credibilità – di per sé scarsa – della rubrica di k a proposito del sacello vaticano di Bonifacio.

Dovendo individuare tra tutti un codice in grado di rappresentare la tradi-zione e di sostenere l’apparato, come ovvio la scelta sarà più economicamente indirizzata verso il testimone meno guasto, meno inquinato da lezioni singola-ri e caratterizzato dal minor tasso di innovazione possibile. Dunque: . In pri-mo luogo è da escludere FL (per la lezione lasciata in bianco all’interno del v. 4) insieme al suo affine FL, congiuntamente caratterizzati dalle lezioni illu-strate al punto a; 2. Ancora, paiono da scartare i due codici di k (almeno per la zeppa comune al v. 9) e, insieme a questi, Bo per i movimenti del v. , di cui al punto d (e, solo per Bo, per il brutto errore al v. , oltre che per la due lec-tiones singulares, forse tra loro legate, dei vv. 6 e 2); 3. Infine, poco affidabile si mostra anche F, in ragione dei – pur pochi – elementi di affinità con Bo (ai vv. 0 e 4 di cui al punto c) e con Bo + FL (per il v. 5, di cui al punto d). Riman-gono pertanto sul banco di lavoro B ed FN: nonostante la maggiore antichità di B, questo testimone appare in condizioni troppo pericolanti per essere usa-to come testo base, in ragione delle ampie rasure dei vv. 9-0 e delle due lezioni singolari, poi trasmesse ai descripti, dei vv. 2 e . Questo, quindi il testo di FN, con pochissimi ritocchi di minime lezioni singolari, integrando la forma crudel in crudele per ragioni metriche al v. 6 e inserendo una congiunzione tra Fian-dra e Franceschi nel modo più economico possibile (i F. > e ’ F.) al v. 0:28

due divergono per attribuzione e per lezione: Di tut-te cose mi sento fornito (B n. 8, a Cecco Angiolieri, come in MARTI 956, p. 207; FL f. 26r, anonimo) e Perché l’uom ti mostri bei sembianti e ride (B n. 88, a Pietro dei Faitinelli come in FAITINELLI, Rime, ed. Del Prete, e MARTI 956, p. 426, ma non in FAITI-

NELLI, Rime, ed. Zilli, dove manca; FL f. 220v, ano-nimo).27 CONTINI 2007, p. 96.28 Non includo ovviamente nell ’apparato (se non per luoghi in composizione con varianti significa-tive) le oscillazioni fonetiche di alcuni testimoni,

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In nome di papa Bonifazio

Nel mondo stando dove nulla dura, io Bonifazio ebbi tanta potenza ch’e∙rre di Francia e Carlo di Proenza di me dottaro ed ebbonne paura.5 Ancor potei, e fu mie fattura, la struzzïon crudele di Firenza; a’ Colonnesi die’ mortal sentenza, i Cicilianni tenni in ria ventura.

E ffe’ folleggiare il re d’Inghilterra0 e ’l conte di Fiandra e ’ Franceschi fallire. tra ’ maggior de lla Magna accesi guerra; ad ogne potente mi fe’ ubidire. Or sono infuso dentro nella terra e posso nulla per ver si può dire.

rubr. In nome di papa Bonifazio] Buco messo B, Butto messo da Florentia All66, Verba infrascripta (Ch inscripta) post mortem pape bonifacii poita (Ch poīta) fuerunt supra tumulum eius k, Sonetto fecie FL. . Nel mondo stando] Stando nel m. Bo, In questo m. k. 2. io] eo B&c, yeo Bo; ebbi] abi Bo, B&c de; po-tenza] potentenza Ch. 3. ch’e∙rre (FL che r.)] che ’l r. B Bo FL k, che lo r. F; Carlo] kanlo B, hanCo All66. 4. dottaro] dotaron B&c FL, dotorno Bo k (dott- I); ebbonne] ebbeno FL, ebeno B&c, eberne F, ebberno k, abeno Bo. 5. Ancor potei (potio k)] Anche poteo FL, Ebbi potentia FL, Io potea F, Perch’io puoti Bo; et fu (fo B&c, fue I) mie (mia B&c FL Bo k)] et fu per mia FL, e fu de fermo mia F. 6. struz-zion crudele] struzzion crudel FN B&c, crudel struxione F k, strucione del comun FL, mortal destru-zion FL, grande isstruxione Bo; di Firenza] di (de F) di fiorença Ch F, di (de B&c) florenza B&c I, de fireci con r sormontata da titulus Bo. 7. a’ (ai k) Colonnesi] et a C. F, ag colones B&c, a gni collonixi Bo, a cholo-gnesi FL; die’] dei k (con i sormontata da titulus I), diei Bo, diedi B&c F; sentenza] senteza FL, sere(n)za (?) Ch. 8. i Cicilianni] e ciciliani B&c, a cicilyan FL, ceciliani k, cicilliani Bo, ziziliani FL; tenni (tini Bo) in (en B&c) ria (rea Bo F k) ventura (vin- Bo)] produssi ria v., FL, puosi in mala v. FL. 9. E ffe’] omittunt E B&c Bo F FL FL k (Fe FL, Fei B&c FL k, Feci F, Fieci Bo); folleggiare (-llegiare F)] follegiar I FL (-legiar I), folegare Bo, folezare B&c; il re] lo re B&c Bo F, il buon re FL, il gran re k. 0. e ’l conte di Fiandra e ’ Franceschi] franzesi e fia(m)menghi fei FL, el comte di Fiandra co fianminghi FL; in B l’intero verso è su ra-sura; e ’l conte] lo conte B&c, conti F, qunti Bo; e ’ franceschi (-ischi Bo) Bo F I] i f. FN, ei f. Ch, eg f. B&c. . tra ’ (trai k, fra i FL) maggior (-gior I)] tray mazor B&c (con tray su rasura B), intra li magiori F, al mag-gior FL, tra li ulaguri con la prima u sormontata da titulus Bo; accesi (-cesi B&c, -cisi I, -cixi Bo)] arrosi FL,

principalmente nei toponimi (v. 3 Francia: Franza B&c Bo FL k; v. 3 Proenza: Provenza FL; v. 9 Inghil-terra: Enghilterra F, Ingiltera Bo, Inghelterra I, Ingal-terra B&c; v. 0 Fiandra: Flandia B&c Ch, Fiandia

Bo I) e in alcune caratteristiche dei manoscritti set-tentrionali (v. 4 di me: de mi B&c Bo F; v. 0 fallire: falire B&c Bo I, v. 2 ogne: ogni B&c Bo FL FL; v. 2 ubidire: ubbidire F FL, obedire B Bo, ubedire k).

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puosi FL; guerra] quera Bo. 2. potente (posc- B&c)] grande seguito da ompotente cassato Bo; mi fe’] me fei Ch, mi (me B&c Bo) feci (-ci Bo, -ce I) B&c Bo FL FL I, fecemi F. 3. Or sono] or son FL k, ora son Bo, et ora son F, e or son qui FL; infuso] confuso FL, conchiuso F, reguso Bo, rechiuso k, esito FL; dentro (de mtro FL) nella terra] nella t. F FL, ne la t. squra Bo, sotto la t. B&c. 4. e posso nulla per ver si può dire] E quella posso per ******** solo dire FL, niente invero di me non si può dire FL; et posso nulla] e nul-la posso k, che nulla posso B&c, ch’io possa nulla F, ch’ieo poso nulla Bo; per ver (vero F)] per veritate Bo; si (se B&c F k) può (po’ F k) dire] poso dire Bo.

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