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L’imposta sul valore aggiunto (I.V.A.)
1) E’ un’imposta sul consumo.
Le due imposte più importanti sono l’IRPEF [Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche; è la principale fra le
imposte sul reddito, infatti nel 2013 grazie ad essa lo stato ha prelevato 180 miliardi ai cittadini (e quindi 1.000 € al mese a famiglia
di quattro persone)] e l’IVA [Imposta sul Valore Aggiunto, con cui lo stato ha prelevato nel 2013 oltre 110
miliardi (e quindi oltre 600 € al mese a famiglia)]. Al di là del fatto che rientrano nel programma, credo sia
comunque opportuno che sappiate qualcosa di queste due importanti imposte per il fatto che sono tra le cose che
più influiranno sulla vostra vita, e lo potete capire se pensate che, da sole, mediamente riducono la capacità di
spesa di una famiglia di quattro persone di 1.600 € al mese].
Ci occuperemo dell’IRPEF nei prossimi anni, quest’anno dovete capire e imparare l’IVA, che è la
principale imposta sul consumo. In realtà bisognerebbe dire, con più precisione, che l’IVA è
un’imposta sugli acquisti effettuati per il consumo, e questo perché il consumatore paga l’imposta al
momento dell’acquisto del bene e non quando consuma il bene che si è procurato. In altre parole, se oggi
compro un quintale di cibo per il mio cane, l’imposta la pago tutta oggi e non nel corso dei sei mesi in cui il
cibo sarà consumato.
L’IVA, quindi, la paga chi acquista; come tutte le imposte, l’IVA la deve ricevere lo stato (che userà i
soldi così ricevuti per pagare lo stipendio a Massa, ai medici del pronto soccorso, ai poliziotti e a tutti gli altri “dipendenti pubblici”, per
costruire carceri e asili, per pagare le pensioni a chi è troppo vecchio per lavorare, per costruire le strade e i carri armati ecc. ecc.), ma lo
stato, non volendo seccare il consumatore imponendogli anche il disturbo di versargli l’imposta, pretende
allora che sia il venditore a portargliela: l’azienda che vende, quindi, è obbligata dallo stato a farsi pagare da
chi compra non solo il prezzo del bene bensì anche l’I.V.A. (pari a una certa percentuale del prezzo), e poi deve
versare allo stato l’imposta ricevuta dal compratore.
2) Funziona in modo complicato.
a) Lo stato vuole che l’I.V.A. colpisca i consumi, e i consumi sono solo delle famiglie e delle altre
aziende di erogazione (perché le aziende di produzione, come già detto a pagina 10, comprano per trasformare, non per
consumare);
b) Lo stato però non vuole che il consumatore sia disturbato, vuole cioè che non si accorga che
paga l’imposta, e quindi lo stato incarica le aziende di produzione di prelevare l’imposta di nascosto ai
consumatori e poi di versarla a lui.
Da a) e b) discende che l’imposta potrebbe funzionare in questo modo semplice: le aziende che
vendono ai consumatori (i supermercati, i negozi, gli artigiani ecc.) aggiungono l’imposta al prezzo del bene o del
servizio venduto pretendendo così dalle famiglie un prezzo “gonfiato”, cioè comprensivo di IVA, dopo di
che, periodicamente (magari una volta al mese), girano allo stato quanto incassato “di troppo” (l’IVA). Tutto
semplice: il consumatore paga l’imposta senza accorgersene, le aziende coinvolte sono molte meno, (sono
solo quelle che vendono ai consumatori), lo stato incassa l’imposta sul consumo e lo studente deve impegnarsi
meno per capire come questa imposta funziona.
Purtroppo per voi (che dovete studiare l’IVA) e per le aziende di produzione (che la devono applicare) lo
stato, oltre a essere affamato di soldi, tende anche a complicare le cose. Ecco allora che, per incassare un po’
prima l’imposta, ha pensato di coinvolgere nell’applicazione dell’imposta sul consumo non solo le aziende
che vendono ai consumatori ma anche tutte le altre, cioè anche le aziende che vendono alle altre aziende di
produzione (come la Ferrero che vende la Nutella ai supermercati e non certo direttamente a noi consumatori, o come la
Caterpillar le cui ruspe sono tutte acquistate da aziende di produzione e non certo dalle famiglie).
Per capire meglio, vediamo uno stesso, semplice, esempio (la pila che ho comprato ieri al supermercato) nei
tre casi in cui: 1. Non esiste l’imposta sul consumo; 2. L’imposta sul consumo c’è e funziona nel modo
semplice; 3. L’imposta sul consumo è l’IVA e allora funziona nel modo complicato.
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1. Seguiamo il percorso della pila che ieri ho comprato all’Esselunga. (i dati sono di fantasia) Quella pila
è stata prodotta da un’azienda in Cina e importata in Italia dalla Duracell per 0,40 €, trasporto compreso. La
Duracell l’ha poi venduta all’Esselunga per 1,00 €, (con un ricarico – cioè un aumento di prezzo rispetto a quello di
acquisto – quindi di 0,60 €), e l’Esselunga l’ha venduta a 1,50 € (ricaricando quindi di 0,50 €). Se l’iva non
esistesse, lo stato avrebbe incassato nulla, io avrei pagato 1,50 €, all’Esselunga sarebbe rimasto 0,50 € (1,50 –
1,00) e alla Duracell 0,60 € (1,00 – 0,40) e all’azienda cinese 0,40 €.
2. Con un’imposta sul consumo “semplice” e con un’aliquota (= una percentuale) del 20% le cose
andrebbero così:
Duracell paga 0,40 € al cinese e incassa 1,00 da Esselunga: le rimangono 0,60 € (1,00 – 0,40);
Esselunga paga 1,00 a Duracell e incassa 1,80 € da me (1,50 di prezzo + 0,30 di iva, che è il 20% di 1,50),
e poi versa 0,30 allo stato e così le rimangono, come prima nel caso 1., 0,50 € (1,80 – 1,00 – 0,30);
Io pago 1,80 € all’Esselunga, di cui 1,50 di prezzo e 0,30 € (1,5 x 20% = 0,30) di iva, e così sopporto
il costo dell’imposta di 0,30 €, cioè il 20% del valore del mio consumo;
Lo stato incassa dall’Esselunga gli 0,30 € di imposta da me pagati: l’azienda di produzione
Esselunga svolge, solo lei, il compito di “esattore” (cioè di colui che preleva le imposte per conto dello stato).
3. Con il sistema “complicato” dell’I.V.A., l’imposta sul consumo funziona così:
Quando la pila entra fisicamente in Italia lo stato italiano dice all’importatore (la Duracell):
“Quella pila cinese che stai importando sarà consumata in Italia, e quindi se vuoi farle passare la dogana in modo che diventi utilizzabile in Italia, devi pagarmi l’IVA, pari al 20% di quanto vale adesso, cioè di quanto l’hai pagata
all’azienda cinese compreso il trasporto fino alla frontiera, e quindi mi devi dare 0,08 € (0,40 x 20%)”
Cosi la Duracell versa subito allo stato 8 centesimi di euro per “sdoganare” la merce.
Quando poi la Duracell vende per 1,00 € la pila all’Esselunga è obbligata dallo stato a farsi pagare
non 1,00 ma 1,20 €, cioè il prezzo per la pila (1,00 €) più l’I.V.A. (il 20% del prezzo, cioè 0,20 €).
Quando, infine, l’Esselunga mi vende la pila, per ricavare 1,50 € deve scrivere sullo scaffale – ma
questo capitava anche nel caso di funzionamento “semplice” – che il prezzo è di 1,80 € (e non 1,50 €) perché lo stato le
impone di pretendere oltre al prezzo vero di 1,50 € anche 0,30 € di I.V.A. (cioè il 20% di 1,50) . Lo stato poi
riceverà i 30 centesimi di IVA [cioè il 20% del valore che la pila ha quando viene acquistata per il consumo (da me)],
suddivisi fra tutte le aziende coinvolte (la Duracell e l’Esselunga) e non solo da quella che ha venduto al
consumatore.
Ogni azienda coinvolta nel percorso che ha portato la pila fino a me deve infatti versare allo stato
non tutta l’IVA che ha incassato ma solo la differenza fra l’IVA incassata con la vendita e l’IVA pagata
all’acquisto (o alla importazione). Infatti lo stato riceve:
0,10 € di iva dall’Esselunga (i 30 centesimi di iva che il supermercato ha incassato da me sulla
vendita meno i 20 centesimi pagati alla Duracell all’acquisto);
0,12 € di iva dalla Duracell (i 20 centesimi di iva che la Duracell ha incassato dall’Esselunga
meno gli 8 centesimi di iva che sempre la Duracel ha pagato alla dogana per importare la pila)
0,08 € di iva ricevuti sempre dalla Duracell (sono gli 8 centesimi pagati dalla Duracell in dogana al
momento dell’importazione in Italia della pila proveniente dalla Cina).
Alla fine il risultato è uguale a quello visto con il sistema semplice, e cioè:
- io (consumatore) ho sopportato il costo dell’imposta (0,30 €) avendo dovuto pagare 1,80 € la pila
che, senza l’imposta sul consumo, mi sarebbe invece costata solo 1,50 €;
- lo stato ha incassato i 30 centesimi di imposta che voleva, vale a dire il 20% del valore del mio
mio consumo (1,50 x 20% = 0,30), ma non tutti dall’Esselunga bensì come somma di 8+10+12 cent.
- le aziende che hanno permesso alla pila di arrivare nel mio spazzolino elettrico (la Duracell e
l’Esselunga) pur versando l’iva allo stato (0,20 € la prima e 0,10 € l’Esselunga) non ci hanno
rimesso, nel senso che non hanno sopportato alcun costo: all’Esselunga sono infatti rimasti 0,50 €
(1,80 – 1,20 – 0,10) e alla Duracell 0,70 € (1,20 – 0,30 – 0,12 – 0,08), come sarebbero rimasti se l’IVA
non fosse esistita o se avesse funzionato nel modo “semplice”.
L’unico motivo che ha spinto il legislatore a scegliere la strada complessa quando quella semplice
portava a risultati identici è da cercare nel fatto che con il sistema complicato lo stato incassa un po’ prima
l’imposta: invece di aspettare che il bene sia comprato dal consumatore, lo stato incassa prima (al momento
dell’importazione e della vendita da un’azienda all’altra) una parte dell’imposta.
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3) Terminologia dell’I.V.A.
3.1) I “soggetti Iva” e la “partita iva”.
I “soggetti IVA” (detti anche “soggetti passivi”) sono coloro che versano l’IVA allo stato ma che
non ne sopportano il costo, e quindi sono le aziende di produzione. Quando una persona comincia a svolgere in
modo continuativo un’attività economica autonoma (cioè non come lavoratore alle dipendenze di qualcuno, ma come
produttore in proprio di beni o servizi da vendere a chi li richiede) allora deve “aprire la partita iva” , cioè richiedere allo
stato un codice che lo individui come “soggetto iva”; questo codice si chiama “partita iva” e, almeno in Italia, è
formato da 11 cifre. Questo codice va ad affiancarsi al codice fiscale di cui tutti, esseri umani e “persone
giuridiche” (cioè società, associazioni, enti, condomini ecc.) sono in possesso fin dalla loro nascita (le persone fisiche) o
dalla loro costituzione (le persone giuridiche). In altre parole:
- quando un bambino nasce (e quando una persona giuridica viene costituita) lo stato lo marchia,
fortunatamente per ora non a fuoco, con un codice, il codice fiscale (ad esempio il mio è MSSCRL56P27H223B, e il
vostro, se già non lo sapete a memoria, imparatelo: vi verrà richiesto sempre più spesso perché lo stato vorrà sempre più sapere quello
che i suoi cittadini fanno) che per tutta la sua vita lo individuerà e segnalerà tra tutti gli altri esseri umani (e le altre
persone giuridiche);
- se e quando quell’essere umano (o quella persona giuridica) comincerà ad operare come azienda di
produzione, allora lo stato lo marchierà una seconda volta con un secondo codice (di 11 caratteri tutti numerici), la
partita iva (sempre ad esempio, quella della Max Mara è 01397620350).
Si può quindi dire che la legge IVA divide il mondo in due:
1. i soggetti IVA, detti anche “soggetti passivi”, sono coloro che hanno la “partita iva”, versano
l’imposta allo stato e che devono fare tutte le altre cose che la legge IVA impone, ma non sopportano il costo
dell’imposta (e, come ho già scritto, questi soggetti sono le “aziende di produzione”, che possono essere sia persone fisiche – come
il vostro dentista – sia persone giuridiche – come la FIAT o la Max Mara –); e
2. i non soggetti iva, che non hanno la partita iva, devono fare nulla, possono anche non sapere che esiste
l’IVA e tanto meno cosa dice la legge IVA, ma sono coloro che sopportano il costo dell’imposta perché la
pagano ai soggetti iva (e sono i “consumatori” e le altre aziende di erogazione, le quali possono essere sia persone fisiche – come
la vostra nonna – sia persone giuridiche – come la Casa della Carità di S. Girolamo o l’Associazione Volontari Italiana Sangue –).
3.2) Le “operazioni IVA” e le operazioni non IVA (dette anche “fuori campo IVA”).
Affinché un’operazione, cioè un atto compiuto da qualcuno, abbia qualcosa a che fare con l’I.V.A. sono
necessarie tutte e tre le seguenti condizioni:
1) deve essere le vendita di un bene o di un servizio (è il requisito “oggettivo” dell’operazione): se
il concessionario mi consegna una Ferrari “testarossa” non perché me la vende o noleggia, ma perché me la fa
solo provare per un paio di giorni, questo suo atto c’entra nulla con la legge IVA, il concessionario non compie
un’operazione iva, quell’operazione è “fuori campo IVA” per la mancanza del requisito oggettivo (in quanto non è
né una vendita di un bene né una prestazione di servizio);
2) deve essere compiuta da un “soggetto IVA” (è il requisito “soggettivo” dell’operazione): se
nella giornata di ricevimento genitori tu e altri alunni vendete delle torte, sebbene vendiate dei beni (e quindi il
requisito “oggettivo” c’è), non fate nulla che c’entri con l’IVA perché voi non siete soggetti che professionalmente,
abitualmente, commerciate in alimentari: quella vendita è un’operazione “fuori campo IVA” per la mancanza del
requisito soggettivo;
3) deve essere compiuta in Italia (è il requisito “territoriale” dell’operazione): se la Barilla vende
un’attrezzatura che ha nel suo stabilimento a Istanbul ad una azienda turca, sebbene quell’operazione sia una
vendita e sia compiuta da un soggetto IVA (e quindi i requisiti oggettivo e soggettivo ci sono entrambi), c’entra nulla con
la legge IVA perché non è stata fatta in Italia; quella vendita sul territorio turco è un’operazione “fuori campo
IVA” per la mancanza del requisito territoriale.
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Affinché un’operazione (un atto compiuto) sia un’operazione IVA e quindi obblighi chi la compie a
osservare tutte le regole che la legge IVA prevede nei suoi tantissimi articoli (che riempiono una cinquantina di pagine
scritte fitte) è necessario che i tre requisiti (l’oggettivo, il soggettivo e il territoriale) siano tutti soddisfatti: basta che ne
manchi uno e allora chi compie quell’operazione non dovrà farsi pagare l’iva, non dovrà emettere particolari
documenti (come la fattura o lo scontrino o la ricevuta fiscale), non dovrà annotare l’operazione su registri particolari,
non dovrà versare l’imposta allo stato ecc. .
Quando sarete più grandi vedremo che, in realtà, ci sono non poche eccezioni a questa regola; una, ad
esempio, ve l’ho segnalata in classe quando vi ho detto che il fornaio che regala un pezzo di pane a un
mendicante deve “battere lo scontrino” come se il pane lo avesse venduto, e questo nonostante a quell’atto di
carità, non essendo una “vendita di beni”, manchi uno dei tre requisiti necessari (quello “oggettivo”). Per
quest’anno, comunque, possiamo ignorare tutte le eccezioni e le tante altre complicazioni di questa
complicatissima imposta.
3.3) Le operazioni “imponibili”, le operazioni “non imponibili” e le operazioni “esenti”.
Le “operazioni I.V.A.” (e cioè, come si è visto appena sopra, quelle che hanno tutti tre i requisiti – oggettivo, soggettivo e
territoriale –) possono essere di tre tipi: a) “imponibili”, b) “non imponibili” e c) “esenti”.
Sulle operazioni “imponibili” il compratore deve pagare l’imposta, sulle non imponibili e sulle esenti,
invece, il compratore non si vede addebitata alcuna imposta. Essendo però tutte e tre “operazioni IVA”, il
venditore dovrà comunque fare ciò che prevede la legge IVA (e quindi emettere particolari documenti, registrarli su
particolari registri, inviare particolari dichiarazioni ecc.); la differenza fra le operazioni imponibili e le operazioni non
imponibili o quelle esenti è che nelle prime il venditore deve farsi pagare l’iva dal cliente mentre nelle altre due
(le non imponibili e le esenti) il venditore non deve farsi dare l’iva dal cliente.
a) Le operazioni imponibili sono quelle “normali”, nel senso che sono tutte le operazioni iva che non
fanno parte delle due altre categorie. Resta, quindi, da vedere che operazioni rientrano nelle due categorie
“particolari”, cioè le operazioni non imponibili e le esenti.
b) Le operazioni non imponibili sono le vendite di beni con consegna al di fuori del territorio italiano, e
si suddividono a loro volta in due tipi: b1) le “esportazioni” che sono le vendite con consegna fuori dall’Italia e
dal territorio della U.E. (Unione Europea) e quindi ad esempio le vendite con consegna negli U.S.A. o in
Svizzera o in India o in Marocco ecc.; b2) le “cessioni intracomunitarie” che sono le vendite di beni con
consegna fuori dall’Italia ma dentro al territorio della U.E. e quindi ad esempio le vendite con consegna in
Germania o in Gran Bretagna o in Polonia. Attenzione! Nelle operazioni non imponibili (siano esse esportazioni
o cessioni intraUE non importa) il requisito territoriale c’è: la vendita, infatti, è effettuata nel territorio italiano, nel
senso che il bene, al momento della vendita, si trova in Italia; il fatto che poi esca dal territorio italiano rende
l’operazione “non imponibile” (e quindi il venditore non addebita l’IVA al cliente), ma rimane pur sempre una
“operazione IVA” nel senso visto nel paragrafo precedente. Attenzione ancora! Molti libri di testo (e, temo, anche
il vostro) scrivono che “le operazioni non imponibili mancano del presupposto territoriale”: in questo modo dicono
una castroneria colossale (= sbagliano clamorosamente).
c) Le operazioni esenti sono quelle elencate nell’articolo 10 della legge IVA e si tratta di vendite di beni
ma soprattutto di servizi che lo stato ha voluto privilegiare o a causa del loro carattere assolutamente non
voluttuario, oppure per motivi economici che non vale la pena spiegare. Tra le operazioni esenti più importanti
ci sono i servizi medici e di cura, i servizi scolastici ed educativi, i servizi funerari, i servizi di finanziamento
(prestito di denaro) e i servizi assicurativi.
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3.4) Le “aliquote IVA”: l’aliquota “ordinaria” e le aliquote “agevolate” (o “ridotte”).
“Aliquota” è sinonimo di “percentuale”, e dunque l’aliquota IVA è la percentuale con cui il valore del
bene o del servizio acquistato, nel caso l’operazione rientri fra quelle “imponibili”, viene colpito dall’imposta.
Questa percentuale è fissata dalla legge IVA (per i curiosi, la legge IVA si chiama “D.P.R. 633/1972”, che significa
Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 dell’anno 1972)
L’aliquota “ordinaria” è la percentuale con cui sono colpite tutte le operazioni imponibili che non sono
esplicitamente assoggettate a una aliquota ridotta. In Italia ora è del 22%, (all’inizio, nel 1972 quando fu introdotta
l’IVA, l’aliquota ordinaria era del 12% e poi gradualmente fu aumentata nel corso degli anni. Nel 1997 era già del 20% e poi nel 2011
diventò il 21% e ora, dall’ottobre 2013, è il 22%. Attendiamo fiduciosi per il futuro).
Non esiste, quindi, un elenco dei beni e servizi assoggettati all’aliquota ordinaria (attualmente del 21%): sono
tutti tranne quelli per i quali è previsto qualcosa di diverso.
Le aliquote “ridotte” (o “agevolate”) sono due: il 4% e il 10%.
I beni e i servizi colpiti con l’aliquota agevolata del 4% sono quelli elencati in un elenco (chiamato “tabella”)
che fa parte della legge IVA (la “Tabella A – Parte Seconda”) e, tendenzialmente, dovrebbero essere di stretta
necessità. Fra loro, ad esempio, ci sono generi alimentari come pane, latte, frutta e verdura; i servizi di mensa
scolastica e aziendale; la casa in cui, dopo l’acquisto, si abiterà eccetera.
I beni e i servizi colpiti con l’aliquota ridotta del 10% sono quelli elencati in un’altra parte della stessa
tabella (la “Tabella A – Parte Terza”) e in genere sono beni pur sempre non indispensabili ma non così vitali come i
precedenti. Fra loro, ad esempio, ci sono generi alimentari come carne, yogurt, pesce e sughi pronti; servizi di
ristoranti e bar; l’appartamento al mare per le vacanze eccetera.
Come già detto, tutti gli altri beni e servizi cadono nell’aliquota ordinaria del 22% a meno che non si tratti
di operazioni “esenti” oppure di operazioni “non imponibili” o, ovviamente, non siano operazioni “fuori campo
iva”. A volte capita che il legislatore (cioè chi fa le leggi, e quindi il parlamento o il governo) cambi l’aliquota di un
bene, come è capitato recentemente con le bevande e gli alimenti venduti attraverso macchine automatiche,
beni che sono stati spostati dalla tabella del 4% a quella del 10%.
3.5) La “rivalsa”, la “detrazione”, la “liquidazione”, il “versamento” dell’IVA.
La “rivalsa” dell’IVA è il diritto-dovere del venditore soggetto iva di pretendere l’iva dall’acquirente.
La “detrazione” dell’IVA è il diritto del soggetto iva di recuperare dallo stato l’iva pagata sugli acquisti
(cioè l’iva che altri soggetti iva gli hanno fatto pagare applicando il loro diritto di rivalsa dell’iva).
Con il meccanismo della rivalsa e della detrazione dell’iva i soggetti passivi (cioè le aziende di produzione)
versano allo stato solo la differenza (se positiva) fra l’iva incassata sulle vendite e l’iva pagata sugli acquisti.
La “liquidazione” dell’IVA è, appunto, il calcolo di questa differenza, calcolo che i soggetti iva devono
fare ogni mese, entro il giorno 16, considerando tutte le operazioni di vendita e di acquisto fatte nel mese
precedente (così, ad esempio, entro il 16 marzo dovremo fare i conteggi della differenza fra l’iva che abbiamo addebitato
ai nostri clienti sulle vendite di febbraio e l’iva che i fornitori ci hanno applicato sui nostri acquisti di febbraio). Se in un
mese l’iva sulle vendite risulta inferiore all’iva sugli acquisti, così che la “liquidazione” di quel mese risulta “a
credito”, allora quel credito andrà a diminuire l’eventuale debito del mese successivo e così via.
Il “versamento” dell’iva è il pagamento dell’imposta allo stato da parte dei soggetti iva. Il versamento
ha la stessa scadenza della liquidazione, cioè deve essere fatto entro il giorno 16 del mese successivo a quello
cui si riferisce, e viene fatto tramite banca compilando un modulo (che si chiama “F24”) con il quale i contribuenti
versano quasi tutte le oltre 200 imposte esistenti in Italia.
Le aziende considerate più piccole, quelle che nell’anno vendono per meno di 300.000 – 500.000 € (circa),
possono liquidare e versare l’iva ogni trimestre anziché ogni mese. Se scelgono la liquidazione trimestrale,
però, dovranno versare un 1% in più [così, se l’iva sulle vendite del trimestre luglio-settembre è 25.000 € e l’iva
sugli acquisti del trimestre è 15.000 € l’azienda in liquidazione trimestrale invece di versare 10.000 € (25.000 –
10.000) dovrà versare allo stato 10.100 € (10.000 + 1% di 10.000)].
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3.6) I “documenti iva”, i “registri IVA” e la “dichiarazione” IVA.
I documenti iva. I soggetti iva (e quindi non i consumatori) devono “documentare” ogni operazione iva
attiva e passiva effettuata, cioè ogni loro vendita e ogni loro acquisto deve risultare da un documento e questo
documento dovrà poi essere conservato per anni (5, 10 o anche più, a seconda dei casi). Le operazioni iva di
acquisto devono sempre essere documentate dalla “fattura”; quelle di vendita, invece, in alcuni casi possono
essere documentate, invece che dalla “fattura”, dallo “scontrino fiscale” o dalla “ricevuta fiscale”.
Lo “scontrino fiscale” è il documento più semplice e di più rapida emissione: su di esso è obbligatorio
che ci sia la data di emissione, il numero progressivo di emissione, la denominazione e la partita iva del
venditore e l’ammontare (comprensivo di iva) dell’operazione, cioè l’importo complessivamente richiesto al
cliente. Lo scontrino è il documento che viene rilasciato ai consumatori (quindi ai non soggetti iva) dai negozi, dai
bar, dai fornai, dai supermercati ecc. . Se a volte nello scontrino sono riportate altre cose (come la descrizione delle
cose vendute, come sempre capita negli scontrini dei supermercati) è solo per chiarezza nei confronti del cliente e non
perché il venditore sia obbligato a farlo dalla legge IVA.
La “ricevuta fiscale” è un documento un po’ più completo perché, oltre ai dati obbligatori previsti per lo
scontrino, nella ricevuta è anche obbligatorio descrivere il bene o il servizio venduto. Ad emettere la ricevuta
fiscale sono sempre aziende che vendono ai privati, come i parrucchieri, i meccanici di auto, i ristoranti e altri
artigiani; avendo però questi soggetti un numero di atti di vendita minore di quelli obbligati allo scontrino (un
barista o un fornaio obbligato a descrivere su un documento ogni singola vendita non riuscirebbe a svolgere la sua attività), da essi
la legge pretende che compilino un documento più completo, in modo da rendere più agevoli i controlli.
La “fattura” è, tra i documenti che attestano la vendita, quello più completo, perché oltre alle cose
obbligatorie nella ricevuta fiscale, nella fattura deve anche risultare la denominazione dell’acquirente, il suo
indirizzo, l’importo dell’operazione senza iva (detto “imponibile”), la aliquota iva applicata e l’importo dell’iva
addebitata; se poi l’iva non è dovuta perché l’operazione è esente o non imponibile o fuori campo iva, allora
nella fattura deve apparire quale è la norma della legge IVA che rende tale l’operazione. La fattura deve essere
emessa dalle aziende di produzione quando vendono ad altre aziende di produzione.
I registri iva. I due più importanti “registri iva” sono il registro delle vendite e il registro degli acquisti. In
essi il soggetto iva deve annotare cronologicamente (= registrare giorno per giorno man mano che vengono effettuate) tutte le
operazioni attive (le vendite) e passive (gli acquisti) effettuati.
Il registro iva delle vendite è di due tipi: il “registro dei corrispettivi” e il “registro delle fatture emesse”.
Il primo è usato dalle aziende che vendono normalmente ai non soggetti iva (cioè ai consumatori); sono quindi le
aziende che documentano le vendite con gli scontrini fiscali o le ricevute fiscali, le quali devono a fine giornata
scrivere sul “registro dei corrispettivi” l’importo totale, comprensivo di iva, delle vendite del giorno, importo
che, nel caso di emissione di scontrini fiscali, risulta dalla somma degli scontrini emessi, che sono stati
memorizzati dal registratore di cassa.
Il registro delle fatture emesse è invece usato da tutte le altre aziende, e in esso si devono registrate
singolarmente tutte le fatture in ordine progressivo di emissione e indicando per ognuna la data e il numero di
emissione, il nominativo del cliente, l’importo dell’imponibile e dell’iva suddiviso per aliquota, nonché il totale
del documento e altri dati che tralascio perché ho pietà di voi.
Nel registro iva degli acquisti, invece, ogni soggetto iva (qualunque attività svolga, che venda cioè ad altre
aziende o a privati consumatori) deve annotare ogni singola fattura ricevuta dai fornitori, riportando gli stessi dati
visti nel registro delle fatture emesse.
Ogni mese (o, come già detto, per le piccole aziende che lo vogliano, ogni trimestre) i dati della liquidazione iva che
risultano dalle registrazioni effettuate nei vari registri devono essere riportati sul registro delle fatture emesse (o
sul registro dei corrispettivi).
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La “dichiarazione IVA” è un documento che i soggetti iva devono inviare allo stato ogni anno (la scadenza di
questo adempimento varia, ma normalmente è entro il 30 settembre dell’anno successivo) e in cui devono riportare
l’ammontare delle operazioni iva attive (vendite) e passive (acquisti) fatte nell’anno e suddivise per tipologia
(imponibili al 21%, imponibili al 10%, imponibili al 4%, non imponibili, esenti e tanti altri tipi che non riporto sempre per
compassione verso di voi). In questo modo lo stato ha la possibilità di controllare che i versamenti iva effettuati dal
soggetto passivo siano corretti. Lo stato può anche fare altri e più approfonditi controlli, inviando nella sede
dell’azienda dei suoi dipendenti (militari della “guardia di finanza” o civili della “agenzia delle entrate” o dell’”agenzia delle
dogane”) i quali possono verificare che il soggetto iva abbia rispettato tutte le norme previste dalla legge, ad
esempio abbia sempre documentato le vendite con le fatture o le ricevute o gli scontrini fiscali, abbia sempre
registrato correttamente tutte le operazioni di vendita e di acquisto nei registri obbligatori, non abbia fatto errori
nelle liquidazioni mensili ecc. .
Come già ho scritto, negli ultimi anni l’amministrazione ha acquisito la capacità di conoscere sia tutti i
movimenti di denaro (ad eccezione di quelli in “contante”, cioè in banconote) effettuati da ogni azienda e da ogni
famiglia, sia tutte le vendite di beni e servizi di importo superiore a 3.000 € (per ora, ma è prevedibile che tale limite
col tempo diminuisca). In questo modo la vita del povero (ma anche del ricco) evasore fiscale diventerà sempre più
rischiosa e quella di ogni cittadino sempre più osservata, spiata e controllata da sempre più persone.
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4) Approfondimenti sulla fattura.
Di fatture ne esistono di due tipi: la fattura “immediata” e quella “differita”.
In questa pagina vi propongo la fattura immediata, cioè emessa lo stesso giorno della consegna della merce, che
la Realco Soc.Coop. ha emesso in seguito all’acquisto di vari prodotti da parte di un bar-gelateria.
Non esiste una struttura
grafica particolare che
debba essere rispettata, e
quindi ciascuna azienda
è libera di dare alle
proprie fatture l’aspetto
che preferisce,
l’importante è che siano
riportati tutti i dati
previsti dalla legge IVA.
E’ comunque vero che,
quasi sempre, le fatture,
immediate o differite,
seguono la stessa
struttura dell’esempio, e
cioè, partendo dall’alto,
riportano in questo
modo i dati obbligatori:
- generalità del vendi -
tore (Realco Soc. Coop.,
indirizzo, P.iva e vari altri
dati facoltativi);
- generalità del
compra - comtore (che ho
provveduto a canccancellare
per riservatezza);
- il tipo di docum.
(fattura), il numero e la
data di emiemissione (n. 17513/39, data 30/7
30/7/2012);
- la descrizione in
quantità e e e qualità
della merce o dei
servbeni e servizi
venduti
- il prezzo e
l’aliquota iva di di
ognuno (3,49 € e 21% il
prim primo ecc.);
- il totale degli imponibili, cioè dei prezzi, e quello dell’iva per ognuna delle aliqaliquote utilizzate (35,16 di
impoimponibile e 1,41 di IVA al 4%, 234.63 di imponibile e 23,46 di IVA al 10%, 210,59 di imponibile e 44,22 di IVA al 21%);
- il totale del documento (la somma fra tutti gli imponibili e le imposte 549,47 €).
Tutti gli altri dati (condizioni di pagamento, di trasporto ecc.) non sono obbligatori ma sono ugualmente quasi
sempre presenti per chiarezza e quindi per ridurre le probabilità di controversie causate da possibili equivoci tra
le parti.
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In questa pagina, invece, trovate un esempio di fattura “differita”, cioè emessa in un giorno successivo
alla consegna dei beni, con, più sotto, il relativo D.d.T. (Documento di Trasporto).
In effetti, la merce
oggetto di questa fattura
fu consegnata in due
giorni diversi (il 9 e il 23
luglio 2012); più sotto
trovare il documento
relativo alla consegna
del 9 luglio.
Il venditore, infatti, se
non vuole emettere la
fattura immediata (cioè
quella emessa entro lo stesso
giorno di consegna), deve
emettere, entro il giorno
del ritiro della merce da
parte dell’acquirente o
del vettore incaricato del
trasporto, un altro
documento (il “D.d.T.”,
Documento di Trasporto,
nato più di trent’anni fa come
“bolla di accompagnamento”,
ma che ha cambiato nome da
quando, nel 1996, non è più
obbligatorio che viaggi
insieme alla merce).
Anche il DDT, come la
fattura, non ha alcun
vincolo di forma o
tracciato; deve essere
emesso in un minimo di
due copie o, nel caso il
trasporto sia effettuato da
un vettore, di tre copie:
una deve essere trattenuta
e conservata da chi lo
emette, cioè il “mittente”
della merce, il quale se la
farà firmare dal
destinatario o dal vettore
che ritira la merce in
modo da avere la prova
dell’avvenuta consegna;
l'altra copia deve essere
consegnata al destinatario
(= acquirente) e, infine,
l’eventuale vettore si terrà
la terza copia che si farà
firmare dal destinatario.
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Come ho già scritto, il DDT che avete come esempio è solo il primo (datato 9/7/2012 e numerato XA 3160) dei
due compresi nella fattura: l’altro, come si può leggere in alto nella fattura, fu emesso il 23/7/2012 con il
numero XA 3448.
Il documento di trasporto deve riportare i seguenti dati:
il numero progressivo (XA 3160);
la data (9/7/2012);
le generalità del cedente (Cono Modena s.r.l.), del destinatario (Gelateria XY) e dell'eventuale
incaricato al trasporto (nel nostro caso non c’è perché il trasporto è stato fatto dal mittente);
la quantità e la descrizione dei beni trasportati.
Anche se non obbligatorio, è necessario che il DDT venga emesso anche quando si consegnano dei beni
per un motivo diverso dalla vendita (ad esempio per farli riparare o per farli lavorare o per visione o prova ecc.), e questo
perché se capita un controllo fiscale in azienda (della guardia di finanza o di dipendenti dell’agenzia delle entrate) tutti i
beni che risultano entrati in azienda (dalle fatture di acquisto, ma non solo) anche negli anni passati e che non sono
presenti al momento del controllo si presume che siano stati venduti (e quindi ci deve essere la fattura di vendita), e
l’unico modo per vincere questa presunzione è aver conservato il DDT di uscita del bene per un motivo diverso
dalla vendita.