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Saperi contro le Mafie
“Da via Emilia… Per una nuova primavera“
È ormai alle porte la XX edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in
ricordo di tutte le vittime di mafia. Quest’anno la manifestazione si terrà a Bologna,
nel cuore dell’ Emilia Romagna: occorre quindi scandire bene questi ultimi passi, se oggi
vogliamo attribuire a quella giornata il significato che merita. In una Emilia Romagna
ancora rossa - ma solo di rabbia per l’umiliazione a cui ha assistito e che ha
subito negli anni per un disegno affaristico-politico-mafioso compiutosi con la strage di
Bologna e che si componeva di complicità e connivenze, depistaggi e negazionismo all’
interno di blocchi di potere - viene a galla oggi una verità per nulla nuova agli occhi di
molti, soprattutto a quelli di chi già da tempo faceva opera di inchiesta e denuncia della
massiccia presenza di importanti esponenti ed imprenditori ‘ndranghetisti nel territorio
emiliano, su tutti il clan Grande Aracri.
Stiamo parlando dell’operazione Aemilia che con 160 arresti, oltre 200 denunciati e una
richiesta di sequestro di beni per oltre 100 milioni di euro ha messo in luce un fitto sistema
di criminalità organizzata insinuatosi nel tessuto economico, sociale e politico delle
province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia e non solo. Associazione di tipo
mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegale di armi da fuoco,
intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di fatture false: queste le
accuse indirizzate ad una rete criminale che ha trovato terreno fertile soprattutto nel
sistema di concessione degli appalti. Si va da quelli per la ricostruzione post terremoto nel
2012 (come d’altro canto è accaduto nel 2009 a L’Aquila), agli appalti pubblici e
subappalti di grosse cooperative in materia edile ed a quelli per lo smaltimento
dei rifiuti. Quest’ultimo caso è forse tra i più significativi: per la rimozione delle macerie
venivano effettuate operazioni illecite di recupero e miscelazione di ingenti quantitativi di
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rifiuti, senza procedere alla distinzione di quelli pericolosi, in particolare contenenti
amianto, ma anzi abbandonandoli in modo incontrollato in zone limitrofe a scuole. E non è
tutto: il condizionamento dei clan, legati a esponenti politici locali oltre che
imprenditori, ha influenzato anche alcune tornate elettorali in vari comuni della
regione, in primis Brescello, Reggio Emilia e Parma.
Di fronte a tutto ciò si manifesta lo stupore e lo spiazzamento di chi ha sempre negato una
presenza delle organizzazioni criminali al Nord Italia e ridotto il fenomeno mafioso ad
elemento intrinseco all’economia e alla politica del Sud. Le recenti operazioni antimafia
hanno fatto emergere, invece, una realtà ben diversa: dallo scandalo Mose a Venezia, a
Mafia Capitale, che ha visto il clan di Carminati operare in una città apparentemente
immune come Roma, fino all’eclatante caso Expo, esploso a maggio con l’arresto di
personaggi già protagonisti nelle vicende di Tangentopoli, quali Frigerio e Greganti e la
fitta rete criminale radicata in Emilia. Si è così rivelato l’intreccio tra mafie, appalti
pubblici e politica, tale da non poterne ignorare il radicamento sull’intero
territorio nazionale, da Nord a Sud, nessuno escluso. Le organizzazioni criminali,
infatti, si nutrono di grossi appalti pubblici, perlopiù dislocati nel Nord Italia, dotandosi di
una rete di protezione nelle cui maglie si intersecano cointeressenze e rapporti tra politici,
magistratura e forze dell’ordine.
Il quadro è inconfutabile prova dell’allarmante stato di corruzione del nostro Paese, che
regala all’Italia un triste primato su scala europea, come evidenziato anche dai rapporti
statistici di Transparency. Il più alto tasso di radicamento della presenza mafiosa
registrato nel Nord Italia negli ultimi anni è dovuto anche alle scelte politiche e
di investimento della classe dirigente, eterodirette o fortemente influenzate dalla
grande imprenditoria capitalistica, partner ufficiale delle organizzazioni criminali. Infatti, sia
che si tratti di grandi opere quali Tav, Mose ed Expo, sia di drammatiche tragedie come
terremoti o alluvioni, laddove si presenti l’opportunità di affari ultramilionari è strutturale,
se non addirittura fisiologica, la presenza mafiosa, in un sistema di produzione come quello
capitalistico, che, con la sua logica del profitto, si nutre ed alimenta le organizzazioni
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criminali ed il dissennato sfruttamento di territorio e manodopera.
In grandi opere quale Mose, Tav, Expo o dove comunque il giro di affari è massiccio come
per gli appalti post terremoto in Emilia, si registra puntualmente una strutturale presenza
criminale che conclude preziosi affari sulle casse pubbliche. Ciò su cui si lucra sono
talvolta servizi privi di un’utilità concreta e di lungo periodo per i territori e le
popolazioni, altre volte misure essenziali e necessarie per il risanamento dei
territori. Questi vengono impunentemente resi funzionali solo e soltanto
all’arricchimento delle mafie e al mantenimento dei rapporti clientelari tra
politica e sistema imprenditoriale.
Altro aspetto che va menzionato è la ricaduta di tutto ciò sul lavoro, con gestione e
sfruttamento di manodopera da parte di capitalismo selvaggio e criminale, senza scrupoli.
Nell’ inchiesta Aemilia infatti la società Bianchini srl come scrive il Gip, organizzava il lavoro
caratterizzato da sfruttamento, mendiante minaccia e intimidazione, approfittando dello
stato di bisogno dei lavoratori. Ma lo sfruttamento del lavoro e le paghe da miseria anche
queste sono una costante nel sistema di gare d’appalto fatte al massimo ribasso.
Focus: quale radicamento e quale forza hanno i clan mafiosi
in Emilia Romagna?
In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul
medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori
maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei
casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella
provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In
Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La
'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e
Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca,
della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da
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Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di
Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la
sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi
anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini
criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan
campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con
esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano
soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del
febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti
appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i
Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne
è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in
Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la
maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche
sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto
del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali.
L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei
comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti
obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo
Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella
zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie
di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata
la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo
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Beni Confiscati. Quali prospettive per un riutilizzo sociale
dei patrimoni sottratti alle mafie?
Da decenni, sono evidenti i segnali di un progressivo radicamento della criminalità
organizzata nella nostra Regione. Recenti sono, inoltre, i dati pubblicati dal Ministero
dell’Interno. Nel periodo Settembre 2013-Luglio 2014 sono stati dodici i beni
definitivamente confiscati nella nostra regione, su un totale confiscato, negli anni di
funzionamento della legge, di circa un centinaio, ed ancora, 448, per un valore
complessivo di 21 milioni di euro, sono stati i beni sequestrati. Questi dati pongono l’Emilia
Romagna fra le prime sei regione italiane ed al primo posto fra quelle al nord del Lazio.
L’università di Bologna negli scorsi anni ha avviato l’esperimento di un master nella
gestione dei beni confiscati. Riteniamo utile mettere a frutto il lavoro avviato con
quest’esperienza, interrogandoci in maniera più generale sulla gestione e l’utilizzo dei beni
confiscati come momento in cui avviare un processo di partecipazione democratica dal
basso in cui individuare i bisogni sociali che un riutilizzo corretto e trasparente di quei beni
può contribuire a soddisfare. È necessario decostruire la logica del profitto a tutti i costi e
avviare una riflessione e un percorso dove siano messi al centro i beni comuni e la
partecipazione collettiva nella loro gestione. Questo modello sarebbe una sperimentazione
alternativa sia al profitto privato sia alla mala gestione del pubblico, che rappresentano
entrambi il tessuto in cui fenomeni corruttivi e criminali possono inserirsi, radicarsi ed
estendersi. Sarebbe un’occasione inoltre per ripensare un modello di sviluppo, un’urgenza
che non si può eludere: diritti sociali, casa, servizi pubblici, spazi culturali e di creatività,
protezione dell’ambiente sono criteri con cui possiamo e dobbiamo sfidare la crisi,
l’austerità e i suoi effetti devastanti. La riflessione dovrebbe allargarsi ai beni che si
trovano in stato di fatiscenza e abbandono: né il loro permanere in questo stato né
eventuali mire speculative risponderebbero ai bisogni e alle aspirazioni civili e sociali cui è
necessario dare risposte concrete.
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Come si alimenta la mafia?
La criminalità organizzata non opera più esclusivamente nel settore dell’illecito
in quanto tale (droga, prostituzione, gioco d’azzardo), ma cerca sempre più di
mascherare i reati dietro una facciata di qualità e innovazione.E' il caso dell'agromafia,
l’attività illegale che riguarda l’infiltrazione criminale nei processi di tutta la
filiera agroalimentare, dalla produzione al trasporto alla distribuzione dei prodotti.
E' facile intuire che un comparto come quello dell’agroindustria assuma una centralità
prioritaria rispetto alla ramificazione delle mafie, interessando lo sviluppo di un business di
dimensioni rilevanti in quanto collegato in maniera diretta al fabbisogno primario della
sopravvivenza di milioni di persone, specie in momenti di crisi.
Inoltre, attraverso l'esercizio del potere sulle campagne, le organizzazioni mafiose
esercitano un controllo capillare sul territorio, da utilizzare anche come punto di partenza
per ulteriori sviluppi imprenditoriali.
Cambiano anche i metodi di lavoro nel settore agricolo controllato dalle mafie: i vari clan,
infatti, fanno cartello, mettendo da parte le guerre interne e spartendosi i proventi,
determinando così un’alterazione del mercato tale da causare un vero e proprio
monopolio. Imposizione di prezzi d’acquisto all’agricoltore, controllo della manovalanza
tramite caporalato, utilizzazione di proprie ditte di trasporto e di proprie società di
facchinaggio per carico e scarico merci, ingresso nella grande distribuzione: sono questi i
passaggi tramite i quali le mafie si infiltrano nella filiera agroalimentare, riuscendo ad
intercettare tutti i momenti utili alla creazione di “valore”. Valore economico, s’intende,
visto che a perdere sono la qualità e l’affidabilità del marchio “made in Italy”. Basta
pensare al fenomeno dell’Italian Sounding, ovvero la tendenza a rilevare note
aziende italiane sfruttandone il nome e l'affidabilità acquisita per usarle come
volano per la distribuzione di prodotti scadenti e realizzati a costi bassissimi.
Cedere allo svuotamento del marchio, utilizzare materie prime non locali, fino, talvolta, ad
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arrivare alla delocalizzazione dell’impresa con le conseguenti crisi occupazionali, diventano
quindi passaggi obbligati per l’ agricoltore italiano, stretto dalla concorrenza straniera, da
un lato e, dall'altro, dalla pressione fiscale delle voci di costo poco comprimibili.
Un terreno fertile per le organizzazioni criminali (Eurispes e Coldiretti stimano che il
volume d’affari complessivo delle agromafie raggiunge i 15,4 miliardi di euro nel 2014, con
un aumento del 10% rispetto al 2013) che sfruttano consapevolmente queste difficoltà
finanziarie e tra usura, racket estorsivo, macellazioni clandestine, danneggiamento delle
colture, contraffazione, abusivismo edilizio, caporalato e truffe ai danni dell'Unione
europea, si internazionalizzano e si ramificano sfruttando e compromettendo uno dei pochi
settori che in Italia si rapporta in modo confortante con la crisi.
Complice e causa delle infiltrazioni criminali nell’ agroalimentare è l’assenza di
una legislazione comunitaria che indichi parametri scientifici a tutela della qualità dei
prodotti e della salute dei consumatori. Un vuoto normativo che le mafie sfruttano per
fornire soluzioni illegali per abbattere i costi di produzione. Ed è così che la filiera si
allunga, aumenta il numero degli intermediari e lo slogan del made in Italy “dal produttore
al consumatore” viene svuotato di senso, a danno di trasparenza e legalità.
A rimetterci pesantemente sono agricoltori e consumatori: i primi, che a causa di costi
poco comprimibili, come i salari, hanno subito un pesante calo del reddito (da 7,6 a 1,5
euro per ogni 100 euro prodotti dalla filiera); i secondi, privati totalmente della possibilità
di effettuare un controllo diretto sulla qualità degli acquisti. Lo sviluppo di questo tipo di
mercato ha favorito, inoltre, la scomparsa delle risorse territoriali e l’erosione della cultura
rurale. La reintroduzione della "filiera corta", che consente agli agricoltori di tornare
ad essere soggetti attivi nel sistema agroalimentare italiano, si sta affermando come un
tentativo per rimediare alla situazione.
La criminalità organizzata, oltre che nella commercializzazione e nella grande distribuzione,
s’infiltra anche nel momento iniziale della filiera produttiva, che riguarda il reclutamento
della manodopera agricola: qui vige il caporalato. I lavoratori sono costretti a lavorare
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per intere giornate, senza pause, con salari da fame e in una perenne situazione di ricatto.
Caporalato non è solo uno sfruttamento del lavoro nelle sue forme più bieche, caporalato
significa che gli accadimenti si inseriscono in un contesto più ampio di massima violazione
dei diritti umani. La moderna schiavitù infatti non sta solo nella coercizione fisica,
ma è laddove si lede la libertà di autodeterminazione. E’ quasi sempre riscontrabile,
infatti, una sovrapposizione tra sfruttamento e condizioni dei territori. I caporali hanno cioè
maggior forza in contesti di grave disagio, dove è più facile far accettare offerte di lavoro
intermediate illegalmente.
Ripartire dall’ antimafia sociale
Siamo convinti che non sia possibile restare chiusi nelle “stanze dell’ antimafia
istituzionale”, arenarsi sulla retorica del contrasto alla criminalità organizzata così
largamente condivisa ad ogni livello del discorso pubblico da tutte le parti in gioco quanto
disattesa sul campo delle politiche e delle scelte. Occorre piuttosto rendere patrimonio
collettivo lo studio - che il mondo dell’antimafia sociale fa suo da tempo - del fenomeno
criminale e mafioso non come “metafora” astratta ma come sistema di potere e di
relazioni. Sono necessari la rinascita e lo sviluppo di un nuovo modello culturale, un vero e
proprio rinascimento etico di coscienza, un sussulto di voglia di corresponsabilità, di
partecipazione e di condivisione, da parte della nostra intera comunità regionale
abbandonando provincialismi e pregiudizi.
Riteniamo sia fondamentale trasmettere e insegnare una rinnovata educazione
dell’antimafia e della giustizia, a partire dalle scuole, dai luoghi di crescita e formazione,
fino a toccare l’intero tessuto sociale. Ma questo non può prescindere da una lettura del
reale che pensi e sviluppi alternative storicamente valide alla conformazione economica e
politica della società odierna, mettendo al bando le forme di accumulazione e
assoggettamento capitalistico e i modelli di produzione dell’ attuale sistema economico,
che comprimono diritti, tempi e spazi di vita. Questo bisogno è tanto più vero se si è
disposti a riconoscere la mafia come sistema di potere in grado di dominare e sfruttare
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corpi e pensieri, basato sul privilegio e sulla privazione dei diritti, catalizzatore di
disoccupazione, esclusione sociale, sottosviluppo e corruzione.
Per costruire quindi anche in questa regione un sentimento e una pratica comune
antimafiosa occorre quindi ripartire dalle singole realtà territoriali e di movimento che
operano già nei diversi contesti quali scuola, università e luoghi di lavoro ma che abbiano l’
intenzione di tessere percorsi di mobilitazione inclusivi, capaci di sperimentare nuove
pratiche politiche, per rivendicare maggiore estensione di diritti e misure welfaristiche in
grado di garantire l’ emancipazione economica e sociale che restituisce dignità e libera dal
ricatto delle mafie divoratrici.
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