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Attività umana, beni, aziende, produzione e consumo. 1) L’attività umana e l’economia
a) Il poeta per poetare ha bisogno di mangiare, ed in più di carta e penna ne fa uso esagerato.
(Produce poesia e consuma cibo, carta e inchiostro).
Qualsiasi attività umana, anche la più nobile ed
elevata, si concretizza inevitabilmente in attività
di produzione e di consumo. Senza sufficiente
cibo, senza carta e senza inchiostro, Dante e
Shakespeare non avrebbero prodotto le loro
opere, lasciando di sé solo le loro ossa.
Poetessa satolla e munita di carta e penna Tutto ciò che, senza carta e penna, resterebbe del poeta
b) I soldi non si mangiano; i soldi non riparano dal freddo; i soldi non tolgono il mal di denti (né per via
orale, né per via rettale); i soldi non profumano le ascelle; i soldi non riparano i rubinetti ecc. ecc. Gli
spaghetti si mangiano; un piumino ci tiene al caldo; un analgesico lenisce (= attenua) il mal di denti; un
deodorante ascellare agevola la socializzazione; il servizio dell’idraulico ripara il rubinetto ecc. ecc.
Non sono i soldi a soddisfare le esigenze
umane, bensì i beni. I soldi servono per
facilitare gli scambi, cioè gli acquisti e le
vendite; servono a rendere più efficiente
l’attività di produzione e di consumo, perché
senza scambi ognuno dovrebbe prodursi da sé
gli spaghetti, i piumini, i farmaci, i deodoranti
e la riparazione del rubinetto; i soldi,
facilitando le relazioni fra le persone, rendono
più fluida, più efficiente l’attività umana, ma
L’inutilità dei soldi in sé servono a niente e perciò non hanno valore. L’utilità dei beni
c) I beni (gli spaghetti, i piumini, i farmaci, i deodoranti, i servizi di riparazione ecc.) non esistono in natura, e
allora per ottenerli l’uomo la deve modificare.
La natura è mamma buona solo di quegli
stronzetti dei puffi, ma è matrigna carogna di noi
umani: la lasciassimo fare moriremmo tutti
presto di fame e malattie varie. I beni, non
esistendo in natura, li dobbiamo produrre noi
umani modificando l’ambiente naturale.
La Natura nella fantasia. La Natura nella realtà
d) Per produrre i beni servono il lavoro dell’uomo e altri beni, non i soldi: i soldi non avvitano i bulloni,
non piegano le lamiere, non cementano i mattoni, non fanno andare i motori ecc.
A produrre i beni sono il lavoro umano e
il “capitale”, cioè altri beni come chiavi
inglesi, camion, edifici, robot, computer,
cemento, materie prime ecc. . I soldi,
infatti, non rientrano nel concetto di
capitale ma di “capitale finanziario”, che
è tutt’altra cosa e che, in sé, serve a nulla
I soldi non producono i beni Sono il lavoro e il capitale che producono i beni
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La pagina precedente è fondamentale: solo un ignorante (di economia) può ritenerla semplice o,
peggio, banale. Devi perciò comprenderla e assimilarla profondamente. Se pensi di cavartela
leggendola in modo superficiale o anche imparandola a memoria, sei completamente fuori strada. Il mio
compito è farti capire le basi dell’economia e anche del funzionamento di un’azienda, e i cinque anni (con
due ore in prima e in seconda e cinque o sei settimanali nel triennio) saranno sufficienti solo se ti impegnerai a fondo. Se la
comprensione dell’economia (intendendo per economia lo studio di come una società decide che cosa produrre, come e per chi (1)) non
è facile, ciò è dovuto anche al fatto che quasi tutti (alla televisione, sui giornali, a scuola, in famiglia, al bar ecc.) ne parlano
credendo di dire cose sensate e non si accorgono, invece, di sparare quasi sempre enormi sciocchezze.
Chi non ha alle spalle anni e anni di studi medici non si metterebbe mai a discutere di quali sono
i sistemi migliori per normalizzare il battito cardiaco in caso di fibrillazione atriale; invece un po’ tutti,
anche senza aver studiato economia, si sentono di dire la loro, ad esempio, su cosa si dovrebbe fare per
ridurre la disoccupazione, e così chi di economia ne capisce è costretto a sentire, magari pronunciate da
qualche “esperto” alla televisione o da qualche politico in parlamento, un sacco di idiozie
megagalattiche del tipo che “bisogna lasciare andare in pensione prima i lavoratori per fare posto ai
disoccupati”.
Immagina ora questa scena:
sei in macchina, accendi la radio e ti capita di sintonizzarti su un canale nel momento in cui la
conduttrice chiede ai due “esperti”, ospiti della trasmissione: “ … ma allora, in conclusione, quali sono
le cause dell’insonnia e quali i rimedi che si possono suggerire?” Il primo esperto risponde: “Il fatto
che i disturbi del sonno siano sempre più diffusi fra la nostra popolazione è principalmente dovuto alla
recente accelerazione del moto rotatorio del sole intorno alla terra che causa significative alterazioni
nel metabolismo umano. Il rimedio all’insonnia è, quindi, utilizzare orologi a velocità variabile,
sincronizzati con il mutante movimento del sole”; interviene il secondo ospite: “Ciò che ha detto il
prof. Mentechiara è innegabile, e una dimostrazione è che il problema dell’insonnia non si è aggravato
fra le popolazioni dell’Oceania, proprio per effetto del fatto che all’accelerazione del moto solare
nell’emisfero boreale si contrappone un rallentamento del sole nell’emisfero australe”.
Arrivi a casa, convinto di aver ascoltato una trasmissione comica non particolarmente divertente;
sali le scale, entri in cucina dove, con la televisione accesa, ti accoglie tua madre: “Hai sentito cosa
hanno deciso all’ONU? L’ha proposto Obama, ma sono stati tutti d’accordo, anche la Cina: fra due
settimane, quando la luna sarà piena, verrà bloccata nel cielo così che tutte le notti dell’anno saranno
rischiarate dalla sua luce e si potrà risparmiare il 53,99% dell’energia elettrica consumata per
illuminare le strade del mondo. Non ti sembra una grande idea?”
Stupefatto, esci di casa e ti accorgi che tutti ormai usano orologi a velocità variabile causando
casini incredibili e si aspettano che la prossima luna rimarrà piena tutte le notti. A questo punto,
consapevole di aver seguito le lezioni di geografia astronomica alle medie con scarsa attenzione, per
scrupolo vai su Wikipedia e poi anche in biblioteca a consultare un testo di astronomia; è come pensavi,
sono tutti pazzi e sei tu ad aver ragione: è la terra che gira intorno al sole, è la rotazione della terra sul
suo asse a determinare il giorno e la notte e fermare la luna non è possibile.
(1) La “Economia”, intesa come “scienza economica”, è stata definita in tanti modi; la definizione riportata è di Stanley Fischer
e Rudiger Dornbusch (“Economics”, pag. 3, McGraw-Hill 1983); quando parlerò di “economia” come disciplina di studi, darò al termine
questo significato, esprimibile anche in quest’altro modo: “L’economia è la scienza che studia come l’uomo affronta la scarsità”
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La situazione descritta non è, ovviamente, pensabile che si verifichi realmente; ma lo stato
d’animo che vivresti se si realizzasse è analogo a quello di chi ha studiato (e capito) l’economia e vive
nel mondo reale: ascolta corbellerie in tutte le trasmissioni, legge idiozie sui giornali, frequenta persone
la gran parte delle quale crede a quelle sciocchezze e vede i governi di un po’ tutto il mondo prendere
decisioni sbagliate.
Ma perché l’economista è condannato a vivere questa esperienza che, invece, all’astronomo o al
medico viene risparmiata? Perché le idee e le teorie astronomiche e la scienza medica nulla hanno a che
fare, almeno da qualche secolo, con il potere di governo, mentre le idee e le teorie economiche hanno
ancora, e avranno sempre, molta influenza sul potere politico.
E’ naturale che secoli fa fosse tanto diffusa l’idea errata che il sole girasse intorno alla terra: le
conoscenze scientifiche erano scarsissime e l’apparire dell’alba a Est e del tramonto a Ovest portava a
quella convinzione. Se oggi tutti sanno che è la terra a girare intorno al sole e che è il suo girare su sé
stessa ad alternare il giorno e la notte, è perché gli astronomi, grazie a osservazioni e riflessioni più
attente, lo hanno capito molti secoli fa, e successivamente questa conoscenza si è potuta diffondere
anche fra i non esperti in quanto nessuno, almeno negli ultimi secoli, aveva un qualche interesse che la
gente continuasse a credere nell’idea sbagliata.
Per l’economia le cose funzionano diversamente dall’astronomia e dalla medicina: alcune idee
antiche continuano purtroppo a dominare e a essere comunemente ritenute corrette nonostante da tempo
ne sia stata dimostrata la falsità. Ed è così perché in tanti, e principalmente coloro che hanno o che
cercano il potere di governo, hanno interesse che le idee corrette non si diffondano.
Negli anni in cui ci frequenteremo e parleremo di economia tenterò, fra le altre cose, di dare il mio
minuscolo contributo a modificare questo stato di cose.
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2) I “beni” e i “beni economici”.
Un bene è qualsiasi cosa, materiale o immateriale, che soddisfa un bisogno
Quando l’uso di un bene da parte di qualcuno non limita la possibilità di consumare lo
stesso bene da parte di altri, allora quel bene non è un “bene economico”.
Così, ad esempio, non sono beni economici la luce del sole o l’aria: entrambi certamente sono
“beni”, in quanto soddisfano esigenze umane; ma dal momento che quando tu prendi il sole e respiri
l’aria non limiti le mie possibilità di fare altrettanto, allora significa che la luce del sole e l’aria sono
beni sovrabbondanti rispetto alle esigenze, non sono cioè scarsi, e quindi non sono beni economici.
Quando un bene è, invece, scarso rispetto ai desideri degli uomini, allora quello è un
“bene economico”.
Attenzione, quindi: se parlo di “beni economici” non alludo a beni acquistabili a poco prezzo,
ma a qualsiasi bene che non sia disponibile per tutti in modo gratuito, sia che costi molto come una
Ferrari sia che costi pochissimo come un chiodo.
Così, sono beni economici, ad esempio, un’auto, una casa, ma anche un ponte, una visita
medica, una scatola di abbracci del Mulino Bianco, un trattore, un posto al concerto di Ligabue, un
muletto, una telefonata al cellulare, un taglio di capelli, una vacanza a Milano Marittima ecc.
I beni economici (ma d’ora in poi, per comodità, li chiamerò semplicemente “beni”, dal momento che
dei beni non economici ce ne frega nulla), devono essere prodotti, perché in natura non ci sono. E a creare i
beni sono le “aziende” (che conosceremo nel paragrafo 5) a pagina 6).
3) La classificazione dei bisogni, l’utilità decrescente dei beni e il valore.
I libri di testo suddividono i bisogni in vari modi, cominciando a distinguere fra bisogni
“primari” (o “necessari”) e “secondari (o “voluttuari”). Io credo che una classificazione abbia senso solo se è utile
e se è possibile stabilire il confine fra un elemento e l’altro, ma poiché nelle classificazioni che in genere
i testi fanno dei bisogni non mi pare che sia così, non ve ne propongo alcuna.
Ad esempio: quale è la distinzione fra bisogno primario e bisogno secondario? Per il vostro libro
i bisogni primari (o necessari) sono quelli “ … legati a stati di bisogno fondamentali per la sopravvivenza
di ogni individuo, come il bisogno di nutrirsi, di dormire, di vestirsi”, mentre i bisogni secondari (o
voluttuari) sono quelli “ …che sono soddisfatti dopo quelli fondamentali e che dipendono dal desiderio di
condurre una vita qualitativamente migliore, come il bisogno di spostarsi col motorino, di svolgere
un’attività sportiva”.
A prima vista la distinzione potrebbe sembrare chiara, ma in realtà vale nulla; infatti, poiché per
sopravvivere a un individuo bastano pochi etti di pane secco al giorno per nutrirsi e una caverna e un
cappotto per ripararsi dal freddo invernale, ne risulta che qualsiasi altro bene (come il water, l’energia elettrica, un
materasso, un paio di scarpe o un po’ di frutta una volta al mese) soddisfa bisogni voluttuari; a questo punto, quindi,
praticamente tutti i bisogni risultano voluttuari, e quindi perde di senso la classificazione.
Mi sembra importante, invece, segnalarvi un concetto semplice e perfino banale, ma che è
centrale per la comprensione dell’economia: quello della “utilità marginale decrescente dei beni”, cioè il
fatto che la soddisfazione che otteniamo dalla prima mela (o dal primo iPad o dal primo scooter o dalla prima giornata a
Mirabilandia o dal primo quello che ti pare) è maggiore di quella che ci dà la seconda mela (o il secondo iPad o il secondo scooter o
la seconda giornata a Mirabilandia o il secondo quello che ti pare); e ancor meno ne otteniamo dalla terza mela ecc. ecc.
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Questo concetto ne introduce un altro, pure importantissimo:
non esiste il valore oggettivo (certo, giusto) di un bene.
Qualsiasi economista che non sia un ciarlatano (= buffone, fanfarone) sa che il concetto di valore “vero”
di un bene o, come anche si dice, di prezzo “giusto”, è un non senso, un’idea tanto assurda quanto
diffusa fra chi non ha studiato economia. E il valore “oggettivo”, certo, non esiste non solo perché per me
un concerto con musiche di Mozart vale molto di più di un concerto di Luciano Ligabue mentre per te è
il contrario (come dire che il valore dei beni è soggettivo), ma non esiste per almeno altri due motivi:
1. perché il valore che diamo a un bene è in funzione della maggiore o minore disponibilità che abbiamo
dello stesso bene (è il concetto visto prima dell’utilità marginale decrescente);
2. perché il valore di un bene dipende anche dalla disponibilità di altri beni (se, ad esempio, venisse a mancare la
benzina, il valore delle biciclette aumenterebbe mentre quello degli scooter diminuirebbe).
Per capire l’economia è fondamentale
comprendere che il valore dei beni, cioè
delle cose e dei servizi che desideriamo (da
un astuccio alla zappa, da un caffè al bar a un volo a New
York), non è oggettivo, non è cioè un dato
certo che può essere misurato.
Tra le domande “qual è il valore di
quel bene?” e “qual è il colore di quel
camaleonte?” quella con più senso è di
gran lunga la seconda (= è molto più intelligente la
seconda). Ad essa, infatti, pur non potendosi
rispondere una volta per tutte poiché il
colore del camaleonte cambia in funzione
dell’ambiente in cui è inserito, è pur sempre almeno possibile rispondere univocamente caso per caso:
“lì, tra le foglie verdi (rosse), quel camaleonte è ora oggettivamente di colore verde (rosso)”.
Quanto al valore di un bene, invece, esso non è determinabile oggettivamente nemmeno se riferito a un
determinato contesto ambientale e temporale; ad esempio: non solo il valore che ha in questo istante una
bottiglia da 33 cl d’acqua Ferrarelle sugli scaffali dell’Esselunga a Reggio è diverso da quello che ora la
stessa bottiglia ha nel distributore automatico a scuola, ma non si può nemmeno dire che oggi qui a scuola
quella bottiglia valga 0,35 €: 0,35 € è il suo prezzo, ma il prezzo è una cosa, altra cosa è il valore.
Il prezzo alla “macchinetta” di 35 cent ci dice solo che per il venditore (per l’azienda “Il Buon Ristoro” che
distribuisce le bibite a scuola) il valore della bottiglia è inferiore a 0,35 € (altrimenti non la scambierebbe per 35 cent) e che
invece per te (per il compratore) sono i 35 cent che valgono meno della bottiglia (altrimenti non avresti chiesto di uscire
dall’aula per scambiare 0,35 € con la bottiglia); e nello stesso istante in cui per te quella bottiglia d’acqua vale più di
0,35 €, per il tuo compagno di banco – che non ha sete o che non disdegna l’acqua del rubinetto – vale meno. A
essere “oggettivo” è solo il prezzo (che, comunque, varia nel tempo e da luogo a luogo), mentre il valore è sempre
soggettivo, variando anche da persona a persona.
Al contrario della temperatura o del peso di un bene (dati, questi, oggettivi, cioè che possono essere misurati con certezza),
il valore non è una caratteristica intrinseca del bene. L’uomo ha impiegato migliaia di anni
per arrivare a capirlo, tanto è vero che fino a poco più di due secoli fa tempo quasi tutti gli economisti
pensavano che esistesse il “giusto prezzo” delle cose. Ancora oggi, in realtà, sono in tanti a credere che
si possa determinare il valore di un bene, ma come ho già detto questo capita perché solo una piccola
parte della popolazione studia (e, soprattutto, comprende) l’economia.
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4) Beni di consumo e beni di produzione
Se serve a poco classificare i bisogni, è invece importante avere chiara la distinzione fra “beni di
consumo” e “beni di produzione” (quest’ultimi chiamati spesso “beni di investimento”). La differenza fra gli uni e gli
altri non sta nella loro natura bensì nella loro destinazione, tant’è che sarebbe più chiaro chiamarli “beni
per consumo” e “beni per produzione”.
La distinzione, infatti, sta nello scopo per il quale si usa il bene: se il bene serve direttamente per
soddisfare un bisogno è un bene di consumo, ma se lo stesso bene è utilizzato per produrne un altro,
allora il primo bene è di produzione (e quindi in realtà serve comunque per soddisfare un bisogno, ma in modo indiretto).
Uno stesso bene, quindi, può essere l’una e l’altra cosa: se il bamboccione mantenuto dai genitori
usa l’Audi Q3 unicamente per spassarsela con gli amici,
quell’auto è un bene di consumo; se invece l’Audi è usata dal
taxista per lavoro, allora è un bene di produzione; se vado al
Sigma e compro della frutta per mangiarla, compro un bene di
consumo; se la stessa cosa la fa il gelataio di Rivalta per fare
il gelato alla pesca, allora le pesche da lui comprate al Sigma
sono un bene di produzione. Tipico bene di consumo Tipico bene di produzione
Faccio notare (ma ne parleremo più approfonditamente in quarta in altri appunti) che, in base a questa definizione, il
lavoro (ad esempio quello svolto dal magazziniere del Sigma di Rivalta) è un bene di produzione allo stesso modo di un
camion, un muletto o delle uova per la Barilla.
5) Le aziende
La definizione di azienda che massimizza il rapporto efficacia / lunghezza credo sia:
organismo che utilizza beni e lavoro per produrre qualcosa che soddisfa esigenze umane
Se ci pensate un po’, in tale definizione è possibile far rientrare soggetti come la Ryanair ma anche
la vostra famiglia, la Vodafone, il comune di Reggio Emilia, o ancora la Casa di Carità di S. Girolamo e
lo stato italiano.
Evidentemente, saranno diverse le esigenze che le varie aziende tendono a soddisfare [ad
esempio e nell’ordine delle aziende citate appena sopra: esigenze di trasporto (la Raynair), di mangiare un pasto al
rientro da scuola (la tua famiglia), di comunicare rapidamente con una persona distante (la Vodafone), di camminare per
strade non ingombre di rifiuti (il comune di Reggio), di dare sollievo ai più sfortunati (la casa di Carità) e, infine, di
essere protetti dai delinquenti (lo stato italiano)], così come diverse saranno la qualità e la quantità dei beni e
del lavoro utilizzati per produrre, ma è indubbio che tutti i soggetti descritti sono, sulla base della
definizione data, “aziende”. Un’utile distinzione può poi essere fatta, all’interno del vastissimo
universo delle aziende, fra le aziende di “erogazione” e quelle di “produzione”:
le aziende di erogazione hanno come scopo la soddisfazione di esigenze umane;
le aziende di produzione hanno come scopo il guadagno e, per perseguirlo (= per cercare di
ottenerlo), soddisfano esigenze umane
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In altre parole, tutte le aziende producono beni e soddisfano bisogni, ma per le aziende di
produzione la soddisfazione delle esigenze altrui è solo un mezzo (= lo strumento) e non il fine (= lo scopo).
Ecco quindi, ad esempio, che l’organismo famiglia Rossi è
certamente un’azienda di erogazione, in quanto le produzioni di beni e
servizi che in essa si attuano (colazione mattutina, spaghetti aglio-olio-peperoncino
per cena, lavaggio biancheria ecc.) hanno l’unico fine di soddisfare delle
esigenze umane. E così anche la Casa di Carità di S. Girolamo, il
comune di Reggio Emilia e lo stato italiano (chiedendo scusa alla Casa di Carità per
l’accostamento indegno coi due enti pubblici impositori) sono aziende di erogazione poichè
producono beni e servizi senza avere come scopo il guadagno.
Al contrario, la Ryanair e la Vodafone – ma anche
il fornaio, la birreria, la discoteca o il caldarrostaio
ambulante – sono aziende di produzione, in quanto si
danno da fare per soddisfare i desideri altrui allo scopo
di arricchirsi.
Da quanto detto qui e nel paragrafo precedente si deduce che, mentre le aziende di
produzione utilizzano solo beni di produzione, quelle di erogazione usano sia beni di
produzione (la lavatrice, le pentole, il gas ecc.) che di consumo (il televisore, le mutande, gli spaghetti ecc.).
Alcuni soggetti possono vestire, in momenti diversi, ora l’abito di azienda di produzione ora quello
di azienda di erogazione. Ciò è evidente nel caso del signor Mauro, l’idraulico che ieri pomeriggio,
agendo come azienda di produzione, ha prodotto il servizio di riparazione di un rubinetto a casa mia, e
che alla sera, agendo come azienda di erogazione, ha prodotto il servizio di ninna nanna a suo figlio di
dieci mesi. Si può quindi dire che:
quando si agisce (si consuma o si produce) con lo scopo ultimo di soddisfare i bisogni
(propri o altrui) allora si riveste l’abito dell’azienda di erogazione. Come voi che mangiate la
merenda, io che taglio l’erba a casa mia, la nonna che prepara la torta di mele per la nipote, la nipote
che mangia la torta di mele (e che si scorda di ringraziare la nonna), il missionario che insegna a leggere ai bambini
kenioti, l’Associazione Ricerca sul Cancro che ricerca nuovi sistemi di cura della malattia ecc.;
quando l’azione è sì volta (= indirizzata, finalizzata) a soddisfare i bisogni, ma ha per scopo finale
l’arricchimento, allora chi agisce riveste l’abito dell’azienda di produzione. Come il
merendero che porta a scuola i panini, io che – a pagamento – taglio l’erba a casa vostra, il fornaio che
prepara la torta di mele per il cliente, l’Oxford Institute che insegna l’inglese ai bambini italiani, la
Barilla S.p.A. che studia nuove merendine da lanciare sul mercato ecc.).
Non dovete pensare però che tale distinzione sia sempre netta e precisa. Sono tante, infatti, le
aziende e le attività che presentano caratteristiche ambigue, per le quali la collocazione in una piuttosto
che nell’altra categoria è alquanto dubbia.