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La Svolta Speculativa. Materialismo e Realismo Continentale 1 Intervista a Slavoj Žižek di Ben Wodard Traduzione di Wissia Fiorucci In questa intervista a Slavoj Žižek, per la prima volta tradotta in italiano, il filosofo sloveno precisa ancor meglio le sue critiche allo Speculative Realism, dopo averle già svolte nel suo ultimo libro, Meno che niente. Il punto debole dello Speculative Realism sta nel non comprendere che non solo vi è necessità della contingenza, ma anche contingenza della necessità. Slavoj Žižek: Ci sono due modi per rispondere alle domande. Posso proporre una breve chiarificazione alla questione specifica sollevata dalla domanda, o affrontare le difficili questioni filosofiche che essa chiama in causa. Cercherò di combinare le due cose. Ben Wodard: Il realismo Speculativo può essere visto come una risposta non solo alle inadeguatezze della decostruzione e della fenomenologia, ma anche all’uso improprio del termine ‘materialismo’ stesso. In che modo la sua definizione di materialismo riesce a non essere idealismo mascherato? Come considera il termine “realismo” oltre le sue limitazioni positiviste? SZ: Chi è materialista oggi? Molti orientamenti si dichiarano materialisti: materialismo scientifico (darwinismo, scienze del cervello), materialismo ‘discorsivo’ (ideologia come risultato di pratiche discorsive materiali); ciò che Alain Badiou chiama ‘materialismo democratico’ (l’edonismo spontaneo ed egualitario)...Alcuni di questi materialismi si escludono a vicenda: per i materialisti ‘discorsivi’, è il materialismo scientifico che, nel suo diretto asserire la realtà esterna in maniera presumibilmente ‘naif’, è ‘idealista’ nel senso che non prende in considerazione il ruolo della pratica simbolica ‘materiale’ nel costituire quello che ci sembra essere la realtà; per il materialismo scientifico, il materialismo ‘discorsivo’ è una deriva oscurantista da non prendere sul serio. Sarei tentato di dire che il materialismo discorsivo e il materialismo scientifico sono, nel loro stesso antagonismo, due facce della stessa medaglia, una che sostiene la culturalizzazione radicale (tutto, comprese la nostra conoscenza della natura, è una formazione discorsiva contingente), e l’altra una naturalizzazione radicale (tutto, inclusa la nostra cultura, può essere spiegato in termini di evoluzione biologica naturale). Il mio punto di partenza è la tesi di Lenin, secondo la quale ogni grande scoperta scientifica cam- bia la definizione stessa di materialismo. L’ultima grande svolta è stata la fisica quantistica, che ci obbliga a rivoltarci contro Lenin stesso per congedare la definizione di una ‘realtà esterna total- mente esistente’ (‘fully existing external reality’) come premessa di base del materialismo al contrario, la sua premessa è il ‘non-Tutto’ della realtà (‘non-All’ of reality), la sua incompletezza ontologica. (Ricordiamoci qui l’impasse di Lenin quando, in Materialismo e Empiriocriticismo, 1 In The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism. Levi Bryant, Nick Srnicek and Graham Harman, editori. Re.press, Melbourne 2011.

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La Svolta Speculativa. Materialismo e Realismo Continentale1

Intervista a Slavoj Žižek

di Ben Wodard

Traduzione di Wissia Fiorucci

In questa intervista a Slavoj Žižek, per la prima volta tradotta in italiano, il filosofo sloveno

precisa ancor meglio le sue critiche allo Speculative Realism, dopo averle già svolte nel suo

ultimo libro, Meno che niente. Il punto debole dello Speculative Realism sta nel non comprendere

che non solo vi è necessità della contingenza, ma anche contingenza della necessità.

Slavoj Žižek: Ci sono due modi per rispondere alle domande. Posso proporre una breve

chiarificazione alla questione specifica sollevata dalla domanda, o affrontare le difficili questioni

filosofiche che essa chiama in causa. Cercherò di combinare le due cose.

Ben Wodard: Il realismo Speculativo può essere visto come una risposta non solo alle

inadeguatezze della decostruzione e della fenomenologia, ma anche all’uso improprio del termine

‘materialismo’ stesso. In che modo la sua definizione di materialismo riesce a non essere

idealismo mascherato? Come considera il termine “realismo” oltre le sue limitazioni positiviste?

SZ: Chi è materialista oggi? Molti orientamenti si dichiarano materialisti: materialismo

scientifico (darwinismo, scienze del cervello), materialismo ‘discorsivo’ (ideologia come risultato

di pratiche discorsive materiali); ciò che Alain Badiou chiama ‘materialismo democratico’

(l’edonismo spontaneo ed egualitario)...Alcuni di questi materialismi si escludono a vicenda: per i

materialisti ‘discorsivi’, è il materialismo scientifico che, nel suo diretto asserire la realtà esterna

in maniera presumibilmente ‘naif’, è ‘idealista’ nel senso che non prende in considerazione il

ruolo della pratica simbolica ‘materiale’ nel costituire quello che ci sembra essere la realtà; per il

materialismo scientifico, il materialismo ‘discorsivo’ è una deriva oscurantista da non prendere

sul serio. Sarei tentato di dire che il materialismo discorsivo e il materialismo scientifico sono,

nel loro stesso antagonismo, due facce della stessa medaglia, una che sostiene la culturalizzazione

radicale (tutto, comprese la nostra conoscenza della natura, è una formazione discorsiva

contingente), e l’altra una naturalizzazione radicale (tutto, inclusa la nostra cultura, può essere

spiegato in termini di evoluzione biologica naturale).

Il mio punto di partenza è la tesi di Lenin, secondo la quale ogni grande scoperta scientifica cam-

bia la definizione stessa di materialismo. L’ultima grande svolta è stata la fisica quantistica, che ci

obbliga a rivoltarci contro Lenin stesso per congedare la definizione di una ‘realtà esterna total-

mente esistente’ (‘fully existing external reality’) come premessa di base del materialismo — al

contrario, la sua premessa è il ‘non-Tutto’ della realtà (‘non-All’ of reality), la sua incompletezza

ontologica. (Ricordiamoci qui l’impasse di Lenin quando, in Materialismo e Empiriocriticismo,

1In The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism. Levi Bryant, Nick Srnicek and Graham Harman, editori.

Re.press, Melbourne 2011.

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propone come minima definizione filosofica di materialismo l’asserzione di una realtà oggettiva

che esiste indipendentemente dalla mente umana, senza ulteriori specificazioni: in questo senso,

Platone stesso sarebbe un materialista!). Allo stesso tempo, non ha nulla a che fare con una de-

terminazione positiva del contenuto, come ad esempio ‘materia’ contro ‘spirito’, con la sostanzia-

lizzazione della Materia nel solo Assoluto (la critica hegeliana qui è completamente giustificata:

la ‘materia’ nella sua astrazione è pura Gedankending). Pertanto, non si dovrebbe temere la ‘dis-

soluzione della materia nel campo delle energie’, largamente denunciata dalla fisica moderna: un

vero materialista dovrebbe abbracciarla in pieno. Il materialismo non ha niente a che fare con

l’asserzione della densità inerte della materia; è, al contrario, una posizione che accetta il Vuoto

definitivo della realtà – la conseguenza della sua centrale tesi sulla molteplicità primordiale è che

non c’è realtà ‘sostanziale’, e che la sola ‘sostanza’ della molteplicità è il Vuoto. Questo è il mo-

tivo per cui l’opposto del vero materialismo non è tanto un conseguente idealismo ma, piuttosto,

il volgare ‘materialismo’ idealista di certi come David Chalmers, il quale propone di spiegare il

‘difficile problema della coscienza’ postulando l’‘auto-consapevolezza’ come un’addizionale,

fondamentale forza della natura, insieme alla gravità, al magnetismo, etc. – come, letteralmente,

la sua ‘quintessenza’ (la quinta essenza). La tentazione di ‘vedere’ il pensiero come una compo-

nente addizionale della realtà naturale/materiale è la volgarità finale.

È a questo punto che, per specificare il significato del materialismo, si dovrebbe applicare le

formule lacaniana della sessuazione: c’è una differenza fondamentale tra l’affermazione ‘tutto è

materia’ (che si basa sulla sua eccezione costitutiva—nel caso di Lenin che, in Materialismo e

Empiriocriticismo, cade in questa trappola, la stessa posizione di enunciazione del soggetto la cui

mente ‘riflette’ la materia) e l’asserzione ‘non c’è niente che non sia materia’ (che, insieme

all’altro suo lato, ‘non-Tutto è materia’, apre le porte alla spiegazione di fenomeni immateriali).

Ciò vuol dire che un materialismo veramente radicale è per definizione non-riduzionista: lungi

dal dichiarare che ‘tutto è materia’, esso conferisce ai fenomeni ‘immateriali’ un non-essere

specifico e positivo.

Quando, nella sua tesi contro la riduttiva spiegazione della coscienza, Chalmers scrive che ‘anche

se conoscessimo la fisica dell’universo fin nel suo dettaglio più profondo—configurazione, cau-

sazione ed evoluzione tra tutti i campi e le particelle nella varietà spaziotemporale—queste in-

formazioni non ci condurrebbero a postulare l’esistenza dell’esperienza cosciente’,2 commette il

solito errore kantiano: una tale conoscenza totale è strettamente insensata, epistemologicamente e

ontologicamente. È l’altro volto della volgare nozione determinista di Nikolai Bukharin, articola-

ta nel marxismo, quando scrive che, dovessimo venire a conoscere tutta la realtà fisica, dovrem-

mo anche essere capaci di predire esattamente l’insorgere di una rivoluzione. Questa linea di ra-

gionamento—la coscienza come eccesso, surplus, aldilà della totalità fisica—è fuorviante, perché

deve evocare un’iperbole senza significato: quando immaginiamo l’Intero della realtà, non c’è

più nessuno spazio per la coscienza (e per la soggettività). Il che ci lascia con due possibilità: o la

soggettività è un’illusione, oppure la realtà è in se stessa (non solo epistemologicamente) non-

Tutto (not-All).

Pertanto, assumendo un punto di vista radicalmente materialista, si dovrebbero considerare senza

paura le conseguenze del rigettare la ‘realtà oggettiva’: la realtà si dissolve in frammenti ‘sogget-

tivi’, ma questi frammenti stessi ricadono in un Essere anonimo, perdendo così la propria consi-

stenza soggettiva. Fred Jameson ha messo in luce il paradosso del rifiuto postmoderno di un Sé

2David Chalmers, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 101. La traduzione è nostra.

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coerente—il cui risultato finale è che finiamo col perdere il suo contrario; in altre parole, la realtà

oggettiva stessa, che si trasforma in una serie di costruzioni soggettive e contingenti. Un vero ma-

terialista dovrebbe fare il contrario, cioè, rifiutare di accettare una ‘realtà oggettiva’ per minare

alla base la soggettività coerente. Quest’apertura ontologica della molteplicità del meno-uno

(‘one-less’) ci permette anche di affrontare in maniera nuova la seconda antinomia di Kant della

ragion pura, la cui tesi è: ‘Ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici, e non esi-

ste in nessun luogo se non il semplice, o ciò che ne è composto’.3 Questa è la dimostrazione di

Kant:

Infatti, se si ammettesse che le sostanze composte non constino di parti semplici,

sopprimendo nel pensiero ogni composizione, non resterebbe nessuna parte

composta, e (non essendoci parti semplici) nessuna parte semplice, quindi

assolutamente niente, e per conseguenza nessuna sostanza sarebbe stata data. O,

dunque, è impossibile sopprimere nel pensiero ogni composizione, ovvero, dopo la

soppressione di essa, deve restare qualcosa di sussistente senza nessun composizione,

cioè il semplice. Ma, nel primo caso, il composto non consterebbe di sostanze

(perché in esse la composizione non è se non una relazione accidentale delle

sostanze, senza la quale esse devono sussistere come enti per sé stanti). Ora, poiché

questo caso contraddice all'ipotesi, così non resta se non il secondo: che cioè il

composto sostanziale nel mondo risulta di parti semplici.

Quindi segue immediatamente, che nel mondo le cose sono tutte semplici, che la

composizione è solamente uno stato estrinseco di esse, e che, quantunque noi non

possiamo mai sottrarre le sostanze elementari a questo stato di unione, pure la

ragione deve concepirle come i soggetti primi di ogni composizione, e quindi,

anteriormente ad essa, come enti semplici.4

Ma cosa succede, però, se accettiamo la conclusione che, alla fine, ‘niente esiste’ (una conclusio-

ne che, tra l’altro, è esattamente la stessa del Parmenide di Platone: ‘Se riassumessimo il ragio-

namento in una frase e dicessimo: Se l’uno non è, allora il nulla è, non diremmo in modo giu-

sto?’5 Questa mossa, anche se rigettata da Kant come ovvio nonsense, non è così non-kantiana

come potrebbe sembrare: è qui che si dovrebbe applicare ancora una volta la distinzione kantiana

tra giudizio negativo ed infinito. L’affermazione ‘la realtà materiale è tutto ciò che c’è’ può essere

negata in due modi, nella forma: ‘la realtà materiale non è tutto ciò che c’è’ e ‘la realtà materiale

è non-tutto’ (‘material reality is non-all’). La prima negazione (di un predicato) conduce alla me-

tafisica standard: la realtà materiale non è tutto; c’è un’altra realtà, più alta, una realtà spiritua-

le…In quanto tale, questa negazione è, in accordo con le formule lacaniane della sessuazione, i-

nerente alla dichiarazione positiva ‘la realtà materiale è tutto ciò che c’è’: in quanto eccezione co-

stitutiva, stabilisce la sua universalità. Se, però, asseriamo un non-predicato e diciamo ‘la realtà

materiale è non-tutto’, questo semplicemente asserisce il non-Tutto della realtà, senza presuppor-

re eccezione alcuna—paradossalmente, si dovrebbe quindi dire che la vera formula del materiali-

smo è ‘la realtà materiale è non-tutto’, non ‘la realtà materiale è tutto ciò che c’è’.

3Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice, rivista da V. Mathieu,

Laterza. Roma-Bari 1996 (1781), p. 294. 4Ibid.

5Platone, Parmenide. La traduzione è nostra.

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Quindi, ricapitolando: siccome il materialismo è oggi l’ideologia egemonica, la lotta è

all’interno del materialismo, tra quello che Badiou chiama ‘materialismo democratico’ e...

cos’altro? Credo che l’affermazione di Meillassoux sulla contingenza radicale come unica

necessità non sia abbastanza—bisogna integrarla con l’incompletezza ontologica della realtà.

Meillassoux non è sufficientemente ‘materialista’ nel proporre un materialismo dove c’è di nuovo

posto per un Dio virtuale e per la resurrezione dei morti—questo è ciò che accade quando la

contingenza non è integrata con l’incompletezza della realtà.

BW: In Nihil Unbound Ray Brassier estende la pulsione di morte nel regno del cosmologico,

come estensione dell’‘originaria insensatezza della vita’.6 Come risponderebbe a questa lettura

più freudiana (e meno lacaniana) della pulsione di morte, che forse si basa maggiormente su un

discorso di tipo scientifico?

SZ: Mi permetta di ricapitolare la mia posizione: Credo che la nozione cosmologica di

‘insensatezza della vita’ sia una metafora senza significato, senza nessun valore cognitivo.

Oltretutto, sono d’accordo con Jean Laplanche che la cosmologizzazione di Freud delle pulsioni

‘di vita e di morte’ (Eros and Thanatos) fosse una regressione ideologica, indice della sua stessa

inabilità di riflettere a fondo sulle conseguenze delle sue stesse scoperte. Credo che la

riconcettualizzazione lacaniana della pulsione di morte come coazione a ripetere ‘immortale’

svolga un lavoro migliore, introducendo un concetto che ci permette di pensare il livello più

basico di come gli umani si distaccano dal regno animale.

Voglio particolarmente evitare affrettate speculazioni cosmologiche—quando Meillassoux

scrive della contingente emergenza ex nihilo della Vita dalla materia e del Pensiero dalla vita,

arriva pericolosamente vicino ad una nuova versione di ‘ontologie regionali’ nello stile di Nicolai

Hartmann, dove l’universo è concepito come una super-posizione di livelli di realtà sempre più

stretti: realtà fisica, vita, mente. Credo che una tale ontologia sia inammissibile dal punto di vista

della contingenza radicale—per spiegarmi in parole, diciamo, naif: cosa succede se scopriamo

che la gerarchia è falsa? Che il processo di pensiero dei delfini è più complesso del nostro? E,

incidentalmente, scopriamo su quale scienza si basa la teoria della pulsione di morte di Freud?

BW: A proposito del Reale—una delle significative pietre di paragone di Brassier è la non-

filosofia di Francois Laruelle. Laruelle definisce il reale come ‘istanza definita dalla sua radicale

immanenza in tutte le condizioni possibili di pensiero: quindi dal suo essere-dato (di) se stesso,

tuttavia chiamato Visione-in-Uno o Uno-in-Uno, e dal suo essere-forcluso al pensiero. Il Reale

non può ne’ essere conosciuto, ne’ tantomeno “pensato”, ma può essere inscritto in assiomi.

D’altra parte, determina-in-ultima-istanza il pensiero come non-filosofico.’ Come replicherebbe

al concetto di un reale che è super-discorsivo e comunque definitivamente indecidibile?

SZ: Siccome ho scritto molto a proposito del Reale, mi limiterò a ricapitolare ancora una volta la

mia posizione: il Reale di Lacan fa un lavoro migliore. Quello che manca in Laruelle —almeno

per come la vedo io—è il Reale come un parallasse puramente formale o come impossibilità: è

super-discorsivo, ma ciononostante totalmente immanente all’ordine del discorso—in questo non

c’è nulla di positivo, alla fine è solo la rottura o divario che rende l’ordine del discorso sempre ed

essenzialmente inconsistente e non-totalizzabile.

6Ray Brassier, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, New York, Palgrave Macmillan, 2007, p. 236. La

traduzione è nostra.

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BW: In Saas-Fee [sede della European Graduate School], ha parlato del suo dissenso verso l’uso

che Quentin Meillassoux fa dell’infinità non-totalizzabile per negare la certezza (o non-

contingenza). Sono state fatte molte critiche simili (lei stesso ha menzionato Adrian Johnston)—

in che senso la sua è diversa?

SZ: Non mi trovo d’accordo con l’uso che Meillassoux fa dell’infinità cantoriana, molteplice e

non-totalizzabile, per screditare l’argomento probabilista contro la contingenza (se la natura è

completamente contingente, perché si comporta in maniera così regolare?): sono d’accordo con

Johnston sul fatto che l’infinità non-totalizzabile non sia abbastanza per ‘squalificare’

l’argomento probabilista. L’unica cosa che voglio aggiungere, a questo punto, è che nella maniera

speculativa hegeliana, le regolarità della natura sono precisamente l’attestazione più alta della

contingenza: più la natura si comporta in maniera regolare, seguendo le sue ‘leggi necessarie’,

più la contingenza è questa necessità.

BW: Oltretutto, come risponderebbe alla critica di Brassier della sua articolazione della

soggettività seguendo la ‘necessaria contingenza’ di Meillassoux? Consideri la seguente

citazione:

Al contrario di Hegel, Meillassoux non afferma che la contingenza sia necessaria nel senso che è

incorporata nell’assoluto, ma che la contingenza e la contingenza sola sia assolutamente necessa-

ria. Laddove l’idealista speculativo afferma che la contingenza è necessaria nell’assoluto—come

nell’esempio preferito di Žižek, dove un materiale contingente determinante è retroattivamente

effettivamente postulato dal soggetto come necessario per la realizzazione della sua stessa auto-

nomia—il materialista speculativo afferma che ‘la sola contingenza è assoluta e quindi necessa-

ria’. Come sappiamo, questo ‘principio di s-ragione’(‘principle of un-reason’), lontano dal per-

mettere qualunque cosa e tutto, in realtà impone una costrizione fortemente significativa al caos

del tempo assoluto: quest’ultimo non può far niente, a parte dar vita ad un’entità contraddittoria.7

E la relativa nota a pie’ di pagina:

‘La libertà non è semplicemente l’opposto della necessità causale deterministica: come

Kant sapeva bene, è un modo di causalità specifica; l’auto-determinazione dell’agente.

C’è, infatti, un tipo di antinomia kantiana della libertà: se un atto è totalmente

determinato da cause precedenti, certamente non è libero; se, tuttavia, dipende dalla pura

contingenza che momentaneamente interrompe la catena causale, è ugualmente non

libero. L’unica maniera di risolvere quest’antinomia è introdurre una causalità riflessiva

di secondo ordine: sono determinato da cause (che possono essere brute cause naturali o

motivazioni), e lo spazio della libertà non è una magica crepa in questa catena causale di

primo livello, ma piuttosto la mia abilità di scegliere/determinare retroattivamente quali

cause mi determineranno’ (Žižek 2006: 203. Tradotto per quest’edizione/La traduzione è

nostra). Nello hegelismo di Žižek, il soggetto raggiunge autonomia

postulando/reintegrando retroattivamente i suoi stessi determinanti materiali di natura

contingente: la libertà è necessità soggettiva di contingenza oggettiva. Tuttavia,

7Brassier, Nihil Unbound, p. 72.

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dissolvendo l’idea di una connessione necessaria tra causa ed effetto, l’assolutizzazione

della contingenza di Meillassoux non solo distrugge il ‘determinismo’ materialista inteso

come continuità senza eccezioni del nesso causale, ma anche la concezione idealista di

libertà ‘soggettiva’, intesa in termini di causalità riflessiva di secondo ordine descritta da

Žižek. Il soggetto non può ‘scegliere’ o determinare la sua stessa determinazione

oggettiva, quando la contingenza di tutta la determinazione implica l’eguale arbitrarietà

di ogni scelta, e quindi l’efficiente cancellazione della distinzione tra scelta forzata e

non-forzata. Così, diventa impossibile distinguere tra compulsione oggettiva e riflesso

soggettivo, eteronomia fenomenica e autonomia noumenica. Il principio della fattualità

collassa la distinzione tra gli ordini di livello della determinazione, primo e secondo, in

tal modo screditando qualunque tentativo di distinzione tra eteronomia oggettiva e

autonomia soggettiva.8

SZ: Credo che quando Brassier mi attribuisce l’asserzione della necessità di contingenza e del

libero atto come gesto in cui ‘un determinante contingente materiale è retroattivamente postulato

dal soggetto come necessità’, stia distorcendo la mia posizione, privandola del suo aspetto

cruciale: la contingenza della necessità. L’atto di postulare retroattivamente una determinazione

contingente come necessaria è in sé contingente.

Per chiarire del tutto questo punto, dobbiamo tornare a Meillassoux. Questi ha ragione

nell’opporsi alla contraddizione e al movimento dell’evoluzione, e nel rigettare la nozione

standard di movimento come impiego di una contraddizione. Secondo questa nozione standard, la

non-contraddizione equivale ad un’auto-identità inamovibile; per Meillassoux, invece, l’universo

che doveva asserire completamente la realtà della contraddizione sarebbe un universo identico a

se stesso (auto-identico) dove caratteristiche contraddittorie coinciderebbero immediatamente. Le

cose si muovono, cambiano col tempo, precisamente perché non possono essere direttamente A e

non-A—possono soltanto cambiare gradualmente da A a non-A. C’è tempo, perché il principio

d’identità, della non-contraddizione, resiste alla diretta asserzione della contraddizione. Questo è

il motivo per cui, per Meillassoux, Hegel non è un filosofo dell’evoluzione, del movimento e

dello sviluppo: il sistema di Hegel è ‘statico’, qualunque evoluzione è contenuta nell’auto-identità

atemporale di una Nozione.

Su questo mi trovo di nuovo d’accordo, ma la mia scelta è contro l’evoluzione: il

movimento dialettico di Hegel non è evoluzionista. Meillassoux non capisce che, per Hegel, il

concetto di ‘contraddizione’ non è in opposizione a quello di identità, ma ne costituisce piuttosto

il fulcro stesso. ‘Contraddizione’ non è soltanto il reale-impossibile per il quale nessuna identità

può essere completamente identica a se stessa, ovvero, identica a se stessa; ‘Contraddizione è

identità pura in quanto tale, la coincidenza tautologica di forma e contenuto, di genere e specie—

nell’asserire l’identità a se stesso, il genere incontra se stesso come la sua stessa specie ‘vuota’.

Questo significa che la contraddizione hegeliana non è una diretta ‘coincidenza di opposti’ (A è

non-A) priva di movimento: è l’identità stessa, la sua asserzione, che ‘destabilizza’ una cosa

provocando la spaccatura di un’impossibilità nel suo tessuto. In questo troviamo già

l’insegnamento all’inizio/che fonda la logica di Hegel: come passiamo dalla prima identità degli

opposti, di Essere e Nulla, al Divenire (che si destabilizza poi in Qualcosa)? Se Essere e Nulla

sono identici, se si sovrappongono, qual è il motivo di questo movimento in avanti? Precisamente

perché Essere e Nulla non sono direttamente identici: Essere è una forma, la prima

determinazione formale-nozionale, il cui unico contenuto è Nulla; la coppia Essere/Nulla forma

8Brassier, Nihil Unbound, p. 247, n. 15.

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la più grande contraddizione e, per risolvere quest’impossibilità, per uscire da questo stallo, si

passa nel Divenire, nell’oscillazione tra i due poli…

Quello che rende il tentativo di Meillassoux così interessante è che rimane, nonostante

tutto, più vicino a Hegel di quanto non sembri. Per quel che riguarda l’esperienza della fatticità

e/o contingenza assoluta, Meillassoux traspone quello che ai partigiani trascendentali della

finitudine appare come limitazione della nostra conoscenza (l’intuizione che possiamo sbagliarci

completamente sulla nostra conoscenza, che la realtà stessa possa essere totalmente differente

dalla nostra nozione della stessa), nella più basilare e positiva proprietà ontologica della realtà

stessa—‘l’assoluto è lo stesso poter-essere-altro, quale viene teorizzato dall’agnostico.

L’assoluto è il passaggio possibile, e sprovvisto di ragione, del mio stato verso un altro stato

qualsiasi. Ma questo possibile non è un “possibile di ignoranza”, derivante solo dalla mia

incapacità di comprendere […]: è il sapere della possibilità autenticamente reale’.9 Nel cuore

dell’In sé:

Nella fatticità non va colta l’inaccessibilità dell’assoluto, ma il disvelamento dell’In sé:

la proprietà eterna di ciò che è, e non il segno della perenna insufficienza del pensiero di

ciò che è.10

In questo modo, ‘la fatticità si rivelerà come un sapere dell’assoluto, poiché noi andiamo infine a

ricollocare entro la cosa stessa ciò che avevamo erroneamente scambiato per un’incapacità del

pensiero. In altre parole: invece di fare dell’assenza di ragione inerente ad ogni cosa un limite che

il pensiero incontra nella sua ricerca della ragione ultima, occorre comprendere che questa

assenza di ragione è, e non può essere che la proprietà ultima dell’essente.’11

Il paradosso di

quest’inversione quasi magica dell’ostacolo epistemologico in una premessa ontologica è che ‘è

attraverso la fatticità, e solo grazie ad essa, che noi possiamo aprirci un cammino verso

l’assoluto’:12

la contingenza radicale della realtà, questo ‘possibile aperto—questo “tutto è

ugualmente possibile”—è un assoluto che non si può de-assolutizzare senza ripensarlo come

assoluto.’13

Ma allora come può quest’accesso all’assoluto essere riconciliato con l’ovvia limitazione

della nostra conoscenza della realtà? Un riferimento a Brecht può venirci in aiuto: in una delle

sue riflessioni sul palcoscenico, Brecht contestò ferocemente l’idea che il suo sfondo dovesse

rendere la profondità impenetrabile di Tutta la Realtà in quanto oscura Origine delle Cose fuori

dalla quale tutto ciò che vediamo e sappiamo appare come frammento. Per Brecht, lo sfondo di

un palcoscenico dovrebbe essere idealmente vuoto, bianco e, quindi, suggerire che, dietro quello

che vediamo ed esperiamo, non c’è Origine segreta o Fondamento. Questo non implica in nessun

modo che la realtà sia trasparente, che ‘conosciamo tutto; è ovvio che ci siano vuoti infiniti, ma il

punto è che questi vuoti sono solo questo: vuoti, cose che semplicemente non sappiamo, non una

sostanziale realtà ‘più profonda’.

Adesso arriviamo al vero e proprio crocevia speculativo dell’argomentazione di

Meillassoux: come fa questi a giustificare questo passaggio dalla (o inversione della) limitazione

9Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza. Milan: Mimesis (edizione

Kindle). 10Meillassoux, Dopo la finitudine. 11

Meillassoux, Dopo la finitudine. 12

Meillassoux, Dopo la finitudine. 13

Meillassoux, Dopo la finitudine.

Page 8: Zizek La Svolta Speculativa

epistemologica a (o in) caratteristica ontologica positiva? Come abbiamo visto, il criticismo

trascendentale pensa la fatticità come indice della nostra finitudine, dei nostri limiti cognitivi,

della nostra incapacità di accedere all’assoluto In sé: a noi, alla nostra ragione finita, la realtà

appare contingente, ohne Warum, ma, considerata in se stessa, potrebbe anche darsi che la realtà

sia non-contingente (ovvero regolata da una necessità spirituale o naturale profonda), il che

implicherebbe che o siamo dei meri burattini in un meccanismo trascendente, o che il nostro Sé

esso stesso generatore della realtà che percepisce, e così via. In altre parole, per il

trascendentalista si dà sempre la ‘possibilità radicale dell’ignoranza’:14

ignoriamo com’è

realmente la realtà e si da sempre la possibilità che la realtà sia radicalmente altra da quello che ci

appare. Ma allora, come fa Meillassoux a compiere il passo da questa limitazione epistemologica

ad un acceso unico all’assoluto? In maniera profondamente hegeliana, Meillassoux pone proprio

in questo punto la sovrapposizione paradossale di possibilità e fattualità:

Come giungete a pensare questa ‘possibile ignoranza’ […]? La verità è che siete arrivati

a pensare questo possibile di ignoranza solo perché siete pervenuti effettivamente a

pensare l’assolutezza di questo possibile, il suo carattere non-correlazionale.15

La prova ontologica di Dio è qui trasformata in maniera materialistica: il punto non è che il solo

pensare alla possibilità di un Essere Supremo implichi la fattualità dello stesso; al contrario, è che

il fatto stesso di poter pensare alla possibilità di un’assoluta contingenza della realtà, la possibilità

del suo essere-altro, del divario radicale tra come la realtà ci appare e com’è in se stessa,

comporti la sua fattualità—implicando che la realtà in sé è radicalmente contingente. In entrambi

i casi, stiamo trattando con il passaggio diretto del concetto ad esistenza, con quest’ultima che è

parte del concetto; tuttavia, nel caso della prova ontologica di Dio, il termine che fa da mediatore

tra possibilità (di pensiero) e fattualità è perfezione (la nozione stessa di un essere perfetto

implica la sua esistenza), mentre nel passaggio di Meillassoux dalla nozione all’esistenza, il

termine mediatore è imperfezione. Se possiamo pensare la nostra conoscenza della realtà (ad

esempio, il modo in cui la realtà ci appare) come radicalmente sbagliata, come radicalmente

differente dall’Assoluto, allora questo divario (tra per noi e in sé) deve essere parte dell’Assoluto

stesso, così che la stessa caratteristica che sembrava tenerci per sempre lontani dall’Assoluto è

la sola caratteristica che ci unisce direttamente all’Assoluto. Ma questo spostamento, non è forse

lo stesso che troviamo al centro dell’esperienza cristiana? È la stessa separazione radicale

dell’uomo da Dio ad unirci a Dio perché, nella figura di Cristo, Dio è profondamente separato da

se stesso—quindi il punto non è ‘superare’ il divario che ci separa da Dio, ma prendere nota di

come questo divario sia interno a Dio stesso (la cristianità come versione drastica della beffa di

Rabinovitch)—solo quando esperisco la pena infinita della separazione da Dio condivido

un’esperienza con Dio stesso (Cristo in Croce).

Due cose vanno notate qui. Innanzitutto, l’uso frequente e sistematico che Meillassoux fa

di termini hegeliani, anche (e specialmente) nella sua critica di Hegel. Ad esempio, egli

caratterizza ripetutamente la sua posizione come ‘speculativa’ (nel senso dell’asserzione post-

kantiana dell’accessibilità alla nostra conoscenza dell’assoluto) in opposizione al dogmatismo

‘metafisico’ e pre-critico (che vanta accesso all’assoluta necessità trascendente).

Paradossalmente, Hegel conta per lui come ‘metafisico’, anche se fu proprio Hegel ad

incorporare il ‘metafisico’, il ‘critico’ (nel senso del criticismo kantiano), e lo ‘speculativo’ come

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Meillassoux, Dopo la finitudine. 15

Meillassoux, Dopo la finitudine.

Page 9: Zizek La Svolta Speculativa

le tre posizioni base del pensiero verso la realtà, rendendo chiaro che la posizione ‘speculativa’

può sorgere soltanto quando si accetta completamente la lezione del criticismo. Non c’è quindi da

meravigliarsi che Meillassoux, seguendo Hegel, definisca la sua stessa posizione come quella

della ‘conoscenza assoluta’, caratterizzata in maniera veramente hegeliana come ‘il principio di

auto-limitazione o auto-normalizzazione dell’onnipotenza del caos’16

—in breve, come l’emergere

di una necessità dalla contingenza:

Infatti, possiamo sperare di sviluppare un sapere assoluto—un sapere del Caos che non

si limiti a ripetere che tutto è possibile—solo a condizione di produrre al riguardo altri

enunciati necessari, oltre quello che riguarda la sua sola onnipotenza. Ma ciò implica che

si scoprano norme e leggi alle quali lo stesso Caos dovrebbe sottomettersi. E non vi è

nulla che stia al di sopra della potenza del Caos per costringerlo a piegarsi ad una norma;

quindi, se il Caos si sottomette ad una costrizione, quest’ultima non potrà che derivare

dalla sua stessa natura di Caos, dalla sua propria onnipotenza. […] La contingenza, la

non-necessità così intesa in verità impon[e] a ciò che è di non essere una cosa

qualunque. Vale a dire: ciò che è, per rimanere contingente e per non divenire

necessario, deve obbedire a delle condizioni non-qualunque che diventano quindi anche

delle proprietà assolute di ciò che è.17

Ma non è esattamente questo il problema hegeliano? All’inizio della sua Logica abbiamo il

processo del Divenire (l’unità di Essere e Nulla), che è il processo profondamente contingente del

generare la molteplicità dei qualcosa. La ‘spuria infinità’ dei qualcosa è il caos al livello più puro,

senza che vi sia alcunché che lo origini o lo regoli, e l’intero sviluppo della Logica di Hegel è

consiste nel processo immanente di ‘auto-limitazione o auto-normalizzazione dell’onnipotenza

del caos’: ‘Iniziamo ora a comprendere in cosa consista il discorso sulla sragione - una sragione

che non è irrazionale: si tratterebbe di un discorso finalizzato a stabilire i limiti a cui l’entità deve

adeguarsi, al fine di esercitare la sua capacità-di-non-essere e la capacità-di-essere-altro’18

Questo ‘poter-essere-altro’, espresso nella fenditura che separa per noi e In sé (ad

esempio, nella possibilità che la realtà-in sé sia totalmente diversa dal modo in cui ci appare), è

l’auto-distanza dell’In-sé, ovvero, la negatività al centro dell’Essere—questo è quanto

Meillassoux segnala nella sua proposizione, splendidamente densa, che ‘la cosa-in-sé non è altro

che la fatticità delle forme trascendentali di rappresentazione’19

—in altre parole, nient’altro che il

carattere radicalmente contingente della nostra cornice di realtà. Vedere la realtà nella maniera in

cui ‘veramente è’ non vuol dire scorgere una realtà ‘più profonda’ sotto la superficie, ma vedere

la stessa realtà in tutta la sua contingenza.—Ma allora, perché Meillassoux non confessa

apertamente la natura hegeliana della sua scoperta? Innanzitutto, molto semplicemente, perché

egli sostiene una lettura canonica della dialettica di Hegel, ovvero, come la descrizione del

necessario auto-uso del concetto:

La metafisica hegeliana afferma la necessità di un momento irrimediabilmente

contingente entro il processo dell’assoluto: è un momento che si dispiega nel cuore

stesso della natura, ove l’infinito passa per pura contingenza […]. Una realtà senza

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Meillassoux, Dopo la finitudine. 17

Meillassoux, Dopo la finitudine. 18

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Meillassoux, Dopo la finitudine.

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effettività, un puro essere finito, che la gratuità ed il disordine intrinsechi rendono

inaccessibile al lavoro del concetto […]. Ma una contingenza di questo tipo è dedotta da

un processo dell’assoluto, che in se stesso, in quanto totalità razionale non ha nulla di

contingente. La necessità della contingenza non è insomma ricavata dalla contingenza

presa da sola, ma da un Tutto ontologicamente superiore ad essa.20

Come ho già detto, Meillassoux semplifica qui in maniera cruciale la relazione propriamente

hegeliana tra necessità e contingenza. A prima vista, sembrerebbe che la loro unità comprensiva

sia la necessità. In altre parole, la necessità stessa si presenta e media la contingenza in quanto

campo esterno in cui si esprime e attualizza—la contingenza stessa è necessaria, risultato

dell’auto-esteriorizzazione e auto-mediazione della necessità nozionale. Tuttavia, è cruciale

integrare quest’unità con il suo opposto, cioè con la contingenza come unità comprensiva di se

stessa e della necessità; si potrebbe dire, quindi, che la stessa elevazione di una necessità a

principio strutturale del campo contingente di molteplicità è un atto contingente: il risultato di

una contingente lotta (lotta ‘aperta’) per l’egemonia. Questo spostamento corrisponde a quello da

S a $, dalla sostanza al soggetto. Il punto di partenza è una moltitudine contingente; attraverso la

sua auto-mediazione (‘auto-organizzazione spontanea’), la contingenza origina-produce la sua

necessità immanente, nello stesso modo in cui l’Essenza è il risultato dell’auto-mediazione

dell’Essere. Una volta emersa, l’Essenza ‘propone le sue stesse presupposizioni’,

retroattivamente; cioè, sintetizza le sue presupposizioni in momenti subordinati della sua auto-

riproduzione (Essere è transustanziato in Apparenza). Tuttavia, questa proposizione è retroattiva.

Di conseguenza, Hegel (piuttosto coerentemente con le sue premesse) non solo deduce la

necessità della contingenza, cioè, come l’Idea si esteriorizzi necessariamente (acquisisca realtà)

in fenomeni che sono genuinamente contingenti. Oltre a questo, Hegel sviluppa anche l’aspetto

opposto (che viene spesso trascurato da molti dei suoi commentatori critici), e che trovo

teoricamente molto più interessante: ovvero, quello della contingenza della necessità. In altre

parole, quando Hegel descrive il progresso dall’apparenza contingente ‘esterna’ alla sua

necessaria essenza ‘interna’—l’‘auto-interiorizzazione’ dell’apparenza attraverso l’auto-

riflessione—non sta descrivendo la scoperta di una qualche Essenza interna pre-esistente, quindi

la penetrazione verso qualcosa che era già lì (questo processo, ad essere precisi, sarebbe stato una

‘reificazione’ dell’Essenza), ma sta piuttosto descrivendo un processo ‘performativo’ di

costruzione (formazione) di ciò che viene ‘scoperto’. O, come Hegel stesso spiega in Logica, nel

processo di riflessione, lo stesso ‘ritorno’ al Fondamento perso o nascosto produce quello a cui

ritorna. Questo significa che non è soltanto la necessità interna ad essere l’unità di se stessa e

della contingenza come suo opposto—il che necessariamente suggerisce la contingenza come suo

momento. È anche la contingenza ad essere l’unità comprensiva di se stessa e del suo opposto, la

necessità; in altre parole, lo stesso processo attraverso il quale la necessità nasce per necessità è

un processo contingente.

La maniera in cui si legge di solito la relazione hegeliana tra necessità e libertà è che, alla

fine, queste coincidono: per Hegel, la vera libertà non ha niente a che fare con delle scelte

capricciose; vuol dire piuttosto priorità dell’auto-relazione rispetto al relazionarsi-all’-altro:

ovvero, un’entità è libera quando può impiegare i suoi potenziali immanenti senza incontrare

nessun ostacolo esterno. Da qui, è facile sviluppare il solito argomento contro Hegel: il suo

sistema è una serie di categorie completamente ‘saturate’, senza spazio per la contingenza e

l’indeterminatezza; cioè, nella logica di Hegel, ogni categoria seguirebbe con inesorabile

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Meillassoux, Dopo la finitudine.

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necessità immanente-logica quella che la precede, e l’intera serie di categorie andrebbe a formare

un Tutto che è auto-contenuto…Adesso, però, possiamo capire cos’è che sfugge a questo

ragionamento: il processo dialettico hegeliano non è un Tutto ‘saturato’ e auto-contenuto, ma

piuttosto il processo aperto-contingente attraverso il quale questo Tutto si forma. In altre parole,

il ‘rimprovero’ sopra citato confonde essere con divenire: percepisce come ordine fisso

dell’Essere (la rete delle categorie) ciò che per Hegel è processo di Divenire che,

retroattivamente, genera la sua necessità.

Lo stesso punto può essere fatto per la distinzione tra potenzialità e virtualità elaborata da

Meillassoux.21

Ad una prima analisi, risulta esserci considerevole prova che Hegel è il filosofo

della potenzialità: non è forse punto centrale dello sviluppo dialettico come sviluppo da In sé a

Per-sé che, nel processo del divenire, le cose si limitano a ‘divenire ciò che sono già’ (o,

piuttosto, ciò che erano da tutta l’eternità)? Non è forse il processo dialettico utilizzo temporale di

un’eterna serie di potenzialità, ragion per cui il Sistema hegeliano è una serie auto-comprensiva

di passaggi necessari?

Tuttavia, questo miraggio di prove schiaccianti svanisce nel momento stesso in cui

prendiamo compiutamente in considerazione la retroattività radicale del processo dialettico: il

processo del divenire non è esso stesso necessario, ma il divenire (l’emergenza contingente

graduale) della necessità stessa. Questo è (tra le altre cose) quello che significa ‘interpretare la

sostanza come soggetto’: soggetto come Vuoto, il Nulla della negatività auto-relazionale, è il vero

nihil da cui emerge ogni figura nuova. Ovvero, ogni inversione dialettica è un passaggio dove la

nuova figura emerge ex nihilo e retroattivamente postula/crea la sua necessità.

E questo mi porta al grande problema di fondo: lo stato del soggetto. Credo che, nel suo

proprio anti-trascendentalismo, Meillassoux rimanga intrappolato nella topica kantiana

dell’accessibilità della Cosa-in-sé: quello che esperiamo è una realtà totalmente determinata dal

nostro orizzonte soggettivo-trascendentale, oppure possiamo forse arrivare a conoscere qualcosa

di come la realtà è, indipendentemente dalla nostra soggettività? Il punto di Meillassoux è aprire

un varco verso una ‘realtà’ indipendente, ‘oggettiva’. Per me, in quanto hegeliano, c’è una terza

opzione: il vero problema che sorge dopo aver compiuto il gesto base speculativo di Meillassoux

(cioè: trasporre la contingenza della nostra nozione di realtà nella cosa stessa) non è tanto cosa ci

resta da dire della realtà-in-sé, ma come la nostra prospettiva soggettiva, e la soggettività stessa,

possa essere parte della realtà. Il problema non è ‘possiamo penetrare attraverso il velo dei

fenomeni soggettivamente costruiti verso le cose-in-sé, ma ‘come fanno i fenomeni stessi ad

emergere all’interno della piatta stupidità della realtà che semplicemente è; in che modo la realtà

raddoppia se stessa ed inizia ad apparire a se stessa’? Per risolvere questo problema, abbiamo

bisogno di una teoria del soggetto che non sia né quella della soggettività trascendentale, né

quella che riduce il soggetto ad una parte della realtà oggettiva. Questa teoria, per quanto posso

vedere io, manca ancora nel realismo speculativo.

21

Si veda Quentin Meillassoux, ‘Potentiality and Virtuality’, in Levi Bryant, Nick Srnicek, and Graham Harman

(eds.), The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, Melbourne, Re.press, 2010, pp. 224–236.

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Bibliografia

Brassier, Ray, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction, New York, Palgrave Macmillan,

2007.

Chalmers, David, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University Press, 1996.

Kant, Immanuel, Critica della ragion pura, trad. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo

Radice, rivista da V. Mathieu, Roma-Bari, Laterza, 1996 (1781).

Meillassoux, Quentin, Dopo la finitudine: Saggio sulla necessità della contingenza, Milano:

Mimesis, 2012.

---, ‘Potentiality and Virtuality’, in Levi Bryant, Nick Srnicek, and Graham Harman (eds.), The

Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, Melbourne, Re.press, 2010, pp. 224–

236.