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Cesare Lucio Marco Aurelio Commodo Antonino Augusto, (Lanuvium, 31 agosto 161 – Roma, 31 dicembre 192), è stato un imperatore romano, membro della dinastia degli Antonini; regnò dal 180 al 192. Come Caligola e Nerone, è descritto dagli storici come stravagante e depravato. Figlio dell'imperatore filosofo Marco Aurelio, Commodo fu associato al trono nel 177, succedendo al padre nel 180. Avverso al Senato e da questi odiato, governò in maniera autoritaria, esibendosi anche come gladiatore e in prove di forza, e facendosi soprannominare l'"Ercole romano". Durante i dodici anni di principato, nonostante la fama di despota, Commodo esercitò un'ampia tolleranza religiosa, ad esempio ponendo fine alle persecuzioni contro i cristiani (anche se lo fece per accondiscendere la sua amante Marcia che poi lo ucciderà!) dopo alcuni anni dall'ascesa al trono, le quali ricominciarono dopo la sua morte. Egli stesso praticò culti orientali e stranieri. Il regno di Commodo diede anche un nuovo impulso alle arti, che si svilupparono rispetto all'arte dei primi Antonini. Durante il suo regno egli eresse vari monumenti celebranti le imprese del padre Marco Aurelio, tra i quali ci sono la Colonna Aureliana e, forse, completò anche la statua equestre di Marco Aurelio sul Campidoglio. Amato dal popolo e appoggiato dall'esercito, al quale aveva elargito consistenti somme di denaro, riuscì a mantenere il potere tra numerose congiure. Nel 182, un gruppo di membri della famiglia imperiale riuniti intorno alla sorella Annia Aurelia Galeria Lucilla armarono un parente che assalì, cercando di colpire Commodo, ma le guardie furono più veloci di lui, fu sopraffatto e disarmato senza riuscire nemmeno a ferire l'imperatore, che fece eseguire diverse condanne a morte. Nel 192, di fronte al crescente malcontento per gli eccessi di Commodo, il prefetto del Pretorio Quinto Emilio Leto ed il cubicularius Ecletto, temendo per la propria vita dopo essersi opposti alle ultime stravaganze dell'Imperatore, organizzarono una congiura con numerosi senatori, anch'essi esasperati dallo stato di cose. Venne ben presto coinvolta la concubina Marcia, favorita di Commodo di probabile fede cristiana (aveva spinto Commodo a interrompere le persecuzioni e a graziare papa Vittore I), cosicché, approfittando della sua prossimità al principe, si riuscisse ad avvelenarlo.

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Cesare Lucio Marco Aurelio Commodo Antonino Augusto, (Lanuvium, 31 agosto 161 – Roma, 31 dicembre 192), è stato un imperatore romano, membro della dinastia degli Antonini; regnò dal 180 al 192. Come Caligola e Nerone, è descritto dagli storici come stravagante e depravato.

Figlio dell'imperatore filosofo Marco Aurelio, Commodo fu associato al trono nel 177, succedendo al padre nel 180. Avverso al Senato e da questi odiato, governò in maniera autoritaria, esibendosi anche come gladiatore e in prove di forza, e facendosi soprannominare l'"Ercole romano".

Durante i dodici anni di principato, nonostante la fama di despota, Commodo esercitò un'ampia tolleranza religiosa, ad esempio ponendo fine alle persecuzioni contro i cristiani (anche se lo fece per accondiscendere la sua amante Marcia che poi lo ucciderà!) dopo alcuni anni dall'ascesa al trono, le quali ricominciarono dopo la sua morte. Egli stesso praticò culti orientali e stranieri. Il regno di Commodo diede anche un nuovo impulso alle arti, che si svilupparono rispetto all'arte dei primi Antonini. Durante il suo regno egli eresse vari monumenti celebranti le imprese del padre Marco Aurelio, tra i quali ci sono la Colonna Aureliana e, forse, completò anche la statua equestre di Marco Aurelio sul Campidoglio.

Amato dal popolo e appoggiato dall'esercito, al quale aveva elargito consistenti somme di denaro, riuscì a mantenere il potere tra numerose congiure. Nel 182, un gruppo di membri della famiglia imperiale riuniti intorno alla sorella Annia Aurelia Galeria Lucilla armarono un parente che assalì, cercando di colpire Commodo, ma le guardie furono più veloci di lui, fu sopraffatto e disarmato senza riuscire nemmeno a ferire l'imperatore, che fece eseguire diverse condanne a morte.

Nel 192, di fronte al crescente malcontento per gli eccessi di Commodo, il prefetto del Pretorio Quinto Emilio Leto ed il cubicularius Ecletto, temendo per la propria vita dopo essersi opposti alle ultime stravaganze dell'Imperatore, organizzarono una congiura con numerosi senatori, anch'essi esasperati dallo stato di cose. Venne ben presto coinvolta la concubina Marcia, favorita di Commodo di probabile fede cristiana (aveva spinto Commodo a interrompere le persecuzioni e a graziare papa Vittore I), cosicché, approfittando della sua prossimità al principe, si riuscisse ad avvelenarlo.

L'attentato venne messo in atto il 31 dicembre 192, vigilia dell'insediamento dei nuovi consoli, durante un banchetto. L'Imperatore, però, credendo di sentirsi appesantito dal lauto pasto chiese ai domestici di aiutarlo a vomitare, salvandosi così inconsapevolmente. A quel punto, avendo mancato il bersaglio e temendo di poter essere presto scoperti, i congiurati si rivolsero al maestro dei gladiatori Narcisso, istruttore personale dell'Imperatore, il quale, spinto dalla promessa di una ricca ricompensa, strangolò quella sera stessa Commodo nel bagno.

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COMMODO NELLE VESTI CHE MAVA: QUELLE DI ERCOLE!

Il giorno successivo, 1º gennaio 193, dopo un brevissimo interregno, i congiurati sparsero la voce dell'improvvisa e provvidenziale morte dell'Imperatore per un colpo apoplettico e di come quel fortuito evento avesse evitato appena in tempo il piano di Commodo per assassinare i consoli designati, Quinto Pompeio Sosio Falcone e Gaio Giulio Erucio Claro Vibiano, per poi recarsi in Senato, accompagnato da un gladiatore e vestito egli stesso in abiti da arena, per essere assieme a questi acclamato console per l'ottava volta.

Leto ed Ecletto si recarono quindi dal Praefectus Urbi Publio Elvio Pertinace, generale e console in carica e collega dell'imperatore defunto, offrendogli la porpora imperiale. Questi, temendo dapprima per la propria vita, si convinse ad accettare solo quando, condotto al Palatino, vide il corpo di Commodo privo di vita. A Roma, la notizia della morte del Principe spinse il Senato ed il popolo a chiedere che il cadavere fosse trascinato con un uncino e precipitato nel Tevere, così come voleva un'antica usanza per i nemici della Patria.

Pertinace diede tuttavia incarico affinché Commodo fosse segretamente sepolto nel mausoleo di Adriano. Avutane notizia, il Senato dichiarò allora Commodo hostis publicus e ne decretò la damnatio memoriae: venne ripristinato il nome corretto delle istituzioni, mentre le statue e gli altri monumenti eretti dall'Imperatore defunto venivano abbattuti. Appena due anni dopo tuttavia, nel 195, l'imperatore Settimio Severo, cercando di legittimare il proprio potere ricollegandosi alla dinastia di Marco Aurelio e in aperta contrapposizione con il Senato, riabilitò la memoria di Commodo, ordinando che ne fosse decretata l'apoteosi. Commodo passò quindi dall'essere un nemico dello Stato alla condizione di divus, con un apposito flamine preposto al proprio culto.

Ma che periodo per Roma!

Pertinace fu ucciso dai Pretoriani subito dopo: il 18 di marzo del 193!

Comprato il titolo, salì al trono imperiale Didio Giuliano ricchissimo senatore di Milano! (Mediolanum, 30 gennaio 133 – Roma, 1º giugno 193) che divenne imperatore comprando all'asta l'impero dai pretoriani che lo vendevano al migliore offerente. Fu riconosciuto dal Senato e dai pretoriani ma non dalle legioni.

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Dopo aver tentato di bloccare Settimio Severo, che attraversando l'Italia e discendendo verso Roma si era pure impadronito della flotta di Ravenna, aveva intrapreso con lui trattative diplomatiche per associarlo al trono, ma la posizione di Didio Giuliano era ormai troppo compromessa e Settimio Severo rifiutò l'offerta. Senza più nessuno dalla sua parte fu ucciso da un sicario, inviato dal senato, il 1º giugno 193!

Settimio Severo terrà il comando fino al 211, per poi passarlo al figlio Caracalla che farà uccidere da un centurione il fratello Geta, cercherà di cancellarlo dalla memoria storica e farà proscrivere o eliminare oltre 20.000 persone!

 

Con il termine televisione a colori si indica la tecnica di trasmissione e visualizzazione di immagini in movimento complete dell'informazione di colore originale. La tecnica si basa fondamentalmente sulla scansione delle componenti di colore fondamentali (rosso, blu e verde) e sulla sua riproduzione su schermi mediante fosfori o pixel complessi composti da tre elementi più piccoli, uno per il colore rosso, uno per il blu ed uno per aver uno o più accesso nel mondo virtuale e poté aver successo grazie al progresso delle tecnologie elettroniche e soprattutto alla progressiva riduzione delle dimensioni dei componenti.

Già nel 1939 fu proposto e adottato come riferimento un principio di compatibilità in base al quale gli allora futuri programmi televisivi a colori dovevano essere visibili anche su televisori in bianco e nero, così come i programmi in bianco e nero dovevano essere visibili come tali anche su televisori in grado di riprodurre il colore. Questo principio, che consentiva la coesistenza di nuovi e vecchi apparati televisivi, fu seguito come principio di base per tutti gli sviluppi tecnici successivi.

I primi esperimenti di trasmissione a colore vera e propria avvennero verso la fine degli anni quaranta negli Stati Uniti. Durante questi esperimenti venne messo a punto quello che poi nel 1953 sarebbe divenuto lo standard NTSC (National Television Systems Commitee). Le trasmissioni regolari ebbero inizio sempre negli Stati Uniti nel 1954.

Dalla metà degli anni sessanta diverse altre nazioni cominciarono a diffondere programmi televisivi a colori: Francia, Gran Bretagna e Germania iniziarono le trasmissioni regolari nel 1967.

 

L'Italia fu uno degli ultimi paesi, il 1º febbraio 1977, ad avviare ufficialmente le trasmissioni a colori, dopo aver visto la lotta fra gli standard europei concorrenti SECAM e PAL e un periodo di

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ricezione delle trasmissioni provenienti da Montecarlo, dalla Svizzera e dalla Jugoslavia, spesso riprese e ritrasmesse da emittenti locali.

Alla metà degli anni '70, tuttavia, la Rai già trasmetteva con cadenza quotidiana una serie di "prove tecniche di trasmissione", consistenti in immagini statiche o in filmati con sottofondi di musica classica (l'esempio più famoso fu La gazza ladra di Rossini, utilizzata come commento musicale a un filmato relativo a un gruppo di persone intente a visitare uno zoo).

La battaglia del Garigliano fu combattuta il 29 dicembre 1503 tra l'esercito al servizio del regno spagnolo, guidato da Gonzalo Fernández de Córdoba detto el Gran Capitán, e quello a servizio del regno francese comandato da Ludovico II, marchese di Saluzzo. In entrambi gli eserciti vi erano comandanti e soldati italiani. La battaglia venne dopo tre anni di scontri nel Mezzogiorno e determinò per oltre due secoli (1503 – 1734) le sorti politiche del Regno di Napoli. Córdoba lanciò a sorpresa un attacco contro i francesi e ottenne una vittoria decisiva, ponendo fine alla resistenza francese.

 

La spartizione del Regno di Napoli

L'11 novembre del 1500, Luigi XII re di Francia e Ferdinando II di Spagna avevano sottoscritto un patto segreto con il beneplacito di papa Alessandro VI: il trattato segreto di Granada, che prevedeva la spartizione del Regno di Napoli. Federico I di Napoli, d’Aragona, all'oscuro dell'accordo, quando nel 1501 i Francesi s’apprestarono ad invadere il suo regno, chiese aiuto alla Spagna essendo imparentato con Ferdinando II e consegnandogli anche delle piazzeforti in Calabria. Il re Federico, accortosi troppo tardi dell'inganno, cercò di trattare la resa, ma il 19 agosto i Francesi entrarono a Napoli. Presto tra gli occupanti nacquero dissidi sulle modalità di spartizione, che portarono a molti scontri e alterne fortune fino alla presa spagnola di Napoli il 16 maggio 1503. Presto Gaeta sul Tirreno e Venosa sull'Adriatico rimasero uniche piazzeforti in mano ai Francesi. A Gaeta arrivavano facilmente i rifornimenti via mare ed i Francesi occupavano anche tutto il territorio a sud fino al fiume Garigliano, comprendente i castelli di Fondi, Itri, Castellonorato, Traetto, Roccaguglielma, Castelforte e Suio, terre avite sotto il controllo di Onorato III Caetani, alleato dei Francesi.

A metà di novembre nel 1503, l'esercito a servizio del regno francese e quello al servizio spagnolo si trovarono separati solo dal fiume Garigliano. Gli spagnoli, schierati in inferiorità numerica, dovevano attraversare il fiume per spazzare via i francesi dal regno, i francesi dovevano attraversare il fiume per sperare di riconquistare Napoli. Malgrado vari tentativi riusciti dei francesi di attraversare il fiume grazie ad un ponte che erano riusciti ad allestire, la situazione era allo stallo ed entrambi gli schieramenti occupavano posizioni strategiche tra pantani, stagni insalubri, al freddo sotto la pioggia battente.

Nei giorni precedenti il 29, gli Spagnoli manovrarono costruendo un ponte e mettendo i Francesi in fuga, falcidiati anche dalle malattie, per mare e per terra attaccati e sconfitti dai nemici.

Asserragliati a Gaeta, i Francesi, dopo alcuni giorni, trattano la resa, consegnando tutto il meridione d'Italia agli Spagnoli.

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Con la proiezione pubblica del 28 Dicembre 1895 dei Fratelli Lumiere (nomen omen!) si data la nascita del cinema!

I fratelli Auguste Marie Louis Nicolas Lumière (Besançon, 19 ottobre 1862 – Lione, 10 aprile 1954) e Louis Jean Lumière (Besançon, 5 ottobre 1864 – Bandol, 6 giugno 1948) sono stati due imprenditori francesi, inventori del proiettore cinematografico e tra i primi cineasti della storia.

Auguste Marie Louis Nicholas e Louis Jean Lumière nacquero a Besançon. Figli dell'imprenditore e fotografo Antoine Lumière, entrambi i fratelli lavorarono a lungo per lui, Louis come fisico e Auguste come direttore. Louis aveva sperimentato alcuni miglioramenti al processo fotografico, il più rilevante era il procedimento della lastra secca, un fondamentale punto di passaggio verso la pellicola fotografica.

Quando il loro padre andò in pensione nel 1892 i fratelli iniziarono a lavorare alacremente per creare la pellicola cinematografica. Brevettarono un numero significativo di procedimenti, tra le

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quali è da segnalare la creazione del "foro di trascinamento" nella pellicola, come mezzo per trascinarla attraverso la camera e il proiettore.

Produssero un singolo strumento che funzionava sia da camera che da proiettore, il cinématographe che brevettarono il 13 febbraio 1895. La prima pellicola venne girata con questo strumento il 19 marzo 1895; il film era “L'uscita dalle officine Lumière (La sortie des usines Lumière)”, che viene spesso citato come il primo documentario (anche se questa definizione è sempre stata fonte di diversi dibattiti).

Il primo spettacolo a pagamento si tenne il 28 dicembre a Parigi al Grand Café sul Boulevard des Capucines.

Andarono in tour con il cinématographe nel 1896 visitando Londra e New York. Le immagini in movimento ebbero un'immediata e significativa influenza sulla cultura popolare con L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L'arrivée d'un train en gare de la Ciotat) e La colazione del bimbo (Le Repas de bébé), e il primo esempio di commedia con la farsa L'innaffiatore innaffiato (L'arroseur arrosé).

Dopo la presentazione del Cinematografo i Lumière vendettero numerosi apparecchi, che vennero portati in giro per il mondo creando la nuova professione dei "cinematografisti", eredi degli ambulanti che vendevano stampe nell'Europa del XVII e XVIII secolo.

Paradossalmente, i due fratelli ritenevano il cinema "un'invenzione senza futuro", poiché pensavano che presto il pubblico si sarebbe stufato dello spettacolo del movimento; per questo motivo decisero presto di occuparsi d'altro, rendendo la loro comparsa nella storia del cinema piuttosto breve.

Spostarono la loro attenzione sulla fotografia a colori e, nel 1903, brevettarono il processo "Autochrome Lumière", lanciato sul mercato nel 1907. La società Lumière fu una delle maggiori produttrici in Europa, finché il marchio Lumière non scomparve dal mercato a seguito della confluenza nel gruppo Ilford.

Con il cinematografo dei Fratelli Lumière del 1895 si può iniziare a parlare di cinema vero e proprio, composto da uno spettacolo di proiezione di fotografie (il primo proiettato il 28 dicembre 1895 in un seminterrato di un locale parigino) scattate in rapida successione, in maniera da dare l'illusione di movimento, a un pubblico pagante radunato in una sala. Di pochi anni più antico era il kinetoscopio di Thomas Edison, con lo stesso procedimento di animazione delle immagini che scorrevano in rapida sequenza, però il modo di fruizione monoculare (e quindi non proiettato) lo rendeva antenato del cinema vero e proprio, l'ultima fase del precinema. La proiezione permetteva dopotutto un maggiore guadagno economico per via della fruizione collettiva, per cui si impose presto.

In realtà le invenzioni legate alle fotografie in movimento furono innumerevoli in quegli anni (si contarono nella sola Inghilterra circa 350 brevetti e nomi). Tra tutte queste l'invenzione dei Lumière aveva l'innegabile vantaggio dell'efficiente cremagliera, che trascinava la pellicola automaticamente a scatti ogni 1/25 di secondo, e una praticità mai vista, essendo la macchina da presa una piccola scatoletta di legno, facilmente trasportabile, che all'occorrenza, cambiando solo la lente, si trasformava anche in macchina da proiezione.

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Fratelli_Lumiere

Il nome proposto per il cinematografo da Lumière pare sarebbe stato Domitor, contrazione del latino dominator, che rispecchia i sogni e le suggestioni di onnipotenza del positivismo. Guardare la vita quotidiana degli altri (o di se stessi, perché non erano infrequenti le auto-rappresentazioni) e salvarla nel tempo era una sorta di potere di registrazione delle cose, anche di vittoria sulla morte, che trova eco anche nella letteratura contemporanea: nel romanzo Il castello dei Carpazi del 1892 Jules Verne descriveva un inventore che riusciva a riprodurre le immagini e la voce di una cantante della quale era innamorato per averla con sé per sempre.

Inoltre assistere alle proiezioni cinematografiche gratificava lo spettatore nel vedere senza essere visto, come un "dominatore" del mondo, appunto: lo spettatore si sente (tutt'oggi) inconsciamente superiore ai personaggi ed è gratificato dall'assistere alle loro vicende. Non a caso la visione frontale del cinematografo era quella che nel teatro era riservata al principe ed alle personalità più importanti.

Le vedute di "dominatori" sono particolarmente evidenti nei primi documentari girati con la cinepresa Lumière nei primi due decenni del Novecento: nei filmati di Albert Kahn, Luca Comerio, Roberto Omegna o Boleslaw Matuszewski si nota lo sguardo di superiorità verso le culture diverse da quella occidentale, legato alle ideologie del colonialismo e della conquista spietata.

Il prodotto caratteristico del cinematografo Lumière sono le cosiddette "vedute animate", ovvero scenette realistiche prese dal vero della durata di circa cinquanta secondi (la durata di un caricatore di pellicola). L'interesse dello spettatore era tutto nel guardare il movimento in sé e nello scoprire luoghi lontani, non tanto nel veder rappresentate vere e proprie vicende.

Le inquadrature sono fisse e non esiste, se non in casi eccezionali, il montaggio; sono caratterizzate da un'estrema profondità di campo (si pensi all'Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, dove il treno è a fuoco sia quando si trova lontano sullo sfondo sia quando arriva in primo piano) e da personaggi che entrano ed escono all'inquadratura, in una molteplicità di centri di attenzione (si pensi all'Uscita dalle officine Lumière). La centratura dell'immagine era infatti valutata approssimativamente, perché la macchina da ripresa Lumière non era dotata di mirino.

L'operatore non è invisibile, anzi spesso dialoga con i personaggi (L'arrivo dei fotografi al congresso di Lione), e le persone ritratte erano invitate a riguardarsi alla proiezione pubblica ("auto-

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rappresentazione"). Questa caratteristica venne poi considerata come un difetto della registrazione nel cinema successivo, venendo poi rivalutata solo in epoca contemporanea.

Solo in secondo momento nacquero le riprese in movimento (effettuate da treni in partenza o imbarcazioni) e, circa un decennio dopo i primi esperimenti, i Lumière iniziarono a produrre film veri e propri composti da più "quadri" messi in serie, però proiettati separatamente, come le Passioni di Cristo. Figura fondamentale nelle rappresentazioni restava l'imbonitore che, come i tempi della lanterna magica, istruiva, spiegava e intratteneva il pubblico commentando le immagini, che ancora non erano intelligibili autonomamente.

L'opera Madama Butterfly è un'opera in tre atti (in origine due) di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, definita nello spartito e nel libretto "tragedia giapponese" e dedicata alla regina d'Italia Elena di Montenegro.

La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro alla Scala di Milano, il 17 febbraio 1904, della stagione di Carnevale e Quaresima.

 

Genesi dell'opera

Puccini scelse il soggetto della sua sesta opera dopo aver assistito al Duke of York's Theatre di Londra, nel luglio 1900, all'omonima tragedia (Madame Butterfly) in un atto di David Belasco, a sua volta tratta da un racconto dell'americano John Luther Long dal titolo Madam Butterfly, apparso nel 1898.

Iniziata nel 1901, la composizione procedette con numerose interruzioni: l'orchestrazione venne avviata nel novembre del 1902 e portata a termine nel settembre dell'anno seguente e soltanto nel dicembre 1903 l'opera poté dirsi completa in ogni sua parte.

Per la realizzazione del dramma Puccini si documentò senza sosta e minuziosamente sui vari elementi orientali che ritenne necessario inserirvi. Lo aiutarono particolarmente una nota attrice giapponese, Sada Yacco, e la moglie dell'ambasciatore nipponico con la quale parlò in Italia facendosi descrivere usi e costumi dell'affascinante popolo orientale. I costumi al debutto alla Scala di Milano furono disegnati da Giuseppe Palanti.

 

Il debutto scaligero

La sera del 17 febbraio 1904, nonostante l'attesa e la grande fiducia dei suoi artefici in Rosina Storchio, all'apice della sua carriera, Giovanni Zenatello e Giuseppe De Luca oltre che nella direzione di Cleofonte Campanini, grande talento che aveva preparato l'opera con molta cura, la Madama Butterfly cadde clamorosamente al Teatro alla Scala di Milano.

Il tragico clima di questo storico fiasco è efficacemente descritto da una delle sorelle di Puccini, Ramelde, in una lettera al marito:

« Alle due siamo andati a letto e non posso chiudere occhio; e dire che tutti eravamo tanto sicuri! Giacomo, poverino, non l'abbiamo mai veduto perché non si poteva andare sul palcoscenico. Siamo

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arrivati in fondo non so come. Il secondo atto non l'ho sentito affatto e, prima che l'opera finisse, siamo scappati dal teatro. »

Considerato che la versione di Milano era poco differente rispetto a quella che sarà presentata poco dopo a Brescia, accolta trionfalmente e poi passata in repertorio, è difficile dar ragione del fiasco milanese. Molti studiosi, tra cui il direttore d'orchestra Pinchas Steinberg, oltre che Giulio Ricordi e Puccini stesso, ritengono che attorno all'autore e all'opera fosse stato costruito ad arte un clima d'ostilità, poi sconfitto dal palese valore dell'opera. L'ipotesi del complotto è confermata anche dalle sensazioni di Puccini, che scrivendo all'amico Camillo Bondi riferì d'una ubriacatura d'odio nell'ambito della quale si dovette tenere la prima scaligera:

« con animo triste ma forte ti dico che fu un vero linciaggio. Non ascoltarono una nota quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, briachi d’odio. Ma la mia Butterfly rimane qual è: l’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito. E avrò la rivincita, vedrai, se la darò in un ambiente meno vasto e meno saturo d’odi e di passioni »

così come dalla cronaca di Giulio Ricordi, stilata poche settimane dopo:

« Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate, i soliti gridi solitari di bis fatti apposta per eccitare ancor di più gli spettatori, ecco, sinteticamente, qual è l’accoglienza che il pubblico della Scala fa al nuovo lavoro del maestro Giacomo Puccini. Dopo questo pandemonio, durante il quale pressoché nulla fu potuto udire, il pubblico lascia il teatro contento come una pasqua!»

 

 

Versioni successive

Il fiasco spinse autore e editore a ritirare immediatamente lo spartito, per sottoporre l'opera ad un'accurata revisione che, attraverso l'eliminazione di alcuni dettagli e la modifica di alcune scene e situazioni, la rese più agile e proporzionata. Puccini inserì anche una nuova aria per Pinkerton, «Addio, fiorito asil». Una delle più importanti modifiche è tuttavia puramente musicale e riguarda la linea vocale dell'aria del suicidio di Butterfly.

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Nella nuova veste, Madama Butterfly, interpretata da Solomiya Krushelnytska e Zenatello diretta da Campanini, venne accolta entusiasticamente al Teatro Grande di Brescia appena tre mesi dopo, il 28 maggio, e da quel giorno iniziò la sua seconda, fortunata esistenza.

Al Teatro Regio di Torino, avviene la prima rappresentazione nella terza versione, il 2 gennaio 1906 con la Krushelnytska diretta da Arturo Toscanini.

La partitura e gli effetti scenici vengono ulteriormente ritoccati da Puccini fino al 1907, prima per la rappresentazione dell'opera al Royal Opera House, Covent Garden di Londra il 10 luglio 1905, poi per quella del 1906 al Théâtre National de l'Opéra-Comique di Parigi.

Al Metropolitan Opera House di New York la première è stata l'11 febbraio 1907 con Geraldine Farrar, Enrico Caruso, Louise Homer ed Antonio Scotti con la supervisione del compositore. Al Metropolitan fino al 2014 ha avuto 855 recite risultando la settima opera maggiormente eseguita.

Nel 1920 Puccini tornò nuovamente sulla partitura, ripristinando nel primo atto un assolo di Yakusidé, lo zio ubriacone della protagonista. È possibile che il cambiamento fosse anche mirato a combattere la prassi di tagliare un breve episodio in concertato, che nella versione del 1907 era rimasto l'unico brano a cui prendeva parte lo zio Yakusidé. Tagliandolo, i teatri evitavano di scritturare un cantante.

L'editore Ricordi non pubblicò mai la nuova versione, col risultato che oggi l'arietta non viene eseguita e, soprattutto, il concertato continua ad essere quasi sempre tagliato.

 

Trama

Sbarcato a Nagasaki,all'inizio del XX secolo, Pinkerton (tenore), ufficiale della marina degli Stati Uniti, per vanità e spirito d'avventura si unisce in matrimonio, secondo le usanze locali, con una geisha quindicenne di nome Ciò Ciò San, (giapponese: Chōchō-san), termine giapponese che significa Madama (San) Farfalla (蝶 Chō?), in inglese Butterfly (soprano), acquisendo così il diritto di ripudiare la moglie anche dopo un mese; così infatti avviene, e Pinkerton ritorna in patria abbandonando la giovanissima sposa. Ma questa, forte di un amore ardente e tenace, pur struggendosi nella lunga attesa accanto al bimbo nato da quelle nozze, continua a ripetere a tutti la sua incrollabile fiducia nel ritorno dell'amato.

Pinkerton infatti ritorna dopo tre anni, ma non da solo: accompagnato da una giovane donna, da lui sposata regolarmente negli Stati Uniti, è venuto a prendersi il bambino, della cui esistenza è stato messo al corrente dal console Sharpless (baritono), per portarlo con sé in patria ed educarlo secondo gli usi occidentali. Soltanto di fronte all'evidenza dei fatti Butterfly comprende: la sua grande illusione, la felicità sognata accanto all'uomo amato, è svanita del tutto. Decide quindi di scomparire dalla scena del mondo, in silenzio, senza clamore; dopo aver abbracciato disperatamente il figlio, si uccide (secondo l'usanza giapponese denominata jigai) con un coltello tantō pervenutole in eredità dal padre e con il quale lo stesso aveva commesso seppuku.

 

Organico orchestrale

La partitura di Puccini prevede l'utilizzo di:

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3 flauti (III. anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti

4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, trombone basso

timpani, tamburo, triangolo, piatti, tam-tam, grancassa, campanelli a tastiera, tam-tam giapponesi (ad libitum)

arpa

archi

Da suonare sul palco:

campanella, campane tubolari, campanelli giapponesi, viola d'amore, fischi d'uccelli, tam-tam, tam-tam grave

Da notare che la campanella sul palco viene suonata da Suzuki durante la preghiera "E Izaghi ed Izanami", all'inizio del secondo atto.

La viola d'amore serve a sostenere discretamente l'intonazione del coro (che in quest'opera esclude le voci gravi maschili) durante il celebre "coro a bocca chiusa".

I fischi d'uccelli vengono eseguiti di solito su appositi strumenti simili a soffietti muniti di fischietti.

 

Curiosità

Il primo soprano giapponese al mondo ad interpretare il personaggio di Cio-Cio-San fu Tamaki Miura che si esibì in vari teatri europei nel 1920 ed italiani negli anni 1930 e 1931.

Pur avendo fatto molte ricerche sul mondo del Giappone, Puccini ha completamente sconvolto, per necessità drammaturgiche, le usanze tipiche delle geisha, iniziando dal dare questo ruolo alla protagonista, in realtà troppo giovane per essere già arrivata alla cerimonia di "erikae", al massimo era una maiko che aveva passato la cerimonia di "mizuage".

Nel 1974 il regista e commediografo Ruggero Rimini scrisse il dramma "La Storia di Madama Butterfly - Un bel di' vedremo", messo in scena l'anno successivo con la Compagnia Il Centro di Lucca, diretta dall'impresario e presidente della Versiliana, Franco Martini; scene di Lele Luzzati, costumi di Santuzza Cali'. Nel ruolo di Puccini, l'attore romano Gabriele Antonini. Oltre ventanni dopo, nel 1998, la Compagnia stabile del Dramma Italiano di Fiume (Croazia) riporterà in scena il dramma con la regia di Peter Selem, le scene di Raffaele Del Savio, i costumi di Dora Argento, le luci di Deni Šesnić e le coreografie di Antun Marinić. Giacomo Puccini era Claudio Trionfi.

L'inno nazionale degli Stati Uniti d'America che compare svariate volte all'interno dell'opera, in realtà, ai tempi di Puccini era l'inno della Marina degli Stati Uniti d'America. Bisognerà attendere il 1931 affinché tale inno, con una risoluzione del congresso, diventi l'inno nazionale statunitense.

Arie famose

Dovunque al mondo, aria di Pinkerton (atto primo)

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Quanto cielo! Quanto mar!, entrata di Butterfly con coro femminile (atto primo)

Viene la sera … Bimba dagli occhi pieni di malìa … Vogliatemi bene, un ben piccolino, duetto tra Butterfly e Pinkerton (atto primo)

Un bel dì vedremo, romanza di Butterfly (atto secondo)

Coro a bocca chiusa (atto secondo)

Addio fiorito asil, romanza di Pinkerton (atto terzo - assente nella prima versione)

O a me sceso dal trono, aria di Butterfly (atto terzo)

I Padri Pellegrini o Pellegrini Padri sono considerati tra i primi coloni del Nord America; Plymouth, la colonia da loro fondata nel 1620 sulla costa del Massachusetts, divenne la seconda colonia dopo la fondazione di Jamestown, in Virginia, nel 1607, ed è oggi il più vecchio insediamento degli Stati Uniti abitato continuativamente.

Prima di allora vi erano state spedizioni e insediamenti di natura governativa e militare, mentre i Padri Pellegrini altro non erano che un gruppo di privati cittadini inglesi di religione cristiana puritana ed è con loro che ha inizio il massiccio flusso immigratorio che è poi proseguito nei secoli successivi.

Re Giacomo I aveva fondato a Plymouth, in Inghilterra, nel 1606 la Plymouth Company, chiamata anche New England Company, con lo scopo di stabilire delle colonie lungo la costa del Nord America. La compagnia marittima era il secondo ramo della Virginia Company.

Questa compagnia aveva già inviato un primo nucleo di “fondatori” che si era stabilito in un tragico forte con altissime palizzate per difendersi dagli Spagnoli a Jamestown, e, soprattutto, dai nativi Algonchini (alla quale apparteneva Pocaontas la prima donna indiana a sposare un inglese) che più volte assediarono gli inglesi decimati da malattie, freddo e una tale mancanza di cibo che qui si verificarono episodi di canibalismo!

Nel settembre 1620 (alcune fonti indicano il 6 settembre, altre il 16) salpò da Plymouth la Mayflower, con 102 persone a bordo compresi donne e bambini. La traversata dell’Oceano Atlantico fu durissima e durante essa morirono un passeggero e un membro dell'equipaggio. La terra fu avvistata il 9 novembre 1620, all'altezza di Cape Cod, ma lo sbarco e l'insediamento finale, dopo una lunga serie di esplorazioni, avvenne oltre un mese dopo, il 26 dicembre, in un luogo che la tradizione identifica con la Roccia di Plymouth.

Dopo un viaggio durissimo, durante il quale gran parte dei passeggeri si era ammalata di mali quali lo scorbuto erano approdati nel nuovo continente quando ormai l’inverno era alle porte e le terre circostanti deserte, selvagge e inospitali. Il primo inverno fu quindi durissimo e durante esso morirono di stenti più di 40 persone.

 

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Mayflower Harbor

Il primo Giorno del Ringraziamento

L’anno successivo però la colonia si era insediata ed era ben organizzata, aveva costruito case solide e coltivato le terre rivelatesi generose; aveva inoltre instaurato rapporti d'amicizia con gli indiani, tra cui Samoset, Squanto e Massasoit, capo della tribù dei Wampanoag. Nel marzo del 1621 Massasoit e il Governatore Carver stabilirono un trattato di pace e di mutua protezione. I nativi inoltre aiutarono i Pellegrini insegnando loro come sfruttare la terra e coltivare il mais; Nell'ottobre del 1621 i 53 Pellegrini sopravissuti festeggiarono il raccolto, insieme a Massasoit e circa 90 dei suoi uomini. Le celebrazioni durarono tre giorni, durante i quali si banchettò con anatre, pesci e tacchini procurati dai coloni e cinque cervi portati dai nativi. La ricorrenza di questa celebrazione è in seguito stata commemorata come Giorno del Ringraziamento (Thanksgiving Day) ed è oggi una delle principali festività americane. All'epoca, tuttavia, i Pellegrini non la chiamarono con questo nome: la prima festa che i Pellegrini stessi chiamarono "del ringraziamento" si svolse nel 1623, in seguito alla notizia dell'arrivo di ulteriori coloni e di provviste.

 

 

thanksgiving-giorno-del-ringraziamento-padri-pellegrini-e-nativi-americani

 

La descrizione della nascita o natività di Gesù (o soltanto Natività, per antonomasia) è contenuta nei Vangeli secondo Matteo e secondo Luca oltre che nel Protovangelo di Giacomo.

La valutazione sulla valenza storica dei racconti evangelici sulla Natività è oggetto di controversie. I testi di Matteo e Luca concordano su due eventi centrali, che verificano, secondo l'interpretazione cristiana, due profezie dell'Antico Testamento: la nascita di Gesù a Betlemme (Michea, 5,1), da una

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vergine (Isaia 7,14). Entrambi i vangeli raccontano inoltre della nascita al "tempo di re Erode", riferiscono il nome dei genitori (Maria, promessa sposa di Giuseppe) e attribuiscono il concepimento verginale all'opera dello Spirito Santo.

Le due narrazioni differiscono per quanto riguarda diversi particolari, i quali vengono specificati o meno. Per questo motivo gli studiosi ritengono che questo sia uno degli indizi della redazione indipendente dei due vangeli (la cosiddetta teoria delle due fonti).

La tradizionale datazione della nascita all'anno 1 a.C. è con ogni probabilità un errore compiuto nel VI secolo dal monaco Dionigi il Piccolo. Oggi la maggior parte degli studiosi colloca la nascita di Gesù tra il 7 e il 6 a.C.

L'istituzione formale della festa liturgica del Natale, come ricorrenza della nascita di Gesù, e la sua collocazione al 25 dicembre è documentata a Roma dal 336, e la si riscontra nel Chronographus, redatto intorno alla metà del IV secolo dal letterato romano Furio Dionisio Filocalo.

Narrazione dei vangeli sinottici

Tra i libri del Nuovo Testamento, gli unici a descrivere la nascita di Gesù sono il Vangelo secondo Matteo e Vangelo secondo Luca. Gli altri due vangeli (Marco e Giovanni) iniziano infatti descrivendo il ministero pubblico di Gesù nell'età adulta, tralasciando la sua infanzia.

Sia Matteo che Luca concordano su alcuni punti:

Giuseppe e Maria, i genitori di Gesù, erano fidanzati ma non sposati quando Maria restò incinta (Matteo 1,20, Luca 1,27 e 2,4);

in entrambi i vangeli la nascita di Gesù è annunciata da un angelo (Matteo 1,20-23 descrive l'annuncio dell'angelo a Giuseppe, Luca 1,30-35 quello a Maria);

il bambino è concepito per intervento divino (Matteo 1,20, Luca 1,34);

un angelo afferma che il suo nome sarà Gesù e che sarà il Salvatore (Matteo 1,21, Luca 2,11);

la nascita avviene al tempo di Erode il Grande (Matteo 2,1, Luca 1,5);

Successivamente arrivano a Gerusalemme dei magi dall'oriente, i quali avevano letto nel sorgere di un "astro" l'annuncio della nascita del re dei Giudei. Il legittimo re, Erode, resta turbato, e li invia a Betlemme sulla base della profezia di Michea (Mi5,1) con l'intento di avere informazioni su questo re illegittimo. Guidati dall'astro, i magi arrivano "nella casa" e offrono a Gesù bambino "oro, incenso e mirra". Avvertiti quindi in sogno di non tornare da Erode, che aveva intenti omicidi verso il possibile usurpatore, i magi tornano nel loro paese.

Un angelo intanto informa in sogno Giuseppe di fuggire in Egitto per sottrarsi all'ira di Erode. Questi infatti, non conoscendo l'identità del re neonato, fa uccidere tutti i bambini di Betlemme sotto i due anni (l'episodio è noto come strage degli innocenti). La famiglia ritorna dall'Egitto solo alla morte di Erode, ma a causa della presenza sul trono del figlio Erode Archelao, in sogno un angelo indica loro di recarsi a Nazaret, in Galilea, affinché si avveri la profezia secondo la quale «sarà chiamato Nazareno».

Vangelo secondo Luca

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Il Vangelo secondo Luca (1,26-2,39) inizia narrando l'annunciazione, fatta dall'angelo Gabriele a Maria, del concepimento per opera dello Spirito Santo di un figlio, il cui nome sarà Gesù. Di fronte all'incredulità di Maria, l'angelo le indica la sua parente Elisabetta, la quale vecchia e sterile sta aspettando un figlio (Giovanni Battista) per grazia di Dio ed è già al sesto mese. Maria dice il suo "sì" dichiarandosi serva del Signore, quindi si mette in viaggio "in fretta" per andare a visitare Elisabetta (Visitazione), che abita presso Gerusalemme, a circa 120 chilometri di distanza (1,26-56).

Dopo aver raccontato la nascita di Giovanni (1,57-80), il Vangelo secondo Luca riporta la notizia di un "primo censimento", voluto da Cesare Augusto in tutto l'impero romano, secondo il quale ciascuno doveva tornare con la propria famiglia nella città dei propri avi (censimento di Quirinio). Giuseppe, discendente del re Davide che era nato a Betlemme, lascia Nazaret con Maria incinta e si reca nella città dei suoi avi. A Betlemme Maria dà alla luce Gesù, lo avvolge in fasce e lo depone in una mangiatoia degli animali. Successivamente avviene l'adorazione dei pastori: avvertiti da un angelo, alcuni pastori si recano a rendere omaggio al bambino appena nato (2,1-20).

Vangeli apocrifi

Leonardo Adorazione dei Magi

La nascita di Gesù è descritta anche in alcuni vangeli apocrifi, dove è arricchita di particolari e aspetti miracolistici. Data la tarda età di composizione e il prevalere dell'interesse magico-fiabesco, il valore storico di questi testi è limitato ma possono aver raccolto qualche particolare storicamente fondato.

Il Protovangelo di Giacomo (metà II secolo) armonizza la narrazione di Matteo (Magi e persecuzione di Erode) e Luca (censimento). Quanto al luogo, la nascita avviene a Betlemme in una grotta (cc. 17 - 18), non in una stalla come suggerito da Lc2,7. Questo particolare, assente nei vangeli canonici, è diventato un elemento importante nella rappresentazione del presepe. L'architettura della Basilica della Natività di Betlemme conferma questa tradizione. La Palestina è caratterizzata da numerose piccole grotte che venivano spesso usate come dispense o piccole stalle, sovente ampliate e incorporate in costruzioni in muratura. Il Protovangelo aggiunge poi tre elementi leggendari. Nel primo episodio, Giuseppe racconta in prima persona che al momento della nascita il tempo si fermò (c. 18). Il secondo episodio coinvolge due levatrici che, chiamate da Giuseppe, arrivarono alla grotta immediatamente dopo la nascita e testimoniarono la verginità di Maria (cc. 19-20)

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Storicità dei racconti

Per la presenza di elementi soprannaturali e di alcune possibili imprecisioni, e per la diversità dei racconti dei due evangelisti, peraltro scritti a decenni di distanza dagli eventi narrati, i testi di Matteo e Luca hanno dato luogo a molte discussioni fra studiosi e biblisti. Secondo gli studiosi moderni, gli autori delle due fonti non avrebbero appreso le notizie da testimoni diretti, ma dal racconto di terze persone e da fonti indirette.

Molti studiosi contemporanei, considerano i racconti evangelici della Natività non fondati storicamente. Secondo questa interpretazione, i principali eventi delle narrazioni sarebbero elaborazioni tardive, a carattere simbolico o leggendario, redatte sulla base delle profezie messianiche contenute nell'Antico Testamento, che vengono espressamente o implicitamente citate in particolare in Matteo. Seguendo queste premesse il luogo di nascita a Betlemme, patria del messia atteso, dovrebbe quindi essere rifiutato anche se è citato da entrambi i racconti, e sono state proposte altre località, in primis Nazaret dove Gesù risiedeva da adulto. Un discorso analogo si può fare per il concepimento verginale: Matteo lo riporta per dimostrare che si è avverata la profezia di Isaia, Luca per dimostrare che Gesù è il Figlio di Dio; queste motivazioni sono interessate e rendono improbabile la storicità di quanto raccontato.

La storicità dei racconti evangelici è messa in dubbio, secondo questa interpretazione, da incoerenze sia esterne sia interne ai racconti. Ad esempio, in Luca la nascita di Gesù è collocata sia durante il regno di Erode (morto probabilmente nel 4 a.C.), sia in occasione del censimento di Quirinio (Giuseppe Flavio ne attesta uno nel 6 d.C.), eventi difficili da conciliare. I due racconti sono inoltre in disaccordo riguardo alle motivazioni per cui Gesù nacque a Betlemme (in base a quanto scritto in Matteo, Giuseppe e Maria sembrano risiedere nella cittadina sin dall'inizio, per l'autore di Luca vi giungono solo per rispettare i dettami del censimento), per gli annunci dell'angelo (in Matteo appare a Giuseppe, in Luca a Maria), per le modalità e i tempi di trasferimento a Nazaret (per Matteo vi si trasferiscono dopo la fuga in Egitto perché a Betlemme regna il figlio di Erode, secondo Luca vi ritornano dopo.

Il terzo elemento, che a differenza degli altri due ha avuto una certa fortuna nella devozione e nella tradizione artistica successiva, riguarda la grotta che fu avvolta da "una nube luminosa".

la presentazione al tempio di Gesù, circa 40 giorni dopo la sua nascita). Inoltre, nessuna delle informazioni date nei due racconti della nascita di Gesù riappare chiaramente nel seguito dei vangeli, neanche negli stessi Matteo e Luca. Date queste premesse, vari studiosi ritengono che questi racconti vadano letti essenzialmente in senso teologico, senza ricercarne l'esattezza storica intesa dai positivisti europei.

Un'interpretazione psicoanalitica che risale a Otto Rank (Il mito della nascita dell'eroe, 1909) evidenzia come i principali elementi della nascita di Gesù siano riscontrabili anche in altre biografie mitologiche, in particolare l'origine semi-divina (v. p.es. Gilgameš, Eracle) e la persecuzione del neonato da parte di un'autorità (v. p.es. Sargon, Mosè, Romolo e Remo). Per Gesù come per gli altri eroi mitologici l'origine di questi elementi narrativi non sarebbe quindi da trovare in eventi storici ma nell'identificazione dell'io con l'eroe e nella proiezione su questo di elementi della propria storia personale (il desiderio di essere speciale o divino, il timore della persecuzione del padre).

Secondo l'interpretazione tradizionale, gli elementi contenuti nelle narrazioni evangeliche sono storicamente fondati. Le differenti versioni della natività tramandate in Luca e Matteo rispecchiano infatti due diverse esigenze catechistiche dei redattori. Le prime comunità cristiane cui era rivolto il testo di Matteo erano infatti composte da ebrei e per tale motivo l'autore non avrebbe citato alcuni

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dettagli (come il censimento) che per gli ebrei non erano importanti o addirittura visti come un ricordo dei dominatori romani.

I destinatari del Vangelo secondo Luca erano invece i Gentili, ragione per cui nel suo vangelo, ed in particolare nel racconto della natività, vi sono alcuni riferimenti all'"attualità" dell'epoca (il censimento decretato da Augusto) ben comprensibili da parte di una comunità alla quale, al contrario, sarebbero risultate totalmente oscure le citazioni dell'Antico Testamento che caratterizzano il testo di Matteo.

Esiste anche l'ipotesi che certi eventi siano stati narrati solo da uno dei due evangelisti perché l'altro non li conosceva; ad esempio, Luca non sarebbe stato a conoscenza della fuga in Egitto, mentre Matteo non avrebbe saputo che Giuseppe e Maria vivevano già a Nazaret prima della nascita di Gesù ed è questo il motivo per cui non avrebbe parlato del censimento e del viaggio da Nazaret a Betlemme.

Secondo l'interpretazione tradizionale, anche gli elementi storicamente più discussi, come "il suo astro" e la nascita durante il censimento di Quirinio, potrebbero essere fondati. Circa l' "astro" (tradizionalmente e impropriamente chiamato stella cometa) visto dai magi e interpretato come annuncio della nascita del "re dei Giudei", un'interpretazione che risale a Keplero lo identifica come una triplice congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei pesci avvenuta nel 7 a.C.

Anche la nascita durante il "primo" censimento di Quirinio non sarebbe in contrasto con la storicità della nascita "al tempo di Erode", in quanto non si tratterebbe del "secondo" censimento organizzato da Quirinio mentre era governatore della Siria nel 6 d.C., quando Erode il Grande era morto da 10 anni (4 a.C.). I tradizionali tentativi di armonizzazione hanno ipotizzato un precedente mandato di governatore durante il regno di Erode, al quale seguì un secondo mandato con un secondo censimento nel 6 d.C. Una diversa armonizzazione possibile vede Quirinio non come il governatore vero e proprio della Siria ma come il funzionario che gestì il suo primo censimento durante il governatorato di Gaio Senzio Saturnino, al tempo di re Erode, in occasione del censimento universale ("su tutta la terra") indetto da Augusto nell'8 a.C.

Per conciliare i due Vangeli sulle modalità e il tempo del ritorno a Nazaret, alcuni studiosi hanno ipotizzato che la visita dei Magi sia avvenuta non subito dopo la nascita di Gesù ma in un momento successivo, dopo la presentazione al tempio; al termine della cerimonia religiosa, la Sacra Famiglia sarebbe rientrata a Betlemme, dove sarebbe avvenuto l'evento.

La tradizione cristiana ha comunque conservato la memoria del luogo della nascita in un punto preciso sito all'interno della Basilica della Natività di Betlemme, costruita nel IV secolo.

Il giorno e l'anno di nascita di Gesù

La maggior parte dei biblisti colloca la nascita dopo il censimento di Augusto (8 a.C.) e prima della morte di Erode (4 a.C.), con una maggiore preferenza per il 7-6 a.C. Dalla inesatta datazione della natività di Dionigi il Piccolo, che la fissò nell'anno 753 dalla fondazione di Roma, decorre in occidente a partire dal VI secolo la datazione della cosiddetta "era cristiana".

I testi evangelici sembrano suggerire uno scarso interesse degli evangelisti per tramandare l'esatto giorno di nascita di Gesù, elemento estraneo agli obiettivi del loro testo. Tale ritrosia era condivisa dai primi cristiani, che tendevano a festeggiare il Battesimo di Gesù o l'Epifania (considerati "equivalenti" e collocati spesso nella stessa data, in quanto punti d'avvio della rivelazione della divinità di Gesù).

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Le prime notizie risalgono circa all'anno 200, ma sono rare, contraddittorie o di difficile interpretazione. Solo Ippolito di Roma assegnava sin d'allora la nascita al 25 dicembre.

La festa liturgica del Natale è piuttosto tarda e perciò la sua collocazione al 25 dicembre sarebbe dovuta, secondo la maggioranza degli storici, a considerazioni pratiche. L'innesto delle nuove credenze cristiane nel corpus del calendario e delle tradizioni popolari romane avrebbe fissato la commemorazione della natività di Cristo nelle antiche feste invernali dedicate a Saturno, i Saturnali, forse perché erano feste che segnavano la fine di un tempo, ed anche perché caratteristica dei Saturnalia era la temporanea abolizione delle differenze sociali e l'inversione dei ruoli tra schiavi e padroni.

Secondo alcuni studiosi la data del 25 dicembre potrebbe comunque almeno avvicinarsi a quella vera calcolata grazie al Calendario di Qumran e al ritrovamento del Libro dei Giubilei(II secolo a.C.) a Qumran uno studioso Israeliano Shemarjahu Talmon è stato in grado di ricostruire le turnazioni sacerdotali degli ebrei e applicarle al calendario gregoriano. L’evangelista Luca riferisce infatti che l’arcangelo Gabriele annunciò al Zaccaria la nascita del figlio Giovanni mentre stava svolgendo le sue funzioni sacerdotali davanti a Dio nel tempio, nel turno di Abia. Ora, questa classe, come tutte le altre, svolgeva il turno due volte l’anno. Una di queste due volte, secondo il nostro calendario solare, corrispondeva all’ultima decade di settembre. In questo modo risulterebbe quindi giustificata anche la data tradizionale di nascita del Battista (24 giugno), avvenuta nove mesi dopo l’annuncio di Gabriele al Zaccaria. Ma ne consegue che un fondamento storico ha anche la data dell’annunciazione a Maria, "sei mesi dopo" ("e questo mese è il sesto per lei"), quindi nel marzo dell’anno successivo. Questo fatto implicherebbe, secondo l’indagine di Nicola Bux, che "è storica anche la data del 25 dicembre, nove mesi dopo", per determinare la nascita di Gesù.

La data del 25 dicembre sarebbe però in contrasto con l'episodio dell'adorazione dei pastori del Vangelo secondo Luca, in cui si racconta che i pastori pernottavano nei campi vegliando di notte sul loro gregge; secondo alcuni autori, ciò avveniva nel periodo compreso tra la festa della Pasqua Ebraica e la festa delle capanne, cioè tra marzo e ottobre, ma non in inverno, perché ci sarebbe stato troppo freddo (oltretutto, Betlemme si trova ad un'altitudine di circa 800 metri sul livello del mare). Inoltre l'identificazione più probabile della stella di Betlemme, di cui parla il Vangelo secondo Matteo, è una tripla congiunzione tra Giove e Saturno, che nel 7 a.C. sarebbe avvenuta in maggio, ottobre e dicembre; confrontando la descrizione del Vangelo con il fenomeno astronomico, alcuni studiosi ritengono probabile che i Magi si siano messi in viaggio in maggio (all'inizio del fenomeno) e siano arrivati in ottobre, quindi Gesù sarebbe nato in settembre, data compatibile con il pernottamento all'aperto dei pastori.

La stella cometa dei Re Magi

"La stella, veduta dai Magi, secondo l'opinione più probabile, dedotta dalle sue caratteristiche, era una meteora straordinaria, formata da Dio espressamente per dare ai popoli il lieto annunzio della nascita del Salvatore"

Moltissimo si è scritto su questa stella. Diverse sono state le ipotesi che possono riassumersi a tre: una cometa, una 'stella nova', una sovrapposizione di satelliti.

Non si può neppure pensare ad una 'stella nova', bagliore prolungato emesso da corpi celesti invisibili al momento della loro esplosione. Infatti nell'area di Gerusalemme non ne comparve nessuna tra il 134 a.C. ed il 73 d.C.

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Oggi, gli studiosi che vogliono trovare una qualche plausibilità dei racconti evangelici, sembrano tutti  propendere per la terza ipotesi, già condivisa a suo tempo da Keplero: "Di tutte le spiegazioni possibili la più probabile rimane quella, in qualche modo accettabile sulle fonti, secondo cui si è trattato di un'insolita posizione di Giove, l'antica costellazione regale. L'astronomia antica si è occupata dettagliatamente della sua comparsa in un preciso punto dello zodiaco e l'ha identificata, sul grande sfondo di una religiosità mitologico-astrale molto diffusa, con la divinità più alta. Essa era importante soprattutto per gli avvenimenti della storia e del mondo, in quanto i movimenti di Saturno erano facilmente calcolabili. Saturno, il pianeta più lontano secondo gli antichi, era il simbolo del dio del tempo Crono e permetteva immediate deduzioni sul corso della storia. Una congiunzione di Giove e di Saturno in una precisa posizione dello zodiaco aveva certamente un significato tutto particolare. La ricerca più recente si lascia condurre dalla fondata convinzione che la triplice congiunzione Giove-Saturno dell'anno 6/7 a.C. ai confini dello zodiaco, al passaggio tra il segno dei Pesci e quello dell'Ariete, deve aver avuto un enorme valore. Essa risulta importante come una 'grande' congiunzione e, in vista della imminente era del messia (o anche età dell'oro), mise in allarme l'intero mondo antico".

 

Il Tevere, fin dalla sua nascita, è stato l'anima di Roma, e il fatto che la città gli debba la propria stessa esistenza è descritto già dalla prima scena della leggenda di fondazione, con Romolo e Remo nella cesta che, arenati sotto il ficus ruminalis, succhiano il colare zuccherino dei frutti in attesa di una vera poppata.

Sorgente-tevere-fumaiolo

Tutti gli insediamenti preromani il cui convergere diede luogo alla Roma storica "vedevano" il Tevere, ma dall'alto e non da vicino (si pensi ad Antemnae, ad esempio), per evidenti ragioni di difesa e perché il Tevere è sempre stato un fiume soggetto a piene improvvise.

Il punto in cui la pianura alluvionale era più sicuramente guadabile era l'Isola Tiberina, accanto alla quale (in quella zona che sarebbe poi divenuta il Foro romano a partire da un più modesto Foro boario) si localizzò in origine il punto di scambio tra le popolazioni etrusche che dominavano la riva destra (detta poi Ripa Veientana) e i villaggi del Latium vetus sulla riva sinistra (la Ripa Graeca).

L'Isola era, inoltre, il punto fin dove le navi antiche, di basso pescaggio, potevano risalire direttamente dal mare.

Poco a valle dell'Isola fu costruito (in legno, e tale rimase per diversi secoli) il primo ponte di Roma, il Ponte Sublicio. Per le popolazioni arcaiche erano così importanti, questo ponte e la sua

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manutenzione, che in relazione ad essi nacque il più antico e potente sacerdozio romano: il Pontifex.

Il fiume stesso era considerato una divinità, personificata nel Pater Tiberinus: la sua festa annuale (le Tiberinalia) veniva celebrata l'8 dicembre, anniversario della fondazione del tempio del dio sull'Isola Tiberina ed era un rito di purificazione e propiziatorio.

Porti e trasporti sul Tevere

Progredendo l'interramento del fiume, le navi non poterono più arrivare come in epoca classica fino all'emporio (sotto l'attuale rione di Testaccio), ma merci e passeggeri continuavano a giungere a Roma via fiume, col metodo dell'alaggio, cioè su chiatte o barconi che venivano rimorchiati dalla riva: la forza motrice per risalire il Tevere, che nei periodi di magra non offriva più di due metri e mezzo di pescaggio, era generalmente costituita da buoi ma anche, al bisogno, da uomini. Il sistema era ancora in uso a metà dell'Ottocento, quando i buoi vennero sostituiti da rimorchiatori a vapore, che trascinavano tre o quattro chiatte, come avveniva sulla Senna fino a non molti anni fa.

Il porto dell'Emporium era stato abbandonato già in epoca medioevale, e il nuovo attracco si consolidò sulla riva destra (che era detta "Ripa Romea": era in effetti molto più comodo, per i pellegrini, sbarcare sulla riva dove era posto il Vaticano). Questo approdo era detto, per antonomasia, Ripa. Modificando il percorso delle mura a porta Portese, il porto venne ricostruito nel 1642 un po' più a monte, all'interno della cinta daziaria, in corrispondenza dell'ospizio di San Michele, e divenne il porto di Ripa Grande, dedicato a merci e uomini in arrivo da Ostia.

Sulla riva sinistra, a monte di Castel Sant'Angelo, venne costruito nel 1704 il porto di Ripetta, dedicato soprattutto al traffico con il retroterra umbro. Ebbe sede qui l'idrometro storico del Tevere, installato nel 1821, e che aveva come zero idrometrico il settimo gradino della scalinata del

porto stesso.

Più a valle sulla riva destra, poco più giù di porta Santo Spirito c'era un altro porto. Era detto "porto dei travertini" perché era stato utilizzato per i marmi destinati alla costruzione della basilica di San Pietro. Fu poi fatto ricostruire all'inizio dell'Ottocento (1827) da Leone XII, come porto di servizio della città Leonina e da lui prese il nome. Il porto fu dotato in quell'occasione anche di una fontana che utilizzava il condotto dell'acqua lancisiana che era stato riattivato sotto Pio VII; il mascherone che l'adornava è quello che arricchisce oggi la fontana fuori dal giardino degli Aranci. Un secolo dopo, la costruzione dei muraglioni e l'abbandono del trasporto fluviale lo obliterarono completamente. Ne rimane la traccia nella doppia scala che scende alla banchina da piazza della Rovere, e nella lapide a memoria dei lavori, che è stata conservata.

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Sul Tevere navigavano imbarcazioni di tutti i tipi (anche a vela: per discendere il fiume da Orte ci volevano tre giorni). Oltre alle chiatte trainate da rimorchiatori, alle barchette dei pescatori, c'erano anche piccole barche per trasbordare le persone da una riva all'altra: non si dimentichi che fino alla caduta dello Stato Pontificio i ponti cittadini sul Tevere erano soltanto quattro: ponte Mollo, il ponte di Castello, ponte Sisto e i due ponti attraverso l'isola Tiberina, ponte Cestio e il ponte dei Quattro Capi.

Per via fluviale, circumnavigando l'Italia dal lago Maggiore al Ticino, al Po, all'Adriatico e infine risalendo il Tevere fino ai piedi della basilica con un viaggio di quattro anni, arrivarono dalle cave di Baveno e Montorfano le 150 colonne monolitiche di marmo bianco del nuovo portico della basilica di San Paolo fuori le mura.

L'ultimo grande trasporto via fiume, su una chiatta di cemento appositamente costruita, fu quello effettuato nel 1929, dei marmi provenienti dalle Alpi Apuane e destinati all'obelisco del Foro Italico, fin dove risalirono, appunto, via fiume.

Lo sviluppo del trasporto stradale e ferroviario, la costruzione nel tempo di ben 23 dighe di sbarramento lungo l'intero bacino e il progressivo interramento del basso corso del fiume hanno completamente annullato questo utilizzo (durato fin verso la metà dell'Ottocento), e ormai la navigazione fluviale si limita a fini sportivi (canottaggio) e turistici, con battelli che dalla fine degli anni novanta percorrono tratti del corso romano del fiume.

A causa delle soglie costruite all'altezza dell'isola Tiberina per regolare e armonizzare il flusso del fiume, la navigazione sul fiume è divisa in due tratte, una verso monte, dall'isola a ponte Risorgimento, l'altra verso il mare, da ponte Marconi a Ostia Antica.

Le "mole"

Un'altra presenza sul fiume, che datava dal medioevo e della quale ora non c'è più traccia, erano i molini ad acqua (a Roma detti "mole", anche nel linguaggio ufficiale della burocrazia annonaria), ancorati in gran parte, da ultimo, vicino all'Isola Tiberina.

La storia delle mole a Tevere iniziò quando Vitige, tagliando durante l'assedio del 537 l'acquedotto Traiano che forniva energia ai mulini installati sul Gianicolo, costrinse Belisario a cercare una nuova soluzione per l'approvvigionamento di farina dei romani assediati. La soluzione trovata fu quella di installare coppie di barche incatenate: ogni coppia era dotata, al centro, di una ruota che azionava le macine di pietra alloggiate sulle barche stesse. La prima coppia era incatenata alle rive del fiume presso il Ponte di Agrippa (l'attuale Ponte Sisto), le altre erano collegate alla prima. A monte di questo sistema di molini galleggianti furono installate palafitte di riparo, allo scopo di deviare i tronchi con i quali i Goti cercavano di travolgerlo.

Nei secoli successivi si continua ad avere notizie dei molini sul Tevere - anche se non se ne hanno rappresentazioni sulle mappe fino alla fine del Quattrocento - che appaiono però dislocati più a valle, verso l'Isola Tiberina.

La collocazione attorno all'Isola non fu però mai esclusiva: ci furono mole sull'ansa a monte di Ponte Sisto sia sulla riva sinistra (esiste ancora in fondo a via Giulia, una via delle Mole dei Fiorentini), che sulla riva destra sotto Santo Spirito in Sassia, all'altezza all'incirca del Ponte Neroniano.

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A un certo punto dell'alto medioevo (non si sa quando), i molini furono ancorati singolarmente alla riva, assumendo la struttura che conosciamo dalle rappresentazioni. L'impianto era costituito da un manufatto detto "torretto", sulla riva, a cui era legata, con catene di ferro, la mola; un arco in muratura che poggiava da una parte sulla riva e dall'altra nel fiume; a questo si appoggiava una passerella di legno, che collegava il sistema alla terra, consentiva di movimentare (a dorso d'asino) i carichi di cereali e di grano, e ammortizzava le variazioni di altezza del fiume; la passerella portava all'imbarcazione più ampia, coperta e sormontata da una croce, nella quale era alloggiata la macina e avveniva la lavorazione; la ruota, orizzontale, installata per traverso alla corrente, che trasmetteva il proprio movimento alla macina; un'altra imbarcazione più piccola (detta "barchetto"), che supportava l'asse della ruota verso il centro del fiume.

Alluvioni

Colonna_incisioni_piene_Tevere

I muraglioni di contenimento dei Lungotevere (ma non accade diversamente a Parigi e a Firenze, solo che qui sono più orrendi ed hanno cancellato gran parte della bellezza della Città Eterna e furono costruiti attraverso grandi “tangenti” nelle quali fu coinvolto, pare, anche Garibaldi!), rendono oggi difficile immaginare quanto "fluviale" potesse essere la città antica e quanto lo fosse ancora un secolo fa. Ma questa connessione con il fiume, che certo era una risorsa economica notevole, era anche - da sempre - ad alto rischio.

Già Livio attesta che le piene del Tevere, spesso disastrose (come quelle del 215 a.C.), erano ritenute dal popolo romano annunciatrici di eventi importanti o punizione degli dei irati, e certo comportavano - oltre che distruzioni - epidemie causate dal ristagno delle acque. Ancora nel XIX secolo il fatto che l'arrivo dei Piemontesi a Roma fosse stato salutato da una disastrosa inondazione, il 28 dicembre 1870, confermò il popolo romano nella sua opinione antica e mai abbandonata.

Le grandi piene (mediamente almeno 3 o 4 per secolo) sono sempre arrivate a Roma dalla via Flaminia: a valle dell'ultima confluenza con l'Aniene il fiume, libero fin lì di distendersi su territori pianeggianti e praticamente golenali, incontrava costruzioni e ponti che lo ostacolavano (ripetutamente il Ponte Sublicio era stato trascinato via dalle alluvioni) e si incanalava rovinoso per vie e piazze.

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Cesare immaginò di raddrizzare i meandri urbani del fiume deviandolo attorno al Gianicolo (cioè facendogli evitare Trastevere e la pianura dei Fori) e canalizzandolo attraverso le Paludi Pontine in direzione del Circeo. Augusto, di temperamento più realista e "amministrativo", dopo aver nominato una commissione di 700 esperti si limitò a disporre la pulizia dell'alveo fluviale e ad istituire una magistratura apposita, i Curatores alvei et riparum Tiberis. Gli esperti di Tiberio suggerirono di deviare le acque del Chiani verso l'Arno, ma per l'opposizione dei fiorentini non se ne fece nulla (il progetto fu riesumato - e ugualmente abbandonato - nel 1870). A Traiano si deve il completamento del canale di Fiumicino (la cosiddetta Fossa Traiana) iniziato da Claudio, funzionale alla navigabilità del fiume, ma anche a migliorare il deflusso delle acque verso il mare.

Il drizzagno del Tevere

Incessantemente Roma nei secoli venne allagata dalle piene del Tevere, un vero flagello per l'Urbe. Ancora sui vecchi muri del centro storico vi sono lapidi che ricordano il livello delle acque raggiunto da quelle alluvioni. L'ultima grande alluvione avvenne nel dicembre 1937 allorché il governo fascista decise di ampliare notevolmente il progetto già in attuazione dal 1936 da parte del Ministero dei Lavori Pubblici e quello dell'Aeronautica, ora con i cantieri allagati. Questo progetto prevedeva, tra l'altro, di accorciare il corso del Tevere per aumentare il deflusso delle acque verso il mare. Ciò era possibile tagliando un'ansa del fiume di circa 8 km che si trovava in località Spinaceto, a valle di Roma, realizzando il drizzagno del Tevere. I lavori ripartirono su vasta scala dal 1938, scavando un nuovo alveo rettilineo di oltre 1 km di lunghezza insieme a colossali lavori di sbancamento che portarono i nuovi argini del Tevere a ben 400 metri di larghezza, creando un alveo capace di contenere anche le piene più copiose. Il 12 agosto del 1940 l'allora capo del governo Mussolini inaugurò il drizzagno facendo esplodere gli ultimi diaframmi e deviando le acque nel nuovo alveo artificiale. Già dall'inverno del 1940 questo invaso, assieme al nuovo drizzagno, scongiurarono il pericolo di altre grandi alluvioni, alluvioni che da allora, a Roma, non si verificarono più per straripamento del Tevere.

  . Durante questa piena crollarono tre arcate di ponte Senatorio che non fu più ricostruito e quindi ribattezzato dai Romani "ponte Rotto". L'acqua giunse fino a piazza di Pasquino, entrando nelle abitazioni lì presenti fino al piano terra. Una seconda ondata arrivò il 10 gennaio 1599. Su un totale di 55.000 abitanti i morti furono da 1.400 a 4.000.

La stazione di San Benedetto Sambro-Castiglione de' Pepoli è una stazione ferroviaria posta sulla linea Bologna–Firenze, all’imbocco della Direttissima, la galleria ferroviaria più lunga d’Italia. La stazione è stata aperta assieme alla Direttissima Bologna-Firenze nel 1934.

Durante gli anni di piombo, lo scalo fu "teatro" di due attentati terroristici. Il 4 agosto 1974 una bomba esplose sull'Espresso Italicus proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera provocando la morte di dodici persone e ferendone quarantaquattro.

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Dieci anni dopo, il 23 dicembre 1984 un altro ordigno esplose sul rapido 904 Napoli-Milano, mentre passava sotto la Grande Galleria dell'Appennino. Il bilancio di questa tragedia fu di 17 morti e 267 feriti.

La strage del Rapido 904 o strage di Natale è il nome attribuito a un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 presso la Grande galleria dell'Appennino ai danni del treno rapido n. 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano.

L'attentato è avvenuto nei pressi del punto in cui, poco più di dieci anni prima, era avvenuta la strage dell'Italicus. Per le modalità organizzative ed esecutive, e per i personaggi coinvolti, è stato indicato dalla Commissione Stragi come l'inizio dell'epoca della guerra di mafia dei primi anni novanta del XX secolo.

L'attentato venne compiuto domenica 23 dicembre 1984, nel fine settimana precedente le feste natalizie. Il treno era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività.

Il treno intorno alle 19.08 fu colpito da un'esplosione violentissima mentre percorreva la Direttissima in direzione nord, a circa 8 chilometri all'interno del tunnel della Grande Galleria dell'Appennino (18 km), in località Vernio, dove la ferrovia procede diritta e la velocità supera i 150 km/h. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di II classe, a centro convoglio: l'ordigno era stato collocato sul treno durante la sosta alla stazione di Firenze Santa Maria Novella.

Al contrario del caso dell'Italicus, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, per massimizzare l'effetto della detonazione: lo scoppio, avvenuto a quasi metà della galleria, provocò un violento spostamento d'aria che frantumò tutti i finestrini e le porte. L'esplosione causò 15 morti e 267 feriti. In seguito, i morti sarebbero saliti a 17 per le conseguenze dei traumi.

Venne predisposta una perizia chimico-balistica da parte della Procura della Repubblica di Bologna, per capire le dinamiche dell'esplosione e il materiale utilizzato. Emerse che un testimone aveva visto una persona sistemare due borsoni in quel punto presso la stazione di Firenze, per cui l'inchiesta fu trasmessa alla Procura della Repubblica di Firenze.

Nel marzo 1985 vennero arrestati a Roma, per altri reati (tra cui traffico di stupefacenti), Guido Cercola e il pregiudicato Giuseppe Calò, noto mafioso palermitano più comunemente conosciuto come Pippo Calò. L'11 maggio 1985 venne identificato il covo dei due arrestati, in un edificio rustico presso Poggio San Lorenzo di Rieti: nella perquisizione vennero rinvenuti alcuni chili di eroina e un apparato ricetrasmittente, delle batterie, alcuni apparecchi radio, antenne, cavi, armi ed esplosivi[3]. Le perizie condotte prima a Roma e poi a Firenze dimostrarono come quel tipo di materiale fosse compatibile con quello usato nell'attentato al treno: anche l'esplosivo era del medesimo tipo, con la stessa composizione chimica.

Il 9 gennaio 1986 il Pubblico Ministero Pierluigi Vigna imputa formalmente la strage a Calò e a Cercola, che l'avrebbero compiuta:

« ...con lo scopo pratico di distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l'immagine del terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato »

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Emersero dei rapporti tra Cercola e un tedesco, Friedrich Schaudinn, che sarebbe stato incaricato di produrre alcuni dispositivi elettronici da usarsi per attentati. Questi vennero trovati in casa di Pippo Calò.

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Vennero a galla diverse linee di collegamento tra Calò, mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino con la Banda della Magliana: questi rapporti vennero chiariti da diversi personaggi vicini a questi ambienti, tra cui Cristiano e Valerio Fioravanti, Massimo Carminati e Walter Sordi. Le deposizioni che spiegavano i legami tra questi tre ambienti della criminalità emersero al maxiprocesso dell'8 novembre 1985, di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone.

La Corte di Assise di Firenze, il 25 febbraio 1989, condannò alla pena dell'ergastolo Pippo Calò, Cercola e altri imputati legati ai due (Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, boss della Camorra detto Il Boss del Rione Sanità), con l'accusa di strage. Inoltre, condannò a 28 anni di detenzione Franco Di Agostino e a 25 anni Schaudinn; condannò inoltre altri imputati nel processo per il reato di banda armata.

Il secondo grado venne celebrato dalla Corte di Assise di Appello di Firenze, presieduta dal giudice Giulio Catelani, con sentenza emessa il 15 marzo 1990. Le condanne all'ergastolo per Calò e Cercola furono confermate, e anche la pena di Di Agostino fu riformata in ergastolo. Misso, Pirozzi e Galeota vennero invece assolti per il reato di strage, ma condannati per detenzione illecita di esplosivo. Il tedesco Schaudinn venne invece assolto dal reato di banda armata, ma fu confermata la sua condanna per strage; la sua pena fu ridotta a 22 anni.

Il 5 marzo 1991 la 1ª sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, annullò la sentenza di appello. Il sostituto Procuratore generale Antonino Scopelliti era contrario e mise in guardia i giudici dal far prevalere l'impunità del crimine. La Suprema Corte di Cassazione annullò con rinvio la sentenza d'appello, disponendo quindi un nuovo giudizio dinnanzi ad altra sezione della Corte d'Assise d'Appello di Firenze. Quest'ultima il 14 marzo 1992 confermò gli ergastoli per Calò e Cercola, condannò Di Agostino a 24 anni e Schaudinn a 22. Misso si vide la condanna ridotta a tre soli anni per detenzione di esplosivo, mentre le condanne di Galeota e Pirozzi furono ridotte a un anno e sei mesi; tutti e tre furono assolti dai reati di strage.

Quello stesso giorno Galeota e Pirozzi, insieme alla moglie Rita Casolaro ed alla moglie di Giuseppe Misso, Assunta Sarno, stavano ritornando a Napoli quando, durante il viaggio, incorsero in un agguato: la loro auto (una Ford Fiesta XR2) fu speronata e mandata fuori strada da alcuni killer della camorra che li seguivano sull'autostrada A1, all'altezza del casello di Afragola/Acerra, alle porte di Napoli. Le armi da fuoco dei killer lasciarono sul terreno i corpi di Galeota e della

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Sarno, quest'ultima addirittura con un colpo di pistola in bocca. Soltanto Giulio Pirozzi e sua moglie riuscirono miracolosamente a uscire vivi da quella che fu una vera e propria mattanza di camorra, anche grazie al sopraggiungere di un’auto della polizia stradale dal senso inverso di marcia, che impedì ai killer di completare il lavoro. Pirozzi, benché ferito gravemente, si salvò anche perché si finse morto nel corso della sparatoria. L'auto usata dagli assassini, una Lancia Delta HF, fu poi abbandonata nei pressi dell'aeroporto di Capodichino e data alle fiamme.

La 5ª sezione penale della Cassazione il 24 novembre 1992 confermò la sentenza, riconoscendo la "matrice terroristico-mafiosa" dell'attentato.

Il 18 febbraio 1994 la Corte di Assise di Appello di Firenze concluse il giudizio anche per il parlamentare dell'MSI Massimo Abbatangelo, la cui posizione era stata stralciata dal processo principale. Abbatangelo fu assolto dal reato di strage, ma venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato dell'esplosivo a Giuseppe Misso, nella primavera del 1984. Le famiglie delle vittime fecero ricorso in Cassazione contro quest'ultima sentenza, ma persero e dovettero rifondere le spese processuali.

Guido Cercola si suicidò in carcere a Sulmona il 3 gennaio 2005, soffocandosi con dei lacci di scarpe. Rinvenuto agonizzante in cella, morì durante il trasporto in ospedale.

Il 27 aprile 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss mafioso Totò Riina per la strage, precisando che Riina è considerato il mandante della strage. Il 25 novembre 2014, si apre a Firenze il processo a Totò Riina. Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia napoletana l'attentato si inserì in un disegno strategico di Riina per far apparire l'attentato come un fatto politico e come risposta al maxi processo a Cosa Nostra.

Il 14 aprile 2015 Totò Riina fu assolto per mancanza di prove.

Alfred Dreyfus (Mulhouse, 9 ottobre 1859 – Parigi, 12 luglio 1935) è stato un militare francese.

Capitano dello Stato Maggiore, ebreo, il 22 dicembre 1894 fu condannato da un tribunale militare con l'accusa, poi rivelatasi falsa, di alto tradimento.

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La degradazione di Dreyfus, all'École militaire di Parigi.

 

Nel 1871 la Francia era reduce dalla sconfitta subita nella guerra Franco-Prussiana, ed i rapporti interni erano ancora tesi. Nonostante il processo si basasse su documenti palesemente falsi, Dreyfus fu condannato quale estensore di una lettera indirizzata a un ufficiale tedesco in cui venivano rivelate importanti informazioni militari francesi. Nonostante l'esplodere del caso, Dreyfus non fu interamente riabilitato prima del luglio 1906, grazie a un verdetto della Corte di Cassazione.

A causa di un indebolimento fisico causato dalla prigionia, venne congedato dall'esercito nell'ottobre 1907 e posto nella riserva. Ritornò nell'esercito allo scoppio della Grande Guerra col grado di maggiore dell'artiglieria, perlopiù nelle retrovie, ma partecipando anche a combattimenti a Verdun ed al Chemin des Dames, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Nel novembre 1918 acquisì il grado di ufficiale della Legion d'onore.

Morì a Parigi e fu sepolto nel Cimitero di Montparnasse. L'iscrizione sulla sua tomba (Qui giace il tenente colonnello Alfred Dreyfus, ufficiale della Legion d'onore) è in francese e in ebraico.

Durante il processo ed ancor più durante la prigionia di Dreyfus sull'Isola del Diavolo, nella Guiana Francese, in Francia (ma ripercussioni ci furono in tiutta Europa) il caso giudiziario divenne motivo di divisione nel Paese; l'opinione pubblica si divise in due schieramenti: i dreyfusards e gli antidreyfusards. I primi, intellettuali, politici e tutti coloro che consideravano l'affaire un eclatante caso di antisemitismo, di razzismo e di nazionalismo cieco; i secondi erano, al contrario, nazionalisti, antisemiti e militari.

Un ruolo importante nella formazione dell'opinione pubblica fu svolto dalla stampa: in particolare dal giornale L'Aurore, che pubblicò un articolo dello scrittore Émile Zola; si trattava di una lettera aperta al presidente della Repubblica francese Félix Faure, suggestivamente intitolata J'accuse: una denuncia dell'arbitrio giudiziario e della manipolazione dell'informazione.

Anche in Italia il caso ebbe molto seguito, anche per il possibile coinvolgimento dell'addetto militare italiano presso l'ambasciata in Francia, Alessandro Panizzardi, circostanza che avrebbe rischiato di compromettere i tentativi di miglioramento dei rapporti tra Italia e Francia dopo la

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guerra doganale e l'adesione italiana alla Triplice alleanza. Inoltre, il caso Dreyfus fu seguito con passione dal segretario di legazione dell'ambasciata italiana a Parigi, Raniero Paolucci di Calboli, che, convinto dell'innocenza di Dreyfus, raccolse una vasta quantità di materiale, costituendo un fondo considerato "unico nel suo genere", oggi conservato presso la Biblioteca civica di Forlì.

L'Imperatrice Eugenia (consorte del defunto Napoleone III) era una "pro-Dreyfus". Lo difese infatti dallo storico Gustave Schlumberger, il quale era convinto della colpevolezza di Dreyfus ed interrompeva chiunque parlasse a favore dell'ufficiale ebreo: tuttavia egli ascoltò, senza interrompere, il discorso che l'Imperatrice tenne a favore dell'ufficiale all'Hotel Continental, a Parigi.

Marie Skłodowska, meglio nota come Marie Curie o ancora: Madam Curie (Varsavia, 7 novembre 1867 – Passy, 4 luglio 1934), è stata una chimica e fisica polacca e in seguito francese.

Nel 1903 fu insignita del premio Nobel per la fisica (assieme al marito Pierre Curie e ad Antoine Henri Becquerel) per i loro studi sulle radiazioni e, nel 1911, del premio Nobel per la chimica per la sua scoperta del radio e del polonio.

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Marie_Curie

Negli ultimi anni della sua vita fu colpita da una grave forma di anemia aplastica, malattia quasi certamente contratta a causa delle lunghe esposizioni alle radiazioni di cui, all'epoca, si ignorava la pericolosità. Morì nel sanatorio di Sancellemoz di Passy in Alta Savoia, nel 1934. Ancora oggi tutti i suoi appunti di laboratorio successivi al 1890, persino i suoi ricettari di cucina, sono considerati pericolosi a causa del loro contatto con sostanze radioattive. Sono conservati in apposite scatole piombate e chiunque voglia consultarli deve indossare abiti di protezione.

Marie Curie dedicò la sua vita all'isolamento e alla concentrazione del radio e del polonio, presenti in piccolissime quantità nella pechblenda, un minerale radioattivo e una delle principali fonti naturali di uranio. I coniugi Curie notarono che alcuni campioni erano più radioattivi di quanto lo sarebbero stati se costituiti di uranio puro; ciò implicava che nella pechblenda fossero presenti altri elementi. Decisero così di esaminare tonnellate di pechblenda riuscendo così, nel luglio del 1898, ad isolare una piccola quantità di un nuovo elemento dalle caratteristiche simili al tellurio e 330 volte più radioattivo dell'uranio che fu chiamato polonio in onore del paese della scienziata. Il resoconto di tale lavoro, unitamente a quello immediatamente successivo che portò alla scoperta del radio, divenne la tesi di dottorato di Maria Skłodowska.

Il polonio però ha un'attività eccessiva, una vita troppo breve perché ne sia possibile l'estrazione su scala industriale; per questo il radio eclisserà ben presto la sua gloria. Ma il polonio ha una particolarità che gli darà occasione di rivincita trentaquattro anni dopo. Emette un solo raggio: il raggio alfa ad alta energia, mentre il radio ne emette molti. Nel 1932, servendosi di una sorgente di polonio, James Chadwick scoprirà una delle tre particelle elementari dell'atomo, che cercava da dieci anni: il neutrone.

Maria ha avuto forse troppa fretta nel battezzare il nuovo elemento, infatti, hanno appena avuto la certezza della sua esistenza, che nuovi esperimenti portano a concludere i coniugi Curie che la pechblenda debba contenere un altro nuovo elemento.

« Vorrei che avesse un bel colore »  afferma Pierre.

I sali di radio puri sono incolori, ma le loro radiazioni colorano le provette di vetro che li contengono con una tinta azzurro-malva. In quantità sufficiente, le radiazioni provocano un chiarore visibile al buio. Quando questo chiarore cominciò a irradiarsi nell'oscurità del laboratorio, Pierre fu felice: ignorava gli effetti nocivi che queste radiazioni hanno sull'organismo umano!

Il radio si trova, come l'uranio, nella pechblenda, ma in quantità infinitesimale. Per ottenere alcuni milligrammi di radio, abbastanza puro da poter stabilire il suo peso atomico, è necessario trattare tonnellate di pechblenda. Maria lavora instancabilmente nel suo capannone/laboratorio; attinge da un sacco una ventina di chili di pechblenda per volta che versa in una bacinella di ghisa. Poi, mette la bacinella sul fuoco, scioglie, filtra, precipita, raccoglie, discioglie ancora, ottiene una soluzione, la travasa, la misura. E ricomincia. L'operazione di purificazione richiede l'utilizzazione di solfuro di idrogeno. È un gas tossico e nella rimessa non c'è cappa di aerazione. Inoltre se un granello di polvere o una particella di carbone cadessero in uno dei recipienti dove le soluzioni purificate cristallizzano, sarebbero giorni di lavoro perduti. Maria si dedica con accanimento a separare il radio dal bario con il metodo della cristallizzazione frazionata che ha ideato e messo a punto.

Il 28 marzo 1902 Maria annota sul suo quaderno nero:

RA = 225,93. Peso di un atomo di radio.

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È la fine di un'avventura senza altri precedenti noti nella storia della scienza.

Nei salotti parigini non si parla d'altro che del radio. L'Accademia delle scienze apre ai Curie un credito di 20.000 franchi per "l'estrazione delle materie radioattive". Ne nascerà una terapeutica, un'industria e una leggenda.

La vita è meravigliosa debutta al cinema: La magia del Natale, con le sembianze di un "angelo di seconda classe" (perché sprovvisto di ali) sottrae George Bailey, alias James Stewart, all'estremo gesto del suicidio, facendogli riscoprire la vera bellezza dell'esistenza.

Di qui il titolo di It's a Wonderful Life ("La vita è meravigliosa"), film tra i grandi classici del periodo natalizio, che venne proiettato per la prima volta nelle sale americane, il 20 dicembre del 1946.

Ispirata al racconto "The Greatest Gift" di Philip Van Doren Stern e diretta da Frank Capra (quattro volte premio Oscar, grazie a capolavori come "Accadde una notte"), la pellicola venne premiata con cinque candidature agli Oscar, riuscendo a conquistare il Golden Globe per la "migliore regia".

 

Riprese

Con un budget iniziale di 1.700.000 dollari, in seguito diventati tre milioni nel corso della produzione, le riprese si svolsero dal 15 aprile al 27 luglio 1946.

La maggior parte delle scene del film furono girate al RKO Ranch di Encino, a Los Angeles, dove parte dell'ambientazione era già stata usata per il film del 1931 I pionieri del West. In tale ranch vennero costruiti i set della fittizia Bedford Falls, considerati un capolavoro ingegneristico. Tali set, assemblati in due mesi e considerati tra i più grandi mai utilizzati fino a quel tempo, occupavano oltre 16 chilometri quadrati di superficie; includevano 75 edifici, un viale alberato con venti querce adulte, un distretto industriale, zone residenziali e una via principale lunga quasi 300 metri. Piccioni, gatti e cani venivano fatti circolare liberamente per dare un tocco di vivacità. Altri luoghi delle riprese furono l'RKO Studio di Culver City e la Beverly Hills High School, la quale comprende la piscina coperta che si vede nel film, allora di recente costruzione. Quest'ultima, insieme al locale adibito per creare la dimora del signor Martini, sarebbero state le uniche parti dei set originali ancora esistenti cinquanta anni dopo. Anche se in buona parte ambientato in periodo natalizio, le riprese furono accompagnate da un'ondata di caldo estiva, con temperature quasi sempre superiori ai 30 °C, che costrinse il regista a concedere al cast un giorno di riposo non programmato per riprendersi dalla spossatezza.

 

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Effetti speciali

Alcuni articoli di giornale riportarono che dopo due settimane dall'inizio delle riprese, per riprodurre gli effetti della tempesta di neve più grande mai riprodotta in un film, erano già state utilizzate trecento tonnellate di roccia calcarea e cinquanta tonnellate di intonaco bianco. Curatore degli effetti speciali fu Russell Shearman, il quale usò un innovativo tipo di neve chimica per poter permettere agli attori di parlare durante le riprese. Precedentemente infatti, la neve era prodotta utilizzando fiocchi di granturco schiacciati, che non permettevano agli attori di parlare, richiedendo quindi una successiva fase di doppiaggio. Usando tecnologie moderne, Sherman mischiò della foamite, materiale utilizzato nella composizione di alcune polveri per estintori, con acqua e zucchero, creando una soluzione la quale sarebbe poi stata pompata ad alta pressione attraverso la macchina usata per riprodurre il vento; per ricoprire l'intero set ne fu utilizzata una quantità di oltre 22.000 litri. Il risultato fu l'effetto di una nevicata molto più realistico di quanto visto nei film del passato, che valse ai laboratori della RKO il riconoscimento di un premio tecnico da parte della Motion Picture Academy.

Ad ogni Natale il film viene invariabilmente riproposto! Il vero effetto speciale è convincersi, specie nel mondo attuale, chela vita è davvero meravigliosa! O perlomeno: è bella! Come parodiò Benigni!

Sulla scelta del nome esistono versioni discordanti, sebbene tutti concordino nell'associarlo all'omonima stella della costellazione dell'Aquila.

Tutte si rifanno a nomi di “archeologia industriale informatica”, se così si può chiamare quello che avvenne appena ieri, e cioè all’inizio degli anni ’70, quando l’uomo cominciò ad implementare le macchine di calcolo, a renderle così piccole e potenti da commercializzarle a livello di massa, iniziando al Rivoluzione Informatica!

Una di queste versioni, quasi mitica come le storie che i Greci narrarono e misero inpoesia per narrare leloro conquiste, vorrebbe che Ed Roberts, il proprietario della Micro Instrumentation & Telemetry Systems, Inc., fece scegliere il nome del computer a sua figlia la quale si ispirò ad un episodio di Star Trek visto quella sera, dove era citata proprio la stella Altair!

Comunque sia, il MITS Altair 8800 è stato uno tra i primi microcomputer disponibili sul mercato. È stato sviluppato e commercializzato dalla Micro Instrumentation & Telemetry Systems, Inc., azienda con sede ad Albuquerque (Nuovo Messico, USA).

Nel 1975 il numero di gennaio della rivista Popular Electronics diede inizio all'era dell'informatica per tutti, presentando in copertina l'Altair 8800. Prima di allora il termine "computer" era sinonimo di macchine grandi e costose che potevano permettersi solo le aziende.

Il costo del computer in kit era di 397 dollari mentre la versione assemblata costava 495 dollari. I progettisti del computer non si aspettavano il successo che avrebbe avuto, pensando di poter vendere poche centinaia di esemplari.

 

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Caratteristiche tecniche

L'hardware

L'Altair 8800 era basato su un microprocessore Intel 8080, con 256 Byte di RAM, e dotato di un'interfaccia basata su interruttori. Agendo su di essi si poteva programmare in codice binario, mentre il risultato delle elaborazioni viene visualizzato tramite il lampeggio dei LED posti sul pannello frontale.

Il Bus S-100

Poiché diverse parti elettroniche non erano ancora disponibili al momento della progettazione, e per risolvere i problemi di dimensione della scheda madre, fu necessario inventare un apposito connettore, oggi noto come bus: questa nuova struttura di trasferimento dati divenne in seguito uno standard, chiamato S-100. Con questo accorgimento fu possibile spostare parte della logica dalla scheda madre su altre schede, con cui comunicava tramite il bus.

Il software

Bill Gates e Paul Allen decisero di scrivere un linguaggio di programmazione da far funzionare nell'Altair. Il risultato fu una versione semplificata del BASIC chiamata Altair BASIC. Il successo di questa prima versione fu tale che i due si trasferirono ad Albuquerque e fondarono la Micro Soft (in seguito diventata Microsoft), che nei primi anni di attività adattò questo linguaggio, ora noto come Microsoft BASIC, a moltissimi microcomputer dell'epoca.

L'interfaccia utente

Il pannello frontale conteneva 36 LED:

16 per il bus degli indirizzi

8 per i dati

8 per lo stato

I quattro LED rimanenti erano usati per visualizzare lo stato della CPU.

Inoltre c'erano una serie di interruttori, per inserire gli indirizzi e i dati, oltre a un insieme di interruttori per il controllo del sistema.

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L'abolizionismo è un movimento politico, determinato anche da motivazioni d'ordine economico legate alla prima rivoluzione industriale, e un'istanza morale, basata su considerazioni umanitarie che emergono nella cultura illuministica o cristiana, per l'abolizione del commercio degli schiavi e la soppressione della schiavitù che nasce e si sviluppa in Europa e in America tra la fine del XVIII e il XIX secolo.

Il termine viene genericamente usato anche in riferimento a quelle correnti di pensiero o movimenti politici e sociali che si battono per l'abolizione di leggi, costumi o consuetudini ritenute non più adeguate ai tempi e ingiuste. In particolare si parla di abolizionismo anche nel caso del movimento che negli anni trenta negli Stati Uniti sosteneva la necessità di porre fine a quelle leggi che proibivano l'uso di bevande alcoliche (proibizionismo).

 

Il mercato degli schiavi (Gustave Boulanger).

Nel mondo antico, che definiva giuridicamente lo schiavo neppure un animale ma un "istrumentum vocale", un utensile provvisto di voce, la volontà di trattare umanamente gli schiavi o addirittura di abolire la schiavitù era presente in filosofi come Seneca che riteneva essere la schiavitù una istituzione priva di ogni base giuridica, naturale e razionale. Per questo, diceva, gli schiavi vanno trattati come tutti gli altri esseri umani («servi sunt, immo homines» sono servi anzi uomini) e così per le differenze sociali: "Che significa cavaliere, liberto, schiavo. Sono parole nate dall'ingiustizia." (Epistole, 31). Ma in fondo, aggiungeva, la vera schiavitù è quella che assoggetta gli uomini alle passioni e ai vizi. Tutti noi siamo schiavi spiritualmente e solo la filosofia può liberarci. Quindi vi è nel mondo un'ingiustizia di fondo verso cui è inutile ribellarsi.

Il supremo valore dell'uguaglianza di tutti gli uomini per cui lo schiavo è pari al suo padrone venne proclamato dal Cristianesimo, ma nella pratica il principio religioso venne a scontrarsi con le strutture sociali che da secoli codificavano la schiavitù, su cui si basava l'intero sistema economico, e dové necessariamente adattarsi al compromesso per cui gli schiavi rimasero tali di fatto e di diritto.

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Del resto tutte le storture della società erano la conseguenza del peccato originale. Scriveva l'abate Smaragdo di Saint-Mihiel sotto Ludovico il Pio «Non è la natura che ha fatto gli schiavi è la colpa» e allo stesso modo nel VI secolo Isidoro di Siviglia: «La schiavitù è un castigo inflitto all'umanità dal peccato del primo uomo», e

« Poiché la vita presente non è che un luogo di passaggio transitorio e cattivo per definizione , poiché il grande problema di quaggiù è di prepararsi alla Vita Eterna, intraprendere una riforma da capo a fondo dell'ordine sociale stabilito nella speranza di portare il trionfo di una felicità di per sé impossibile, non potrebbe essere che un'opera vana; assai di più uno sperpero sacrilego di forze che dovevano essere riservate per un compito più urgente e più alto... »

La Chiesa stessa quindi, diventata un'istituzione, possedeva un gran numero di schiavi e se qualcuno, in aderenza alla parola evangelica, voleva mettere in pratica il principio cristiano dell'eguaglianza in Cristo di tutti gli uomini, questi andava severamente condannato. Nel concilio di Granges (324) si affermava: «Se qualcuno sotto il pretesto della pietà, spinge lo schiavo a disprezzare il suo padrone, a sottrarsi alla schiavitù, a non servire con buona volontà e rispetto, che egli sia scomunicato». Un problema particolare si poneva poi alla Chiesa riguardo alla possibilità degli schiavi di essere consacrati al sacerdozio: cosa da tutti ritenuta impossibile poiché un uomo come lo schiavo sottoposto secondo la legge al potere assoluto di un padrone non avrebbe avuto l'indipendenza e la libertà necessaria a chi dispensava i sacramenti.

 

Le tappe dell'abolizione nel mondo

Non a caso l'abolizionismo, come movimento politico comincia a tradursi in concreti atti di legge a cominciare dal 1700 contemporaneamente alla diffusione delle idee illuministiche di libertà e uguaglianza di tutti gli uomini.

Francia

L'abolizione della schiavitù

In Francia, la voce "Tratta dei negri" dell'Encyclopédie redatto da Louis de Jaucourt nel 1776 condanna la schiavitù e il commercio degli schiavi che «viola la religione, la morale, le leggi naturali, e tutti i diritti naturali dell'uomo». Jacques Pierre Brissot fonda la Società degli amici dei Neri nel 1788; ma, malgrado gli sforzi dei suoi importanti membri, l'abate Henri Grégoire, Condorcet, non riesce ad ottenere l'abolizione dello schiavismo dall'Assemblea costituente. Solo il 4 febbraio del 1794 la Convenzione nazionale abolisce la schiavitù convalidando e estendendo la decisione unilaterale del commissario civile di San Domingo presa con il decreto d'abolizione della schiavitù del 29 agosto 1793.

In questo modo la Convenzione si proponeva di conseguire due risultati: sedare la rivolta degli schiavi in San Domingo e contrastare le minacce che venivano dai sostenitori della monarchia e una possibile invasione inglese. E in realtà il decreto abolizionista non fu applicato in tutte le colonie francesi. Sarà Napoleone Bonaparte a ristabilire con la legge del 30 floreale dell'anno decimo (20 maggio 1802) lo schiavismo nei territori d'oltremare. L'imperatore cedeva alle richieste della famiglia di sua moglie Giuseppina di Beauharnais che discendeva dai primi coloni di San Domingo e alle insistenze dei coloni bianchi che sostenevano di non poter più assicurare la loro sopravvivenza e quella delle loro piantagioni se non utilizzando una manodopera servile. Sempre in età napoleonica furono proibiti i matrimoni misti.

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La necessità di dare ai francesi una costituzione di tipo liberale e un clima di pacificazione spinse Napoleone, dopo il ritorno in Francia dall'isola d'Elba, a decretare l'abolizione immediata della schiavitù che nel 1802 aveva causato una vera guerra d'indipendenza a San Domingo con protagonista il celebre Toussaint Louverture. Il decreto abolizionistico napoleonico sarà confermato dal Congresso di Vienna con il Trattato di Parigi del 20 novembre 1815 ma in realtà non fu mai applicato durante l'età della Restaurazione. Tant'è che ancora nel 1834 nasceva la "Società francese per l'abolizione della schiavitù" presieduta da Victor de Broglie. Victor Schoelcher, sottosegretario per la Marina e per le colonie, durante il governo provvisorio seguito in Francia alla Rivoluzione del 1848 fece adottare il decreto del 27 aprile dello stesso anno, sull'abolizione della schiavitù nelle colonie.

Inghilterra

Fin dal 1772 il giudice britannico Granville Sharp stabilisce il criterio che qualunque schiavo fuggito dalle colonie riesca a calcare il suolo inglese diverrà automaticamente un uomo libero. Nel 1783 i quaccheri inglesi promuovono la prima associazione per la liberazione degli schiavi(Abolition Society). Nel 1789 viene fondata la Society for Effecting the Abolition of the Slave Trade ("Società per l'abolizione della tratta"), un movimento abolizionista organizzato voluto, tra gli altri, dal deputato William Wilberforce e dall'attivista Thomas Clarkson, con il sostegno del primo ministro William Pitt. La Camera dei Comuni nel 1807 delibera il divieto di attracco nelle navi negriere nei porti inglesi e nel 1815 sarà la marina britannica, su mandato del Congresso di Vienna[7] a fare applicare il divieto internazionale della tratta degli schiavi. Nel 1833 il Parlamento del Regno Unito decreta la liberazione degli schiavi nelle colonie.

 

Paesi extraeuropei

1770: Le società quacchere della Nuova Inghilterra proibiscono ogni pratica schiavistica.

1774: il Rhode Island abolisce la schiavitù.

1777: la schiavitù è abolita nel Vermont.

1789 (4 marzo): la Costituzione degli Stati Uniti entra in vigore e legittima lo schiavismo in un gran numero di stati in particolar modo del Sud. Uno dei suoi articoli permette ai proprietari di schiavi di calcolare il numero dei voti a partire dall'equazione 1 nero= 3/5 di un bianco.

1807: Gli Stati Uniti vietano l'importazione di schiavi.[8]

1820: la Female Anti-slavery Society statunitense denuncia lo schiavismo come pratica immorale.

1822: per iniziativa di filantropi statunitensi viene fondata in Africa una colonia di schiavi liberati chiamata Liberia che nel 1847 diviene uno dei primi stati africani indipendenti.

1832: viene fondata la "Società antischiavista statunitense"

1845: il governo federale degli Stati Uniti concede al Texas, entrato nella Confederazione di mantenere la sua legislazione schiavista: ne nasce un contrasto con gli Stati abolizionisti.

1847 (26 dicembre): l'Impero ottomano abolisce la schiavitù.

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1852: viene pubblicato il romanzo di Harriet Beecher Stowe La capanna dello zio Tom che vende un milione e mezzo di copie, cifra notevolissima per l'epoca. Le tesi di un moderato abolizionismo condite da un superficiale umanitarismo hanno successo e diffondono l'abolizionismo presso l'opinione pubblica.

1854: il Venezuela sotto la presidenza di José Gregorio Monagas, inserisce nella Costituzione l'abolizione definitiva della schiavitù.

1859: in Virginia viene impiccato l'abolizionista bianco John Brown, reo di aver incitato alla rivolta gli schiavi neri delle piantagioni. Diverrà il martire dell'ideale abolizionista.

1865: ormai conclusa la Guerra di secessione americana il governo USA decreta la fine della schiavitù in tutta la nazione con il XIII emendamento alla Costituzione voluto da Abraham Lincoln (1809–1865), 16º Presidente degli Stati Uniti d'America. Fu il presidente che si adoperò per porre fine alla schiavitù, prima con la Proclamazione dell'Emancipazione (1863), che liberò gli schiavi negli Stati della Confederazione, e poi con la ratifica del Tredicesimo Emendamento della Costituzione statunitense. La posizione di Lincoln riguardo alla liberazione dalla schiavitù degli Afro-Americani è a tutt'oggi oggetto di controversie, nonostante la frequenza e la chiarezza con cui la sostenne sia prima della sua elezione come presidente (vedi Controversie Lincoln-Douglas del 1858) sia dopo (vedi Primo discorso inaugurale di Lincoln). Espose la sua posizione con forza e in brevi parole in una lettera a Horace Greeley del 22 agosto 1862:

Abraham Lincoln

« Io salverei l'Unione. La salverei nella maniera più rapida al cospetto della Costituzione degli Stati Uniti. Prima potrà essere ripristinata l'autorità nazionale, più simile sarà l'Unione "all'Unione che fu". Se ci fosse chi non desidera salvare l'Unione a meno di non poter al tempo stesso sconfiggere la schiavitù, io non sarei d'accordo con costoro. Il mio obiettivo supremo in questa battaglia è di salvare l'Unione, e non se porre fine o salvare la schiavitù. Se potessi salvare l'Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, io lo farei; e se potessi salvarla liberando alcuni e lasciandone altri soli, io lo farei anche in questo caso. Quello che faccio riguardo alla schiavitù, e alla razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l'Unione; e ciò che evito di fare, lo evito perché non credo possa aiutare a salvare l'Unione. Dovrò fermarmi ogni volta che crederò di star facendo qualcosa che rechi danno alla causa, e dovrò impegnarmi di più ogni volta che crederò che fare di più rechi giovamento alla causa. Dovrò provare a correggere gli errori quando dimostreranno d'essere errori; e dovrò adottare nuove vedute non appena mostreranno di essere vedute corrette...Ho sostenuto qui i miei propositi in accordo con il punto di vista dei miei obblighi ufficiali; e non ho intenzione di modificare la mia più volte ribadita volontà personale che tutti gli uomini possano essere liberi »

In ogni caso, al momento in cui scrive questa lettera, Lincoln stava già andando verso l'emancipazione, cosa che avrebbe portato alla Proclamazione dell'emancipazione. È inoltre rivelatoria la sua lettera scritta un anno dopo a James Conkling il 26 agosto 1863, che includeva il seguente estratto:

« C'è voluto più di un anno e mezzo per sopprimere la ribellione prima che fosse tenuta la proclamazione, gli ultimi cento giorni dei quali passati con l'esplicita coscienza che stava arrivando, senza essere avvertita da quelli in rivolta, ritornando alle loro faccende. La guerra è progredita in modo a noi favorevole dall'annuncio della proclamazione. So, per quanto sia possibile conoscere le opinioni degli altri, che alcuni comandanti delle nostre armate in campo, che ci hanno dato i successi più importanti, credono nella politica dell'emancipazione e l'uso delle truppe di colore

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costituisce il colpo più pesante finora sferrato alla Ribellione, e che almeno uno di questi importanti successi non sarebbe stato raggiunto se non fosse stato per l'aiuto dei soldati neri. Tra i comandanti che hanno queste opinioni ve ne sono alcuni che non hanno mai avuto alcuna affinità con quello che viene chiamato abolizionismo o con le politiche del partito repubblicano ma le sostengono dalla prospettiva puramente militare. Sottometto queste opinioni come intitolate ad una certa rilevanza contro le obiezioni spesso mosse che emancipare ed armare i neri siano scelte militari poco sagge e non siano state adottate come tali in buona fede. »

1888: l'imperatore del Brasile Pietro II abolisce lo schiavismo.

1926: la Società delle Nazioni stabilisce la fine della tratta e della schiavitù per tutti i paesi aderenti.

1935: l'Italia abolisce la schiavitù in Abissinia.

1980: la Mauritania è l'ultimo paese ad avere ufficialmente abolito la schiavitù.

 

 

Wilbur Wright (Millville, 16 aprile 1867 – Dayton, 30 maggio 1912) e Orville Wright (Dayton, 19 agosto 1871 – Dayton, 30 gennaio 1948), spesso citati collettivamente come fratelli Wright, furono due ingegneri e inventori statunitensi, annoverati tra i più importanti aviatori dell'epoca pionieristica.

Sono in generale considerati i primi ad aver fatto volare con successo una macchina motorizzata più pesante dell'aria con un pilota a bordo, essendo riusciti a far alzare dal suolo il loro Flyer per quattro volte, in modo duraturo e sostanzialmente controllato, il 17 dicembre 1903.

Sull'appartenenza di questo primato sussistono notevoli controversie; è invece in generale accettato che, specialmente negli anni tra il 1905 e il 1908, grazie a velivoli come il Flyer III e il Model A, i Wright furono i primi ad acquisire un'effettiva padronanza dell'aria.

Aperta una stamperia, poi un negozio di biciclette, Wilbur e Orville si erano appassionati alle vicende del pioniere dell'aviazione tedesco Otto Lilienthal, che con i suoi alianti e deltaplani era riuscito a compiere voli di notevole lunghezza,[21] e fu la sua morte nel 1896 a spingerli a intraprendere un'indagine approfondita delle possibilità del volo umano.[11] Comunque, l'epoca tra gli anni ottanta e gli anni novanta dell'Ottocento vide il moltiplicarsi degli studi dedicati alle scienze aeronautiche e dei tentativi pratici di volare. Nel 1896 in particolare altri due eventi importanti attirarono l'attenzione dei Wright: in maggio lo scienziato statunitense Samuel Pierpont Langley aveva avuto successo nel far volare due modelli di velivoli senza equipaggio dotati di motori a vapore, e nel corso dell'estate l'ingegnere francese Octave Chanute aveva raccolto intorno a sé altri sperimentatori insieme ai quali, sulle dune di sabbia intorno al lago Michigan, vicino a Chicago, aveva testato con successo diversi tipi di alianti.

Tra la fine del 1902 e il settembre del 1903, quindi, Wilbur e Orville Wright si dedicarono all'installazione di un motore su una cellula sostanzialmente identica a quella del loro ultimo aliante. Il progetto del loro Flyer ("aviatore", così battezzarono il loro primo velivolo motorizzato) era infatti molto simile a quello dell'aliante del 1902, il quale a sua volta aveva conservato l'architettura complessiva dei suoi predecessori in un processo di evoluzione molto graduale. Le novità più salienti del Flyer erano gli impennaggi raddoppiati, sia anteriormente che posteriormente, e

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ovviamente l'introduzione di un sistema motopropulsore. La configurazione era sempre quella del biplano canard, con struttura in abete rosso e copertura in mussola; i controlli erano organizzati nello stesso modo dei velivoli precedenti, e il pilota assumeva sempre una posizione prona; solamente, questa volta era collocato poco lontano dall'asse di simmetria dell'aereo, per compensare l'opposta eccentricità del motore.

Wilbur a bordo del Flyer del 1903. Notare il doppio equilibratore frontale danneggiato (questa foto venne scattata subito dopo il fallimento del tentativo di volo del 14 dicembre) e le doppie eliche in posizione spingente, collegate al motore singolo da trasmissioni a catena.

Poiché le case automobilistiche a cui i Wright si erano rivolti non erano state in grado di mettere loro a disposizione un motore a scoppio con un rapporto potenza-peso soddisfacente, essi ne progettarono uno in modo completamente autonomo e ne affidarono la realizzazione al meccanico Charlie Taylor, un loro stretto collaboratore.

Problemi simili si riscontrarono per quanto riguardò le eliche: all'inizio del Novecento non esistevano ancora equazioni utili alla progettazione di un'elica efficiente, né in campo navale né tanto meno in campo aeronautico; perciò i Wright studiarono il problema per conto proprio, portarono a termine una serie di esperienze con la loro galleria del vento, stabilirono che un'elica non è in realtà altro che un'ala che ruota anziché traslare, e costruirono infine una coppia di eliche la cui efficienza (66 percento) fu in definitiva molto buona.

 

 

Il primo volo del Flyer, ai comandi di Orville, il 17 dicembre 1903.

I Wright tornarono a Kitty Hawk nel settembre 1903. Per tutto l'autunno le condizioni meteorologiche furono avverse, poi un collaudo del motore danneggiò gli alberi delle eliche e costrinse Orville a tornare a Dayton per recuperare dei pezzi di ricambio.[79] Nel frattempo, il 7 ottobre e l'8 dicembre, il Great Aerodrome di Langley per due volte non era riuscito a prendere il volo, schiantandosi rovinosamente. Quel duplice tentativo di volare con una macchina motorizzata più pesante dell'aria era stato compiuto da uno scienziato autorevole, segretario della prestigiosa Smithsonian Institution; nel progetto dell'Aerodrome il governo statunitense aveva investito 50 000 dollari, e il suo fallimento raffreddò molto l'interesse per l'aviazione dell'opinione pubblica e delle autorità americane.[80][81] Quando a Kitty Hawk giunse la notizia dell'insuccesso di Langley, Wilbur scrisse: «Adesso tocca a noi, e mi domando quale sarà la nostra sorte».[82]

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Fatte le riparazioni, una giornata di tempo abbastanza buono per lanciare il Flyer non si presentò fino al 13 dicembre ma, poiché era una domenica, non venne intrapreso nessun tentativo di volare. Il 14 dicembre, finalmente, Wilbur e Orville lanciarono una moneta per stabilire chi avrebbe tentato il primo decollo; vinse Wilbur, ma il suo primo tentativo di volare si concluse con uno schianto al suolo appena 3,5 secondi dopo il decollo. Ciononostante, convinto dalla provata efficienza del motore e dalla maniera in cui i comandi rispondevano, affermò di non avere più dubbi sul successo finale.[83]

Tre giorni più tardi, il 17 dicembre 1903, riparati i danni e approfittando di una giornata di vento forte, i Wright erano pronti per un altro tentativo. Questa volta toccò a Orville prendere i comandi: il velivolo rullò lungo la rotaia che impediva ai pattini di affondare nella sabbia, decollò, rimase in volo per 12 secondi e, dopo aver percorso 36 metri, tornò a terra in un atterraggio relativamente morbido. Nel corso della stessa giornata, alternandosi al posto di pilotaggio, i due fratelli compirono altri tre voli – l'ultimo dei quali, ai comandi di Wilbur, durò 59 secondi e coprì 260 metri. Orville descrisse l'ultimo volo della giornata:

« Wilbur decollò per il quarto e ultimo volo verso le ore 12. Le prime centinaia di piedi furono tutte un su e giù, come nei voli precedenti, ma dopo aver coperto trecento piedi [circa 90 metri] la macchina tornò sotto controllo. I successivi quattro o cinquecento piedi vennero percorsi con solo qualche piccola oscillazione. Tuttavia, coperti circa ottocento piedi, la macchina cominciò a beccheggiare di nuovo, e, picchiando improvvisamente, colpì il suolo. La distanza coperta in volo fu misurata in 852 piedi [260 metri]; il tempo di volo era stato di 59 secondi. La struttura dell'equilibratore era gravemente danneggiata, ma la parte principale del velivolo non aveva subito alcun danno. Stimammo che avrebbe potuto essere rimesso in condizione di volare in un giorno o due. »

Già il 19 novembre, l’Armata Rossa aveva lanciato una massiccia offensiva volta ad accerchiare le truppe tedesche della 6ª Armata di Paulus bloccate a Stalingrado. L'azione aveva portato all'annientamento della 3ª Armata romena, schierata a sud-est dell'ARMIR. All'alba del 16 dicembre l'offensiva sovietica (operazione Piccolo Saturno, prima fase della Seconda battaglia difensiva del Don) si scatenava anche contro le linee tenute dal II Corpo dell'ARMIR, che custodiva il settore centrale del fronte italiano; l'attacco sovietico non colse di sorpresa i reparti italiani, visto che già dall'11 dicembre erano in corso scaramucce e piccoli scontri lungo il fronte. Il primo attacco russo, proveniente dal saliente di Verchnij Mamon, fu respinto, ma il 17 dicembre i sovietici impiegarono le loro truppe corazzate e l'aviazione, travolgendo le linee della Ravenna e obbligandola alla ritirata. Nello stesso tempo, a sud-est, vennero distrutti anche i resti della 3ª Armata rumena. L'obiettivo della grande manovra era congiungere le due braccia della tenaglia, costituite da gruppi corazzati, alle spalle dello schieramento italo-tedesco-rumeno tra Novo Kalitva e Veshenskaya. Gariboldi tentò di tappare le varie falle come meglio poté, spostando reparti da una posizione all'altra, ma il ripiegamento senza preavviso della 298ª divisione germanica, schierata tra la Ravenna a sinistra e la Pasubio a destra, finì per mettere ancora più in crisi il già traballante fronte. Il 19 dicembre le avanguardie corazzate sovietiche avevano già raggiunto Kantemirovka, a 40 chilometri all'interno della linea italiana del Don, trenta chilometri più a sud raggiunsero Certkovo, e il 21 dicembre le due colonne russe provenienti da nord e da est si incontrarono a Degtevo, a circa settanta chilometri a sud di Sukhoy Donetz, chiudendo di fatto il XXXV Corpo d'armata italiano e il XXIX Corpo d'Armata tedesco in un'immensa sacca.

Quasi prive di mezzi di trasporto e di carburante (anche i carri leggeri L6/40 andarono quasi tutti persi sotto la forza dell'attacco sovietico), costrette a vagare a piedi in cerca di una via di scampo dall'accerchiamento, le divisioni di fanteria dell'ARMIR, composte da decine di migliaia di uomini ormai difficilmente controllabili, finirono in gran parte annientate, falcidiate dalla fame e dal freddo

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micidiale (30 gradi sotto zero) e sottoposte non solo agli attacchi delle colonne corazzate nemiche, ma anche dei reparti partigiani che agivano alle loro spalle.

Elementi delle divisioni Torino e Pasubio, insieme ai tedeschi della 298ª, riuscirono a resistere a Certkovo, circondati dai russi. Nella conca di Arbuzovka, invece, si consumò un dramma: 20-25.000 perdite tra morti, dispersi e prigionieri, solo pochi gruppi riuscirono a sfuggire all'accerchiamento. L'offensiva sovietica non coinvolse il Corpo d'Armata alpino, che continuò a tenere le sue posizioni sul Don. La Divisione Julia, sostituita sulla linea del fronte dalla Divisione Vicenza, fu schierata, insieme al XXIV Corpo d'Armata tedesco, sul fianco destro, lasciato scoperto dalla disfatta del II Corpo. La Julia si attestò sul fiume Kalitva, dove si dissanguò in continui combattimenti per mantenere il fronte. Intanto sul Don, ormai coperto di ghiaccio resistente e quindi transitabile anche per i carri armati, i sovietici apprestavano la seconda fase dello sfondamento.

Il Digesto (che certi studenti di Giurisprudenza e di Diritto Romano chiamavano…indi-gesto!) ma che in Latino, sta per “cose disposte per argomento” o Pandette (che

chissà quante volte gli appassionati di libri antichi avranno letto sulla costa delle copertine in pergamena), altro non sono che una compilazione in 50 libri di frammenti di opere di giuristi romani realizzata su incarico dell'imperatore Giustiniano I. Ed in latino ed in greco da cui derivano, i due termini, Digesta e Pandectae, stanno a significare che il contenuto riguarda tutte le materie.

Promulgato il 16 dicembre 533 con la costituzione imperiale bilingue Tanta o Δεδωκεν entrò in vigore il 30 dicembre dello stesso anno, il Digesto è una parte del Corpus iuris civilis, una raccolta di materiale normativo e giurisprudenziale: il nome digesto deriva dal titolo delle raccolte effettuate da giuristi privati che utilizzavano appunto questo termine per indicare le antologie ragionate de iura. Le altre parti sono le Institutiones e il Codex. Una quarta parte, le Novellae Constitutiones, fu aggiunta successivamente.

Il termine "Digesto" deriva dal latino Digestus, participio al passivo del verbo digerere: "disporre classificando gli argomenti in modo ordinato"; i Digestus sono stati denominati anche "Pandette",

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dal greco πανδεκτης: "onnicomprensivi, riguardanti qualsiasi materia" per indicarne la completezza delle norme contenute nei volumi.

La gestazione dell'opera ha inizio il 15 dicembre 530, data in cui Giustiniano I promulga la costituzione Deo auctore ("Con l'aiuto di Dio"), con la quale dà incarico a Triboniano, quaestor sacri palatii (ministro della giustizia), di raccogliere in un'unica opera i frutti della secolare produzione della giurisprudenza romana.

Che forse, con la caduta dell’Impero d’Occidente nel 476, stava cadendo in disuso.

Per compiere l'immane opera di selezionare il vastissimo materiale giurisprudenziale, Triboniano forma una commissione composta da un lato da docenti universitari, dall'altro da eminenti avvocati di Costantinopoli. La commissione risulta così composta da: Triboniano, che la presiede, Costantino, ministro del tesoro o comes sacrarum largitionum, i professori di Costantinopoli Teofilo e Cratino, i professori di Berytus (l'odierna Beirut) Doroteo e Anatolio, ed undici avvocati (Stefano, Mena, Prosdocio, Eutolmio, Timoteo, Leonide, Leonzio, Platone, Giacomo, Costantino, Giovanni).

Giustiniano conferisce ai compilatori la facoltà di apportare le modifiche ai testi giuridici ritenute necessarie al fine di eliminare le contraddizioni e di adeguarli al diritto vigente (cosiddette interpolazioni).

Giustiniano I

I Digesta vengono quindi promulgati da Giustiniano il 16 dicembre 533 con la costituzione bilingue latino-greca Constitutio Tanta o Δεδωκεν. L'entrata in vigore viene fissata per il 30 dicembre del medesimo anno. Sono punite le opere di rielaborazione del testo di legge, tuttavia, sono ammesse le traduzioni letterali in lingua greca, visto il loro carattere innocuo.

I compilatori si avvalgono di 9142 frammenti di opere di giuristi, di cui 6137 sono appartenenti ai cinque autori riportati nella legge delle citazioni. I frammenti sarebbero tratti da quasi 2000 libri, citati dallo stesso Giustiniano I nella costituzione Omnem e nella costituzione Tanta, messi a disposizione dei commissari, l'Index Florentinus ne riporta solamente 1625, ma non è da escludere l'ipotesi che i compilatori si sarebbero avvalsi di altre opere che non hanno fornito excerpta.

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Il lavoro dei commissari si conclude dopo soli tre anni, un tempo sorprendentemente breve vista la mole di opere giuridiche che i compilatori utilizzarono per la composizione dell'opera.

La struttura dell'opera e suo utilizzo

Il Digesto risulta composto da 50 libri. Ciascun libro è diviso in titoli, ogni titolo ha una propria rubrica indicante l'argomento trattato. All'interno dei titoli sono ordinati i frammenti delle opere della giurisprudenza romana. I frammenti sono preceduti dalla inscriptio con il nome del giurista che ne è l'autore, l'opera e il numero del libro dal quale è tratto.

I frammenti più lunghi sono stati divisi, dagli interpreti medioevali in principium e successivi paragrafi. Unica eccezione è costituita dai libri 30, 31 e 32 che non sono divisi in titoli ma ricompresi nell'unico titolo De legatis et fideicommissis. Il giurista maggiormente citato è Ulpiano.

Il Casinò di Monte Carlo, un complesso dedicato al gioco d'azzardo e di intrattenimento situato nel Principato di Monaco, venne inaugurato il 14 Dicembre 1856. Esso comprende un casinò, il Grand Théâtre de Monte Carlo e la sede de Les Ballets de Monte Carlo.

Il Casinò è di proprietà della Société des Bains de Mer de Monaco, una società per azioni in cui il governo di Monaco e la famiglia Grimaldi hanno una quota di maggioranza. La società possiede anche i principali alberghi, club sportivi, stabilimenti, ristorazione ed alcuni locali notturni in tutta Monaco.

Il casinò è stato costruito dall'architetto Charles Garnier che ha anche creato l'Opéra di Parigi, che costruisce il casinò in stile barocco: un palazzo pieno di affreschi e sculture, con uno straordinario atrio d'oro e di marmo. Lo stile architettonico dell'edificio attuale è chiaramente secondo impero, stile molto legato a Garnier, uno dei suoi massimi esponenti, e noto anche come "Napoleone III".

Nel 1854 il gioco d'azzardo fu legalizzato dal principe Florestano I di Monaco. Il casinò aprì nel 1856 in un villaggio vicino al porto. Il Principe Carlo III ordinò la costruzione di un nuovo quartiere chiamato Monte Carlo, e un nuovo casinò entrava in questo progetto. La costruzione dell'edificio attuale è iniziato nel 1858. Per rendere il casinò di maggior successo fu dato in concessione per 50 anni ad un individuo di nome François Blanc nel 1861. L'apertura di nuove strutture avvenne nel 1863.

Il casinò e la speculazione immobiliare a Monte Carlo portarono velocemente grande fortuna alla famiglia Blanc e alla famiglia regnante. Carlo III, quindi, decise di abolire ufficialmente tutte le tasse nel Principato di Monaco. Nel 1878, Marie Blanc, la ricca vedova di François Blanc (morto nel 1877), incaricò l'architetto Charles Garnier di rinnovare il Casinò di Monte Carlo e costruire all'interno un teatro prestigioso (il Grand Théâtre de Monte Carlo), cosicché quello nuovo risultò sontuosamente decorato con arazzi lussuosi, dipinti, e dettagli dorati e barocchi: nello stille, insomma, allora in voga. Il casinò è sicuramente all'origine delle fortune di Carlo III di Monaco e dei suoi successori (Alberto I, Luigi II, Ranieri III ed Alberto II), che poi si moltiplicheranno in parte con operazioni speculative immobiliari, in parte con banche e finanza.

Dal 1863 il casinò è gestito dalla Société des Bains de Mer.

Il suo fatturato annuo non è più ormai che una piccola parte dei ricavi del principato e della famiglia Grimaldi.

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Il Casinò di Monte-Carlo è situato in una posizione privilegiata nel percorso del Gran Premio di Monaco per gli spettatori. Si trova infatti proprio all'ingresso del Casinò da cui si ha una vista panoramica.

Ma a noi interessa molto di più un piccolo casinò, molto elegante che sorse molto tempo prima e ad opera di due parigini, e che, se lasciati stare…non so se avrebbe creato di Bagni di Lucca e della stessa Lucca un principato ricco come quello di Monaco, ma avrebbero anche potuto scongiurare che il Ducato di Lucca fosse svenduto a Firenze con tutte le conseguenze che ancor oggi noi paghiamo! Fatto sta che rientrarono in patria e si dice siano stati tra i promotori della casa da gioco monegasca!

Stiamo parlando e andando con il pensiero a Ponte a Serraglio, dove si trova l’incantevole Casinò dei Giuochi con l’ampia terrazza che si affaccia sul Lima e sulle vecchie case del borgo. Fu edificato dall’architetto Giuseppe Pardini (allievo e successore dle grande Nottolini) nel 1839 e presenta una facciata con sei semicolonne ioniche e quattro pilastri ai quattro angoli. Fasce decorative con trofei di strumenti musicali e ludici completano l’insieme. Al centro l’antefissa con lo stemma dei Borboni-Parma. L’edificio comprende un vestibolo, la Sala grande, detta delle Feste o dei gigli borbonici; la sala della Lira, detta un tempo Sala delle Signore, cui si accede attraverso la Galleria; la Sala da gioco detta del Pavone; il gabinetto di lettura (oggi Bar), la sala del Biliardo o del Caffè. A costruire il Casinò furono due imprenditori francesi, Adrien Mathis ed Edouard Ginnestet che ottennero dal Duca di Lucca Carlo Lodovico la privativa del gioco d’azzardo in cambio della costruzione del Casinò. Si giocava al Faraone, alla Reale, al Biribisso (l’antica roulette), al Casinò si svolgevano anche feste da ballo, accademie letterarie e musicali. Qui si svolsero memorabili feste da ballo, litigi, sfide a duello fra nobili e avventurieri. Nel 1847 il Ducato di Lucca passò al Granducato di Toscana e il Granduca Leopoldo proibì il gioco d’azzardo. Vicino al Casinò vi è un villino a tre piani che fu vinto alla lotteria nel 1839 dal critico e giornalista Jules Janin nel quale soggiornarono nel 1825 il poeta e scrittore francese Alphonse de Lamartine e Gerolamo Napoleone, principe di Montfort, figlio del fratello minore di Napoleone.

Nelle sale del Casino la più bella aristocrazia europea giocò fortune al “biribisso”, antenato dell’odierna roulette, al “faraone”, alla “reale” e ad altri antichi giochi d’azzardo, molti dei quali furono inventati proprio a Bagni di Lucca.

Qui girò la prima roulette d’Europa secondo le modalità moderne. Infatti il gioco del rosso e nero fino ad allora si effettuava con una ruota verticale o con l’estrazione di numeri colorati; Mathis introdusse il piano orizzontale e la pallina d’avorio. A Bagni di Lucca il gioco d’azzardo pubblico era praticato sin dal XV secolo, contribuendo con i suoi proventi a sanare

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le finanze della gestione delle Terme, ed è stato praticato un po’ ovunque, anche al Circolo dei Forestieri dove, nel 1953, girò per l’ultima volta la roulette.

Amante della vita mondana e del gioco, Carlo Lodovico nel 1836, su richiesta del francese Adrien Mathis, autorizzò la costruzione del nuovo Casinò a Ponte a Serraglio, che alcuni anni dopo il suo successore il Granduca di Toscana Leopoldo (amante della vita tranquilla e sobria), fece chiudere per un dissenso col gestore del gioco a riguardo di una festa danzante, consentendovi al suo interno solo concerti e alcune veglie danzanti.

 

Federico II Hohenstaufen (Jesi, 26 dicembre 1194 – Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250) fu re di Sicilia, Duca di Svevia, re di Germania e Imperatore del Sacro Romano Impero, infine anche re di Gerusalemme.

Apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen e discendeva per parte di madre dalla dinastia normanna degli Altavilla, regnanti di Sicilia. Conosciuto con gli appellativi stupor mundi ("meraviglia o stupore del mondo") o puer Apuliae ("fanciullo di Puglia"), Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l'attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una lunga serie di miti e leggende popolari, nel bene e nel male.

Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, volta a unificare le terre e i popoli, ma fortemente contrastata dalla Chiesa, di cui il sovrano mise in discussione il potere temporale. Federico stesso fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi: la sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica.

Uomo straordinariamente colto ed energico, stabilì in Sicilia e nell'Italia meridionale una struttura politica molto somigliante a un moderno regno, governato centralmente e con un’amministrazione efficiente.

Federico II parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo) e giocò un ruolo importante nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola siciliana. La sua corte reale siciliana a Palermo, dal 1220 circa sino alla sua morte, vide uno dei primi utilizzi letterari di una lingua romanza (dopo l'esperienza provenzale), il siciliano. La poesia che veniva prodotta dalla Scuola siciliana ha avuto una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. La scuola e la sua poesia furono salutate con entusiasmo da Dante e dai suoi contemporanei, e anticiparono di almeno un secolo l'uso dell'idioma toscano come lingua d'élite letteraria d'Italia.

 

Fra mito e leggenda

« Qui con più di mille giaccio:

qua dentro è 'l secondo Federico »

(parole di Farinata degli Uberti, posto nel girone degli eretici o degli epicurei, Dante Alighieri, Inf. X 118-119)

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La intensa attività politica e militare, l'innovazione portata nella sua legislazione del Regno di Sicilia, l'interesse per scienze e letteratura fecero di Federico un personaggio mitico, talvolta attirando una serie di leggende che in parte resistettero alla sua scomparsa. L'amicizia praticata nei confronti degli arabi (ebbe a lungo una Guardia personale costituita da guerrieri arabi, e lui stesso parlava correntemente tale lingua) unitamente alla lotta contro il papa Gregorio IX, che arrivò perfino a definirlo anticipatore dell'Anticristo, fecero crescere attorno a lui un alone di mistero e di leggende.

I ghibellini vedevano in lui il Reparator Orbis, il sovrano illuminato che avrebbe punito i preti indegni e restaurato la purezza della Chiesa.

La propaganda guelfa invece lo definì come un ateo, autore del libro De tribus impostoribus o un eretico epicureo (Dante stesso lo citò nel girone degli eretici vicino a Farinata degli Uberti), o addirittura come un convertito all'Islam.

Fu forse il suo essere stato definito l'Anticristo (o il suo anticipatore, secondo la tradizione profetica derivata da Gioacchino da Fiore) a dare origine, dopo la sua morte, alla leggenda di una profezia secondo la quale egli sarebbe ritornato dopo mille anni. Federico fu definito l'Anticristo anche in virtù di una leggenda medievale che sosteneva che questo sarebbe nato dall'unione fra una vecchia monaca e un frate: si diceva infatti che il padre Enrico VI in gioventù aveva pensato di intraprendere la vita monastica, mentre Costanza d'Altavilla aveva 40 anni quando partorì Federico e, prima del matrimonio, contratto all'età di 32 anni, sarebbe vissuta in un convento. Tale leggenda si collega anche al personaggio di Fra Pacifico, al secolo Guglielmo Divini, il quale, prima di divenire uno dei più intimi compagni di Francesco d'Assisi, fu cavalier servente di Costanza, alla quale, secondo alcune testi, fu legato da un amore segreto il cui frutto potrebbe essere stato proprio Federico.

 

Manfredi soffoca il padre, secondo una leggenda accreditata dal Villani.

 

Naturalmente la sua morte non poteva non dar origine a leggende. Si narra che una volta fu fatta all'Imperatore Federico II una profezia riguardante la sua morte: egli sarebbe deceduto in un paese contenente la parola "fiore". Per questo Federico II evitò di frequentare Florentia (Firenze), ma non sapeva che nell'agro dell'odierna Torremaggiore, si ergeva un borgo di origine bizantina, chiamato appunto Castel Fiorentino; le sue rovine, affioranti da una collina detta dello Sterparone (m. 205), ancora testimoniano la presenza di alcuni locali, di una torre di avvistamento e della Domus (palazzo nobiliare) all'interno della quale morì Federico il 13 dicembre 1250.

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La stessa leggenda racconta pure che, secondo la profezia, egli non solo sarebbe morto appunto sub flore, ma anche nei pressi di una porta di ferro. Secondo la tradizione Federico, riavutosi leggermente dal torpore, chiese alle guardie che lo vegliavano dove si trovasse e dove portasse una porta chiusa che stava vedendo dal proprio letto. Quando la guardia gli rispose che si trovava a Castel Fiorentino e che quella porta, murata dall'altra parte, non era che un vecchio portone di ferro, l'imperatore sospirò: «Ecco che è giunta dunque la mia ora», ed entrò in agonia.

Nella realtà storica, Federico, due anni prima della morte, aveva subito una grave sconfitta a Parma, da parte del legato pontificio, l’anno dopo il figlio Enzo era stato battuto dai Bolognesi e preso prigioniero fino alla morte. E nello stesso anno, aveva dovuto subire il tradimento del suo più fidato consiglier Pier delle Vigne, che fece accecare a San Miniato. E la vittoria militare del figlio Corrado su Guglielmo II d'Olanda che voleva scendere in Italia, non portò alcun vantaggio per Federico, il quale nel dicembre dello stesso anno morì a causa di un attacco di dissenteria. Nel suo testamento nominava suo successore proprio il figlio Corrado, ma il papa non solo non riconobbe il testamento ma scomunicò pure Corrado (che morì quattro anni dopo di malaria, nel vano tentativo di ricuperare a sé il Regno di Sicilia). Federico cadde vittima di una grave patologia addominale, forse dovuta a malattie trascurate, durante un soggiorno in Puglia; secondo altri, invece, sarebbe stato avvelenato. Egli, difatti, qualche tempo prima aveva scoperto un complotto, in cui fu coinvolto lo stesso medico di corte. Comunque, le sue condizioni apparvero immediatamente di tale gravità che si rinunciò a portarlo nel più fornito Palatium di Lucera e la corte dovette riparare nella domus di Fiorentino, un borgo fortificato nell'agro dell'odierna Torremaggiore, non lontano dalla sede imperiale di Foggia.

Leggenda vuole che a Federico fosse stata predetta dall'astrologo di corte, Michele Scoto, la morte sub flore, ragione per la quale pare egli abbia sempre evitato di recarsi a Firenze. Allorché fu informato del nome del borgo in cui infermo era stato condotto per le cure necessarie, Castel Fiorentino per l'appunto, Federico, comprese e accettò la prossimità della fine.

 

Il sarcofago di Federico II nella Cattedrale di Palermo.

 

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Stando al racconto del cronista inglese Matthew Paris († 1259) – non confermato però da altre fonti – l'imperatore, sentendosi in punto di morte, volle indossare l'abito cistercense e dettare così le sue ultime volontà nelle poche ore di lucidità. Il testamento, dettato alla presenza dei massimi rappresentanti dell'Impero, reca la data del 17 dicembre 1250. La sua fine fu rapida e sorprese i contemporanei, tanto che alcuni cronisti anti-imperiali diedero adito alla voce, storicamente infondata, secondo cui l'imperatore era stato ucciso da Manfredi, il figlio illegittimo che in effetti gli successe in Sicilia. Una nota miniatura raffigura persino il principe mentre soffoca col cuscino il padre morente.

La salma di Federico fu sommariamente imbalsamata, i funerali si svolsero nella sede imperiale di Foggia, per sua espressa volontà il cuore venne deposto in un'urna collocata nel Duomo, la sua salma omaggiata dalla presenza di moltitudini di sudditi venne esposta per qualche giorno e trasportata poi a Palermo, per essere tumulata in Cattedrale, entro il sepolcro di porfido rosso antico, come voleva la tradizione normanno-sveva, accanto alla madre Costanza, al padre Enrico VI e al nonno Ruggero II.

Recentemente il sepolcro è stato riaperto. Federico giace sul fondo sotto altre due spoglie (quelle del padre Enrico VI e della madre Costanza d'Altavilla). La tomba era stata già ispezionata nel tardo XVIII secolo: il corpo, nel Settecento, era mummificato e in buone condizioni di conservazione; ne risulta che l'imperatore sia stato inumato con il globo dorato, la spada, calzari di seta, una dalmatica ricamata con iscrizioni cufiche e una corona a cuffia.

 

 

La strage di piazza Fontana, del 12 dicembre 1969 nel centro di Milano, è da molti è stata considerata la madre di tutte le stragi e ritenuta da alcuni l'inizio del periodo passato alla storia in Italia come “strategia della tensione” ossia un disegno razionale, perseguito dall'estrema destra per creare instabilità e paura nelle istituzioni e nei cittadini, e quella della «strage di Stato», ordinata da settori del mondo politico (dai servizi segreti e consorterie criminal-economiche) per creare un'atmosfera di panico, rendendo necessarie misure d'emergenza, e garantire il potere ai reazionari nemici del popolo.

Le indagini si susseguiranno nel corso degli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti prima anarchici e poi neo-fascisti; tuttavia alla fine tutti gli accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria (peraltro alcuni sono stati condannati per altre stragi, e altri usufruiranno della prescrizione, evitando la pena).

In contemporanea, con la bomba di Milano, scoppiarono altri ordigni, provocando 16 feriti, a Roma: una alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, due all'Altare della Patria: segno evidente di un disegno politico. Ma da Milano il

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prefetto Libero Mazza, su segnalazione dall'Ufficio affari riservati del Viminale, avvisò il presidente del Consiglio Mariano Rumor che si trattava sicuramente di gruppi anarcoidi! La sera stessa della strage, intervistato da Tv7, Indro Montanelli espresse dei dubbi sul coinvolgimento degli anarchici…

Il 12 dicembre 1969 la sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, era piena di clienti venuti soprattutto dalla provincia; gli altri istituti di credito chiusero alle 16:30, tuttavia vi erano ancora molte persone all'interno in attesa di completare le loro incombenze. L'esplosione avvenne alle ore 16:37, quando nel grande salone del tetto a cupola scoppiò un ordigno contenete 7 chili di tritolo, uccidendo 16 persone e ferendone altre 87.

Una seconda bomba fu rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. La borsa fu recuperata ma l'ordigno, che poteva fornire preziosi elementi per l'indagine, fu fatto brillare dagli artificieri la sera stessa. Una terza bomba esplode a Roma alle 16:55 dello stesso giorno nel passaggio sotterraneo che collega l'entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio. Altre due bombe esplodono a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all'Altare della Patria e l'altra all'ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia, per un totale di 16 persone ferite.

E si arrivò al fermo, divenuto una pagina di storia, dell’anarchico Pinelli, volato poi giù da una finestra: suicidio per senso di colpa! Smentito subito dopo!

Ed entra in scena il commissario Calabresi che ha trattenuto più del elcito l’anarchico che non c’entrava niente in questa losca storia e che per questo verrà ucciso il 17 maggio 1972 da Sofri e compagni di Lotta Continua, aprendo un altro infinito capitolo di questa strage che è simile alle verità trovate su Dallas!

Nel Memoriale Moro compilato dalle Brigate Rosse deducendolo dall'interrogatorio cui lo sottoposero durante il sequestro di Aldo Moro, Aldo Moro avrebbe indicato come probabili responsabili della strage, così come in generale della strategia della tensione, rami deviati del SID in cui si erano insediati negli anni diversi esponenti legati alla destra, con possibili influenze dall'estero, mentre gli esecutori materiali erano da ricercarsi nella pista nera.

Le indagini vennero orientate inizialmente nei confronti di tutti i gruppi in cui potevano esserci possibili estremisti; furono fermate per accertamenti circa 80 persone, in particolare alcuni anarchici del Circolo anarchico 22 marzo di Roma (tra i quali figura Pietro Valpreda) e del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa di Milano (tra i quali figura Giuseppe Pinelli).

Il 16 dicembre venne arrestato anche un altro anarchico, Pietro Valpreda, indicato dal tassista Cornelio Rolandi come l'uomo che nel pomeriggio del 12 dicembre era sceso dal suo taxi in piazza Fontana, recando con sé una grossa valigia. Rolandi ottenne anche la taglia di 50 milioni di lire disposta per chi avesse fornito informazioni utili. Valpreda fu interrogato dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio che gli contestò l'omicidio di quattordici persone e il ferimento di altre ottanta.

Il giorno dopo il Corriere della sera titolò che il «mostro» era stato catturato, e il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat indirizzò un assai discusso messaggio di congratulazioni al questore di Milano!

Lo stesso Partito Comunista Italiano era convinto che l'attentato fosse stato opera degli anarchici. Bettino Craxi ricorderà nel 1993 che il principale teste d'accusa contro Valpreda, il tassista Rolandi, era iscritto al PCI e questo avvalorò la sua deposizione tra molti esponenti del partito.

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I processi

Il processo iniziò a Roma il 23 febbraio 1972; dopo essere stato trasferito a Milano per incompetenza territoriale fu spostato a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto. Dopo una serie di rinvii dovuti al coinvolgimento di nuovi imputati (Franco Freda e Giovanni Ventura nel 1974, Guido Giannettini nel 1975) la Corte

d'assise condannò all'ergastolo Freda, Ventura e Giannettini, ritenuti gli organizzatori della strage. Gli altri imputati, Valpreda e Merlino, furono assolti per insufficienza di prove ma condannati a 4 anni e 6 mesi per associazione sovversiva. La Corte d'assise d'appello assolse tutti gli imputati dall'accusa principale, confermando le condanne di Valpreda e Merlino, e condannò i due neo-fascisti a 15 anni per gli attentati di Milano e Padova, compiuti tra l'aprile e l'agosto del 1969: la Cassazione confermò l'assoluzione per Giannettini e ordinò un nuovo processo per gli altri quattro imputati. Il nuovo dibattimento cominciò il 13 dicembre 1984 presso la Corte d'assise d'appello di Bari e si concluse il 1º agosto 1985 con l'assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove: il 27 gennaio 1987 la Cassazione rese definitive le assoluzioni per strage, condannando soltanto alcuni esponenti dei servizi segreti italiani (il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna) per aver depistato le indagini. Una nuova istruttoria, aperta a Catanzaro, portò a processo i neo-fascisti Stefano Delle Chiaie e Massimiliano Fachini, accusati di essere rispettivamente l'esecutore e il basista: il 20 febbraio 1989 entrambi gli imputati furono assolti per non aver commesso il fatto (l'accusa aveva chiesto l'ergastolo per Delle Chiaie e l'assoluzione per insufficienza di prove per Fachini). Il 5 luglio 1991, al termine del processo d'appello, fu confermata l'assoluzione di Delle Chiaie.

Negli anni Novanta l'inchiesta del giudice Guido Salvini affacciò anche un'ipotesi di connessione col fallito Golpe Borghese e raccolse le dichiarazioni di Martino Siciliano e Carlo Digilio, ex neo-fascisti di Ordine Nuovo, i quali confessarono il proprio ruolo nella preparazione dell'attentato, ribadendo le responsabilità di Freda e Ventura; in particolare Digilio sostenne di aver ricevuto una confidenza in cui Delfo Zorzi gli raccontava di aver piazzato personalmente la bomba nella banca. Zorzi, trasferitosi in Giappone nel 1974, divenne un imprenditore di successo. Ottenne la cittadinanza giapponese che gli garantì poi l'immunità all'estradizione.

Il nuovo processo cominciò il 24 febbraio 2000 a Milano. Il 30 giugno 2001 furono condannati all'ergastolo Delfo Zorzi (come esecutore della strage), Carlo Maria Maggi (come organizzatore) e Giancarlo Rognoni (come basista). Carlo Digilio ottenne la prescrizione del reato per il prevalere

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delle attenuanti riconosciutegli per il suo contributo alle indagini, mentre Stefano Tringali fu condannato a tre anni per favoreggiamento). Il 12 marzo 2004 furono cancellati i tre ergastoli (e ridotta la condanna di Tringali da tre anni a uno) e il 3 maggio 2005 la Corte suprema di cassazione ha confermato la sentenza (dichiarando prescritto il reato di Tringali).

Al termine il processo nel maggio 2005 ai parenti delle vittime sono state addebitate le spese processuali!

La Cassazione, assolvendo i tre imputati, ha tuttavia affermato che la strage di piazza Fontana fu realizzata dalla cellula eversiva di Ordine Nuovo capitanata da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987!

Il protocollo di Kyoto è un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il riscaldamento globale. Redatto l'11 dicembre 1997 nella città giapponese di Kyoto da più di 180 Paesi, in occasione della "Conferenza COP3" della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Il trattato è entrato in vigore il 16 febbraio 2005, dopo la ratifica anche da parte della Russia.

Il 16 febbraio 2007 si è celebrato l'anniversario del secondo anno di adesione al protocollo di Kyōto, e lo stesso anno ricorre il decennale dalla sua stesura. Con l'accordo di Doha l'estensione del protocollo è stata prolungata dal 2012 al 2020, con ulteriori obiettivi di taglio delle emissioni serra.

L'idea che le attività umane siano probabilmente responsabili della maggior parte dell'incremento della temperatura globale ("riscaldamento globale") avvenuto dalla metà del XX secolo rispecchia l'attuale pensiero scientifico. Ci si aspetta che il riscaldamento causato dall'uomo continui per tutto il XXI secolo ed oltre.

L'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, 2007) ha stilato delle proiezioni su come potrebbe essere il futuro incremento della temperatura globale. Le proiezioni dell'IPCC sono stilate assumendo che non ci sia nessuno sforzo per la riduzione dell'emissione di gas serra e coprono un periodo che va dall'inizio del XXI secolo fino alla fine del XXI secolo. Sulla base del giudizio di esperti, l'IPCC ha stimato una probabilità del 66% di un aumento delle temperature compreso fra 1,1 e 6,4 °C.

La variabilità delle proiezioni è dovuta in parte diverse proiezioni relative alle future emissioni di gas serra. Scenari differenti sono basati su differenti possibili sviluppi sociali ed economici (ad esempio crescita economica, sviluppi demografici e politiche energetiche) che potrebbero influenzare le future emissioni di gas serra. Riflette inoltre le incertezze sugli effetti sul clima delle emissioni passate e future.

1992 Durante la conferenza dell'ONU sull'ambiente e lo sviluppo che si è tenuta a Rio de Janeiro (Summit della Terra) viene stilata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC).

1995 I partecipanti all'UNFCCC si incontrano a Berlino per definire i principali obiettivi riguardo alle emissioni.

1997 A dicembre gli aderenti definiscono il protocollo di Kyoto a Kyoto, in Giappone, dove si accordano in linea generale sugli obiettivi di emissioni.

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2002 Russia e Canada ratificarono il Protocollo di Kyoto all'UNFCCC ed il trattato entra in vigore il 16 febbraio 2005.

2011 Il Canada è la prima nazione ad uscire dal Protocollo.

Il trattato prevede l'obbligo di operare una riduzione delle emissioni di elementi di inquinamento (biossido di carbonio ed altri cinque gas serra, ovvero metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo) in una misura non inferiore all'8,65% rispetto alle emissioni registrate nel 1985 – considerato come anno base – nel periodo 2008-2014.

Premesso che l'atmosfera terrestre contiene 3 milioni di megatonnellate (Mt) di CO2,il protocollo prevede che i Paesi industrializzati riducano del 5% le proprie emissioni di questo gas. Le attività umane immettono 6.000 Mt di CO2 all' anno, di cui 3.000 dai Paesi industrializzati e 3.000 da quelli in via di sviluppo; per cui, con il protocollo di Kyoto, se ne dovrebbero immettere 5.850 ogni anno anziché 6.000, su un totale di 3 milioni

Ad oggi, 175 Paesi e un'organizzazione di integrazione economica regionale (EEC) hanno ratificato il protocollo o hanno avviato le procedure per la ratifica. Questi Paesi contribuiscono per il 61,6% alle emissioni globali di gas serra.

Il protocollo di Kyoto prevede inoltre, per i Paesi aderenti, la possibilità di servirsi di un sistema di meccanismi flessibili per l'acquisizione di crediti di emissioni:

Clean Development Mechanism (CDM): consente ai Paesi industrializzati e ad economia in transizione di realizzare progetti nei Paesi in via di sviluppo, che producano benefici ambientali in termini di riduzione delle emissioni di gas-serra e di sviluppo economico e sociale dei Paesi ospiti e nello stesso tempo generino crediti di emissione (CER) per i Paesi che promuovono gli interventi.

Joint Implementation (JI): consente ai Paesi industrializzati e ad economia in transizione di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas-serra in un altro paese dello stesso gruppo e di utilizzare i crediti derivanti, congiuntamente con il paese ospite.

Emissions Trading (ET): consente lo scambio di crediti di emissione tra Paesi industrializzati e ad economia in transizione; un paese che abbia conseguito una diminuzione delle proprie emissioni di gas serra superiore al proprio obiettivo può così cedere (ricorrendo all’ET) tali "crediti" a un paese che, al contrario, non sia stato in grado di rispettare i propri impegni di riduzione delle emissioni di gas-serra

Il protocollo di Kyoto prevede il ricorso a meccanismi di mercato, i cosiddetti Meccanismi Flessibili tra cui il principale è il Meccanismo di Sviluppo Pulito. L'obiettivo dei Meccanismi Flessibili è di ridurre le emissioni al costo minimo possibile; in altre parole, a massimizzare le riduzioni ottenibili a parità di investimento.

Perché il trattato potesse entrare in vigore, si richiedeva che fosse ratificato da non meno di 55 nazioni firmatarie e che le nazioni che lo avessero ratificato producessero almeno il 55% delle emissioni inquinanti; quest'ultima condizione è stata raggiunta solo nel novembre del 2004, quando anche la Russia ha perfezionato la sua adesione.

Nel novembre 2001 si tenne la Conferenza di Marrakech, settima sessione della Conferenza delle Parti. In questa sede, 40 Paesi sottoscrissero il protocollo di Kyoto. Due anni dopo, più di 120 Paesi avevano aderito al trattato, fino all'adesione e ratifica della Russia nel 2004, considerata importante

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poiché questo paese produce da solo il 17,6% delle emissioni. Ad ottobre 2009 gli stati che hanno aderito e ratificato il protocollo risultano 185. I Paesi in via di sviluppo, al fine di non ostacolare la loro crescita economica frapponendovi oneri per essi particolarmente gravosi, non sono stati invitati a ridurre le loro emissioni. L'Australia, che aveva firmato ma non ratificato il protocollo, lo ha ratificato il 2 dicembre 2007.

L'Unione europea è la principale sostenitrice internazionale, poiché essendo ad un livello economico molto alto cerca il più possibile di sostenere questo protocollo.

Il 16 marzo 2012 è stato attuato da Corrado Clini il "Fondo rotativo per Kyoto" da 600 milioni di euro per finanziare, con tassi agevolati di interesse, gli investimenti in efficienza energetica, le energie rinnovabili, le tecnologie di cogenerazione e trigenerazione. Il fondo era stato istituito dalla finanziaria 2007 del governo Prodi II, ministri Alfonso Pecoraro Scanio e Pier Luigi Bersani.[10] Grazie all'iniziativa, secondo i dati ufficiali diffusi a fine 2012, nell'anno «sono stati finanziati 588 progetti proposti da caserme, ospedali, amministrazioni locali, scuole, musei e poli industriali per complessivi 330 ...

Tra i Paesi non aderenti figurano gli USA, i responsabili del 36,2% del totale delle emissioni di biossido di carbonio (annuncio del marzo 2001). In principio, il presidente Bill Clinton, incoraggiato dal vice Al Gore aveva firmato il protocollo durante gli ultimi mesi del suo mandato, ma George W. Bush, poco tempo dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, ritirò l'adesione inizialmente sottoscritta e promessa in campagna elettorale. Alcuni stati e grandi municipalità americane, come Chicago e Los Angeles, stanno studiando la possibilità di emettere provvedimenti che permettano a livello locale di applicare il trattato. Anche se il provvedimento riguardasse solo una parte del paese, non sarebbe un evento insignificante: regioni come il New England, da sole, producono tanto biossido di carbonio quanto un grande paese industrializzato europeo come la Germania.

L'India e la Cina, che hanno ratificato il protocollo, non sono tenute a ridurre le emissioni di anidride carbonica nel quadro del presente accordo, nonostante la loro popolazione ricca e poco efficace. Cina, India e altri Paesi in via di sviluppo sono stati esonerati dagli obblighi del protocollo di Kyoto perché essi non sono stati tra i principali responsabili delle emissioni di gas serra durante il periodo di industrializzazione che si crede stia provocando oggi il cambiamento climatico. I Paesi non aderenti sono responsabili del 40% dell'emissione mondiale di gas serra.

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Il premio Nobel è un'onorificenza di valore mondiale, attribuita annualmente a persone che si sono distinte nei diversi campi dello scibile, «apportando considerevoli benefici all'umanità», per le loro ricerche, scoperte e invenzioni, per l'opera letteraria, per l'impegno in favore della pace mondiale. Credo che in questo senso, e visto dove sta andando l’umanità, è bene che i prossimi premi vengano valutati…con criteri almeno un po’ diversi!

Già abbiamo visto la genesi del premio, descrivendo la vita di Alfred Nobel (1833-1896), chimico e industriale svedese ed inventore della dinamite e della balistite. La prima assegnazione dei premi risale al 1901, quando furono consegnati il premio per la pace, per la letteratura, per la chimica, per la medicina e per la fisica. Non esiste invece il premio per la matematica, e neanche quello per l'economia, ma dal 1969 si assegna il premio per l'economia in memoria di Alfred Nobel da parte della Banca di Svezia, cosa che crea ancora numerosi fraintendimenti.

I premi sono generalmente assegnati in ottobre, ma la cerimonia di consegna dei premi si tiene a Stoccolma presso il Konserthuset ("Sala dei concerti") il 10 dicembre, anniversario della morte del fondatore, con esclusione del premio per la pace che si assegna anch'esso il 10 dicembre, ma a Oslo.

I premi Nobel nelle specifiche discipline (fisica, chimica, fisiologia o medicina, letteratura, economia) sono comunemente ritenuti i più prestigiosi assegnabili in tali campi. Anche il premio Nobel per la pace conferisce grande prestigio, tuttavia per l'opinabilità delle valutazioni politiche la sua assegnazione è stata qualche volta accompagnata da accese polemiche…

 

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In questo giorno e molto più modestamente in Italia, nacque la Terza pagina che è stata, storicamente, lo spazio che i quotidiani italiani hanno dedicato ad una cosa oggi caduta in disuso (da qui il ripensamento sui Nobel…) la cultura. Ha costituito l'indice del prestigio di un quotidiano e ha rappresentato uno spazio proficuo e importante per la crescita culturale dell'Italia, oltre ad essere una peculiarità dei giornali della penisola.

 

Origini e sviluppo

 

Nella stampa dell'Ottocento, e del primo Novecento, tutti i quotidiani avevano quattro pagine.

La prima ospitava l'articolo di fondo e la cronaca dei fatti più rilevanti della giornata.

La seconda era dedicata alla cronaca politica (italiana e straniera).

La terza pagina ospitava il romanzo d'appendice e le notizie telegrafiche.

La quarta pagina era dedicata alle notizie secondarie ed alla pubblicità.

Spesso la domenica le pagine diventavano sei.

La Terza pagina comparve per la prima volta su un quotidiano di Roma, Il Giornale d'Italia, diretto da Alberto Bergamini.

All'inizio di dicembre 1901 si svolse nella capitale un grande evento mondano. La compagnia di Eleonora Duse metteva in scena la tragedia Francesca da Rimini di Gabriele D'Annunzio. In occasione della prima nazionale, il 9 dicembre, Il Giornale d'Italia decise di attribuire il massimo rilievo alla notizia incaricando ben quattro giornalisti di occuparsene. Tutta la pagina tre dell'edizione del 10 dicembre fu dedicata all'evento:

Domenico Oliva curò la recensione vera e propria («La tragedia»);

Nicola d'Asti scrisse la critica musicale («La musica»);

Diego Angeli si occupò dell'ambientazione scenografica («La sala»);

Eugenio Checchi stese la cronaca mondana della serata («In platea e fuori»).

La "storica" Terza pagina del 10 dicembre 1901 fu una pagina a tema unico.

Prima d'allora, lo spazio dedicato alla cultura sui quotidiani italiani era un articolo in Prima pagina detto "articolo di risvolto”, poiché cominciava nell'ultima colonna (in genere la sesta) e continuava nella prima colonna della seconda pagina.

Bergamini arruolò studiosi e letterati di chiara fama come Benedetto Croce, che era solito scrivere l'articolo di apertura, generalmente un lungo articolo su due colonne. Per la sua leggibilità anche in corpo piccolo, Bergamini impiegò un carattere tipografico esclusivo, l'elzeviro (dal nome della famiglia di stampatori olandesi che lo aveva inventato). L'elzeviro divenne il carattere

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utilizzato nella Terza pagina di tutti i quotidiani, specialmente per le grandi recensioni teatrali d'autore.

Lo schema di Terza pagina così come lo conosciamo oggi fu sviluppato dal Giornale, ma soprattutto dal Corriere della Sera di Luigi Albertini a partire dal 1905. Il Corriere creò lo schema che poi venne adottato da tutti gli altri quotidiani: apertura con l'elzeviro, una spalla di varietà, il taglio con corrispondenza dall'estero e in più rubriche e corsivi.

Debellato il vaiolo: «...il mondo e i suoi popoli hanno ottenuto la libertà dal vaiolo, una delle malattie più devastanti a manifestarsi con epidemie in molti paesi sin dai tempi più remoti, lasciando morte, cecità e deturpazione nella sua scia e che solo un decennio fa era dilagante in Africa, Asia e Sud America». Con questa risoluzione l'Organizzazione Mondiale della Sanità annunciò ufficialmente che il vaiolo era stato eradicato su tutto il pianeta. Fu il primo caso (e unico fino al 2011, dopo il debellamento della peste bovina) di malattia infettiva completamente eliminata.

Eppure fino alla fine degli anni Sessanta il vaiolo faceva due milioni di vittime all'anno, portando a morte rapida (tra il 10° e il 16° giorno di malattia) il 40% dei contagiati. Alla fine del XX secolo si calcoleranno tra i 300 e i 500 milioni di decessi. Un incubo iniziato 10mila anni prima di Cristo, secondo gli studiosi legato alla fase di passaggio tra il nomadismo e la stanzialità del Neolitico.

I tre ex-direttori del "Programma per l'eradicazione globale del vaiolo" leggono l'annuncio dell'eradicazione della malattia

 

 

Il primo a scoprire un rimedio efficace fu il medico britannico Edward Jenner, che nel 1796 scoprì le affinità tra il vaiolo che colpiva gli esseri umani e quello dei bovini, traendo da quest'ultimo una soluzione da iniettare nell'uomo e alla quale diede il nome di vaccino (dal latino vaccinus, forma aggettivale derivante da vacca, in italiano "mucca").

 

Una campagna più ampia di contrasto al virus ebbe inizio nel 1950, intensificandosi a partire dal 1967. Dal 1986 la vaccinazione antivaiolosa venne sospesa in tutti i paesi, tranne nei due centri di ricerca di Atlanta e di Mosca, che conservano gli ultimi 600 campioni del virus.

 

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L'epoca della comparsa del vaiolo non è definita, ma si presume possa essersi evoluto a partire da un virus dei roditori. L'ampia variabilità del periodo è dovuta ai differenti dati utilizzati per calibrare la frequenza molecolare. Un clade è quello del ceppo di Variola maior che si diffuse partendo dall'Asia tra 400 e 1600 anni fa ed è responsabile della forma più grave di vaiolo. Un altro clade include entrambi i ceppi di Variola minor descritti nel continente americano e isolati in Africa occidentale, che si suppone si siano separati dal ceppo ancestrale tra i 1400 e i 6300 anni fa; questo clade si pensa possa essersi distinto in due subclade almeno 800 anni fa.

 

Una seconda stima è basata sull'ipotesi che il Variola virus si sia separato dal virus del vaiolo del gerbillo circa 3000-4000 anni fa. Questa stima è coerente con le prove storiche e archeologiche che identificano il vaiolo come una malattia umana con un'origine relativamente recente. Tuttavia, supponendo che il tasso di mutazione genetica sia simile a quella dei virus della famiglia degli Herpesviridae, si stima che la separazione tra Variola virus e il virus del vaiolo del gerbillo sia avvenuta circa 50000 anni fa. Questa stima è coerente con le altre stime pubblicate e suggerisce che le prove archeologiche e storiche siano decisamente incomplete. Sono quindi necessarie migliori stime dei tassi di mutazione di questi virus per poter uniformare i dati.

 

Il vaiolo sembra essere emersa come malattia endemica in India circa 2500-3000 anni fa, mentre il suo trasferimento dall'Africa orientale al Sud America è avvenuto nel XIX secolo.

 

La prima evidenza clinica attendibile di vaiolo è stata trovata nella mummia del faraone egiziano Ramses V, morto oltre 3000 anni fa, mentre archivi storici asiatici descrivono una malattia simile al vaiolo in India e in Cina nei secoli successivi. Si è ipotizzato che i commercianti egiziani abbiano importato la malattia in India nel I millennio a.C., dove è rimasta endemica per oltre 2000 anni; il vaiolo sembra poi essere stato introdotto in Cina nel I secolo a.C. dai territori a sud-ovest e da qui in Giappone nel VI secolo. In Giappone si stima che l'epidemia del 735-737 abbia ucciso un terzo della popolazione dell'arcipelago. Almeno sette divinità sono state specificatamente associate al vaiolo, tra i quali Sopona della religione del popolo Yoruba e Shitala Devi dell'Induismo.

 

L'arrivo del vaiolo in Europa e nel Sud-est asiatico è invece meno chiaro. La malattia non è descritta nell'Antico e nel Nuovo Testamento della Bibbia e nemmeno nella letteratura greca e romana e gli studiosi concordano che molto difficilmente una tale malattia possa essere sfuggita a una descrizione da parte di Ippocrate se si fosse manifestata nell'area mediterranea.

 

Mentre la peste antonina, che dilagò attraverso l'Impero romano tra il 165 e il 180, si pensa possa essere stata causata da un'epidemia di vaiolo, altri storici ipotizzano che siano state le truppe arabe a portare per prime la malattia dall'Africa all'Europa sud-orientale nel VII-VIII secolo. Nel IX secolo il medico persiano Abu Bakr Mohammad Ibn Zakariya al-Razi compì

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una delle osservazioni più importanti sul vaiolo e fu il primo a distinguerlo dal morbillo e dalla varicella nella sua opera Kitab fi al-jadari wa-al-hasbah, in italiano Il libro del vaiolo e del morbillo.

 

Durante il Medioevo il vaiolo si presentò con epidemie periodiche, ma non divenne endemico finché la popolazione non crebbe, aiutato anche dai grandi movimenti di persone che caratterizzarono il periodo delle crociate. A partire dal XVI secolo il vaiolo era presente in quasi tutta Europa, infettando soprattutto i bambini e causando la morte di oltre il 30% degli individui infetti. Le successive esplorazioni e colonizzazioni europee favorirono la diffusione della malattia in tutto il mondo conosciuto e il vaiolo divenne una delle più importanti cause di morbilità e mortalità.

 

 

Non esistono descrizioni attendibili di casi di vaiolo nel continente americano prima della colonizzazione europea del XV secolo. Nel 1507 fu introdotto sull'isola di Hispaniola e nel 1520 sulla terraferma, quando i coloni spagnoli si spostarono in Messico. Il vaiolo decimò la popolazione nativa amerinda e permise la conquista degli imperi azteco e inca. Nel 1633, alla fondazione delle colonie nella costa orientale del Nord America seguì una devastante epidemia presso le popolazioni native americane e, successivamente, per i coloni nati nel Nuovo Mondo. Le stime parlano di un tasso di mortalità presso i nativi americani dell'80-90%. In Australia il vaiolo fu introdotto prima nel 1789 e di nuovo nel 1829, diventando la prima causa di morte per gli aborigeni australiani tra il 1780 e il 1870.

 

A partire dalla metà del XVIII secolo il vaiolo era la maggior malattia endemica in tutto il mondo, con l'eccezione dell'Australia e di altre piccole isole; in Europa rappresentava la prima causa di morte, con 400.000 decessi l'anno.

 

Il vaiolo rappresentava il 10% delle cause di mortalità infantile in Svezia e il tasso si stima fosse ancora più elevato in Russia. L'uso della variolizzazione in alcuni paesi, come in Cina, nel Regno Unito e nelle sue colonie nordamericane, ridusse l'impatto della malattia nei confronti delle classi agiate durante l'ultimo periodo del XVIII secolo, ma una vera riduzione dell'incidenza si ebbe solo quando la vaccinazione divenne prassi comune alla fine del XIX secolo. I vaccini e la pratica della rivaccinazione portarono a una riduzione dei casi solamente in Europa e in Nord America, mentre il vaiolo rimaneva incontrollato nel resto del mondo.

 

John Winston Ono Lennon, nato con il nome di John Wiston Lennon (Liverpool, 9 ottobre 1940 – New York, 8 dicembre 1980), è stato un cantautore, polistrumentista, paroliere, attivista e attore cinematografico britannico.

Dal 1962 al 1970 è stato compositore e cantante del gruppo musicale dei Beatles, dei quali, in coppia con Paul McCartney, ha composto anche la maggior parte delle canzoni. Con McCartney ha

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formato una delle più importanti partnership musicali di successo della storia della musica del ventesimo secolo, scrivendo "alcune tra le canzoni più famose della storia del rock and roll". È il cantautore di maggior successo nella storia delle classifiche inglesi seguito da McCartney. Nel 2002, in un sondaggio della BBC sulle 100 personalità britanniche più importanti di tutti i tempi, si è classificato ottavo.

Terminata l'esperienza con i Beatles, John Lennon fu anche musicista solista, autore di disegni e testi poetici, nonché attivista politico e paladino del pacifismo. Questo gli causò non pochi problemi con le autorità statunitensi (FBI), che per lungo tempo spiarono tutte le sue attività e quelle della moglie Yoko Ono, considerandolo un sovversivo e rifiutandogli più volte la Green Card. Fu assassinato a colpi di rivoltella da un suo stesso fan, Mark David Chapman, la sera dell'8 dicembre 1980 a New York.

Lennon si sposò due volte: dal primo matrimonio con Cynthia Powell ebbe il figlio Julian, mentre dal secondo matrimonio con l'artista giapponese Yoko Ono, nacque il figlio Sean. Entrambi i figli hanno seguito la carriera artistica del padre. Dopo il matrimonio con Yoko, John cambiò il proprio nome all'anagrafe in John Ono Lennon.

Lennon è stato posizionato al 5º posto nella lista dei 100 migliori cantanti secondo Rolling Stone, I Feel Fine, Strawberry Fields Forever, Imagine e Instant Karma! sono considerate le sue migliori canzoni. Si trova inoltre al 55º posto della lista dei 100 migliori chitarristi secondo Rolling Stone.

Entrata del Palazzo Dakota dove Lennon fu assassinato

Nel 1980, Lennon si recò negli studi di registrazione Hit Factory di New York per registrare un nuovo album, Double Fantasy, che venne pubblicato nel novembre di quello stesso anno.

8 dicembre 1980: la morte

Poche settimane dopo l'uscita del disco, la sera dell'8 dicembre 1980 alle 22.51, al termine di un pomeriggio trascorso al Record Plant Studio, mentre Lennon si accingeva a rincasare con la moglie e si trovava di fronte all'ingresso del Dakota Building (il lussuoso palazzo in cui risiedeva, sulla 72ª strada, nell'Upper West Side a New York), un venticinquenne di nome Mark Chapman esplose contro di lui cinque colpi di pistola colpendolo quattro volte (il quinto colpo non andò a segno) mentre esclamava: «Hey, Mr. Lennon». Uno dei proiettili trapassò l'aorta e Lennon fece in tempo a fare ancora qualche passo mormorando «I was shot...» [Mi hanno sparato] prima di cadere al suolo perdendo i sensi. Soccorso da una pattuglia di polizia, Lennon perse conoscenza durante la corsa verso il Roosevelt Hospital, dove fu dichiarato morto alle 23.07.

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« Non ho paura di morire, sono preparato alla morte perché non ci credo. Penso che sia solo scendere da un'auto per salire su un'altra. »

(John Lennon, 1969)

« Non rimpiango niente di quello che ho fatto, davvero, a parte forse di aver ferito altre persone. Non rinnego niente. »

(John Lennon, 1971)

In una recente intervista del 10 giugno 2007, rilasciata a Radio BBC dalla moglie Yoko Ono, si è appreso che Lennon, la sera della sua uccisione, stava andando a salutare il figlio Sean. Il corpo di Lennon fu cremato e parte delle sue ceneri sparse nell'oceano Atlantico e non si hanno notizie di una vera tomba dell'artista.

Nel testamento, Lennon aveva dichiarato Yoko Ono e il figlio Sean eredi universali e aveva anche disposto che una parte del patrimonio andasse a Julian, dopo il compimento dei 30 anni, appena fosse diventato maturo.

Il tragico evento fece balzare Double Fantasy al primo posto in classifica, sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito, e riportò in auge gran parte dei dischi precedenti. Tra la fine del 1980 e i primi mesi del 1981, Lennon fu infatti presente nelle classifiche con i singoli (Just Like) Starting Over, Give Peace a Chance, Happy Xmas (War Is Over), Imagine, Woman e Watching the Wheels, e con gli album Double Fantasy, Imagine, Walls and Bridges, Rock 'n' Roll e Shaved Fish.

Come già accaduto con altre illustri vittime del rock, la morte di John Lennon ha aperto la strada a svariate operazioni discografico-speculative, che hanno visto coinvolta in prima persona Yoko Ono, la quale è stata l'artefice principale (e spesso nell'ombra) di tutte le varie ricorrenze che, soprattutto nel corso degli anni ottanta, hanno assiduamente celebrato la vita e la musica di Lennon. Criticata e contestata, anche dopo la morte del marito, la Ono si è dimostrata comunque abile nel gestire l'ingente fortuna lasciatale dall'ex-Beatle, uno degli artisti più importanti del secolo.

Elton John, che aveva frequentato molto Lennon negli ultimi anni, ed era il padrino di suo figlio Sean, gli dedicò due canzoni: la strumentale The Man Who Never Died e la commovente Empty Garden (Hey Hey Johnny), nell'album Jump Up! del 1982, che viene eseguita anche dal vivo, accompagnata da un collage di filmati su John. Anche i Queen lo ricordarono, con la canzone Life Is Real (Song for Lennon), contenuta nell'album Hot Space del 1982. In Italia fu ricordato dai Pooh, che gli dedicarono la canzone Chi fermerà la musica (1981) e dopo un toccante incontro a New York con Yoko Ono, registrarono e pubblicarono un singolo contenente una cover di Happy Xmas (War Is Over), cantata a quattro voci da ogni elemento del gruppo.

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La Battaglia dell'Amba Alagi fu una celebre battaglia avvenuta durante la guerra di Abissinia, presso il monte Amba Alagi, nell'acrocoro etiope (un altipiano con le pareti estremamente scoscese). Il 7 dicembre 1895 il presidio italiano comandato dal maggiore Pietro Toselli, composto da 2.300 uomini tra nazionali ed indigeni, venne assalito da circa 30.000 abissini; nello scontro, le forze italiane vennero completamente annientate. Per onorare i caduti di questa sanguinosa battaglia, gli ascari (la fanteria coloniale italiana) del IV Battaglione indigeni (intitolato allo stesso Toselli) portarono da quel momento la fascia nera in segno di lutto.

La montagna dell'Amba Alagi si trova nella regione di Tigrè, ed è posta sulla principale via che collega l'Etiopia all'Eritrea, all'epoca una colonia italiana; per via della sua posizione strategica, la montagna era stata temporaneamente occupata, nell'ambito dell'invasione italiana del Tigrè, il 13 ottobre 1895 da un contingente di truppe al comando del generale Giuseppe Arimondi, nominato poi comandante delle forze italiane dislocate nella regione. Il 16 novembre, informato che un grosso esercito etiope al comando del negus Menelik si stava ammassando ai confini della regione, Arimondi inviò sulla montagna, con compiti di osservazione e presidio, una compagnia del III Battaglione indigeni al comando del capitano Persico, rinforzandola il 24 novembre con un contingente più numeroso, composto dal IV Battaglione indigeni (4 compagnie), una serie di bande irregolari eritree al comando di ras Sebath e Scech Thala, e una batteria di artiglieria con quattro cannoni 7 BR Ret. Mont., il tutto posto al comando del maggiore Pietro Toselli; in totale, il maggiore poteva contare su 2.350 uomini tra italiani ed indigeni del Regio corpo truppe coloniali d'Eritrea.

Il 27 novembre Toselli si spinse in ricognizione con un piccolo distaccamento verso il villaggio di Belagò, a nord di Mai Cèu, da dove la sera del 28 avvistò i fuochi di un grosso accampamento; si trattava dell'avanguardia del principale esercito etiope, forte di 30.000 uomini posti al comando del cugino del negus, ras Mekonnen Welde Mikaél. Toselli ripiegò sul villaggio di Atzalà, più vicino all'Amba Alagi, inviando anche il 30 novembre un messaggio ad Arimondi informandolo dell'avvistamento. Arimondi ritrasmise il messaggio di Toselli al comandante in capo delle truppe italiane in Eritrea, generale Oreste Baratieri, da poco tornato nella colonia dopo un viaggio in Italia, ed iniziò a radunare truppe nella città di Macallè.

Il 1º dicembre, gli avamposti italiani ad Atzalà scambiarono alcuni colpi con le truppe di testa della colonna di Mekonnen, dando così inizio alle ostilità; conscio della schiacciante inferiorità numerica, Toselli fece ripiegare tutte le sue truppe sull'Amba Alagi, il 4 dicembre, chiedendo istruzioni ad

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Arimondi. Il generale ordinò di mantenere la posizione ed informò Toselli che il 6 dicembre sarebbe giunto egli stesso con un contingente di rinforzo, ma il 5 dicembre Arimondi ricevette l'ordine da Baratieri di non muoversi da Macallè e di far ripiegare sulla città il contingente di Toselli, mantenendo il contatto con il nemico; il messaggio con l'ordine di ripiegamento non raggiunse mai Toselli, che, ubbidendo al precedente ordine di resistere in attesa dei rinforzi, si preparò al combattimento sull'Amba.

 

 

Ras_Mekonnen_Amba_Alage

 

 

La battaglia

Prevedendo di combattere il giorno seguente, la sera del 6 dicembre Toselli dispose le sue truppe a difesa del versante sud dell'Amba: sulla sinistra, a difesa del passo di Falgà, vennero schierate le bande irregolari di ras Sebath con, in appoggio, la compagnia ascari del capitano Issel, mentre la compagnia del capitano Canovetti venne posta più avanti, in direzione di Atzalà, a difesa del passo Alangi; al centro, in una spianata a sud-ovest della vetta dell'Amba, vennero schierate la batteria d'artiglieria e la compagnia del capitano Persico, con dietro, in riserva, le compagnie dei capitani Ricci e Bruzzi Alieti; sulla destra, a difesa del colle Togorà, vennero poste le bande irregolari di Scech Thala e del tenente Volpicelli.

La battaglia ebbe inizio alle 6:30 del 7 dicembre, quando una colonna etiope attaccò frontalmente le posizioni della compagnia Canovetti, venendo respinta con gravi perdite. Poco dopo, una colonna etiope guidata da ras Oliè, compiendo una manovra aggirante, si abbatté sulla banda di ras Sebath presso il passo di Falgà, obbligandola a ripiegare sulla posizione tenuta dalla compagnia ascari di Issel; la posizione di Issel, rinforzata dalla compagnia di Canovetti accorsa in appoggio, venne investita da grossi contingenti nemici, ma riuscì a resistere. Verso le 9:00, Toselli inviò in appoggio

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all'ala sinistra la compagnia ascari di Ricci, che giunse giusto in tempo per respingere un nuovo attacco condotto dalle truppe di ras Mekonnen e ras Mikael.

Verso le 10:00 gli Etiopi impiegarono il grosso delle forze, attaccando la destra italiana con i contingenti di ras Alula Engida e ras Mangascià, il centro con le truppe di ras Mekonnen e ras Mikael, e la sinistra italiana di nuovo con le truppe di ras Oliè. Pressato da tre lati, alle 12:30 Toselli ordinò alle truppe dell'ala sinistra di ripiegare a ridosso dell'Amba, mentre le salmerie venivano predisposte per la ritirata generale attraverso il colle Togorà sotto la protezione di una centuria al comando del tenente Pagella. Alle 12:40 Toselli diede ordine di iniziare la ritirata a scaglioni, sotto la protezione della compagnia del ten. Carlo Bruzzi Alieti; ben presto però le masse etiopi, in schiacciante superiorità numerica, furono in grado di dilagare sulla spianata davanti la vetta dell'Amba, travolgendo le truppe di Bruzzi ivi attestate. Quando anche la resistenza delle bande dell'ala destra cedette, la ritirata si trasformò in una fuga disordinata, e i reparti italiani furono annientati. Il maggiore Toselli, che procedeva in coda alla colonna in ritirata insieme ai capitani Canovetti, Persico e Angherà, venne ucciso dagli etiopi con i suoi ufficiali nei pressi della chiesa di Endà Medàni Alèm (o di Bet Mariàm). Il contingente di Toselli venne quasi completamente annientato, con la perdita di 19 ufficiali e 20 graduati e soldati italiani, e di circa 2.000 tra ascari ed irregolari.

I pochi superstiti, guidati ora dai tenenti Pagella e Bodrero, raggiunsero alle 16:30 il villaggio di Adrerà, dove trovarono una colonna di 1.500 ascari italiani guidati dal generale Arimondi, partita la sera del 6 dicembre da Macallè per appoggiare il previsto ripiegamento di Toselli; raccolti i superstiti, la colonna, sotto attacco da parte degli etiopi, ripiegò in direzione di Macallè, ove giunse all'alba del giorno dopo.

Su questa stessa montagna ci sarà un’altra dolorosissima sconfitta per gli Italiani, questa volta ad opera degli Inglesi, con la cattura dell’, che si consegnerà al nemico con l’onore straordinario delle armi, proprio uscendo da Forte Toselli!

 

Thomas Alva Edison (Milan, 11 febbraio 1847 – West Orange, 18 ottobre 1931) è stato un inventore e imprenditore statunitense.

 

Fu il primo imprenditore che seppe applicare i principi della produzione di massa al processo dell'invenzione. Era considerato uno dei più prolifici progettisti del suo tempo,

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avendo ottenuto il record di 1.093 brevetti registrati a suo nome, in tutto il mondo, inclusi Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania.

Diede origine alla Motion Picture Patents Company (più nota come Edison Trust), compagnia formata dall'unione delle nove maggiori case di produzione cinematografiche dell'epoca. La rivista statunitense Life, in un'edizione speciale doppia, mise Edison al primo posto tra le "100 persone più importanti negli ultimi 1000 anni", evidenziando che la sua lampada ad incandescenza "illumina il mondo". Sebbene Heinrich Göbel l'avesse preceduto, con meno successo, con una sua versione della lampada a incandescenza, fu Edison che rese possibile l'era moderna commercializzando e diffondendo la sua invenzione.

Le più importanti invenzioni di Edison nacquero nel suo laboratorio di ricerca di Menlo Park, realizzato nella omonima città del New Jersey. Fu il primo istituto realizzato con il preciso scopo di produrre costantemente innovazioni tecnologiche e di migliorare quelle già esistenti.

La maggior parte delle invenzioni diedero fama a Edison di inventore, benché egli, nella maggior parte dei casi, si limitasse a sovrintendere alle operazioni dei suoi impiegati. Oltre a ciò, va precisato che avendo una notevole disponibilità economica, acquistava da altri inventori scoperte affini a quelle da lui già create, come alcune modifiche al suo fonografo, che poi, opportunamente perfezionate o riadattate dai suoi collaboratori, venivano successivamente brevettate a suo nome.

Anche quando la qualità delle invenzioni non era straordinaria, egli dimostrò abilità nel brevettarle e nel battere i suoi concorrenti, grazie al suo spirito imprenditoriale e alla migliore capacità di penetrazione sul mercato. Per esempio, Edison non fu il primo a inventare la lampadina elettrica. Numerosi progetti erano già stati elaborati da Alessandro Cruto, Henry Woodward, Mathew Evans, Joseph Swan, James Bowman Lindsay, William Sawyer e Heinrich Göbel.

Dopo aver comprato il brevetto di Woodward ed Evans del 1875, Edison riprese le caratteristiche di questi precedenti lavori e spinse i suoi dipendenti a cercare un nuovo tipo di materiale in grado di aumentare la durata delle lampadine elettriche. Nel 1879 Edison e i suoi collaboratori raggiunsero l'obiettivo di rendere il prodotto commercializzabile. Mentre i primi inventori avevano prodotto l'illuminazione elettrica in laboratorio, Edison fu in grado di portarla nelle case e negli uffici, con una produzione di massa di lampade a lunga durata e ideando un sistema per la generazione e distribuzione dell'elettricità.

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In Italia il film è conosciuto anche grazie ad una famosa sequenza del secondo film della fortunata saga del ragionier Ugo Fantozzi. Ne Il secondo tragico Fantozzi di Luciano

Salce del 1976, il protagonista, interpretato da Paolo Villaggio, suscita all'interno di un cineforum un boato da stadio (e 92 minuti di applausi) pronunciando la frase:

« Per me… La corazzata Kotiomkin… è una cagata pazzesca! »

(Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi)

Le parole di Fantozzi sono, come peraltro i "novantadue minuti di applausi" tributati all'esternazione dai suoi colleghi, un atto di rivalsa dell'uomo medio nei confronti di una sedicente élite culturale e dei suoi atteggiamenti forzatamente intellettuali e snobistici. Come racconta Paolo Villaggio, durante un cineforum a cui partecipò a Genova, la scena della scalinata venne proiettata per errore dopo appena dieci minuti dall'inizio del film. Il responsabile del cineforum dichiarò: "Questo è il più bel film di tutti i tempi!". Subito dopo il proiezionista rivelò di aver proiettato il film al contrario. Il responsabile rispose: "Bene, allora lo riguardiamo dall'inizio". Inoltre la scena è stata ispirata da un evento realmente accaduto. Come spiega lui stesso, Paolo Villaggio si trovava in un cinema a Mosca quando è stata fatta partire la pellicola. Durante il periodo sovietico la pellicola era proiettata così spesso da essere venuta a noia, e quindi nel cinema molte persone iniziarono ad urlare lamentandosi per l'ennesima visione del film stesso.

L'espressione colorita di Fantozzi, e l'intero episodio del film con Paolo Villaggio, hanno contribuito a rendere La corazzata Potëmkin un esempio paradigmatico di come viene visto popolarmente il cosiddetto cinema d'essai: lento, lungo e insopportabile ai più.

Infine, le scene che si vedono proiettate ne Il secondo tragico Fantozzi non sono tratte da La corazzata Potëmkin. A ben leggere i titoli di testa si tratta de La corazzata Kotiomkin, di tale Serghei M. Einstein. Non avendo ottenuto i diritti per riprodurre parti dell'opera originale, tutte le scene del capolavoro visibili nel film furono girate ex novo dal regista Luciano Salce.

La corazzata Potëmkin è un film sovietico di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Si tratta di una delle più note e influenti opere della storia del cinema, e per i suoi valori tecnici ed estetici è generalmente ritenuto fra i migliori film di propaganda nonché una delle più compiute espressioni cinematografiche. Prodotto dal primo stabilimento del Goskino a Mosca, fu presentato il 5 dicembre e proiettato poi il 21 dicembre 1925 al teatro Bol'šoj. La prima proiezione aperta al pubblico avvenne il 21 gennaio 1926.

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Il film è ambientato nel giugno del 1905; i protagonisti della pellicola sono i membri dell'equipaggio della nave da battaglia russa che dà titolo all'opera, ed è strutturato in cinque atti. I fatti narrati nel film sono in parte veri e in parte fittizi: in sostanza si può parlare di una rielaborazione a fini narrativi dei fatti storici realmente accaduti e che portarono all'inizio della Rivoluzione russa del 1905. Infatti – ad esempio – il massacro di Odessa non avvenne sulla celebre scalinata, bensì in vie e stradine secondarie, e non avvenne di giorno ma di notte.

L’episodio più famoso è l’Atto IV: la scalinata di Odessa, per la lunga scena dell'attacco alla folla da parte dei soldati e in cui una carrozzina, spinta da una madre appena fucilata, scivola giù per la scalinata.

Dopo 25 sessioni, - era stato aperto quasi esattamente 18 anni prima, il 13 dicembre 1545, - con tre figure eminenti che lo avevano presieduto: Ercole Gonzaga, Papa Giulio III, Papa Pio IV, snodato sotto il pontificato di tre Papi, si chiudeva, il 4 dicembre 1563, ufficialmente, il Concilio di Trento.

L’Europa e la Chiesa, che ne era stata il momento unificante, fino ad allora, aveva subito, dopo lo scisma d’Oriente, una lacerazione che l’avrebbe resa molto diversa da prima, più debole, divisa, con lotte nazionali e di religione che avrebbero finito per cancellarne quel primato che oggi nella globalizzazione, tanto rimpiangiamo!

Il Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi cattolici del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della Chiesa cattolica.

Il concilio, che in teoria avrebbe dovuto "conciliare" cattolici e protestanti, era in effetti una “reazione”, tardiva e debole, ad un allontanamento del mondo del Nord Eurpa che più forte, avanzato, rivendicava una sua autonomia!

Si risolse, infatti, in una serie di rigide affermazioni tese a sconfessare tutto ciò che Lutero sosteneva: teso ad elaborare concettualmente e dottrinalmente, la riforma della Chiesa cattolica, la Controriforma, per rispondere alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo cioè la Riforma protestante.

Il primo ad appellarsi ad un concilio che dirimesse il suo contrasto con il Papa fu Martin Lutero, già nel 1517: la sua richiesta incontrò subito il sostegno di numerosi tedeschi, soprattutto di Carlo V,

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che in esso vedeva un formidabile strumento non solo per la riforma della Chiesa, ma anche per accrescere il potere imperiale.

A tale idea si oppose invece fermamente papa Clemente VII che, oltre a perseguire una politica filo-francese e ostile a Carlo V, dall'altro temeva di poter essere deposto (in quanto figlio illegittimo). L'idea di un Concilio riprese quota sotto il pontificato del successore, papa Paolo III (1534 - 1549).

Egli nel 1537 convocò quindi prima a Mantova e poi l'anno successivo, a Vicenza un'assemblea di tutti i vescovi, abati e di numerosi principi dell'Impero, ma senza ottenere alcun effetto (a causa del conflitto tra Francesco I e Carlo V). Vi erano inoltre differenze di vedute riguardo alle motivazioni e agli scopi del concilio: se Carlo V auspicava la ricomposizione dello scisma protestante, per il papato l'obiettivo era un chiarimento in materia di dogmi e di dottrina, mentre per i riformati era l'attacco dell'autorità del papa stesso.

Il fallimento dei colloqui di Ratisbona (1541) segnò un ulteriore passo per la rottura con i protestanti e la convocazione di un concilio fu giudicata improrogabile, per cui Paolo III indisse il concilio a Trento, sede scelta poiché, pur essendo una città italiana, era entro i confini dell'Impero ed era retta da un principe-vescovo; e il Concilio si aprì solennemente a Trento il 13 dicembre 1545, III domenica di Avvento, nella cattedrale di San Vigilio, a fare gli onori di casa il principe-vescovo Cristoforo Madruzzo.

Il primo periodo del concilio si svolse in 8 sessioni solenni a Trento (dal 1542 al 1547) e in altre due a Bologna (dal 1547 al 1549), dove si decise di trasferire il concilio per il timore della peste e per sottrarsi alle ingerenze imperiali. Il Concilio contò inizialmente pochi prelati, quasi tutti italiani, e fu quasi sempre controllato dai delegati pontifici.

Qui vennero fissati i canoni della Sacra Scrittura e si ribadì la loro ispirazione; viene poi accettata come ufficiale la versione della Bibbia detta Vulgata e si respinse la dottrina del libero esame delle Scritture, ribadendo che la loro interpretazione spettava alla Chiesa.

Si affermò che il battesimo lava da tale peccato ma nel battezzato rimane una concupiscenza, fomite (causa, tentazione) del peccato. Dal quale ci si libera realmente solo con la Grazia. Condannata la predestinazione ed evidenziato il ruolo della libertà umana nella propria salvezza.

Nella seconda fase con la presenza anche di vescovi imperiali tedeschi, non si approdò a nessuna conciliazione e si riaffermarono il dominio della Chiesa e del Papa, ribadita la presenza reale di Cristo nell'eucarestia, la sua istituzione nell'Ultima cena e la dottrina della transustanziazione; si affermò quindi l'importanza del sacramento e vennero confermate le pratiche di culto e di adorazione ad esso collegate (come l'adorazione eucaristica e la festa del Corpus Domini). Nelle sessioni successive si riaffermò l'importanza dei sacramenti della penitenza (o confessione) e

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dell'unzione degli infermi, rifiutati da Lutero ma considerati dalla Chiesa cattolica istituiti direttamente da Cristo.

Nella terza fase, si andò invece al rafforzamento della Chiesa di Roma, potenziando il Sant'Uffizio e pubblicando l'Indice dei libri proibiti, un elenco di testi la cui lettura veniva proibita ai fedeli per via di contenuti eretici o moralmente sconsigliabili.

Nel 1559 divenne quindi papa Pio IV, il quale con l'aiuto del nipote cardinale Carlo Borromeo, futuro arcivescovo di Milano, riaprì, nel 1562, i lavori conciliari. Venne affrontata la questione del sacrificio della Messa, considerato memoriale e "ripresentazione" in maniera reale dell'unico sacrificio di Gesù sulla croce, sacerdote e vittima perfetta, condannando con ciò le idee luterane e calviniste della Messa come semplice "ricordo" dell'ultima cena e del sacrificio di Cristo.

Nella XXIII sessione si riaffermò il valore del sacramento dell'ordine, considerato istituito da Gesù, e la legittimità della struttura gerarchica della Chiesa, costituita in primo luogo dal pontefice romano, successore di Pietro, e dai vescovi, successori degli apostoli. Vennero quindi approvati i decreti di riforma sulla presenza di seminari in ogni diocesi e sull'ammissione dei candidati al sacerdozio.

La XXIV sessione si soffermò invece sul sacramento del matrimonio, considerato indissolubile secondo l'insegnamento di Cristo, e stabilì le norme per un eventuale suo annullamento; venne poi confermata e resa vincolante l'usanza del celibato ecclesiastico. Si decise inoltre che ogni parroco dovesse tenere un registro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni e delle sepolture. Ai vescovi fu imposto di compiere la visita pastorale ogni anno, completandola ogni due anni.

Nella XXV e ultima sessione venne infine riaffermata la dottrina cattolica sul Purgatorio e sul culto dei santi, delle reliquie e delle immagini sacre; venne approvata quindi la pratica delle indulgenze. Vennero infine affidate al pontefice e alla curia romana alcune questioni rimaste in sospeso per la mancanza di tempo: la revisione del breviario e del messale, del catechismo e dell'Indice dei libri proibiti.

 

La fase sperimentale del trapianto di cuore inizia nel 1905 con Carrel Guthrie, che operò un trapianto cardiaco eterotopico da cane a cane. Nel 1960 Lower e Shumway descrivono il primo trapianto cardiaco ortotopico nell'animale.

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Christiaan_Barnard_1968

Il primo trapianto di cuore al mondo fu eseguito il 3 dicembre 1967 dal chirurgo sudafricano Christiaan Barnard all'ospedale Groote Schuur di Città del Capo, su Louis Washkansky, di 55 anni, che morì 18 giorni dopo. La donatrice fu una ragazza di 25 anni, Denise Darvall, morta in seguito a un incidente stradale. Il 2 gennaio 1968 lo stesso professor Barnard eseguì il secondo trapianto cardiaco sul dentista Philip Bleiberg, che visse con il cuore nuovo per 19 mesi.

Nel 1968 iniziò il programma clinico a Standford per la ricerca sui trapianti di cuore, mentre è del 1972 l'introduzione della biopsia endocardica per il monitoraggio del rigetto acuto. Il primo ritrapianto di cuore è stato effettuato nel 1975 e, nel 1980, viene introdotta la ciclosporina come farmaco antirigetto.

Il primo intervento di trapianto cardiaco in Italia fu eseguito il 14 novembre 1985 a Padova, dall'équipe del professor Vincenzo Gallucci, che trapiantò con successo il cuore di un ragazzo di 18 anni sul mestrino Ilario Lazzari, che visse fino al 1992.

Il 2 dicembre del 1967, a Città del Capo, in un incidente d'auto perde la vita la signora Myrtle Ann Darvall, mentre la figlia Denise, una ragazza di 25 anni, ha le ore contate, a causa delle ferite riportate. In cura all'Ospedale Groote Schuur c'era in quel periodo un droghiere ebreo di 54 anni, Louis Washkansky, che soffriva di diabete e di un incurabile male cardiaco. Barnard parla con il padre di Denise, che dà il suo consenso per il trapianto. Il primo trapianto di cuore umano al mondo viene effettuato il 3 dicembre 1967: l'operazione è condotta da Christiaan Barnard, assistito dal fratello Marius ed un team di una trentina di persone (nel quale era presente anche Hamilton Naki). Dopo 9 ore in sala chirurgica il cuore della defunta Denise Darvall viene impiantato nel corpo di Washkansky e funziona regolarmente.

La sensazionale notizia fa il giro del mondo in poche ore: Barnard diventa l'uomo del momento.

Passato l'entusiasmo, il problema del trapianto diventa l'eventuale rigetto. Dopo una settimana in cui le condizioni di Washkansky sembrano buone, il 9 dicembre i globuli bianchi nel sangue diminuiscono, il 15 la diagnosi: polmonite doppia, indotta dai farmaci immunosoppressivi che stava assumendo il paziente. Tra il 16 e il 20 dicembre le condizioni di Washkansky si fanno gravissime, la polmonite non è curabile. La notte del 21 dicembre 1967 Washkansky muore, diciotto giorni dopo il trapianto.

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Nonostante il primo paziente con il cuore di un altro essere umano sia sopravvissuto poco più di due settimane, l'operazione di Barnard costituisce una pietra miliare per la chirurgia.

Barnard in pochissimo tempo diventa una stella internazionale, ed è celebrato in tutto il mondo: il suo viaggio in America con la moglie diventa un vero e proprio trionfo mediatico, tra partecipazioni a show televisivi, incontri nelle università e con politici e scienziati.

 

Il Re dei Franchi, che saranno il nerbo dello stato francese, Carlo Magno era stato incoronato imperatore di quella che doveva essere la prima (inconsistente, come adesso!) idea d’Europa, cioè il Sacro Romano Impero, la notte di Natale dell’800.

Incoronazione-Napoleone J L David

Napoleone scelse invece il 2 Dicembre.

Ormai Console a vita, Napoleone era in pratica sovrano assoluto della Francia. Il 18 maggio 1804 il Senato lo proclamò Imperatore dei Francesi.

Il 2 dicembre del 1804, nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi, fu celebrata la cerimonia di incoronazione:dopo che le insegne imperiali furono benedette da Papa Pio VII, Napoleone incoronò prima se stesso imperatore dei francesi, e quindi imperatrice sua moglie Giuseppina di Beauharnais. Sono apocrife le voci secondo cui Napoleone avrebbe strappato la corona dalle mani del Papa durante la cerimonia, per non assoggettarsi all'autorità pontificia: Papa Pio VII si aspettava la mossa e non toccò mai la corona con le sue mani.

Molto diversa era sata l’incoronazione di carlo magno che quasi non avrebbe voluto quell’onore, in pratica di essereil nuovo imperatore dell’Impero Romano d’Occidente, per non inimicarsi l’Impero Bizantino, al quale manderà ambascerie.

E fu un atto fortemente voluto dal Papa, Leone III che era stato liberato dalla prigione dove lo avevano rinchiuso i nobili romani avversari proprio dai Franchi e che grazie a loro stava e rimase sul soglio pontificio.

Quello di Napoleone era un atto simbolico e di immagine per l’uomo che voleva avere sotto di sé tutta l’Europa.

E poco dopo ripetè l’atto, il 26 maggio 1805 nel Duomo di Milano, quando Napoleone fu incoronato Re d'Italia con la Corona Ferrea, da sempre custodita nel Duomo di Monza.

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L'incoronazione a Milano fu fastosa, e accompagnata dai suoi più fedeli collaboratori in Italia, come il cardinale Bellisoni, il Fenaroli, il Baciocchi, il Melzi e l'Aldini. In questa occasione Napoleone, postosi la corona imperiale sul capo pronunciò le famose parole: "Dio me l'ha data, guai a chi la tocca".

 

Rinasceva in Francia la monarchia, ma non era la stessa monarchia rovesciata nel 1792, privata dei poteri già nel 1789. Napoleone non era «re di Francia e di Navarra per grazia di Dio», come citavano le formule dell'Ancien Régime, ma «Imperatore dei francesi per volontà del popolo», anche se i documenti ufficiali mantenevano una formula di compromesso («Napoleone, per la grazia di Dio e le costituzioni della Repubblica, Imperatore dei Francesi»). Fu in sostanza un nuovo re dei francesi, tanto che da lui hanno origine molte delle attuali monarchie moderne europee; e fu in effetti una monarchia, poiché Napoleone era padrone assoluto, anche se una monarchia che però non si rifaceva alla nobiltà feudale dell'Ancien Régime, ma nella quale si attuavano alcuni princìpi illuministici della borghesia.

La giornata mondiale contro l’AIDS ha un sapore amaro perche’ non dobbiamo dimenticare che l’epidemia continua a provocare oltre 1,6 milioni di vittime ogni anno.

Ma di questo male oscuro, moderno e per molti versi inspiegabile, l’uomo parla sempre meno: quasi ci fosse un senso di colpa, di paura. Con una conseguente rimazione.

Eppure, oggi, secondo i dati dell’OMS, più di 18 milioni di persone hanno bisogno di essere inserite nei programmi di cure. L’AIDS rimane la principale causa di morte per gli adulti,soprattutto nell’Africa sub-sariana dove l’HIV/AIDS continua a distruggere vite e comunità.

Purtroppo l’impegno della comunità internazionale nella lotta contro l’HIV/AIDS ha subito un forte rallentamento. Importanti agenzie, come il Fondo Globale, hanno avuto una forte diminuzione nei fondi, che impediscono di raggiungere gli obiettivi per inserire più persone nei programmi di cura.

Milioni di persone sono ancora in attesa di cure. La lotta non è finita

Oggi, 9,6 milioni di persone affette da HIV/AIDS devono seguire un trattamento che dura tutta la vita, i farmaci antiretrovirali costano meno di un tempo, esistono più centri per la diagnosi

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e i trattamenti e nuovi modelli di cura più accessibili ai pazienti. Nei posti in cui le persone possono accedere a questi servizi, il numero delle nuove infezioni diminuisce ogni anno.

I risultati positivi hanno trasformato quella che era una condanna a morte in una malattia cronica gestibile - per chi segue il trattamento.

Negli ultimi anni, si sente sempre più frequentemente che la fine dell’epidemia di AIDS è vicina. Ma, per raggiungere l’obiettivo, si deve fare in modo che ulteriori progressi non vengano limitati o addirittura bloccati da un’implementazione troppo lenta delle strategie per combattere l’HIV.

In alcuni Paesi colpiti dall’epidemia del virus dell’HIV, la situazione è ancora critica. Il fallimento nel riconoscere la situazione, mette a rischio i piani per rendere il trattamento accessibile a più persone, e ostacolerà l’introduzione di misure che hanno dimostrato di poter prevenire efficacemente la diffusione della malattia.

La Giornata mondiale contro l'AIDS, indetta ogni anno il 1º dicembre, è dedicata ad accrescere la coscienza della epidemia mondiale di AIDS dovuta alla diffusione del virus HIV. Dal 1981 l'AIDS ha ucciso oltre 25 milioni di persone, diventando una delle epidemie più distruttive che la storia ricordi.

Anche se l’uomo è stato capace, in pochi anni, di frenare quella che pareva come una pandemia inarrestabile!