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Voglia di riscatto

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La rivolta di Matera. Prima degli alleati.

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Presentazione

A sessanta anni dal 21 settembre del 1943, Vito Sebastiani ci offre la possibilità di ripercorrere i fatti di quella gloriosa giornata materana at-traverso una ricostruzione affidata in primo luogo al ricordo personale. Egli, allora appena dodicenne, si trovò coinvolto negli eventi, che ora rievoca in maniera appassionata e con grande partecipazione civile. La strada in cui abitava la sua famiglia, via Cappelluti, fu infatti uno dei luoghi centrali dello scontro tra insorti e pattuglie tedesche: lì vi era la caserma della Guardia di Finanza; lì caddero il finanziere Vincenzo Rutigliano e Emanuele Manicone; lì vi era l’abitazione del farmacista Raffaele Beneventi, appostatosi armato alla finestra e colpito a morte; lì, proprio nel portone dell’Incis, si registrarono alcuni episodi dram-matici della resistenza e della liberazione della città: si accolsero i feriti, dando loro l’assistenza che si poteva, e lì, tra i rifugiati e gli allertati, comparve ad un certo punto il mitico ufficiale inglese Ganger.

Partendo da questa esperienza personale, intimamente e profonda-mente vissuta, il racconto si sviluppa in cerchi sempre più larghi, fino ad abbracciare tutto l’insieme degli avvenimenti, completandoli con l’aggiunta di altre testimonianze raccolte non solo attraverso la docu-mentazione già nota, ma anche attraverso interviste e ricordi di altri cittadini e di altri testimoni.

Il quadro che ne deriva è perciò quanto mai interessante ed incal-zante. Non si tratta, ovviamente, di un saggio storico in senso stretto, ma piuttosto di una narrazione affidata alla memoria e sorretta da va-lutazioni e commenti che conducono il lettore a comprendere meglio il significato effettivo di quella insurrezione, il valore altissimo dei singoli episodi e dei singoli protagonisti, l’importanza ancora attuale di quella giornata, per Matera e non soltanto per Matera. Si trattò indubbiamente di una giornata assai importante, e le tesi qui sostenute sono estrema-mente precise: si pensi, ad esempio, al fatto che Sebastiani respinge con decisione il tentativo emerso in passato - sia pure con molta timidezza - di rubricare la violenza perpetrata dalle truppe naziste a Matera come una sorta di regolare rappresaglia, e quindi in qualche modo giustifica-

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bile. Si trattò, invece, di un ingiustificato e barbaro assalto contro una popolazione civile, e quindi va considerato a tutti gli effetti come un vero e proprio crimine di guerra.

L’insurrezione materana è nota da sempre. Il primo resoconto uf-ficiale fu quello del colonnello Rocco Sanseverino; seguirono poi gli scritti fondamentali di Francesco Paolo Nitti - qui ora giustamente riva-lutato - che, come si sa, aveva assunto allora anche un ruolo di primo piano nell’organizzazione di quei fatti; vennero poi le pagine straordi-narie di Carlo Levi su “L’Illustrazione Italiana” e le citazioni di Roberto Battaglia prima e di Giorgio Bocca dopo, mentre Angelo Matacchiera dedicava al 21 settembre la sua Canzone Civile e, più recentemente, Giovanni Russo rievocava (nel suo Le Olive Verdi) la figura del giovane Michele Francione… Mancava tuttavia una trattazione così ampia ed oggettiva, anche se personalissima e perciò ancora più apprezzabile.

D’altra parte, nel panorama storiografico della Resistenza italiana è difficile negare o ignorare il ruolo di Matera, come prima città del Mez-zogiorno d’Italia ad insorgere contro il nazi-fascismo ed a partecipare perciò attivamente alla guerra di Liberazione nazionale. Nel Dizionario della Resistenza pubblicato da Einaudi tre anni fa, Gloria Chianese, pur senza soffermarsi adeguatamente sui fatti, ha felicemente annotato che “la rivolta di Matera precedette cronologicamente tutte le altre”. Essa “si collocava in un clima di crescente insofferenza della popolazione civile contro i soprusi dei nazisti”; essa “divampò dopo l’ennesimo episodio di rapina in una gioielleria del centro cittadino e vide la parte-cipazione di militari dell’esercito e della Guardia di Finanza. L’ufficiale Francesco Nitti, rimasto a presidiare il comando di sottozona, distribuì armi agli insorti; gli scontri si propagarono in tutta la città e un ruolo di leader fu svolto da Emanuele Manicone; i civili uccisi furono venti-due”. Né va dimenticato, secondo questa medesima studiosa, che non solo a Matera, ma anche un po’ in tutta la regione “era rimasta memo-ria delle violenze dello squadrismo fascista, particolarmente aspre in molti comuni della provincia” e che “durante gli anni del regime la rete antifascista clandestina era stata sorretta anche attraverso l’influenza di alcuni confinati”, tra i quali, oltre a Guido Miglioli citato dalla Chia-nese, vanno naturalmente ricordati Carlo Levi, Camilla Ravera, Manlio Rossi Doria, Franco Venturi e tutti gli altri, numerosissimi, segnalati da Leonardo Sacco nel suo volume dedicato appunto ad Una provincia di confino.

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Ma un altro aspetto che qui è opportuno almeno segnalare è quello relativo alla riflessione storiografica (appena avviata) della Resistenza nel Mezzogiorno d’Italia: non si trattò solo di eccidi e di stragi, che pure furono molti e tragicamente dolorosi, ma anche di partecipazione atti-va, di militari e di civili, nelle campagne e nelle periferie meridionali, oltre che, ovviamente, a Napoli. Nella vicina Puglia, ad esempio, da tempo ormai Vito Antonio Leuzzi va richiamando l’attenzione degli studiosi su questo punto. Nel Sud d’Italia, naturalmente, la Resistenza veniva ad assumere non tanto il significato di guerra civile e fratricida, quanto quello prevalente di Guerra di Liberazione o tout-court di guer-ra democratica (secondo la definizione dell’intera Resistenza Italiana introdotta da Paul Ginsborg). In tale quadro probabilmente, come è il caso della Basilicata da me posto in evidenza altre volte, la lotta politica antifascista e per la democrazia si venne ad intrecciare talora in ma-niera anche molto vistosa - tanto da essere quasi una sola cosa - con le lotte del movimento contadino per ottenere più giusti equilibri sociali nelle campagne. Da questo punto di vista, alcune recenti annotazioni di Claudio Pavone sembrano sottolineare tale aspetto, ad esempio quando questo autorevole autore riconosce esplicitamente “corretto” e ben posto “il confronto della Resistenza con i movimenti contadini del Mezzogiorno”.

Il racconto di Vito Sebastiani non affronta direttamente tali temi;

ma non vi è dubbio che esso si muova chiaramente in una prospettiva analoga, fortemente incentrato com’è sul motivo del riscatto sociale e politico che mosse la città in quei frangenti. Diretto soprattutto a man-tenerne viva la memoria, esso si ispira alla necessità di tenere alta la coscienza di quell’episodio, riconoscendolo finalmente, ed in maniera unitaria, come parte integrante della tradizione meridionale e di un patrimonio storico che rientra a pieno titolo, ed in maniera tutt’altro che marginale, tra i caratteri civili nostri, utili a meglio definire, al di là degli stereotipi populistici e delle reticenze interessate, l’identità di un intero popolo.

Matera, marzo 2003Raffaele Giura Longo

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tra i luoghi della rivolta

Via Cappelluti era allora una via breve, non asfaltata, tracciata per i carri agricoli e le bestie da soma, con al termine una fila di case piatte, costruite in mattoni monotoni e cupi, quelli della fornace situata ancora più in fondo e in aperta campagna, a ridosso della galleria della Ferrovia Calabro Lucana. Sarebbe stata una strada irrilevante come altre della città se non avesse avuto, almeno fino ad un tratto, alcune costruzioni che le donavano un certo lustro.

Sulla sinistra: l’abitazione delle famiglie Passarelli-Beneventi; la villa di Lacalamita, con ampio giardino interno ceduta in fitto al Comando della Guardia di Finanza; il palazzo della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), una specie di casermetta con cortile e altre aree libere, luogo di addestramento fisico-militare della gioventù fascista, attualmente sede di uffici regionali; il palazzo Genovese, con i primi segni di architettura moderna; dopo un tratto di orti rigogliosi, isolata, la villa di Cappelluti, titolare della fabbrica di laterizi.

Sulla destra: la casa-villa di Brucoli, con giardino in vico I Cappelluti e, poco prima, una delle due facciate del palazzo INCIS (Istituto Na-zionale Case Impiegati dello Stato), maestosa e austera con il grande e massiccio portone in legno sormontato da una lunetta in vetro e da un lungo balcone al primo piano sostenuto da robuste colonne. Un prospetto monumentale, con ampie finestre, decorazioni e medaglioni sporgenti dal cui interno si affacciano teste di uomini dallo sguardo severo che ostentano forza fisica e ostinazione.

Il complesso edilizio, costruito nel 1927 per gli impiegati statali, era l’espressione del momento storico dell’epoca: una grande opera che esaltava la magnificenza del fascismo nel mezzo di una visione scialba della realtà. Ora è un ricordo della retorica di quei tempi.

La mia famiglia abitava in uno degli appartamenti di quell’imponen-te palazzo, che, pur trovandosi a qualche centinaia di metri dal centro cittadino, era praticamente in periferia, perché bastava girare un angolo qualsiasi di strada per trovarsi in aperta campagna.

Si collocava tra i poggi del Castello e di Macamarda, dall’alto dei quali si apriva una prospettiva ariosa su un’ampia valle. In quel tempo erano ricchi di orti e di vigneti, oliveti e castagneti, con poche casette

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rurali sparse sui versanti. Oggi si avrebbe avuto piacere, inavvertito allora perché abituale, di inebriarsi di aria pulita e degli odori della ter-ra fertile, bagnata dalle acque sorgive che affioravano in superficie. Su quelle aree vuote il cemento ha coperto il verde e non si contano più i numeri civici aggiunti. L’imponenza e l’austerità del palazzo INCIS sono rimaste occultate dagli edifici costruiti intorno, che negano all’occhio la vista di aperti orizzonti, completamente nascosti, senza nemmeno uno spiraglio. La strada non è più di periferia, l’aria è densa di smog e colma di rumori logoranti.

Anche l’acqua, tanto preziosa, che alleviava la sete dei campi, riem-piva allora le grosse cisterne del centro storico della città e che sgorgava copiosa dalla fontana di re Ferdinando II, trasferita inutilmente in un angolo inglorioso della villa comunale da amministratori dimostratisi privi di sensibilità culturale, si è oggi dispersa in più direzioni, costretta a nascondersi nel fondo della terra.

A pensare che nel lontano 1810 era stato un francese, il generale conte Carlo de Montigny, a interessarsi del grave problema dell’acqua che affliggeva i materani. Regnava Gioacchino Murat che, sensibile ai desideri dei suoi sudditi, aveva dato avvio a un programma di lavori di pubblica necessità. Il generale francese scelse Matera come sede di residenza, un paese del quale ne era rimasto affascinato. Costruì la strada che collegava Matera a Miglionico.

Da uno scritto del Brettagna: “La bella carrozzabile che da Matera conduce a Potenza, costruita

durante l’occupazione del generale francese de Montigny, che nel suo affetto per questa terra si proclamò cittadino lucano, si svolge come un largo nastro tutto a giravolte, a salite, a discese per la campagna bianca d’argilla dove il frumento eleva la sua fremente spiga aurata. E s’arram-pica sul colle dove, turrito e forte, sorge Miglionico”.

Con panchine e tanto verde alberato, tracciò nella città di Matera un viale che dalla piazza portava sulla collina del castello ove abitava in una villa sontuosa che gli offriva aria salubre, tranquillità e splendidi oriz-zonti. Incanalò la ricca falda acquifera di quella zona per farla sgorgare nel centro cittadino. Un vero dono per i materani assetati.

Ferdinando II nel 1832 riprese l’iniziativa ampliando la rete idrica e magnificando l’opera con la monumentale fontana, a ricordo di un lavoro che in quell’epoca risultò di grande rilevanza. Da allora si attese l’anno 1927 per ricevere l’acqua potabile dagli spruzzi delle fontane sparse. Quel monumento non è più là. Non allietano più la piazza la sua bellezza e il mormorio dell’acqua che zampillava, sgorgava, gocciolava dalla vasca, esplodeva, ‘a cannone’, come si diceva, dalle bocche aperte delle maschere laterali.

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Anche la via per il castello, degnamente intitolata a de Montigny che l’aveva tracciata, (via Montagnini per i materani), mutò denominazione con le amministrazioni democratiche. Ora è via Gramsci, al quale poteva essere dedicata un’altra nuova strada.

Dopo circa due secoli si annovera una piazza mutilata e una strada storica dimenticata.

Nel centro della città un commerciante ha saputo mantenere le tracce del de Montigny intitolando al benefattore francese il suo negozio di raffinata eleganza. Nella vetrina di esposizione è suggestivo ammira-re l’acqua che sgorga da una maschera, parte di una riproduzione in tufo della vecchia fontana, e che si raccoglie in una conca di pietra. Un cittadino sensibile alla conoscenza storica ha conservato il ricordo di chi ha onorato la città. Chi invece doveva farlo per pubblico dovere ha preferito cancellarlo.

Quando avevo ancora la voce e la voglia di farmi sentire, in una riunione aperta a tutti i cittadini, feci presente alle autorità locali che la fontana non doveva essere trasferita in altra parte della città, in os-servanza della toponomastica (era ’piazza Fontana’ per i materani, ora è conosciuta come piazza Vittorio Veneto) e, soprattutto, perché i mo-numenti non devono essere rimossi, ma lasciati là dove erano sorti per il rispetto verso la storia e l’arte. Mi fu risposto che «avevo simpatia di tempi ormai perduti e che ero rimasto fermo al medioevo in un momento di civiltà avanzata che richiedeva più spazio alla piazza … per snellire il traffico (??)». Volevano favorire, proprio nell’agorà materana, luogo di riunione e di passeggio serale, il movimento di macchine fumose e di moto dal rombo lacerante. L’aria? Quella dei rifiuti tossici. Ora il centro storico è solo dei pedoni, perché soffocava sotto la coltre della nebbia nera, e la fontana non può ritornare alla sede originaria perché la vasca e altre parti del monumento sono state affogate nel cemento, tanto da non poterla trasferire senza comprometterne l’integrità.

È tardi per ritrovare … il medioevo. Le remote avvenenze, suggestive nel loro insieme, sono state in parte eliminate o sepolte per dar posto a nuovi palazzi mal concilianti con la vetustà degli altri ancora in piedi.

L’opera di ‘ammodernamento’ cominciò con l’avvento del fascismo e continuò per anni ancora con la politica di taluni governi locali. L’intento era di dar lustro alla città e renderla più attuale, al passo con i cambia-menti frenetici imposti dalla quotidianità.

Quel complesso di ‘tuguri cadenti e malsani’ era da sventrare per ‘avere una città nuova costruita su una vecchia’, all’insegna del fascio littorio prima e degli interessi privati poi, tutelati dai potenti di sempre. Del resto anche nella capitale d’Italia s’era distrutto un inestimabile patrimonio archeologico per costruire ‘la Via dell’Impero’, quella delle

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sfilate, manifestazioni ampollose e vacue. Così, col passar del tempo, si assistette all’abbattimento di ‘superate costruzioni’ per edificare le sedi del Banco di Napoli, delle Regie Poste, dell’INA, della Banca Popolare del Materano, della Banca di Calabria e di Lucania.

La Banca d’Italia sorse là dove da secoli era ubicato, accanto alla chiesa di San Francesco d’Assisi, il convento seicentesco francescano, struttura di indubbio interesse storico-culturale, che aveva ospitato nel tempo il carcere giudiziario, la caserma dei carabinieri, la sede dei telefoni e dell’elettricità, l’Opera Nazionale Balilla, le scuole elementari ed altri uffici ancora.

Negli anni 60 fu abbattuta e raccolta in pezzi l’antica Porta Pepice, che apriva la via delle Beccherie, insieme ad alcune vecchie case e botteghe, tra cui una macelleria dalla quale si accedeva alla cripta di San Marco, immensa e interessante per i suoi segni religiosi, le celle funerarie, il vasto forno a legna, le enormi cisterne. Tutto sommerso dal cemento per gettare le fondamenta di un grande stabile di disarmonico stile moderno. Il convento francescano, la porta antica e la chiesa rupestre, conservatisi per secoli nel centro della città, sono state cancellate dalla storia millenaria e dalla memoria. Dovevano incutere solo rispetto e ammirazione.

Così pure fu demolita, non si sa per quale recondito motivo, la chiesa di Piccianello, di indubbio stile e di elegante bellezza, per sostituirla con un’altra di gusto improvvisato ed eterogeneo. In un suggestivo squarcio murgiano, tra rocce erte e scoscese, ora appiattite e in parte nascoste, la chiesa rupestre di San Giacomo, dalla quale prende nome il rione, è stata di recente deturpata dalle ruspe per allargare un’area edificabile, oggi fitta di palazzi che hanno reso e rendono ancora notevoli guadagni.

Senza evidenziare i vecchi nobili palazzi, inglobati e sopraelevati da strutture architettoniche che non incantano l’occhio ma straziano il cuore.

Gli scenari sono così cambiati, perduti nella memoria, e i giovani non trovano tutte le tracce di una cultura che pur appartiene a loro. Il cuore palpitante della città, che prima segnava le radici profonde del suo passato, è un impasto ibrido, sconcertante e senza senso. Uno scempio ambientale e culturale. È rimasta una piazza imperfetta e manchevole di una parte della sua storia.

È lì che spesso mi ritrovo con i miei coetanei, per ripercorrere gli anni trascorsi dei quali noi stessi ne fummo parte. Una generazione, propensa a rimembrare, che vuol dare un significato alla memoria e non per rim-piangere il vissuto insieme, ma per sperare nel futuro degli altri. Così, puntuali nelle passeggiate della sera, dall’inizio del corso al termine e viceversa, abbiamo tante volte rivissuto quel 21 settembre 1943, senza dar sfogo alle immaginazioni.

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le ansie

Avevo dodici anni in quel lontano pomeriggio. Un martedì con l’aria mite e il cielo di un azzurro intenso: il dolce saluto dell’estate che esau-riva il suo ciclo.

Aleggiava però qualcosa di strano che allora, spensierato ragazzo, pur avvertivo. In via Cappelluti, stretta e polverosa, meno frenetica e più assolata di oggi, mancavano i rumori che caratterizzavano l’intensità della vita quotidiana e dei suoi dinamismi: il sobbalzare rumoroso dei carri agricoli di ritorno dalla campagna, l’ordinario viavai di persone affaccendate, i saluti che gli amici si scambiavano da un marciapiede all’altro, gli strilli festosi dei bambini che, lasciati liberi dopo i compiti di scuola, trascorrevano gli anni in cui pareva che vivere e gioire fossero la stessa cosa.

Un silenzio inconsueto che fu appena interrotto dal rombo del motore della “Balilla” targata MT 900. Era il veterinario Petrillo che rientrava a casa prima del solito. In tutti c’era qualcosa che li faceva palpitare: gravava l’incognita sugli eventi che stavano maturando e preferivano rimanere in famiglia.

La vita si era assopita sotto quel cielo che sembrava irripetibile e quel sole che ancora inebriava le facciate delle case.

Solo ‘ciacciarìdd’, il ciaccione, non perdeva l’abitudine di occupare le ultime ore del pomeriggio lavorando nel suo orto (attuale area della sede INPS). Il ‘pirata ortolano’, come lo chiamavamo noi ragazzi perché portava un fazzoletto colorato annodato dietro la nuca e un pesante anello che gli allungava a dismisura il lobo dell’orecchio, zappettava col silenzio intorno, senza poter ciarlare com’era solito fare con le sue facezie, spesso amare e pungenti.

Mancando l’abituale stridore, i colpi ritmati della zappa sull’arido seccume scandivano il tempo e scuotevano il piatto ambiente, mentre incombeva un’atmosfera da scenari metafisici con un diffuso senso di distacco dalla realtà, perché quella quiete quasi evanescente sembrava di sogno.

Lungo la via segni sparuti di animazione, mai così ovattata. Solo qualcuno al balcone in preoccupata meditazione e un capannello di uomini al centro della strada. Erano quelli ‘del palazzo degli impiegati

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statali’ che discutevano sul daffare, nell’attesa dell’arrivo delle truppe alleate già alle porte di Matera. Dovevano concordare il modo migliore per scongiurare ogni pericolo nel caso in cui l’occupazione della città si fosse risolta con uno scontro armato casa per casa o, peggio ancora, con un bombardamento da parte dei ‘liberators’ americani, le poderose fortezze volanti che quotidianamente oscuravano il cielo passando con rombo assordante e minaccioso. Erano così grandi che sembravano vo-lassero a bassa quota, quasi a toccarli.

La loro mente non era libera da pensieri. Alcuni giorni prima c’era stata un’avvisaglia. Era già sera quando all’improvviso un acuto rumore emerse dal silenzio e scosse l’aria. Un aereo da caccia passò sulle nostre teste mitragliando in direzione della colonia elioterapica sull’altura del castello, sede del comando militare tedesco.

Fu soltanto un passaggio, una ventata di paura che spinse alcune famiglie nella vicina campagna temendo un bombardamento sulla città. Un mio fratello, allora bambino, ricorda quella sera: durante la corsa generale perdette una scarpa che non ritrovò. Non si dette pace.

Forse informatori segreti avevano segnalato agli alleati dove era locata la sfera del comando tedesco, che due giorni dopo, 19 settembre, si trasferì nella Caserma della Milizia.

Gli inquilini del palazzo INCIS decisero di rimanere negli scantinati del palazzo: offrivano la possibilità, in caso di necessità, di uscire attraver-so i lucernai che, a livello della strada e del cortile interno, attorniavano l’intero perimetro dello stabile. Esclusero il rifugio antiaereo costruito su un triangolo di terreno incolto di vico I Cappelluti. Quel budello, lungo una ventina di metri, scavato nella terra e con le entrate senza porte alle due estremità, sporco riparo per topi e cani randagi, non poteva che essere una trappola. Era stato costruito per la protezione dei cittadini, ma nessun ricovero era più inutile di quello.

Incuriosito, seguivo la discussione senza avvertire alcuna preoccupa-zione. Non era la solita incoscienza dei ragazzi. Già nel 1940 a Milano, dove allora risiedeva la mia famiglia, ero stato negli scantinati con tanti altri del palazzo durante i primi bombardamenti sulla città. Tranne qualche boato lontano e i colpi di una mitragliatrice antiaerea posta sul terrazzo di una caserma vicina, non avevo assistito a morti e rovine, per cui il ricordo era limitato alle ore sottrattemi al sonno e al pigia pigia nei locali interrati sotto lo sguardo attento dell’incaricato UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) che, con la maschera antigas a tracolla e l’elmetto in testa, vigilava regolando l’ordinato afflusso al rifugio.

Da un po’ di giorni si era assistito alla ritirata dell’esercito tedesco. Colonne di carri armati e mezzi di trasporto, ad intervalli regolari, erano transitati per via Lucana.

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Una parte prese la strada per Potenza, via Gravina e Irsina, un’altra per Bari. Durante l’esodo non mancarono i mitragliamenti degli aerei alleati. I materani cominciarono a vivere i fatti tragici della guerra, quelli della distruzione e della morte.

I figli di Francesco Paolo Chiechi mi hanno raccontato la loro sto-ria.

Il padre, che si era trasferito da Marsico Nuovo, da otto giorni era il casellante di ferrovia a ‘Le Rondinelle’, sulla strada per Bari. Il giorno 17 settembre era salito sul carro agricolo del contadino Giovanni Cristalli al quale aveva chiesto un passaggio per il ritorno a casa. Il mulo camminava spedito sulla strada a lui nota. All’improvviso un rombo assordante e un crepitio di mitragliatrici. Alcuni aerei da caccia avevano individuato mezzi militari germanici e avevano mirato sui soldati, volando quasi a sfiorare la terra, perfettamente allineati, virando e accodandosi al termine del passag-gio. I tedeschi si ripararono sotto ‘il grande ponte’ della ferrovia mentre il carro incrociava i proiettili e volava in pezzi. I due, colpiti a morte, caddero uno sull’altro. Chiechi aveva 47 anni e lasciava quattro figli.

Quando le mogli accorsero sul posto dopo che era giunta la notizia del fatto, seppero dai tedeschi che i mariti erano stati trasportati diret-tamente al cimitero.

«Vigliacchi inglesi! ... uccidere due lavoratori» dissero alle donne disperate, ignorando, forse, che in quel giorno a Matera iniziava la cattura degli ostaggi, tutti cittadini senza colpa, ma ben sapendo del massacro compiuto il 12 settembre a Barletta, senza alcun motivo, a danno di 2 spazzini e 9 vigili urbani che avevano deposto le pistole, spinti col calcio delle armi lungo il muro dell’edificio postale e mitragliati spietatamente.

Quel venerdì 17 per i famigliari di Chiechi e di Cristalli fu veramente nefasto.

I tedeschi erano in fuga inseguiti dal fuoco degli aerei alleati. Ciò poteva tranquillizzare alquanto gli animi in ansia. Ma la loro preoccu-pazione era per quei soldati che, su motocarrozzette e altri mezzi celeri, costituivano la retroguardia con il compito di eliminare ogni potenziale bellico esistente in città e di esercitare operazioni di disturbo per ral-lentare la marcia degli alleati. Avevano incendiato vagoni ferroviari e una locomotiva, minato ponti e strade, disarmato le caserme (Avieri nei palazzi dell’Annunziata e Lanfranchi, Guardia di Finanza in via Cap-pelluti) e altri militari in servizio presso la Prefettura, bruciando le armi e le munizioni in un’area a ridosso del campo sportivo.

Ma non tutto fu consegnato perché fucili, cassette di munizioni e bombe a mano prudentemente furono occultati sotto terra nell’orto di guerra della Guardia di Finanza o portati via. Il prof. Francesco Paolo

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Nitti, ufficiale materano in servizio presso la Sottozona, egli stesso provvide al trasporto di bombe a mano, avvolte in coperte militari, per occultarle in casa sua e nella stalla dell’Ing. Staffieri. Lo aiutarono un suo amico, prof. Eugenio Turri, che diceva «giocare a rifare il Risorgimento», e un suo soldato.

Il tutto sembrava rientrare nella normalità delle azioni riservate ad un esercito in ritirata. I materani però, nell’attesa degli eventi futuri, pur vivendo la loro vita normale, si nutrivano di trepidazioni per le notizie che giungevano da più direzioni. Sapevano che i militari dalle grigie livree si muovevano in ogni zona della campagna vicina, senza disdegnare di apparire arroganti e prepotenti quando, armi in pugno, sottraevano bottiglie di vino, panieri di frutta, polli, tacchini e conigli che uccidevano fracassando il capo contro i tronchi degli alberi.

Fuori dal centro abitato, come cani sciolti, spuntavano da ogni parte e agivano sicuri, senza essere disturbati, per cui a qualche donna anziana e indifesa, nonostante il tono supplichevole e lo sguardo pietoso, fu facile prelevare la fede nuziale.

Ad un contadino capitò che, mentre si intratteneva con la numerosa famiglia nella sua casetta in contrada Piccianello all’estrema periferia della città, sentì la porta aprirsi violentemente e vide due tedeschi armati di mitragliatore irrompere nel centro della stanza. Dopo aver dato uno sguardo al luogo, un monolocale che non offriva alcunché di interessan-te, se non l’aspetto di una misera casa, chiesero qualcosa da mangiare, con forza, come una giusta pretesa. L’uomo, intimorito, rimase un po’ perplesso, poi si precipitò verso il cassone, rilevò l’unico pezzo di pane che aveva e, aiutandosi con la mimica, fece capire che l’avrebbe tagliato per dividere quella poca cosa tra loro due e la sua famiglia. I militari ebbero un momento di indecisione. Per un po’ si guardarono in viso, poi voltarono le spalle e andarono via.

Cosa stava succedendo nessuno riusciva a intendere di fronte a tanta prepotenza. Eppure, fino a poco tempo prima, erano gli stessi materani a donare qualcosa da mangiare a quei soldati, quando capitava l’occasione. Il pensiero andava ai loro figli anch’essi militari in terre lontane, forse affamati pure loro. Ma era anche l’abito caritatevole di una popolazione semplice e buona che offriva, con senso di umanità, un po’ di luce nel buio delle regole della guerra, che non aveva capita né voluta. Il conflitto armato non si vedeva, se non nei suoi riflessi di indigenza economica e alimentare, e non si seguiva, se non dalle setacciate notizie della radio nazionale e dei giornali.

Del resto, per la gente dei Sassi la povertà e l’analfabetismo erano di casa da tempo remoto. Pane, cipolla e zuppa di legumi bastavano per vivere, tutto il resto era fuori dalla loro mente rivolta a risolvere i problemi

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della quotidianità. I privilegiati erano quelli che potevano avere la radio, comprare i viveri e leggere il giornale. Ma erano veramente pochi.

I tedeschi usavano un comportamento corretto, anche se freddo e distaccato, tipico della gente nordica. Si vedevano in giro per piccoli acquisti e spesso si sedevano al bar di Natrella per gustare la granita di limone e chiacchierare. Pagavano e ringraziavano.

Tutto scorreva come sempre, anche dopo il 25 luglio, quando Mus-solini fu costretto a dimettersi da Capo del governo fascista, a sbarco alleato avvenuto in Sicilia il 10/7/1943.

I fatti potevano in un certo modo alterare il loro comportamento, ma niente di nuovo succedeva nei rapporti fra cittadini indifferenti e soldati nazisti impegnati in azioni militari.