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Questioni controverse in tema di reati contro la pubblica amministrazione INDICE: I LE QUALIFICHE SOGGETTIVE – 1. Pubblica funzione e pubblico servizio – 2. L’attività amministrativa svolta secondo schemi privatistici – 3.Altre attività di natura privata integranti profili pubblicistici - 4. La cessazione della qualità. II CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA – 1. Le modifiche all’originario assetto codicistico.- 2. Il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità.- 3.La soluzione adottata dalle Sezioni Unite. - 4.Il criterio indicato dalle Sezioni unite e le fattispecie problematiche.- 5.L’abuso della posizione del pubblico agente. – 6.La distinzione con la corruzione. – 6.1. Induzione indebita ed istigazione alla corruzione. III LA CORRUZIONE PER LESERCIZIO DELLA FUNZIONE – 1. La nuova previsione dell’art.318 c.p. – 2. Il superamento della struttura del reato di corruzione impropria. - 3. La svalutazione dell’atto in favore della qualità dell’agente. – 4. Le dazioni correlate all’esercizio della funzione. – 5 Ampiezza della fattispecie e risvolti probatori. - 6. La giurisprudenza sull’asservimento di funzioni: la tesi prevalente. – 7. La corruzione per l’esercizio delle funzioni quale ipotesi tipica di asservimento al privato. - 8.Una possibile ricostruzione del sistema. - 9.L’asservimento al privato e la natura eventualmente permanente del reato. IV TRAFFICO DI INFLUENZE - 1. L’origine della nuova figura di reato introdotta all’art.346 bis c.p. - 2. Rapporti e differenze con il millantato credito. - 3. Primi orientamenti emersi nella giurisprudenza di legittimità. 1

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Questioni controverse in tema di reati contro la pubblica amministrazione

INDICE: I LE QUALIFICHE SOGGETTIVE – 1. Pubblica funzione e pubblico servizio – 2. L’attività

amministrativa svolta secondo schemi privatistici – 3.Altre attività di natura privata integranti profili pubblicistici - 4. La cessazione della qualità.

II CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA – 1. Le modifiche all’originario assetto codicistico.- 2. Il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità.- 3.La soluzione adottata dalle Sezioni Unite. - 4.Il criterio indicato dalle Sezioni unite e le fattispecie problematiche.- 5.L’abuso della posizione del pubblico agente. – 6.La distinzione con la corruzione. – 6.1. Induzione indebita ed istigazione alla corruzione.

III LA CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE – 1. La nuova previsione dell’art.318 c.p. – 2. Il superamento della struttura del reato di corruzione impropria. - 3. La svalutazione dell’atto in favore della qualità dell’agente. – 4. Le dazioni correlate all’esercizio della funzione. – 5 Ampiezza della fattispecie e risvolti probatori. - 6. La giurisprudenza sull’asservimento di funzioni: la tesi prevalente. – 7. La corruzione per l’esercizio delle funzioni quale ipotesi tipica di asservimento al privato. - 8.Una possibile ricostruzione del sistema. - 9.L’asservimento al privato e la natura eventualmente permanente del reato.

IV TRAFFICO DI INFLUENZE - 1. L’origine della nuova figura di reato introdotta all’art.346 bis c.p. - 2. Rapporti e differenze con il millantato credito. - 3. Primi orientamenti emersi nella giurisprudenza di legittimità.

V L’ABUSO D’UFFICIO - 1. La riforma dell’abuso d’ufficio. - 2. La creazione di origine giurisprudenziale della figura dello “sviamento di potere”. - 3. Violazione di legge e principi costituzionalità di imparzialità e buon andamento. - 4. Le violazioni del procedimento amministrativo. - 5. Il dolo intenzionale ed il concorrente interesse pubblico.

I Le qualifiche soggettive

1. Pubblica funzione e pubblico servizio.L’approccio all’esame dei reati contro la pubblica amministrazione presuppone

necessariamente di prendere le mosse dall’individuazione delle qualifiche soggettive e della distinzione tra pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio che, in base agli artt.357 e 358 c.p., rappresentano le tipiche figure di intraneus nel caso dei reati commessi dai pubblici agenti contro la p.a., mentre, per l’ipotesi dei reati commessi dai privati contro la p.a. tali figure soggettive rilevano quali soggetti passivi della condotta.

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Con la riforma introdotta dalla l.n.86 del 1990 vi è stata una rilevante modifica essendosi in primo luogo eliminato qualsiasi riferimento al rapporto di impiego con lo Stato od altro ente pubblico1, essendosi in tal modo riconosciuto come l’evoluzione delle forme contrattuali anche all’interno del rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti pubblici ha determinato che il riferimento al “pubblico impiego” non svolga più una reale funzione selettiva in ordine alle qualifiche soggettive penalmente rilevanti.

Nell’ambito della complessiva funzione pubblica, la distinzione tra pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio rispondeva ad una originaria diversa graduazione di responsabilità e di estensione delle fattispecie incriminatrici che, tuttavia, si è andata assottigliando, dopo che la l.n.86 del 1990 ha esteso anche all’incarico di pubblico servizio gran parte delle figure di reato inizialmente previste solo nei confronti del pubblico ufficiale. Invero, una tendenza a ripristinare una distinzione sotto tale profilo era riemersa a seguito della riforma del reato di concussione, conseguente alla l.n.190 del 2012, che escludeva tra i soggetti attivi l’incaricato di pubblico servizi, il quale avrebbe potuto rispondere esclusivamente della meno grave figura di induzione indebita ex art.319 quater c.p.; tale differenziazione soggettiva è stata superata con la l.n. 69 del 2015, la quale ha nuovamente esteso il delitto di concussione anche all’incaricato di pubblico servizio.

In base all’attuale previsione degli artt.357 e 358 c.p., pertanto, può affermarsi che la figura di riferimento è quella del pubblico ufficiale, rispetto alla quale la qualifica di incaricato di pubblico servizio viene ricavata in via residuale e per esclusione delle potestà tipicamente identificative della qualifica maggiormente espressiva del profilo autoritativo della pubblica amministrazione.

Il pubblico ufficiale si individua in base allo svolgimento di una pubblica funzione legislativa, giudiziaria od amministrativa. Premesso che le prime due funzioni risultano di per sé sufficientemente identificate, l’art.357 c.p., al secondo comma, si occupa di meglio specificare i requisiti che deve avere la pubblica funzione amministrativa, individuandoli nella disponibilità, almeno alternativamente, del potere deliberativo (formazione e manifestazione della volontà della P.A.), di quello autoritativo o di quello certificativo.

La giurisprudenza, chiamata a più riprese ad occuparsi dei connotati costitutivi della pubblica funzione e della distinzione con il profilo dell’incaricato di pubblico servizio, ha tradizionalmente risolto la questione individuando le coordinate da tenere presenti per la configurazione della qualità di pubblico ufficiale in:

a) lo svolgimento di un’attività secondo norme di diritto pubblico, distinguendosi poi la pubblica funzione, nella quale sono esercitati i poteri tipici della potestà amministrativa, dal pubblico servizio, in cui tali poteri sono assenti (Sez. U, n. 10086 del 13 luglio 1998, Citaristi, Rv. 211190);

b) la possibilità o il dovere di formare e manifestare la volontà della Pubblica Amministrazione, oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente considerati (Sez. U, n. 7958 del 27 marzo 1992, Delogu, Rv. 191171);

1 È venuta meno la concezione soggettiva di pubblico ufficiale, fondata essenzialmente sul qualifica personale rivestita in relazione all’ente pubblico, venendo conseguentemente valorizzata la concezione oggettiva che attribuisce la qualifica soggettiva in relazione all’attività in concreto svolta ed alla sua rilevanza pubblicistica.

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c) la valutazione, più che del rapporto di dipendenza tra il soggetto e la P.A., dei caratteri propri dell’attività in concreto esercitata dal soggetto ed oggettivamente considerata (così, tra le altre, Sez. 5, n. 46310 del 4 novembre 2008, Pasqua, Rv. 242589 e Sez. 5, n. 29377 del 8 febbraio 2013, Bliznakoff, Rv 256943).

Il servizio pubblico, per converso, risulta caratterizzato dalla mancanza dei poteri tipici della pubblica funzione (poteri deliberativi, autoritativi o certificativi) e delimitato “in basso” dall’esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine o dalla prestazione di un’opera meramente materiale, da intendersi quale attività che si esaurisca nella mera esecuzione di ordini altrui (mansioni d’ordine)2 oppure in un impiego preponderante di energia fisica (opera materiale).

2. L’attività amministrativa svolta secondo schemi privatisticiL’opzione per la concezione oggettiva di pubblica funzione ed esercizio di pubblico

servizio, in abbinamento con l’evoluzione delle forme dello svolgimento di funzioni di interesse pubblicistico, hanno fatto sorgere plurime problematiche interpretative in ordine a quelle figure soggettive che, pur nell’ambito di schemi essenzialmente di matrice privatistica, svolgano funzioni di rilievo pubblico.

A monte si è ulteriormente posta la problematica di individuare la natura degli enti di appartenenza, posto che le finalità pubblicistiche prima di connotare l’agire del singolo soggetto, devono costituire un elemento proprio dell’ente nell’ambito del quale l’attività viene svolta.

Superando la tradizione distinzione tra enti pubblici ed enti pubblici economici, la giurisprudenza è orientata nell’attribuire – quanto meno ai fini penalistici – la natura pubblica dell’ente in presenza di specifici elementi caratterizzanti del perseguimento dell’interesse pubblico, dell’inserimento in un contesto di sovvenzioni e forme di controllo di matrice pubblicistica.

Si è, pertanto, affermato che gli entia formale struttura privatistica devono qualificarsi come "pubblici", in presenza dei seguenti requisiti: a) la personalità giuridica; b) l'istituzione dell'ente per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale; c) il finanziamento della attività in modo

2 Per una recente applicazione del principio, si veda a Sez. VI, n. 8070 del 2016, Rv. 266314, secondo cui non può essere riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio al commesso di tribunale, trattandosi di soggetto che, normalmente, espleta mansioni meramente esecutive. Nella specie, la Corte ha escluso la configurabilità del delitto di corruzione nei confronti di alcuni commessi che, senza essere concretamente inseriti, anche solo di fatto, nell’assetto organizzativo dell’ufficio, avevano svolto, in cambio di somme di denaro, attività in favore di alcuni difensori, rilasciando copie informali e comunicando il contenuto di atti e provvedimenti del giudice, anche prima del loro deposito. La casistica in materia è particolarmente ampia, dovendosi evidenziare l’obiettiva tendenza della giurisprudenza a limitare il concetto di mansioni d’ordine ed attività meramente materiale, individuandosi la partecipazione alla funzione amministrativa anche in capo a figure professionali rispetto alle quali queste assumono una valenza meramente residuale. È opportuno richiamare la copiosa giurisprudenza formatasi con riferimento ai necrofori, rispetto ai quali la giurisprudenza ha costantemente affermato che gli operatori obitoriali rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio, in quanto le loro mansioni non si esauriscono in prestazioni meramente manuali o d'ordine, ma implicano conoscenze del regolamento di polizia mortuaria che comportano un'attività di collaborazione, complemento ed integrazione delle funzioni pubbliche devolute alle competenti autorità sanitarie, Sez.VI, n. 32369 del 2009, Rv. 245192. È stata esclusa, invece, la qualifica di incarico di pubblico servizio in capo al dipendente dell'ente Poste italiane che opera nel reparto di smistamento della corrispondenza, con il compito di sopperire all'episodico malfunzionamento delle macchine, per la presenza di buste non regolamentari, sgualcite o male affrancate, poiché trattasi di attività di semplice esecuzione e di prestazioni meramente materiali, ordinariamente compiute dal sistema meccanizzato e prive di ogni carattere di discrezionalità o autonomia decisionale. (In applicazione del principio, la Corte ha riqualificato il fatto, definito nella sentenza impugnata come peculato, "sub specie" di appropriazione indebita aggravata dall'abuso di relazioni d'ufficio), Sez.VI, n.5064 del 2013, Rv.258768.

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maggioritario da parte dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico, oppure la sottoposizione della gestione al controllo di questi ultimi o la designazione da parte dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico, di più della metà dei membri dell'organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza3.

Ulteriore elemento che è stato valorizzato per desumere la natura di rilevanza pubblica dell’attività d’impresa formalmente privata è quello concernente la sottoposizione alle regole previste per i c.d. settore speciali, sottoposti a regimi derogatori, soprattutto per quanto concerne la disciplina degli appalti, in ragione sia della tipologia degli operatori, che sono quasi sempre società a partecipazione pubblica che agiscono in un sostanziale regime di monopolio, sia del rilievo strategico di tali attività per l'intera economia nazionale.

La Cassazione ha recentemente osservato come «l'obbligatorietà delle procedure di evidenza pubblica consente di ritenere configurabile la qualifica soggettiva di cui agli artt. 358 c.p. nell'ambito delle attività svolte dalla società privata, in quanto presuppone il riconoscimento e la necessità che quel servizio pubblico sia sottoposto ad un regime "amministrativo", che assicuri la tutela della concorrenza assieme all'imparzialità della scelta del soggetto aggiudicatario, esigenza che rileva in quei contesti, come appunto i settori c.d. speciali, ritenuti strategici per gli interessi pubblici dello Stato. Del resto, il solo contesto della procedura di gara può essere un indice sintomatico del rilievo pubblicistico delle attività interessate, giustificando il riconoscimento delle qualifiche di cui agli artt. 357 e 358 c.p.»4.

L’aspetto sostanzialistico è stato privilegiato nell’accertamento nella natura pubblica delle fondazioni private con competenza in ambito previdenziale. La Cassazione ha recentemente osservato come il d.lgs 30 giugno 1994 n. 509, che ha trasformato alcuni enti previdenziali in persone giuridiche private e tra queste l’ENASARCO, consentendo la scelta della forma giuridica della fondazione di diritto privato. Precisa la Corte come tale trasformazione rilevi solo sul piano della gestione perché: l'ente continua a perseguire finalità di pubblico interesse, occupandosi della previdenza integrativa degli associati, imponendo tassazione e erogando un servizio pubblico di previdenza e assistenza con la correlata vigilanza ministeriale e il controllo della Corte dei conti; fruisce di un sistema di finanziamento tramite pubbliche risorse derivanti da quelle destinate a fini generali e connesso agli sgravi, alla fiscalizzazione degli oneri sociali e alla obbligatorietà della iscrizione e della contribuzione garantiti agli enti previdenziali privatizzati; il suo

3 Sez. II, n. 28085 del 2015, Rv.264233.4 Così in motivazi one, Sez.VI, n.28299 del 2016, Rv.267048, nella quale si è anche ribadito l’orientamento concernente la distinzione tra pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, affermando che « sulla base degli artt. 357 e 358 cod. pen., le qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio sono collegate alle attività svolte, che possono definirsi come pubblica funzione amministrativa o come pubblico servizio non per il legame tra il soggetto e un ente pubblico, ma per la disciplina pubblicistica che regola l'attività nonché per i contenuti giuridici pubblici che la connotano, che per quanto riguarda il servizio pubblico sono quantitativamente inferiori (rispetto a quelli della funzione pubblica), tali comunque da escludere dalla categoria i soggetti che svolgono semplici mansioni di ordine ovvero che prestino un'opera meramente materiale. Le due categorie sono accomunate, quindi, da una prospettiva funzionale-oggettiva, nel senso che entrambe postulano il criterio di delimitazione "esterna" imperniato sulla natura della disciplina pubblicistica dell'attività svolta. L'elemento che le differenzia è costituito dal fatto che il pubblico ufficiale è dotato di poteri deliberativi, autoritativi o certificativi, mentre l'incaricato di pubblico servizio difetta di tali poteri, nonostante la sua attività sia comunque riferibile alla sfera pubblica: in altri termini, è la tipicità dei poteri elencati nell'art. 357 cod. pen. che fonda la differenza».

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patrimonio deriva dall'accumulazione delle imposte e dei contributi previdenziali pagati dagli obbligati per legge, che, poichè strumentale al servizio pubblico, anche se assunta nel patrimonio della fondazione, va gestita secondo il diritto pubblico; il suo consiglio di amministrazione è composto sia dalle rappresentanze sindacali sia dalle rappresentanze datoriali. Valorizzando tutti i suddetti indici, si è giunti ad affermare che, nonostante la forma giuridica assunta, l'ente è una pubblica amministrazione che si occupa dell'assicurazione obbligatoria per invalidità e vecchiaia rientrante nella “previdenza sociale” che, ex artt. 38, comma 4, Cost. e 1 legge 12 giugno 1990 n. 145, costituisce pubblico servizio5.

Altro ambito rispetto al quale l’elaborazione giurisprudenziale è costantemente nel senso di riconoscere la natura pubblica del soggetto giuridico è quello relativo alle diverse forme di società partecipate dagli enti locali, a condizione che l'attività della società medesima sia disciplinata, almeno in parte, da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici.

In applicazione di tale principio, si è ritenuto che i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, allorquando la ragione d'essere della società medesima risieda nel generale perseguimento di finalità connesse a servizi di interesse pubblico, a nulla rilevando che dette finalità siano realizzate con meri strumenti privatistici.6.

La natura giuridica delle società “in house” del resto, è stata puntualmente chiarita dalle Sezioni Unite civili con sentenza del 25.11.2013 n. 26283, secondo cui «la società in house non ha tardato ad acquisire cittadinanza anche nella legislazione nazionale. Se ne trova menzione in molteplici sparse disposizioni normative, talvolta con mero richiamo alle caratteristiche richieste dalla citata giurisprudenza Europea, altre volte con più specifica indicazione dei requisiti occorrenti perchè tale figura ricorra. Particolare risalto assume, in questo contesto, il disposto dell'art. 113, comma 4, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti a locali (D.Lgs. n. 267 del 2000), come riformulato dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 14, (convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2003, n. 326), che, in presenza di determinate condizioni, consente espressamente l'affidamento di servizi pubblici, anzichè ad imprese terze da individuare mediante procedure di evidenza pubblica, a società di capitali costituite per quello scopo e partecipate totalitariamente da soci pubblici, purchè esse realizzino la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti che le controllano e purchè questi ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. È dunque possibile considerare ormai ben delineati nell'ordinamento i connotati qualificanti della società in house, costituita per finalità di gestione di pubblici servizi e definita dai tre requisiti già più

5 In motivazione, Sez.VI, 23236 del 2016, Rv.267252.6 Sez.VI, n.1327 del 2016, Rv.266265, fattispecie relativa a condanna per peculato di un direttore generale di una società per azioni, concessionaria di un pubblico servizio per conto di un comune, ritenuto dalla S.C. incaricato di pubblico servizio; nello stesso senso si è affermato che i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, allorquando la ragione d'essere della società medesima risieda nel generale perseguimento di finalità connesse a servizi di interesse pubblico, a nulla rilevando che dette finalità siano realizzate con meri strumenti privatistici. (Fattispecie nella quale la Corte ha riconosciuto la qualifica di incaricato di pubblico servizio al presidente di una società per azioni, operante secondo le regole privatistiche ma partecipata interamente da un comune, avente ad oggetto la gestione di servizi di manutenzione del verde pubblico e dell'arredo urbano), Sez.VI, n.49759 del 2012, Rv.254201.

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volte ricordati: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici» .

Può affermarsi, pertanto, che le società in house hanno solo la forma esteriore dell’ente di natura privata, ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Gli organi delle società in house sono preposti ad una struttura corrispondente ad un'articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, sicché è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio assimilabile a quel che lega i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall'ente pubblico7.

3.Altre attività di natura privata integranti profili pubblicisticiI profili problematici concernenti l’individuazione oggettiva della cura di interessi

pubblicistici non si è posta solo con riferimento ad enti connotati da una matrice pubblica, ma anche con riguardo ad attività di natura prettamente imprenditoriale e/o svolta individualmente dal soggetto cui si imputa la qualifica soggettiva in esame.

La questione si pone nella misura in cui sono previste tutta una serie di attività, normalmente contemplanti un’opera di riscossione per conto dell’erario, che vengono demandate a privati e svolte nell’ambito dell’ordinaria attività di impresa priva dei connotati pubblicistici in precedenza esaminati.

In quest’ambito vanno segnalate le pronunce con le quali si è stato affermato che i titolari di tabaccheria autorizzati alla riscossione di valori per conto dell'Erario vanno considerati incaricati di pubblico servizio poiché essi, per le incombenze loro affidate, subentrano nella posizione della P.A. e svolgono mansioni che ineriscono al corretto e puntuale svolgimento della riscossione medesima8.

Analoga considerazione vale per il gestore di un’agenzia di pratiche automobilistiche autorizzata alla riscossione delle tasse regionali riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio, atteso che la riscossione integra un’attività o una funzione di natura pubblica ed egli, per le incombenze affidategli, subentra nella posizione della P.A., svolgendo mansioni

7 La tesi adottata dalle Sezioni unite civili è stata espressamente recepita in ambito penale da Sez.VI, n.48036 del 2014, Rv.261223, così massimata «In tema di abuso d'ufficio, integra l'elemento oggettivo del reato il reclutamento del personale, da parte degli amministratori di una società "in house", senza il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica previste per gli enti pubblici dagli artt. 35 e 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001. (In motivazione, la S.C. ha precisato che l'obbligo di attenersi a tali procedure nell'attività volta all'assunzione del personale deve ritenersi imposto dalle pregnanti connotazioni pubblicistiche della società "in house", intendendosi per tale una società costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possano essere soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo corrispondenti a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici. V. Cass., Sez.Un.civ., n. 26283 del 2013).»8 Sez.VI, n.36656 del 2015, Rv.264583, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di peculato nei confronti di gestore di tabaccheria, autorizzata alla riscossione di valori bollati e generi di monopolio, che si era appropriato di somme destinate all'Erario.

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che ineriscono al corretto e puntuale svolgimento della riscossione medesima9. La Corte ha già in passato precisato, infatti, che la riscossione di tasse automobilistiche integra un’attività o una funzione di natura pubblica10, per cui anche il gestore di fatto di tale attività non può che rivestire la qualifica soggettiva prevista dall’art. 358 c.p.

Valorizzando i medesimi argomenti, si è ritenuto che riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio ed, in quanto tale, commette il delitto di peculato, il concessionario titolare dell’attività di raccolta delle giocate del lotto che ometta il versamento all’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato delle somme riscosse per le giocate, atteso che il denaro incassato dall’agente è, sin dal momento della sua riscossione, di pertinenza della P.A. e che il reato si consuma 11allo spirare del termine fissato dalla legge o dal contratto di concessione12.

La natura di pubblico ufficiale è stata riconosciuta al medico che svolga attività “intramoenia”13 in regime di convenzione con strutture sanitarie pubbliche; la normativa di settore consente, infatti, che il personale medico svolga visite a pagamento e fuori dall’orario di servizio, utilizzando strutture e locali dell’ente pubblico, prevedendo che il compenso per la prestazione sanitaria sia pagato dall’assistito anche direttamente al medico che ha eseguito la visita, nel qual caso sorge l’obbligo di riversare la somma all’ente pubblico il quale, decurtata la quota di propria spettanza, provvede successivamente al versamento di una quota dei proventi della suddetta attività. Posto che il medico riceve denaro destinato all’ente pubblico, l’eventuale appropriazione di tali somme configura il reato di peculato.

In altri casi è stata l’oggettiva sussistenza di un pubblico interesse del servizio svolto, pur in forma privata, a far ritenere configurabile la qualifica soggettiva; si è affermato, infatti, che riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio l'amministratore di un Istituto di vigilanza privata avente il compito di trasportare, contare, custodire e versaredenaro per conto di terzi, in quanto tali mansioni - volte allo svolgimento in forma

9 Sez. VI, n. 45082 del 2015, Rv. 265341.10 Così, ad esempio, Sez. VI, n. 15724 del 2013, Rv. 256226, con riferimento all’attività di riscossione espletata da una delegazione dell’ACI.11 Sez.VI, n.39695 del 2009, Rv.245003, così massimata «Integra il delitto di peculato la condotta del medico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso direttamente dai pazienti l'onorario dovuto per le prestazioni, ometta poi di versare all'azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene. (In motivazione la sentenza ha precisato che, limitatamente all'attività di versamento delle somme destinate all'azienda sanitaria, il medico in questione deve ritenersi rivesta la qualifica di pubblico ufficiale)»; successive conformi, si veda da ultimo Sez.VI, 36988 del 2015, Rv. 264578, secondo cui integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l'onorario dovuto per le prestazioni, omette poi di versare all'azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene, a condizione che la disponibilità del denaro sia legata all'esercizio dei poteri e dei doveri funzionali del medesimo, e non in ragione di un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo "intuitu personae", ovvero scaturito da una situazione "contra legem", priva di relazione legittima con l'oggetto materiale della condotta. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo che, pur essendo stata accertata l'illecita percezione di denaro e lo svolgimento dell'attività al di fuori delle regole prescritte per l'attività professionale "intra moenia", non fosse stato chiarito se l'imputato avesse un titolo di legittimazione in base al quale, operando all'interno di un ospedale pubblico, aveva riscosso le somme di denaro dai pazienti).12 Ex multis si veda Sez. VI, n. 46954 del 2015, Rv. 265275.13 È opportuno segnalare la possibilità che il medico svolga anche “attività intramoenia allargata”, connotata dal fatto che la prestazione sanitaria viene svolta al di fuori della struttura pubblica, presso studi privati o istituti di cura privata, il che ha in concreto reso maggiormente agevole la commissione del reato di peculato, stante l’assenza di effettive possibilità di verifica e controllo in ordine al numero di prestazioni assistenziali fornite e remunerate.

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garantita di attività proprie di un servizio di pubblico interesse - implicano un complesso di obblighi di rendiconto e di tenuta della documentazione contabile che necessariamente esula dallo svolgimento di incombenti solo materiali o di ordine14.

4. La cessazione della qualitàL’art.360 c.p. contempla una particolare ipotesi di ultrattività della qualifica soggettiva

che, pur formalmente cessata, continua ad essere rilevante ai soli fini penalistici quale elemento costitutivo dei reati contro la pubblica amministrazione. La norma, infatti, prevede che ove la qualità sia cessata all’epoca di commissione del reato, non viene meno l’esistenza del reato o della circostanza aggravante se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato.

In linea generale, può affermarsi che la mera attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio non esauriscono l’ambito di tipicità, occorrendo anche una diretta riferibilità della condotta posta in essere alla sfera di competenza15 del pubblico agente, con il naturale corollario dato dal collegamento temporale tra azione illecita e qualità rivestita. Ne consegue che, lì dove il pubblico agente rivesta la qualifica all’epoca di commissione del reato, occorrerà unicamente verificare il collegamento funzionale tra la condotta posta in essere e la funzione od il servizio svolti.

Qualora, invece, l’autore della condotta abbia cessato di rivestire la qualifica soggettiva, non viene per ciò solo meno la configurabilità del reato, lì dove l’illecito si inserisca nella sfera di competenza nell’ambito della quale il pubblico agente svolgeva la propria attività, sul presupposto secondo cui l’interesse pubblico può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni, ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato dallo stesso commesso si riconnetta all'ufficio già prestato16. Si vuol evitare, in tal

14 Sez.VI, n. 6847 del 2016, Rv.267015, fattispecie relativa a peculato commesso dal legale rappresentante di un Istituto di vigilanza che si era appropriato di una somma di denaro che aveva il compito di custodire in un proprio "caveau", dopo averlo prelevato da alcuni punti vendita della Società committente e prima di versarlo presso un Istituto di credito.15 Ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria, non è determinante il fatto che l'atto d'ufficio o contrario ai doveri d'ufficio sia ricompreso nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell'ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziata la motivazione della sentenza che aveva ricondotto al reato di corruzione la condotta dell'imputato il quale, nella qualità di parlamentare della Repubblica e di leader di partito in sede locale, dietro la promessa di un compenso in denaro, aveva fornito informazioni privilegiate relative a tre gare di appalto, in relazione alle quali non svolgeva alcun ruolo, e si era impegnato ad esercitare pressioni al fine di assicurarne l'aggiudicazione alle società riconducibili al proprio dante causa), Sez.VI, n.23355 del 2016, Rv.267060. Per converso se ne deduce che, non può essere ricondotta alla nozione di "atto di ufficio" la "segnalazione" o "raccomandazione" con cui un pubblico ufficiale sollecita il compimento di un atto da parte di altro pubblico ufficiale, trattandosi di condotta commessa "in occasione" dell'ufficio che, quindi, non concreta l'uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell'agente. (Nella specie, la Corte ha escluso il delitto di cui all'art. 318, comma secondo, cod. pen. nei confronti del sindaco di un comune che aveva ricevuto un regalo per avere, in precedenza, sollecitato al direttore di una ASL il trasferimento di un sanitario), Sez.VI, n.38762 del 2012, Rv.253371.Sia pur con riferimento a diversa fattispecie di reato, si veda anche Sez.V, n.47508 del , Rv.268428 secondo cui Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 476 cod. pen., l'espressione "esercizio delle sue funzioni", cui il legislatore fa ricorso per sanzionare più severamente il falso commesso dal pubblico ufficiale, si riferisce all'ambito di competenza funzionale dello stesso; a tale ambito è , pertanto, estranea l'ipotesi in cui la falsificazione sia compiuta da un soggetto che, pur dipendente della P.A., non sia addetto allo specifico ufficio preposto alla formazione e al rilascio dell'atto medesimo, neppure nelle vesti di funzionario di fatto.16 Sez.VI, n.39010 del 2013, Rv.256596, fattispecie relativa a concussione commessa da un ex dirigente di una ASL che, per le sue relazioni, era in condizione di continuare ad incidere indebitamente sui procedimenti amministrativi di

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modo, che alla formale cessazione della qualifica perdano di rilievo penalistico tutte quelle condotte che risultano possibili o quanto meno sono agevolate dai rapporti d’ufficio preesistenti.

L'art. 360 c.p., infatti, non richiede, necessariamente, l'attualità dell'esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio, e cioè che l'agente sia titolare dei poteri o della qualità di cui abusa nell'immanenza della condotta criminosa, ma stabilisce, un peculiare criterio di collegamento tra la specificità del bene giuridico tutelato dalle relative fattispecie incriminatrici e la concreta capacità offensiva di una condotta la cui realizzazione è in concreto resa possibile proprio dalla natura dell'attività precedentemente esercitata.

Il principio di tassatività non consente interpretazioni estensive della regola derogatoria prevista dall’art.360 c.p. come recentemente affermato dalla Cassazione, secondo cui la disposizione in esame, che prevede la configurabilità del reato anche nelle ipotesi in cui il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica soggettiva pubblicistica, costituisce una eccezione alla regola generale secondo cui tale qualifica deve sussistere al momento della commissione del reato, ne consegue che tale disposizione non è applicabile nei casi in cui il fatto commesso si riferisca ad un ufficio o servizio che l'agente inizi ad esercitare in un momento successivo17.

II Concussione e induzione indebita

1. Le modifiche all’originario assetto codicistico.Tradizionalmente le figure di reato contro la p.a. si incentravano sulle figure della

concussione e della corruzione, la prima contemplante le ipotesi di costrizione ed induzione a dare o promettere utilità, condotte rispetto alle quali il privato subiva l’indebito abuso della posizione del pubblico ufficiale. La corruzione – nella forma propria ed impropria – era, invece, l’ipotesi di reato destinata a sanzionare oltre che il pubblico ufficiale, anche il privato che traeva vantaggio dall’illecito.

Tale ripartizione ha subito profonde modifiche ad opera della l.n. 190 del 2012, intervenuta su plurimi profili di diritto penale sostanziale e, con specifico riferimento al reato di concussione, mediante la scissione delle condotte inizialmente contemplate dall’art.317 c.p.. Infatti, il delitto di concussione è stato circoscritto alle sole condotte di costrizione, mentre l’induzione a dare o promettere utilità è stata posta a fondamento di un’autonoma fattispecie delittuosa, introdotta all’art.319 quater c.p.

La ratio che ha indotto all’enucleazione, dall’alveo dell’unitario reato di cui all’art.317 c.p., di una figura di reato che preveda il concorso necessario e la conseguente punizione anche del privato, è essenzialmente fondata sulla constatazione del fatto che – tranne i casi in cui si ha una vera e propria costrizione con conseguente coartazione assoluta della volontà del privato – la retribuzione del pubblico agente è frutto di una libera scelta del privato che persegue un interesse proprio, configgente con quello alla corretta amministrazione della p.a.

pertinenza dell'ente presso il quale aveva prestato servizio.17 Sez.VI, n.27392 del 2016, Rv.267234.

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Non a caso, del resto la nuova figura dell’induzione indebita è stata inserita non già dopo l’art.317 c.p., bensì di seguito al reato di corruzione propria previsto dall’art.319 c.p.; proprio tale collocazione sistematica delinea la non estraneità del reato di induzione indebita rispetto al più generale fenomeno corruttivo.

La novella, peraltro, aveva apportato anche una distinzione con riferimento ai soggetti attivi del reato, infatti, la concussione era configurabile esclusivamente nei confronti del pubblico ufficiale, mentre il reato di induzione indebita poteva essere commesso anche dall’incarico di pubblico servizio18. Tale differenziazione, basata sul presupposto che il solo pubblico ufficiale fosse dotato di poteri idonei a porre in essere una condotta di vera e propria coartazione dell’altrui volontà, è venuta meno a seguito della novella apportata dalla l.n. 69 del 2015.

Con la novella del 2015, peraltro, il legislatore è intervenuto anche sul profilo sanzionatorio, avvicinando notevolmente le due figure di reato, infatti, la concussione prevedeva la reclusione da 6 a 12 anni, a fronte della forchetta edittale inizialmente prevista per l’induzione indebita che prevedeva la reclusione da 3 ad 8 anni, successivamente le pene sono state innalzate ed attualmente si va dalla reclusione da 6 anni a 10 anni e 6 mesi.

La pena prevista, invece, per il privato nel reato di induzione indebita è fissata nel massimo in 3 anni di reclusione.

All’esito degli interventi normativi anzidetti, si è determinato un sostanziale riavvicinamento tra le due figure di reato per quanto concerne l’individuazione del soggetto attivo ed il trattamento sanzionatorio, aspetti che, però, non vanno certamente ad incidere sulla questione maggiormente controversa, concernente l’obiettiva difficoltà di individuare un criterio discretivo fondato su elementi quanto più possibile oggettivi e non suscettibili di condizionamenti indotti dalla fattispecie concreta.

2. Il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità.All’indomani della scissione in due figure di reato delle condotte di costrizione e di

induzione, la giurisprudenza di legittimità è stata immediatamente investita dei complessi profili concernenti l’interpretazione dell’art.319 quater c.p., anche nell’ottica delle problematiche intertemporali scaturenti dalla riforma. Si poneva, infatti, la questione di stabilire in primo luogo in cosa dovesse consistere la condotta di “induzione” a dare o promettere utilità, per poi verificare la sussistenza di continuità normativa tra la nuova fattispecie di reato, peraltro contemplante la punibilità del privato, rispetto all’unitaria fattispecie concussiva precedentemente contemplata dall’art.317 c.p.

Gli orientamenti emersi nella giurisprudenza delle sezioni semplici erano sostanzialmente orientati a valorizzare l’aspetto della condotta dell’agente, sotto il profilo dell’intensità della pressione esercitata sul privato, piuttosto che l’effetto determinato,

18 L’esclusione dal novero dei soggetti attivi del reato di cui all’art.317 c.p. dell’incarico di pubblico servizio comportava discrasie non marginali, atteso che la condotta di costrizione da quest’ultimo realizzata avrebbe integrato il reato di estorsione aggravata – ex art.629 e 61 n.9 c.p. – contemplante un trattamento sanzionatorio potenzialmente maggiore a quello previsto dall’art.317 c.p.; peraltro, il reato di estorsione si consuma esclusivamente con la realizzazione del profitto, mentre la concussione si configura anche a fronte della mera promessa. Infine, si era correttamente sottolineato come l’incarico di pubblico servizio è comunque dotato, se non di poteri autoritativi, di una capacità di prevaricazione sul privato, a fronte della quale non appariva giustificato la non ricomprensione tra i soggetti attivi del reato di concussione.

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secondo la contrapposizione tra danno giusto-danno ingiusto, sulla sfera personale del privato, infine, era emerso un indirizzo volto a considerare entrambi i parametri distintivi (soggettivo ed oggettivo). In estrema sintesi, i termini del contrasto possono essere così riassunti: secondo un primo indirizzo interpretativo, poiché l’art.319 quater c.p. conseguirebbe ad

una mera operazione di "sdoppiamento" dell'unica figura di concussione disciplinata dal previgente art. 317 c.p. senza l'integrazione di ulteriori elementi descrittivi; troverebbe applicazione l’elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di distinzione tra ipotesi di concussione per costrizione o per induzione: la costrizione è ravvisabile nel comportamento del pubblico ufficiale che, ricorrendo a modalità di pressione molto intense e perentorie, ingenera nel privato una situazione di metus, derivante dall'abuso della qualità o della pubblica funzione, in modo da limitare gravemente la libera determinazione del soggetto, ponendolo in una situazione di minorata difesa rispetto alla richiesta, esplicita o larvata, di denaro o di altra utilità; l'induzione, invece, si manifesterebbe attraverso forme blande di persuasione, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, idonei a determinare il soggetto privato, consapevole dell'indebita pretesa e non indotto in errore dal pubblico agente, a dare o promettere a lui o a terzi denaro o altra utilità. In sostanza, secondo tale orientamento esegetico, ciò che continua a distinguere la condotta induttiva da quella costrittiva è l'intensità della pressione prevaricatrice, non disgiunta dai conseguenti effetti che spiega sulla psiche del destinatario. In questa prospettiva, sia la condotta costrittiva che quella induttiva cagionano un danno al destinatario e nessun rilievo ha la circostanza che il pregiudizio negativo prospettato sia o meno conforme all'ordinamento giuridico19;

secondo un secondo indirizzo20, compie il reato di cui all'art. 317 c.p. chi costringe e cioè chi, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, prospetta un danno ingiusto per ricevere indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità. Di converso, integrerebbe il reato di cui all'art. 319-quater la condotta di colui che, per ricevere indebitamente un’utilità, prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa che non sia contraria alla legge. Nella prima ipotesi il pubblico ufficiale prospetta che egli, violando la legge, recherà un detrimento, nella seconda che questo detrimento deriva o è consentito dall'applicazione della legge. Nell'un caso, la costrizione consegue alla minaccia, intesa, secondo il linguaggio tecnico-giuridico, come prospettazione di un male ingiusto; nell'altro, non può parlarsi tecnicamente di minaccia, perché il danno non è iniuria datum, manca quindi la costrizione, anche se il risultato viene comunque raggiunto, in quanto il soggetto privato è indotto alla promessa o alla consegna dell'indebito. In definitiva, la linea di discrimine tra le due ipotesi delittuose risiederebbe nell'oggetto della prospettazione: danno ingiusto e contra ius nella concussione; danno legittimo e secundum ius nella fattispecie dell'art. 319- quater c.p.;

19 Tra le tante si veda Sez. 6, n. 28431 del 12/06/2013, Cappello, Rv. 255614; Sez. 6, n. 11942 del 25/02/2013, Oliverio, Rv. 254444; Sez. 6, n. 12388 dell'11/02/2013, Sarno, Rv. 254441; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Baria, Rv. 255366; Sez. 6, n. 18968 dell'11/01/2013, Bellini, Rv. 255072; Sez. 6, n. 3093 del 18/12/2012, dep. 21/01/2013, Aurati, Rv. 253947; Sez. 6, n. 8695 del 04/12/2012, dep. 21/02/2013, Nardi, Rv. 254114.20 In tal senso Sez. 6, n. 29338 del 23/05/2013, Pisano, Rv. 255616; Sez. 6, n. 26285 del 27/03/2013, A.r.p.a., Rv. 255371; Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013, Caboni, Rv. 254624; Sez. 6, n. 17943 del 15/02/2013, Sammatrice, Rv. 254730; Sez.6, n. 17593 del 14/01/2013, Marino, Rv. 254622; Sez. 6, n. 7495 del 03/12/2012, dep. 15/02/2013, Gori, Rv. 254021; Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, dep. 22/01/2013, Roscia, Rv. 253938.

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un terzo orientamento, infine, parte dal presupposto che non sempre è agevole differenziare nettamente la costrizione dall'induzione sulla base della maggiore o minore pressione psicologica esercitata dal pubblico agente e del grado di condizionamento dell'interlocutore, in quanto vi sono situazioni nelle quali non è facilmente definibile se la pretesa del pubblico agente, proprio perché proposta in maniera larvata o subdolamente allusiva, ovvero in forma implicita o indiretta, abbia ridotto fino quasi ad annullarla o abbia solo attenuato la libertà di autodeterminazione del privato. Accanto alla valutazione dell’intensità della condotta di abuso perpetrata dall’agente, pertanto, si dovrà tener conto anche che il privato è coautore del reato ed è punibile nel caso in cui conserva un margine apprezzabile di autodeterminazione sia perché la pressione del pubblico agente è più blanda, sia perché ha interesse a soddisfare la pretesa del pubblico funzionario per ottenere un indebito beneficio, che finisce per orientare la sua decisione. Viene in tal modo dato rilievo all’individuazione di un vantaggio indebito, costituente l’elemento a fronte del quale si giustifica la previsione di una penale responsabilità a carico del privato21.

3.La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.L’approccio seguito dalla Corte per dirimere il contrasto giurisprudenziale si è in primo

luogo fondato su un attento esame dei termini “costrizione” ed “induzione”, verificando le diverse accezioni che questi assumono anche e soprattutto con riferimento ad altre fattispecie di reato, in modo da enucleare concetti quanto più possibili oggettivi e suscettibili di applicazione uniforme.

Partendo da tale dato, si è ritenuto che l’orientamento teso a valorizzare la maggior o minor intensità della minaccia, non costituirebbe una valida soluzione, sia per l’eccessiva soggettività delle valutazioni, sia perché non terrebbe in debito conto della peculiarietà dell’induzione, costituente in una condotta-mezzo e non implicante, come invece avviene nel caso della costrizione, un risultato direttamente conseguente all’azione del reo22. Osserva correttamente la Cassazione che un’opzione interpretativa basata su nozioni generiche e con elevato tasso di soggettività, determina l’indeterminatezza del precetto penale. Va privilegiata, pertanto, la ricerca di un aspetto contenutistico che connoti in senso oggettivo la condotta di costrizione distinguendola da quella di induzione, individuando anche l’elemento specifico che giustifica la punizione dell’extraneus.

Esaminando il significato del termine “costringere”, si è evidenziato come tale condotta si connota in primo luogo mediante il ricorso alla violenza, mediante la quale si obbliga un soggetto a tenere un determinato comportamento. L’esperienza giudiziale insegna,

21 A favore di tale soluzione si sono espresse Sez. 3, n. 26616 dell'08/05/2013, M., Rv. 255620; Sez. 6, n. 21975 del 05/04/2013, Viscanti, Rv. 255325; Sez. 6, n. 11944 del 14 25/02/2013, De Gregorio, Rv. 254446; Sez. 6, n. 11794 dell'll/02/2013, Melfi, Rv. 254440.22 Del resto, i criteri distintivi tra costrizione ed induzione elaborati con riferimento alla previgente figura di concussione avevano una rilevanza minore, tale da giustificare anche una maggior approssimazione, atteso che l’ipotesi delittuosa non mutava ed in ogni caso all’induzione non conseguiva la punibilità del privato, come invece avviene in base all’attuale art.319 quater c.p.; non a caso l’esperienza giudiziaria dimostrava come le contestazioni per il reato di cui all’art.317 c.p. ante riforma erano normalmente articolate mediante il contestuale riferimento alla condotta consistita nel “costringere o comunque indurre” il privato alla dazione. A ben vedere, la differente intensità della condotta attiva poteva assumere rilievo essenzialmente al fine di cogliere l’intensità del dolo, la gravità complessiva della condotta e la propensione a delinquere, eventualmente ai fini della valutazione ex art.133 c.p., salvo restando che il reato era indifferentemente configurato in presenza di una delle due modalità dell’azione considerate dalla norma incriminatrice.

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tuttavia, che l’abuso costrittivo rappresenta una modalità di commissione del reato di concussione del tutto residuale e circoscritta, essenzialmente, a quelle ipotesi in cui il pubblico agente è dotato di un potere fisico astrattamente esercitabile sul privato, potere che in caso esercizio distorto finalizzato ad ottenere un vantaggio indebito ben può dar luogo al reato di cui all’art.317 c.p.. In tal senso, rappresentano ipotesi di scuola quella dell’appartenente alle forze dell’ordine che eserciti la violenza fisica sul privato al di fuori dei casi consentiti, per ottenere prestazioni indebite di varia natura (di natura non necessariamente economica, come insegnano le ipotesi di concussione commesse per conseguire prestazioni sessuali).

La modalità con cui più frequentemente si determina l’altrui costringimento è, tuttavia, rappresentata dalla minaccia, tipicamente consistente nella prospettazione di un male futuro ed ingiusto che è nel dominio dell’agente realizzare23.

In concreto, il danno ingiusto potrà assumere forme diverse, quali la perdita di un bene legittimamente posseduto, la mancata acquisizione di una utilità cui si ha diritto, l’omessa adozione di un provvedimento favorevole.

Per quanto attiene, invece, alle forme di manifestazione delle minaccia, la Corte ha precisato come non occorra affatto che questa si sostanzi in modalità esplicite e connotate da un carattere di per sé intimidatorio, ben potendosi configurare anche a fronte di toni pacati ed apparentemente manifestanti un favor nei confronti della vittima; tipico in tal senso sono i “consigli” suggestivamente offerti nell’ottica di consentire alla vittima di evitare un danno ingiusto, come pure le minacce formulate manifestando una solo apparente facoltà di scelta da parte del privato.

Da quanto detto, ne consegue che la costrizione del privato può conseguire indifferentemente alle condotte di violenza o di minaccia, dovendosi unicamente tener presente che in questo secondo caso occorrerà la puntuale verifica dell’antigiuridicità del danno prospettato dal pubblico agente e l’assenza di vantaggio indebito da parte del privato.

Circoscritta la condotta costitutiva della concussione alle ipotesi di abuso costrittivo mediante violenza, ovvero di minaccia di un male ingiusto, l’induzione sanzionata dall’art.319 quater c.p. assume una valenza residuale, essendo configurabile in tutti quei casi nei quali l’abuso del pubblico agente non si materializzi in una delle predette condotte ed, al contempo, consenta anche al privato il conseguimento di un indebito vantaggio.

In quest’ottica, assume una preminente funzione selettiva delle condotte illecite l’esame della posizione del privato che, mentre nel reato di concussione è vittima, in quello di induzione indebita diviene un concorrente necessario, la cui punizione presuppone, necessariamente, l’individuazione di un comportamento antigiuridico che ne legittimi l’attrazione nell’orbita del reato.

Pertanto, la condotta di induzione dovrà consistere in una azione, non integrante violenza o minaccia di un male ingiusto, consistente in forme di persuasioni, suggestione, allusione od anche semplicemente silenzio, condotte che frequentemente risultano anche compresenti e variamente combinate tra di loro, ma comunque contraddistinte dal fatto che il pubblico agente mediante le stesse non prospetta un danno ingiusto, bensì sollecita un

23 Paradigmatica è la previsione dell’art.612 c.p. che configura il reato di minaccia in presenza della prospettazione di un “ingiusto danno”.

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vantaggio indebito per il privato, il quale in tal modo trae una utilitas dalla controprestazione promessa od eseguita nei confronti dell’intraneus.

Premesso che la fattispecie di cui all’art.319 quater c.p. è stata introdotta con il dichiarato fine di “disincentivare forme di sfruttamento opportunistico della relazione viziata dall’abuso della controparte pubblica”24, la punibilità del privato consegue all’individuazione di una condotta in cui il disvalore è insito nel vantaggio indebito che consegue all’abuso esercitato dal pubblico ufficiale, il quale tuttavia non deve aver prospettato un danno ingiusto.

Per esemplificare, il reato di cui all’art.319 quater c.p. presuppone un pubblico agente che “induca” il privato alla dazione facendo valere la propria qualità o l’esercizio dei poteri pubblicistici, tuttavia, il risultato dell’induzione deve perfezionarsi per la concomitante sussistenza di un vantaggio indebito per il privato, elemento questo che funge da motivazione concorrente alla scelta di promettere o dare l’utilità richiesta dal pubblico agente.

In conclusione, il discrimen tra i reati di concussione ed induzione indebita viene essenzialmente individuata nella contrapposizione tra un male ingiusto, connotante la violenza o la minaccia costrittiva, e l’indebito vantaggio che, invece, consegue all’azione induttiva. A fronte di tali “elementi costitutivi impliciti”25 dei reati in esame, si giustifica anche la diversa posizione che assume il privato, vittima piuttosto che correo, a seconda che tragga o meno una utilitas dalla commissione del reato.

4.Il criterio indicato dalle Sezioni unite e le fattispecie problematiche.La soluzione offerta dalle Sezioni Unite26, pur volta a stabilire la differenza tra

concussione ed induzione indebita sulla base di elementi quanto più possibile oggettivi e slegati dal mero riferimento all’intensità dell’abuso esercitato dal pubblico agente, sono apparsi comunque suscettibili di dar luogo ad incertezze interpretative. Proprio tale consapevolezza ha indotto le Sezioni unite a richiamare l’attenzione sul quelle fattispecie che maggiormente si prestano ad interpretazioni non univoche della condotta, fornendo indicazioni circa la corretta soluzione interpretativa da adottare in tali casi.

Tra i casi ambigui di maggior ricorrenza concreta, la Corte ha esaminato i seguenti:

24 Così in dottrina Gatta, 25 Così testualmente qualificati dalle Sezioni Unite.26 La dottrina ha assunto una posizione tendenzialmente critica verso la pronuncia in esame, sottolineando da un lato che la Corte non si sarebbe limitata alla mera interpretazione del testo normativo, bensì avrebbe introdotto degli elementi della fattispecie – danno ingiusto e vantaggio indebito – non previsti espressamente, così Donini, Il Corr(eo)indotto tra passato e futuro, in Cass.pen., 2014, 1488; altri hanno osservato come le Sezioni unite, pur prospettando un criterio interpretativo oggettivo, fanno ricorso a distinzioni fondate piuttosto su profili soggettivi e sul disvalore della condotta, allorchè risolvono i casi border line, in tal modo dando la misura dell’insufficienza della soluzione adottata, si veda a tal proposito Gambardella, La linea di demarcazione tra concussione e induzione indebita: i requisiti impliciti del “danno ingiusto” e “vantaggio indebito”, i casi ambigui, le vicende intertemporali, in Cass.pen. 2014, 2018. Secondo altri autori, invece, la sentenza delle Sezioni unite andrebbe apprezzata per aver individuato la linea di demarcazione tra concussione ed induzione indebita sulla base della ratio legis e dei principi costituzionali in tema di offensività della condotta, perseguendo la finalità di individuare una nozione di concussione restrittiva, al contempo ampliando l’ambito di applicazione dell’induzione indebita con la conseguente attrazione nell’ambito del penalmente rilevante delle condotte del privato volte a sfruttare l’infedeltà del pubblico agente, così Gatta, La concussione riformata, tra diritto penale e processo. Note a margine di un’importante sentenza delle Sezioni unite, in Riv.dir.proc.pen., 2014, 1566; si veda anche Seminara, Concussione e induzione indebita, in Dir.proc.pen., 2014, 563.

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abuso di qualità privo di riferimenti al compimento di atti del proprio ufficio o servizio (es.dell’appartenente alle forze di polizia che, dopo aver pranzato al ristorante con amici, pretenda di non saldare il conto, o di farlo simbolicamente). Essendo un siffatto abuso suscettibile di una duplice lettura – per la possibilità di determinare nel ristoratore una totale soggezione, ovvero una disponibilità ad assecondare la pretesa per acquisire in futuro i favori del poliziotto – sarà necessario “contestualizzare la complessiva vicenda”, per comprendere se il pubblico agente abbia veicolato un “univoco messaggio di sopraffazione” ovvero se tra i due si sia instaurata “una dialettica utilitaristica”, peraltro in simili fattispecie si porrà anche la questione di verificare l’eventuale configurabilità del reato di cui all’art.318 c.p.;

prospettazione di un danno generico da parte del pubblico agente: in tal caso, tanto più il danno è indeterminato, tanto più l’intento intimidatorio ed i suoi riflessi gravemente condizionanti sul privato dovranno emergere in modo lampante, per poter ritenere integrata la concussione;

situazioni “miste” di minaccia-offerta o minaccia-promessa (es. in cui il pubblico agente prospetti al privato la sua arbitraria esclusione da una gara di appalto, ma contestualmente lo alletti con la prospettiva di un’aggiudicazione certa dell’appalto a scapito dei concorrenti). In questa ipotesi, sarà necessario “accertare se il vantaggio indebito annunciato abbia prevalso sull’aspetto intimidatorio, sino al punto di vanificarne l’efficacia, e se il privato si sia perciò convinto di scendere a patti, pur di assicurarsi, quale ragione principale e determinante della sua scelta, il lucroso contratto, lasciando così convergere il suo interesse con quello del soggetto pubblico”;

inidoneità della soluzione fondata sulla contrapposizione male ingiusto-male giusto, proprio con riferimento alle fattispecie di minaccia-offerta o minaccia promessa, la Corte ha evidenziato l’inadeguatezza dell’orientamento emerso in alcun precedenti pronunce; nel caso della minaccia-offerta, alla prospettazione del male ingiusto fa contestualmente seguito l’offerta di un vantaggio indebito, sicchè se quest’ultimo assume valenza preminente nel determinare il privato alla dazione, risulterebbe corretta la qualificazione del reato quale induzione indebita, anziché quella di concussione cui si dovrebbe pervenire privilegiando il dato della prospettazione del danno contra ius;

indebita pretesa sollecitata dall’agente pubblico per evadere una legittima richiesta del privato, lasciando implicitamente intendere, in caso contrario, l’insorgere di difficoltà. In tale ipotesi, la valutazione della dinamica relazionale dovrà cogliere se l’eventuale disponibilità del privato sia dettata non solo dall’intento di superare la difficoltà contingente, ma anche dalla volontà di ingraziarsi la benevolenza, per il futuro, del pubblico funzionario;

indebita pretesa correlata dal pubblico agente all’esercizio del suo potere discrezionale, dovrà in questo caso distinguersi tra la prospettazione pretestuosa di un esercizio sfavorevole del potere discrezionale (riconducibile ad una minaccia di danno ingiusto che “piega” il privato ai sensi dell’art. 317 c.p.) e la prospettazione di un atto discrezionale sfavorevole nell’ambito di una legittima

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attività amministrativa, facendo comprendere che dall’adesione alla pretesa potrebbe derivare un illegittimo vantaggio per il privato (vicenda riconducibile all’art. 319 quater c.p.);

situazioni da risolvere attraverso il confronto e bilanciamento dei beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale (es. del primario ospedaliero che richiede al malato una somma di danaro per operarlo con precedenza su altri pazienti, allarmandolo sul carattere “salvavita” dell’intervento): in una siffatta ipotesi, il processo volitivo del privato deve ritenersi guidato non dall’indebito vantaggio conseguibile accondiscendendo alla richiesta (precedenza su altri pazienti in lista), ma dalla “componente coercitiva” connessa all’esposizione a grave rischio della vita, in assenza dell’intervento chirurgico. In una prospettiva analoga - volta a valorizzare la prevaricazione costrittiva insita nel coinvolgimento della libertà sessuale del destinatario della pretesa indebita - deve essere affrontato anche il caso della prostituta straniera che, risultata al controllo priva di documenti e di permesso di soggiorno, venga invitata perentoriamente a seguire l’operante per consumare con lui un rapporto gratuito. Anche in queste ipotesi, ove si recepisse il criterio discretivo fondato sulla contrapposizione tra male ingiusto e male giusto, si dovrebbe concludere che il medico che prospetta il rispetto della lista da attesa e, quindi, di un male giusto, non potrebbe rispondere di concussione, neppure quanto è in gioco un valore primario per la persona qual è la salute.

L’approccio casistico seguito dalla Corte determina inevitabilmente una sorta di “processualizzazione della fattispeccie”, privilegiando la logica dell’accertamento fattuale, piuttosto che la ricerca sistematica di un discrimine oggettivo tra le varie figure di reato e svincolato dalla peculiarità del caso specifico27.

A favorire un approccio volto a valorizzare il dato probatorio e le peculiarità della specifica fattispecie è proprio la sentenza della Sezioni unite, lì dove richiama l’attenzione dei giudici di merito alla necessità di «procedere, innanzi tutto, all'esatta ricostruzione del fatto, cogliendone gli aspetti più qualificanti, e quindi al corretto inquadramento nella norma incriminatrice di riferimento, lasciandosi guidare, alla luce comunque dei parametri rivelatori dell'abuso costrittivo o di quello induttivo, verso la soluzione applicativa più giusta».

5.L’abuso della posizione del pubblico agente.A fronte degli indicati elementi distintivi dei reati di concussione ed induzione indebita,

le Sezioni unite hanno individuato anche un tratto che accomuna le predette condotte illecite, consistente nell’abuso mediante il quale il pubblico agente ottiene l’indebita dazione o promessa dal privato. A ben vedere, l’abuso non è un presupposto del reato, tuttavia è l’elemento caratterizzante la condotta che viene posta in essere, consentendo anche di operare in funzione selettiva rispetto ad altre fattispecie similari, quale, in primis, l’estorsione. È del tutto evidente, infatti, che la condotta di concussione e quella estorsiva

27 Silvestri, I delitti contro la P.A.:gli sviluppi applicativi della l.n.190 del 2012, in Rassegna della giurisprudenza di legittimità anno 2016, a cura dell’Ufficio del Massimario, consultabile sul sito www.cortedicassazione.it.

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sono sovrapponibili per quanto concerne l’azione costrittiva e si differenziano proprio perché nell’un caso la coartazione della volontà sfrutta la posizione del pubblico agente, mentre nell’altro mancata tale profilo connotativo dell’azione.

Per altro verso, è proprio il ricorso all’abuso della posizione che fornisce uno dei parametri principali sulla base del quale distinguere le condotte latu sensu concessive rispetto alla corruzione.

Fatta tale premessa, si pone il problema di individuare le diverse forme di manifestazione dell’abuso, essendo configurabile sia l’abuso della qualità o soggettivo, sia l’abuso dei poteri o oggettivo.

Per quanto riguarda l’abuso della qualità, le Sezioni unite hanno ritenuto sussistente tale figura nell'uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva, senza alcuna correlazione con atti dell'ufficio o del servizio. Si tratta, in buona sostanza, di quelle ipotesi in cui è la qualità stessa del pubblico agente a fungere da strumento di alterazione della volontà del privato, facendo sorgere in quest’ultimo rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute. Precisa la Corte che l’abuso soggettivo, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva, deve sempre concretizzarsi in un facere (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato; costui cioè deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all'indebita richiesta28. In tali fattispecie, peraltro, non è neppure necessario che vi sia una diretta correlazione tra l’atto intimidatorio e la specifica competenza del soggetto attivo, proprio perché la prospettazione del male ingiusto o dell’indebito vantaggio con è direttamente collegata all’esercizio di uno specifico potere, bensì alla mera qualifica soggettiva dell’agente.

Nel caso dell’abuso dei poteri, invece, la condotta si caratterizza essenzialmente per la strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri legittimamente attribuitigli ed utilizzati in modo distorto, perseguendo finalità contra legem, ovvero finalità che pur essendo formalmente conformi a diritto, risultano alterate sotto il profilo dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Quest’ultima eventualità si verifica in tutti quei casi in cui il pubblico agente palesi l’esercizio strumentale di un’attività oggettivamente lecita (si pensi al classico esempio dell’agente che minacci la contestazione di una contravvenzione a fronte di un illecito effettivamente commesso), l’abuso deriverà non già dalla contrarietà a diritto del male minacciato, bensì dalla strumentalizzazione della prospettazione di un potere legittimo utilizzato per conseguire un’utilità illecita.

Le Sezioni unite hanno elaborato una esaustiva nomenclatura delle diverse forme di manifestazione dell’abuso dei poteri, che può conseguire alle seguenti ipotesi:

a) esercizio dei poteri fuori dei casi previsti dalla legge;

28 L’abuso soggettivo è stato ravvisato dalla Cassazione in recenti pronunce relative a fattispecie in cui il pubblico ufficiale aveva preteso indebite utilità (nei casi in questione consegna di merce da negozianti, omesso pagamento di pranzi presso ristoranti) non già minacciando il compimento di atti contra ius, ma semplicemente alludendo ai poteri insiti nella propria qualifica soggettiva ed all’opportunità di assecondare le proprie richieste; Sez.VI, n.9424/16, Rv.267277 e Sez.VI, n.25054/16.

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b) mancato esercizio di tali poteri quando sarebbe doveroso esercitarli; c) esercizio dei poteri in modo difforme da quello dovuto; d) minaccia di una delle situazioni descritte.A differenza di quanto previsto per il caso dell’abuso soggettivo, l’abuso di poteri potrà

consistere anche in un non facere, come frequentemente si verifica nelle ipotesi in cui il pubblico agente deliberatamente decida di non esercitare un potere – da cui conseguirebbe un risultato utile e dovuto per il privato – al fine di costringere quest’ultimo ad assecondare le proprie indebite richieste in cambio delle quali si prospetta la cessazione della condotta ostruzionistica od anche meramente omissiva.

Infine, l’abuso dei poteri è la forma tipica di manifestazione delle condotte concussive poste in essere in relazione all’esercizio di poteri discrezionali spettanti al pubblico agente, posto che la discrezionalità fornisce una ancor più agevole possibilità per il titolare del potere di indirizzarne l’esercizio a favore o contro l’interesse del privato, in tal modo potendo in essere una condotta altamente condizionante.

6.La distinzione con la corruzione.L’individuazione delle condotte integranti la concussione piuttosto che l’induzione

indebita esaurisce solo in parte le complesse questioni interpretative conseguenti al riassetto dei reati contro la p.a., posto che l’introduzione dell’art.319 quater c.p. pone nuove questioni per quanto concerne la distinzione rispetto alle tipiche figure corruttive, una delle quali – corruzione per l’esercizio della funzione - peraltro, completamente rimodulata e fondata su un diverso approccio al fenomeno corruttivo.

Nell’originario assetto codicistico29, nel quale pur non mancava affatto casi in cui non era agevole distinguere la concussione dalla corruzione, le due principali figure di reato si distinguevano per la diversa valenza assunta dal privato, vittima nella concussione e correo nella corruzione. Si trattava di un elemento che, pur da solo insufficiente, forniva una diversa connotazione delle due figure di reato, sicuramente utili per indirizzare l’interprete nelle ipotesi border line.

L’introduzione del reato di induzione indebita ha profondamente inciso sui rapporti con la concussione, proprio perché l’induzione indebita – pur essendo derivata dall’attribuzione dell’autonoma valenza di reato a condotte precedentemente configuranti la concussione – è una fattispecie che orbita essenzialmente nel complesso latu sensu corruttivo. Ne è la riprova, del resto, la stessa collocazione sistematica, non a caso infatti l’induzione indebita è stata aggiunta con l’introduzione dell’art.319 quater c.p. che segue la figura “madre” della corruzione e non già quella della concussione.

La collocazione dell’induzione indebita a cavallo tra la concussione e la corruzione è stata ritenuta una soluzione di discutibile utilità, in quanto il quadro normativo che ne è risultato si presenterebbe eccessivamente complesso e frammentato, con norme incriminatrici i cui reciproci confini sono incerti e, nella prassi, non sempre individuabili30.

29 La distinzione tra concussione e corruzione era tradizionalmente ravvisata nel fatto che mentre nella concussione la volontà del privato risultava coartata dalla condotta di costrizione o induzione del pubblico agente, nel caso della corruzione vi era una libera contrattazione tra i correi, che agivano sulla base di una sostanziale parità ed in assenza di qualsivoglia forma di condizionamento esercitato dal pubblico agente. 30 Così Gatta, La concussione riformata, tra diritto penale e processo. Note a margine di un’importante sentenza delle Sezioni unite, cit., p.1574.

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Nel tentativo di dipanare i rapporti tra corruzione ed induzione indebita, le Sezioni unite hanno indicato nella “connotazione del rapporto intersoggettivo”31 tra il pubblico agente ed il privato il dato sulla base del quale operare il distinguo, nel senso che ove il privato denoti una soggezione psicologica nei confronti del primo si dovrà propendere per il reato di induzione indebita; qualora, invece, il rapporto sia di natura paritaria e difetti qualsiasi forma di abuso della qualità o dei poteri, si potrà configurare la corruzione32.

Quest’ultima figura di reato, infatti, è caratterizzata da un accordo liberamente e consapevolmente concluso, tra due soggetti che, operando sul piano sinallagmatico, mirano ad un comune obiettivo illecito. Nell’induzione indebita, invece, la spinta a dare o promettere non è ravvisabile nella libera scelta del privato che persegue un proprio interesse, bensì in una indotta esigenza di conseguire un vantaggio indebito in un contesto di preminenza del pubblico agente, tant’è che la condotta deve necessariamente essere frutto di un abuso della qualità o dei poteri33.

È interessante sottolineare, tuttavia, come nel momento stesso in cui la Corte fornisce tali parametri valutativi, si preoccupa anche di chiarire che le condotte corruttive non sono totalmente svincolate dall’abuso della veste pubblica, tuttavia, tale abuso va letto come connotazione di risultato, nel senso che costituisce il presupposto per consentire al privato di ottenere il risultato illecito voluto e non già come strumento di pressione.

31 Le Sezioni unite hanno anche affermato che l’iniziativa del pubblico agente assurge a ruolo sintomatico del reato di induzione indebita, tuttavia, tale elemento non è di per sé determinante, potendo essere esclusivamente valorizzato sul piano probatorio ed in presenza di una condotta comunque caratterizzata dalla prevaricazione sul privato. In tal senso si veda di recente Sez.VI, n.52321/16, che acutamente osserva come “nell'enunciazione del principio di diritto, le sezioni unite non richiamano il profilo dell'iniziativa, mentre sottolineano l'esigenza della prevaricazione: «il reato di concussione e quello di induzione indebita si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l'extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l'accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l'incontro assolutamente libero e consapevole delle volontà delle parti»”.32 Sez.VI, n.52321/16, nell’esaminare un caso in cui, a fronte della condanna per il reato di corruzione il ricorrente chiedeva la derubricazione nell’ipotesi di cui all’art.319 quater c.p., ha escluso che tra le parti vi fosse un rapporto non paritario e che i pubblici agenti avessero esercitato forme di induzione basate sull’abuso della qualità o di poteri, indicando plurime circostanze di fatto idonee a supportare tale giudizio quali, in particolare,: a) la presenza di più consulenti operanti per conto dei pubblici ufficiali e per il privato; b) il contenuto di alcune frasi dei pubblici ufficiali, pronunciate nel corso di colloqui intercettati, evocative di «occhio di riguardo», o comunque altrimenti sintomatiche come «vedere cammello e pagare denaro»; c) l'impegno spiegato dai pubblici ufficiali per trovare soluzioni utili al privato erogatore delle somme, anche mediante l’intervento in ambiti non direttamente dipendenti dalla p.a.; d) l'attività "pilotata" dei pubblici ufficiali al fine di assicurare il buon esito dei controlli sulle licenze commerciali del gruppo imprenditoriale di riferimento; e) le espressioni impiegate del tipo «la nostra squadra ha vinto la partita di andata», ovvero «siamo primi in classifica»; g) la forza economica del gruppo economico corruttore, di dimensione internazionale, contrapposta alle contenute dimensioni dell’ente di appartenenza dei pubblici funzionari coinvolti.33 Nell’ottica di svalutare il dato concernente il fatto che l’iniziativa sia assunta dal pubblico agente piuttosto che dal privato, va segnalata una recente pronuncia che – nel confermare la condanna per il reato di corruzione anziché per quello di induzione indebita – ha sottolineato come la condotta posta in essere dal pubblico ufficiale, volta a dimostrare “comprensione” per i timori del privato sottoposto ad accertamento fiscale, nonché la possibilità di un esercizio discrezionale dei poteri (circa la scelta dei soggetti da sottoporre a verifica), era funzionale ad indurre il privato a esporsi in prima persona con una proposta di indebita retribuzione, senza che ciò inficiasse la posizione di preminenza assunta dal pubblico agente e la conseguente configurabilità del reato di cui all’art.319 quater c.p.; Sez.VI, 50065/15. Anche in tal caso, la Corte ha ritenuto di valorizzare specifici elementi a sostegno della posizione di sudditanza del privato, quali: lo stato di agitazione e preoccupazione in cui il privato ha vissuto l'intero svolgersi della vicenda; il fatto di averne immediatamente informato i familiari e trasmesso via fax il verbale di constatazione - con tutti i rilevi riscontrati dagli operanti - al proprio commercialista di fiducia, in modo da coinvolgerli e ricevere suggerimenti sul da farsi; l'aver tentato di registrare l'incontro; il fatto che informò immediatamente della vicenda un suo amico Carabiniere (che ne fece puntuale annotazione), allertando subito dopo anche il "112"; l'avere, infine, il privato, denunciato la sera stessa il fatto ai Carabinieri.

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6.1. Induzione indebita ed istigazione alla corruzione.Ancor più controversa è l’individuazione della linea di demarcazione tra il tentativo di

induzione indebita e l’istigazione alla corruzione attiva prevista dall’art.322 commi 3 e 4 c.p., che sanziona la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ovvero per l’esercizio della funzione. È del tutto evidente, infatti, che la condotta di induzione, in quanto presuppone l’iniziativa del pubblico agente, può assumere caratteri similari rispetto all’istigazione alla corruzione, in tutti quei casi in cui, difettando la successiva promessa o la dazione, non si perfeziona la fattispecie consumata di cui all’art.319 quater c.p..

Le Sezioni unite hanno risolto la questione sottolineando come la condotta di induzione presuppone un quid pluris rispetto alla mera sollecitazione, individuabile nel carattere “perentorio ed ultimativo della richiesta”, nonché nella natura reiterata ed insistenza della stessa. Al contempo, tali condotte devono caratterizzarsi per il ricorso all’abuso da parte del pubblico agente, finalizzato a vincere la resistenza del privato. Nell’istigazione alla corruzione, invece, mancano tali elementi tipici dell’induzione, in quanto il pubblico agente si limita semplicemente alla prospettazione di un’utilità per il privato, senza far ricorso ad alcuna forma di prevaricazione e ponendo le basi, pertanto, per quello scambio sinallagmatico in rapporto di parità che rappresenta l’elemento tipico della corruzione e non già dell’induzione indebita.

III La corruzione per l’esercizio della funzione

1. La nuova previsione dell’art.318 c.p.Una delle principali innovazioni apportate dalla legge di riforma dei reati contro la p.a. è

sicuramente rappresentata dalla integrale riformulazione della fattispecie prevista dall’art.318 c.p., originariamente costituita sulla falsariga della corruzione propria, da cui differiva principalmente perché l’oggetto del mercimonio era un atto conforme ai doveri d’ufficio, anziché ad essi contrario, come previsto dall’art.319 c.p.

La fattispecie attualmente descritta dall’art. 318 c.p. si discosta dalla previgente previsione nella misura in cui non richiede più un rapporto sinallagmatico tra la prestazione del privato ed il compimento di uno specifico atto, essendo sufficiente che la dazione venga effettuata in ragione dell’esercizio della funzione.

La valorizzazione della funzione e dei poteri esercitati a discapito dell’individuazione di uno specifico atto oggetto di mercimonio determinano lo spostamento dell’elemento materiale del reato in favore della strumentalizzazione della qualità e dei poteri connessi; ciò comporta un sia pur parziale avvicinamento della corruzione ex art. 318 c.p. alla fattispecie dell’induzione indebita. In entrambi i casi, la dazione da parte del privato vede la sua ragione giustificativa nell’esigenza di “gratificare” il pubblico ufficiale, con la differenza che nell’induzione indebita la qualifica pubblica viene strumentalizzata per

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esercitare l’induzione, mentre nella meno grave fattispecie di corruzione per l’esercizio delle funzioni non si realizza la condotta di abuso della funzione.

Tali differenze strutturali non sono state ignorate dalla giurisprudenza, che ha sottolineato come l’attuale sistema normativo preveda due fattispecie – la concussione e l’induzione indebita – che prescindono dalla strumentalizzazione dell’atto del pubblico ufficiale e fanno leva sull’abuso della qualità, a differenza di quanto previsto per la corruzione propria, in cui l’elemento materiale del reato risiede proprio nel mercimonio dell’atto contrario ai doveri d’ufficio34 .

In tale contesto, la nuova fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione viene a porsi in una posizione ellittica rispetto alle tre fattispecie cardine del sistema – concussione, corruzione propria ed induzione indebita – atteso che il profilo strutturale del reato sembra prescindere dal rapporto tra la dazione e l’atto, spostandosi il fulcro del reato sulla strumentalizzazione della funzione, al contempo, al pari di quanto avviene nella corruzione impropria, manca l’elemento costrittivo o induttivo, essendo richiesto l’accordo tra il privato ed il pubblico ufficiale, scevro di qualsivoglia forma di abuso della qualità.

2. Il superamento della struttura del reato di corruzione impropria. La nuova formulazione dell’art. 318 c.p. rende evidente la scelta di totale

differenziazione rispetto alla previgente norma incriminatrice che – operando in parallelismo con quella di corruzione propria – incentrava il disvalore del fatto sulla retribuzione che il pubblico ufficiale riceveva per compiere o per aver già posto in essere un atto conforme ai doveri d’ufficio35 .

L’attuale costruzione della corruzione per l’esercizio delle funzioni ha determinato, in primo luogo, il superamento della tradizionale distinzione tra corruzione impropria antecedente e susseguente (a seconda che l’atto per il quale si ottiene la remunerazione fosse da compiere o già compiuto), peraltro eliminando anche il diverso regime di assoggettabilità alla pena per il privato corruttore che, in base al previgente art. 318 c.p., rispondeva della sola corruzione impropria antecedente.

Ma il dato sostanziale di maggior impatto risiede nella diversa modulazione dell’elemento costitutivo del reato, non più ancorato alla remunerazione per la commissione di un atto dell’ufficio, bensì al mero esercizio della funzione o dei poteri ricollegati alla qualifica di pubblico ufficiale36. Già sulla base di tali prime osservazioni, è agevole ritenere che l’attuale art. 318 c.p. recepisce quell’esigenza, ampiamente rappresentata anche in precedenti proposte di riforma della materia, di svincolare il reato di corruzione dal sinallagma con la commissione di un atto specifico – sia esso conforme o contrario ai doveri d’ufficio – costituente una delle principali indicazioni atte a rinforzare il sistema di repressione penale, soprattutto perché in tal modo si consente di attingere le forme di corruzione sistemica, basate non già sulla compravendita di un atto individuato, bensì sulla acquisizione di una generalizzata disponibilità del pubblico ufficiale ad assecondare le esigenze del corruttore.

34 In tal senso, in motivazione, Sez.VI, n.8695/13, Rv.254114.35 Per una approfondita disamina della corruzione impropria ante riforma, si veda Cingari, I delitti di corruzione, in Palazzo (a cura di), Delitti contro la pubblica amministrazione, 2011, 198 s.36 Peraltro, se in precedenza il reato di corruzione impropria era configurabile nei confronti dell’incaricato di pubblico servizio che fosse anche dipendente pubblico, l’attuale previsione dell’art. 320 c.p. ha eliminato tale requisito ulteriore, con la conseguente estensione soggettiva della fattispecie incriminatrice.

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La modulazione del reato ex art. 318 c.p. con riferimento alla funzione e non già all’atto risponde anche all’esigenza di tener conto della consolidata elaborazione giurisprudenza che – sia pur riferendosi principalmente alla corruzione propria – tendeva ad estendere il concetto di atto, al punto di farvi confluire una vasta gamma di condotte riconducibili all’esercizio della funzione e dei pubblici poteri, anche ove non fosse in concreto individuabile l’atto specificamente oggetto di mercimonio. Con buona approssimazione, pertanto, può affermarsi che la riforma ha modulato la fattispecie di cui all’art. 318 c.p. individuando l’elemento costitutivo nello scambio di denaro od altra utilità ricollegato all’esercizio delle funzioni, in tal modo però si sono alterati i preesistenti rapporti con la corruzione propria.

È stato correttamente osservato come l’eliminazione di qualsiasi riferimento all’atto oggetto di scambio, con conseguente valorizzazione del solo esercizio delle funzioni, ingenera una asimmetria tra l’elemento oggettivo della corruzione ex art. 318 c.p. e la corruzione propria, fattispecie che in precedenza si distinguevano non già per la natura dell’indebito scambio di utilità tra pubblico ufficiale e privato, bensì per la maggior gravità dell’atto – conforme o contrario ai doveri d’ufficio – oggetto dell’accordo corruttivo. Ciò comporta che attualmente le due previsioni di reato non si pongono più in rapporto di specialità reciproca, bensì la corruzione per l’esercizio delle funzioni finisce per essere l’ipotesi generale di corruzione, rispetto alla quale la corruzione propria assume il ruolo di norma speciale, nel cui ambito l’elemento di differenziazione è individuabile nel compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio.

Tale rapporto, peraltro, risente inevitabilmente dell’elaborazione giurisprudenza che, come già detto, aveva ampliato il concetto di atto contrario ai doveri d’ufficio, facendo rientrare nella nozione di atto di ufficio una vasta gamma di comportamenti umani, effettivamente o potenzialmente riconducibili all’incarico del pubblico ufficiale, e quindi non solo il compimento di atti di amministrazione attiva, ma anche la formulazione di richieste o di proposte, l’emissione di pareri ed addirittura anche le condotte meramente materiali o il compimento di atti di diritto privato37.

Neppure si richiede la predeterminazione dell’atto oggetto dell’accordo corruttivo, essendosi anche di recente affermato che l’individuazione dell’attività amministrativa oggetto dell’accordo corruttivo può ben limitarsi al genere di atti da compiere, sicché tale elemento oggettivo deve ritenersi integrato allorché la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale sia individuabile solo approssimativamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus previsto38 .

A ben vedere la giurisprudenza ante riforma aveva a tal punto generalizzato il concetto di atto d’ufficio da renderlo sostanzialmente sovrapponibile al concetto di esercizio delle funzioni e dei poteri collegati alla pubblica qualifica. Proprio per tale ragione, i primi commentatori della riforma hanno correttamente evidenziato la necessità di verificare la perdurante praticabilità del richiamato orientamento giurisprudenziale, ovvero la possibilità di ricondurre i casi di mancata individuazione dello specifico atto contrario ai

37 Sez.VI, n.38698/06, Rv.234991.38 Sez.VI, n.30058/12, Rv.253216.

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doveri d’ufficio oggetto dell’accordo corruttivo nell’ambito della generica previsione dell’art. 318 c.p.39 .

3. La svalutazione dell’atto in favore della qualità dell’agente Una sintetica disamina delle interpretazioni prospettate all’indomani della

riformulazione dell’art. 318 c.p. consente di comprendere quanto la nuova norma incida sull’intero assetto dei reati di corruzione.

Secondo una interpretazione poco incline a valorizzare la portata innovativa della norma, la riformulazione dell’art. 318 c.p. consisterebbe in una diversa modulazione della corruzione impropria, comportante esclusivamente l’equiparazione della corruzione impropria antecedente e susseguente, ma non andando ad incidere sull’oggetto dell’accordo, pur sempre individuabile nella commissione di un atto conforme ai doveri d’ufficio40. In quest’ottica, si è affermato che il rapporto tra i reati previsti all’art. 318 c.p. e 319 c.p. non sarebbero sostanzialmente mutati, in quanto il primo continuerebbe a punire il mercimonio di atti sostanzialmente legittimi, mentre nella corruzione propria continuerebbero ad essere sanzionati quell’ampia categoria di atti – formali e non – caratterizzati dalla violazione dei doveri d’ufficio41 . Tale opzione è giustificata con l’esigenza di salvaguardare la proporzionalità tra la diversa gravità delle condotte costituenti reato, ritenendosi che la condotta consistente nell’accordo corruttivo volto a porre in essere una indeterminata pluralità di atti contrari ai doveri d’ufficio, non potrebbe giammai essere ricondotto alla meno grave condotta di corruzione per l’esercizio delle funzioni sul solo presupposto della mancata individuazione dello specifico atto oggetto di mercimonio.

Il timore dei sostenitori della invarianza dei rapporti tra corruzione propria e per l’esercizio delle funzioni riguarda, a ben vedere, l’esigenza di evitare che quelle condotte di corruzione sistemica, basate sulla genericità ed indeterminatezza dell’atto richiesto al pubblico ufficiale, finiscano per essere punite meno gravemente, pur integrando un totale asservimento dei pubblici poteri alle esigenze del privato. In quest’ottica, l’aver previsto una figura di corruzione a fronte del mero accertamento dell’accordo corruttivo concluso nell’ottica finalistica dell’esercizio delle funzioni – a prescindere dal fatto che queste si svolgano in modo conforme o meno ai doveri d’ufficio – potrebbe ingenerare un affievolimento della risposta penale, proprio in relazione alle forme di manifestazione maggiormente subdole del fenomeno corruttivo.

A ben diverse conclusioni giunge chi, valorizzando il dato normativo che ha eliso il riferimento all’atto per introdurre quello alla funzione ed ai poteri esercitati, ritiene che la novella dell’art. 318 c.p. configuri la fattispecie base della corruzione, nella quale sono destinate a confluire tutte quelle condotte connotate dalla indeterminatezza dell’atto – da

39 Andreazza-Pistorelli, Relazione dell’Ufficio del Massimario, n.III/11/2012.40 In tal senso, Sez.VI, n.47271/14, Rv.260732; Sez.VI, n.40327/16, Rv.267634 e Sez.VI, n.15959/16, Rv.266735, che, sia pur in termini non esattamente sovrapponibili, hanno affermato che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili "ex post", ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio.41 Amato, Corruzione: si punisce il mercimonio della funzione, in Guida dir., n. 48, 2012, XXII.

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compiere o compiuto – con la conseguente irrilevanza della contrarietà dello stesso ai doveri d’ufficio42.

In tal senso militerebbe anche l’elisione del preesistente riferimento al pagamento «retributivo», elemento che nell’ottica della corruzione impropria attribuiva natura illecita ad un atto che altrimenti, essendo conforme ai doveri d’ufficio, non avrebbe comportato la lesione del bene giuridico tutelato, individuato nell’offesa alla correttezza dell’agire del pubblico ufficiale.

Optando per tale soluzione, ne conseguirebbe un valore ermeneutico della riformulazione dell’art. 318 c.p. esteso all’intera disciplina della corruzione, dovendosi ritenere che il legislatore, nel momento in cui ha configurato una previsione generale di corruzione slegata dall’individuazione di uno specifico atto d’ufficio, avrebbe inteso far rientrare nella fattispecie generale anche quelle ipotesi che, secondo l’elaborazione giurisprudenziale riferita alla normativa ante riforma, potevano configurare ipotesi di corruzione propria nonostante la mancata individuazione dell’atto illecito. In buona sostanza, allo stato vi sarebbe una previsione speciale – art. 319 c.p. – connotata da una maggiore offensività in quanto presuppone l’accertamento di una specifica violazione ai doveri d’ufficio concretizzatasi in un atto specifico. Tutte le restanti ipotesi di indeterminato esercizio della funzione nell’ambito di un accordo corruttivo dovrebbero ricadere nella più generale figura della corruzione per l’esercizio della funzione, punita meno gravemente in virtù della mancata individuazione dell’atto specificamente oggetto dell’accordo corruttivo. Tale interpretazione è sicuramente avvalorata dall’iter che ha preceduto l’approvazione della riforma, in particolare, già nell’emendamento governativo 9.500 al d.d.l. C.4434, presentato alla Camera il 17 aprile 2012, testualmente si affermava che «la riformulazione dell’art. 318 c.p. consente di ricostruire con maggiore precisione i ‘confini’ tra le diverse forme di corruzione: da una parte, la corruzione propria, che rimane ancorata alla prospettiva del compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio; dall’altra, l’accettazione o la promessa di una utilità indebita, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che prescinde dalla adozione o dall’omissione di atti inerenti al proprio ufficio. In questo caso, la condotta è obiettivamente meno grave per la PA e giustifica la previsione di un trattamento sanzionatorio più tenue (da uno a cinque anni di reclusione) ma, comunque, significativamente più alto di quello oggi previsto dall’art. 318». Premesso che quest’ultima impostazione appare in astratto più aderente al dato letterale, occorre verificare se effettivamente, nella trasposizione della fattispecie astratta in contesti corruttivi connotati da elementi di commissione della condotta del tutto peculiari, sia effettivamente condivisibile la netta demarcazione derivante dalla svalutazione dell’individuazione dell’atto contrario ai doveri d’ufficio.

La questione si pone essenzialmente con riferimento ai casi di totale e generalizzato asservimento della funzione pubblica all’interesse del privato corruttore, eventualità che frequentemente si contraddistingue per una serie di pagamenti o, comunque, di percezioni di utilità in forma ripetuta nel corso del tempo, cui per converso non corrisponde un

42 Padovani, La messa a «libro paga» del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir., n. 48, 2012, IX; Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la PA, in Dir. pen. cont., 3-4/2012, 8, nel ricondurre all’ipotesi della corruzione per l’esercizio delle funzioni l’ipotesi di asservimento delle funzioni, sottolinea la maggiore gravità di tale fattispecie rispetto alle restanti condotte incriminate dall’art. 318 c.p., sottolineando l’incongruenza della sottoposizione alla medesima forbice sanzionatoria.

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accordo corruttivo avente ad oggetto uno specifico atto contrario ai doveri del pubblico ufficiale. Il problema sorge perché in simili ipotesi, a fronte della sostanziale messa a libro paga del pubblico ufficiale, si ha la prova dell’intrinseca violazione dei doveri derivanti dalla funzione esercitata, ma al contempo non sempre è possibile individuare in quale maniera si realizzi l’agevolazione illecita del privato43. Analoga problematica si pone anche nelle ipotesi in cui l’asservimento della funzione si estrinsechi non già nell’adozione di atti formalmente illegittimi, bensì nell’operare scelte discrezionali sorrette non da finalità pubblicistiche, bensì dalla volontà di agevolare il privato corruttore44.

Seguendo la tesi di coloro che valorizzano essenzialmente la nozione di corruzione per l’esercizio della funzione e, conseguentemente, incentrano la distinzione con la corruzione propria sulla base della sola contrapposizione tra la indeterminatezza della condotta del pubblico ufficiale e la necessità dell’individuazione dell’atto specificamente oggetto dell’accordo corruttivo, i casi di totale asservimento della funzione – cui non segua l’accertamento degli atti contrari posti in essere - andrebbero ricondotti nella meno grave fattispecie di cui all’art. 318 c.p.45.

Tale soluzione non appare soddisfacente, nella misura in cui determina una evidente diversità di trattamento tra soluzioni connotate da pari offensività. Non si comprende, invero, la ratio per cui il pubblico ufficiale che svende integralmente la sua imparzialità, violando il dovere di fedeltà nei confronti dell’ufficio ricoperto, ponendo a servizio del privato i suo poteri, debba essere punito meno gravemente rispetto a chi, in un’occasione specifica e determinata, ponga in essere un singolo atto contrario ai doveri d’ufficio. Peraltro, interpretando le nuove fattispecie di reato nel senso sopra indicato, si determinerebbe un evidente arretramento della funzione specialpreventiva proprio in relazione a quelle forme di corruzione sistemica che determinano il massimo grado di pregiudizio per la regolarità dell’azione amministrativa, in quanto consentono una reiterata e, tendenzialmente illimitata, agevolazione degli interessi privatistici in contrasto con la liceità dell’azione amministrativa.

Invero, anche alla luce della nuova riformulazione dei delitti di corruzione, occorre distinguere il profilo dell’indeterminatezza dell’atto oggetto dell’accordo corruttivo, rispetto alla nozione stessa di atto posto in essere dal pubblico ufficiale. Anche a seguito della riforma, infatti, non vi è ragione per superare il tradizionale orientamento

43 È opportuno segnalare come tali forme di corruzione sistemica riguardino essenzialmente le posizioni apicali dei soggetti che ricoprono cariche ed uffici pubblici, posto che il più delle volte la materiale adozione dell’atto amministrativo è rimessa a soggetti diversi, nei cui confronti vengono esercitate forme di ingerenza indebita da parte del pubblico ufficiale corrotto, finalizzate al far conseguire un vantaggio al privato corruttore.44 Circa la possibilità di ricondurre tale fattispecie nell’alveo della corruzione propria, va richiamata la giurisprudenza formatasi ante riforma, secondo cui «si configura il delitto di corruzione impropria e non quello di corruzione propria in relazione ad un atto adottato dal pubblico ufficiale nell’ambito di attività amministrativa discrezionale, soltanto qualora sia dimostrato che lo stesso atto sia stato determinato dall’esclusivo interesse della PA e che pertanto sarebbe stato comunque adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche indipendentemente dalla indebita retribuzione» Cass., 36083/09, in CED Cass., 244258. Si è affermato che «l’atto di ufficio oggetto di mercimonio non deve essere interpretato in senso formale, potendo tale nozione ricomprendere qualsiasi comportamento lesivo dei doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà che debbono essere osservati da chiunque eserciti una pubblica funzione» così Cass., 21943/06, in CED Cass., 234619.45 In tal senso si esprime Padovani, La messa a «libro paga» del pubblico ufficiale, cit., secondo il quale «la messa a libro paga del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio in cambio della sua disponibilità all’asservimento della funzione, ricade de plano nell’orbita dell’art. 318 c.p., mentre il ricorso alla più grave fattispecie dell’articolo 319 c.p. occorrerà individuare un atto in senso formale, quale oggetto dell’accordo corruttivo».

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giurisprudenziale46 secondo il quale l’atto richiesto al pubblico ufficiale nell’ambito del sinallagma corruttivo non deve necessariamente consistere in un provvedimento amministrativo, ben potendo ricomprendersi nella nozione di atto qualsivoglia comportamento connotato dal collegamento funzionale con le funzioni pubbliche svolte.

Ove si condivida tale premessa, ne consegue che nel caso di totale asservimento del pubblico ufficiale dietro remunerazione da parte del privato, non si pone una questione di indeterminatezza dell’atto oggetto dell’accordo, proprio perché l’atto va individuato nel comportamento del pubblico ufficiale consistente nella disponibilità preventiva ad assecondare le richieste del privato. L’eventuale e successiva commissione di atti specifici rientranti nella competenza funzionale del corrotto, costituiranno meri adempimenti dell’accordo corruttivo, ma ciò non va ad incidere sul fatto che l’accordo si è già perfettamente concluso e che il suo oggetto è individuabile in una condotta materiale di per sé violatrice dei doveri discendenti dalla carica od ufficio ricoperto47.

4. Le dazioni correlate all’esercizio della funzione. Le questioni relative ai rapporti tra corruzione per l’esercizio delle funzioni e corruzione

propria non esauriscono le problematiche ermeneutiche derivanti dalla nuova formulazione dell’art. 318 c.p., in quanto la genericità della descrizione della condotta lascia spazio ad interpretazioni potenzialmente in grado di estendere notevolmente l’area dell’illecito penale. Nel momento stesso in cui si è svincolata la condotta materiale dalla commissione di un atto specifico, ne deriva inevitabilmente la valorizzazione della funzione o meglio della qualità soggettiva del soggetto che percepisce l’utilità, il che fa sorgere inevitabilmente l’interrogativo circa la possibile sussistenza del reato in tutte quelle ipotesi in cui la dazione avvenga non già per remunerare l’effettivo esercizio della funzione, bensì semplicemente in relazione alla funzione ricoperta. In sostanza, va verificato se le dazioni che risultano meramente correlate alla qualifica possano o meno integrare di per sé il reato di corruzione ex art. 318 c.p.

Che sussista un’esigenza di attrarre nell’ambito del penalmente illecito anche le condotte del privato che gratifichi con benefits di varia natura il pubblico ufficiale è un dato ampiamente discusso in occasione delle varie proposte di modifica delle norme anti-corruzione. Del resto, nel corso dei lavori parlamentari che hanno condotto all’attuale riforma, la dottrina si è tendenzialmente espressa in senso favorevole alla valorizzazione della qualifica soggettiva quale causa della ricezione delle utilità da parte dei privati. Si è

46 La cassazione ha più volte avuto occasione di ribadire che «in tema di corruzione propria, l’espressione ‘atto di ufficio’ non è sinonimo di atto amministrativo ma designa ogni comportamento del pubblico ufficiale posto in essere nello svolgimento del suo incarico e contrario ai doveri del pubblico ufficio ricoperto. Ne consegue che nell’operato del pubblico ufficiale, retribuito dall’imputato con un compenso fisso mensile, il quale si sia reso disponibile a compiere una serie di condotte di natura diversa, ci si trova di fronte ad un’ipotesi di corruzione propria ai sensi dell’art. 319 e non all’ipotesi minore di cui all’art. 318 c.p. (Nella specie la Corte ha ritenuto che la corresponsione di una somma mensile a un tenente colonnello dei carabinieri per una serie di condotte alcune delle quali tenute solo in occasione dell’ufficio, come ad esempio alcune raccomandazioni, ed altre invece poste in violazione ed in contrasto con i suoi doveri d’ufficio, come la rivelazione di informazioni riservate, integrasse il reato di cui all’art. 319 c.p.)» (Cass., 23804/2004, in CED Cass., 229642)47 In tal senso Amato, Corruzione: si punisce il mercimonio della funzione, cit., XXIV, secondo il quale «è possibile configurare la corruzione allorché il pubblico ufficiale si ponga a disposizione del privato in violazione del dovere di imparzialità, onestà e vigilanza, accettando di essere retribuito dal privato, che in tal modo mira ad assicurarsi un atteggiamento di compiacenza e favore».

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sottolineato, infatti, come «l’introduzione di una norma sulla corruzione per l’esercizio delle funzioni convoglierebbe finalmente un messaggio forte e chiaro per tutti i consociati: i pubblici funzionari non devono ricevere indebitamente denaro o altre utilità dai privati; e i privati devono astenersi dal corrispondere loro denaro o altra utilità – per qualunque ragione intendano farlo, foss’anche per ringraziarli di un favore ricevuto»48.

A fronte di tale esigenza, le scelte operate dal legislatore sembrerebbero dirette ad escludere la valorizzazione della qualifica del pubblico ufficiale quale ragione della dazione da parte del privato, appuntando l’attenzione sulla necessaria sussistenza di un concreto esercizio delle funzioni o dei poteri quale conseguenza dell’accordo corruttivo. È emblematico della voluntas legis, il fatto che in sede di approvazione del disegno di legge da parte della Camera, è stato modificato il testo dell’art. 318 c.p., indicando in luogo dell’iniziale previsione che incriminava la percezione di utilità «in relazione all’esercizio delle funzioni», la diversa dizione secondo cui l’illecito si consuma qualora il pubblico ufficiale «per l’esercizio delle sue funzioni» riceva denaro od altra utilità49.

La suddetta modifica, pertanto, dovrebbe condurre a ritenere che l’elemento costitutivo del reato è dato dall’effettivo esercizio delle funzioni o dei poteri – anche se in modo legittimo – correlato all’utilità data dal privato.

Il superamento della distinzione tra corruzione impropria antecedente e susseguente rende irrilevante l’epoca di svolgimento delle funzioni, ma sarebbe pur sempre necessaria l’estrinsecazione dei poteri del pubblico ufficiale valorizzati in chiave finale o causale rispetto all’utilità conseguita.

Se l’impostazione letterale della norma e l’iter che ha condotto alla sua formulazione sembrerebbero favorevoli all’interpretazione sopra indicata, non va sottaciuto come proprio l’aver svincolato la corruzione dalla specifica individuazione dell’atto del pubblico ufficiale oggetto dell’accordo rende plausibile il prospettarsi di soluzioni interpretative che individueranno essenzialmente nella qualità rivestita dal pubblico ufficiale la ragione della dazione. Una simile interpretazione, del resto, troverebbe terreno fertile nella giurisprudenza formatasi in costanza del precedente assetto normativo, lì dove anche per la corruzione impropria era richiesta la dimostrazione dell’atto – conforme ai doveri d’ufficio – oggetto di mercimonio.

La Cassazione, anche al fine di dare contenuto alla condotta illecita in mancanza della chiara individuazione dell’atto oggetto di mercimonio, ha più volte sottolineato la natura illecita delle dazioni effettuate in ragione della qualifica di pubblico ufficiale e sul presupposto dei vantaggi e favoritismi che dal rapporto preferenziale instaurato con il corrotto sarebbero potuti conseguire per il privato. Alla luce della riforma, che ha espressamente eliso il riferimento al compimento dell’atto d’ufficio, valorizzando l’esercizio della funzione, risulta sicuramente più agevole ritenere penalmente rilevanti ex art. 318 c.p. tutte quelle condotte consistenti nel fornire al pubblico ufficiale una utilità correlata al potenziale vantaggio derivante al privato dall’esercizio dei poteri in maniera conforme al proprio interesse. In tal modo, ciò che assume rilievo è la strumentalizzazione della qualifica pubblicistica per ottenerne un vantaggio – patrimoniale o di altra natura – divenendo recessivo l’aspetto relativo all’effettivo esercizio

48 Dolcini e Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in www.penalecontemporaneo.it.49 Valentini, Dentro lo scrigno del legislatore penale. Alcune disincantate osservazioni sulla recente legge anti-corruzione, in www.penalecontemporaneo.it.

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della funzione o dei poteri. In definitiva, è lecito ritenere che potranno integrare il reato di cui all’art. 318 c.p. tutte quelle condotte connotate dalla dazione effettuata da un privato in favore di un pubblico ufficiale che vedano quale causale giustificativa la volontà del privato di garantirsi l’accondiscendenza del pubblico ufficiale, in tal modo andandone a ledere l’imparzialità e l’autonomia di esercizio dei suoi poteri.

In quest’ottica potrebbe ritenersi sufficiente il mero dato fattuale dell’utilità conseguita dal pubblico ufficiale per far ritenere raggiunto l’accordo corruttivo, sempre che la dazione non trovi giustificazioni alternative lecite tali da dimostrare che la qualità del beneficiato non abbia costituito la ragione della dazione effettuata dal privato. Ciò potrà verificarsi ogni qual volta emerga l’indifferenza delle funzioni svolte dal beneficiato rispetto all’ambito di interessi del privato, lì dove viene meno il nesso di consequenzialità tra dazione e funzioni, proprio perché la liberalità posta in essere dal privato non è più condizionata dalla qualifica soggettiva del ricevente, bensì troverà le proprie motivazioni in altre ragioni, estranee al mercimonio della funzione. Ovviamente, l’impostazione della norma in commento ha fatto temere che venissero attratte nell’ambito dell’illecito penale anche condotte prive di effettiva offensività quali quelle relative all’eventuale dazione di regalie d’uso e di modico valore.

Il timore di un’applicazione eccessivamente rigorosa della norma è, invero, facilmente scongiurato, atteso che l’art. 318 c.p. richiede che la dazione debba essere indebita, al contempo, il legislatore ha previsto l’adozione di un codice di comportamento per i pubblici dipendenti (ex art. 56, d.lgs. 165/2001) nel quale è previsto «il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l’espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d’uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia» (art. 1, comma 44, l. 190/2012). Peraltro, una previsione in tal senso è già contenuta nel Codice di comportamento dei dipendenti delle PA attualmente in vigore – adottato con D.P.R. n.62 del 2013 – il cui art.4, nel prevedere il divieto di ricevere regali od altre utilità, ha previsto che non possono considerarsi regali di modifico valore quelli di importo superiore ad €150,0050.

50 L’obbligo di fedeltà, imparzialità ed il conseguente divieto di percepire forme indebite di remunerazione è stato puntualmente dettagliato nell’art. 4 del Codice di comportamento dei pubblici dipendenti che, nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri in data 8 marzo 2013, prevede: Regali, compensi e altre utilità1. Il dipendente non chiede, nè sollecita, per sè o per altri, regali o altre utilità.2. Il dipendente non accetta, per sè o per altri, regali o altre utilità, salvo quelli d'uso di modico valore effettuati occasionalmente nell'ambito delle normali relazioni di cortesia e nell'ambito delle consuetudini internazionali. In ogni caso, indipendentemente dalla circostanza che il fatto costituisca reato, il dipendente non chiede, per sè o per altri, regali o altre utilità, neanche di modico valore a titolo di corrispettivo per compiere o per aver compiuto un atto del proprio ufficio da soggetti che possano trarre benefici da decisioni o attività inerenti all'ufficio, ne' da soggetti nei cui confronti e' o sta per essere chiamato a svolgere o a esercitare attività o potestà proprie dell'ufficio ricoperto.3. Il dipendente non accetta, per sè o per altri, da un proprio subordinato, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità, salvo quelli d'uso di modico valore. Il dipendente non offre, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità a un proprio sovraordinato, salvo quelli d'uso di modico valore.4. I regali e le altre utilità comunque ricevuti fuori dai casi consentiti dal presente articolo, a cura dello stesso dipendente cui siano pervenuti, sono immediatamente messi a disposizione dell'Amministrazione per la restituzione o per essere devoluti a fini istituzionali.5. Ai fini del presente articolo, per regali o altre utilità di modico valore si intendono quelle di valore non superiore, in via orientativa, a 150 euro, anche sotto forma di sconto. I codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni possono prevedere limiti inferiori, anche fino all'esclusione della possibilità di riceverli, in relazione alle caratteristiche dell'ente e alla tipologia delle mansioni.

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I suddetti precetti di natura disciplinare comportano espressamente la liceità dell’eventuale accettazione dei cosiddetti munuscola, dovendosi al più verificare se le dazioni di modico valore non vengano effettuate in modo tale da celare un più cospicuo pagamento, come potrebbe verificarsi lì dove si accertasse, ad esempio, la ricorrenza di regalie che singolarmente non possono costituire indice della corruzione, ma che nel complesso assurgono ad un valore patrimonialmente non irrisorio.

5. Ampiezza della fattispecie e risvolti probatori. Un’ultima considerazione va svolta con riferimento alle ricadute in termini di prova

derivanti dalla riformulazione dell’art. 318 c.p. È di tutta evidenza come l’aver previsto una fattispecie volutamente generica circa l’oggetto dell’accordo criminoso rende più agevole il compito della pubblica accusa, sulla quale graverà essenzialmente l’onere di dimostrare l’avvenuta promessa o dazione in favore del pubblico ufficiale, nonché la rilevanza delle funzioni dal medesimo svolte rispetto all’ambito di interesse del privato.

In materia troveranno sicuramente applicazioni principi di ordine logico, sulla cui base pervenire all’esclusione di cause giustificative lecite del beneficio conseguito dal pubblico ufficiale, proprio perché lì dove il privato può conseguire una qualche utilità, anche indiretta, in virtù dell’esercizio delle funzioni pubbliche, la dazione posta in essere si connoterà necessariamente per la finalità corruttiva. La norma in commento, in buona sostanza, introduce una sorta di semplificazione probatoria in materia di corruzione, in base alla quale è facilmente prevedibile la contestazione dell’art. 318 c.p. quale fattispecie sussidiaria rispetto alla più grave corruzione propria, così che la riformulazione dell’art. 318 c.p. ben può essere letta quale norma di chiusura del sistema repressivo in materia di reati contro la PA, andando a recuperare quelle situazioni limite nelle quali, a fronte della comprovata utilità conseguita dal pubblico ufficiale, non si rinviene alcuna giustificazione lecita ed, al contempo, si individua un interesse del privato suscettibile di essere agevolato dall’esercizio della pubblica funzione.

6. La giurisprudenza sull’asservimento di funzioni: la tesi prevalente.Come già emerso dall’esame della nuova fattispecie prevista all’art.318 c.p., l’ipotesi

concreta che maggiormente ha destato problematiche interpretative è quella concernente il c.d. asservimento di funzioni del pubblico agente, atteso che in tal caso si scontrano due fattori determinanti: da un lato vi è il massimo della violazione del dovere di imparzialità e la totale distorsione della funzione, al contempo potrebbe non essere agevolmente individuabile l’atto contrario ai doveri d’ufficio concretamente posto in essere, sicchè si è posto il dubbio circa la riconducibilità o meno di tali fattispecie nell’alveo della corruzione propria piuttosto che della corruzione per l’esercizio delle funzioni.

6. Il dipendente non accetta incarichi di collaborazione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all'ufficio di appartenenza.7. Al fine di preservare il prestigio e l'imparzialità dell'amministrazione, il responsabile dell'ufficio vigila sulla corretta applicazione del presente articolo.

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Nell’esaminare la giurisprudenza formatasi in materia è bene sottolineare come una pluralità di pronunce, pur richiamando il concetto di “asservimento delle funzioni” quale motivo della configurabilità della corruzione propria, hanno in effetti fatto riferimento ad ipotesi nelle quali vi era stato l’accertamento della commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio51. In simili situazioni, invero, il richiamo all’asservimento delle funzioni piuttosto che alla messo a libro paga del pubblico agente, costituiscono delle mere modalità di esecuzione del reato di corruzione propria continuato; a ben vedere, infatti, lì dove è provata la commissione dello specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, la circostanza che la corruzione si sia articolata mediante una stabile e continuativa remunerazione del pubblico agente rappresenta semplicemente una modalità di esecuzione del reato, eventualmente rilevante ai fini dell’apprezzamento della sua gravità, ma non va direttamente ad incidere sulla struttura dell’illecito e sulla conseguente individuazione degli elementi costitutivi.

Maggiormente problematica è la fattispecie nella quale, pur risultando l’asservimento del pubblico ufficiale, manca la prova dello specifico atto – contrario ai doveri d’ufficio – siccchè si pone la questione di stabilire se la mera condotta di stabile assoggettamento del pubblico agente rispetto agli interessi del privato possa o meno dar luogo al più grave reato di cui all’art.319 c.p.

In tal senso depone parte della giurisprudenza di legittimità, favorevole a valorizzare in primo luogo l’elemento della maggior offensività, rispetto all’interesse al buon andamento ed imparzialità della p.a., che consegue all’asservimento del pubblico ufficiale agli interessi del privato. In una delle prime pronunce intervenute in materia, la Corte ha affermato che «il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica “per”, all'esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale espresso dal nuovo art. 318 c.p. non consente una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri possa assumere in concreto. Da un altro lato appare ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla legge n. 190/2012) tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatone di sempre più diffusi fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l'accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.). Rilievi non privi di spessore allorché si consideri che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità (“venda”) un solo suo atto contrario all'ufficio (ad esempio rilasci un permesso di accesso in z.t.l. non consentito, ecc.) sia punito con una cospicua pena oscillante tra i quattro e gli otto anni di reclusione (come da novellato incremento delle pene dell'art. 319 c.p.). Laddove un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in

51 In tal senso, Sez.VI, n.15959/16, Rv.266735, secondo cui «lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, ancorchè non predefiniti, né specificamente individuabili "ex post", ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio»; Sez.VI, n.8211/16, Rv.266510, per la quale « lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio, ancorchè non predefiniti, né specificamente individuabili "ex post", ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio»; si veda anche Sez.VI, n.6056/15, Rv.262333.

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relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o non specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell'art. 319 c.p.), si vedrebbe oggi -secondo la tesi del ricorrente- irrazionalmente punito con una pena assai più mite, quale quella prevista dal riformato art. 318 c.p. (da uno a cinque anni di reclusione). E ciò malgrado appaiano in tutta evidenza indiscutibili la ben maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale della seconda condotta, integrata appunto dall'asservimento costante e metodico dell'intera funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati»52.

Nel solco di tale pronuncia si inseriscono anche quelle successive che hanno ribadito come ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 319, non è necessaria l'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono53. Per altro verso, la corruzione propria è ravvisabile anche in caso di "vendita della funzione" connotata da uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio, i quali non costituiscono autonomi reati di corruzione, ma evidenziano soltanto il punto più alto della contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono all'agente pubblico. Difatti, come si è affermato in plurime pronunce, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l'omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all'art. 319 c.p. e non il più lieve reato di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p., il quale ricorre, invece, quando l'oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell'ufficio54.

Volendo sintetizzare l’orientamento – peraltro maggioritario – della Cassazione, si può affermare che in presenza di uno stabile asservimento del pubblico agente rispetto agli interessi del privato, non occorre l’individuazione dello specifico atto contrario ai doveri d’ufficio posto in essere, in quanto è l’asservimento in sé ad integrare un comportamento incompatibile con i principi che regolano il rapporto tra pubblica amministrazione e soggetti che per essa operano, rendendo di per sé illecito il rapporto instaurato tra pubblico agente e privato corruttore.

In tal modo, tuttavia, assurge ad elemento costitutivo non tanto la commissione di un atto contrario ai doveri d’ufficio – come richiesto dall’art.319 c.p. – bensì un comportamento complessivamente inteso, che non necessariamente si va a sostanziare in atti singolarmente individuabili.

52 Sez.VI, n.9883/15, Rv.258521, relativa ad una fattispecie in cui un dipendente comunale risultava aver beneficiato di continuativi e cospicue dazioni di danaro da parte di una società interessata all’approvazione di un piano di lottizzazione, in relazione al quale il pubblico agente non si era limitato ad un mero maggior interesse alla speditezza dell’iter amministrativo, ma aveva addirittura commesso reati di falso, sostituendo documenti tecnici essenziali per il buon esito dell’istruttoria.53 Si tratta di principi già affermati dalla giurisprudenza precedente alla riforma, si veda Sez. VI, n. 22301/12, Rv. 254055; Sez. VI, n. 34417/08, Rv. 241081; Sez. VI, n. 20046/08, Rv. 241184.54 Così, Sez.VI, n.8211/16, Rv.266510 che in motivazione richiama anche Sez. VI, n. 47271/14, Rv. 260732; Sez. VI, n. 6056/2015, Rv. 262333.

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Il problema che ne consegue è che, pur a fronte di una stabile remunerazione del pubblico agente da parte del privato tale da far sorgere il fondato sospetto della commissione di atti volti ad agevolare quest’ultimo, rimane l’incertezza circa la natura dell’atto – contrario o meno ai doveri d’ufficio – ed alla sua effettiva commissione, nella misura in cui si sostiene che il reato di corruzione propria può configurarsi anche in relazione alla commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio “non specificamente individuabili ex post”.

7. La corruzione per l’esercizio delle funzioni quale ipotesi tipica di asservimento al privato.

Diverso è l’approccio al problema seguito da altro orientamento, allo stato minoritario, emerso nell’ambito della giurisprudenza di legittimità e dalla prevalente dottrina55. Si è affermato, infatti, che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso il generico impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all'art. 318 c.p. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all'art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, poichè, in tal caso, si determina una progressione criminosa nel cui ambito le singole dazioni eventualmente effettuate si atteggiano a momenti esecutivi di un unico reato di corruzione propria a consumazione permanente56.

Per giungere a tale conclusione, la Corte ha compiuto una completa disamina della nuova versione dell’art.318 c.p., ritenendo che la novella ha determinato un'estensione dell'area di punibilità, configurando una fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un'interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio.

La nuova fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione comporta che:- il baricentro del reato non è più l'atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma

l'esercizio della funzione pubblica, essendo dalla rubrica, nonché dal testo dell'art. 318 c.p., scomparso ogni riferimento all'atto dell'ufficio e alla sua retribuzione e, a seguire, ogni connotazione circa la conformità o meno dell'atto ai doveri d'ufficio e, ancora, alla relazione temporale tra l'atto e l'indebito pagamento;

- è stata abbandonata la tradizionale concezione che ravvisava la corruzione nella compravendita dell'atto che il pubblico ufficiale ha compiuto o deve compiere, per abbracciare un nuovo criterio di punibilità ancorato al mero “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri", a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l'esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell'ufficio;

55 Si veda Cingari, La corruzione per l’esercizio della funzione, in AAVV, La legge anticorruzione, a cura di Mattarella-Pelissero, Torino, 2013, 405; Padovani, La messa a “libro paga” del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, in Guida dir., 2012, 783; Gambardella, Dall’atto alla funzione pubblica:la metamorfosi legislativa della corruzione “impropria”, in Arch.pen., 2013, 51; Gambardella, La scomparsa dell’atto nella corruzione per l’esercizio della funzione, in Cass.pen., 2013, 3857, il quale evidenzia tuttavia le possibili discrasie conseguenti alla riforma, nella misura in cui forme di corruzione sistemica potrebbero essere punite meno gravemente rispetto al passato. 56 Sez.VI, n.49226/14, Rv.261352, si veda anche Sez.VI, n. 19189/13, Abbruzzese, Rv. 255073.

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- la riforma ha inteso adeguare il nostro ordinamento penale ai superiori livelli di tutela raggiunti da altri ordinamenti Europei (in particolare, quello tedesco) e al contempo colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi per l'interpretazione estensiva data dalla giurisprudenza di legittimità al concetto di atto di ufficio, dilatato fino al punto di ritenere sufficiente, per la sua determinabilità, il solo riferimento alla sfera di competenza o alle funzioni del pubblico ufficiale che riceve il denaro, il che giustificherebbe la ragione per cui ipotesi in precedenza attratte nell’alveo della corruzione propria mediante un’interpretazione lata del concetto di atto contrario ai doveri d’ufficio, attualmente troverebbero miglior collocazione nella corruzione per l’esercizio della funzione;

- il comando contenuto nella nuova fattispecie è estremamente chiaro: il pubblico funzionario in ragione della funzione pubblica esercitata non deve ricevere denaro o altre utilità e, specularmente, il privato non deve corrisponderglieli;

- tali divieti, secondo la logica del pericolo presunto57, mirano a prevenire la compravendita degli atti d'ufficio e fungono da garanzia del corretto funzionamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione;

- il nuovo reato di cui all'art. 318 c.p., quindi, in forza della novità del riferimento all'esercizio della funzione, ha esteso l'area di punibilità dall'originaria ipotesi della retribuzione del pubblico ufficiale per il compimento di un atto conforme ai doveri d'ufficio a tutte le forme di mercimonio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale, salva l'ipotesi in cui sia accertato un nesso strumentante tra dazione o promessa e il compimento di un determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio, ipotesi, quest'ultima, espressamente contemplata dall'art. 319 c.p., modificato dalla novella soltanto nella parte attinente alla misura della pena;

- ne deriva che i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall'esperienza giudiziaria come "messa a libro paga del pubblico funzionario" o "asservimento della funzione pubblica agli interessi privati" o "messa a disposizione del proprio ufficio", tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti nella fattispecie prevista dall'art. 319 c.p., devono ora, dopo l'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, essere ricondotti nella previsione del novellato art. 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio;

57 In dottrina, Picardi, La corruzione per l’esercizio della funzione, in Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, a cura di Catenacci, in Trattato teorico pratico di diritto penale, a cura di Palazzo-Paliero, Torino, 2016, 97, aderisce alla tesi secondo cui il nuovo reato di cui all’art.318 c.p. sarebbe strutturato quale fattispecie di pericolo presunto, in quanto la remunerazione del pubblico agente per il semplice fatto dell’esercizio della funzione integrerebbe una condotta prodromica al compimento di violazioni più gravi, sotto forma di violazione dei doveri d’ufficio. Si è sostenuto che «nella corruzione per l’esercizio della funzione essa è semplicemente prevenuta sulla base di una congettura, che considera qualsiasi elargizione di denaro o altre utilità ad un p.u./i.p.s. come comune, di solito, finalizzata ad accaparrarsi favori o prebende di natura illecita, e che ha indotto il legislatore del 2012 a criminalizzare a tappeto qualsivoglia forma di venalità delle pubbliche funzioni. Il che, se da un lato ripropone, se pur sotto altra forma, i dubbi di conformità dell’art.318 c.p. al principio costituzionale di offensività già avanzati sotto la precedente formulazione, dall’altro vale però quanto meno a spiegare la presenza di una fattispecie così congegnata in un sistema, come si è visto, che assume la tutela dell’imparzialità della P.A. a bene meritevole di tutela» .

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- considerato che la nuova figura di reato prevista dall'art. 318, e quella di cui all'art. 319 c.p., sono caratterizzate l'una dall'assenza l'altra dalla presenza di un atto contrario ai doveri di ufficio, volendo individuare quale sia la norma penale applicabile, occorrerà previamente accertare se l'asservimento della funzione sia rimasto tale o sia sfociato nel compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio;

- l'argomentazione contraria, non sarebbe condivisibile, perché non rispecchia la realtà normativa come sopra ricostruita, atteso che l'art. 318 c.p., in quanto punisce genericamente la vendita della funzione, si atteggia come reato di pericolo, mentre l'art. 319 c.p., perseguendo la compravendita di uno specifico atto d'ufficio, è reato di danno;

- nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa;

- nel nuovo regime, il rapporto tra art. 318 c.p. e art. 319 c.p., da alternativo che era (cioè fondato sulla distinzione tra atto conforme o atto contrario ai doveri d'ufficio), è ora divenuto da norma generale a norma speciale. Si tratta di specialità unilaterale per specificazione, perché, mentre l'art. 318 c.p., prevede e punisce la generica condotta di vendita della pubblica funzione, l'art. 319 c.p., enuclea un preciso atto, contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio.

Tale impostazione è stata seguita da parte della giurisprudenza successiva che ha ritenuto l’asservimento delle funzioni compatibile con la figura di reato prevista dall’art.318 c.p. in tutti quei casi in cui non sia noto il finalismo del mercimonio ovvero i casi in cui l’oggetto dell’accordo corruttivo sia sicuramente rappresentato da un atto dell’ufficio, mentre si configurerà la corruzione propria lì dove alla stabile remunerazione del pubblico agente consegua il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio. In applicazione di tale principio, è stata ritenuta corretta la contestazione del reato di cui all’art.318 c.p. in un caso in cui il pubblico ufficiale, dietro pagamento di un mensile, garantiva al privato la trasmissione di informazioni e contatti al fine di agevolarne l’attività illecita di acquisizione di pubblici appalti, oltre che una totale “disponibilità” ad agevolare il sodalizio criminale, pur senza specifica emersione degli atti concretamente posti in essere58.

8.Una possibile ricostruzione del sistema.L’esame della giurisprudenza e degli orientamenti dottrinali emersi a seguito

dell’introduzione della nuova fattispecie di corruzione per l’esercizio delle funzioni hanno mostrato un punto di tensione con specifico riferimento a quelle ipotesi di sistematica

58 In tal senso si veda Sez.VI, n.3043/16, Rv.265619 così massimata «In tema di corruzione, l'art. 318 cod. pen. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190) ha natura di reato eventualmente permanente se le dazioni indebite sono plurime e trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica. (In applicazione del principio, la Corte ha qualificato in termini di corruzione per l'esercizio della funzione la condotta di un indagato che aveva stabilmente asservito le proprie funzioni di consigliere comunale, nonché di presidente e vicepresidente di commissioni comunali, agli scopi di società cooperative facenti capo ad altro coindagato)».

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corruttela posta in essere a prescindere dalla commissione di un atto che, invero, doveva rappresentare l’ambito di applicazione tipico dell’art.318 c.p.

Il contrasto emerso risulta ulteriormente aggravato dal fatto che, mediante il ricorso a formule stereotipate quale l’asservimento del privato o “messa a libro paga”, si è fatto frequentemente riferimento a situazioni non omogenee tra di loro, trasformando mere locuzioni sintetiche-descrittive in forme di corruzione standardizzate, senza tener presente che le modalità concrete di manifestazione del fenomeno sono frequentemente poliedriche.

Ove si ritenga di continuare a far riferimento all’asservimento del privato per individuare un rapporto di natura corruttiva caratterizzato dalla stabilità e protrazione dell’illecito, nonché dall’esistenza di forme di remunerazione del pubblico agente continuative e periodiche, si dovrà ugualmente verificare come l’attività conseguente alla corruzione si è manifestata.

In quest’ottica, è possibile individuare tre modalità di manifestazione del reato che, nella pratica giudiziaria, emergono con rilevanza statistica tale da giustificare una specifica attenzione.1. Messa a libro paga del pubblico agente cui consegua il compimento di una pluralità di

atti, anche contrari ai doveri d’ufficio, finalizzati ad agevolare il privato corruttore. Tale fattispecie, proprio perché è concretamente dimostrato il compimento anche di atti contrari, è pacifica riconducibile allo schema della corruzione propria essendone configurati tutti gli elementi costitutivi. La circostanza che la remunerazione del pubblico agente sia continuativa e non basata su una relazione di do ut des specifica per ciascun atto posto in essere, descrive unicamente il contesto entro il quale il reato viene posto in essere, denotando sicuramente una maggior offensività della condotta in quanto inserita in uno stabile e duraturo asservimento dei poteri pubblicistici agli interessi privatistici, senza che ciò possa incidere sulla natura del reato59.

2. Elargizioni continuative in cambio di atti conformi ai doveri d’ufficio, in tal caso non dovrebbero sorgere dubbi circa l’applicabilità dell’art.318 c.p., non essendo integrato il presupposto richiesto dall’art.319 c.p. e non potendosi elevare la stabilità del rapporto illecito ad elemento di per sé integrante un atto contrario ai doveri d’ufficio.

3. Elargizioni continuative in favore del pubblico agente a prescindere e prima ancora che sorga l’eventualità che questi compia atti – conformi o contrari ai doveri d’ufficio – diretti a favorire il privato. L’ipotesi dovrebbe sicuramente essere ricondotta nell’alveo dell’art.318 c.p., proprio perché viene meno il rapporto sinallagmatico tra la dazione ed il compimento dell’atto d’ufficio, non potendosi desumere che il mero asservimento, non sostanziato in atti specifici, possa determinare un’equiparazione alla più grave figura della corruzione propria. Invero, in simili casi ci si trova dinanzi a quelle non infrequenti ipotesi in cui il privato, stabilendo un rapporto basato sull’elargizione di denaro od altra utilità in favore del pubblico agente, ponga in essere i presupposti per il successivo ottenimento di atti a sé favorevoli. Nell’ottica della ricostruzione dei rapporti tra corruzione propria e per l’esercizio delle funzioni, è

59 In tal senso si veda, Sez. VI, n. 24535/2015, Mogliani, Rv. 264124 che, in motivazione, espressamente afferma come «lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri d'ufficio, ancorché non predefiniti o non (interamente) individuabili ex post, integra, sia in relazione alla previgente che all'attuale disciplina normativa, il reato di cui all'art. 319 c.p. e non quello, meno grave, di cui all'art. 318 c.p.».

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questa l’ipotesi tipica della progressione criminosa. In concreto, si pensi ai casi del privato il quale – in considerazione dei rapporti contrattuali già in atto con un ente pubblico ed al fine di garantirsi “buoni rapporti” con i dipendenti di riferimento – elargisce a più riprese somme di denaro, pur senza che a ciò consegua il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio. La stabilità della remunerazione, pur dimostrando un asservimento del pubblico agente rispetto all’interesse privato, non comporta di per sé l’integrazione del più grave reato di cui all’art.319 c.p.

4. Elargizioni continuative a fronte del compimento una serie di atti, eventualmente anche contrari ai doveri d’ufficio, “non specificamente individuabili ex post”. Si tratta dell’ipotesi maggiormente dubbia, proprio perché l’incertezza in ordine alla commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio dovrebbe deporre a sfavore dell’applicabilità dell’art.318 c.p., a meno che l’intensità dell’asservimento (desumibile dall’entità del vantaggio del privato, dalla natura e dalla dei rapporti illeciti in atto con il privato, dalla condivisione di risultati e dal grado di “partecipazione” al perseguimento dell’interesse privatistico) sia di per sé prova della disponibilità al compimento di qualsivoglia atto – anche contrario ai doveri d’ufficio - pur di avvantaggiare il privato. A ben vedere questa dovrebbe essere l’unica ipotesi di vero e proprio asservimento del privato, da intendersi come preventiva e totale messa a disposizione del privato della pubblica funzione, tale da integrare di per sé una condotta incompatibile con i principi di buon andamento ed imparzialità dell’agire del pubblico agente, a fronte del quale non risulterebbe neppure la necessità di accertare lo specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, essendo il comportamento stesso del pubblico agente ad essere incompatibile con i doveri derivanti dal suo status.

9.L’asservimento al privato e la natura eventualmente permanente del reato. I rapporti corruttivi prolungati nel tempo e connotati da una stabile remunerazione del

pubblico agente danno luogo – sia nel caso di corruzione propria che impropria - al problema di stabilire se il fenomeno criminoso dia luogo ad un unico reato ovvero ad una pluralità di illeciti, eventualmente connotati da una vera e propria progressione criminosa che contempli un’iniziale corruzione per l’esercizio delle funzioni destinata a sfociare nella corruzione propria lì dove il pubblico ufficiale, in esecuzione dell’accordo, ponga in essere un atto contrario ai doveri d’ufficio.

In giurisprudenza si è affermato 60 (cfr. Sez. 6, sent. n. 3043 del 27.11.2015 - dep. 2016, Rv. 265619; prima ancora, nello stesso senso, v. Sez. 6, sent. n. 49226 del 25.09.2014 già cit.) che, "In tema di corruzione, l'art. 318 cod. pen. (nel testo introdotto dalla legge 6 novembre 2012, n. 190) ha natura di reato eventualmente permanente se le dazioni indebite sono plurime e trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica . Invero, pur essendo fuor di dubbio che l'accettazione della promessa della dazione di denaro o altra utilità è elemento idoneo ad integrare la consumazione del reato, ben può accadere - ed è anzi l'eventualità nella prassi più frequente - che la condotta illecita non si arresti a tale stadio e prosegua mediante l'effettiva ricezione di plurime dazioni indebite provenienti dal privato corruttore, nel qual

60 Sez.VI, n.40237/16, Rv.267634 così massimata «In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura l'unico reato, permanente, previsto dall'art. 319 cod. pen., con assorbimento della meno grave fattispecie di cui all'art. 318 stesso codice.»

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caso rimane comunque fermo il fattore unificante dell'esercizio della funzione pubblica (e, correlativamente, della vendita della stessa), onde non si avranno tanti reati quante sono le dazioni intervenute, bensì un unico ed unitario reato, di cui la prima dazione varrà ad individuare il momento iniziale della consumazione, mentre l'ultima coinciderà con quello terminale. Ad analoghe conclusioni deve giungersi qualora ci si trovi in presenza di fatti di corruzione propria rispetto ai quali il sinallagma non è limitato al mero compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, bensì contempla un accordo complessivo e fondato sulla vendita della funzione (conf., in parte motiva, Sez. 6., sent. n. 8211/16 e n. 49226/14).

Il reato di corruzione, propria o per l’esercizio della funzione, pertanto, ben può atteggiarsi quale reato eventualmente permanente in tutti i casi in cui, a fronte di un accordo unitario, si prevedano una pluralità di dazioni e la disponibilità a compiere una serie, anche non esattamente predeterminata, di atti contrari o conformi ai doveri d’ufficio. A ben vedere, se la corruzione trova il proprio elemento costitutivo nell’accordo illecito, è questo l’elemento unificate, rispetto al quale i successivi “adempimenti” vengono a porsi quale fase esecutiva del reato, con la conseguenza che la reiterazione degli atti, purchè riconducibili all’unico accordo, non daranno luogo ad altrettante singole ipotesi di corruzione.

IV Traffico di influenze.

1. L’origine della nuova figura di reato introdotta all’art.346 bis c.p.Tra le varie novità introdotte con la l.n. 190/12, merita di essere segnalata la fattispecie

di reato prevista ex novo all’art.346 c.p. intitolato “Traffico di influenze illecite” dando seguito alle indicazioni di fonte sovrannazionale che esortavano a prevedere la punizione di condotte meramente propedeutiche alla corruzione.

Il fenomeno del “trading in influence” era stato oggetto di una specifica previsione da parte dell’art.18 della Convenzione O.n.u. di Merida in base alla quale si richiedeva che «ciascuno Stato parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente : a) al fatto di promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona; b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte».

Previsione sostanzialmente analoga era contenuta anche nell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo del 27/01/1999, lì dove si richiedeva che «ciascuna Parte adotta i provvedimenti legislativi e di altro tipo che si rivelano necessari per configurare in quanto reato in conformità al proprio diritto interno quando l'atto è stato commesso

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intenzionalmente, il fatto di proporre, offrire o dare, direttamente o indirettamente qualsiasi indebito vantaggio a titolo di rimunerazione a chiunque dichiari o confermi di essere in grado di esercitare un'influenza sulle decisioni delle persone indicate agli articoli 2, 4 a 6 e 9 ad 11, a prescindere che l'indebito vantaggio sia per se stesso o per altra persona, come pure il fatto di sollecitare, di ricevere, o di accettarne l'offerta o la promessa di rimunerazione per tale influenza, a prescindere che quest'ultima sia o meno esercitata o che produca o meno il risultato auspicato».

A fronte delle richiamate indicazioni di natura sovrannazionale, la novella del 2012 ha introdotto all’art. 346 bis c.p. la nuova fattispecie di “Traffico di influenze illecite”, punita con la reclusione da uno a tre anni, consiste nel fatto di «chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». La stessa pena si applica, secondo quanto prevede il comma secondo dell’art. 346 bis cod. pen., “a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale”, mentre la pena è, dal comma terzo, aumentata “ se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”.

Infine, rispettivamente in forza del comma quarto e quinto, le previste pene “sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie”, e sono invece diminuite “se i fatti sono di particolare tenuità”.

La nuova figura di reato va a colmare uno dei possibili segmenti della condotta antecedente alla corruzione, di modo che allo stato risulta punibile non solo la conclusione dell’accordo illecito, ma anche tutte quelle condotte preliminari che possono inserirsi nel più ampio fenomeno del mercimonio delle pubbliche funzioni. Il traffico di influenze, infatti, va a sanzionare le condotte che – assumendo nella pratica una molteplicità di possibili forme di manifestazione – si connotano per fornire al privato il collegamento con il pubblico agente destinatario della successiva ed eventuale proposta corruttiva.

Occorre rilevare che, se la nuova figura di reato colma effettivamente uno spazio propedeutico alla commissione della corruzione altrimenti privo di sanzione, il quadro complessivo che emerge a seguito della novella presenta un problema di eccessiva parcellizzazione delle condotte, tale da comportare obiettive difficoltà per l’interprete chiamato a distinguere le diverse fattispecie di reato configurabili. In particolare, si porrà la questione di verificare quando la condotta dell’intermediario integrerà il meno grave reato di cui all’art.346 bis c.p. senza sconfinare nel concorso nella corruzione, ipotesi per la quale è stata prevista un’espressa clausola di riserva in favore della fattispecie più grave. Al contempo, occorre individuare parametri di differenziazione con la tradizione figura del millantato credito prevista dall’art.346 c.p. e che, soprattutto in virtù della tendenza della giurisprudenza ad ampliare la portata applicativa del reato, pone problemi di sovrapposizione con la nuova fattispecie di reato, peraltro punita con sanzioni più lievi.

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Infine, va segnalato come il reato di traffico di influenze prevede la punibilità anche del privato che intenda avvantaggiarsi dell’intermediazione illecita; il dato, soprattutto se letto in contrapposizione all’esclusione della punibilità tradizionalmente prevista per la figura affine del millantato credito, ha una sua indubbia valenza sistematica e di politica criminale.

Come con riguardo alla figura dell’induzione indebita, il legislatore ha perseguito, anche con riferimento all’art.346 bis c.p., l’intendimento di ridurre gli spazi di esonero da responsabilità penale del privato che cerchi indebitamente di avvantaggiarsi di possibili condotte illecite poste dal pubblico ufficiale. Nel caso del reato di traffico di influenze, infatti, la punibilità del soggetto interessato ad ottenere l’intermediazione si fonda proprio sul presupposto che, mediante tale condotta, si pongono in essere i presupposti per un approccio all’agire illecito della pubblica amministrazione; in buona sostanza, il privato tenta di avvantaggiarsi della possibile disponibilità al mercimonio dei pubblici agenti e proprio il perseguimento di tale vantaggio illecito determina l’offensività della condotta del privato.

2. Rapporti e differenze con il millantato credito.Come premesso, il reato di traffico di influenze trova il suo ristretto ambito applicativo

tra i reati che puniscono a vario titolo le condotte corruttive da un lato e la fattispecie del millantato credito dall’altro. La stessa collocazione sistematica, subito dopo l’art.346 c.p., denotano la derivazione della nuova figura di illecito dalla medesima matrice, costituita dalla rappresentazione - meramente millantata piuttosto che effettiva – della possibilità di esercitare una qualche forma di influenza nei confronti di un pubblico agente.

La dottrina nettamente maggioritaria ritiene che il reato di traffico di influenze illecite si differenzierebbe essenzialmente per il fatto che le relazioni con il pubblico funzionario vantate dall’intermediario devono essere, come segnalato dall’aggettivo “esistenti”, reali e non invece meramente vantate dall’agente, oltre ovviamente alla circostanza dell’estensione della punibilità per il “ privato” compratore, non prevista dall’art. 346 c.p., in cui invece il privato è considerato vittima della millanteria.

Il traffico di influenze, pertanto, si distingue dal millantato credito essenzialmente sotto il profilo della effettività dell’influenza che viene esercitata, a fronte della quale, invero, sarebbe stato preferibile introdurre un trattamento sanzionatorio maggiormente rigoroso rispetto a quello attuale, specie se raffrontato ai limiti edittali previsti per il millantato credito; l’esistenza di effettive relazioni con il pubblico agente, infatti, dovrebbero costituire indice di una maggior offensività della condotta a fronte della quale mal si comprende la ragione della mite definizione dei limiti sanzionatori.

Essendosi prevista un’ipotesi di reato che presuppone espressamente l’esistenza di relazioni tra l’intermediario ed il pubblico agente, si pone inevitabilmente l’esigenza di verificare la perdurante validità di quell’orientamento giurisprudenziale formatosi con riferimento al millantato credito ed incline a ricondurre in tale fattispecie di reato anche le ipotesi in cui il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato effettivamente sussisteva, ma esso era stato artificiosamente amplificato dall'agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario, e correlativamente di poterlo favorire nel conseguimento di

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preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione61. Se pertanto il criterio discretivo è segnato dall’esistenza reale delle relazioni con il pubblico ufficiale, anche se vantate in maniera amplificata, si dovrebbe di conseguenza ritenere, come fa la dottrina maggioritaria, che tali condotte prima punite ai sensi dell’art. 346 c.p., ora rientrerebbero sotto la fattispecie del traffico di influenza, che, come sopra precisato, prevede una sanzione meno severa rispetto al millantato credito.

La distinzione tra millantato credito e traffico di influenze è stata ricostruita anche valorizzando il ruolo che assume il contraente che acquista la mediazione, ora punibile ai sensi del comma secondo dell’art. 346 bis c.p.

La previsione della punibilità del privato è ricollegata al fatto che, in presenza di relazioni effettive del mediatore con il pubblico agente, dovrebbe conseguirne anche l’effettività dell’intermediazione, in termini non solo di mero contatto, ma anche di utilità dell’influenza esercitata in cambio del vantaggio patrimoniale. Tuttavia, l’effettiva utilità della mediazione non può sempre ritenersi implicita nella mera esistenza dei rapporti tra il mediatore ed il pubblico ufficiale, ben potendo verificarsi che il mediatore non sia assolutamente in grado di orientarne le scelte, oppure in altri casi potrebbe decidere, una volta incassato il corrispettivo, di non attivarsi più per la mediazione illecita. Ne conseguirebbe che lì dove, pur in presenza di un rapporto tra mediatore e pubblico agente non meramente millantato, il privato che si rivolge al mediatore non ottenga alcuna utilità, si viene a riproporre una situazione del tutto assimilabile a quella tipicamente sottesa al millantato credito.

Per evitare, pertanto, che la punizione del privato sia del tutto svincolata da una utilità concreta conseguita mediante la commissione del reato di traffico di influenze, si è sostenuto che per l’integrazione del delitto di cui all’art. 346 bis cod.pen., non sarebbe sufficiente la mera esistenza delle relazioni tra mediatore e pubblico ufficiale, essendo necessario che queste siano realmente idonee ad influenzare l’attività amministrativa ed effettivamente attivate.

La soluzione prospettata ha il pregio di fornire un adeguato supporto alla ratio dell’incriminazione del privato, giustificando il diverso trattamento rispetto al millantato credito, tuttavia, lì dove si richiede che l’intermediazione si sia concretamente realizzata si porrà con frequenza il problema di escludere che l’attività del mediatore non si sia spinta fino a configurare il concorso nel reato di corruzione. A tal proposito occorre considerare che, stante il principio di atipicità del concorso nel reato dell’intraneus, il mediatore sarà chiamato a rispondere del più grave reato di corruzione in tutti quei i casi nei quali, anche grazie alla sua attività agevolatrice, l’accordo corruttivo si sia effettivamente realizzato. A ben vedere, pertanto, lo spazio applicativo della nuova figura di illecito appare circoscritta

61 In tal senso si veda Sez. VI, n. 2645/00, Rv. 215651; Sez. VI, n. 16255/03, Rv. 224872; Sez. VI, n. 13479/10, Rv. 246734; Sez. VI, n. 5071/91, Rv. 187561; il principio affermato dalla giurisprudenza conduceva a ritenere che per la configurazione del reato di millantato credito è indispensabile che il comportamento del soggetto attivo si concreti in una "vanteria", cioè in un'ostentazione della possibilità di influire sul pubblico ufficiale che venga fatto apparire come persona "avvicinabile", cioè "sensibile" a favorire interessi privati in danno degli interessi pubblici di imparzialità, di economicità e di buon andamento degli uffici, cui deve ispirarsi l'azione della pubblica amministrazione. Tale condotta deve indurre a far intendere alla vittima che il millantatore abbia la capacità di esercitare un'influenza sui pubblici poteri tale da rendere i detti principi vani e cedevoli al tornaconto personale, con la conseguenza che alla persona del danneggiato deve apparire evidente la lesione del prestigio della pubblica amministrazione che deve emettere l'atto o tenere un dato comportamento (vera parte offesa, che la norma intende proteggere), senza che importi che siano individuati i singoli funzionari e i reali rapporti che il millantatore intrattiene con essi.

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ad ipotesi residuali, connotate dal fatto che l’intermediazione deve essere concretamente posta in essere o, quanto meno, il mediatore deve avere relazioni effettive e tali da consentire, in astratto, di influire sul pubblico agente, salvo restando che ove al generico “interessamento” segua la conclusione di un accordo corruttivo e questi risulti quanto meno agevolato dall’opera del mediatore, si configurerà l’ipotesi del concorso dell’extraneus nel reato proprio del pubblico agente.

A tal proposito, la giurisprudenza più recente ha ribadito che il reato di cui all'art. 346- bis cod. pen. punisce un comportamento propedeutico alla commissione di un'eventuale corruzione e la clausola di esclusione presuppone che, in concreto, non sia ravvisabile il delitto di corruzione e neppure un'ipotesi di concorso, presupponendosi lo sfruttamento di una relazione esistente con pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, fermo restando che il denaro o l'utilità patrimoniale devono essere rivolti a chi è chiamato ad esercitare l'influenza e non al soggetto che esercita la pubblica funzione62.

Occorre osservare, da un lato, che il concorso nel reato di corruzione può essere anche eventuale, in forza della clausola di estensione della punibilità di cui all'art. 110 c.p., e, dall'altro, che la disposizione di cui all'art. 346-bis c.p. fissa esplicitamente un rapporto di sussidiarietà del reato da essa introdotto e quelli di cui agli art. 319 e 319-ter c.p. («fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter»). In linea con questa prospettiva, è stato anche precisato che il delitto di traffico di influenze, di cui all'art. 346 bis c.p., si differenzia, dal punto di vista strutturale, dalle fattispecie di corruzione per la connotazione causale del prezzo, finalizzato a retribuire soltanto l'opera di mediazione e non potendo, quindi, neppure in parte, essere destinato all'agente pubblico63. Di conseguenza, deve concludersi che risponde di corruzione, e non di traffico di influenze illecite, colui che pone in essere un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra corruttore e corrotto64.

3. Primi orientamenti emersi nella giurisprudenza di legittimità.La differenza tra il reato di traffico di influenza e la più grave ipotesi di millantato

credito è stata già affrontata dalla giurisprudenza con la sentenza Sez. VI, n. 51688/14 Milanese, Rv. 267622, che ha risolto anche la questione relativa alla successione di leggi nel tempo, ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p.

Il caso riguardava un parlamentare, componente della Commissione Bilancio e Finanze della Camera dei deputati e consulente giuridico del Ministro dell’Economia, detenuto in custodia cautelare per il delitto di cui all’art. 319 cod. pen., che aveva accettato una somma di denaro al fine di esercitare pressioni sui funzionari del Ministero dell’Economia e del

62 Sez. VI, n. 18999/2016, Polizzi, Rv. 267818; Sez.VI, 7439/17, Tartaglia.63 Sez. VI, n. 29789/2013, Angeleri, Rv. 25561864 È configurabile il concorso eventuale nel delitto di corruzione, reato a concorso necessario ed a struttura bilaterale, sia nel caso in cui il contributo del terzo si realizza nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all'uno o all'altro dei concorrenti necessari, sia nell'ipotesi in cui si risolve in un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari. (Fattispecie in cui la Corte ha considerato immune da vizi l'ordinanza del Tribunale del riesame cha aveva ritenuto sussistente il concorso eventuale in corruzione in relazione all'attività di intermediazione svolta da persona estranea alla P.A., e consistita nell'avere assunto stabilmente una funzione di collegamento tra il pubblico ufficiale, suo diretto referente, ed il privato, dal quale aveva percepito una remunerazione mensile per tale ragione e quale corrispettivo delle condotte contrarie ai doveri d'ufficio commesse dal pubblico ufficiale), in tal senso cfr. Sez. VI, n. 24535/2015, Mogliani, Rv. 264124 e Sez. VI, 33435/2006, Battistella, Rv. 234361.

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C.I.P.E. che dovevano deliberare un finanziamento pubblico per la realizzazione di una determinata opera pubblica. La Cassazione dopo aver riqualificato il fatto in un’ipotesi di millantato credito, ha affrontato il problema della sussunzione di esso sotto l’art. 346 cod. pen. ovvero sotto la nuova fattispecie di cui all’art. 346 bis cod. pen..

In motivazione si afferma « A questo proposito, risalendo nel tempo, occorre ricordare che il “millantare credito” veniva inizialmente interpretato come vanteria di un’influenza inesistente, idonea a ingannare il c.d. compratore di fumo, il quale, credendo alle parole del millantatore, dà il denaro destinato a compensare la presunta mediazione; successivamente, considerato che il reato di cui all'art. 346 cod. pen. è stato concepito per tutelare il prestigio della pubblica amministrazione piuttosto che il patrimonio del solvens, si è focalizzata l'attenzione sulla condotta dell'agente, che si fa dare il denaro rappresentando i pubblici impiegati come persone venali, inclini ai favoritismi, cosicché si è consolidato l'indirizzo ermeneutico secondo cui, per integrare la millanteria, non è necessaria una condotta ingannatoria o raggirante, perché ciò che rileva è la vanteria dell'influenza sul pubblico ufficiale, che, da sola, a prescindere dai rapporti effettivamente intrattenuti, offende l'immagine della pubblica amministrazione.

A questo punto si deve tener conto dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, che, senza toccare l'art. 346 cod. pen., ha aggiunto la nuova fattispecie di reato denominata “traffico di influenze illecite”, che fissa come presupposto della ricezione del denaro chiesto come prezzo della mediazione propria o come retribuzione per il pubblico ufficiale "lo sfruttamento delle relazioni esistenti" con quest'ultimo. Ai sensi dell'art. 346 bis c.p., autore del reato non è più chi millanta influenze, non importa se vere o false, ma unicamente chi sfrutta influenze effettivamente esistenti (il che giustifica il diverso trattamento riservato a chi sborsa denaro ripromettendosi di trarne vantaggio: non punibile nel primo caso, che ha per protagonista un millantatore puro sedicente faccendiere, concorrente nel reato nel secondo caso, che vede all'opera un faccendiere vero realmente in contatto con il pubblico ufficiale).

Ne deriva che i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 190/2012, nei quali il soggetto attivo ha ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente, che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346 cod. pen., devono ora essere ricondotti nella nuova fattispecie descritta dall'art. 346 bis cod. pen., che, comminando una pena inferiore, ha realizzato un caso di successione di leggi penali regolato dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., con applicazione della norma più favorevole al reo; col risultato paradossale che una riforma presentata all'insegna del rafforzamento della repressione dei reati contro la pubblica amministrazione ha prodotto, almeno in questo caso, l'esito contrario. Invero, mentre l'art. 346, comma primo, cod. pen. stabilisce la pena della reclusione da uno a cinque anni, l'art. 346 bis cod. pen. commina la reclusione da uno a tre anni, ossia una pena il cui massimo edittale, nel caso di affermazione della responsabilità penale, comporta l'irrogazione di una sanzione meno severa e, quanto agli effetti sulla disciplina cautelare, preclude l'applicazione di qualsivoglia misura coercitiva.

Si può dunque affermare il seguente principio di diritto: le condotte di colui che, vantando un'influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il

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favore del pubblico ufficiale, condotte finora qualificate come reato di millantato credito ai sensi dell'art. 346, commi primo e secondo, cod. pen., devono, dopo l'entrata in vigore della legge n. 190/2012, in forza del rapporto di continuità tra norma generale e norma speciale, rifluire sotto la previsione dell'art. 346 bis cod. pen., che punisce il fatto con pena più mite ”.

La Cassazione, pertanto, ha recepito quale tratto distintivo tra le due fattispecie, l’effettiva esistenza della possibilità di influenzare la condotta del pubblico ufficiale, che non sarebbe più una mera vanteria del “trafficante”, ipotesi quest’ultima rimasta invece sussumibile sotto la fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen.

Un caso del tutto analogo è stato deciso di recente dalla sentenza Sez. VI, n. 23355/16, Margiotta, Rv. 267060 (massimata sotto altro profilo). Si trattava anche in quella vicenda di un parlamentare che aveva accettato una somma di denaro per fare pressioni nei confronti del Presidente di una Regione (del suo stesso partito) e dei vertici di un’impresa al fine di indirizzare le gare di un appalto pubblico riguardante quel territorio, sfruttando relazioni effettivamente esistenti con i soggetti predetti. La Corte di cassazione, nell’assolvere l’imputato dal reato di corruzione per il quale era stato condannato in primo e secondo grado, ha affermato che le condotte potevano rientrare nel paradigma del nuovo art. 346 bis cod.pen., norma però non ancora entrata in vigore all’epoca dei fatti e quindi non applicabile all’imputato ai sensi dell’art. 2, comma 1, c.p.. A differenza della citata sentenza n. 51688/2014, la Corte non ha però ritenuto di considerare che quei fatti potevano essere comunque inquadrabili nella fattispecie del millantato credito, così come interpretata dalla giurisprudenza sopra citata prima dell’introduzione nell’ordinamento dell’art. 346 bis c.p., lasciando in tal modo un dubbio interpretativo in ordine al principio di continuità normativa tra le fattispecie affermato dalla sentenza del 2014.

V L’ABUSO D’UFFICIO.

1. La riforma dell’abuso d’ufficio.La riforma intervenuta con l.n.234 del 1997 perseguiva dichiaratamente la finalità di

perimetrare la figura dell’abuso d’ufficio attribuendo a tale reato una maggiore tipicità, evitando in tal modo che vi potesse essere un’indebita interferenza tra la verifica in sede penale della condotta dei pubblici agenti con gli spazi di discrezionalità amministrativa che necessariamente connotato tale attività. Per far ciò si è superata l’originaria previsione che legava la commissione del reato al mero “abuso” dell’ufficio, circoscrivendo le condotte penalmente rilevanti a quelle adottate con violazione di legge o regolamento, nonché all’omessa astensione nei casi dovuti, prevedendo altresì che l’elemento soggettivo del dolo intenzionalmente orientato al conseguimento per sé o per altri di un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero di un danno ingiusto arrecato a terzi65.

65 Il delitto di abuso d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta, Sez.VI, 10133/15, Rv. 262800.

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L’ottica che ha mosso il legislatore è stata, evidentemente, quella di selezionare condotte nelle quali l’abuso delle funzioni non si traduceva in un mero approfittamento della qualità e dei poteri riconnessi alla qualifica soggettiva, essendo richiesto un quid pluris individuabile nel dato oggettivo della violazione di legge66, fattispecie rispetto alla quale l’omessa astensione, anche in considerazione della minor ricorrenza statistica, assumeva un ruolo meramente secondario.

Tale dinamica riformatrice si andava dichiaratamente ad inserire in un contesto giurisprudenziale nel quale si assisteva ad una interpretazione ampia dell’abuso d’ufficio, agevolata indubbiamente dal testo normativo all’epoca vigente, incentrata sul dato finalistico dell’uso dei poteri della pubblica amministrazione per il conseguimento di una finalità incompatibile con l’interesse pubblico; si affermava, infatti, che l'abuso d'ufficio, quando si concretizzi in un vero e proprio atto amministrativo, comporta necessariamente la conseguenza che quest'ultimo, ancorché suscettibile di apparire, in sè e per sè, perfettamente legittimo, sia in realtà affetto almeno dal vizio di eccesso (o sviamento) di potere. Ad un tale vizio possono, talvolta, accompagnarsi anche quelli dell'incompetenza o della violazione di legge i quali, però, di per sè, pur potendo costituire sintomo o indizio dell'abuso, non sono sufficienti a dimostrarne l'esistenza, occorrendo comunque la prova, a tal fine, che vi sia stato anche il suddetto sviamento di potere67.

La ratio sottesa alla novella dell’art.323 c.p. è stata inizialmente recepita nella giurisprudenza che si è formata post riforma68, inizialmente orientata a ritenere che, l'art. 1 della l. 16 luglio 1997, n. 234, che ha sostituito l'art. 323 cod. pen., ha ancorato la configurabilità della condotta materiale alla violazione di leggi o di regolamenti, così da circoscrivere univocamente in ambiti definiti i presupposti del comportamento punibile. Ne

66 Infante, L’abuso d’ufficio, in Cadoppi – Canestrari – Manna – Papa, Trattato di diritto penale, parte speciale, vol. II, Torino, 2008, 342; Vallini, L’abuso d’ufficio e l’omissione di atti d’ufficio, in Palazzo, Trattato di diritto penale, parte speciale, Vol.II, Napoli, 2011, 273; Padovani, Commento all’art.1 della l. 16/7/1997 n.234 . Modifica dell’art.323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale, in Leg.pen., 1997, 747.67 In tal senso, Sez.VI, 14.1.1992, Braccalini, Rv.191851; Sez.VI, 5.12.2004, Chiefallo, Rv.200882.68 Si veda Sez.VI, n.11831/99, Rv.214554; analogamente si è affermato che «Non è configurabile il reato di abuso di ufficio in presenza di un mero addebito di "eccesso di potere". (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto insussistente l'ipotesi delittuosa a carico del capo di un ente pubblico economico il quale, non potendo stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato, si era avvalso dei rinnovi di contratti di lavoro a tempo determinato, condotta sintomatica, sotto il profilo amministrativistico, del vizio di "eccesso di potere")», Sez.VI, 1761/02, Rv.223590. Si veda pure Sez.VI, n.12793/98, Rv.212016 secondo cui «L'art. 323 cod. pen. nella formulazione introdotta dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 esclude che il reato possa configurarsi con l'emanazione di un atto amministrativo inficiato da vizi di legittimità diversi da quelli tassativamente indicati dalla norma, quale l'eccesso di potere. Pertanto, non integra il reato il cattivo uso dei poteri di valutazione dei candidati in un pubblico concorso da parte dei componenti della commissione, ancorché il giudizio si estrinsechi attraverso la semplice espressione di un voto (La Corte ha escluso, in particolare, in tale ultima ipotesi, che il giudizio così espresso possa integrare gli estremi della violazione dell'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, costituendo il voto stesso motivazione del provvedimento)». Per altra e coeva pronuncia, invece, l’eccesso di potere poteva costituire il presupposto dell’abuso d’ufficio sia pur in ipotesi specifiche e residuali, essendosi affermato che «Tra i vizi di legittimità dell'atto amministrativo l'eccesso di potere può rilevare per il giudice penale solo in quanto esso si traduca in illegittimità sostanziale: ciò avviene quando il provvedimento si presenta manifestamente aberrante per assoluto difetto di nesso tra i presupposti in fatto e le conclusioni, così da evidenziare l'abuso del potere discrezionale. (Nella fattispecie, relativa al reato di minaccia e violenza a pubblico ufficiale commessa dall'imputato per costringere il sindaco al rilascio di una licenza, la Corte, annullando in sede cautelare l'ordinanza di rigetto del Tribunale del riesame, ha rinviato al giudice perchè accerti il punto circa la reale contrarietà dell'atto - preteso criminosamente dall'imputato - ai doveri della vittima in quanto pubblico ufficiale: la Corte ha invero specificato che la sola incompetenza del detto pubblico ufficiale a emanare quell'atto non costituisce di per sè la manifesta aberrazione del provvedimento criminosamente preteso e dunque non è sufficiente a fondare la contrarietà ai doveri di ufficio richiesta dalla norma)», Sez.II, 39874/00, Rv.230110.

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consegue che, mentre nel sistema previgente, nel si lenzio della legge assumevano rilievo, ove la condotta si fosse estrinsecata nell'adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, sia l'incompetenza, sia l'eccesso di potere, sia la violazione di legge , nell'attuale sistema ai fini della condotta di abuso rilevano soltanto la violazione di norme di legge o di regolamento e l'inosservanza del dovere di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti (quindi, al di là della violazione di leggi o di regolamenti ora vigenti).

2. La creazione di origine giurisprudenziale della figura dello “sviamento di potere”.

L’impostazione basata sull’individuazione di una specifica violazione di legge o regolamento quale presupposto per la configurabilità dell’abuso d’ufficio è stata progressivamente superata, avendo la giurisprudenza enucleato ipotesi nelle quali – pur in mancanza di una violazione formale e sicuramente individuabile – è emerso il c.d. “sviamento del potere” dai fini istituzionali, risultandone l’esercizio in difformità rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico. Il novellato art.323 c.p., nel prevedere che la condotta del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio si caratterizzi per la violazione di norme di legge o di regolamento, ha voluto evitare, quanto al controllo del giudice penale, che questi, ispirandosi ad esigenze di giustizia, espresse da principi quali l'eguaglianza, l'imparzialità ed il buon andamento della P.A., possa sindacare i comportamenti che rientrano nell'ambito della discrezionalità del pubblico ufficiale o incaricato di p.s., o sovrapponendo alle scelte dell'amministratore proprie scelte che ritiene più rispettose dei canoni fondamentali, o apprezzando in via sintomatica la violazione di legge, valendosi dei tradizionali strumenti del sindacato di eccesso di potere, quali la irragionevolezza della motivazione addotta, l'inadeguatezza dell'istruttoria, la disparità di trattamento.

Tuttavia, tale impostazione non esclude affatto che lo stesso giudice penale si valga, per accertare una violazione di legge, di tutti gli strumenti ermeneutici coessenziali alla sua funzione; che, in sostanza, la dizione "violazione di legge", nell'alludere alla tripartizione classica dei vizi dell'atto amministrativo, sembra impedire la rilevanza penale del merito amministrativo nonché del vizio di eccesso di potere, ma, in realtà, "non circoscrive, al solo tenore letterale, logico e sistematico della disposizione di riferimento, il contrasto tra quanto posto in essere e la legge, sicché tale dizione implica che la violazione possa riguardare anche l'elemento teleologico della norma e possa valutarsi anche sotto il profilo finalistico"69. 

Pertanto, se l'infedeltà allo specifico fine indicato dal legislatore si realizza con "svolgimento di funzione o del servizio che trasmodano da ogni possibile opzione che è stata commessa dal pubblico ufficiale per realizzare tale fine", deve ritenersi di certo corretto che il giudice penale possa dire che, nella specie, la norma di legge è stata violata (cfr. in termini Cass. pen. Sez. VI, 10.12.2001, Bocchiotti).

In simili situazione, si è ritenuto che l’alterazione dell’ordinario agire del pubblico agente, il quale eserciti le sue funzioni per uno scopo personale od egoistico e, comunque, estraneo alle finalità istituzionali, determina nella sua oggettività una violazione al

69 Sez.VI, n.38965 del 2006, Rv.235277.45

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massimo grado di doveri d’ufficio, consentendo di attrarre tale condotta nell’alveo del reato di cui all’art.323 c.p.70

La giurisprudenza, nell’evidente tentativo di far salvo il rispetto del precetto normativo che impone l’individuazione di una violazione di legge o regolamento, ha affermato che tale requisito è integrato non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione71.

Una soluzione non del tutto sovrapponibile a quella appena richiamata è stata adottata in altra pronuncia della Corte, secondo cui il delitto di abuso d'ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale o logico-sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno "svolgimento della funzione o del servizio" che oltrepassi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio; tuttavia, deve escludersi la sussistenza del reato qualora si sia in presenza di un quadro normativo disorganico e suscettibile di contrapposte letture interpretative, che impedisca di individuare con certezza una condotta violativa del contenuto precettivo di una precisa disposizione di legge o di regolamento72.

3. Violazione di legge e principi costituzionalità di imparzialità e buon andamento.L’ulteriore percorso interpretativo seguito dalla giurisprudenza per ampliare l’ambito

applicativo del “nuovo” abuso d’ufficio, superando l’angusto limite che impone la necessaria violazione di legge o regolamento, è rappresentato dall’individuazione nei precetti costituzionali di cui all’art.97 Cost. quale parametro di raffronto della condotta abusiva.

Si è sostenuto, infatti, che i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto dotati di una efficacia immediatamente precettiva, potrebbero costituire di per sé i parametri normativi la cui violazione – peraltro posta al massimo livello della scala delle fonti – darebbe luogo al reato di cui all’art.323 c.p.

Tale approccio ermeneutico ha dato luogo ad un’iniziale risposta negativa da parte della giurisprudenza di legittimità, essendosi ritenuto che il riferimento a principi generali e programmatici avrebbe introdotto un eccessivo tasso di indeterminatezza della fattispecie, in tal modo andando a frustrare l’intendimento del legislatore73.

70 Tra le tante si veda: Sez. VI, n. 19135 /09 , Rv. 243535; Sez. VI, n. 38965/06, Rv. 235277; Sez. VI, n. 38965/06, Rv. 23527771 Sez.VI, n.27816 del 2015, Rv.263932, fattispecie relativa ad assunzioni di personale presso un'azienda speciale comunale, costituita in forma societaria per la gestione di servizi pubblici e sociali, effettuate dai componenti della giunta municipale con criteri clientelari e in violazione delle disposizioni vigenti in materia.72 Sez.VI, 32237 del 2014, Rv.260428, in Cass.pen., 2015, p.1125, con nota di Madia, I nebulosi confini della nozione di "gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private" enucleata nell'art. 353 c.p. tra eccessi "espansionistici" e tendenze "restrittive"73 Non è idonea a rendere configurabile la violazione di legge rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio la sola inosservanza di norme di principio o di quelle genericamente strumentali alla regolarità dell'azione amministrativa. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte, in un caso in cui all'imputato erano stati contestati i reati di falso e di abuso d'ufficio per avere alterato la copia di una circolare al fine di danneggiare un

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La radicale estromissione del principio costituzionale dal campo di applicazione dell’abuso d’ufficio è stata ritenuta eccessivamente limitativa rispetto alle esigenze di prevenzione penale, sicchè l’elaborazione giurisprudenziale ha tentato di rendere compatibile i principi generali con la previsione dell’art.323 c.p. individuando quella è la portata immediatamente precettiva della norma costituzionale.

Si è in tal modo valorizzato l’aspetto concernente l’obbligo di imparzialità che deve governare l’agire della pubblica amministrazione, ritenendo che qualsivoglia decisione debba essere assunta avendo di mira unicamente l’interesse pubblicistico, sicchè il principio di imparzialità può tradursi in concreto nel divieto di favoritismi e trattamenti discriminatori.

L’orientamento giurisprudenziale nettamente prevalente afferma, pertanto, che il requisito della violazione di legge può essere integrato anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A. nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione74.

È del tutto evidente come l’aver dato ingresso al principio di imparzialità quale parametro la cui diretta 75violazione può integrare l’elemento oggettivo dell’abuso d’ufficio, comporta una obiettiva maggior ampiezza applicativa della norma ed, al contempo, consente anche una più agevole e corretta soluzione per ipotesi altrimenti controverse.

A tal proposito va evocato il caso della violazione di norme procedimentali interne, eventualmente anche previste con atti amministrativi di organizzazione che, in quanto tali, non hanno la natura di norma di legge o regolamento. Tuttavia, ove tali previsioni svolgano la funzione di garantire l’imparzialità dell’agire della pubblica amministrazione, la loro violazione – proprio in virtù del diretto coinvolgimento dell’art.97 Cost. – ben può dar luogo al reato di cui all’art.323 c.p.76

dipendente, ha escluso che, una volta ritenuta l'insussistenza del primo di detti reati, potesse affermarsi la sussistenza del secondo, con riferimento alla dedotta violazione, in particolare, dell'art. 97 Cost.), Sez.VI, n.12769 del 2006, Rv.233730. In tema di abuso d'ufficio, il requisito della violazione di norme di legge non può essere integrato dall'inosservanza delle norme di principio poste dall'art. 97 Cost. (Fattispecie relativa a favoritismi nell'assunzione di dipendenti di una società di natura privata), Sez.VI, n.13097 del 2009, Rv.243577. 74 Tra le più recenti Sez.VI, n.27816 del 2015, Rv.263933; ed ancora, il requisito della violazione di legge può consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni. (Nella specie, la S.C. ha reputato immune da censure la decisione impugnata che aveva ravvisato, nel comportamento tenuto dai due direttori di unità operativa ospedaliera succedutisi nel tempo, una condotta penalmente rilevante, consistita nel progressivo svuotamento del carico assistenziale del medico referente dell'esecuzione di prestazioni specialistiche), Sez.VI, n.46096 del 2015, Rv.265464.75 Emblematica in tal senso la pronuncia resa da Sez.VI, 25162 del 2009, Rv.239892, con la quale si è ritenuto sussistente il reato di abuso d’ufficio in un caso in cui un funzionario della motorizzazione civile favoriva sistematicamente un’agenzia di pratiche auto, garantendo il “preferenziale disbrigo di pratiche” ed in tal modo dando luogo ad una “chiara ipotesi di favoritismo in violazione del principio fissato dall’art.97 Cost., che, in quanto riferibile non solo all’organizzazione dell’ufficio, ma alla condotta della persona fisica del funzionaario, può essere presa in considerazione come violazione di legge ai sensi dell’art.323 c.p.”.76 Con specifico riguardo alla disciplina tabellare, recentemente si è espressa Sez.VI, n.12370 del 2013, Rv.256003, affermando che il requisito della violazione di legge o di regolamento può consistere anche nella inosservanza del principio di imparzialità previsto dall'art. 111 comma secondo della Costituzione, espressione del più generale principio previsto dall'art. 97 della Costituzione che impone ad ogni pubblico funzionario, e quindi anche al giudice, nell'esercizio delle sue funzioni, una vera e propria regola di comportamento quale quella di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati trattamenti di favore. (Fattispecie in tema di assegnazione di procedimenti

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A mero titolo esemplificativo si pensi alle norme interne che individuano l’ordine di trattazione delle singole pratiche amministrative, normalmente facendo riferimento al criterio temporale di presentazione delle richieste del privato. L’immotivata violazione dell’ordine cronologico, lì dove sia frutto di una deliberata volontà di avvantaggiare il privato garantendogli una celere definizione del procedimento amministrativo, ben potrà integrare il reato di cui all’art.323 c.p.

4. Le violazioni del procedimento amministrativo.Con l’introduzione della l.n.241 del 1990 il procedimento amministrativo ha ricevuto

una regolamentazione unitaria ed improntata ad attuare, con specifico riferimento alle modalità di formazione della volontà dell’ente pubblico, i principi di buon andamento ed imparzialità dettati dall’art.97 Cost.

Si è posta la questione di stabilire se ed in che misura le violazioni delle norme procedurali potessero costituire non solo vizi di illegittimità del procedimento sindacabili dinanzi al giudice amministrativo, ma anche violazioni di legge rilevanti per integrare il presupposto del reato di cui abuso d’ufficio.

La giurisprudenza ha inizialmente dato una risposta negativa all’interrogativo, sul presupposto che l’abuso d’ufficio dovesse conseguire essenzialmente a violazioni di legge che determinassero l’illegittimità dell’operato della p.a. sotto il profilo finalistico e del conseguimento di un risultato contra legem, con la conseguenza che le mere violazioni procedurali non avrebbero assunto rilevanza autonoma77.

L’impostazione volta a valorizzare le sole disposizioni normative implicanti un contenuto di merito della scelta della p.a. piuttosto che quelle concernenti le modalità di svolgimento del procedimento è stata successivamente superata, avendo la giurisprudenza ritenuto che la violazione di norme procedurali può assumere rilevanza, sia pur a determinate condizioni.

Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 323 cod. pen. la violazione di legge rilevante è solo quella riferita a disposizioni dotate di uno specifico contenuto prescrittivo, con esclusione delle norme meramente procedimentali, da intendersi rigorosamente come quelle destinate a svolgere la loro funzione all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto ed immediato sulla decisione amministrativa78; lì dove, invece, la violazione procedurale – nel caso di specie riferita all’omessa adeguata istruttoria79 - sia tale da

fallimentari in violazione delle disposizioni tabellari, dei criteri di distribuzione automatica degli affari e delle prassi interne ad un ufficio giudiziario; nel formulare il principio indicato, la Corte ha affermato che le norme tabellari, come anche le prassi interne di ripartizione degli affari, costituiscono strumenti di trasparenza nell'assegnazione degli affari contenziosi inscindibilmente connessi al principio di imparzialità).77 Si è affermato che, in tema di abuso d’ufficio, vengono in rilievo solo le violazioni di norme che si trovino in diretto rapporto causale con il vantaggio o il danno previsti dall'art 323 cod.pen.,norme che, essendo specificamente orientate a vietare il comportamento sostanziale del soggetto pubblico, dispiegano i loro effetti su posizioni soggettive. Non integrano pertanto l'elemento materiale del delitto sopra indicato quei comportamenti che si sostanziano nella inosservanza di norme procedurali, destinate a svolgere la loro funzione solo all'interno del procedimento, senza incidere sulla fase decisoria di composizione del conflitto di interessi materiali, oggetto della valutazione amministrativa, Sez.VI, n.9961 del 1999, Rv.213918.78 Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che l'omessa istruttoria, diretta ad individuare un adeguato numero di aspiranti al conferimento di un incarico esterno alla A.s.l. e a verificarne l'idoneità, integrasse una violazione procedimentale ex art. 7 legge 7 agosto 1990, n. 241, in grado di incidere sulla decisione finale, Sez.VI, n.18149 del 2005, Rv.231341.79 In tema di abuso di ufficio, è idonea a integrare la violazione di legge, rilevante ai fini della sussistenza del reato, l'inosservanza da parte dell'amministratore pubblico del dovere di compiere una adeguata istruttoria diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio di una autorizzazione; infatti, l'istruttoria amministrativa è

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inficiare la decisione finale, ben può configurarsi il reato di abuso d’ufficio, sussistendo il rapporto di strumentalità tra la violazione di legge accertata ed il risultato finale dell’agire della p.a..

Analogamente è stato ritenuto configurabile il reato di abuso d’ufficio in presenza della violazione dell’obbligo di motivazione80 il più delle volte adottata sotto forma di motivazione meramente apparente, sempre che la violazione sia funzionale al conseguimento di un risultato illecito, consistente nell’arrecare a terzi un danno ingiusto ovvero del conseguimento di una indebita utilità.

5. Il dolo intenzionale ed il concorrente interesse pubblico.L’attuale formulazione dell’art.323 c.p. presuppone che l’agente, mediante la violazione

di legge o di regolamento “intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”, si richiede, pertanto, un dolo intenzionale al fine di connotare ulteriormente l’illegittimità della condotta che dovrà essere univocamente diretta ad un risultato incompatibile con il perseguimento dell’interesse pubblico.

Si pone, pertanto, il problema di verificare l’eventuale venir meno del predetto dolo intenzionale in tutte quelle ipotesi in cui la violazione di legge sia compiuta comunque in vista del perseguimento di un interesse pubblicistico riconoscibile ed autonomo rispetto all’eventuale concorrente sussistenza di un interesse privato. Le fattispecie concrete ipotizzabili sono innumerevoli, basti pensare a tutte quelle ipotesi in cui il pubblico agente, al fine di garantire nell’immediato l’interesse pubblico, si risolva a violare la normativa superando passaggi burocratici incompatibili con le esigenze contingenti.

Secondo un’impostazione particolarmente rigorosa, l’interesse pubblicistico sarebbe sempre incompatibile con condotte che presuppongono una violazione di legge, atteso che il fine pubblicistico verrebbe meno per il semplice fatto che vi sia stata una qualche forma di illegittimità nell’adozione del provvedimento amministrativo. Parimenti si è ritenuto che lì dove vi sia un concorrente interesse privato che il pubblico agente vada a perseguire, ove pure tale interesse possa risultare coincidente con quello pubblicistico, sussisterebbe pur sempre un’alterazione della regolarità dell’azione amministrativa idonea a dar luogo al reato di cui all’art.323 c.p.81

comunque imposta da una norma generale sul procedimento, cioè dall'art. 3 legge 7 agosto 1990, n. 241, ed incide direttamente nella fase decisoria in cui i diversi interessi, pubblici e privati, devono essere ponderati. (Nell'affermare tale principio, in una fattispecie in cui il vice sindaco aveva omesso l'istruttoria per il rilascio di una autorizzazione sanitaria in favore di una società di cui faceva parte anche il sindaco, la Corte ha precisato che l'inosservanza del dovere di istruttoria non può essere considerata violazione di semplici norme interne relative al procedimento e, in quanto tali, prive del carattere formale e del regime giuridico della legge o del regolamento cui si riferisce l'art. 323 cod. pen.), Sez.VI, n.69 del 2004, Rv.230901.80 In tema di abuso di ufficio, la violazione di legge può consistere nell'adozione di un atto amministrativo caratterizzato da una motivazione di mero stile, attraverso l'impiego di locuzioni che costituiscano una consapevole "non motivazione". (Fattispecie nella quale il Consiglio di una Facoltà aveva deliberato la "non chiamata" del vincitore di un concorso per il posto di professore universitario limitandosi ad indicare che la sua figura non rispondeva alle specifiche esigenze per il quale il posto era stato bandito, dopo un'ordinanza del TAR che aveva imposto di procedere a "rigorosa ed ampia motivazione di non chiamata"), Sez.VI, n.21976 del 2013, Rv.256549.81 Si veda Sez.VI, n.9983 del 1998, Rv.211586 « Secondo la formulazione della norma dell'art. 323 cod. Pen. introdotta con l'entrata in vigore della l. 16 luglio 1997, n. 234, la condotta criminosa si concreta nella violazione di norme di legge o di regolamento, con la conseguenza che sono incompatibili la contemporanea realizzazione di un ingiusto vantaggio patrimoniale per il privato - realizzato, nel caso, con la violazione di norme urbanistiche - e di un interesse

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Tale impostazione è stata ben presto superata sul presupposto che l’interesse pubblico non è automaticamente incompatibile né con la violazione di legge, né con la concorrente sussistenza di un vantaggio per il privato, dovendosi piuttosto verificare quale dei due profili sia quello prevalente, in vista del quale il pubblico agente ha ritenuto di agire.

Si è, infatti, affermato che Il dolo intenzionale del delitto di abuso d'uffucio non è escluso dalla mera compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, essendo necessario, per ritenere insussistente l'elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca il fine primario dell'agente82. Ne consegue che il dolo intenzionale è escluso dalla finalità pubblica perseguita dall'agente, quando il soddisfacimento degli interessi pubblici prevalga sugli interessi privati, mentre è integrato qualora il fine pubblico rappresenti una mera occasione o un pretesto per occultare la commissione della condotta illecita83. 

Seguendo l’impostazione giurisprudenziale secondo cui nell’abuso d’ufficio è richiesto il dolo intenzionale rispetto all’evento, individuato nel vantaggio indebito o nel danno ingiusto, mentre la violazione di legge presuppone il dolo semplice, si è anche affermato che l'intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, per escludere la configurabilità dell'elemento soggettivo, che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale84.

della comunità, dato che da una condotta realizzata dagli amministratori di un ente territoriale, in violazione di norme poste a presidio di un generale interesse pubblico, può derivare solo un danno per la per la collettività, con esclusione di ogni altro profilo derivante da una diversa valutazione discrezionale ad opera degli amministratori pubblici (Nella specie la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato di abuso di ufficio - del quale ha ravvisato oltre che la realizzazione del vantaggio ingiusto per il privato anche l'elemento intenzionale - nell'adozione di una delibera comunale di approvazione di una convenzione con un privato con la quale l'ente territoriale consentiva la costruzione di un edificio in spregio alle norme urbanistiche in cambio della cessione di un area al comune, da asservire all'uso pubblico)».82 Sez.VI, n.18895 del 2011, Rv.250374.83 Sez.VI, n.13735 del 2013, Rv.254856 e successive conformi.84 Sez.VI, n.7384 del 2011, Rv.252498.

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