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Raccolta di scritti
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1
Laboratorio di scrittura
a.s 2011/12
Classe III E
a cura della prof.ssa Maria Leuci
“Storie di mare”
racconti
2
Introduzione
“Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se,
per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi.
E qualcuno - un padre, un amore, qualcuno - capace di prenderci
per mano e di trovare quel fiume
- immaginarlo, inventarlo - e sulla sua corrente posarci, con la
leggerezza di una sola parola, addio.
Questo, davvero, sarebbe meraviglioso.
Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita.
E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero
portate dalla corrente,
si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi
toccare.
Farsi ferire, anche. Morirne.
Non importa.
Ma tutto sarebbe, finalmente umano.
Basterebbe la fantasia di qualcuno - un padre, un amore,
qualcuno.
Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio,
in questa terra che non vuole parlare.
Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.”
Alessandro Baricco, Oceano Mare
Il mare. Il mare e le sue storie. Il mare che ci scava dentro, che ci penetra con
la sua calma, che ci agita con le sue burrasche. Il mare dentro di noi.
Sono questi i pensieri che hanno creato questa raccolta, che hanno ispirato le
menti dei miei ragazzi, che hanno provato a raccontarlo nei suoi giorni di calma
piatta e nei giorni tormentati, di onde furiose e nere.
Ognuno ha avuto la sua storia, che ha raccontato a modo suo, con le sue parole, che, da oggi, resteranno indelebili a testimoniare una storia di fatica, di
ripensamenti, di sconfitte e di soddisfazioni, che è il lavoro della scrittura.
Prof.ssa Maria Leuci
3
INDICE
Respiro marino di Alessia di Martino p.1
Era un giorno di piena estate di Giovanni de Giambattista p.4
Come il sole sott’acqua di Simona Fanelli p.5
I misteri del mare di Roberta Arpone p.9
Il sogno del marinaio di Felice Bassi p.10
Il fondale carminio di Samantha Bove p.12
Il vento tra le onde di Christian Caffarella p.14
Gioventù in tempesta di Teresa Conca p.16
La tempesta imperfetta di Alessia Cozzoli p.18
Uno strano caicco di Priscilla Curci p.21
Un segreto naufragato di Francesca d’Azzeo p.27
Il mare di vetro di Raffaele Di Giglio p.29
Onde di Silvia Funari p.32
Salvate il soldato Smalling di Emanuele Lima p.34
Occhi di Giorgia Mastrogiacomo p.35
Il colore delle onde di Arianna Musicco p.39
Io, mio fratello e il mare di Arianna Pellegrino p.44
Oltre i confini del mondo di Roberto Rasoli p.47
Ossessione di Sergio Soldani p.50
Una lacrima nel mare di Francesco Squatriti p.53
Il dono del mare di Mario Ventura p.55
Un segreto in fondo al mare di Pasquale Zecchillo p.58
4
RESPIRO MARINO di A. di Martino
Mare nient'altro che mare. Quel manto cobalto che, giocando con i raggi solari,
sprigiona luccichii che si susseguono vorticosamente. E' come se fossero in una gara, una gara alla conquista del traguardo da
superare per gustare quel sapore sofisticato e dolce della meta, che il mare
raggiunge accarezzando la costa.
E' indescrivibile il piacere che sprigiona il contatto con l'acqua marina. Erano questi i pensieri che invaghivano Andy, un diciassettenne come tutti
che, invece di correre per le strade con il motorino, bere con gli amici, andare
in discoteca, adorava il fine settimana solo per una cosa:la ricerca della quiete dopo l'inferno di ogni giorno.
Il problema di Andy era uno:il frastuono delle cose artificiali.
Gli dava fastidio persino il ticchettìo provocato dalle penne dei compagni, oppure le voci ammassate che si sprigionavano alla ricreazione per i corridoi
scolastici.
Insomma, per lui la scuola rappresentava un vero e proprio caos frastornante e molte volte si chiedeva il perché l'istruzione degli individui debba essere così
assillante. Perché bisognasse stare chiusi in quelle stanze monotone, senza
dipinti, senza musica, senza passione.
Non si potevano variare quelle lezioni di monotonia? Magari trascorrendo le lezioni sulla spiaggia, oppure le lezioni di scienze in mezzo alla natura, o
comprendendo le azioni dei politici durante un loro dibattito?
Giusto per trasmettere la passione della disciplina praticamente e non dormendo sui libri. No. Questo era troppo per la comunità scolastica.
Eppure sarebbe stato utile soprattutto a tipi come Andy, che erano nati con il
telefonino in mano e comunicavano dalla placenta con facebook. Era questo che Andy cercava, un distacco dalla comune realtà.
Solo appassionandosi Andy avrebbe veramente assaporato l'indipendenza dalla
vita artificiale. Passione, durante le lezioni questa era la parola che offuscava la testa di Andy.
Guardando apparentemente il prof. che spiegava, Andy viaggiava con la mente,
andava in posti lontani e ogni volta diversi per cercarla.
A volte si chiedeva anche se gli adulti, da adolescenti, avevano nutrito una passione .Ma non si seppe mai dare una risposta.
Osservando le facce dei professori, Andy pensava che l'insegnamento fosse una
forzatura per loro. Questo lo considerava altamente nocivo alla salute, perché il lavoro del professore, anzi, ogni specie di lavoro, lo si deve svolgere con
passione, altrimenti non si trae nessun profitto, eccetto quello economico.
Ma i soldi non fanno la felicità. Per Andy ogni minima cosa doveva essere affrontata con piacere e serenità,
anche gli ostacoli più difficili. Eppure lui tentava di spiegarlo ai suoi genitori
che, preoccupati per l'atteggiamento introverso e vago del figlio, lo spronavano a partecipare ad attività scolastiche e a frequentare qualche palestra.
Ma niente, per Andy erano soldi buttati al vento.
Anche i suoi amici lo invitavano a giocare a calcio ma lui, forzatamente, andava solo ad assistere.
Andy non aveva ancora trovato la sua passione.
5
Poteva essere considerato normale alla sua età che un adolescente non avesse
ancora le idee chiare su una futura carriera e su un ipotetico futuro.
Un sabato pomeriggio Andy uscì con il suo cane Axel, e, preso un gelato, passeggiò lungo la riva del mare, scansando l'acqua che correva sulla riva,
giocando proprio come faceva da piccolo fra le braccia del padre.
Ammirava il padre, un noto avvocato, ma sentiva in cuor suo che stare chiuso
in tribunale non era mestiere per il suo spirito libero. Faceva spesso quelle passeggiate, semplicemente per il piacere di staccarsi
dalla realtà rumorosa che lo divorava giorno dopo giorno.
La cosa che lo attirava verso quel luogo erano le immagini colorate, che le onde del mare disegnavano all'orizzonte durante il tramonto.
Si sentiva libero, tranquillo e solo lì, seduto sulla riva, riusciva finalmente a
respirare. Solitamente tornava prima di cena, ma quel pomeriggio c'era qualcosa di diverso nell'aria, qualcosa che lo affascinò particolarmente...
Fissando l'orizzonte, dipinto di pastelli che coloravano le nuvole, Andy focalizzò
l'attenzione su minuscoli triangoli bianchi che, apparentemente, distoglievano la sua attenzione dal manto celestiale.
Sì, erano proprio curiosi quei triangolini, che ballavano un lento sulle onde.
Quella perfezione, quel movimento così dolce e affascinante creava un senso
poetico tale da incantare gli occhi di Andy, affogati nel blu cobalto del mare. Man mano che i triangolini si avvicinavano, Andy capì che erano vele condotte
in quel ballo marino da abili ragazzi.
I giorni seguenti Andy si recò piacevolmente lì, proprio nello stesso punto e, seduto sulla sabbia e facendo scorrere i granelli fra le dita, osservava con
attenzione quella danza maestosa.
Una mattina, in un compito in classe, Andy scrisse un racconto su quella danza marina, paragonando la vela alla dama e il mare al cavaliere che, con la
sua lusingante maestosità, baciava il legno della barca.
Andy, un tipo timido e molto lento nel prendere decisioni, una notte, vagando come sempre e rispolverando sotto le coperte le avventure vissute durante la
giornata, capì che il solo pensiero rivolto a quell'immagine strepitosa aveva
germogliato in sé un amore per quell'arte.
Così, la mattina seguente, al suono della campanella dell'ultima ora, Andy corse fuori dall'istituto e, presa la bicicletta, sfrecciò verso la spiaggia.
Il cuore batteva all'impazzata, sentiva già il profumo marino, anche se non era
ancora arrivato a destinazione. La cosa più stravagante che aveva compreso era che la sola immagine del mare aveva oscurato tutte le perplessità, tutti i fastidi
che lo soffocavano.
Una volta arrivato in spiaggia si precipitò verso quei ragazzi e chiese informazioni.
Quel giorno Andy era rinato, sfrecciava sulle onde come nessun altro aveva
fatto fino ad allora. Dopo un anno era diventato un vero e proprio professionista.
Sì, aveva proprio trovato la sua passione, innamorandosi delle onde da
cavalcare.
Ma la cosa che affascinò lo stesso Andy fu l'abilità con cui destreggiava la sua dama.
Dopo le gare soleva sempre fare un tuffo nel ”mondo blu'', come lo chiamava
lui. Gli piaceva assaporare la vittoria fino in fondo.
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E questa emozione gliela poteva donare solo il mare, che gli accarezzava
dolcemente la pelle.
7
Era un giorno di piena estate di G. Degiambattista
Era un giorno di piena estate, mia zia, che aveva la villa al mare, era andata lì
da qualche giorno per trascorrere il week end e aveva invitato anche me e mia sorella per un paio di giorni. Ci siamo divertiti tantissimo, facendo tutte quelle
cose bellissime e spensierate che si possono fare in una villa al mare,
alternando il profumo del verde alla brezza del mare. Ci divertimmo anche a catturare le lucertolone, che poi lasciavamo libere perché erano tenerissime,
ma le gare di nuoto furono quelle che ci fecero stancare tantissimo e, ad un
certo punto, quasi senza accorgercene ci ritrovammo a dormire. Io e mio cugino dormivamo sul letto a castello, uno di sopra e uno di sotto,
attenti a non muoverci molto per non disturbare l’altro ma, tutto ad un tratto,
sentii dei passi, la finestra si aprì di colpo e cadde l’ipad appoggiato sul
davanzale. Io pensai che fosse stato un colpo di vento e mi alzai a chiuderla, ma mi sentii toccare da qualcosa, allora pensai ad uno scherzo di mia sorella
che, quando è in compagnia, fa scherzi a tutti, mi girai, ma non era mia
sorella, vidi una sagoma nera che sembrava tutto tranne che una persona, presi coraggio e mi alzai dal letto. Incominciai a girare piano intorno alla stanza
per arrivare alla finestra, prendendo coraggio. Arrivato, vidi la finestra aperta,
ma non c’era niente di strano, evidentemente era stata una folata di vento. La mattina dopo, durante la colazione, mio cugino disse che aveva fatto uno
strano sogno, in cui c’era un tipo vestito di nero che lo guardava, io collegai la
mia esperienza con quel racconto e mi spaventai un po’. Cercai di distogliere il pensiero e decidemmo di andare al mare, facemmo tante
capriole e tuffi e ci divertimmo tantissimo. Al rientro non trovavo mio cugino,
ma era normale, anche perché spesso tornavamo a casa ognuno per conto
proprio. Era ora di pranzo, tutto era pronto, ma mio cugino non arrivava mai e mia zia
mi chiese il favore di andarlo a cercare. Io mi diressi verso una grotta, non so
perché ma sentivo che lì dovevo andare. Arrivato, vidi da lontano una figura nera, mi spaventai tantissimo ma, avvicinandomi, vidi mio cugino quasi in
trance, che guardava un punto fisso, mi avvicinai e gli diedi uno spintone, ma
lui riprendendosi si arrabbiò tantissimo. Al momento non capii il motivo per cui si era arrabbiato ma, preso dalla curiosità, invece di seguirlo alla villa mi
inoltrai nella grotta alla ricerca di questa figura nera. La grotta portava ad uno
sbocco al mare, dove l’acqua era un incanto; mi tuffai ma non vidi ancora niente. Ad un certo punto dal mare uscì un uomo con una muta da pesca nera
con in mano un pesce enorme che, vedendomi, urlò; io ero più spaventato di
lui! L’uomo nero si tolse subito il cappuccio della muta…………..era quel
simpaticone dello zio Eugenio, il quale voleva fare una sorpresa alla sorella portando un grosso pesce per la sua festa. Era stato lui, la sera prima, ad
entrare dalla finestra della nostra stanza per prendere la rete per i pesci.
Tornammo di corsa alla villa e raccontammo la storia a tutti e, felici, mangiammo insieme il pesce sulla brace.
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Come il sole sott’acqua di S. Fanelli
E' una distesa immensa, di quel colore così sorprendente che sembra quasi
variare ogni volta che qualcuno lo decide. I suoi colori sono infiniti, dal rosso della passione al rosa della pace e della serenità, al verde dell'estate, dei sorrisi,
dei divertimenti, al blu cobalto della rabbia, della paura di scegliere e di
sbagliare.
In quel mare navigarono i migliori anni della mia vita, fu solo lui l'unico a conoscere le mie grandi avventure, le mie paure, le mie passioni, i sogni .
Forse tutto questo non mi era capitato per caso, non perché doveva succedere,
ma perché lui aveva deciso che dovesse andare così. Il mare. Lei era come il sole.
Non faceva altro che dare luce ai miei occhi, a me stesso ogni giorno. E ogni
giorno la luminosità aumentava. Lei il sole ce l'aveva dentro al cuore e niente e nessuno era mai riuscito a toglierlo. Quel sorriso sono sicuro che non l'avrei
mai trovato da nessun'altra parte, in nessun'altra donna.
Era la mia donna, la mia bambina, era mia figlia e sia chiamava Bonnie, la mia bontà.
E nessuno me l'avrebbe mai portata via.
Quel giorno Bonnie compiva cinque anni e non potevo deluderla. Il suo regalo
doveva essere speciale; ormai, da quando sua madre non c'era più, ogni cosa era calcolata, tutto aveva il suo peso e non potevo mai permettermi di
sbagliare. Passeggiavo sulle rive della spiaggia, che si trovava proprio dinanzi
alla mia casa, anzi alla nostra. Mi piaceva passeggiare lì al mattino, quando tirava quell'arietta fresca, anche la mattina del due giugno. Vidi un uomo
passeggiare con un cane stupendo. Avevano un'aria così tranquilla e felice, si
vedeva che non desideravano nient'altro dalla vita. Per un attimo mi passò una vita davanti. Rividi momenti pessimi insieme a quelli migliori del mio passato.
E pensai che, in tutti i casi, avevo sempre avuto qualcuno con cui condividere
quegli attimi, qualcuno che fosse sempre pronto ad ascoltarmi, senza parlare, senza giudicare. Pensai così che era arrivato il momento di dare anche a mia
figlia un'opportunità del genere, perché non avrei mai voluto che un giorno si
sentisse sola.
Avevo deciso di regalare a Bonnie un cane, qualcuno che la ascoltasse e che fosse sempre pronto a darle gioia. Quel giorno, con quel dono, resi mia figlia
davvero felice. Quella felicità non gliel'avrebbe mai tolta nessuno, mai doveva
mancarle. Il giorno dopo andammo in spiaggia. Bonnie e il suo nuovo amico correvano e
giocavano come matti. Guardare mia figlia così era una meraviglia. Quella volta
però decisi di presentarle il mio più grande amico. Il mio mare. Aveva bisogno anche lei di conoscerlo e non potevo non farlo proprio quel giorno. Così iniziai a
parlarle con parole semplici, perché, quando si è piccoli, non si capisce appieno
cosa c'è sotto quel fondale, e nemmeno dietro quella linea all'orizzonte. Io tutto questo un po' lo avevo imparato durante la mia vita, perché l'avevo trascorsa in
mare. Quando ero bambino, avevo uno zio che aveva una barca a vela
stupenda, di quelle che si vedono nei quadri, bianche e blu. Lui aveva una passione infinita per il mare e riuscì a trasmettermela non so con quale forza.
Iniziai a seguirlo perché, quando mi portava fuori dal porto, mi piaceva vedere i
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pesci grossi. Una volta vedemmo un delfino, che nuotava libero in mare. Durò
un attimo, ma i miei occhi di bambino non riuscivano a credere a ciò che avevo
appena visto. Da quel giorno non smisi mai di salire su quella barca con la speranza di trovare altri mille delfini, ma purtroppo non ne ebbi mai più
occasione. Vivevo con la voglia di rincontrarne uno e, nel frattempo, ammiravo
le meraviglie del mare aperto.
Volevo fare la stessa cosa con Bonnie. Avevo sempre pensato che, se mai avessi avuto un figlio, gli avrei svelato tutti i segreti del mare che conoscevo. Perché il
mare era diventato il mio più grande amico, proprio come un cane.
Guardai Bonnie con gli occhi un po' lucidi, poi iniziai a sussurrarle qualche parola:
“Sai tesoro, anche io ho un amico come il tuo, solo che il mio non è un cane.”
“E che animale è papà?” “Diciamo che non è un animale..osserva intorno a te.”
“Io non vedo nessuno.”
“Ne sei proprio sicura? Io invece vedo il mio amico. Si chiama Mare.” “Come Mare? Lo posso conoscere?”
“Certo che puoi! Ma lui è un po' timido, non ha molte parole da dire, e poi sta a
te ascoltarlo e capire cosa vuole dirti.”
“E come si fa?” “E' un segreto. Per prima cosa devi chiudere gli occhi e pensare a cosa vorresti
chiedergli.”
“Poi? Dai, papà, sono curiosa!” “Non puoi urlare, e poi non è detto che voglia già conoscerti. Il mare è solo per
pochi amore.”
“Ma allora non vuole conoscermi..” “Devi imparare ad ascoltarlo..Forza, pensa a qualcosa che vorresti chiedergli e
ascolta il rumore delle onde.. prova.”
“Non mi ha risposto.” “Cosa gli hai chiesto?”
“Cosa mangiamo per cena, ho tanta fame.”
“Ah, ma non sono queste le cose da chiedergli! Devi andare molto più giù, più
giù..scava nel tuo cuoricino, vedrai che un giorno qualcosa da chiedergli la trovi.”
“Va bene, però adesso andiamo.”
Tornammo a casa in silenzio. Ebbi molto a cui pensare quella sera. Pensai che prima o poi Bonnie mi avrebbe chiesto di sua madre. Dovevo pur prepararmi
qualche risposta, ormai stava crescendo e non potevo darle risposte banali.
Non riuscivo a prendere sonno. Misi a letto Bonnie, mi infilai una felpa pesante e uscii in spiaggia. Non riuscivo a pensare attentamente nel mio letto. Avevo
bisogno di lui, come sempre. Del mare. Quella sera era nero e il riflesso della
luna aveva un viso familiare. Assomigliava a mia moglie. Mi aiutò ancor più a riflettere. Quanto mi mancava? Spesso mi capitava di pensare di scappare
ovunque lei fosse e riprendermela. Solo per me e Bonnie. E ricominciare a
vivere una vita felice, con una famiglia al completo. Si chiamava Giulia, ci
conoscemmo al college da ragazzi e da allora ci eravamo sempre amati. Dopo pochi mesi dalla nascita di Bonnie scoprii che aveva un altro. Me ne ero
accorto anche dal rapporto quasi inesistente che si era creato tra noi. Quando
lo scoprii, lei non seppe far altro che scappare. E lasciarmi con la mia bambina. Mi ritrovai improvvisamente solo, ma contemporaneamente in
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compagnia. Ogni giorno portavo Bonnie in riva al mare a guardare il tramonto.
Era un momento che ogni giorno mi faceva pensare a qualcosa di diverso. Ogni
giorno provavo un'emozione diversa. Ma lei mi mancava, e l'unica cosa che riuscii a fare fu cercarla in quel mare stupendo. Lei era come il sole sott'acqua.
Non la vedevo, ma sapevo che in qualche posto nel mondo mi stava pensando,
il punto era che non riuscivo mai a salire a galla, per vedere quel sole in faccia.
Bonnie aveva dodici anni. Ci eravamo comprati una barca l'estate precedente.
Decidemmo così di andare in Grecia. Mi era capitato di farla timonare un paio
di volte, ma non volevo darle fretta. In quella vacanza avrebbe osservato le più belle meraviglie del mare, e magari avremmo incontrato anche qualche delfino.
Così navigammo tanti mari diversi, ma non facemmo un lungo viaggio. Il mare
fu una tavola per tutta la navigazione. Ci furono giornate bellissime, vidi sorrisi splendidi sul viso di Bonnie, in quel viaggio conobbe i segreti del mare più belli.
Imparò a parlare con il mare, imparò a conoscerlo, anche se un po' più tardi
rispetto a me. Sentii che parlava di sua madre. La cercava disperatamente, ogni giorno si
sedeva a prua a guardare l'orizzonte e parlava. Un giorno vidi di nascosto sul
suo viso una lacrima.
Stava male e a me non stava bene, dovevo fare qualcosa, mi ero sempre promesso che non l'avrei mai fatta soffrire, ma evidentemente tra il dire e il fare
c'è davvero di mezzo il mare.
Ero arrabbiato con me stesso, perché forse avevo sbagliato io qualcosa, avrei dovuto cercare Giulia prima che Bonnie diventasse così grande. Guardai il
mare e mi ci tuffai dentro. L'acqua era gelida, ma mi fece bene per rinfrescarmi
un po' le idee. Spesso cercai di parlare di Giulia con Bonnie, ma lei rifiutava e diceva che
preferiva non parlarne, perché in realtà una madre non l’ aveva mai avuta. E
puntualmente saliva a prua, anche di notte. Adoravo il modo in cui si era legata al mare. Era proprio quello che volevo. Ero
riuscito a fare finalmente qualcosa di buono, oltre ad una figlia stupenda che
amavo.
Girammo tutta la Grecia, infine andammo a Santorini, un'isola alla quale ero particolarmente legato.
Io e Giulia lì facemmo il nostro primo viaggio insieme. Da allora ci tornammo
spesso, quell'isola era fatta per noi, quando eravamo lì ci sentivamo a casa. E poi lì avevamo un segreto. In una grotta incidemmo la seguente frase: “il nostro
amore è più forte della morte”.
Era un segreto che mai nessuno aveva saputo, ma quella volta dovevo far conoscere a Bonnie tutto ciò.
Il mare lì in Grecia era stupendo. Era blu e solo blu, nessun'altra sfumatura,
blu netto. Il suo profumo mi riportava a Giulia, profumava di lei. Avevo un'immensa nostalgia di lei, e le uniche cose con cui riuscivo a consolarmi
erano mia figlia e quel mare stupendo in cui mi trovavo.
Dopo due giorni portai Bonnie nella grotta. Iniziai a parlarle di sua madre, di
quell'isola e di quanto ci amavamo. Fino a quando non giungemmo davanti all'iscrizione.
Non sapevo davvero come raccontarle. Cercai di spiegarle, ma lei iniziò ad
urlare e a riempirmi di domande alle quali davvero non sapevo come rispondere.
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-“Papà, ma non è vero! Siete stati degli stupidi! Perché avete scritto che il
vostro amore è più forte della morte se ora non siete più insieme? Perché,
perché non siamo una vera famiglia?” -“Bonnie, lo so, hai ragione, ma tua madre ha scelto di non amare più me, ma
tu non devi arrabbiarti. Potrà succedere anche a te un giorno di non amare più
lo stesso uomo.”
-“No, io non avrei mai lasciato mia figlia sola, senza conoscerla, senza vederla crescere, senza sapere come è fatta. Non ce l'avrei mai fatta a fare una cosa del
genere. Ma come ha potuto lasciarmi sola!”
-“Amore ti capisco, anzi no, forse non posso capire un dolore del genere. Ma posso solo dirti che le persone che si amano davvero sono tutte intorno a te.
Nessuno ti lascia sola, e forse un giorno mamma tornerà da te perché capirà di
aver sbagliato. Ma impara che nella vita non tutto va come credi. Molti faranno finta di amarti e poi ti pugnaleranno, altri faranno i finti amici senza mai dirti
nulla, altri ancora cercheranno di fregarti, e solo pochi ti vorranno davvero
bene, senza alcun fine. Per cui impara a costruirti uno scudo bello forte, così potrai affrontare tutto nella vita. Se vivi nel nulla, al primo ostacolo cadrai e
sarà difficile rialzarti”.
-“Grazie papà, però ho davvero bisogno di conoscere mia madre. Tu da piccola
mi hai insegnato ad ascoltare il mare, hai fatto di tutto affinché io lo facessi. Ed ora che ho imparato a conoscerlo, sai cosa mi ha detto? Insegui i tuoi obiettivi.
Non stare ferma ad aspettare. Per cui io ho deciso di fare di tutto per trovarla.
E' mia madre”. Quello fu un giorno che ancora non riesco a dimenticare.
Passarono alcuni mesi da quel giorno, poi arrivò Natale. Un Natale diverso dagli altri.
Bonnie quel giorno era felice sul divano con il suo cagnolone. Io ero appena
rientrato in casa, ero andato a farmi una passeggiata in riva al mare, come tutti i giorni. Però quella volta non riuscii a capire bene cosa volesse dirmi. Fu
la prima volta. Portai a Bonnie una conchiglia azzurra che avevo trovato in
spiaggia, proprio perché dovevo raccontarle cosa mi era appena accaduto.
Quella conchiglia mi avrebbe fatto ricordare di quel giorno per sempre. Ma, mentre mi avvicinavo al divano di Bonnie, suonarono alla porta. Quella
sera non aspettavamo nessuno e poi solitamente nessuno veniva in inverno a
trovarci, dato che la nostra casa l'avevo fatta costruire in spiaggia. Faceva troppo freddo.
Andai ad aprire la porta. Una donna bellissima mi apparve davanti agli occhi.
Era bionda, aveva delle labbra rosse e carnose, un profumo che avevo già sentito ed ero convinto mi appartenesse e infine due occhi blu, come il mare
della Grecia, come il mare al quale tutti giorni parlavo, come il mare che solo io
e Bonnie conoscevamo. Quel mare faceva parte di noi, ci scorreva nel sangue proprio come quella donna stava scorrendo nelle mie vene in quel momento. Il
cuore iniziò a battermi forte, l'unica cosa che riuscii a fare fu farla parlare.
“Ciao famiglia, sono Giulia, il pezzetto che vi mancava per completare il
puzzle”.
12
I misteri del mare di R. Arpone
Il mare è la più grande cassaforte del mondo.
Il mare conserva i sospiri, le promesse degli innamorati, le grida festose dei bambini.
Il nostro mare immenso e potente, lo guardiamo e lasciamo volare i nostri
pensieri, i nostri sogni. Seguiamo con gli occhi il suo movimento e cerchiamo l'orizzonte in attesa di
chissà cosa.
Quanta magia c'è in lui! Nei suoi fondali sono conservati gioielli di ogni tipo, reperti antichi di grande
valore, nascosti tra il buio intenso degli abissi, dove la luce non arriva mai,
protetti dalle alghe e dalle incrostazioni che ne rendono irriconoscibili le forme.
Si narra che in fondo al mare vi era un bauletto che brillava di una luce intensa tanto da illuminare i fondali.
Ogni sorta di pesce cercava di avvicinarsi a esso ma, appena provavano a
toccarlo, il bauletto brillava sempre più di una luce accecante. Quale mistero nascondeva?
Si narra che molti anni fa un'onda chiese al mare: “Mi vuoi bene?”
E il mare rispose: “Un bene talmente intenso che ogni volta che ti allontani verso la terra io ti tiro indietro per riprenderti tra le mie braccia!"
“Senza te la mia vita sarebbe insignificante.”
"Sarei un mare piatto, senza emozione!” L'onda fu felice.
Si narra che una notte la luna illuminava il mondo e l'onda, lentamente,
scivolava tra un prendersi e lasciarsi col mare che stendeva le braccia, per poi
ritirarle, facendo finta a volte di non poterlo fare, perché l'onda potesse assaporare quella precarietà che rende le cose preziose.
Si narra di Christian, un ragazzo perdutamente innamorato di una sirena
avvistata tra le onde dell'oceano. Un giorno decise di portarle in dono un bauletto contenente un anello e una
lettera, ma, durante il viaggio, una tempesta lo colse di sorpresa, cadde in
mare e di lui non ci fu più alcuna traccia. Si narra che un giorno si trovò a passare davanti al bauletto, perso dal ragazzo,
una sirena che, attratta da quella luce intensa, si fermò ad osservarlo.
Era completamente ricoperto da alghe, pian piano le scostò e scorse il bauletto. Cominciò a pensare che potesse contenere un piccolo tesoro e cercò in tutti i
modi di aprirlo e così lo scoprì .
Così come Christian e la sirena, legati dall'anello, simbolo di un grande amore
mai nato e mai finito, anche l'onda ed il mare sono ancora lì, nel gioco infinito delle emozioni.
13
Il sogno del marinaio di F. Bassi
Londra 1714, un giovane ragazzo benestante e temerario decide di seguire il
suo sogno e si arruola in marina . E’ cosciente dei pericoli del mare, ma non li ha mai considerati come ragioni
sufficienti per rimanere a terra. Dopo diversi mesi di addestramento e qualche
delusione lascia la marina, lui vuole il mare, cerca l’infinito potenziale della distesa d’acqua, il mare non è solo acqua, non è fatto solo da temerari e vele e
braccia forti per attraversarlo, il mare è un’ idea, una possibilità, è come un
foglio bianco che ti dà la possibilità di fare ciò che meglio ti riesce, che più vuoi fare, non ha limiti, un potenziale infinito, che per quanto in là tu possa andare
non diventerà mai del tutto atto, tutto questo è troppo e per lui è troppo
urgente, non ha il tempo di aspettare e insieme ad altri ragazzi, finiti là insieme
a lui a lavare il pavimento delle navi, non vuole fare carriera, non gli interessano promozioni di grado o medaglie, vuole il mare, vuole navigare,
combattere qualcosa di più grande di lui, una sfida interminabile e
dannatamente invitante. Per inseguire il suo sogno le aveva pensate tutte ed era giunto a tre conclusioni, la prima era l’arruolamento in marin, la seconda
la pirateria e la terza, per lui la meno proponibile, era intraprendere una
carriera da mercante in mare o pescatore, ma dentro di lui sentiva che non era ciò che voleva. La sua prima scelta era fallita, e con molte difficoltà riuscì a
scavalcare i vincoli burocratici della marina e uscirne, tornò a casa, in una
vecchia locanda gestita dalla madre, unico legame rimastogli; era una locanda molto famosa e molto popolata dove cercò di dimenticarsi il mare, ma proprio
non ce la fece, e così, dopo quasi un anno, partì lasciando alla madre solo una
lettera infilata nel bancone rettangolare della locanda, una lettera piuttosto
fredda, breve, scritta quasi con superficialità; non avrebbe mai più rivisto sua madre.
Andò in Italia, o almeno cosi avrebbe voluto, aveva pensato di arrivare a
Venezia e iniziare tutto di nuovo lì, ma si sa, la vita non ci lascia scegliere cosi facilmente, infatti non andò così, in Francia cadde vittima di una imboscata
venne catturato insieme ad altri dieci e portato in Spagna, imbarcato come una
bestia su una nave che si teneva insieme per chissà quale forza e, sbarcato sulle coste dell’America latina, fu venduto come schiavo a Tortuga . Fu il
Capitan Rolag a comprarlo, e inevitabilmente il ragazzo finì a pulire ponti della
nave, la sorte l’aveva portato a scappare dal pulir navi, sperando in un gran futuro, per essere costretto a far ciò da cui era scappato sperando di averlo un
futuro. E andò così per mesi, fino a quando la Perla del Sud, la nave su cui era
prigioniero, cadde vittima dei Cannoni della International, perla della marina
inglese. Le sue doti da nuotatore lo portarono a salvarsi dagli abissi che lo circondavano, venne ripescato proprio dalla nave che lo aveva liberato dalla
sua prigionia, aveva perso molto del suo spirito patriottico, del suo aspetto
inglese e della sua gioventù, e proprio quando la pirateria gli stava entrando dentro, la sua patria era corsa a salvarlo.
Sulla nave incontrò due vecchi ragazzi, due di quelli che erano cresciuti con
lui, che si erano arruolati con lui e che al posto suo erano rimasti a combattere per la scalata gerarchica nella marina.
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Erano passati due anni dalla sua liberazione, la sua vita da marinaio
continuava, una volta al mese tornava in Inghilterra in una cittadina costiera, e
lì, in un freddo pomeriggio di metà ottobre conobbe Giulia, una nobile ragazza di origini italiane, e fu così che il marinaio con molte storie da raccontare e
molta voglia di viverne altre si innamorò, e per pochi secondi in cima ai suoi
obbiettivi comparve lei al posto per mare.
Ogni mese tornava da lei, quando era con lei era felice, quando non era con lei il suo ricordo lo tormentava, la loro relazione andava avanti da mesi, era un
giorno come un altro e la nave era impegnata in un combattimento con un
mercantile ostile, era il giorno in cui doveva essere da lei ed era proprio questo il suo unico pensiero, mentre era alle prese con due pirati che con la loro
sciabola lo minacciavano, ne trafisse uno e mentre combatteva con l’altro la
sua nave venne bombardata e ancora, e ancora, finché la nave non iniziò ad inclinarsi, l’albero maestro cadde e il mare si riempì di uomini, sangue e
frammenti di quella che una volta era la perla della marina inglese, cercò di
raggiungere la riva, ma era difficile perfino orientarsi svenne, quando si risveglio era sulla spiaggia circondato da morti, si alzò, cercò di tornare nella
sua città, dalla sua donna ma, mentre attraversava una spiaggia, una spada lo
trafisse, era un pirata, l’aveva trafitto solo per il tatuaggio della marina che
aveva sul collo, e così un giovane temerario, innamorato del mare e della sua donna, non rivide più né lei né il suo sogno.
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Il fondale carminio di S. Bove
E’ inverno, e a popolare le acque gelide di quel mare abbandonato sono solo
quei piccoli pesci in attesa della stagione estiva, entusiasti di poter finalmente tornare a brillare nel mare, per coloro che in quei mesi gli
avrebbero tenuto compagnia.
Un giorno, leggermente più soleggiato degli altri, un papà con la sua piccola bambina decide di fare una passeggiata, lì dove la vita scorre nell’infrangersi
dell’acqua sugli irti scogli e come una mandria imbizzarrita travolge
qualunque cosa gli si presenti davanti. Sofia ha appena tre anni e già da qualche mese, in seguito ad un incidente
che ha tolto la vita alla sua mamma, vive sola con il papà; quest’ultimo fa di
tutto per dare alla sua bambina tutto ciò che merita e qualche volta, quando
il ricordo di sua moglie è così tanto forte, porta la sua bambina su questa costa dalla vista spettacolare, che gli ricorda tanto lei, un’ amante di quello
spettacolo il cui unico protagonista è il mare.
Quel giorno è un po’ diverso dagli altri, è il giorno in cui l’aveva conosciuta, e quelle acque e il loro turbinoso movimento non vogliono solo essere fonte di
ricordo, consolazione e confusione, ma vogliono dire qualcosa di più: nella
vita di quella piccola famiglia deve esserci una svolta. Qualcosa nell’acqua inizia a luccicare, la forma è indefinita e altrettanto la
provenienza, le onde non ne permettono una vista limpida, ma il loro
scorrere incessante avvicina quell’oggetto, qualsiasi cosa esso sia, a quel papà e quella bambina, che impazienti, ne attendono l’incontro. Il papà
pensa che non sia niente, un inutile oggetto tra i tanti che quotidianamente
popolano le nostre acque; ma per la bambina non è così. Un bambino così
piccolo ha voglia di scoprire, desidera avventure e soprattutto non pensa e ripensa alle conseguenze, agisce e scopre continuamente nuovi mondi,
diverse sensazioni.
Sofia è impaziente di scoprire quel nuovo mondo, che si è presentato come per magia, e la chiave di quel nuovo mondo non è altro che un piccolo
triangolo dal colore carminio, con inciso sopra, probabilmente in argento, un
simbolo antico. Forse non è niente, come fin dall’inizio aveva pensato il papà di Sofia, però
forse seguire la voglia di scoprire di una bambina può solo farci rinascere e
darci una nuova possibilità, far crescere la voglia di metterci nuovamente in discussione e vivere, se abbiamo dimenticato come si fa.
I giorni passano e la vita scorre come se nulla fosse, dominata dalla scuola,
dal lavoro, da tutti quelli impegni che non ci concedono un attimo per
respirare e che non ci fan più ricordare come si ride. Luca, il papà di Sofia, dirige un’azienda molto grande e il tempo non è mai a suo favore; è da tanto
che non gioca con la sua piccola e gli manca, gli manca tanto, ha bisogno di
una vacanza, di liberarsi di tutto ciò che in pochi mesi ha sentito su di sé e ha bisogno di divertirsi con Sofia. Arriva giugno, il caldo è ormai alle porte e
questa piccola famiglia decide di partire per qualche giorno all’insegna del
divertimento e la loro meta è il mare, la meravigliosa scogliera del Gargano, del resto non può essere diversamente. Ogni giorno è scandito dalle mille
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attività che quel luogo offre, un giro in barca, una gara di canoa, anche un
concorso per castelli di sabbia: insomma non è più il tempo a dominare.
Il lunedì Luca e Sofia partecipano a un concorso per castelli di sabbia come tutte le altre famiglie, costruiscono un castello principesco, con quattro
altissime torri, per difendere la principessa Sofia dai nemici, e un fossato tra
quelli più profondi, che rendono il castello il più sicuro di tutti; ma a
renderlo speciale è altro: Sofia, in cima a una delle quattro torri, mette quel triangolo carminio, che da mesi porta sempre con sé e che rende tutto più
magico. Luca lo vede e lo riconosce immediatamente, si sente in colpa perché
sa quanto Sofia desideri scoprirne la provenienza, ma i suoi assidui impegni non ne hanno mai permesso la realizzazione. La vacanza però è l’occasione
giusta per farlo . Il giorno dopo, dopo aver vinto la gara per il castello più
bello, il papà con la sua bambina affitta una barca per un’intera giornata e partono in mare aperto, con il sole che accarezza la pelle e una splendida
storia da raccontare. C’era una volta una principessa che regnava su una
piccola popolazione per lo più composta di contadini, era colei che possedeva quel triangolino carminio, e il simbolo che vi era sopra era il simbolo del suo
regno e loro avrebbero dovuto raggiungerlo; Sofia può finalmente trovare una
spiegazione e vivere la sua avventura che aspetta ormai da mesi. Nelle più
grandi storie c’è sempre un però, e questo però dice che solo chi voglia realmente trovare il castello, potrà vederlo perché questo non è sulla terra
bensì nel cuore di quelle acque, alloggia sul quel fondale dal colore intenso
che non ne permette la vista a nessuno. La barca si allontana dalla costa e tutto a un tratto Sofia, con un salto
raggiunge la prua perché finalmente ha visto quel castello, è una visione
strabiliante, incantevole e somiglia quasi al suo castello che, come questo, aveva bisogno di quel piccolo particolare per essere perfetto. Il papà la vede
felice, sorride come non faceva più da tanto e il suo cuore è colmo di
serenità, perché era questo ciò che la sua piccola bambina gli trasmette con la realizzazione di quel sogno.
Per lei quella è la realtà e la sua avventura deve avere un lieto fine; Sofia
deve restituire la vita a quel regno, quel triangolo appartiene a quel castello e
lei ha il compito di portare tutto alla perfezione. Chiude gli occhi, prende la mano del suo papà e senza ripensamenti
scaraventa il triangolo nell’acqua.
Luca ha realizzato il desiderio della sua bambina, in quel momento anche lui prova ad immaginare quel mondo che Sofia ama tanto, mentre il sole pian
piano scende ed approda il crepuscolo, così come approdano alla costa
anche i due avventurieri. reduci da una giornata che solo il mare poteva regalargli.
Hanno ancora qualche giorno da passare in quel magnifico nido e non
trascorre un minuto in cui sono tristi o malinconici; sono riusciti a fuggire da quella turris eburnea che da mesi li tormentava e li teneva lontani dalla
gioia, dalla serenità. Ormai il mare non è più soltanto fonte di ricordo, un
rifugio per la solitudine: il mare è diventato una sorgente di vita ed una
realtà unica, che solo chi riesce a vivere può apprezzare.
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Il vento tra le onde di C. Caffarella
Tide è una ragazza molto bella ed educata. Fin da piccola i genitori l'avevano
cresciuta con una rigida educazione, tanto da non farle godere a pieno le gioie della vita. Tide abita in una casetta molto graziosa, dove passa l'estate insieme
ai nonni. Questa casa si affaccia su una spiaggia incantevole, ma questo non
rende felice Tide, perché quando arriva la sera, le sue amiche possono uscire per andare a divertirsi, mentre a lei è proibito. Allora Tide resta a casa, a
guardare dalla sua veranda le onde leggere che, una dopo l'altra, si rincorrono
sulla riva e provocano una piacevole e lenta melodia all'orecchio di chi ascolta, con quel continuo frusciare dei sassolini. Tide passava cosi le belle giornate
estive, a guardare quell'immensa distesa bagnata, illuminata dal sole, che
nascondeva chissà quanti e quali segreti fra i suoi innumerevoli scogli che a lei
parevano sempre diversi ogni giorno che li fissava. Era una sera come le altre, Tide era nella sua solita postazione, come un faro
che guida le imbarcazioni nel buio della notte, cosi lei con i suoi grandi occhi,
luminosi come stelle, fissava il mare che in lontananza sembrava ingoiare piano piano il sole che a poco a poco tramontava.
Tide si sentiva stanca e desolata, ormai non tollerava più quell’interminabile
solitudine e prigionia che era costretta a subire. Sentiva troppo la mancanza dei suoi amici.
Decise allora, all'improvviso, di uscire da casa, all'insaputa dei suoi nonni che
lei sapeva erano come di consuetudine andare a letto molto presto. Calandosi dalla finestra quindi, riuscì ad allontanarsi da casa in tutta fretta e poco dopo
raggiunse i suoi amici che, furono molto stupiti e contenti di vederla lì. Iniziò
cosi la sua serata; quella sera Tide si divertì veramente tanto, conobbe nuovi
amici e si diedero appuntamento per le sere successive. Trascorreva cosi l'estate. Una sera i ragazzi si erano riuniti attorno ad un falò
acceso sulla spiaggia: c'era chi cantava, alcuni ballavano scatenandosi e i più
fortunati si stringevano fra le braccia della persona che tanto amavano. Tide trascorse quella che forse era stata la più bella serata della sua vita. Tornò
a casa con il cuore colmo di gioia perché aveva conosciuto un ragazzo che, per
la prima volta le aveva fatto provare una nuova emozione a lei sempre stata estranea.
Il ragazzo si faceva chiamare Wind.
L'estate giunse al termine quando Tide con grande gioia e stupore si accorse di non essere più sola. Dentro di se una nuova creatura pronta ad amarla si stava
formando, stava aspettando un bambino: suo figlio. Che cosa incredibile e
stupenda è la vita. Lei non era preoccupata, anzi era più che sicura che Wind
non l'avrebbe mai lasciata sola. Dopo aver parlato con i suoi genitori, Tide decide di restare nella casa di fronte al mare ad attendere Wind, che per motivi
di lavoro, era stato costretto ad allontanarsi da lei per tornare in città. Wind
partì con la promessa che sarebbe tornato per prendersi cura di loro due al più presto. Tide gli credette, e ora è sempre lì, nella casa sul mare, che guarda
incessantemente dalla veranda il mare come se da un momento all'altro
dovesse giungere da lì il suo grande amore. Questa volta però non è da sola ad aspettare, infatti tra le sue braccia stringe e culla Wave, il suo bel bambino. Il
tempo passa e il piccolo chiede alla mamma dove fosse il suo papà. Tide
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sorridendo gli risponde che è andato alla ricerca del sole che la sera prima era
finito nel mare e ingoiato dalle onde. E quando il bambino chiede alla mamma
se il suo papà lo amava, lei risponde che bastava contare tutte le onde che s’infrangevano sulla riva per sapere quanto lo amasse e che lei avrebbe poi
mandato queste onde a chiamare il suo papà per farlo tornare da loro. Wave
sorrideva felice sentendosi queste risposte, ma meno contenta purtroppo era
Tide che sentiva il suo amore per Wind svanire ogni giorno di più, poiché, non aveva mantenuto la promessa fattale tanto tempo prima.
Ma Tide, Wind e Wave erano uniti più che mai perché ognuno di loro aveva
bisogno degli altri due, perché senza acqua e vento non si possono generare le onde. Ormai loro tre si appartenevano per sempre.
Wave = Onda Tide = Marea
Wind = Vento
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Gioventù in tempesta di T. Conca
Certe volte guardo il mare e mi capita di vagare con la mente qua e là.
Il mare non ha fine, non ha un fondo e può essere in qualche modo ricondotto all’immagine dell’infinito. Molto spesso capita di osservarlo con occhi che si
prefiggono un limite nel punto in cui esso incontra il cielo: l’orizzonte. In realtà
è un limite mentale, qualcosa che deriva dalla stupida mente umana. Il mare è una corsa interminabile. E’ anima. E’ cielo. Mi permetto di definirlo così perché
è profondo e infinito come entrambi.
Certe volte guardo il mare con occhi stupiti e malinconici allo stesso tempo. Dinanzi a lui la felicità sembra un concetto semplice e facilmente raggiungibile.
Il mare è affascinante e intriso di mistero, considerato che non è stato creato
da un semplice essere umano, bensì da qualcuno più grande e potente. Il mare
è monotono, non è mai uguale, è pericoloso e bello allo stesso tempo. E’ imprevedibile proprio come la vita. Nella vita non ci si arrende; se dovessi
paragonare la mia piccola stupida vita da diciassettenne lo farei con le onde,
loro hanno sempre coraggio; ogni volta che si infrangono contro gli scogli e non riescono a superarli, hanno sempre la forza di riprovarci.
Il mare per me è caos. E’ inquietudine. E’ un’equazione irrisolvibile, una di
quelle che ti lascia il dubbio dentro, la confusione. Ciao, sono Alice, ho diciassette anni e vivo a Miami con mia madre. Mio padre
l’ho perso otto anni fa, lui era un uomo di mare: lavorava in mare, la sua vita
era il mare e se chiedevo: “Papà, mi compri un gelato?” Lui mi portava sempre in un piccolo chiosco sulla spiaggia.
Avevo nove anni, solo nove anni quando vidi mia madre prendermi per mano e
iniziare a sussurrare qualche parola.
“Alice quando qualcuno inizia a dormire e non si sveglia più diventa un angioletto e ha il compito di andare lassù per guardare dall’alto le persone più
buone e coraggiose!”
-“E quindi, mamma?” -“Figlia mia, il tuo papà ha avuto il compito importante di diventare un
angioletto –si asciugò le lacrime e poi proseguì- insomma forse tu non puoi
vederlo, ma lui ti guarda in ogni momento della sua giornata, sei la sua bambina!”.
Non lo dimenticherò mai quel giorno, quelle parole, il coraggio di mia madre e
le sue mani sudate mentre parlava. Papà ha perso la vita durante una tempesta. Nonostante tutto continuo ad
amarlo, il mare intendo.
Tante volte la mia mamma mi ha portata a fare lunghe passeggiate sulla
spiaggia. Con le dita dei piedi sfioravo l’acqua che bagnava la sabbia e poi…poi si tirava indietro. Io ero acqua e l’acqua era me.
Mi piaceva un ragazzo in quel periodo. In realtà non era un periodo, perché ci
andavo matta da un anno circa. Spesso mi facevo avanti con lui, ma altrettanto spesso mi tiravo indietro, era un tira e molla continuo. Ah ecco! Ho dimenticato
qualche particolare: ci conoscevamo già io e quel tipo, ma eravamo semplici
amici. Ogni tanto capitava di trovarlo dietro la porta del mio appartamento: occhi blu,
altezza media, cappellino stile underground e l’aria da sbruffone. Mi piaceva
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tutto di lui, ma ciò che mi aveva fatto invaghire di Giacomo erano gli occhi:
profondi, emozionanti, luminosi, vivaci e mai monotoni, a volte cambiavano
persino tonalità. E poi erano blu come il mare, mi ricordavano papà. Insomma un giorno oltrepassai l’uscio della porta, girai l’angolo e lo vidi, ci
facemmo un giretto nei dintorni di Espanola Way, una delle due vie principali
di Miami Beach. Passeggiammo un po’, poi ci accomodammo in una graziosa
gelateria e ordinai un frullato. Spesso mi capitava di pensare che non gli piacessi abbastanza, ma quella fu
una delle giornate più belle della mia vita. Era il 12 Agosto e Giacomo mi sfiorò
le labbra: ero la diciassettenne più felice al mondo! Nacque una storia tra me e lui. Andò tutto a gonfie vele, fin quando la così
detta “cheer leader più figa del college’’ fece invaghire Giacomo. Non so cosa gli
successe. Cambiò di nuovo. Subì un cambiamento radicale, proprio come quando il mare calmo si trasforma in tempesta. In quel periodo al college si
organizzavano gare di surf e sia io che la strega ci iscrivemmo. Ovviamente
penso abbiate capito chi è la “strega’’, in caso contrario, con questo aggettivo mi riferisco alla nuova ragazza di Giacomo, la tipa di cui ho parlato prima:
Sophia Mckartney.
L’odio reciproco ci portò addirittura ad iniziare a partecipare a gare di ogni tipo.
Diventammo competitive, cattive, coraggiose. Io non avrei mai gettato la spugna, dovevo mostrarmi più forte e migliore di lei in ogni ambito. E così fù.
Vinsi a surf, beach volley, footing, basketball, pattinaggio e ricevetti persino
l’attestato come migliore attrice partecipante allo spettacolo teatrale organizzato dal college a fine anno. La stracciai. La ragazza più carina del
quarto anno sconfitta da me! Mi sentivo bene. Giacomo l’avevo lasciato perdere
da un bel po’. Iniziai a prendere qualche pasticca per tenermi su col morale; assumevo
exstasy e acidi, era roba forte. E così la mia vita cambiò: insomma la droga,
niente amici e addio Giacomo. Non ci capivo più nulla. Dopo qualche anno di questo schifo ritornai al mare, ci ritornai a 22 anni. Mi
sedetti sulla sabbia, infilai la mano nel taschino del mio giubbotto di pelle e
tirai fuori la mia Lucky Strike. L’accesi e la fumai tranquilla. Quel giorno decisi
di cambiare vita. Guardai il mare, guardai le onde e pensai che avevo vissuto un’adolescenza’ tempestosa’ ed era arrivata l’ora di compiere delle scelte.
E io scelsi la vita, gli amici, l’hot dog da Bob, la birra del sabato, le torte della
nonna, i rolley per le strade di Miami, l’università, il lavoro part-time, i film e i pop corn. E poi…poi mi farò una famiglia e avrò un modesto appartamento ove
vivrò felice fino al giorno in cui morirò.
La sigaretta finì. Mi alzai e sorrisi al mare. Quel sorriso era per lui e per il mio papà.
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La tempesta imperfetta di A. Cozzoli
Lentamente mi svegliai, era l’alba ed erano proprio quelle prime luci del
mattino che, illuminando la mia stanza, mi aprirono dolcemente gli occhi. Una volta aperti, i miei occhi non accennarono nemmeno una volta a richiudersi,
sembrava non stessero aspettando altro che un buon motivo per aprirsi e così
fu. Avevo proprio ragione, una volta alzata, infatti, non avevo trovato un motivo migliore per alzarmi, se non quello di osservare dalla mia finestra, che quasi mi
fa sentir padrona di quel piccolo tratto di cielo che incornicia, il mondo
compiere il suo ciclo naturale. In quel momento mi sembrava proprio inutile l’esistenza dell’uomo, se non per ammirare il calar del giorno, il sole illuminava
il paese e i fiori dei terricci abbandonati sbocciavano liberi dopo il freddo
inverno. Ed eccole, sono proprio quelle piccole cose che ci fanno continuare ad
andare avanti, a non arrenderci nonostante tutto e che sono qui ventiquattro ore su ventiquattro davanti a noi, l’errore è che spesso, però, non gli diamo
troppa importanza. Cosi come tutte le cose, ad averle sempre accanto, per la
maggior parte delle volte, ci sembrano scontate e spesso non se ne riconosce il valore o l’utilità, solo quando si perdono si capisce quanto veramente ci siamo
affezionati ad esse, e, anche se è un brutto paragone, ciò accade anche con le
persone. Sono come i consigli, ne riceviamo così tanti ogni giorno che nessuno li ascolta, perché non ci insegnano nulla.
In quell’occasione ne ebbi così tanti che, anziché aiutarmi, mi fecero sentir
persa e confusa, non avevo più una strada da seguire, perciò prendevo le mie decisioni in totale autonomia, nei miei momenti più intimi durante i quali le
idee ti appaiono più chiare e la strada da percorrere più delineata. Non ci sono
parole esatte per descrivere quello chi mi è successo . E’ cosi difficile esprimere
le emozioni che vivono nella nostra anima, che il solo pensiero di raccontarle ne fa sminuire il valore, solo gli occhi forse possono raccontarle. Per questo
porto tutto dentro di me, è difficile raccontare ciò che provo. Il ricordo
indelebile di quel giorno mi offusca il pensiero appena la mia mente si libera. Il 19 giugno di due anni fa, il mare, che per tutta l’adolescenza mi ha cresciuto
permettendo alla mia famiglia di nutrire me e i miei fratelli, ha portato via ciò
che avevo di più caro. Nel paese marino, in cui la mi famiglia da generazioni ha sempre vissuto, è avvenuta una tempesta che ha distrutto la vita di molte
persone, che vivono nel cuore di noi tutti. Quel burrascoso giorno era iniziato
con le condizioni giuste per navigare e mio padre, abile marinaio da trenta anni, ogni giorno varcava la soglia di casa per recarsi al lavoro, ma quel giorno
non fu come gli altri. A causa della stanchezza aveva sempre bisogno di un
aiuto ed io e mio fratello spesso andavamo con lui. La sveglia era solita suonare
alle cinque e trenta per riuscire a fare una buona pesca con il sorgere dell’alba, ma quel giorno provavo dentro di me una contorta sensazione, che mi
avvolgeva completamente, ma che non riuscivo a capire. Così quella mattina,
dopo aver parlato con mio fratello, decidemmo che sarebbe andato lui ad aiutare mio padre almeno per quel giorno. Il trascorrere della giornata non
calmava la mia sensazione né la diminuiva, rimaneva lì ferma e immobile, come
se volesse dirmi qualcosa. Decisi quindi di dedicarmi al taglio della legna, utile per accendere il fuoco per l’inverno, che lentamente si accingeva ad arrivare.
Dalla finestrella dello stanzino, dove ero solito svolgere tutti i lavori manuali,
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mi accorsi che il tempo, frettolosamente, peggiorava. Preoccupato vidi grandi
nuvoloni scuri che coprivano e oscuravano il sole che precedentemente
illuminava il mio paese. Il mal tempo rimase immobile nel cielo, come quella sensazione che dalla mattina mi avvolgeva, sino al primo pomeriggio, quando
iniziò a precipitare una forte e pesante pioggia. Il mio pensiero si rivolse subito
a mio fratello e mio padre e per questo istintivamente mi recai sul molo del
paese, per cercare di intravederli mentre ritornavano a riva. Dopo essermi riparato lì vicino e dopo che furono trascorse un paio d’ore, non vidi arrivare il
peschereccio e nel frattempo anche tutti gli altri parenti, preoccupati, si
riunirono sul molo attendendoli. Si era fatta sera e la linea di confine tra cielo e mare ormai aveva raggiunto la stessa gradazione di colore, la gente iniziava
sempre più a preoccuparsi e alcune donne piangevano. Improvvisamente il
peschereccio, con il quale erano partiti tutti i pescatori del mio paese, malridotto ritornava lentamente. Scesero sconvolti e stanchi, ma non scesero
tutti, circa la metà dell’equipaggio mise piede sulla terra ferma quel giorno,
invece l’altra era data per dispersa. Rimasi lì finchè non se ne andarono tutti, ma vidi che mio fratello e mio padre non scendevano, così un collega di mio
padre mi disse che una piccola struttura di salvataggio, che si trovava sul
peschereccio, era stata presa, ma non sapeva da chi. Così pensai al peggio, ma
il senso del dovere mi portò a casa dal resto della mia famiglia, dove fui costretto a raccontare tutto a mia madre. Dovevo essere forte in quella
situazione, come non lo ero mai stato e con non troppa agitazione le raccontai
l’accaduto e lei scoppiò in un pianto lancinante, non credendo che ciò che avevo appena detto fosse vero. Intanto le ricerche in quell’ oscuro mare, che di
notte sembra conservare i più tetri misteri, continuavano e quella notte, in cui
ci addormentammo con la speranza negli occhi, rivolgemmo a mio padre e a mio fratello la nostra ultima preghiera. Dormire però quella notte non fu
semplice, una miriade di pensieri mi tenevano in moto il cervello, che non
smetteva nemmeno per un secondo di pensare, e iniziai lì a percepire il peso della responsabilità della famiglia, dato che da quel momento era sotto la mia
sorveglianza. Appena sorto il sole mi recai nuovamente al molo, dove però non
giunse nessun tipo di notizia e, amareggiato, ripresi subito la via di casa. Non
avevo voglia di abbattermi perché non avrei creduto a nessuna voce o ipotesi su quella situazione, lasciavo infatti l’ultima parola a coloro che costantemente
svolgevano le ricerche. Il soffio del vento, però, che si rivolgeva in direzione del
mare, spinse il mio cappello che si intrappolò nei rami di un albero del parco lì vicino. Proprio lì i miei genitori portavano me e mio fratello a giocare sul prato
nella calde giornate estive e la vista di quel posto fece rifiorire nella memoria
tutti quei dolci ricordi. Istintivamente mi sedetti, quasi come fossi a casa mia e mentalmente rivivevo quella spensierate giornate. Per la prima volta, però, solo
in quel momento, mi resi conto del grande bene che provavo nei confronti della
mia famiglia, ma soprattutto per mio fratello. Con lui ci litigavo spesso per idiozie, non accorgendomi però di quanto bene provavo nei suoi confronti. A
volte infatti quando abbiamo sempre accanto una persona, la sua presenza ci
sembra ovvia e scontata, non rendendoci conto, invece, del grande vuoto che
può lasciare, abbandonandoci. Capii inoltre come non possiamo essere sicuri della stabilità della nostra vita, anzi essa cambia improvvisamente e senza
preavvisi, oppure come spesso capita, i risultati di questo mutamento sono
visibili solo negli anni successivi e non immediatamente. Dopo che, a causa delle lacrime, iniziai a vedere sfocato, decisi di darmi forza e ripresi la via per
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casa. La restante parte della mia famiglia attendeva, tramite me, l’arrivo di
buone notizie ma non fu così. Quella stessa notte però, in cui presi sonno più
facilmente rispetto alla precedente, squillò improvvisamente il telefono, era la polizia che aveva bisogno di parlare con me e per questo mi convocò subito in
centrale. Immediatamente mi recai lì, sapevo però che non sarei uscito con lo
stesso stato d’animo con cui ero entrato, potevo uscire con ottime notizie, ma
potevo anche uscire sapendo di aver perso un padre e un fratello. Presi coraggio e aprii la porta, quasi tremavo e non riuscivo più a capire nulla. Dopo
aver incontrato gli agenti, essi mi chiesero informazioni sulla mia famiglia e
poco dopo vidi uscire da un’altra stanza mio fratello. Ero incredulo, dentro di me con il passare dei giorni le speranze di riabbracciarlo diminuivano sempre
più e, quando lo vidi davanti ai miei occhi, non potevo crederci. Speravo che da
un momento all’altro venisse anche mio padre, ma purtroppo non fu così. Mi spiegarono anche che, grazie alla testimonianza di mio fratello, nella piccola
imbarcazione di salvataggio non c’erano posti per far spazio a tutti i pescatori e
così mio padre decise di sacrificare se stesso per lasciare il posto a suo figlio e anche agli altri pescatori più giovani di lui. In quel preciso momento non
sapevo come comportarmi, da una parte volevo scoppiare in lacrime per la
perdita di mio padre, dall’altra volevo essere felice per aver potuto finalmente
riabbracciare mio fratello. Tornai quindi immediatamente a casa con lui, dove tutta la mia famiglia lo accolse con un caloroso e amorevole abbraccio, presi
quindi in disparte mia madre e le spiegai com’erano andati i fatti, ma lei con
umiltà ringraziò il Signore per aver riportato a casa sano e salvo suo figlio e per aver sposato un uomo coraggioso.
Fummo tutti orgogliosi del gesto di mio padre e capimmo in quel modo il bene
che voleva a tutti noi figli, portandolo sempre dentro il nostro cuore. Il mare faceva già parte della sua vita e ne avrebbe fatto parte per sempre.
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Uno strano caicco di P. Curci
Marzo 2012. Gallipoli. Che gran bel risveglio. Fuori qualcuno sta cantando una
dolce melodia. È così rilassante e bella che mi verrebbe voglia di ascoltarla tutti i giorni. Un’ enorme fortuna per quelli che abitano qui. Io resterò qua solo un
mesetto, sperando di riuscire a finire il lavoro che mi hanno assegnato. È il
mare che canta. Dalla finestra entrano timidi raggi di sole profumati di salsedine. Mi invitano a seguirli e io non mi posso frenare. Sono in pigiama,
speriamo che nessuno mi veda. Apro le persiane e un tonfo di luce entra
trionfante in tutta la stanza. Mi affaccio al balcone e il mare è lì che mi dà il buongiorno. Lui è già sveglio e si è già vestito del suo abito più prezioso.
Indossa cristalli che non ammettono critiche. Non può essere più bello. Riflette,
solo, le infinite sfumature del cielo: rosa giallo e blu si mischiano fra loro così
dolcemente da suscitare grandi emozioni, che si diluiscono così bene con il mio stato d’animo da diventare parte di me. Il bollore del caffè mi riporta alla realtà.
Corro subito in cucina, spengo la fiamma. La giornata sta ufficialmente
cominciando. Un sorso veloce e sono già sotto la doccia. Indosso il primo tailleur che trovo nella valigia. Scarpe alte nere intonate alla gonna, uno
chignon e un filo di trucco. È già tardi, devo sbrigarmi. Impugno la valigetta
degli attrezzi ed esco. Un passo segue l’altro e sale la mia preoccupazione. Questo sarà il mese decisivo per il mio lavoro. Il capo mi ha assegnato un
incarico importante, se la supero avrò finalmente il lavoro che sogno da quando
sono nata, da ben venticinque anni. Devo dar prova del mio talento costruendo un magazine sul turismo di questa città. Ho pensato di cominciare partendo da
una intervista ai turisti. Alcuni informatori e amici mi hanno avvisato
dell’arrivo di Bryan Smith, il più importante imprenditore europeo, capo del
settore informatico dell’economia internazionale. Ha deciso di passare le vacanze qui, nonostante la sua vasta gamma di scelte turistiche e non potevo
restare indifferente in vista del mio prossimo progetto lavorativo. Arriverà nel
porto della città alle dieci, probabilmente, con un caicco. Dovrò arrivare prima di lui e aspettarlo al punto di attracco.
Della barca nemmeno l’ombra e sono già le dieci. Aspetterò massimo un quarto
d’ora, dopodiché tornerò in albergo e penserò a un altro modo per cominciare il mio magazine, non voglio sprecare tempo, non posso stare qua un’ eternità. Il
mare mi è di fronte come un caloroso amico ma, le onde, a differenza di
stamattina presto, sono più irrequiete e quasi mi mettono tristezza. Non fanno che ricordarmi noiosamente quanto tenevo a questa intervista e di come il mio
desiderio si sta pian piano frantumando. Il mare non sta più cantando per me,
ma gli sono indifferente e sembra non curarsi di me. Sarà forse una mia
impressione o questo mare cambia subito umore? O è per caso un mio riflesso? Mentre mi guardo i piedi timorosa alzo pian piano il braccio sinistro e sbircio
l’ora. Sono passati già venti minuti e devo andare . Riprendo la mia
attrezzatura posata sulla panca e pian piano mi accingo a ripercorrere la via di casa quando, ad un tratto, qualcosa nell’aria cambia. Il mare non ha più lo
stesso suono, c’è qualcosa di diverso, sembra il rumore di uno scafo. Giro
velocemente la testa speranzosa: in lontananza una barchetta annuncia il suo arrivo. Ritorno soddisfatta alla postazione iniziale. Poggio una mano
lateralmente sulla fronte e arriccio gli occhi. Sì, è proprio un caicco. Una
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grande vela spicca con il suo colore biancastro sul legno scuro e la barca si fa
sempre più grande e trionfante sulle onde spumeggianti. Ormai è quasi vicina,
al timone si intravede una chioma bionda mossa dal vento, lui è alto e di carnagione leggermente scura. Indossa dei jeans e una maglia turchese in tinta
con il cielo. Non penso sia Bryan, non guiderebbe mai lui una barca. Può
permettersi un equipaggio completo e risparmiarsi la fatica.
Viene in questa direzione, che emozione la mia prima intervista! Ok devo cominciare, lui ha appena spento il motore e sta scendendo dall’imbarcazione
per legarla al pontile. È il momento giusto, un sospiro e vado da lui: “Mi scusi
signor Smith, posso farle alcune domande?”. Bryan si è girato di scatto e mi ha guardato intensamente negli occhi, nei quali mi sono persa per qualche attimo,
e con gentilezza mi ha chiesto chi fossi, al che io gli ho spiegato per conto di chi
e di quale azienda lavoro e il motivo della mia intervista, così lui ci ha pensato un attimo e mi ha assecondato. “ Quali sono i motivi della sua presenza
qui?”gli chiedo con voce quasi amichevole azionando, intanto, il mio
registratore. “<Mmm…devo dirle che il mare del Salento è sempre stato il mio preferito, è così rilassante ma allo stesso tempo pericoloso, l’acqua è così …così
salata e questo mi ricorda molto la mia infanzia. Guardi Grace “ mi dice,
puntando il dito magicamente sul mio hotel “ quell’hotel un tempo era parte di
casa mia e io abitavo lì con i miei, poi per ragioni lavorative mi sono dovuto trasferire in una città interna, ma non rinnegherò mai le mie origini. Io amo il
mare”. Affascinata dal suo discorso mi sono dimenticata per un attimo che
devo fargli un’altra domanda, così richiamata dal silenzio che si era creato chiedo “Mm..e quindi lei… lei..” deglutisco per prendere tempo ma niente, non
ho idea di che altra domanda fargli quando, ad un certo punto, dico “ Lei da
cosa è legato particolarmente a questa città? Oltre il mare intendo”. Mi sembra di non averlo per niente messo in difficoltà così, mentre lui si accinge a parlare,
una donna alta, snella e bruna con un vestito bianco e scarpe alte spunta fuori
dalla barca, mi squadra irritata e rivolgendosi a Bryan con fare disinvolto dice: “ Tesoro, prendi le tue cose e sbrigati, se no faremo tardi”. Allora Bryan estrae
un bigliettino da visita dalla tasca dei jeans e, mentre mi indica il suo numero,
mi raccomanda di contattarlo per finire l’intervista con più calma un altro
giorno. Annuisco e nervosamente infilo il bigliettino in tasca e lo saluto porgendogli la mano. “ Arrivederci Grace” ribadisce salendo sull’imbarcazione .
“A presto” rispondo, dubitando di una prossima volta. A dire il vero pensavo
fosse una persona più vanitosa o altezzosa, invece si è mostrato umile e disponibile. Credo che abbia avuto una grande fortuna quella donna a
fidanzarsi con un uomo così. Anche se non lo conosco infatti, mi ha dato una
buona impressione. Ma basta pensarci! Non lo rivedrò mai più, guardiamo in faccia la realtà, non potrà mai prendere un appuntamento con me, dico proprio
con me visto la persona che è, sarà sicuramente indaffaratissimo e figuriamoci
se la sua fidanzata lascerà andare il proprio uomo con una donna, sarà sicuramente gelosissima visto il mondo in cui mi ha guardato. È ora che io
vada in albergo e pensi a un altro modo per aprire la mia rivista.
Non trovando un’idea sono andata in biblioteca, ho fatto mille ricerche su
Gallipoli, c’è una storia incredibile che forse neanche gli stessi abitanti conoscono. Adesso sono di nuovo in albergo, penso di scrivere un’altra pagina e
poi andare a quella festa nel locale qua giù di cui mi ha parlato quel ragazzo
che ho conosciuto in biblioteca: voglio divertirmi un po’ e poi mi serve uscire di sera per conoscere la movida serale di Gallipoli, devo scrivere qualcosa anche
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su questo. Una doccia fredda, un tubino nero e scarpe in tinta. Mi incontrerò
con il mio amico alle ventidue . Sono in anticipo, ho una mezzoretta libera per
affacciarmi e godere del panorama che questo hotel valorizza così tanto. Anche il mare si è vestito di un grande tubino scuro, sembra che si è preparato anche
lui per questa sera, sta anche lui aspettando qualcosa, chissà cosa. Mentre
sono qui a guardarlo mi perdo fra le onde dei suoi pensieri . Chissà se un
giorno diventerò quella giornalista che tanto sogno di essere. E se lo diventerò, sarò davvero felice di esserlo? È strano come non si riesca mai a vedere oltre
l’orizzonte, e come sia difficile raggiungerlo. La vita è come un viaggio in barca,
ogni attimo ci si accinge a raggiungere sempre un orizzonte diverso, più lontano, più pericoloso e nello stesso tempo così attraente, ma così misterioso
da non poterlo mai prevedere. Il mio sogno prima era laurearmi e in un attimo
il mio sogno è cambiato, chissà se cambierà prima ancora di raggiungerlo e chissà se ci sarà qualcosa, che non mi faccia desiderare una cosa migliore.
Il locale di sotto ha già acceso la musica, è ora di raggiungere Joe, l’amico
conosciuto in biblioteca, mi starà già aspettando. Per strada c’è molto traffico, oggi è sabato e nonostante il vento fresco la gente esce, me lo devo ricordare
perché lo devo scrivere nell’articolo della piccola rivista che sto costruendo .
Scriverò…mm: il tempo non impedisce alla gente di uscire e non li lascia
accontentare di vedere un po’ di tv sul divano, perché fuori in città c’è un’atmosfera fantastica. Giro l’angolo ed ecco Joe in lontananza. È così alto
che la sua chioma di capelli ricci e rossi la riconoscerebbero tutti. È diverso da
stamattina, si è vestito quasi elegante con una camicia sportiva leggermente sbottonata ed è lì, che non si è ancora accorto della mia presenza. Mi avvicino e
lo saluto con due baci sulla guancia, poi lentamente raggiungiamo il locale. È
davvero simpatico, non ho smesso di ridere per niente, ha sempre la battuta pronta, di sicuro non sono l’unica a pensarlo, visto che qui al locale lo salutano
tutti come se fosse davvero importante. Mi sento a mio agio con lui. Secondo
me diventeremo grandi amici. Entriamo finalmente in quel pub dopo aver conosciuto molta gente, ci sediamo e ordiniamo. Mi racconta dei suoi interessi,
gioca a calcio ed è un appassionato di informatica, quando ad un certo punto
vedo Bryan: è seduto davanti a noi e parlotta con i suoi amici che stranamente
lo chiamavano Cody. “Grace?”, Joe mi riporta alla realtà, non mi ero resa conto di essermi bloccata a guardarlo ed ero già partita fantasticando in pensieri
strani, come il perché uno importante come lui possa stare in un bar dove
vanno tutti e per di più nessuno lo riconosce. Non volevo pensare ancora a lui e alla mia prima pagina mancata, così scaccio via quei pensieri e butto giù un
cocktail alla frutta . A un certo punto mi accorgo che lui mi ha guardata .
Intimidita abbozzo con la mano un saluto e lui ricambia e, anche lui con un cocktail in mano sembra avvicinarsi verso di me. Mi sta prendendo un colpo.
Lui lascia gli amici per venire da me? Possibile ? “ Ciao ragazzi! Joe! Da quanto
tempo, come va?”. E’ venuto per Joe, non per me! Mi faccio sempre film assurdi! “ Oh amico, da quanto tempo, lei è Grace…” risponde Joe e Bryan
neanche lo fa finire di parlare che dice: “Oh sì, la conosco Grace, ci siamo
incontrati stamattina…”, non mi sembra il momento più opportuno, ma visto
che ci siamo incontrati perché non finirla l’intervista! Così, senza pensarci dico “ Sì già! Ci siamo incontrati per questioni lavorative, a proposito perché non
continuarla adesso quell’intervista?”. Joe mi guarda sconcertato… a lui non
avevo parlato della mia intenzione di intervistare Bryan, glielo spiegherò ora, tanto sono sicura che Bryan mi dirà di no, era giusto una proposta che ho fatto
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per non rimpiangere niente, ma già so la risposta. “Ehmm ..ok va bene, avviso i
miei amici e andiamo qualche minuto in un posto dove c’è meno
confusione…qui è impossibile parlare” e così dicendo Bryan si allontana. Non me lo sarei mai aspettato, si tratterà di pochi minuti, Joe con tutti quegli amici
non rimarrà certo solo, raggiungo Bryan.
“Ti porto in un posto bellissimo non molto distante, è un posto tranquillo e
silenzioso, dove puoi tranquillamente intervistarmi Grace”, che strano, si sta anche preoccupando di far riuscire bene la mia intervista, è davvero carino da
parte sua, ma non è possibile che faccia questo per me! Un uomo così
importante, secondo me deve essere un po’ brillo, bhe, se lo è meglio, magari mi rivela qualcosa di lui che fa notizia. Oggi mi sento proprio fortunata. “Dove
ci troviamo?”gli chiedo “Siediti qui, su questa panca di legno, questo posto è il
mio preferito, ci venivo sempre da bambino quando volevo stare tranquillo..” spontaneamente allora gli chiedo se a lui piace il mare, in particolar modo
questo posto e lui mi risponde “Tu penserai che io ami questo posto
incondizionatamente perché ci sono nato, ma io credo non sia così, questo panorama è in grado di trasformare i miei attimi in eternità e quando sono
particolarmente pensieroso vengo qui e i miei problemi, le mie gioie, i miei
dolori, i miei dubbi si immergono in un mistero più grande che guida l’operare
del mare. Lui è un infinito vivente che mi avvolge e non mi fa sentire solo, ma non potrei definirlo neanche un amico, perché è qualcosa di diverso e
inspiegabile...così poi ritorno a casa e i miei pensieri non sono più quelli di
prima, mutano proprio come le onde in ogni secondo, il mare mi riesce sempre a consolare”, mi stava spiegando quando le parole mi uscirono spontanee “Mi
ricordo quand’ero piccola che correvo sulla sabbia e il mare mi accarezzava i
piedi e cancellava le mie impronte e alcune volte mi regalava nuovi oggetti, non importava se il vento era freddo o era caldo, amo il mare ed è proprio per
questo che ho deciso di scrivere qualcosa su di lui. Questo posto è ancora più
bello del panorama che si vede dal mio albergo, sì, proprio l’albergo qui vicino che tu mi hai detto vendesti, è strano come il destino abbia voluto che io finissi
proprio lì, devo ammettere che tu vivevi in una bellissima casa!”. “Oh sì Grace,
l’amavo anche io quella casa, poi ho dovuto lasciarla, e adesso vivo al nord con
la mia famiglia, che coincidenza che tu abbia scelto proprio quell’albergo”. “Già, penso anche io che sia una grande coincidenza, penso che l’amore per il mare
ci accomuni Bryan!”.Cala il silenzio, avrò forse detto qualcosa di sbagliato?
Forse l’amore per il mare non ci accomuna, odio il silenzio, piuttosto comincio a fare l’intervista. Comincio di nuovo con le domande: parliamo di sport, hobby
ma è strano perché, quando tocco il tasto lavoro, comincia a balbettare, diventa
rosso e sembra quasi mi prenda in giro. Infastidita, decido di terminare l’intervista e concedermi un po’ di tempo a guardare il panorama prima di
andarmene. Quel mare pieno di misteri, così scuro chissà cosa nasconde, non
si distinguono più bene gli scogli o la sabbia, si vede solo una grande distesa non uniforme a causa della luna, che preferisce illuminare alcune onde e non
altre. C’è la luna piena, che cosa romantica la luna piena “Mi ha sempre
affascinato la luna piena”, Bryan ha parlato … sembra quasi mi abbia letto
nella mente, ma nel momento in cui sto per rispondergli incomincia lui dicendo “Non mi chiamo Bryan, non sono amministratore di niente..”. Fa una pausa, io
sono ammutolita “ mi chiamo Cody, sono un pescatore, fin da quando sono
piccolo mi ha sempre affascinato il mare, mio padre è l’amministratore di cui parlavi tu, ma con lui non parlo più da quando avevo vent’ anni, considerando
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che adesso ne ho ventisette... facemmo una lite: lui voleva che io continuassi il
suo lavoro ma, preso com’ero e come sono tuttora dal mare, non ho alcuna
intenzione di seguire le sue orme e voglio fare il pescatore, mi piace il mare, con questo lavoro posso stare sempre con lui, il mare diventa la mia vita, se va
bene la pesca o no dipende solo da lui e questa cosa mi piace un sacco, voglio
vivere di lui, voglio avventurarmi tra le sue onde, voglio lasciarmi trasportare
da lui che sembra avere così tanta esperienza e mi rende libero, il mare è la mia vita. Non ti ho preso in giro, ascoltami Grace, quando sei venuta…”. Che
schifo di persona, mi ha preso in giro tutto questo tempo, me ne vado. Lui è
dietro di me che mi insegue, si stancherà. Sono a casa, distrutta invio un messaggio a Joe dicendogli che non lo
raggiungo. Dopo di che mi sdraio sul letto e dalla finestra intravedo il mare tra
una sbarra e l’altra del balcone. Non mi va di guardarlo oggi, sono sicura che mi farebbe soffrire ancora di più . Lo avrei dovuto immaginare che fidarmi di
quella persona mi avrebbe fatto stare così. Non voglio pensarci, chiudo la
persiana e mi addormento nel buio della notte. Suona il telefonino. Chi è a quest’ora del mattino presto? Mi alzo, guardo
l’orologio, è tardissimo, sono già le undici del mattino. Sarà Joe, eravamo
rimasti d’accordo che ci saremmo visti a casa mia per andare in biblioteca,
però è in anticipo. Ho appena aperto gli occhi e non riesco ancora a leggere il nome che appare sullo schermo. “Pronto?”, “Buongiorno Grace, voglio farmi
perdonare, affacciati al balcone”, è Bryan, oh Cody volevo dire, bhe, dopo quello
che ha fatto non si aspettasse proprio che lo perdoni. “Cody dimenticami!”. Chiudo il telefono, però la curiosità di cosa c’è fuori è tanta da farmi alzare e
andare a vedere. Esco fuori, alzo lo sguardo eh…senza parole. Cody è lì, in
piedi con un mazzo di fiori in mano. È in quel bellissimo caicco che dolcemente dondola a ritmo delle onde. Mi cambio e sinceramente non so se perché lo
faccio così velocemente, io non posso lasciarmi prendere in giro da lui solo
perché mi ha colpita nel mio punto debole: il mare. Non posso, dopo che mi ha mentito così per prendersi gioco di me, non posso scendere. Qualcosa dentro di
me, però, mi dice che quello che penso è sbagliato ed è lo stesso qualcosa che
mi fa scendere i gradini dell’hotel tre alla volta. Non credo sia una di quelle
situazioni in cui cuore e testa vanno d’accordo, queste cose a me non capitano, io non credo in quelle cose. Cosa sta succedendo? Qualcosa, non so cosa, viene
dallo stomaco e mi dice: “Lasciati andare”. Gli do ascolto.
Cody mi aiuta a salire sulla barca, mi porge quel meraviglioso mazzo di rose e mi dice “Grace, tu mi sei piaciuta da subito, non potevo dirti che non ero
Bryan, altrimenti non mi avresti mai considerato. È stato un bene, ascoltami, il
mare ha voluto portarmi qua da te e tutto sembrava destino, un destino scritto dal mare. Lui adesso ci sta guardando, ha pensato lui a noi, era questo il
nostro orizzonte, sii felice con me tra le onde, ogni mattina io guardo questa
bellissima distesa d’acqua e vedo felicità, questo non mi basta però, perché io ho visto te, dentro i tuoi occhi il mare è profondo, immenso, celeste. Concedimi
una chance e ti prometto che non ti deluderò, potremmo accarezzare insieme
tutte le meraviglie, quelle fatte di scogli, di grazia melodiosa, ma anche quelle
fatte del nostro amore”. Sono irritata, qualcosa mi prende lo stomaco. “Cody io non ti credo, tu fingi, tu hai un’altra ! L’ho vista quella donna la prima volta
che ci siamo incontrati!” dico con un tono distinto, “Grace, è mia
sorella!”adesso mi sento sottoterra, vorrei nascondermi! Ho sempre pensato fosse la sua ragazza e invece… è sua sorella… è tutto risolto, non ci credo. La
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tensione mi fa lacrimare “Cody” dico “che il nostro viaggio cominci!”. E’ strano
come in questo universo niente succeda per caso e come tutto possa cambiare
nel giro di un attimo, il nostro amore è cresciuto così velocemente che neanche me ne sono resa conto.
Questo è il sesto giorno di viaggio sul caicco. La nave dorme, mentre scorre su
questa scura profondità, il vento cresce pian piano. È strano come io sia felice.
Ho trovato quella felicità che tanto sognavo, quella felicità che forse durerà per sempre. Ho deciso di scrivere il magazine sulle esperienze dei marinai, dei
pescatori, di Cody, mie. Una rivista sul mare . Non mi riferisco solo al mare di
Gallipoli, ma a tutti i mari. Non mi riferisco solo ai diversi mari…mar Mediterraneo, Adriatico…e gli altri, ma al mare che ognuno porta dentro di sè.
Sì, penso che ognuno di noi rappresenta in qualche modo un mare. Il mare è
mosso dal vento, noi siamo mossi dai sentimenti, dalla vita. Il mare non è distante dalle persone che vivono lontane da lui, perché è dentro ognuno di noi,
ma chi lo vede e lo tocca è in qualche modo più fortunato. Riesce a vedere se
stesso nella sua parte interiore, al di là di quello che gli suggerisce lo specchio. Contempla la sua anima nel volgersi infinito delle onde. Trasmette qualsiasi
sentimento si voglia percepire in quel momento, li contiene tutti, come noi, solo
che alcuni si percepiscono più di altri. Eh sì.. poi chi lo vede rimane estasiato,
è quasi una settimana che il mare mi culla, ma io non mi sono stancata nemmeno per un attimo, vederlo per me è una medicina per tutti i problemi. Mi
fa ragionare e mi fa vivere meglio, in pace con me stessa. Sono tra le braccia di
Cody, nel mare, non potrei stare meglio. “A proposito Cody, ma Joe come lo conoscevi?”, “E’ un mio vecchio amico tesoro, ho chiesto io a lui di portarti in
quel locale per vederti!”. Quasi non ci credo! Mi viene da ridere per la
felicità…che uomo! Avevo bisogno di conoscerlo, sì ne avevo bisogno proprio come lui, che è un pescatore, ha bisogno di conoscere il mare.
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Un segreto naufragato di F. d’Azzeo
Per Penelope il mare era qualcosa di più di una banale definizione del
dizionario, infatti per lei il mare era tutta la sua vita. Penelope era una quindicenne come tutte le altre con i problemi, le paure e le gioie tipiche di
quell’età.
Sicuramente la cosa che la distingueva dalle altre era quella passione sviscerata per il mare. Questa passione l’aveva ereditata da suo nonno, ai
vecchi tempi inflessibile ammiraglio, con l’hobby per la vela, con la quale,
affiancato dalla piccola nipote, affrontava diverse avventure degne del libro “Ventimila leghe sotto i mari”.
Cristoforo, come il grande conquistatore, tuttavia, era già morto da qualche
mese e ogni giorno Penelope, dopo la scuola, si recava sulla riva del mare dove
trascorreva ore a meditare. Il mare era rimasto l’unico modo per poter parlare ancora con suo nonno, lì il suo viso veniva bagnato dalle lacrime perché
proprio quell’infinita distesa blu aveva portato via il suo eroe più grande, suo
nonno. Come tutti i lunedì, Penelope si recava a casa dei suoi nonni, ma quel giorno,
spinta dalla curiosità, salì sulla soffitta. Qui la fioca luce diffusa da una
vecchia lampadina non era sufficiente per illuminare la stanza e, perciò, Penelope inciampò molte volte su un vecchio rottame.
Tra le varie cianfrusaglie la ragazza fu colpita da un cappello da ammiraglio,
quello di suo nonno. Dopo averlo indossato ed aver fantasticato davanti ad uno specchio, Penelope si accorse che lì, sotto il cappello, c’era un piccolo taccuino.
Lo prese e, rimossa la polvere con un soffio, iniziò a sfogliarlo. “12/3/11
PARTENZA: ORE 6. MARE POCO MOSSO, VENTO DA NW 10 NODI”.
Immediatamente la ragazza si accorse che questo era il diario, in cui suo nonno annotava tutte le informazioni sui suoi viaggi prima di partire .
Su ogni pagina erano scritte anche le iniziali del nome di colui che lo
accompagnava, perché Cristoforo non si allontanava mai da solo. Giunta all’ultima pagina era scritto:“27/7/11 PARTENZA ORE 21. MARE MOSSO NW
12 NODI”.
Penelope nel leggere quelle parole cominciò singhiozzare perché il 27 luglio era stata l’ultima volta che aveva potuto abbracciare il suo vecchio. Notò però due
iniziali a lei sconosciute M.P., cosa che le fece capire che quel maledetto giorno
con Cristoforo c’era anche un’altra persona. La ragazza era sorpresa, poiché proprio quel giorno suo nonno le aveva vietato di accompagnarlo e perciò
s’insospettì e decise di andare in fondo alla questione.
Nei giorni successivi s’impegno alla ricerca di informazioni sulla vita di suo
nonno, sul suo lavoro, sui suoi amici o per meglio dire sui suoi nemici, e sì, proprio così, perché più trascorrevano i giorni più Penelope si convinceva del
fatto che suo nonno non era morto accidentalmente, ma che qualcuno l’avesse
ucciso. Così, dopo tre settimane di assidue ricerche, la ragazza, stanca e un po’ delusa, trovò una vecchia foto di classe di suo nonno.
Sul retro erano scritti tutti i nomi dei suoi compagni. C’erano due nomi, le cui
iniziali corrispondevano a quelle scritte sul diario di bordo. Così la piccola Poirot con i suoi potenti mezzi cercò informazioni anche su queste persone. Ma
anche queste ricerche furono inconcludenti perché Mario Pelluso era morto da
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sette anni e Marco Pillo viveva dal 1967 in America. Dopo questo ennesimo
fallimento la quindicenne, stanca e disperata, fuggì sulla riva del mare.
Il rumore delle onde, che s’infrangevano sugli scogli, e il profumo inconfondibile della brezza marina le rammentarono suo nonno e così fu invasa
da una nuova sensazione, non era più angoscia, si chiamava speranza, sì,
quella speranza da cui trovò la forza per proseguire le sue indagini.
Il giorno dopo decise di ripartire da zero, di ripartire dalle persone più vicine al suo vecchio, Giorgio Rossi vicino di casa da oltre trenta anni e amico di
famiglia.
Giunta a casa Rossi, quel gentile signore riferì alla ragazza numerosi aneddoti sulla vita eroica di suo nonno, come quando ad esempio, in uno dei sui soliti
viaggi in vela, scopri un’isola deserta vicino alle coste caraibiche.
Giorgio, dopo una malinconica chiacchierata, offrì alla ragazza qualcosa da bere e da mangiare.
Mentre era in cucina, la ragazzina iniziò a curiosare intorno al salotto e,
aprendo un cassetto, notò delle lettere, delle bollette da pagare, la lista della spesa e sotto questa la ragazza notò una collana con un medaglione, ciò la
sgomentò perché lo stesso medaglione lo aveva regalato a suo nonno prima di
partire, dopo aver inciso i loro nomi. Girando il medaglione lesse: “ Penelope e
Cristoforo”, in quel momento gli fu tutto chiaro. Anche perché le iniziali sul diario di bordo erano sue, perché suo nonno lo chiamava sempre “MIKI
PIGNA”. Ma proprio mentre lo riponeva nel cassetto, Giorgio entrò nella camera
e, sgomento, fece cadere tutti i bicchieri che portava. La coraggiosa ragazza iniziò ad accusarlo aspramente e ormai, colto in flagrante, confessò tutto, e
disse alla ragazza: “Ora che sai il mio segreto, mi costringerai ad avvelenarti,
proprio come ho fatto con tuo nonno”. Così obbligò la ragazzina a bere quella sostanza velenosa. Ma Penelope, con un trucco che le aveva insegnato suo
nonno, fece finta di berla ed inscenò la sua morte. Appena Giorgio si allontanò
dalla stanza la ragazza chiamò la polizia e spiegò la situazione. Avvertito il suono della sirena, Giorgio iniziò a fuggire inseguito dalla polizia. Quando
ormai si erano perse le sue tracce un poliziotto lo ritrovò su uno scoglio,
mentre tentava di suicidarsi. Lo catturarono e venne condannato all’ergastolo
per omicidio volontario. E alla fine quella distesa blu, che non ha né un inizio né una fine, ha reso giustizia a Cristoforo, che finalmente potrà riposare in
pace.
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Il mare di vetro di R. di Giglio
Sarebbe bello trovare l’inizio del mare, cosi come la fine, cosi come la metà. È
come se le onde con il loro incessante movimento cancellassero i limiti mai tracciati di un mondo parallelo. Dare il colore al cielo non è una cosa da nulla.
Se riesce a fare questo, figuriamoci se un grande vecchio saggio come lui non
riesce a trasmettere emozioni positive e serene. È anche vero che l’uomo con il suo continuo abusare delle cose offertegli dalla
natura sta inquinando il mare, sporcandolo con la “ricchezza” nera o con
qualsiasi altra sostanza nociva al vecchio blu. Ma lui incassa e va avanti, non crolla e continua a regalare sogni ed emozioni, vele e gabbiani, albe e tramonti.
Lo sa bene lui, che, dall’isola, fissa costantemente l’orizzonte del mare, forse il
resto che potrebbe guardare non è interessante, o forse perché è l’unica cosa
che può guardare. Un uomo, uno solo, sulla mezza età, su un’isola deserta. Sperduta dal resto del mondo come se fosse stata dimenticata anche da chi è
stata creata.
Lui neanche ricorda come ci sia arrivato, sempre se ci è arrivato, perché non si ricorda il suo primo giorno di vita su quell’isola deserta. Non dice una parola, è
immobile sulla spiaggia di sabbia bianca, dietro le palme e la boscaglia
caratteristica della fascia equatoriale. Senza né passato né futuro fissa continuamente l’orizzonte del mare, in tutto quel tempo che ha passato
sull’isola non ha visto niente che sia diverso da un animale marino o qualche
rifiuto arrivato via mare sulla battigia della spiaggia. Segno che gli dà la consapevolezza che non è solo al mondo, ma lui rimane sempre lì sulla spiaggia
a fissare l’orizzonte del mare, accanto a lui però, c’è un grosso pezzo di vetro al
quale tiene molto.
Piano piano cerca di ricordare il suo passato, che in questo momento sembra infinito come il mare.
Era un capitano, o almeno quello voleva essere, viveva in una città affacciata
sul mare lavorando duramente ogni giorno, per poter coronare il suo sogno, comprare una nave e mettere su un equipaggio per salpare all’ avventura.
Però non era un capitano come tutti gli altri, non voleva essere né un pirata né
un brigante, e non voleva rubare alcun tesoro a qualcun altro, era un tipo piuttosto tranquillo e voleva guadagnarsi da vivere sul mare, onestamente.
E, soprattutto, aveva una strana, ma bella idea di barca, dovuta alla sua
personalità leale e trasparente, non voleva una barca fatta di legno, ma interamente di vetro. Credeva che le barche di legno fossero un’idea usata e
riusata già troppe volte, voleva cambiare, era uno a cui venivano molte idee
originali, e credeva che le barche di vetro sarebbero state il futuro.
Arrivò il giorno in cui mise da parte un bel gruzzolo di soldi e invece di rivolgersi a un cantiere navale per la sua barca, come facevano tutti, andò in
una vetreria e mostrò il suo progetto.
Secondo lui il vetro sarebbe scivolato meglio sull’acqua azzurra del mare e, se fatta con un vetro infrangibile, la sua sarebbe stata anche più resistente di una
barca di legno.
Secondo lui il legno si ricava dall’albero, e l’albero è un prodotto della terra ferma e non poteva essere in sintonia con il mare.
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Non passò tanto tempo che la sua barca era già pronta ed assemblata nel
porto, brillava al sole di luce propria e i riflessi abbagliavano la città e il mare
come se fosse illuminata da mille lampadine, tutti rimanevano incantati e stupiti nel vedere quella meraviglia di vetro, quasi sembrava un fantasma
fluttuare sull’acqua cristallina come il vetro.
Ma non ci furono solo complimenti per il capitano, molti lo deridevano dandogli
del matto, dicendo che quella barca non sarebbe durata un giorno. Ma il capitano era fermamente convinto della sua geniale idea e non dava ascolto a
chi lo criticava.
Fu cosa dura trovare l’equipaggio, era difficile, e lo sapeva, trovare uomini che si fidassero di salire su una barca di vetro, ma il capitano, da uomo intelligente
qual era, riuscì a convincere tre paia di uomini corretti e convinti, amanti del
mare. Arrivò il giorno in cui salparono dal porto, e per il capitano, che stava vivendo
un sogno, quello fu un giorno memorabile, tutto grazie al mare sul quale la
“Masterpiece”, cioè il nome che aveva dato alla sua barca, scivolava velocemente, quasi sembrava volasse radendo il mare.
Dei simpatici delfini incominciarono a nuotare intorno alla barca e ad
affiancarla, quasi sembrava volessero elogiare la barca, ma in realtà volevano
attirare l’attenzione del capitano per indicargli qualcosa di molto crudele. Condussero la barca del capitano verso un puntino nero in lontananza, che
diventava sempre più nitido con l‘avvicinamento.
Era una nave da pesca cinese con cinesi a bordo, apparentemente innocua, ma terribilmente cattiva. Sott’acqua cerano le reti con le esche per delfini e balene,
non ne vogliono pescare uno o due per portarli in uno zoo, per farli ammirare
dai bambini, ne vogliono catturare tanti per i loro loschi affari. Delfini innocui e giocondi che prima saltano felici dall’acqua trasparente del
mare aperto e poi finiscono nella cattiveria fatta a rete da pesca, sollevati dal
mare ormai già in trappola e lasciati a morire sulla barca, per poi fare della loro carcassa una fine ancora peggiore.
I delfini volevano far vedere questo al capitano, la cattiveria incontrollata
dell’uomo che aveva fatto perdere loro molti amici.
Il capitano era emozionato, perché finalmente aveva l’occasione per dimostrare al mare il suo amore e il suo ringraziamento verso esso per quello che gli
offriva. Intrepido, il capitano diede l’ordine di sparare i pesci palla spinati verso
le navi metalliche dei nemici del mare. Durante la traiettoria i pesci palla spinati si gonfiavano enormemente e quando arrivavano sulla nave
rimbalzavano fino ad arrivare a staccare i bracci meccanici, che sollevavano le
reti e a impedire la pesca dei delfini. Il capitano guardava compiaciuto dalla sua barca la scena, ma l’occhio gli cadde su un cucciolo di delfino rimasto
intrappolato tra le maglie delle reti da pesca sott’acqua. Il magnanimo capitano
si tuffò dalla poppa della nave con un coltello tra i denti, e si spinse in fondo al mare fino ad arrivare a tagliare le maglie delle reti da pesca, che trattenevano
la creatura azzurra. Ma i cinesi dalla loro nave erano tanto malvagi e con gli
arpioni a forma di frecce cercavano di colpire un grande capitano tanto che un
enorme capodoglio si lanciò contro la barca per salvare il capitano. L’enorme cetaceo saltò fuori dalla superficie verso la nave avversa, superandola e
facendola capovolgere. La ciurma era in festa, inneggiava il nome del capitano
che cavalcava un delfino sulla superficie dell’acqua, i cinesi bestemmiavano,
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quel giorno niente scempio, niente cattiveria, trionfavano i buoni, trionfava il
mare.
Ma il capitano notò che un arpione sparato volontariamente lì dai cinesi aveva colpito la prua della barca, sfondandola dato che era fatta di vetro. Il gioiello di
vetro stava imbarcando acqua, tanta acqua, troppa acqua.
Subito la ciurma si tuffò in mare, aggrappandosi ai delfini per salvarsi, ma il
capitano fece l’esatto contrario, si lanciò giù dal dorso del delfino andando verso la barca, sembrava la volesse aiutare, ma lentamente stava andando giù.
Un’ enorme ondata finì la tragedia, colpì la barca sul lato in cui era stata
bucata dall’arpione e le diede la spinta decisiva per andare giù, ormai piena d’acqua com’era.
Affondava la nave, come se non ne volesse sapere più niente del mondo,
provocando una forte marea che allontanò i delfini con la ciurma che persero di vista il capitano.
Lo cercarono il capitano, invano però, pensavano fosse finito giù con la barca
che ancora luccicava dal fondo del mare. Ritornarono tutti a casa i marinai, si erano fidati del capitano con la barca di vetro che aiutava il mare, ma
pensavano che la sua idea fosse finita in fondo al mare con lui… In realtà il
capitano galleggiava stordito su un pezzo di vetro tra le onde del mare, si
vedeva la terra in lontananza, poi la sabbia, era un’isola, non sapeva quale, ma era un’isola. Arrivato sulla battigia, non si ricordava più niente, neanche come
si chiamava, e si sedette sulla spiaggia con il grosso pezzo di vetro dietro di lui,
che gli dimostrava che l’uomo poteva fallire, ma il mare no, e si mise a fissare l’orizzonte del mare in attesa di un’altra idea…
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Onde
di S. Funari
Una leggera brezza mi accarezza i capelli, un profumo inebriante solletica i miei
sensi. Il candore del tramonto è quasi palpabile e sembra voler inondare qualsiasi superficie con i suoi splendidi colori rosati. Le timide onde mi
rilassano. Il verso dei gabbiani echeggia nel vuoto. Sento tutto questo fuori e
dentro di me e so di essere a casa. Ogni volta quell'atmosfera così tanto familiare mi regala emozioni contrastanti. Pace. Sicurezza. Malinconia.
Tormento. Neanche io saprei spiegare. Ma tutto intorno a me, in quella baia
deserta, sembra mosso da un'energia nuova. Amo andarci per riflettere, lavorare o semplicemente respirare quell'aria perfetta, perché, anche quando
crollano tutti i miei punti di riferimento più saldi, io qui trovo tutto come
prima, tutto come sempre, tutti gli elementi e i colori e i sapori perfettamente
dosati e in armonia e io in armonia con il resto. Sono un ospite discreto e provo un profondo rispetto per l'estrema perfezione di questo posto. Mi sembra che la
natura sia qui ad esprimersi in tutta la sua potenza e per me non c'è nulla di
più sacro. Questa è la mia baia, è il mio luogo privato. Attraccata al molo, più in fondo, la mia barca a vela..sono lì, seduto in quella bolla di pace, cercando
di trovare una risposta. Ho trentotto anni e una storia da raccontare. Ho alle
spalle una vita passata nella mia ridente cittadina costiera, Nizza. Ho un lavoro come ricercatore farmaceutico che mi permette un più che discreto stile di vita
da dodici anni. Ho degli amici che mi vogliono bene, dei colleghi che mi
stimano, una famiglia che mi ama. E poi avevo Chiara, che per me era più di una moglie. Avevo una casa accogliente. Avevo una vita vissuta cavalcando
l'onda dell'attimo fuggente, senza mai lasciarmi sfuggire un'occasione, non una
singola opportunità e, da due anni a questa parte, per qualche motivo, la mia
vita è diventata una guerra contro il tempo. Il passato fa sempre troppo in fretta a riemergere..e il futuro a venirmi incontro. Cerco qualcosa che mi
smuova, ma mi sento fuori posto, non trovo le note giuste. Ho perso Chiara in
un incidente aereo e questo ha lasciato un vuoto incolmabile ma, nonostante ciò, vivo la mia vita perché non provo dolore e non provo rabbia, semplicemente
sono immune a qualsiasi tipo di emozione, ma sono le otto e come al solito
vado troppo oltre. Antoine, il mio collega, mi sta già aspettando al nostro bar preferito, il Wayne's. Mi piace perché c'è una vetrata gigantesca e posso
guardare i passanti, è come una finestra sul mondo..guardo la gente che passa
e immagino la loro storia, sì, credo che abbiamo bisogno di rifugiarci nelle storie degli altri, quando la nostra vita diventa un'asettica routine. Prendo
posto e gli occhi ghiaccio di Antoine mi sorridono con aria stanca, lui è un
uomo di poche parole, discreto e mi piace per questo motivo. Parla solo di ciò
che sa. siamo colleghi da cinque anni ormai e, se dovesse mancarmi qualcuno del mio lavoro qui, sarebbe lui.
Ho tutto, ma la mia vita mi va stretta perché solida e statica e io non sono mai
stato statico, o forse lo sto diventando. "Non prendi niente?" Antoine indaga su di me con lo sguardo. Ordino un croissant di quelli che lasciano l'odore di
burro sulle mani per l'intera giornata e apro il giornale. Guardo distrattamente
la prima pagina..Antoine continua a fissarmi, ha qualcosa da dirmi. "Marie è incinta. Ci abbiamo provato per mesi e finalmente aspetta un bambino". Lo
guardo, è raggiante. "Congratulazioni vecchio!" e passiamo la giornata a parlare
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di quanto sia felice, dell'impatto che una cosa del genere possa scatenare su di
noi. Tornando a casa continuo a pensarci..io non sono mai riuscito a sposare
Chiara, non ho fatto in tempo, ma era come se fosse già mia moglie. Noi avevamo un progetto, una famiglia..rieccoli i fantasmi del passato. Decido di
andare a trovare i suoi genitori. Claude e Amélie sono brave persone, una di
quelle coppie che ti fa venir voglia di essere innamorato e, per quanto siano
anziani, hanno una gran voglia di vivere. E’ Claude ad accogliermi, Amélie non è in casa. Mi offre un caffè e iniziamo a parlare del più e del meno, quando mi
fa "Michele, tu devi smetterla. Smetterla di farti scivolare la vita dalle mani
come se niente fosse. C'è chi la vita l'ha persa e tu invece ce l'hai e merita di essere vissuta, quindi fallo", "Claude, ma cosa..?" "Fallo Michele. Non cadere
nella trappola. Gli eventi a volte ci sconvolgono e ci fanno sentire impotenti, ma
dobbiamo avere la forza di rialzarci e continuare a correre, anche se un vento tremendo dovesse soffiarci in faccia, anche se una violenta grandine dovesse
scalfirci la pelle". Torno a casa confuso. Apro il cancello, imbocco il viale..da lì,
nella baia, si scorge la vela. Una vecchia passione ormai abbandonata.. Passano i mesi tra casa e lavoro.
Sono le due di notte e una chiamata mi sveglia. Antoine. Claire sta
partorendo..Biascico qualcosa e mi trascino giù dal letto. Corro verso la
macchina in pigiama. Entro in ospedale appena in tempo per vedere la bimba che, per la prima volta, si lascia abbracciare dalla mamma in lacrime. Antoine
mi sorride, e io non posso fare a meno di ricambiare..è un'immagine perfetta,
racchiude il senso della vita perché rappresenta persone che hanno raggiunto il loro scopo. Tutte le loro scelte passate, aver lasciato i ragazzi con cui stavano al
liceo, essere andati a fare la spesa proprio quella mattina e proprio in quel
supermercato in cui si sono incontrati, ora ha senso perché li hanno condotti fin qui. Dev'esserci un fine supremo, uno che valga tutti i nostri scopi, tutti i
nostri sbagli. E il mio qual è? Ho un lavoro che non mi piace, vivo da solo e
sento la mancanza del brivido della scelta, ma ora provo mille emozioni e mi sento ispirato..corro a casa. preparo la valigia, sento l'adrenalina che scorre
nelle mie vene, sono pronto. Mando una lettera al mio capo, parto e non so se
tornerò nè quando. Corro incontro alla mia bellissima vela..come ho potuto
abbandonarla? Tolgo il telone, torno a farla respirare, salgo a bordo, sfioro il timone..sento l'energia. Il mare è vasto e mi rendo conto in questo momento
che altrettanto vaste sono le mie possibilità, e cercherò di essere alla loro
altezza, sarò altrettanto immenso. Slego le funi, levo l'ancora, delle profonde vibrazioni mi dicono che sto
partendo. E’ notte e non navigo da anni, non so che mi aspetta, ma mi lascerò
semplicemente trascinare dal vento, come diceva Claude. Mi aspetta un'altra vita da inventare, un lavoro che mi piaccia, magari. So che la mia vita qui non
è il mio destino. Ciò che è cambiato è una semplice consapevolezza: io sono
destinato ad essere felice. Io voglio essere come Antoine, voglio correre incontro alla vita, abbracciarla, dirle che ci sono.
Cavalco l'onda. Il mare mi culla, questa è la mia casa, tra futuro e passato c'è
una linea sottile, il presente, e io ho scelto questo in attesa del mio futuro.
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Salvate il soldato Smalling di E. Lima
Un giorno, in un’ isola sperduta, nel bel mezzo di un mare in tempesta, un
ragazzo, dopo essersi risvegliato su una spiaggia sperduta, non si ricordava praticamente nulla. La sua situazione in quel momento era davvero critica,
perché il ragazzo non sapeva proprio niente sul suo conto e voleva a tutti i costi
scoprire la sua vera identità, anche se era consapevole della difficoltà dell’impresa. Il ragazzo era davvero nel panico più totale perché, trovandosi su
un’isola sperduta, chissà in quale continente e in quale mare, aveva perso
davvero i punti di riferimento e non riusciva ad orientarsi. Quindi, il naufrago avrebbe voluto perlustrare tutta l’isola, in cerca di qualche indizio che gli
avrebbe permesso di ricordare il suo passato e quindi arrivare a scoprire la sua
vera identità . Iniziò dalle cose più banali che alla fine avrebbero potuto
rivelarsi fondamentali per la sua missione alquanto impossibile . Continuando il suo giro di perlustrazione dell’isola trovò in una grotta una specie di capanna
con avanzi di cibo e un falò ancora acceso . Questo scombussolava tutti i suoi
piani, perché all’inizio il ragazzo pensava che l’isola fosse completamente deserta e disabitata, ma ciò voleva significare solamente una cosa: che il nostro
naufrago non era solo .. Infatti, dopo molte ore di pericolose salite e burroni
insidiosi alla ricerca di un qualsiasi indizio, finalmente il nostro coraggioso naufrago si scontrò con due ragazzi che, all’ apparenza, gli sembrava di non
conoscere, ma, in seguito, si rese conto che erano molto più di due semplici
ragazzi . Infatti questi ultimi riconobbero il naufrago e, contenti di averlo ritrovato, iniziarono a raccontargli l’accaduto. I ragazzi spiegarono di essere dei
soldati partiti in guerra per l’Iraq e, per un attentato al loro aereo da parte dei
terroristi, si erano dispersi su questa isola, ma, per fortuna, i contatti con la
base americana erano stati costanti grazie ad una strumentazione nel loro aereo all’avanguardia e molto avanzata . Quindi aspettavano solo i soccorsi da
parte dell’esercito, purtroppo, però, le provviste di cibo ed acqua erano quasi
terminate, quindi bisognava sperare che i soldati americani facessero in fretta, in modo che i tre dispersi si salvassero senza problemi . I due soldati
spiegarono anche che l’identità del ragazzo disperso e senza memoria era
quella di Matt Smalling, generale dell’ esercito americano e l’isola sulla quale si erano persi era il Madagascar, purtroppo, però, quest’ isola era immensamente
grande ed era difficile orientarsi, anche usando aggeggi all’avanguardia come
quelli che possedevano i tre ragazzi . Per fortuna qualche ora dopo, puntuali come sempre, arrivarono i soccorsi da parte dell’esercito americano, che portò
in salvo i tre dispersi .
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Occhi di G. Mastrogiacomo
Occhi vitrei, sguardo gelido, labbra esili e rosse.. rosso fuoco, rosso passione,
rosso sangue. Abiti comuni, jeans e t-shirt. Passo disinvolto e testa alta.. i suoi passi erano più pesanti dei passi di tutti gli altri uomini, lui camminava
sull’erba; la sua macchina era diversa da quella di tutti gli altri, se studiata
bene avrebbe rivelato cose che alcuni avrebbero ritenuto segreti preziosi; anche la sua vita non era una vita comune.. aveva un libro in una mano e la morte
nell’altra. Marco era un figlio, era un nipote, Marco rappresentava la
continuazione di un sogno gerarchico, la sua era una mamma diversa da quelle di tutti gli altri, si chiamava mafia! Da bambino non giocava con le pistole false,
ma si dilettava a inserire proiettili in quelle di suo padre. Amava l’odore della
polvere da sparo, la polvere da sparo presto si era trasformata in un altro tipo
di polvere: bianca e leggera. Mentre i suoi coetanei a quindici anni erano impegnati a giocare a calcio e le sue amiche a incipriarsi il volto, lui vendeva
cocaina. Era iniziato così il suo percorso nella camorra, vendeva erba e coca
nella sua scuola inizialmente, in un paio di anni aveva iniziato a dedicarsi al commercio di armi e a soli ventidue anni era il capo di una piccola comunità di
sedici uomini che sottostavano ai suoi ordini.. con il tempo il suo sogno si
stava realizzando, un sogno che da qualche anno era sempre più vivo, un sogno che era rimasto l’unica possibilità per quel ragazzo. Si aggirava con la
testa alta per i vicoli della sua zona, nella sua tasca destra una pistola, che non
si preoccupava di nascondere. Era il 27 marzo e lui aveva il compito di riscuotere ciò che al suo clan era dovuto, esattamente come faceva ogni
ventisette del mese. Conosceva bene gli occhi di quel terrificato commerciante,
ma continuavano a non trasmettergli emozioni. Era insensibile a tutto. Entrò
dalla porta sul retro come sempre faceva e silenziosamente raggiunse la scrivania. Lui e il signor Cervo avevano un accordo, nel giorno prestabilito il
commerciante doveva chiudere in una busta 2.100€ e lasciarla nel terzo
cassetto di quella scrivania, ormai cibo per i tarli. Marco con tono sicuro aprì il cassetto tentando di essere il meno rumoroso possibile, chinò lentamente la
schiena, distese le braccia, afferrò le maniglie e tirò con forza. Il cassetto
scricchiolò e si aprì, Marco rimase senza parole: era vuoto. L’assenza dei soldi era un chiaro segno di ribellione che non poteva ammettere. Aprì leggermente
la porta che separava il bar dall’anticamera e intromise il suo occhio ceruleo
nella stanza. Vi erano due uomini seduti intenti in una conversazione, una donna che sola sfidava la fortuna comprando un gratta e vinci. Dietro il
bancone il signor Cervo sorseggiava un bicchiere d’acqua, teso. Capiva dalla
sua postura e dal suo sguardo che era terrorizzato, quell’uomo sapeva che lui
sarebbe arrivato. Marco senza indugiare ancora prese la sua pistola e sparò un colpo dritto alla nuca dell’uomo.. sangue rosso riempì la stanza. Urla e grida di
sgomento. Le tre persone corsero fuori abbandonando il bar. Marco andò via
con calma ed ebbe la freddezza di non torcere la testa per guardare dietro di sè. Per quel giorno aveva ancora un compito da svolgere e l’avrebbe fatto con la
stessa precisione di sempre. Camminò dritto e dopo due isolati svoltò a destra,
la strada era ombreggiata, sui marciapiedi di destra e sinistra si alzavano imponenti dei pini, che erano cresciuti con lui, continuando per quella strada
si giungeva al mare, ma Marco adesso doveva andare a casa. Infilò la chiave
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nella porta blindata, non dovette compiere i soliti tre giri, il primo fu sufficiente
per sbloccare il meccanismo che, liberandosi, aprì la porta. La cosa era insolita,
ma non lo sorprese più di tanto, con molta probabilità era in casa sua madre, incantata guardando la tv. Sua madre amava trascorrere il suo tempo libero
guardando quegli spettacolini comici che le televisioni italiane trasmettevano, a
lui non era mai piaciuto trascorrere le ore su un divano, Marco aveva altri
interessi. Si recò in salotto e, come aveva pensato, vi trovò sua madre, la salutò e attraversò con passo svelto la sala per giungere in camera sua. Quella
camera era disordinata, era l’opposto di Marco, infatti lui era un ragazzo
schematico e preciso, nulla era mai differente da come l’immaginava e tutto seguiva un particolare ordine che si era prefissato. Aprì i cassetti con furia, li
rovesciò sulle lenzuola bianche, frugò con foga ovunque fino a quando non
trovò quella piccola bustina nera sotto una pila di magliette estive. Se la infilò in tasca senza molta cura o precauzioni, controllò di avere dei proiettili a
disposizione, salutò sua madre e uscì nuovamente da casa. Al polso aveva un
orologio, un Rolex che gli era stato regalato all’età di tre anni da suo nonno, osservò le lancette che segnavano le 4:47, aveva pochi minuti per raggiungere il
bosco o l’uomo con cui doveva parlare sarebbe scomparso. Alzò il passo è in
otto minuti raggiunse la sua meta, aveva il fiatone, si toccò i fianchi e ansimò;
poi riprese a correre e raggiunse presto il cuore di quella selva. L’uomo era appoggiato su un tavolino, portava un cappotto, anche se la primavera era
sbocciata, e guardava il suo orologio ansioso. Marco lo raggiunse e senza dire
una parola gli infilò la bustina nera nella tasca sinistra, l’uomo per risposta pose nella tasca di Marco un blocchetto di banconote. La droga era stata
consegnata, ora poteva trascorrere del tempo in serenità. Ripercorse la strada
che lo aveva condotto nel bosco, questa volta però i suoi passi erano leggeri e tranquilli. Proseguì per una strada che portava al mare per circa cinque
minuti, poi si trovò sulla baia. Raggiunse con foga il molo tre, salì sulla sua
barca a vela e salpò. Quella barca era un segreto, un patto di alleanza tra Marco e il mare, nessuno conosceva la sua esistenza, i suoi genitori e i suoi
amici pensavano che lui trascorresse il suo tempo libero bevendo alcolici in
qualche bar di periferia, nessuno sospettava che quel ragazzo di ghiaccio
scappasse trainato dalle onde. Si sentiva un condottiero inerme ogni volta che con ansia arrivava al molo tre e saliva sulla sua “Serena”, l’ansia che provava
percorrendo il pontile si trasformava in impotenza appena poggiava il suo piede
su quella barca. La sua anima era relegata e immobile, lui poteva solo ammirare quello scenario paradisiaco che i suoi occhi non potevano contenere.
Quel mare così vasto e inesplorato lo lasciava senza parole e gli regalava
emozioni diverse ogni giorno. Quando quelle onde si increspavano e si rincorrevano ferocemente, Marco provava rabbia, quando queste invece si
rilassavano e lasciavano che il sole le accarezzasse con i suoi teneri raggi,
Marco si sentiva tranquillo come non era mai. Ma era quando queste si immergevano nella pittura dell’arcobaleno, quando si rotolavano tra i colori e
ne uscivano una diversa dall’altra, ma belle nella stessa misura, che Marco si
sentiva felice. Quello era l’unico momento in cui, senza remore, riusciva a
provare quel sentimento spiazzante. La “Serena”, però, non era l’unico segreto di Marco, c’era un segreto ancora più profondo che neanche la sua coscienza
riusciva ad ammettere: Marco quel mare lo temeva con tutto se stesso e non
aveva mai permesso a quelle onde di accarezzare la sua rude pelle olivastra. Marco rimase seduto a poppa osservando il cielo fare il solletico al mare che
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rideva come un matto agitandosi. Sarebbe rimasto a lungo incantato lì sulla
“Serena”, ma si stava facendo tardi e il mare di sera lo spaventava. Invertì la
rotta e tornò verso il molo tre, il giorno dopo lo aspettava una giornata che non sarebbe trascorsa con facilità. Marco si distese sul letto e lasciò che il sonno lo
coccolasse tra le sue braccia ampie, capaci di accogliere chiunque e in
qualunque momento. La mattina si svegliò presto e si guardò nello specchio,
come ogni giorno il cuscino aveva lasciato la sua impronta sul suo viso. Stiracchiò i muscoli, svolse alcuni esercizi per fortificare i suoi addominali e i
suoi bicipiti, poi fece una rapida doccia e infilò le prime cose che pescò
dall’armadio. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato e non l’aveva mai temuto, ma adesso sentiva un brivido atroce percorrergli la schiena, Marco
sapeva che stava per sancire il suo ingresso ufficiale nel club, dalle 17:00 in poi
tutte le persone che contano avrebbero avuto stima di lui e l’avrebbero considerato uno di loro. Marco doveva compiere quello che era ritenuto quasi
un rito di iniziazione: doveva uccidere il capo di un clan mafioso a loro avverso.
Strinse i denti e infilò la sua solita rivoltella in tasca. Uscì da casa. Nel cortile del palazzo in cui viveva c’era una macchina ad aspettarlo: quella giornata era
stata studiata nei minimi particolari e nulla doveva andare in modo differente
da come era stata programmato. Marco assisteva allo spettacolo di Napoli che
si alza, mentre guardava fuori dal finestrino, assorto nei suoi più intimi e selvaggi pensieri. La macchina nera accostò e Marco scese senza rivolgere una
sola parola all’autista, apparentemente il piano era semplice: doveva solo
aspettare che Francesco Bucci abbandonasse casa sua per indirizzare un proiettile alla sua tempia. Poi doveva solo scappare. Si appostò immobile con la
pisola nella mano destra in un vicolo, avevano studiato i movimenti di Bucci
con estrema cura e sapeva che avrebbe attraversato la perpendicolare di quello scuro vicolo da lì a qualche minuto. Quegli istanti furono terribili, che lui
ricordasse non aveva mai trascorso attimi così perforanti . La sua mano
tremava, il suo sguardo non riusciva ad essere fermo e apatico, le gambe non lo sorreggevano. Aspettò tre minuti e Bucci passò, Marco avrebbe dovuto
immediatamente sparare, ma rimase per qualche instante inerme osservando
quell’uomo che era un suo simile, che sicuramente come lui era stato inserito
nel giro mafioso fin dalla più tenera età, che come lui camminava con un’ andatura sicura e che come lui non sarebbe morto per cause naturali, ma per
mano altrui. Poi ricordò cosa doveva fare e sparò. Il colpo però non colpì la
testa di Bucci, che lanciò un grido, la sua voce però rimase strozzata da una seconda pallottola, che lo colpì nel cuore. Marco iniziò a correre fuori da quel
vicolo; una sicurezza però gli morse la testa e lo afflisse: un ragazzino dagli
occhi cerulei l’aveva visto, quel ragazzino adesso era il più prossimo amico della propria morte. Nella testa di Marco centrifugavano milioni di pensieri, il primo
era la fuga: una fuga senza senso. L’uomo corre, corre quando è senza
coraggio, corre quando qualcosa di bello lo sorprende, corre quando ha paura, corre quando rincorre una palla e corre quando è colpevole. Semplicemente
corre. Ma i pensieri non hanno gambe, non hanno fiato o resistenza, loro si
ancorano ai luoghi e ai volti e ci rimangono legati fino a quando qualcosa di più
grande li smuove. Marco corse con tutte le sue forze, raggiunse la macchina che lo aspettava e ordinò all’autista di condurlo alla baia. Nella sua mente
pensieri si accavallavano formando grandi castelli, e lì nella sua mente c’erano
due uomini: Marco sapeva che la sua vita era destinata a finire come quella del primo uomo. Per mano del secondo. Arrivò al molo tre, salpò e attraversò il
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limite oltre il quale non era mai andato con la sua barca a vela. Si spogliò di
tutto ciò che copriva il suo corpo e, nudo, rimase seduto a poppa. I ricordi
erano confusi e disordinati, il mare si stava agitando, pensava ai suoi occhi verdi che scintillavano come le lucciole, le onde lo spaventavano.. erano grandi,
grandi come il sorriso di quella donna che aveva sempre amato, i pesci
nuotavano felici e liberi, felici e liberi erano loro due insieme, una piccola
grande goccia contro l’oceano, le onde lo agitavano con violenza..terrore, terrore che aveva provato quando, mentre stava guidando quella moto, il cielo
all’orizzonte era..nero. Nero, l’unico colore che aveva visto dopo
quell’incidente..l’ultimo colore che Sara aveva visto. Lui era morto con lei quella notte, che gli aveva regalato apatia e solitudine, ma gli aveva dato anche il
mare, la più grande passione di Sara che avrebbe continuato a coltivare lui.
Quel mare grande e oscuro, così profondo e così vivo, quel mare inquieto e tranquillo, quel mare che poteva diventare tutto ciò che desiderava con un
soffio. Ma Marco non aveva lo stesso potere, non era un bruco che aveva la
facoltà di chiudersi in un bozzolo e diventare una splendida farfalla, non era un fazzoletto nel cilindro di un mago che cambiava colore ogni qualvolta veniva
estratto, non era neanche un camaleonte in grado di adattare se stesso
all’ambiente.. era solo un uomo, un minuscolo granello, era solo una creatura
generata come tante altre, a cui viene data la possibilità di scegliere tra il bene e il male.. aveva compiuto la scelta sbagliata e la vita lo stava per punire. Si
alzò in piedi titubante, fece un passo e tutto in torno a lui si placò: quel mare
non lo spaventava più, l’unica presenza che sentiva nel suo futuro era quella della morte, e sapeva che l’avrebbe colto da un momento all’altro di sorpresa,
che lui non avrebbe potuto opporre resistenza e che avrebbe ceduto. Marco
sarebbe morto. Nella sua mente però lui era un carnefice e non una vittima e non avrebbe permesso ad una mano estranea di giudicare il prosieguo dei suoi
giorni, era lui l’unica pedina di se stesso. Compì un altro passo e pensò a lei, si
sarebbero rincontrati in quelle fredde acque.. non c’era più tempo per pensare.. corse verso le onde e si lasciò cadere. Acqua fredda gli straziò i polmoni, poi
gridò come non aveva mai fatto… morì.
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Il colore delle onde di A.Musicco
Il mare. Azzurro e oro. Onde e granelli. Alta e bassa marea. Movimento perenne
e quiete. Dialettica di due mondi opposti. Il mare è perfezione.
C’era una donna che scrutava l’orizzonte. Veste lunga e l’aria triste di chi aveva
appena pronunciato un addio. Sulla costa, la solita calma piatta. L’odore di salsedine e iodio, che pervadeva
quell’ambiente, era così forte che ogni domenica mattina quella spiaggia si
popolava di gente, i bambini venivano trascinati dalle proprie mamme “perché l’aria di mare fa bene”. La frase più comune della nostra infanzia.
Ma non era domenica e l’infanzia era finita da un pezzo, così come la calma del
mare, che iniziava ad incresparsi.
La donna rivolse un ultimo sguardo alla casa bianca in cima alla collina, poi al mare e andò via.
Correva l’anno 1898 e tutti i giornali del luogo raccontavano una storia già
sentita: “Anziano ritrovato sulla spiaggia. Vivo per miracolo. Sopravvissuto alla tempesta”. La gente del paese era talmente abituata a questa situazione, che
ormai non destava più la curiosità nemmeno nelle comari, le propagandiste di
pettegolezzi, anime malevole del paese che conoscevano tutto di tutti. Prima commentavano con dichiarazioni da vere ciniche quali erano, ma ormai non si
degnavano neanche di considerare l’avvenimento nelle loro chiacchierate a
messa terminata. Quell’uomo era il signor Smith, un pescatore. Ma non è corretto definirlo così.
Lui non pescava, nessuno mai aveva visto un pesce nelle sue reti. Lui navigava
e basta. Era un marinaio per l’esattezza. E nessuno sa cosa facesse su quella
barca per tutta la giornata, perché fosse solo. Da un sacco di anni. Tutti gli abitanti più anziani conoscevano il suo passato, ma era stato così devastante e
triste che non lo raccontavano a nessuno. Nemmeno alle comari.
Forse era proprio a causa del suo passato, che veniva ritrovato così spesso sulla sabbia al mattino.
Sta di fatto che, mentre i primi giorni erano tutti preoccupati per lui, ora
neanche più il giornale gli dedicava la prima pagina. Così viveva il vecchio marinaio. Con i suoi segreti, la sua barca ed il suo mare.
Il paesino in cui viveva era Saint Paul, con appena mille abitanti, tutti
conoscenti fra di loro. Saint Paul non aveva molti luoghi di svago, era situato in riva al mare e il mare
era la sua più grande risorsa. Tutti i padri di famiglia di Saint Paul erano
pescatori. Quando il sole al mattino si svegliava fra le onde, decine di barche
lasciavano il porto e prendevano il largo. Era una zona tranquilla, un angolo di paradiso. Niente crimini, evasori o assassini. Solo il mare ogni tanto faceva i
capricci.
Il signor Smith era l’unica eccezione. La mattina si svegliava, faceva colazione, prendeva il largo e ritornava alle otto di sera. Nessuna trasgressione alla sua
regola.
La sua casa era in cima alla collina. Era una casa tutta bianca. I bambini la chiamavano “il fiocco di neve”. Era vicina al faro: il custode infatti, il signor
Alexandre, era un suo caro amico.
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Dicevano che la professione di Alexandre si addiceva alla sua personalità: tutti
quanti chiedevano consigli, e, ogni tanto, quando per occasioni particolari
veniva istituita una riunione di tutti i cittadini presso il Comune, lui presiedeva l’assemblea. Per il signore Smith, semplicemente, Alexandre faceva luce nel
buio. Alexandre sapeva.
Il mare non è altro che tempesta.
E’ tutt’altro che orizzonte infinito. E’ forza, potenza e devastazione. Fa paura. Tormenta.
Un giorno in paese arrivò una barca. Un battello a vapore, che raramente si era
fermato in quelle acque. Era un nave che trasportava un tipo di merce rara e fastidiosa: turisti. Fecero
scalo due uomini ed una donna. In paese si respirava un’aria strana, quella
che respiri quando qualcuno invade il tuo spazio senza preavviso e non è il benvenuto.
Il primo uomo si chiamava Fernand, modi altezzosi e un lungo naso aquilino.
Indossava un lungo soprabito grigio e guardava tutti gli abitanti come se fossero gli avanzi di un banchetto costoso.
La signora Michelle era la moglie di Fernand, anche lei della stessa specie del
marito. La lunghezza del suo collo era superata solo dal bavero di pelliccia che
ostentava vistosamente. Le comari già non la sopportavano. Il terzo era un giovane di circa trenta anni. Occhi verdi e capelli leggermente brizzolati. Si
chiamava George ed era un professore.
Perché questa gente era venuta a Saint Paul ? «Volevamo partire per evadere dalla solita Londra: troppo noiosa in primavera», così dissero i coniugi. «Ho
bisogno di un lavoro» rispose il professore.
Appena arrivati si sistemarono nell’unica locanda del paese, con grande disappunto della signora che voleva alloggiare in un albergo.
Il professore fu subito ben accolto dalla comunità, lieta di riuscire a fornire
un’istruzione valida ai propri figli, lo stesso non si poté dire degli altri due. Il più delle volte i due sposini si limitavano a gironzolare per il paese con aria
prepotente, ma alcuni giorni divenivano insopportabili giudicando tutto ciò che
vedevano e rimproverando i venditori per la poca merce a disposizione.
Il professor George iniziò ad insegnare nella scuola di Saint Paul. Era un insegnante eccezionale: oltre a disciplinare i suoi studenti e a trasmettere loro
la sua vasta cultura, gli faceva svolgere lezioni all’aperto, portandoli in posti
sempre nuovi, dove potevano vivere esperienze indimenticabili a contatto con la natura. Per questo, sia i genitori che i bambini apprezzavano molto il suo
metodo e i suoi modi così gentili e raffinati. I ragazzi gli chiedevano sempre di
portarli al mare. George amava il mare. Suo padre gli aveva trasmesso questa passione; da
piccolo lo portava sempre in spiaggia, lo faceva sedere su uno scoglio e,
guardando le onde che si infrangevano sulla roccia, gli raccontava tutte le storie che conosceva sulla distesa blu e gli animali che la popolavano. Morì
quando lui aveva solo otto anni, lasciandolo solo con sua madre e suo fratello,
con cui aveva vissuto fino ad allora. Poi finalmente decise di partire, lasciarsi
alle spalle tutto e ricominciare daccapo, in quel piccolo paesino dimenticato da Dio, facendo la cosa che più amava al mondo: insegnare.
Il mare non ha fine né inizio: non possiamo conoscere tutti i suoi segreti, così
come non possiamo conoscerne i limiti.
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Una mattina George portò i ragazzi sulla scogliera vicino la collina. Il compito
del giorno era di trovare tre conchiglie e un granchio, che poi avrebbero messo
nell’acquario a scuola. Ma poi tutto successe improvvisamente. Un bambino urlò. George si girò appena in tempo per vedere una sagoma bianca in acqua e
un bambino che la indicava. Senza esitazione si tuffò. Afferrò la persona in
mare e, con quanta più forza poté, la tirò fuori. Poi un’onda lo trascinò giù e
tutto divenne nero. Si risvegliò in ospedale. Non sapeva cosa fosse successo, né quanto tempo
aveva dormito. Poi i ricordi iniziarono a riaffiorare e capì cos’era successo. Non
sapeva con esattezza chi fosse la persona che aveva salvato e, mentre cercava di collegare gli indizi, un dottore entrò nella sua stanza.
«Allora come ci sentiamo oggi?», disse la figura in camice. George era confuso,
riusciva a malapena a guardarsi intorno. Notò la struttura fatiscente e pericolante in cui era internato, poi tornò con lo sguardo sul dottore. Parlarono
per mezz’ora. Il disgraziato che stava per annegare era il signor Smith, un
ottantenne mentalmente instabile, che frequentemente aveva queste pericolose abitudini. Stavolta l’aveva rischiata grossa, per cui i medici credevano fosse
stato un tentato suicidio. George se l’era cavata abbastanza bene, aveva però
un taglio profondo sulla gamba a causa di uno scoglio che aveva urtato, per cui
doveva restare in ospedale per qualche giorno. Il medico si complimentò con lui per il suo coraggio e per la sua generosità, poi uscì dalla stanza.
Nei giorni seguenti, George pensò spesso al signor Smith, e non si capacitava
su cosa potesse spingere un uomo a compiere un gesto tanto scellerato. Decise di parlargli. I medici appoggiarono il professore, ammettendo che, forse, lui
poteva riuscire a parlare con il vecchio, che non proferiva parola dal momento
in cui aveva messo piede nell’ospedale. George entrò nella sua stanza. Era tutto silenzioso. C’era solo il vecchio
marinaio nel letto, che guardava il sole tramontare sul mare dalla finestra
aperta. Appena sentì la porta aprirsi si girò e scrutò il giovane uomo con due grandi occhi blu.
Aveva un lunga barba e i capelli canuti, un’aria sciupata e uno sguardo stanco.
George parlò: «Salve sono George, piacere». Smith non rispose. «Come sta? Si
sente meglio?» ancora nessuna risposta. Dopo altri vani tentativi, perse la pazienza:«Insomma, le ho salvato la vita! Vuole almeno degnarsi di dire
grazie?!» a quel punto Smith esclamò con voce fioca:«Non doveva. Non gliel’ha
chiesto nessuno» e poi chiuse gli occhi, addormentandosi o facendo finta di dormire. Il professore uscì irritato dalla camera, e non provò più a mettersi in
contatto con lui. Dopo pochi giorni vennero dimessi entrambi e ritornarono alle
loro attività. Qualche tempo dopo George visitò il faro con i ragazzi, e conobbe il signor
Alexandre.
Terminata la visita, Alexandre colse l’occasione per ringraziare George di aver salvato il suo amico e si dispiaceva che non lo avesse potuto fare lui stesso.
Parlarono a lungo e George capì che l’uomo aveva qualche segreto, qualcosa
che aveva condiviso con Alexandre, ma con nessun altro e che, una volta
scoperto, avrebbe potuto distoglierlo dal cercare di togliersi la vita. Una volta scoperto dove il signor Smith abitava, andò a fargli visita, deciso a
capire cosa lo turbava . Era determinato a capire, spinto dalla sua etica che lo
obbligava a provare a salvare un uomo disperato.
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Nel pomeriggio risalì la collina, per raggiungere la dimora del signor Smith, e
bussò forte alla porta azzurra, che contrastava le pareti candide di quella casa.
Quando Smith aprì, non poteva credere ai suoi occhi. Quell’uomo assillante non riusciva a capire. Lo fece accomodare, esasperato.
George, d’altra parte, non aveva voglia di perdere tempo. Così iniziò, diretto: «
Perché vuoi morire? Non capisci che perdi tutto?»
Smith rispose, sorridendo sarcastico, «Hai mai perso qualcosa? Sicuramente. Tutti perdono qualcosa! Un mazzo di chiavi, un cellulare, un portafoglio.
Possiamo perdere un contratto, un lavoro, un appalto. Perdiamo possibilità:
concorsi, test d’ammissione, colloqui. Perdiamo occasioni irripetibili. Perdiamo persone. Un amico caro, un fratello, un genitore, una persona amata. O
qualcuno che non abbiamo amato mai, ma avrebbe tanto voluto che lo
facessimo. Perdiamo la testa. Perdiamo la dignità. Perdiamo la speranza. Perdiamo ciò che non vogliamo più con noi. Perdiamo ciò che non vorremmo
mai perdere. Perdiamo la vita. Io ho perso lei.. mia figlia…».
E si interruppe commosso, riprese fiato e continuò « Io e mia moglie ci siamo trasferiti appena sposati in questo paese, lei amava molto il mare..» e qui i suoi
occhi brillarono, come se lei fosse lì accanto a lui, «quando la portavo in
spiaggia e il vento le scompigliava i capelli… l’ho vista felice solo un’altra volta
in quel modo: quando è nata nostra figlia Christine. Era una bambina bellissima e intelligente. Aveva preso tutto da sua madre.» A questo punto la
commozione era tanta, che ormai nulla tratteneva più le sue lacrime, che
sgorgavano sul suo viso. «E un giorno come tanti.. arrivò un battello a vapore, come il vostro e scesero dei turisti. Ci fu una grande festa e lei.. un attimo
prima era con noi.. e poi.. sparita. L’abbiamo cercata a lungo ma niente. Nostra
figlia non è mai stata trovata. Sua madre è morta poco dopo. Si gettò dalla scogliera più alta, dritta nel mare. Non hanno mai ritrovato il corpo.» George
era sbigottito. Ogni speranza per lui di consolare il signore, o di dirgli parole di
conforto, o di aiutarlo ad andare avanti, erano svanite. Cosa si poteva dire dinnanzi a tutto quel dolore?
Dopo il loro incontro, George e il signor Smith continuarono a vedersi spesso, e
sempre in riva al mare. Parlavano delle loro emozioni, e Smith ritrovava a poco a poco la passione per la vita e la speranza. Un giorno George chiese «Perché
sei così legato a questo posto, al mare?» Smith rispose: «Perché il mare è l’unica
cosa che mi resta. Ogni giorno prendo il largo, anche durante la tempesta. Sai che faccio sulla barca? Prego. Prego il mare che mi restituisca il corpo di mia
moglie e prego Dio di farmi ritrovare mia figlia. E poi torno a casa e non
succede niente, quindi ritorno il giorno dopo ed il giorno dopo ancora. A volte credo che andrò avanti così all’infinito…».
George capì che non poteva più restare inerme. Doveva fare qualcosa per
quell’uomo, quella persona eccezionale che aveva perso tutto e non riusciva ancora a rimettere insieme i pezzi. Aveva il diritto almeno di sapere che fine
avesse fatto sua figlia. Così iniziò a cercare, a contattare persone, associazioni.
Poi a luglio, quando ormai le tempeste non erano più così frequenti, trovò una
famiglia, che aveva adottato una bambina, ormai ventenne, che era stata abbandonata in un orfanotrofio da un gruppo di zingari. La ragazza
corrispondeva alla descrizione di Christine, così George portò Smith nella città
in cui viveva, per fargliela conoscere.
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Gli spiegò tutto e il vecchio lo abbracciò con uno sguardo colmo di
riconoscenza. Poi si diresse verso la casa indicatagli dal professore.
Bussò e, dopo aver parlato con i genitori adottivi, incontrò finalmente la ragazza.
Il vecchio la guardò. «Ciao, mi chiamo Smith. Ti va se facciamo una
passeggiata?» i loro occhi si incrociarono. Erano della stessa tonalità di blu. Lo
stesso colore delle onde. E così si incamminarono, lungo la banchina del porto della città, verso
l’orizzonte, il punto in cui cielo e mare si incontrano e si scambiano il loro
primo bacio.
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Io, mio fratello e il mare di A. Pellegrino
Non cambiava mai, era sempre così, quell’enorme distesa d’acqua.
Quell’acqua così salata che, ogni volta che mi ritrovavo a sentire il suo odore, era come se piccole gocce avessero toccato i miei occhi. Il mare, che nella mia
vita non era mai stato assente. Così costante era la sua presenza che, ogni
volta che mi fermavo ad osservarlo, il vuoto era fin troppo. Il silenzio delle sue onde è tuttora frastornante e il resto non ha più rumore. Di fronte al mare le
voci diventano solo un ricordo e i ricordi tornano realtà. Sa forse troppo di me,
così tanto che sembra il mio riflesso, quando in realtà è solo uno specchio. A volte sento che solo lui può e sa ascoltarmi, ma la consapevolezza che sappia
tutto di me mi fa paura. Una paura che c’è sempre stata, anche quando ero
piccolo perché era per me troppo profondo e troppo freddo. Mi piacevano solo le
tonalità del suo colore. Di là blu, di qua azzurro e di come brillava al sole. Avevo paura addirittura ad entrarci, anche solo per riempire il mio secchiello
verde e rosso. Mi divertivo a prenderlo in giro, com’è possibile? Bhe gli correvo
contro e, arrivato alla riva, toccavo del mare solo due gocce e poi scappavo a gambe levate. Era troppo grande, troppo per un bambino di pochi anni. Capire
quale fosse la causa di questo male era impossibile, in fondo non ce n’era
motivo. Almeno credo. Diventato un po’ più grande la paura era sempre la stessa, ma prendevo il coraggio a quattro mani e con il mio giocattolo correvo
verso l’acqua. Per la prima volta avevo superato la riva, ma non rischiai più di
tanto. Portai con me il mio salvagente giallo, così, se mai mi avesse portato via, c’era lui a salvarmi. Il terrore aumentò quando guardai per la prima volta il
mare in tempesta. Pensai fin da subito che la sua rabbia fosse dovuta a me, un
bambino capriccioso e senza coraggio. E, all’improvviso, scoppiai in un pianto
fatto di terrore e lacrime amare. Di lì in poi del mare non ne volli più sapere. Passarono gli anni e l’estate preferivo trascorrerla in campagna o in montagna,
praticamente lontano dal mio incubo. Sbagliavo, lo sapevo, ma il coraggio per
ritornare in quel posto non faceva parte di me. Ero terrorizzato. Pensavo che il mare potesse scatenare un’altra tempesta se fossi tornato ed essere di fronte a
quelle chilometriche onde nere mi intimoriva. Arrivai ai miei sedici anni, quel
periodo in cui ti senti talmente adulto che credi di poter affrontare tutto senza problemi. Ma per me non era così. Mi mancava la certezza della felicità, che
avevo perso con mio fratello. Lui aveva solo tre anni eppure sembrava che
avesse trascorso con me tutta la vita. Francesco, a contrario mio, amava il mare e io non riuscivo a capire come facesse e come fosse possibile.
Lui e mio padre adoravano le interminabili nuotate al sole ed io restavo a
guardarli, distante, mentre giocavo sulla spiaggia con il mio pallone. Ricordo
che al suo secondo compleanno, per renderlo felice, gli regalai il mio salvagente. A me non serviva più, non perché avessi imparato a nuotare, bensì
perché non avrei sfiorato mai quell’acqua gelida. Usò il mio regalo il giorno
stesso del suo compleanno e aveva sul volto la felicità espressa in un sorriso. Quando mi ritrovo a pensarci rivedo i suoi occhi nei miei. Quel color ghiaccio
che avrebbero attirato chiunque. Infatti, così fu. Mio fratello fu colto nel giro di
pochi attimi da un malore che lo trascinò con violenza lontano dalla sua tranquillità. Eppure quel giorno il mare era calmo, non poteva esser colpa
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dell’acqua, ma nonostante tutto Francesco si addormentò tra le braccia di mia
madre ormai disperata.
Salutarlo definitivamente non era ciò che volevo. Così corsi verso la spiaggia, lì mi tolsi le scarpe e appoggiai i miei piedi sulla spiaggia morbida e gelata.
Arrivai a riva e rimasi per un po’ a guardare il mare. Era particolarmente
agitato, non come la prima volta. Peggio. Ma non ero terrorizzato, no. Ero
immobile e avevo lo sguardo fisso su quella meraviglia spaventosa. Ero circondato da un vento salato che però in quel momento volevo respirare.
Sentivo il peso dell’aria. Mi voltai, raccolsi da terra il salvagente e lo gettai in
mare. Era un gesto forse senza senso, ma non per me. Sì, poteva sicuramente salvare mio fratello, doveva farlo, era il suo compito, glielo avevo regalato
proprio per questo motivo. Ma non poteva. Un insulso cerchio pieno d’aria non
poteva ridare il respiro ad una persona. Non poteva, già, perché mio fratello non aveva sofferto come me per la paura dell’acqua. Il salvagente non aveva la
capacità di salvarlo. Allora corsi a riprenderlo, perché lo volevo a tutti i costi
con me. Iniziai a correre in acqua, era facile, ci riuscivo e cominciai ad andare più veloce. L’acqua e il vento lo portavano sempre più lontano. Dovevo
raggiungerlo. Per fortuna riuscivo ancora a vederlo, era giallo e luminoso. In
quel momento pensai alla consueta frase di mio padre che diceva “la luce
quando c’è il buio, è l’unico simbolo di salvezza”. Aveva ragione, come sempre. Ma subito tornai lucido. Iniziai a non sentire più la sabbia umida sotto i miei
piedi e più l’acqua raggiungeva il mio petto, più continuavo a sfiorare sempre
meno il fondo. Non ero pazzo. Volevo solo il suo salvagente per poi riportarlo a casa con me. Finii sott’acqua senza volerlo, lì era tutto diverso. Sì, lì sotto non
sentivo nulla, il vento era diventato acqua e le onde erano come se volessero
portarmi incerte da qualche parte. Aprii gli occhi e lo vidi. Era lì in superficie. Allungai il braccio e di colpo lo presi. Finalmente lo avevo raggiunto e mi avviai
verso la riva vittorioso con il suo salvagente. Ricordo che tornai a casa tutto
bagnato, ma non c’era nessuno. Ero solo. Allora decisi di aspettare mia madre in giardino. Forse mi addormentai, credo.
Avevo dormito per troppo tempo, questo è certo, e sentii mia madre che gridava
il mio nome incessantemente. Lo faceva o quando era preoccupata per me
oppure quando avevo combinato qualcosa di irrisolvibile. Ripeteva il mio nome circa una trentina di volte, come se volesse sottolineare il fatto che stesse
rivolgendosi proprio a me. Aprii gli occhi e vidi di fronte ai miei quelli di mia
madre, che erano talmente umidi che riuscivo a vedere il mio riflesso. Di quel momento ricordo ben poco, solo delle ombre nere sfocate che mi circondavano
e una stanza d’ospedale. Ero lì da tre settimane. Non mi vollero mai spiegare
cosa mi fosse successo e per me non aveva importanza saperlo. Dopo essermi miracolosamente risvegliato, uscii dall’ospedale e mi riportarono a casa. Erano
tutti così entusiasti e non riuscivo a capirne il motivo. Certo, ero vivo, ma mio
fratello era pur sempre andato via da troppo poco tempo. Lasciai stare le loro reazioni e mi dedicai ad altro per pensarci meno. Improvvisamente diventò
piacevole trascorrere i pomeriggi seduto sulla sabbia a fissare il mare. C’era
quella tranquillità che mi parlava e che io avevo bisogno di ascoltare. Il silenzio
mi travolgeva le orecchie e il mare calmo scatenava una tempesta di pensieri. Restavo fermo tra le onde e nel frattempo osservavo come l’orizzonte spegnesse
il cielo durante il tramonto. E lì, in quel momento, si interrompevano tutte le
mie emozioni.
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Ogni giorno, alla stessa ora, per la stessa durata e nello stesso posto mi
presentavo all’appuntamento. Non era un passatempo, ma una necessità.
Avevo bisogno di certezze che solo quel luogo era capace di darmi. Ero a conoscenza del mio incidente e del fatto che mi avesse portato via la maggior
parte del tempo. Un tempo che mi aveva tradito e che, con consapevolezza,
aveva voluto portarmi nel passato. Un fratello mai esistito, una paura che era
frutto di un sogno troppo grande e un incidente che della mia vita aveva fatto ciò che voleva. Sapevo che qualcosa non era come credevo e sapevo anche che
per capire cosa stesse succedendo nella mia vita dovevo rivolgermi solo a lui, il
mare. Non poteva parlarmi, questo è ovvio, ma era capace di arrivare in fondo ai miei occhi e ricostruire quella realtà che si era frantumata in un solo istante.
Quel bambino che credevo mio fratello era solo la mia immaginazione, o meglio
avevo attribuito la mia esperienza a qualcuno che non c’era mai stato. Non è pazzia, no. È passione. Ho sempre vissuto per il mare, l’ho sempre amato. Da
quando ero piccolo era il mio rifugio e non il mio incubo come credevo. Ho
sempre pensato che fosse quella parte segreta che racchiude i sogni e che te li conserva nel cuore. Il mare mi ha raccontato la mia storia e ha riunito pezzo
per pezzo ciò che ero stato e che avevo dimenticato di essere. Ciò in cui hai
sempre creduto non potrà mai mentirti o illuderti, ma farà sempre parte della
tua vita che tu lo voglia o no. Io credo che ognuno nel proprio cuore abbia il suo mare. Ognuno ha i suoi sogni per non annegare.
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Oltre i confini del mondo di R. Rasoli
Eravamo nel periodo del grande boom economico, l’invenzione delle bussole e
delle navi veloci aumentò la possibilità di raggiungere posti lontani, conoscere nuove culture e ignote popolazioni. Certo, la maggior parte dei navigatori
pensava che questi fossero i loro limiti, ma il famosissimo navigatore James
non la pensava così. James era un marinaio di origine inglese, ma vissuto fin dalla nascita a Genova, patria del commercio mercantile e così lui divenne un
abile marinaio, secondo i desideri del padre. A Genova James conobbe Luisa,
sua futura moglie, con la quale ebbe un solo figlio, Drake. È lui il protagonista di questa storia, il celebre capitano della importante flotta mercantile “
Smeraldo”, oramai conosciuto come capitan Drake. Aveva dodici anni quando
ebbe la notizia della scomparsa di suo padre, partito per un viaggio ai confini
del mondo con lo scopo di oltrepassare le colonne d’Ercole e scoprire cosa si celasse in quei posti a quel tempo sconosciuti... da allora Drake ebbe un solo
pensiero in testa, lo stesso del padre, partire all’avventura, oltre i confini del
mondo!
Sorge l’alba sulla splendida città di Genova, la luce del sole riflessa sulle onde
del mare colpisce i palazzi e sveglia i cittadini che attendevano da tempo l’arrivo di questo giorno. Alle sei Drake era già in piedi, pronto per
intraprendere il viaggio che sicuramente gli avrebbe cambiato la vita, provava
già nostalgia per ciò che avrebbe lasciato nella sua città dove era cresciuto, sapeva che la sorte toccata al padre poteva aggredirlo, ma era sicuro di ciò che
stava facendo... Ad aspettarlo nel giardino c’era il suo migliore amico Federico,
nonché il vice capitano della flotta, era più spaventato del solito, nell’ultimo
anno aveva passato giorni su giorni a studiare documenti che potevano servire per il viaggio e non aveva trovato nulla di buono o tranquillizzante, perché
nessuno era tornato vivo. Arrivati al porto, Drake si ritrovò davanti
un’immensa folla che lo incitava e in quel momento si rese conto che non avrebbe lasciato alle spalle solo tutti i suoi amici, ma una parte di se
stesso..Erano in ventitré sulla nave Smeraldo, ventitré persone che volevano
cambiare la storia. Era passata già una settimana dalla partenza e Drake e i suoi amici navigatori
avevano appena lasciato la cittadina di S’Algar, dove avevano approfittato della
sosta per fare rifornimento di cibo e per riposarsi dal lungo viaggio. Il mare era calmo e non sembrava ci fossero pericoli per il tratto che la nave doveva
percorrere, la “Smeraldo” aveva retto benissimo il tragitto, pur avendo oltre
sette anni addosso non aveva mai dato problemi a Drake, che ormai la
considerava parte insostituibile della sua flotta, era lunga quasi sessanta metri e alta dieci e all’interno, oltre alla cabine dei membri dell’equipaggio,
presentava una sala con un grosso pianoforte, dove Drake di tanto in tanto si
intratteneva durante i lunghi viaggi a suonare le sue melodie preferite. Le giornate passarono molto velocemente tra le risa dell’equipaggio e il suono delle
onde che sbattevano sulla nave e quasi si era dimenticato il motivo per il quale
erano in viaggio. Drake si trovava nella sua stanza, la stanza del capitano, dove era seduto su un’enorme poltrona mentre studiava attentamente le nuove rotte
da prendere per arrivare a destinazione, mancava poco alle Colonne d’Ercole e
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pensò che fosse arrivato il momento giusto, con uno scatto balzò in piedi
facendo cadere la bussola dal tavolo e corse verso l’uscita, ad attenderlo fuori
c’era Federico con un cannocchiale in mano che osservava attentamente l’orizzonte. Spaventato dal rumore provocato da Drake, Federico si girò in fretta
e guardò il capitano negli occhi, dopo un lungo silenzio grido ad alta voce”
TERRA!”, ebbene sì, a qualche chilometro di distanza Federico aveva avvistato
le famose e maledette colonne, la fine del mondo. Drake allora radunò tutti i membri vicino a sé e cominciò a parlare: “Amici, fratelli di viaggio, penso sia il
momento opportuno per parlarvi di ciò che potrebbe accaderci da qui a qualche
giorno..come ben sapete quello è il luogo maledetto dove mio padre perse la vita quindici anni or sono ed io non intendo ripetere la storia!”. Allora l’equipaggio
cominciò a incitarlo e lui proseguì: “Io, capitano Drake, non ho intenzione di
andare a morire! Quello stupido stretto sarà anche la fine del mondo, ma per noi... sarà l’inizio della nostra avventura!” E tacque.
Da un certo punto il mare cominciò ad agitarsi e le onde diventarono più alte,
poteva sembrare normale visto lo stretto passaggio che volevano oltrepassare, invece non era così e Drake lo sapeva bene, aveva come la sensazione che suo
padre aveva visto le
stesse cose che in quel momento lui stava guardando, davanti a sè un’enorme
scritta su un grosso faraglione alto quasi venti metri diceva “Non plus ultra”. Alla vista di quella scritta il silenzio e la paura s’impadronirono della nave dove
più nessuno fiatava, “ Avanti tutta!” gridò Federico e prendendo velocità si
allontanarono dallo stretto delle Colonne d’Ercole... L’orizzonte non si distingueva più, tutto bianco, le nuvole si potevano toccare e
la nebbia che avvolgeva la nave stava terrorizzando tutti. C’era un brutto
presentimento nelle menti dei marinai partiti con Drake, quest’ultimo osservò la bussola e i suoi occhi diventarono ghiaccio, l’ago era impazzito, continuava a
girare ad un’altissima velocità senza fermarsi. Drake diede un colpo alla
bussola, che si fermò e non si mosse più, non aveva mai visto una cosa del genere durante i suoi viaggi e soprattutto non aveva mai avuto così tanta paura
di morire come quella volta. Non si riusciva a vedere a distanza di due metri
per via della fitta nebbia che ricopriva la nave, eppure poco prima c’era un sole
che spaccava le pietre, ad un tratto si riuscì a distinguere una luce in lontananza avvicinarsi, un verde smeraldo che sembrava provenire dalle
profondità del mare, tutti si affacciarono per osservare cosa fosse. Non ebbe
nemmeno il tempo di dare l’ordine di abbandonare la nave, che essa fu inghiottita nell’oceano da un tornado uscito dal bel mezzo del mare, come se
fossero caduti in una trappola creata apposta per loro, un qualcosa al limite
del pensabile. Dopo di che il silenzio. Drake si risvegliò con i vestiti tutti bagnati e con una ferita alla gamba che non
gli permise di alzarsi, cercava di ricordare ma nulla, non ricordava niente, né
cosa era successo né come era arrivato su quella che poteva sembrare un' isola deserta a prima vista. Si trascinò fino ad un albero e staccò un pezzo di
corteccia, utilizzandolo come bastone per rialzarsi, in seguito usò le foglie di un
albero per fermare il sangue dalla gamba e si sentì subito meglio, ora doveva
ricordare dove erano i suoi compagni, ma nella sua mente, solo un puntino verde che diventava sempre più grande, dopo più nulla, il vuoto totale.
Poi i ricordi gli ritornarono in mente tutti insieme e perse le forze cadendo per
terra, aveva perso la sua ciurma, i suoi amici, la sua nave, tutto. Un vortice aveva risucchiato la sua nave e lui era riuscito a salvarsi per miracolo, scoppiò
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in lacrime e cominciò a camminare. L’isola era enorme e lui aveva bisogno di
cibo, quindi si addentrò versò l’interno noncurante dei pericoli, ormai aveva
perso tutto, pensava tra sé e sé. Dopo un’oretta di camminata sentì dei rumori e corse verso la fonte, sotto un enorme albero c’erano sette persone vestiti di
stracci e riconobbe anche Federico legato con una corda a testa in giù, la voglia
di sbucare fuori e liberarlo era infinita, ma la ragione lo costrinse a rimanere
nascosto e aspettare le loro mosse cercando di capire chi fossero quegli individui. Non riuscì a trattenersi, la paura di perdere il suo migliore amico lo
costrinse ad agire, prese un grosso bastone da terra e si scagliò verso gli
indigeni con una violenza mai vista da Federico, che rimase impressionato soprattutto dagli occhi di Drake, che emanavano rabbia. Fu catturato anche
lui.
Drake appeso a testa in giù ad un albero pensava alla sua famiglia, a sua moglie e a suo padre, che non vedeva da quindici anni, ormai gli era rimasto
solo il suo ricordo, pensava che la sua fine fosse vicina. Quando a un certo
punto, osservando uno degli indigeni, quello più vecchio, notò una spilla vecchissima che luccicava di un colore rosso acceso, con la scritta “LUISA” e
“JAMES”, allora, quando il vecchio notò di essere osservato, afferrò per la gola
il povero James e gli alzò i capelli dalla fronte, facendo notare a tutti la cicatrice
che lui si era fatto da bambino quando, giocando con suo padre sulla spiaggia, cadde su una conchiglia. Uno dei pochi ricordi di suo padre.
Il vecchio allora lo guardò negli occhi e cominciò a piangere.
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Ossessione di S. Soldani
Tutto ebbe inizio nel Luglio del 2006; Marco si trovava nella Repubblica delle
Maldive con i suoi genitori: Antonio de Sanctis, un uomo di corporatura normale, sulla quarantina, alto poco più di un metro e ottanta, e Laura Rossi,
donna dai lunghi capelli dorati, alta quasi quanto suo marito, che conosceva
meglio l’inglese che l’italiano. La famiglia si trovava in quel paradiso terrestre per sfruttare le ferie del padre di Marco, un famoso uomo d’affari, il cui nome
era noto a molti non solo a Modena, la città in cui risiedevano, ma in tutta
Italia. Quella vacanza da sogno era inoltre in concomitanza con il compleanno di Marco, e la causa di quel viaggio non era proprio casuale, anzi, i genitori del
giovane avevano organizzato a sua insaputa una festa incredibile, e trattandosi
di una famiglia molto facoltosa, molti degli amici di Marco avevano ricevuto un
invito con allegato un biglietto di andata e ritorno per le Maldive. Tutto sarebbe stato perfetto, se solo il ragazzo non avesse avuto una terribile paura del mare,
nata a causa di un incidente accaduto parecchi anni prima, nel quale, a causa
dell’attacco di uno squalo, la sua adorata nonna perse tragicamente la vita in California. La mattina del suo compleanno il giovane si svegliò di buon ora, e il
suo primo pensiero fu quello di guardare il mare dalla sua camera dell’albergo.
Alloggiava in una suite dalle dimensioni bibliche, dotata di ogni comfort, dal frigo bar capiente quanto quello di casa sua, alla grandissima Jacuzzi, grazie
alla quale era possibile scaricare tutta la tensione accumulata durante il
giorno. Prese dunque tra le mani il suo cellulare e trovò un messaggio che gli era stato mandato da Marika, la sua ragazza, che conteneva la frase “Auguri
tesoro, ci vediamo presto’’, ma non rispose subito, preferendo inviarle in
seguito una e-mail da uno dei computer che l’albergo metteva a disposizione
degli ospiti. Decise quindi di farsi un bel bagno tiepido; aprì l’acqua ed entrò nella Jacuzzi, e passò circa mezz’ora pensando cosa avrebbe fatto quel giorno.
Poco dopo si recò nella sala da pranzo per fare colazione. Bevve un caffè in men
che non si dica, afferrò un cornetto e lasciò la stanza. Prese l’ascensore e salì al quinto piano, dove si trovava la suite matrimoniale dei suoi genitori; voleva
vedere i loro volti per estorcergli la verità su quanto essi avevano organizzato
nei giorni precedenti. Gli sembrava infatti strano che, durante le vacanze, i suoi genitori fossero continuamente al telefono con dei “colleghi’’ per discutere
alcune questioni di “lavoro’’; aveva infatti capito che c’era qualcosa sotto, e
moriva dalla voglia di capire cosa stesse succedendo e quali sorprese i suoi avessero in serbo per lui. Giunto dinnanzi alla porta si fermò e pensò per
qualche secondo cosa avrebbe dovuto dire, e, una volta decisosi, bussò con
vigore sulla porta di pregiatissimo ebano africano che lo separava,
apparentemente, dai suoi genitori. Restò in attesa per alcuni secondi e dopo di che bussò una seconda volta. Nessuno rispose, così prese nuovamente
l’ascensore e scese al piano terra; lì domandò con un inglese italianizzato
all’omone di colore della reception se sapeva dove fossero i suoi genitori, e il signore si voltò per qualche istante; cercò in vari cassetti e tirò fuori una lettera
che avrebbe consegnato al ragazzo se non avesse lasciato la sua camera
mezz’ora prima. Marco aprì la lettera e tirò fuori una scheda, simile ad una carta di credito e chiese all’uomo al bancone cosa fosse. Esso rispose
dicendogli di raggiungere la spiaggia di proprietà dell’hotel. Quando il ragazzo
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si sarebbe trovato dinnanzi ad un muro di cemento alto più di tre metri,
avrebbe dovuto cercare la porta più grande delle altre e avrebbe dovuto aprirla
con la suddetta scheda. E così fece Marco, che, giunto dinnanzi alla porta, inserì la scheda nella fessura. La porta si aprì e il giovane entrò, e come già
sapeva, avendo ammirato la spiaggia dalla sua stanza, si trovò dinnanzi ad un
paesaggio mozzafiato; c’erano cinque pontili lunghi due dozzine di metri
ciascuno ed ognuno di essi era collegato ad alcune piattaforme sulle quali si trovavano diverse strutture dalle dimensioni imponenti. Ognuna di queste
strutture era poi collegata alle altre mediante un altro pontile, lungo quasi
mezzo chilometro. Ogni pontile aveva poi un palo alto diversi metri, sul quale c’era una insegna luminosa con una lettera ben precisa. Marco lesse le lettere
da sinistra verso destra e notò con stupore che le cinque lettere sulle insegne
erano quelle del suo nome. Mosse qualche passo in avanti e notò con stupore che in ognuno di quegli edifici c’erano tutte le persone che conosceva, dal suo
migliore amico al portinaio di casa sua, ed erano tutte lì solo per lui. Era il
festeggiato del party di compleanno migliore che ci fosse mai stato sulla terra, dalla notte dei tempi a quel giorno. Dopo che fu visto da alcuni degli invitati, i
suoi genitori uscirono dal secondo edificio partendo da sinistra, si spostarono
sul pontile centrale e lo invitarono ad andargli incontro; ma fu qui che nacque
un problema. Marco superò la prima metà del pontile, ma ad un certo punto notò che la larghezza del pontile si era ridotta notevolmente dall’inizio fino a
consentire meno di un metro di larghezza per i movimenti. Da quel momento il
giovane non se la sentiva affatto di continuare a camminare sul pontile per giungere all’altra estremità, avendo il terrore di cadere nell’acqua e di essere
divorato da uno squalo, nonostante sapesse che le morti che ogni anno
vengono causate dagli squali fossero pochissime. Sin dal giorno dell’incidente di sua nonna, le uniche acque in cui aveva mai fatto un bagno erano quelle
delle piscine, e solo l’idea di avvicinarsi a quell’acqua di colore blu cobalto gli
provocava una sensazione indescrivibile, un misto di angoscia e ribrezzo. Notò poco dopo qualcuno che cercava di farsi spazio tra gli altri invitati e riconobbe
subito la sua voce: era Marika. Vedendo la sua ragazza, Marco ritrovò subito la
serenità smarrita poco prima. Giunta davanti al pontile la ragazza si mise a
correre in direzione di Marco, ma superati i primi dieci metri del pontile la giovane inciampò infilando il tacco della sua scarpa destra in una delle sottili
fessure che separavano i blocchi che costituivano il percorso, e cadde in acqua.
Iniziò subito ad urlare spaventata, gridando di non saper nuotare. A quel punto il cuore di Marco iniziò a battere all’impazzata, non sapeva più nemmeno cosa
pensare vedendo la sua amata dimenarsi in quel modo. Fu così che il ricordo
dell’incidente di sua nonna causò una scintilla nella sua testa: non voleva perdere anche Marika ad opera di uno squalo, e senza pensarci ancora si tuffò
in acqua e afferrò la ragazza mettendole un braccio attorno al bacino. Riuscì a
nuotare fino a riva portando con sé la giovane, e fortunatamente quel piccolo inconveniente ritardò solo di un’ ora i festeggiamenti.
Al termine della festa Marco salutò tutti gli invitati che sarebbero partiti la sera
stessa, e chiese ai suoi genitori di tornare in Italia nei giorni seguenti,
anticipando la partenza di due settimane, ed essi acconsentirono senza fargli troppe domande. L’ora della partenza era fissata per le ore dodici del giorno 23
Luglio. Il giorno del rientro a Modena il ragazzo prese però una decisione: si
infilò il costume da bagno e prese una delle bici dell’albergo per raggiungere il mare. Dopo pochi minuti arrivò ad una spiaggia piena di persone. Lasciò la bici
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sul ciglio della strada e si incamminò lentamente verso l’acqua. Guardò il mare
per diversi secondi, cercando di individuare la pinna di un eventuale squalo,
ma riusciva a vedere solo diverse centinaia di persone; fu così che capì che la sua paura era infondata, e si lanciò verso l’acqua.
Da quel giorno non ebbe più paura del mare come prima, e ogni volta che si
tuffava ripeteva a se stesso la frase: “Con tutte le persone che ci sono in acqua
proprio io dovrei essere attaccato da uno squalo?” e la sua unica preoccupazione fu quella di nuotare ogni volta vicino a Marika, per proteggerla
per sempre.
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Una lacrima nel mare di F. Squatriti
Silenzio, solo silenzio in quel pomeriggio lungo la spiaggia; il mare, ancora non
molto calmo, sembrava ribellarsi, con le sue onde spettacolari, forse per la solitudine o forse per richiamare il mondo a lasciare da parte il”dovere’’ e a
immergersi in quello scenario stupendo.
In quella spiaggia, ancora deserta, un pescatore stava preparando la propria rete per la pesca notturna e intanto un bambino, felice per la fine della scuola,
coglieva la più bella conchiglia sulla battigia e l’accostava al suo orecchio. E ora
ascolta, ascolta da quella nicchia diventata una tromba di grammofono, ascolta marce trionfanti, ascolta il mare sorridere, ascolta il pescatore cantare, ascolta
l’estate, ascolta la felicità. Ora via i pensieri dalla testa, il mare ci chiama, e
questo John l’aveva capito…
Anche per John era arrivato il momento più bello per ogni studente: la fine della scuola, momento di relax, di giochi senza fine, di bagni interminabili, ma
soprattutto di tranquillità generale e lui, almeno per quell’anno, voleva viverla
in maniera diversa, magari lontano dallo smog della città e dalle solite persone. Già durante la fredda stagione invernale John, preso da mille problemi,
decideva spesso di fermarsi sulla spiaggia a riflettere e ad abbandonare, magari
tra le onde di quel mare ancora agitato, tutte le problematiche e agitazioni e a pensare che quel piccolo golfo, con l’arrivo dell’estate, sarebbe diventato
l’habitat di tantissime persone tormentate dal caldo infernale.
<<E come faremo ancora a confidarci in tutta tranquillità” chiedeva al mare John, <<sarai troppo impegnato per me, e chi mai mi ascolterà?>>; sembrava
turbato John per quell’arrivederci che, in fin dei conti, sarebbe solo durato tre
mesi o poco più, ma lui questo non poteva accettarlo, significava perdersi come
un avventuriero senza mappa e bussola e per lui la “mappa e bussola” non erano altro che quella vasta distesa di acqua salata. Ma ormai l’estate era
arrivata e John sapeva che un modo per sentire ancora la brezza marina,
chiudendo gli occhi e non avendo nessuno a fianco, c’era ed era soltanto da ricercare forse in qualche nuova realtà.
Erano ormai passati dieci giorni dalla fine della scuola e John non poteva più
sopportare quei monotoni bagni mattutini che lo portavano soltanto a stancarsi e a non vivere bene l’intera estate; e così, un giorno, decise di svegliarsi all’alba
per cercare di cogliere sotto un altro aspetto la bellezza marina.
Giunto sulla spiaggia, incominciò ad emozionarsi e a ricordare quel mare invernale in burrasca, che lo consolava nei momenti di stanchezza, ma in quel
momento non era solo, subito infatti scorse un altro ragazzino steso sulla
sabbia, quasi dormiente, nascosto dietro l’ampia scogliera.
<<Qualcuno a quest’ora? Sulla spiaggia? Magari sarà un nostalgico proprio come me, sono curioso di vedere…>>. E così John, senza timore, decise di
avvicinarsi a quel ragazzo che, spaventato e un po’ zoppicante, decise subito di
andar via senza dire alcuna parola. John rimase sorpreso da questa scena; cosa ci faceva un ragazzo a quell’ora
sulla spiaggia, e poi, così spaventato? C’era qualcosa che non tornava e John,
da buon curioso, decise di tornare anche i giorni successivi, finché un giorno riuscì a fermare il ragazzino e a chiedergli il perché di tutto questo.
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<<Non voglio farti del male, dimmi solo chi sei, potremmo condividere questa
passione!>> disse John quasi felice di aver conosciuto un nuovo amico, <<Sono
stanco, per favore, andare a casa!>> disse il ragazzino quasi in lacrime per la paura, ma John aveva capito sin da subito che qualcosa in lui non andava;
quello scomposto zoppichio, problemi nella espressione e i suoi continui tic
avevano fatto credere a John che la questione era da prendere con le pinze,
senza giustificare tutto con una di quelle strane patologie, che solo i dottori riescono a pronunciare.
Passò quasi l’intero mese di Giugno e John cercò sempre più di capire la
situazione di quel ragazzino, ma non voleva essere né dottore né accompagnatore, semplicemente un amico di “mare”; così, lungo quel periodo,
John venne a conoscenza di altri numerosi fatti: quel ragazzino si chiamava
Marco, aveva venti anni e quell’aspetto da bambino era dato da una patologia definita “deficit dell’ormone della crescita”, che l’aveva portato a non crescere
più dall’età di dieci anni e inoltre aveva altrettante patologie a livello celebrale,
che lo portavano ad avere seri problemi psichici. Ormai John era ossessionato dalla storia di Marco e pensava <<Devo ritenermi
fortunato, anzi doppiamente fortunato perché il mare mi ha fatto una grande
sorpresa!>> e aveva ragione, quella storia aveva emozionato, ma anche aperto il
cuore di John che, ormai, per tutta l’estate, non pensava ad altro se non al far un po’ più felice, giorno dopo giorno, Marco.
Dopo aver legato quella stretta, ma anche difficile amicizia, l’estate ormai
volgeva al termine e John si sentiva felice; non aveva passato la solita estate soltanto ad oziare, ma aveva conosciuto una nuova realtà, che aveva anche
ingigantito il suo bagaglio culturale. Ma intanto il tempo passava, inesorabile;
le stagioni sembravano volare e passati due anni John dovette vivere un triste addio: Marco doveva trasferirsi, con i suoi genitori, presso Pisa per curare
un’altra grave patologia che gli era stata diagnosticata. A John, anche se ormai
cresciuto e maturo per certi avvenimenti, non interessava quale malattia fosse e farsi mille perché; c’era soltanto tristezza per un “arrivederci”, che forse
poteva trasformarsi in un addio.
John decise di seguire anno per anno, seppur da lontano, tramite i genitori di
Marco, quegli anni travagliati e tristi che erano arrivati al termine, portati via dalle onde del mare.
E ora John e lì, al Santa Chiara di Pisa, sono passati venti anni dalle vicende di
Marco, ma lui è sempre onorato di raccontare la sua e la loro storia, soprattutto se davanti alla equipe dei più importanti medici italiani nella città
che ha visto Marco per l’ultima volta. John è diventato il presidente
dell’associazione”MareTerapia’’ di Cagliari, un’ associazione volta a studiare e sperimentare tutti gli effetti terapeutici derivanti dal contatto con il mare su
persone colpite da gravi malattie psicologiche. <<Grazie mare, grazie Marco>>
pensò nella sua mente John; e ora bisognava ritornare a Cagliari, riabbracciare la famiglia, e andare lì, sulla spiaggia, a salutare il mare, magari facendoci
cadere una lacrima, per l’emozione…
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Il dono del mare di M. Ventura
Quel giorno d’inizio estate l’inquietudine lo tormentava particolarmente… che
strano, la bella stagione dovrebbe riconciliarci col mondo… Ma Edo dal mondo aveva deciso da tempo di estraniarsi. Da quando, un anno
prima, il mare gli aveva strappato impetuosamente suo figlio per sempre. Suo
figlio amava il mare e, da vero isolano, era appassionato di pesca che gli piaceva praticare spingendosi al largo con ogni tempo. Quella volta il vento e la
forza del mare aumentarono così rapidamente, che non ci fu né tempo né modo
di rientrare. E il mare lo aveva preso con sè, restituendolo solo il giorno seguente ai suoi cari.
Edo camminava senza una meta per le viuzze di Lampedusa, anzi vagava
semplicemente.
Si accorse di essere su una spiaggia, quando il passo era diventato pesante per le scarpe inzuppate d’acqua. I suoi passi, inconsapevoli (o forse no), lo avevano
portato proprio lì, davanti al’ suo’ mare, nella speranza di potervi annegare con
forza i pensieri. Ma il mare ha una potenza taumaturgica enorme e infatti nella mente di Edo
riaffiorarono i ricordi delle lunghe giornate trascorse con suo figlio in quell’isola
meravigliosa che sul mare, col mare, nel mare, dorme, vive e si risveglia ogni giorno.
Ed ecco che, per la prima volta, dopo tanto tempo, una sensazione nuova lo
assalì imperiosa. Si sentì pervaso da una strana serenità che non era rassegnazione, anzi, era
vigorosa, forte, propulsiva e nella mente, come un lampo, gli si profilò una
necessità: partire.
Sì, questa gli sembrava la cosa giusta da fare in quel momento: un viaggio. Partire per mare, abbracciare un’avventura che gli svelasse nuovi orizzonti.
Edo possedeva una barca a vela, che da un anno giaceva inutilizzata, perché
da allora lui stesso aveva smesso di vivere. Così, in preda ad una forza irrefrenabile, raggiunse il molo dove era ancorata.
La intravide in lontananza e il cuore prese a battergli all’impazzata mentre ne
distingueva sempre più nettamente i contorni. Eccola…sarebbe stato faticoso renderla nuovamente agibile dopo tanto
abbandono, ma Edo aveva sempre più chiaro in mente che doveva ripartire da
lì, dal mare con il quale voleva confrontarsi, del quale voleva sentire l’odore, la fatica, ma anche la forza e l’immensità avvolgente. Voleva sentirsene parte. Nei
giorni seguenti, sempre più convinto della sua decisione, Edo si occupò della
barca e, con l’aiuto dei marinai, la rimise in sesto. Non sapeva dove sarebbe
andato né per quanto tempo. Intanto fece un bel po’ di scorte che caricò in cambusa.
Non poteva certo immaginare (e d’altra parte, la vita è talmente imprevedibile!)
quanto poco quel viaggio sarebbe durato e soprattutto che intraprenderlo gli avrebbe cambiato l’esistenza, ridandole un senso che sembrava perduto.
Da casa prese appena l’indispensabile e fu in dubbio per Argo: no, era troppo
vecchio e malandato il suo cane per seguirlo: meglio affidarlo a qualcuno. Dunque partì, puntando verso il largo. Davanti a lui solo mare…ma per poco.
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C’era stato un naufragio il giorno precedente. Una delle tante’ carrette del
mare’ , che uomini senza scrupoli caricano di’ merce umana’, da scaricare da
qualche parte dopo aver approfittato del loro misero compenso. Gente disperata che a Lampedusa (estremo lembo del nostro territorio che un braccio di mare
largo appena un centinaio di chilometri separa dall’Africa), arriva a frotte e
trova una prima, seppur difficile, accoglienza.
Edo durante la navigazione intravide in lontananza una zattera alla deriva. Dapprima gli sembrò abbandonata, poi distinse un lento movimento di braccia,
quasi un battito d’ali. Intuì che c’era qualcosa o qualcuno. La raggiunse e si
accorse che erano persone o quello che restava di esse. Sì, persone, aggrappate con la sola forza della disperazione a quell’esile filo, che ancora flebilmente le
legava alla vita. Una vita-non vita. Stravolti senza più l’energia di chiedere
aiuto. Edo si adoperò con ogni mezzo per aiutarli. Erano in tre, ma non era certo che fossero tutti vivi: qualcuno non si muoveva affatto. Uno dei tre, un
ragazzotto bruno e dagli occhi gonfi e rossi per il sale e per il sole, gli urlò
qualcosa che Edo non riuscì a capire, ma il giovane continuava ad urlare e ad agitarsi. Edo si accostò alla zattera e con fatica riuscì a farlo salire sulla barca.
Sulla zattera non c’era più alcun movimento. Nel frattempo sopraggiunsero gli
uomini della capitaneria di porto che Edo, via radio, aveva allertato subito dopo
l’avvistamento. Gli uomini si occuparono della zattera e dei corpi ormai inerti che vi giacevano. Al ragazzo furono prestati i primi soccorsi: un po’ d’acqua che
a stento riusciva a ingoiare, una coperta che ostinatamente si strappava di
dosso. Continuava a dimenarsi, in preda ad un’agitazione convulsa, mentre pronunciava parole incomprensibili: nessuno dei presenti conosceva infatti la
sua lingua. Ma il linguaggio del corpo era chiaro: continuava a indicare la
zattera e ci vollero braccia ferme e forti per evitare che si rituffasse in mare per raggiungerla. E lo sguardo…lo sguardo era implorante, disperato, penetrante.
Quando ebbe esaurito quel residuo di energie che lo avevano animato fino a
quel momento, perse i sensi tra le braccia di Edo. Edo lo guardava e cercava di intuire: avrà avuto sedici anni, forse diciassette. In breve la barca, già direttasi
verso il porto, vi approdò. Una sirena, un’ambulanza, gesti professionali, veloci:
bisognava rianimarlo. E infatti il giovane presto di rianimò. Doveva avere una
tempra forte, pensò Edo mentre gli teneva stretta una mano e gli tamponava ripetutamente la fronte madida di un sudore denso e gelido. Giunsero
all’ospedale che era ormai sera. Le prime cure e poi un posto in corsia per la
notte per un ragazzo, strappato per caso alla morte e che ancora non aveva un nome. Edo doveva lasciare l’ospedale. Si avvicinò al giovane e tese un braccio
verso di lui in segno di saluto. Il ragazzo con rapidità gli afferrò una mano e
l’attirò verso di sé. Quando lo ebbe abbastanza vicino, lo strinse con forza per lunghi minuti, mentre lacrime silenziose rigavano il suo viso.
Quella notte Edo, per quanto ne avesse bisogno, non chiuse occhio. Nella sua
testa un vortice di pensieri e poi non riusciva a cancellare neanche per un attimo l’immagine di quel ragazzo che, stretto a lui, sembrava chiedergli di non
lasciarlo. Chi era, da dove veniva e soprattutto cosa cercava? L’indomani un
interprete ne raccolse il racconto e fu in grado di riferire notizie di Elvin. Era
questo il nome del giovane tunisino, al quale Edo aveva salvato la vita. Sì, forse non era stato un caso che lui, proprio quel giorno, avesse deciso di
andare per mare a placare il proprio dolore. E il mare gliene aveva fatto
incontrare un altro di dolore, questa volta non suo, ma di Elvin, un ragazzo che
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aveva assistito impotente alla fine di suo padre e di suo fratello con i quali
aveva deciso di cercare altrove, in una terra sconosciuta, una vita possibile.
Elvin e Edo, due persone estranee l’una all’altra che il mare aveva deciso di fare incontrare per ricomporre le loro esistenze così fortemente provate. Due
persone a cui il mare aveva voluto mostrare che la vita è questa, non siamo noi
a controllarla… a decidere con i nostri progetti a lungo termine.
Edo si occupò di Elvin con ogni mezzo possibile, soprattutto assicurandogli affetto e presenza. Il mare, il grande mare, si era portato via suo figlio, ma con
grande generosità gliene aveva fatto incontrare un altro. Il mare glielo aveva
donato.
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Un segreto in fondo al mare di P. Zecchillo
Il mare aveva sempre affascinato Marco sin da piccolo. Suo nonno lo portava
sempre con sé quando andava a pescare e lui rimaneva lì, sugli scogli, ad aspettare che qualche pesce abboccasse all’amo della canna da pesca. Gli
piaceva sentire il rumore delle onde che sbattevano contro gli scogli e spesso
qualche goccia gli bagnava il viso e i capelli. Era cresciuto con questo amore e con il desiderio di scoprire qualcosa in più di questo mondo misterioso. Ogni
volta, mentre tornavano a casa, il nonno gli raccontava una leggenda. In
particolare, una di queste lo aveva incuriosito. Si diceva che in un posto non molto lontano da lì ci fosse un isolotto quasi inesplorato, che anticamente era
un nascondiglio dei pirati, che lì custodivano i tesori trafugati dalle navi.
Con il passare degli anni, Marco non dimenticò mai ciò che il nonno gli aveva
raccontato ma, al contrario, la sua curiosità era diventata sempre più forte. Un giorno decise che questa sua curiosità andava soddisfatta e perciò con la sua
barchetta e con una mappa, che aveva trovato rovistando tra le cose del nonno,
si avventurò verso quel luogo. La calma del mare lo accompagnò per gran parte della navigazione, ma, con il calare della sera, le correnti cominciarono a
cambiare rendendo il viaggio sempre più faticoso. Marco non temeva il mare,
ma con il passare del tempo le difficoltà diventavano sempre più difficili da sopportare. Ma la sua voglia di scoprire era così forte che nulla lo avrebbe
fermato. Dopo giorni in mezzo al mare, con la sua mappa sempre in mano,
all’orizzonte intravide la terra ferma: forse era proprio l’isolotto di cui il nonno gli aveva tanto parlato!! Il cuore gli batteva forte per l’emozione.. La meta era
vicina! Ancora un po’ e ce l’avrebbe fatta! Descrivere la gioia che Marco provò
quando riuscì a mettere piede su quell’isolotto è impossibile. Ma la cosa
importante ora era cercare il tesoro. Si avventurò in mezzo alla vegetazione così alta che gli impediva di vedere la luce del sole, ma lui non si perse d’animo.
Come poteva trovare ciò che cercava in quel posto così impervio? Camminò così
tanto che gli si gonfiarono i piedi. Ad un tratto pensò di aver perso l’equilibrio, era invece finito in una buca coperta con del fogliame secco. La risalita era resa
difficile dalle pareti umide della buca…in che guaio si era cacciato! Cercò in
tutti i modi di arrampicarsi e, per darsi coraggio, guardava in alto per scorgere la luce e quindi la salvezza. Ormai era sfinito e rassegnato a rimanere lì,
quando ad un tratto abbassò lo sguardo e vide qualcosa luccicare. Scivolò
ancora un po’ e si rese conto che era un forziere. Il tesoro era proprio lì! Ma la sua avventura non era ancora finita. Doveva portare su quel forziere ma
l’impresa era ardua. Tentò in tutti i modi, ma si rese conto che avrebbe messo
a rischio la sua stessa vita. Mise in gioco tutte le sue forze e con tanta fatica
riuscì a risalire, ma senza il suo tesoro. Tornò sulla sua barchetta e riprese il viaggio di ritorno. La calma del mare rese il viaggio abbastanza tranquillo.
Tornò a casa stanchissimo, contento di aver trovato quel tesoro di cui il nonno
gli aveva tanto parlato, anche se non era riuscito a portarlo con sé.