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MONUMENTA MISSIONALIA Y ASUO F URUYA, ED. storia della teologia giapponese Traduzione di Tiziano Tosolini Xaverian Missionaries – Japan A s i a n S t u d y C e n t r e

storia della teologia giapponese · (Opere complete di Ken Ishihara, vol. 10, pp. 211–218). Riassumendo, Ishiara afferma che in Giappone non esiste ancora un’idea chiara di Chiesa

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yasuo furuya, ed.

storia della teologia giapponese

Traduzione di Tiziano Tosolini

Xaverian Missionaries – Japan

Asia

n Study Centre

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storia della teologia giapponese

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Monumenta Missionalia

sergio targa ed., Satkhira. The Diaries of the Jesuit Fathers (1918–1947). 2013.

tiziano tosolini. Dizionario di Shintoismo. 2014.

tonino caissutti. La cultura mentawaiana. 2015.

tiziano tosolini, ed. Storie di conversione. 2016.

umberto bresciani, Dizionario di Confucianesimo. 2018.

rocco viviano, ed., Christian Witness in a Multi-Religious World. 2018.

yasuo furuya, ed. Storia della Teologia Giapponese. 2019.

Published byAsian Study CentreIchiba Higashi 1–103–1598–0005 Izumisano (Osaka), Japan

Private edition, 2019

Printed in Taipei (Taiwan roc)

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Storia della Teologia

Giapponese

a cura di

Yasuo Furuya

traduzione di

Tiziano Tosolini

Asia

n Study Centre

Xaverian Missionaries – Japan

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titolo originale

Yasuo Furuya, ed.A History of Japanese TheologyWilliam B. Eerdmans Publishing CompanyGrand Rapids, Michigan / Cambridge, u.k., 1997

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indice

Introduzione 3 Yasuo Furuya

La prima generazione 11 I leaders cristiani del primo periodo Akio Dōi

La seconda generazione 39 Toshio Satō

La terza generazione, 1945–1970 75 Seiichi Yagi La teologia dopo il 1970 101 Masaya Odagaki Conclusioni 127 Yasuo Furuya Gli autori 133 Bibliografia 135 Indice dei nomi 147

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Storia della Teologia Giapponese

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introduzione

Yasuo Furuya

Questo è il primo libro di storia della teologia giap-ponese scritto da studiosi giapponesi. È stato il professore americano di teologia Carl Michelson,

con il suo Japanese Contribution to Christian Theology (1960), a presentare al mondo la teologia giapponese. Michelson inizia la sua Prefazione con la seguente osservazione:

Il cristianesimo protestante in Giappone ha solo cento anni. Ciò significa che la Chiesa giapponese è una delle Chiese più giovani della cristianità. Eppure, di tutte le giovani Chiese è forse la prima ad aver sviluppato una teologia significativa. Negli ultimi venticinque anni, presso questo popolo è emerso un clima teologico che oggi si esprime in maniera autorevole attraverso mol-teplici prospettive (p. 9).

Poiché sono passati oltre trentacinque anni da tale osservazione, i lettori potrebbero aspettarsi che nel frattempo sia apparso un libro sulla storia della teologia giapponese scritto da giapponesi, ma invano.

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Nel 1966 Charles H. Germany, già missionario americano in Giappone, pubblicò il primo testo di storia della teologia giapponese, dal titolo Protestant Theologies in Modern Japan. Come indica il sottotitolo, si tratta di una storia delle principali correnti teologiche apparse tra il 1920 e il 1960. Il libro era così ben scritto che fu tradotto in giapponese. Tuttavia, presenta dei limiti. Si occupa solo della teologia protestante, trascurando la teo-logia cattolica romana. Inoltre, l’interesse maggiore dell’autore è posto “sull’influsso che le varie teologie hanno avuto nell’individuare le responsabilità della Chiesa nei confronti della società” (p. xii).

Ora, perché non esiste una storia della teologia giapponese scritta da giapponesi, mentre esistono diversi libri sulla storia della Chiesa e sul cristianesimo giapponese scritto da altri? Certo, esiste un volume del 1968 dal titolo Storia del pensiero teologico del cristianesimo giapponese, scritto da Yoshitaka Kumano (1889–1981). Si noti, tuttavia, che non vi si parla di “teologia”, bensì di “pensiero teologico”. Come mai? Secondo Kumano, autore di tre volumi di dogmatica, la Chiesa giapponese non è ancora così sufficiente-mente cresciuta tanto da possedere una “storia della teologia giapponese”. Per esprimere una teologia, nel tradizionale e occidentale senso della parola, la Chiesa giapponese deve prima di tutto disporre di dottrine, di una morale, di rituali, ecc. su cui basare una teolo-gia. Finora, invece, prosegue Kumano, la Chiesa giapponese è esistita senza alcun bisogno di dottrine e di ordinamenti ecclesiastici propriamente detti. Questa immaturità teologica non è dovuta necessariamente a dei difetti di fede della Chiesa giapponese. Kumano pensa piuttosto a tre ragioni, che deduce dal contesto storico della Chiesa giapponese.

La prima ragione risiede nel fatto che la Chiesa giapponese, che fin dalle sue origini ha cercato di essere una Chiesa autosufficiente e indipendente dalle missioni estere, è priva di un saldo fondamento teologico confessionale. La seconda ragione è che la Chiesa giapponese, mantenendo strette relazioni con le Chiese americane, manca di forti legami storici e teologici con la Riforma. Di conseguenza, ecco la terza ragione, la Chiesa giapponese non possiede delle solide tradizioni teologiche. Solo il Credo Apostolico e le consuete dottrine delle Chiese protestanti, come ad esempio la giustificazione per fede, sono considerate come tradizioni. Per queste tre ragioni, conclude Kumano, la Chiesa giapponese ha elaborato dei pensieri teologici, ma non una vera e propria teologia (Opere complete di Yoshitaka Kumano, vol. 12, p. 6).

Ora, il problema è questo: Che cos’è propriamente la teologia? Una Chiesa che non sia europea o, per usare il termine tipologico di Ernst Troeltsch, una Kirche, cioè una Chiesa che non sia di Stato, è davvero incapace di sviluppare una teologia? Ken Ishihara (1882–1976), considerato per molti anni il decano degli studi accademici sul Cristianesimo in Giappone, risponderebbe senza esitazione in maniera negativa a questa domanda. Que-sto anziano storico del Cristianesimo ha indicato le seguenti quattro caratteristiche del cristianesimo giapponese.

La prima: le Chiese giapponesi hanno avuto sin dall’inizio un atteggiamento negativo nei confronti del confessionalismo. Si dimostrano piuttosto scettiche nei confronti delle

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differenze confessionali riguardanti le dottrine e gli ordini. In questo senso, quasi tutte le Chiese giapponesi appartengono al Movimento della Non-Chiesa (Mu-kyōkai).

La seconda: la mancanza di una retta comprensione dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Ciò è forse dovuto alla comune indole dei giapponesi, i quali non sono troppo legalisti. Perciò i cristiani giapponesi provano scarso entusiasmo nei confronti delle leggi e delle direttive ecclesiasiche.

La terza: l’atteggiamento evangelico e biblico delle Chiese giapponesi, che ha tratto origine dai primi missionari, i quali erano influenzati dal Metodismo in Inghilterra, dal Revivalismo in America e dal Pietismo della Germania ottocentesca. Questa è la ragione per cui la Chiesa giapponese partecipò attivamente ai movimenti sociali e morali abbrac-ciando, al contempo, tendenze spiritualistiche.

La quarta: la mancanza di una chiara nozione di Chiesa. Sebbene gli insegnamenti, i concetti, gli stili di vita e le tradizioni cristiane siano state ben accolte, il Cristianesimo — così come la Chiesa — è ancora privo di una sicura solidità e un fermo fondamento (Opere complete di Ken Ishihara, vol. 10, pp. 211–218).

Riassumendo, Ishiara afferma che in Giappone non esiste ancora un’idea chiara di Chiesa. Egli nota una situazione simile anche in America, anche se non così pericolosa, dato che — sebbene gli americani non portino molto rispetto per le tradizioni e non si fidino facilmente dell’autorità — la società americana è già cristiana. La società giap-ponese, invece, non è cristiana. Se l’idea di Chiesa non è chiara e inequivocabile, ciò può rappresentare una difficoltà e un pericolo per l’esistenza stessa della Chiesa. Perciò Ishihara insiste nell’utilizzare un concetto di Chiesa nel senso più stretto e tradizionale del termine, altrimenti l’idea di Chiesa diventerebbe vaga e confusa, smarrendo così il suo vero significato.

Secondo Ishihara, tra i cristiani giapponesi esiste un rapporto molto stretto tra l’as-senza di un chiaro concetto di Chiesa e la mancanza di una chiara comprensione del concetto di fede. Il dilemma teologico dei cristiani giapponesi non riguarda tanto la loro incapacità di comprendere, per esempio, il pensiero teologico di Barth e di Bonhoeffer, quanto piuttosto il fatto di essere privi di quella sensibilità e maturità umane necessarie per comprendere e identificarsi con quei loro accorati appelli teologici sorti dalle loro esperienze personali. In altre parole, Ishihara afferma che “esiste un’insufficiente com-prensione cristiana e una lacunosa vita ecclesiale a causa dell’immatura superficialità con cui si affronta il Cristianesimo. Questo è il motivo per cui vi sono molti cristiani ‘di nome’ che a volte si comportano come cristiani, ma che normalmente esibiscono uno stile di vita d’altri tempi” (Opere complete, p. 217).

Questa idea di Ishihara ci ricorda il filosofo tedesco Karl Löwith (1897–1973), invitato nel 1936 dallo stesso Ishihara a insegnare in Giappone, dove rimase fino al 1941. Riflet-tendo sulla sua esperienza accademica e sul comportamento dei suoi colleghi giapponesi, egli giunse alle seguenti considerazioni:

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Le modalità con cui generalmente i Giapponesi recepiscono il pensiero europeo ci appaiono discutibili, poiché non riusciamo a concepirle come un’autentica appropriazione. (…) Gli studenti studiano certo con dedizione i nostri libri europei, e li comprendono anche, grazie alla loro intelligenza, ma dal loro studio non traggono alcuna conseguenza per la propria autocoscienza di Giapponesi. Essi non distinguono, e non istituiscono confronti tra concetti europei come per esempio quelli di “volontà”, di “libertà” e di “spirito”, e ciò che a essi corrisponde nella loro vita, nel loro pensiero e nella loro lingua, o ciò che vi differisce. Essi non studiano per sé ciò che è straniero in sé. (…) Vivono su due piani diversi: uno più basso, di base, su cui sentono e pensano da Giapponesi, e uno più alto, su cui si trovano allineate le scienze europee da Platone a Heidegger; e l’inse-gnante europeo si chiede: dov’è la scala che li conduce da un piano all’altro? (K. Löwith, Sämtliche Schriften, vol. 2, pp. 536 f; tr. it., Id., Il nichilismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 90-91)

Ishihara, ovviamente, non era all’oscuro di una simile critica. Nel suo saggio del 1959 “The Task of Japanese Theology” (Il compito della teologia giapponese) scriveva:

Siamo ben consapevoli, e proviamo perfino una certa vergogna, che in Giap-pone il Cristianesimo (così come per altre espressioni culturali, scienze e arti) non sia altro che un’imitazione di quello occidentale (…) È vero che molti pre-dicatori annunciano il Vangelo imitando le omelie e i concetti teologici dei paesi occidentali. Tuttavia, si deve davvero biasimare un simile atteggiamento? Temo che questi predicatori sarebbero ancor più manchevoli se utilizzassero parabole e analogie giapponesi. Sono infatti convinto che l’imitazione sia inevitabile e molto più rassicurante, sebbene dobbiamo prestare attenzione al modo in cui imitiamo (pp. 203ss).

Sia Kumano che Ishihara sono stati perciò molto cauti nel parlare della storia della teolo-gia giapponese, sebbene entrambi non fossero soddisfatti del problema dell’imitazione e fossero desiderosi di vedere la fondazione di una teologia — nel vero senso della parola — in Giappone.

Un’ulteriore ragione per l’assenza di un volume di storia di teologia giapponese scritta da un teologo giapponese riguarda il sospetto provato nei confronti di una “teologia giap-ponese” e la cautela dimostrata nel parlarne. Ishihara, all’inizio del suo saggio “Il compito della teologia giapponese”, scriveva:

Innanzitutto, interpreto il titolo nel senso di “Il compito della teologia in Giap-pone”. Per quanto mi riguarda, non esiste il concetto di teologia giapponese e mi rifiuto di riconoscerlo. Quale compito spetta alla teologia in Giappone? Il tema

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di questo saggio può essere compreso solo nei termini posti da questa domanda (p. 193).

Questa visione negativa della “teologia giapponese” è abbastanza comune tra i teologi di questo Paese perché il termine richiama per loro la teologia dei “Cristiani Giapponesi”, un po’ come quello dei “Deutsche Christen”, che avevano collaborato con il militarismo durante la seconda guerra mondiale. Queste persone avevano cercato di rendere giappo-nese la teologia, amalgamando il Cristianesimo con lo Shintoismo. Questo è il motivo per cui i teologi giapponesi si sentono restii a usare termini come “teologia giapponese” o perfino “teologia asiatica”.

Tuttavia, la generazione emersa nel periodo post-bellico è piuttosto critica nei con-fronti della vecchia generazione e della sua visione teologica — intesa nel senso tedesco del termine, cioè della sola dogmatica, come ad esempio quella di Karl Barth. Fu Hideo Ōki, allora giovane docente di teologia, a invocare per primo la liberazione della teolo-gia giapponese dalla “cattività tedesca”. Nel 1961, subito dopo il suo rientro dall’America, dove aveva studiato con Reinhold Niebuhr, scrisse un breve saggio sul pensiero del suo docente — da lui chiamato paradossalmente “un grande teologo che non è un teologo”. Ōki termina il suo saggio con queste parole:

Se si imparasse da Niebuhr, si libererebbe la teologia del Giappone dalla futile “cattività tedesca”. La nostra teologia diventerebbe indipendente e acquiste-remmo la capacità di guardare in faccia le realtà della storia giapponese in maniera rigorosa. In particolar modo, si spezzerebbe l’impasse del barthismo in Giappone (che è esistito a partire dal periodo pre-bellico fino a quello post-bel-lico) e si ristabilirebbe la teologia su quel realismo che è in stretto contatto con la verità della Chiesa (Kobun, nov. 1961, p. 5).

L’eco dell’appello lanciato da Ōki per liberare la teologia giapponese dalla “cattività tede-sca” fu ascoltato non solo da altri giovani teologi educati in America, ma anche da giovani teologi educati in Germania, come Seiichi Yagi. Più favorevolmente disposto di Ōki nei confronti della teologia giapponese, Yagi scrisse in maniera risentita quanto segue:

Un tempo l’infante teologia giapponese aveva bisogno della teologia occiden-tale come di un suo pedagogo (…). La nostra lunga dipendenza ha alimentato delle cattive abitudini. Alcuni hanno perfino affermato di non voler leggere opere teologiche scritte in giapponese (…). Esiste una spiacevole tendenza tra noi a sentirsi imbarazzati nel rimandare — nelle bibliografie che includiamo al termine dei nostri libri — a studi giapponesi (…). In queste circostanze, non possiamo di certo sperare in un sano sviluppo della teologia giapponese (…). È perciò con buona ragione che tra i giovani teologi è recentemente salito il grido: “Liberate la teologia giapponese dalla cattività tedesca” (Japan Christian Quarterly, Autunno 1964, p. 259).

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Sono passati più di trent’anni da quando questi giovani teologi hanno richiesto di essere liberati dalla “cattività tedesca”. Non più giovani, hanno prodotto molti lavori teologici che essi stessi rivendicano come originali piuttosto che frutto di imitazioni. Questo libro contribuirà a rispondere alla domanda se ora siamo diventati adulti da un punto di vista teologico, e se siamo stati capaci di elaborare una storia della teologia giapponese.

Sulla questione se esista o meno una “teologia giapponese”, il presente volume man-tiene un approccio quantomeno possibilista. Non desideriamo giudicare la questione da noi stessi. Non crediamo nel mito della cosiddetta unicità della cultura giapponese e insistiamo nel demitologizzarla. Non siamo noi, ma la gente al di fuori del Giappone che deve giudicare se esiste o meno una teologia giapponese. Per questo, il termine “teologia giapponese” incluso nel titolo del volume possiede lo stesso significato di “teologia in Giappone”.

I lettori si accorgeranno che i teologi trattati in questo libro sono protestanti. È nostra intenzione scrivere non solo sulla teologia protestante, ma anche su quella ecumenica, incluse la teologia cattolica romana e quella greco ortodossa. Tuttavia, perché i protestanti continuano a dominare la teologia giapponese? Secondo le statistiche riportate dall’An-nuario cristiano del 1988, i cristiani sono circa un milione, poco meno dell’1% della popo-lazione. Di questi, 627.000 sono protestanti, 428.000 sono cattolici e 25.000 ortodossi. Esiste una notevole differenza di numero tra protestanti e cattolici. La ragione principale per cui la maggioranza dei teologi sono protestanti deve essere trovata all’interno della storia delle Chiese giapponesi.

I primi missionari che nel 1549 giunsero in Giappone erano cattolici. Nel 1580 edifi-carono le più antiche scuole teologiche (seminari) — una in Arima, nel Kyūshū, e l’altra in Azuchi, nei pressi di Kyōto. Il Cristianesimo in Giappone, dopo l’iniziale successo del cosiddetto “secolo cristiano”, fu proibito e l’educazione teologica, di cui si erano appena gettate le fondamenta, venne completamente sospesa. Fu solo nel 1862, due secoli dopo la loro espulsione, che i missionari cattolici poterono ritornare in Giappone. Nel 1870 essi riaprirono le scuole teologiche; tuttavia, a differenza dei nuovi missionari protestanti giunti dall’America, i missionari cattolici francesi non riuscirono ad attrarre i giovani, specialmente gli studenti e gli intellettuali. Questa è la ragione per cui ci volle molto tempo prima che i cattolici giapponesi assumessero la leadership della gerarchia eccle-siastica e della teologia. Prima della seconda guerra mondiale c’erano pochissimi teologi giapponesi di stampo cattolico. Fu solo dopo gli anni sessanta che teologi giapponesi cattolici iniziarono a farsi conoscere assieme ad altri celebri letterati, anch’essi cattolici. Perfino oggi, tra gli ortodossi, si incontrano pochissimi teologi di fama.

Il cristianesimo protestante approdò per la prima volta in Giappone nel 1859 grazie ai missionari americani. La Dōshisha fu la più antica scuola teologica protestante. Fondata nel 1875 dai Congregazionalisti, essa esiste tutt’ora a Kyōto con il nome di Università della Scuola Teologica Dōshisha. Poi fu la volta dell’Union Theological Seminary, fondato a Tōkyō nel 1877 con un orientamento riformato e presbiteriano. Questa tradizione sfociò

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nell’attuale Tōkyō Union Theological Seminary, creato durante la guerra dalla Chiesa Unita di Cristo (Kyōdan) attraverso l’accorpamento di diverse scuole teologiche con-fessionali. Nel dopoguerra, quando varie confessioni lasciarono il Kyōdan, ciascuna di esse istituì proprie scuole teologiche. Anche alcune università cristiane fecero lo stesso, sebbene due di queste furono chiuse durante i disordini universitari degli anni settanta.

Ovviamente, le scuole teologiche e i seminari non sono gli unici luoghi dove si pro-duca teologia. Per chi è interessato a sapere chi siano coloro che si dedicano alla teologia, e dove stiano svolgendo la loro attività, può consultare la Japan Society of Christian Studies, la più diffusa e inclusiva organizzazione accademica di teologi. Fondata nel 1952, essa pubblica la rivista annuale Theological Studies in Japan. Al 1988 il numero totale dei membri era di 597, inclusi 546 uomini e 51 donne. Per l’83% sono protestanti, mentre per il 10% sono cattolici. Per il 7% insegnano nei seminari o nelle scuole teologiche, mentre per il 47% insegnano in università o collegi cristiani. Per il 9% insegnano nelle univer-sità statali, mentre per un altro 9% in scuole o collegi privati e secolari. Molti di coloro che svolgono la loro docenza in scuole non cristiane non insegnano teologia ma altre materie, come ad esempio lingue e storia della filosofia. Per l’11% i membri della società sono pastori. Ovviamente, ci sono molti altre persone ordinate interessate al pensiero teologico, anche se non ne sono membri. Il clero in Giappone è così suddiviso: 10.800 protestanti, 10.500 cattolici e 80 ortodossi.

Inizieremo quindi la storia della teologia giapponese al tempo in cui i primi missio-nari protestanti giunsero in Giappone nel xix secolo. Questa storia, seppur breve, può essere divisa in quattro periodi, quante sono le quattro generazioni teologiche che li caratterizzano.

Il primo periodo (trattato nel capitolo 1) è quello della prima generazione di cristiani, nati dal 1850 ai primi anni sessanta, che dettero inizio allo studio della teologia.

Il secondo periodo (capitolo 2) è caratterizzato dalla seconda generazione di giappo-nesi, nati negli anni ottanta e novanta e studenti della prima generazione.

Il terzo periodo (capitolo 3) è quello immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, nel quale la terza generazione iniziò a scrivere opere teologiche.

Il quarto e più recente periodo (capitolo 4) vede protagonista la quarta generazione di teologi, che si ricollega alla terza generazione e ne sviluppa i risultati ottenuti1.

Per comprendere lo sfondo storico di questi periodi, raccomandiamo le seguenti let-ture:

1. Richard H. Drummond, A History of Christianity in Japan, Wm. B. Eerdmans, Grand Rapids 1971, che tratta sia dei protestanti sia dei cattolici e degli ortodossi.

1. A questo proposito esiste un calendario giapponese basato sui periodi imperiali. Sebbene qualche cristiano si opponga all’uso di questo calendario, è pratica comune parlare del periodo Meiji (1868–1912), del periodo Taishō (1912–1926) e del periodo Shōwa (1926–1989).

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2. Charles W. Iglehart, A Century of Protestant Christianity in Japan, Charles E. Tuttle, Tōkyō 1959.

3. James M. Phillips, From the Rising of the Sun: Christians and Society in Con-temporary Japan, Orbis Books, Maryknoll ny 1981, che tratta dei conflitti e delle divisioni delle Chiese giapponesi avvenute negli anni settanta.

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la prima generazione i leaders cristiani del primo periodo

Akio Dōi

La prima generazione dei leader cristiani nacque a metà del xix secolo all’interno della società feu-dale giapponese. Diventarono cristiani durante un

periodo di instabilità che ebbe inizio con la Restaurazione Meiji del 1868. I quattro leader che meritano un’attenzione particolare sono Danjō Ebina (1856–1937), Masahisa Uemura (1858–1925), Hiromichi Kozaki (1856–1938) e Kanzō Uchimura (1861–1930). Poiché queste quattro figure rappresentano una varietà notevole sia a livello di personalità che di pensiero, studiarli più da vicino ci permetterà di tratteggiare un profilo generale degli indirizzi teologici della prima generazione di cristiani.

L’accoglienza del Cristianesimo da parte dei giapponesi nel periodo iniziale

Nei secoli xviii e xix si dette avvio alle missioni estere del cristianesimo protestante anglo-americano. Le missioni estere nacquero da tutti quei movimenti di rinascita che sfidavano il pensiero illuministico e che reagivano contro l’inerza di quel

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Cristianesimo trasformato ormai in religione istituzionalizzata. Allo stesso tempo, la mis-sione era percepita come un’attività religiosa e culturale che mirava a stabilire l’egemonia politica, economica e militare delle potenze occidentali sul mondo non occidentale. Le missioni anglo-americane rivolsero inizialmente il loro raggio d’azione in India, nell’Asia del sud e in Cina, e solo in seguito in Giappone e Corea.

A partire dal xvii secolo, per arginare l’influsso delle missioni cattoliche e delle poli-tiche espansionistiche dei Paesi occidentali, il Giappone decise di chiudere le proprie frontiere e di mettere al bando il Cristianesimo. Tuttavia, nel 1858 l’America lo costrinse a riaprire i propri porti e a firmare il Trattato di amicizia con i Paesi occidentali. Negli anni seguenti, giunsero in Giappone missionari americani e inglesi provenienti dalle Chiese anglicane, riformate, presbiteriane, battiste e congregazionaliste. La Restaurazione Meiji smantellò il sistema feudale e il Giappone si trasformò ben presto in uno Stato moderno. Approfittando della scarsa attenzione del Governo per le missioni cristiane, nel 1873 giunsero in Giappone anche alcuni missionari provenienti dalle Chiese metodiste dell’A-merica del nord e dall’Allgemeiner Evangelisch-Protestantischer Missionsverein.

Tuttavia, la società giapponese non si dimostrò mai molto benevola nei confronti del Cristianesimo. In precedenza esso era stato bandito perché si credeva avrebbe distrutto la religione, la moralità e i costumi tradizionali giapponesi. Ora invece, malgrado il Giappone avesse deciso di arricchirsi e rafforzarsi importando la moderna civilizzazione occidentale, la maggioranza di quegli intellettuali che avevano accolto le teorie utilitaristi-che e evoluzionistiche si dimostrava indifferente, se non proprio ostile, al Cristianesimo.

Tuttavia, alcuni di loro si dimostrarono ben disposti ad accogliere il Cristianesimo. Questi ultimi erano tutti individui che al tempo della società feudale appartenevano alla classe dei samurai, avevano ricevuto un’educazione confuciana e, rifiutandosi di assecon-dare i propri interessi o le proprie ambizioni, si erano messi al servizio dei loro signori feudali. Erano inoltre consapevoli della posizione elitaria che occupavano in società, interessandosi del destino della nazione e del governo del popolo. Tuttavia, tutti questi individui appartenevano ai clan feudali che erano stati sconfitti dalla guerra civile, e durante il processo di modernizzazione della società avevano perso il loro status sociale di samurai. Per superare questa loro situazione incerta e precaria, e assicurarsi un posto di fama nel mondo, avevano quindi deciso di dedicarsi allo studio della cultura occidentale.

A quel tempo, gli unici stranieri in grado di impartire la scienza e la cultura occiden-tali erano i maestri cristiani, e tra di loro vi era un certo numero di missionari. Poiché era proibito loro di predicare il Vangelo apertamente, avevano deciso di dedicarsi all’in-segnamento. Assimilando da se stessi il sapere occidentale, alcuni studenti giapponesi iniziarono a interessarsi di Cristianesimo e di quelle idee religiose che avevano modellato la personalità dei propri maestri, diventando così a loro volta cristiani. Accostando le quattro persone menzionate in precedenza, esamineremo le ragioni che le indussero ad abbracciare il Cristianesimo, nonché la comprensione che ne ebbero — dato che eser-

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la prima generazione | 13

citarono un ruolo decisivo nel tracciare quel percorso che in futuro la teologia avrebbe imboccato in Giappone.

Danjō Ebina (1866–1937)Danjō Ebina nacque nel Kyūshū settentrionale. Figlio di un samurai, fu educato a ser-vire il signore feudale e perfino a morire per lui senza esitazione. Tuttavia, a causa della Restaurazione Meiji, il suo clan feudale fu soppresso, il castello del feudatario bruciato e un giovane principe perse la vita. Ebina sperimentò una specie di morte spirituale e iniziò a cercare un nuovo signore da servire.

Nel 1872 entrò alla Scuola Occidentale di Kumamoto, nel Kyūshū centrale. La scuola era stata inaugurata da un gruppo di intellettuali “illuminati”. Leroy Lansing Janes, un americano e un devoto cristiano, fu invitato dalla scuola come docente. Mentre stava leg-gendo i libri dei saggi confuciani, Ebina giunse alla conclusione che il “Cielo” confuciano non era una realtà razionale ma personale, esattamente come lo era il Dio cristiano. Da Janes imparò scienze naturali e storia e, mentre ne seguiva le lezioni sulla Bibbia, percepì il significato profondo di quel Dio che aveva creato e regnava su ogni cosa. Quando apprese da Janes che la preghiera, in quanto comunicazione con Dio e invocazione nel bisogno, era un obbligo che tutte le creature dovevano al loro Creatore, Ebina ne rimase sconvolto. Non avendo più alcun signore a cui obbedire, aveva trascorso la propria esi-stenza da persona egoista. Ora, invece, aveva compreso che era suo dovere servire Dio, il Creatore di tutte le cose. Dio era diventato per Ebina il suo vero signore, e lui si sentiva il suo suddito interpretando questa loro relazione in termini morali.

Circa una trentina studenti della scuola, incluso Ebina, accolsero il Cristianesimo insegnato da Janes. Nel 1876 salirono assieme su una piccola collina di Kumamoto e fecero voto di predicare il Cristianesimo spiegando e chiarendo alle persone come fosse necessario, per essere fedeli alla Nazione, praticare l’onestà e la giustizia cristiane. La scuola, a causa del clamore provocato dal gesto degli studenti, venne chiusa, ma prima che ciò accadesse, Janes aveva già raccomandato Ebina, e il resto degli studenti, alla Scuola Dōshisha. Quest’ultima era stata fondata nel 1875 da Jyo Neesima con la collabo-razione dei missionari dell’American Board of Commissioners for Foreign Missions.

Durante i suoi studi alla Dōshisha, Ebina ebbe una nuova esperienza religiosa. Pur cercando di domare tutte le sue passioni per porsi a completo servizio di Dio, egli si sentiva intellettualmente coinvolto nell’attività evangelizzatrice del Giappone. Sebbene Ebina considerasse tutto ciò come un problema di non poco conto, alla fine scoprì in sé il profondo desiderio di sentirsi come un figlio che si mette alla ricerca di Dio-Pa-dre. Convinto di aver raggiunto una nuova consapevolezza di Dio, intraprese una sua personale lotta contro il peccato e si persuase che, se è unito a Dio, l’uomo è in grado di sconfiggere ogni passione. Per descrivere questa rinnovata relazione con Dio, egli usò l’espressione fushi ushin (l’etica del rapporto padre-figlio), uno dei cinque princìpi morali fondamentali professati dal Confucianesimo. E questo modo d’intendere la propria espe-

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rienza spirituale indica già quell’affinità che Ebina riteneva esistesse tra il Cristianesimo e il Confucianesimo.

Ebina cercò quindi di dimostrare che il Cristianesimo è una verità universale, e che esso non è contario allo stile di vita giapponese all’interno di un mondo confuciano. Negli anni successivi, interpretò il rapporto tra il Cristianesimo e lo Shintoismo nella stessa maniera. Ebina riteneva infatti che il rispetto shintoista per le divinità fosse conforme alla pietà cristiana ed era inoltre convinto che mediante una sua purificazione lo Shintoismo avrebbe accolto i princìpi del Cristianesimo. Tuttavia, questo suo sguardo inclusivista e il modo con cui ignorava le differenze esistenti tra il Confucianesimo, lo Shintoismo e il Cristianesimo, nascondevano in sé il pericolo di negare la peculiare unicità del Cristia-nesimo. E poiché Ebina dedicò tutta la esistenza nel tentare di articolare la sua visione teologica a partire dalla sua personale esperienza religiosa, quel pericolo divenne gra-dualmente sempre più manifesto. Ma di ciò ci occuperemo più avanti.

Hiromichi Kozaki (1856–1928)Anche Hiromichi Kozaki era figlio di un samurai del clan Kumamoto e ricevette un’edu-cazione confuciana. Entrò alla Scuola Occidentale di Kumamoto un anno prima di Ebina. Già durante gli anni di scuola dimostrò le sue doti di leader e la sua abilità nel dirigere gli affari. In questo periodo si fece cristiano, anche se, come ebbe modo di rimarcare in seguito, ciò non lo portò a rinunciare al Confucianesimo — dato che considerava il Cristianesimo come il compimento dello spirito confuciano. Un’analisi di queste sue con-siderazioni evidenzia come il suo pensiero fosse radicalmente diverso da quello di Ebina.

Assecondando il dettame confuciano di “tenere gli spiriti a rispettosa distanza”, Kozaki evitò di avvicinarsi troppo allo Shintoismo e al Buddhismo. Era fiero del suo Confucia-nesimo e, sebbene si dedicasse allo studio del sapere occidentale, era convinto che non vi fosse alcun bisogno di apprendere il Cristianesimo predicato da Janes. Tuttavia, quando si accorse che gli studenti, malgrado la persecuzione in atto, venivano persuasi da Janes ad accogliere il Cristianesimo, egli avvertì che il Cristianesimo possedeva in sé dei poteri soprannaturali. Quando vide Janes in lacrime pregare per il Giappone, ne rimase così scosso che decise di dedicarsi allo studio del Cristianesimo. Grazie alla sua formazione confuciana, non ebbe alcun problema nell’accettare le idee dell’esistenza di Dio e dell’im-mortalità dell’anima. Tuttavia, non riusciva a credere nei racconti miracolosi della Bibbia, nella divinità di Cristo o nella salvezza della croce. Ciò gli procurò non poche difficoltà. Un giorno, rispondendo alle domande di Kozaki, Jane citò il passo di 1Cor 2,111 e affermò che l’idea di Dio era al di là di ogni intuizione umana e razionale e che, se non avesse ricevuto lo Spirito di Dio, non avrebbe mai potuto comprenderLo. Jane gli raccomandò poi di rivolgersi in preghiera direttamente a Dio e ciò lo incoraggiò ad accogliere il Van-gelo cristiano.

1. [“Chi conosce i segreti dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere, se non lo Spirito di Dio” 1Cor 2,11. Ndt].

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A differenza di Ebina, Kozaki non cercò di trovare dei punti in comune tra il Con-fucianesimo e il Cristianesimo. Ispirato da Janes, era riuscito ad aprirsi una breccia attraverso la ragione confuciana e ad accettare, mediante lo Spirito di Dio, la rivelazione cristiana. In questo modo, accogliendo l’idea del Dio trinitario e della salvezza portata da Cristo, Kozaki andò oltre la posizione raggiunta da Ebina. La lettura di Henry W. Beecher e di Horace Bushnell lo aiutarono poi ad approfondire ulteriormente la sua comprensione del Cristianesimo.

In che maniera Kozaki interpretò il rapporto tra il Confucianesimo e il Cristianesimo? Nel suo libro Nuovo saggio sulla politica e la religione (1886) egli contrappone decisamente i princìpi delle due religioni. Ad esempio, sebbene parli del male e della necessità di vincerlo, il Confucianesimo non insegna alcuna idea di salvezza, come invece fa il Cri-stianesimo. Il Confucianesimo, inoltre, non è universale come il Cristianesimo e in esso vi è una netta distinzione tra classi superiori e inferiori, oltre che tra ranghi alti e bassi. Nel Cristianesimo, invece, il regno di Dio è proclamato a tutte le nazioni, e il Vangelo annuncia l’eguaglianza di tutti i popoli. Il Confucianesimo, tuttavia, non è completamente distinto dal Cristianesimo, né lo contraddice. Al pari del Giudaismo, invece, il Confucia-nesimo prepara la via al Cristianesimo. La consapevolezza del proprio peccato, così come viene intesa dal Confucianesimo, può quindi essere connessa all’idea di salvezza cristiana, e i princìpi confuciani di lealtà e fedeltà filiale, se applicati al Dio cristiano, chiariscono ulteriormente il significato della fede e dell’obbedienza che l’uomo deve a Dio. Il Cristia-nesimo, così, supera il Confucianesimo, lo perfeziona e lo porta a compimento. Queste idee di Kozaki evitano pertanto i possibili pericoli insiti nell’approccio di Ebina. Tuttavia, dato che Kozaki si accostò al Cristianesimo a partire da una posizione confuciana, tracce di quel pensiero religioso sono presenti ancora sia nelle sue idee che nella sua pratica. Era convinto che il Cristianesimo potesse rappresentare un principio spirituale per la nazione moderna, così come il Confucianesimo era stato efficace nel formare l’ordinamento della società feudale. Cercò inoltre di assegnare al Cristianesimo una sua collocazione tra le varie dottrine di una nazione imperiale che al tempo cercava di arricchirsi e rafforzarsi invadendo e conquistando altri Paesi asiatici.

Masahisa Uemura (1861–1925)Masahisa Uemura era figlio di un vassallo feudale dello shōgunato Tokugawa. A causa della Restaurazione Meiji, il padre perdette il suo status sociale e la sua famiglia visse dif-ficoltà finanziarie. In quel periodo, la madre lo incoraggiò dicendogli: “Dato che sei figlio di un samurai, sii forte, fonda un casato e diventa famoso”. Egli rimase profondamente colpito da questa esortazione materna. Il codice morale dei samurai, nel quale spiccano i valori dell’orgoglio, della forza di volontà, dell’onore del casato e della pietà filiale, influì in maniera determinante nell’elaborazione del suo pensiero. Colmo di ambizioni giovanili, si spostò a Yokohama dove iniziò a familiarizzarsi con il sapere occidentale. Si iscrisse alla scuola privata gestita da James H. Ballaghm, un missionario della Chiesa riformata

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olandese in America, e fu qui che espresse il desiderio di diventare cristiano. Ripensando al tempo della sua conversione, egli scrisse:

Entrai a scuola mentre si stavano svolgendo gli incontri di preghiera settima-nali, ed è lì che ricevetti i primi rudimenti della dottrina cristiana. La prima omelia che ebbi modo di ascoltare riguardava l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste. Il giapponese usato dal missionario era di difficile comprensione, ma in qualche modo l’idea cristiana di Dio, che mi pareva così strana e nuova, si impossessò della mia anima. Questa idea era grandiosa ed entusiasmante. Un nuovo mondo si aprì dinnanzi a colui che era devoto del divino eroe Katō Kiyomasa2. La mia anima giovanile fu presa d’assalto dalla fede meravigliosa nell’unico vero Dio, presente sempre e ovunque, santo e misericordioso. Senza neppure discuterne, e prima ancora che mi ponessi qualche domanda, mi sentii già cristiano. (…) Fu solo qualche tempo dopo questa mia prima conversione che iniziai ad apprezzare in maniera adeguata il significato del peccato e quello del perdono redentivo di Cristo.

Non si deve però pensare che questa sua esperienza religiosa lo avesse convinto ad accettare tutti i princìpi del Cristianesimo. Sebbene avesse una discreta comprensione della prospettiva cristiana riguardante il concetto di Dio, non riusciva però facilmente ad apprezzare il significato del peccato e del perdono redentivo. Nel 1873 fu battezzato nella Chiesa di Yokohama ed entrò nella scuola teologica diretta da Samuel R. Brown, un missionario appartenente alla stessa confessione di Ballagh. Frequentando la Chiesa, e grazie agli studi presso la scuola teologica, riuscì lentamente a superare il suo “forte dubbio”. Essendo nato povero, sia dal punto di vista economico che spirituale, aveva spe-rimentato il disinganno del mondo. Sentì di avere in se stesso ogni sorta di peccato e di male, quali l’astuzia, la gelosia, l’avidità e l’inganno. Tuttavia, trovò rimedio a questa sua situazione di peccato mediante il perdono redentivo di Cristo. Il suo primo libro, Una guida al Vangelo (1885), consiste in una spiegazione rudimentale della natura del peccato e della via salvifica.

È interessante notare che Uemura si accostò al Vangelo attraverso l’ascolto delle omelie e gli studi di teologia. Il suo percorso fu quindi diverso da quello seguito da Ebina, di cui abbiamo già parlato, e da quello intrapreso da Uchimura, di cui tratteremo in seguito. Ebina e Uchimura impararono il Cristianesimo, tra molte sofferenze e lotte interiori, dai loro maestri cristiani e solo in seguito, dopo essersi resi conto del suo profondo signifi-cato, si dedicarono ad annunciarlo ad altri. Sebbene fu provato da sofferenze spirituali, lo stesso Uemura mantenne sempre un rapporto privilegiato con la Chiesa e svolse le sue attività teologiche all’interno della tradizione ecclesiale. Questa differenza divverrà ancor più chiara quando in seguito esamineremo la controversia sorta tra Ebina e Uemura.

2.[Katō Kiyomasa (1562–1611) fu un signore feudale (daimyō) che visse durante il periodo di formazione e consolidamento del governo Tokugawa (1603–1868). Ndt].

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Cosa ne fu dell’ambizione giovanile di Uemura? Egli abbandonò l’idea di servirsi dei successi mondani per accrescere la reputazione del casato. Si fece invece cristiano evangelico con l’intenzione di usare le sue doti di leader per fondare Chiese in tutto il Paese. Desiderò inoltre diventare un profeta di giustizia e di fratellanza nei confronti della società. Interpretò il bushidō (la via del samurai) come una via dedita alla grande causa della giustizia sociale, insistendo sul fatto che esso avrebbe dovuto essere purificato dal pensiero cristiano. Tradusse la tradizionale idea di pietà filiale in pietà filiale cristiana nei confronti di Dio Padre, e interpretò la vita cristiana come una concretizzazione di questa pietà. Così facendo, Uemura reinterpretò i valori tradizionali in maniera cristiana, aiu-tando così i cristiani giapponesi a chiarire quale fosse la via e la direzione di fede e di vita che avrebbero dovuto intraprendere.

Kanzō Uchimura (1861–1930)Possiamo accostarci al periodo giovanile di Kanzō Uchimura attraverso le diverse tradu-zioni del suo libro Come sono diventato cristiano (1895). Anch’egli era figlio di un samurai di Edo (Tōkyō) e crebbe consapevole del suo status di guerriero e della morale confuciana. Seguì le vie della religione popolare, venerando le divinità e osservandone le prescrizioni. Dopo aver appreso la scienza occidentale in diverse scuole di Tōkyō, nel 1877 entrò nella scuola agraria di Sapporo, la quale era stata ideata dal Governo per la formazione dei leader che avrebbero guidato lo sviluppo dell’Hokkaidō, l’isola più settentrionale del Giappone. Il decano di questa scuola era stato William S. Clark, un docente dotato di profonde convinzioni e di un raro acume intellettuale. Clark redasse un documento chia-mato “Alleanza dei credenti in Cristo” che gli studenti avrebbero dovuto sottoscrivere e nel quale si sosteneva la fede nella grazia di Dio e si richiedeva una rigorosa condotta morale. Sebbene non fosse allievo di Clark, che nel frattempo era partito per l’America, Uchimura fu persuaso dagli studenti più anziani a firmare il documento. Ciò risvegliò in lui una consapevolezza diversa di se stesso. Fino a quel momento si era dimostrato timo-roso nell’analizzare e studiare la natura, convinto com’era che in essa risiedessero delle divinità e che fosse soggetta ai loro sortilegi. Ora invece, grazie alla sua fede in Dio, si era liberato dalla schiavitù delle divinità e aveva iniziato a indagare la natura per quella che era e a contemplare in essa il mistero della creazione di Dio. Si dedicò allo studio della teoria evoluzionistica e si convinse che da allora in poi avrebbe speso la sua vita a spiegare la relazione esistente tra il teismo cristiano e la teoria evoluzionistica.

Un ulteriore problema che attirò l’attenzione di Uchimura fu quello della situazione sociale in cui si trovavano a vivere i cristiani giapponesi. I giapponesi che erano soprav-vissuti alla transizione dal periodo feudale ai primi anni del Giappone moderno, erano per la maggior parte dei nazionalisti che sostenevano che il Cristianesimo fosse incompa-tibile con i tradizionali valori giapponesi. Uchimura, contemporaneo di queste persone, era egli stesso un fervente patriota, ma, allo stesso tempo, era anche un cristiano. Egli, come ebbe a dire, cercò di vivere tra due “G”, cioè Gesù e il Giappone, convinto com’era

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che l’amore di Gesù purificasse l’amore per il Giappone, e che l’amore per il Giappone rendesse più trasparente l’amore di Gesù offrendo così alla gente un principio di vita.

Ciò che Uchimura aveva appreso da Clark, e da altri ancora, era la nobile e austera prassi morale dei cristiani. Per Uchimura, l’etica cristiana non era altro che la realizza-zione dell’etica dei samurai e la vita cristiana consisteva nell’esercizio della morale con-fuciana. Cercò di vivere un’esisenza più irreprensibile possibile confidando unicamente nelle sue stesse forze. Tuttavia, più si dedicava a seguire i suoi propositi, più sentiva delle sue inadeguatezze interiori, e ciò lo feriva profondamente. Terminata la scuola, Uchimura lavorò come impiegato statale, ma tormentato dal conflitto tra l’etica cristiana e quella pubblica, decise di dimettersi dalla sua attività governativa. A tutto ciò si deve aggiungere anche il problema riguardante il fallimento del suo matrimonio.

Nel 1884, traendo ispirazione da Martin Lutero, che si era sottoposto a una rigida disciplina nel monastero di Erfurt, Uchimura si recò in America svolgendo alcuni lavori in un complesso ospedaliero. In seguito, grazie alla raccomandazione di Jyo Neesima, si recò a studiare all’Amherst College. Lì ebbe modo di conoscere il presidente dell’istituto, Julius Seelye, un uomo dotato di nobile e affabile personalità, oltre che pervaso da pro-fonda sagacia. Grazie a lui Uchimura si accostò alla fede evangelica. Seelye gli insegnò che non avrebbe dovuto pensare solo a se stesso preoccupandosi della sua personale lotta contro il male e il peccato, ma che avrebbe dovuto guardare a Gesù Cristo, che era stato crocifisso per i nostri peccati, e poi vivere fidandosi interamente di Dio. Uchimura fu colmo di gioia quando iniziò a credere nel Vangelo, e dopo ulteriori studi presso lo Hartford Theological Seminary, fece ritorno in Giappone.

Queste quattro persone diventarono cristiani evangelici, i primi tre come pastori e l’ultimo come fondatore della Non-Chiesa. Ognuno dovette affrontare a suo modo il problema di come promuovere l’evangelicalismo in Giappone da cristiani giapponesi, un compito per il quale il pensiero teologico era indispensabile.

Il disordine causato dalla Nuova Teologia

All’inizio degli anni 1890, una bufera teologica stava imperversando all’interno della Chiesa giapponese. Sebbene la sua causa più immediata era data dall’arrivo di missionari che avevano recato con sé le nuove tendenze teologiche presenti in Europa e in America, la sua causa più profonda era da ricercarsi all’interno della Chiesa giapponese.

Come abbiamo già notato, le Chiese protestanti in Giappone erano state fondante negli anni settanta grazie all’attività delle missioni confessionali delle Chiese inglesi e americane. Durante questo periodo il Giappone si stava trasformando in uno Stato moderno ed era quindi necessario che la Chiesa giapponese diventasse indipendente, con una sua dottrina confessionale e una sua organizzazione e ordinamento missionari. I metodi per realizzare questo obiettivo erano due.

Il primo consisteva nel rimanere fedeli alle tradizioni confessionali che avevano ispi-

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rato le missioni. Anche se è vero che le Chiese con un contesto confessionale simile avreb-bero dovuto riunirsi, nulla vietava loro di rimanere fedeli alla propria tradizione confes-sionale del passato. Questo fu il caso della Holy Catholic Church in Giappone (anglicana, fondata nel 1887), della Chiesa Metodista Giapponese (fondata nel 1907) e delle Chiese battiste e luterane. La politica più ovvia da seguire, a detta dei loro membri, era quella di dare vita a una Chiesa confessionale con lo scopo di approfondire la comprensione di ciascuna tradizione confessionale. Nella misura in cui esse avessero perseguito questo obiettivo, il rischio di dar vita a un conflitto teologico era minimo.

Il secondo metodo consisteva nel creare una confessione che fosse, entro certi limiti, propria del Giappone, anche se fondata a partire dalle ramificazioni della Chiesa confessionale estera. La Chiesa presbiteriana giapponese e la Chiesa congregazionista giapponese appartengono a questa seconda categoria. Queste Chiese trascorsero un periodo burrascoso perché nel loro tentativo di creare una confessione e una tradizione tipicamente giapponesi dovettero negoziare con le missioni e scendere a patti con le loro tradizioni confessionali. Uno degli ostacoli maggiori da superare era rappresentato dalla loro relativa immaturità.

Un ulteriore elemento che contribuì allo scompiglio generale fu l’influsso del Grande Risveglio introdotto in Giappone dai cristiani americani — il quale riuscì a farsi breccia e a travolgere le varie barriere confessionali. La stessa idea ispiratrice dell’American Board aveva avuto origine dal Grande Risveglio. Inoltre, a causa del forte sentimento anti-cri-stiano del tempo, era di vitale importanza che i cristiani rimanessero uniti, dato che non rappresentavano che una minoranza all’interno della società giapponese. Alcune Chiese o congregazioni locali giapponesi fondate dopo il 1872 non avevano alcuna relazione con le confessioni straniere. Professavano un credo semplice e possedevano un nome e un’organizzazione comune. Tuttavia, poiché la loro identità e la loro confessionalità risul-tavano essere piuttosto vaghe, peccavano di un certo qual idealismo, non riuscendo così a sopravvivere ai tempi. L’atmosfera prodotta da questo movimento si protrasse per molti anni e dette vita a diverse forme di cooperazione tra le Chiese.

Il percorso seguito dai rappresentanti della Chiesa presbiteriana giapponese fu molto difficile. All’inizio la loro intenzione era quella di fondare una Chiesa non confessionale. Nel 1877, non appena si resero conto che ciò era impossibile, grazie all’iniziativa dei delegati delle missioni riformate e presbiteriane si unirono ad altre Chiese per formare la Chiesa Unita di Cristo in Giappone. Avendo subito per molti anni l’influsso dei riformati e dei presbiteriani, fondarono nel 1890 la Nihon Kirisuto Kyōkai (La Chiesa di Cristo in Giappone) riaffermando, in maniera peculiare, la propria origine non confessionale. A differenza del primo tipo di confessioni, le difficoltà che esse dovettero affrontare per costituirsi furono notevoli. All’inizio, molte Chiese connesse all’American Board e alla Dōshisha cercarono di adottare una natura non confessionale. Tuttavia, poiché erano già presenti in molte località, le Chiese missionarie confessionali formarono nel 1886 le Nihon Kumiai Kyōkai (Chiese Associate del Giappone). Sebbene considerassero la loro Chiesa

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come una confessione propria del Giappone, seguirono il modello congregazionalista, promuovendo la libertà e l’autogoverno di ciascuna Chiesa locale e una mutua coopera-zione tra di esse. Tuttavia, il credo inserito nella costituzione al tempo della formazione delle Chiese non aveva un carattere congregazionalista, ma consisteva nel Fondamento Dottrinale adottato dall’assemblea che in seguito porterà alla fondazione dell’Alleanza Evangelica a Londra nel 1846. Poiché quel credo era già in uso nelle Chiese, non ci fu alcun problema nell’includerlo all’interno della costituzione. Tuttavia, il significato che esso aveva per ciascuna Chiesa, oltre che per ciascun individuo, non era affatto chiaro. I membri e i seguaci di questa Chiesa si trovavano quindi esposti a subire l’impatto della Nuova Teologia.

La cosiddetta “Nuova Teologia” consisteva in una tendenza liberale e razionale all’interno della teologia che era stata introdotta dall’Europa e dall’America negli ultimi anni 1880. Nel 1885 giunse in Giappone Wilfred Spinner, un missionario della Evan-gelisch-Protestantischer Missionsverein. Questa società missionaria era stata fondata l’anno precedente dai leader religiosi tedeschi e svizzeri che erano al tempo membri della Religionsgeschichtliche Schule. L’obiettivo che si prefiggeva era quello di diffondere il Cristianesimo e la sua cultura presso le popolazioni non-cristiane cercando di entrare in contatto con quegli elementi di verità che esse già possedevano. Nel 1887 arrivò in Giappone Arthur M. Knapp dell’American Unitarian Association, seguito nel 1890 da George L. Perin dell’Universalist General Convention. Questi gruppi negavano la tradi-zionale dottrina della Trinità e il dogma cristologico. Sebbene il numero di Chiese sorte da queste missioni in Giappone fosse modesto, l’impatto teologico che queste ebbero sui leader cristiani giapponesi fu immenso. Essi accettavano la Bibbia come parola di Dio in modo ingenuamente evangelico e consideravano le altre religioni da un punto di vista esclusivista.

Hiromichi Kozaki fu il primo a rispondere a questa Nuova Teologia, ma di lui ci occuperemo in seguito. Chi ne fu letteralmente conquistato fu Michitomo Kanamori (1857–1945). Dopo essersi laureato alla Dōshisha, si dedicò a varie attività evangeliche a Tōkyō. Pubblicò il libro Teologia liberale (1892), una libera traduzione di Religionsphilo-sophie auf geschichtlichter Grundlage di Otto Pfleiderer, un sostenitore dell’Allgemeiner Evangelisch-Protestantischer Missionsverein. Il suo libro Il presente e il futuro del Cri-stianesimo in Giappone (1891) contiene un’esposizione della Nuova Teologia, i cui punti principali sono i seguenti. Sebbene in Giappone siano presenti diverse religioni, chi trion-ferà sarà la religione della verità e della vita. Tuttavia, la verità religiosa non può essere monopolizzata da un’unica religione o confessione. Per ciò che riguarda il Cristianesimo, le persone giapponesi considerano come pietre d’inciampo le storie miracolose della Bib-bia, le proibizioni di fumare e bere, le dispute confessionali importate da paesi stranieri e la ritualizzazione del Cristianesimo. L’unicità della rivelazione biblica, la divinità di Cristo e la redenzione mediante la croce professate dal Cristianesimo possono certamente con-tenere degli elementi di verità. Tuttavia la loro esposizione è avvolta da concetti religiosi

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primitivi che dovrebbero essere eliminati. Questo nuovo approccio ci viene suggerito proprio dal sapere moderno.

Che cos’è dunque la Bibbia? Non è l’infallibile rivelazione scritturistica di Dio, ma una collezione di scritti religiosi giudaici e una fonte primaria per coltivare sentimenti reli-giosi nei confronti dell’uomo. Insegna l’armoniosa unione con Dio, che è una verità reli-giosa, e, sebbene questa verità non si riscontri solo nella Bibbia, è la Bibbia che la espone nel modo più chiaro di tutti. L’idea che la divinità di Cristo traspaia dai suoi miracoli, dalle profezie, dal suo essere esente da peccato e dall’influsso che egli ha esercitato tra i suoi contemporanei, non trova alcun riscontro storico. Gesù fu un uomo straordinaria-mente religioso, dotato di doni speciali da parte di Dio e vissuto in intima comunione con Dio. Tuttavia, nessuno può considerarlo un Dio. Questa fede, secondo la Nuova Teologia, deriva dalle credenze religiose primitive dei popoli antichi. Anche l’idea della redenzione di Cristo trae origine da quella credenza. La teoria della “sostituzione penale” non è altro che un’applicazione delle relazioni umane presenti nelle società arcaiche. Sebbene ci venga chiesto di credere in queste dottrine come verità di fede, esse sono inaccettabili. La salvezza offerta dal Cristianesimo risiede nell’armoniosa unione di Dio con gli esseri umani e Cristo non è che il precursore di questa salvezza.

Nel 1892 Kanamori comunicò all’assemblea generale delle Chiese associate che si sarebbe dimesso perché le proprie interpretazioni religiose erano incompatibili con quelle sostenute dalla maggioranza della Chiesa. L’assemblea accettò le sue dimissioni. Allo stesso tempo l’assemblea approvò la Confessione di fede redatta da Kozaki, la quale comprendeva dei brevi articoli di fede, come ad esempio il Dio trinitario, la doppia natura di Gesù Cristo, la teoria dell’espiazione e dell’autorevolezza della Bibbia. Non si discusse affatto se questa Confessione possedesse un valore vincolante o meno e il suo status rimase perciò ambiguo. Alcuni che si trovavano in disaccordo con la Confessione rima-sero all’interno della Chiesa, mentre altri l’abbandonarono. Lo stesso Kanamori lasciò la Chiesa e svolse un ruolo attivo nel mondo governativo e degli affari. Tuttavia, nel 1915 vi fece nuovamente ritorno dedicandosi a una evangelizzazione di massa sia in Giappone che all’estero.

Chi si accorse dei problemi posti dalla Nuova Teologia fu Masahisa Uemura, un fedele della Chiesa di Cristo in Giappone. Notando come avrebbe potuto scuotere le fondamenta della sua fede confessionale, decise di fronteggiarla in maniera vigorosa discutendone sulla rivista mensile Critica giapponese e sul giornale Settimanale evange-lico, che nel 1891 cambiò nome in Novità evangeliche, entrambi fondati nel 1890. Uemura rifiutava l’infallibilità scritturistica della Bibbia e accoglieva gli studi accademici di critica biblica e di religioni comparate della teologia tedesca. Tuttavia, si trovava in profondo disaccordo con l’opinione di Kanamori e nel suo articolo “Il Cristianesimo contempora-neo e il Cristianesimo del futuro” (Critica giapponese, 1891, 7) lo criticò per aver troppo frettolosamente denigrato la Scrittura e la divinità di Cristo. Il Cristianesimo, affermava Uemura, è una “religione assoluta” e immutabile, fondata su un fatto storico, cioè su Gesù

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Cristo. Il Cristianesimo educa e sostiene il popolo giapponese con un’etica pura e nobile e non c’è quindi alcuna necessità, come invece insisteva Kanamori, di importare alcunché dalle altre religioni. Sebbene Kanomori criticasse i miracoli riportati dalla Bibbia, un Cristianesimo privo di miracoli (e quindi anche privo dell’evento della risurrezione) era come un Cristianesimo senza Cristo. Circa invece il problema dell’umiliante imitazione dei paesi stranieri, Uemura sosteneva che la Chiesa e la teologia giapponesi possedevano uno spirito indipendente e si adoperavano assiduamente per eliminare qualsiasi imita-zione — si trattava solo di una questione di tempo. Mentre Kanamori era convinto che la Bibbia riguardasse unicamente la religione del popolo ebraico, Uemura affermava che la Bibbia era invece quella linfa vitale che aveva alimentato il Cristianesimo lungo tutta la sua lunga storia. La teologia cristiana è quella scienza che spiega la rivelazione di Dio ed è basata sui fatti storici raccolti nella Bibbia. La critica biblica, inoltre, chiarisce la natura storica della rivelazione. E se Kanamori, rifacendosi allo studio delle religioni comparate, era convinto che il Cristianesimo dovesse essere considerato come una religione tra le altre, Uemura, citando quegli stessi studi, era invece persuaso che non solo ci fossero delle differenze tra una religione e un’altra, ma anche che le altre religioni sarebbero diventate perfette solo nel momento in cui avessero raggiunto il livello del Cristianesimo. Uemura affermò quindi che Kanamori aveva abbandonato il Cristianesimo evangelico in favore di un vago teismo etico incapace di generare nobili sentimenti religiosi o di alimentare l’amore per Dio.

Poiché questa risposta di Kanamori alle critiche di Uemura non fu resa pubblica, non dette vita ad alcuna disputa teologica. Con ogni probabilità Uemura non riusciva a comprendere il motivo per cui Kanamori, accogliendo la Nuova Teologia, rigettasse la natura evangelica della Chiesa. Convinto del solido fondamento su cui poggiva la Chiesa giapponese, era convinto che il futuro sarebbe apparso luminoso, solo se ci si fosse adoperati a elaborare e approfondire gli indirizzi e le tendenze teologiche del momento. Secondo Uemura, Kanamori era una persona che aveva accettato strane idee provenienti da teologie straniere. Ora, se i problemi riguardanti 1) la rivendicazione assoluta del Cri-stianesimo sollevata dalla Religionsgeschichtliche Schule e 2) i rapporti tra la fede evan-gelica e i risultati della critica biblica si sarebbero dovuti affrontare nella maniera posta da Uemura, rimane ancora un problema aperto.

La controversia teologica tra Ebina e Uemura

Fin dall’inizio i cristiani giapponesi praticarono tra di loro una certa solidarietà e collabo-razione. A partire dal 1878 il raduno del National Christian Laymen’s Fellowship si tenne regolarmente ogni due anni. Nel 1885 esso venne riorganizzato come Japan Christian Alliance e in seguito, quando si unì al World Evangelical Alliance, prese il nome di Japan Evangelical Alliance. Negli anni 1901–1902, in risposta al Twentieth Century Forward Movement delle Chiese anglo-americane, l’Alleanza organizzò e condusse un’evangeliz-

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zazione di massa. Questo evangelismo sistematico praticato su larga scala ebbe inizio da un certo revivalismo scaturito nei vari incontri che si tennero a Tōkyō. Tuttavia le diverse interpretazioni religiose offerte dai vari predicatori crearono un certo malumore tra i partecipanti.

Masahisa Uemura, aprendo il dibattito, affermò che la Evangelical Alliance era un’or-ganizzazoine dedita alla cooperazione tra le Chiese, non all’evangelicalismo, e non c’era quindi da stupirsi se in questi incontri i predicatori esponevano idee così diverse tra loro. Se, egli disse, l’Alliance voleva davvero dedicarsi all’evangelicalismo, avrebbe dovuto chiarire il problema della conoscenza fondamentale dei princìpi di fede. Nel suo articolo, Uemura menzionò il nome di Ebina, criticando così la sua posizione. Ciò portò a una controversia tra i due che si protrasse, tra il 1901 e 1902, per ben cinque mesi

A differenza del dibattito che ebbe luogo tra Kanamori e Uemura, questa controversia verteva direttamente su questioni dottrinali, quali la relazione tra Dio e Cristo e l’Incar-nazione. Ebbe quindi un’importanza notevole per la definizione dei fondamenti di fede della Chiesa. In questo periodo le Chiese stavano assumendo una natura più specificata-mente confessionale e i membri appartenevano per la maggior parte alla classe media, la quale stava aumentando di numero grazie al dilagare del capitalismo. Poiché i programmi evangelici erano pianificati dalle singole denominazioni in stretta collaborazione tra loro, questa controversia fu provvidenziale per determinare il contenuto di ciò che si sarebbe dovuto annunciare alla popolazione. Non ci occuperemo qui dello svolgersi della contro-versia, ma ci limiteremo a illustrare le versioni di ciascun contendente, a partire da quelle di Ebina.

Ebina non aveva intenzione di negare la divinità di Cristo o la Trinità. “Credo”, disse, “nella divinità di Cristo e nella divinità dello Spirito Santo, e sono anche convinto che la dottrina della Trinità contenga una verità profondamente religiosa”. Tuttavia, era contra-rio alla prospettiva di Uemura, il quale aderiva ai princìpi di fede storicamente trasmessi dalla Chiesa, assumendoli come criteri ancora validi per risolvere le problematiche odierne. Era convito che “l’essenza del Cristianesimo non è un credo dottrinale, ma la vita di Cristo” (L’essenza del Cristianesimo, 1903). Gesù e gli apostoli non predicarono dottrine come quella della Trinità, le quali vengono usate come criteri di giudizio per vagliare la fede o meno degli individui. La dottrina della Trinità e quella dell’Incarnazione del Logos non sono altro che interpretazioni della coscienza religiosa dei cristiani del mondo antico. Nessuno può trasformare le loro affermazioni in una verità eterna e immutabile.

Come abbiamo già visto, Ebina interpretava il rapporto tra Dio e l’uomo nei termini dell’etica confuciana del rapporto tra il padre e il figlio, un rapporto che era parte inte-grante della sua visione religiosa. A partire da questa sua comprensione, argomentava nel modo seguente:

La ragione per cui Cristo era consapevole che la sua relazione con Dio era una relazione etica padre-figlio, risiedeva nel fatto che nella sua persona vi era una

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relazione padre-figlio ontologica. Il motivo per cui in Cristo era presente una sostanza etica padre-figlio consiste nel fatto che nella sua persona c’era qualcosa di simile alla ousia divina. Non vi è alcun dubbio a riguardo. (…) Devo quindi riconoscere in Cristo la sostanza del Padre celeste. E questo, perché egli è il Figlio di Dio, il quale possiede davvero la sostanza di Dio. Cristo ha due aspetti. È uomo nei confronti di Dio, e Dio nei confronti dell’uomo. Possedere questi due aspetti significa possedere la sostanza del vero Uomo-Dio.

Se ci si ferma ad analizzare solo questa frase, sembrerebbe che la visione di Ebina fosse molto vicina a quella del Simbolo niceno, il quale afferma che Cristo è della stessa sostanza (homoousios) del Padre, e alla definizione di Calcedonia, che insiste sulla natura umana e divina di Gesù Cristo. Ma non è così. Egli è in disaccordo con Uemura che considera Cristo come Dio affermando che “Cristo è Dio-uomo”. Se Dio si è fatto uomo, allora Dio non è più Dio. Cristo non può quindi essere Dio. Se si ritiene che Cristo, in quanto Figlio, sia allo stesso tempo Dio, ciò conduce a un triteismo formato da Dio-Padre, Dio-Figlio e Dio-Spirito Santo. Ebina non poteva quindi accettare la dottrina della Trinità, e neppure la persona di Cristo, la quale è contemporaneamente Dio e uomo.

Come mai Ebina era giunto a questa posizione? La ragione, come abbiamo detto, risiede nel fatto che la sua analisi prendeva avvio dalla sua personale esperienza religiosa. A partire dalla sua agonia spirituale, e convinto che agli occhi di Dio fosse un individuo gravato dal peccato, egli divenne consapevole di far parte della relazione padre-figlio con Dio. Ed era convinto che tutti condividessero questa sua consapevolezza. Cristo era per lui una persona con dei forti sentimenti religiosi che gradualmente era giunto a questa consapevolezza religiosa e che era vissuto in unione con Dio. “Se si considera la persona di Cristo come colui che rappresenta il bene sommo per l’umanità, allora è evidente che egli è anche Dio”. Ciò che qui è importante notare è che Ebina considerava Gesù Cristo come “il bene sommo per l’umanità”. In questo senso Gesù era soltanto un uomo. Come ebbe a dire in seguito: “La differenza tra Cristo e noi non è di sostanza, ma di grado di sviluppo”. Poiché Gesù realizzò compiutamente il rapporto padre-figlio con Dio, egli divenne Cristo e Dio. La visione di Ebina è quindi vicina a quella dell’adozionismo, secondo la quale Gesù è un semplice uomo, ma diventa Figlio di Dio mediante il potere di Dio (dinamismo). Egli si sentiva quindi incapace di accettare la posizione di Uemura, secondo il quale “Dio divenne uomo e discese dal cielo”.

In tal senso, le idee di Ebina non seguono l’insegnamento tradizionale del Cristiane-simo, secondo il quale Gesù è l’ultima e definitiva rivelazione di Dio. Questo perché la teologia di Ebina era fortemente influenzata dalla mentalità confuciana. Nel Confucia-nesimo la logica, che identifica Shanti (Dio) con la natura, è connessa all’etica umana, e questo tipo di naturalismo è molto radicato nel pensiero di Ebina. Egli considera il rap-porto padre-figlio come un universale che esiste al modo di una consapevolezza religiosa che lega Dio, Gesù Cristo e l’uomo. Pertanto, la rivelazione di Dio nella storia attraverso la figura di Cristo perde la sua caratteristica di unicità e diviene invece un modello per

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l’umanità in generale. Gesù Cristo non è Dio, ma rappresenta la forma più alta dell’uomo religioso. Tuttavia, Cristo acquistò una sempre maggior consapevolezza umana nei con-fronti della via di Dio, che è universale, raggiungendo così l’unione con Dio. Questi sono i problemi che sorgono quando si tenta di elaborare una teologia cristiana in Asia o di sviluppare un pensiero teologico giapponese.

Uemura, anche se provava grade stima di Ebina come persona, tuttavia ne criticò con fermezza le posizioni. La sua replica era la seguente. Per Ebina, e a partire dalla sua espe-rienza personale, il Cristianesimo è la forma più alta della consapevolezza del rapporto padre-figlio. Ne consegue che la relazione tra Cristo e Ebina diventa simile a quella tra una persona più anziana e una più giovane, e Cristo non può più dunque essere conside-rato il Salvatore che redime i peccati dell’umanità. Ebina afferma che Dio manifesta il suo amore in Cristo e che l’uomo, in Cristo, giunge a conoscere l’amore di Dio. Questo amore appare nell’azione redentiva di Cristo, che offrì se stesso sacrificandosi sulla croce. Questo atto di Cristo è un atto di Dio. Perciò si conosce l’amore di Dio solo se si riconosce che Cristo è Dio. Ebina, tuttavia, sostiene che ogni uomo possiede in sé qualcosa di divino, e quindi anche Cristo condivide questa divinità. Sebbene Ebina affermi che l’amore di Dio si manifesta in Cristo, la sua visione di Dio e dell’uomo si fonda su un ambiguo argo-mento panteistico. Uemura continua dicendo:

Il signor Ebina non crede nella divinità di Cristo. Il suo Cristianesimo non ritiene che Cristo sia Dio e non lo venera come tale. Noi crediamo che Cristo è Dio. Cristo è Dio che è diventato uomo. Crediamo nell’immanenza e nella onni-presenza di Cristo. Adoriamo Cristo e lo veneriamo. Il signor Ebina con-sidera Cristo solo come un maestro. Così è anche per noi, ma crediamo anche che lui è il Salvatore.

Uemura aveva buoni motivi per credere nella redenzione di Cristo. In precedenza aveva scritto un libro dal titolo Un’esposizione della verità (1884) nel quale sosteneva che l’uomo possiede in sé un senso religioso che lo porta a cercare Dio, che governa e regna su ogni cosa, e a porsi in relazione con Lui. Grazie a questo senso religioso, gli uomini provano il desiderio di elevarsi verso Dio. Tuttavia, tanto più l’uomo tenta di raggiungere quello stato, tanto più la sua esperienza lo conduce a riconoscersi peccatore. Il peccato possiede un potere irresistibile che distoglie gli uomini dal loro obiettivo e li separa da Dio. Ecco perché hanno bisogno di essere perdonati dai loro peccati mediante la croce di Cristo e la grazia di Dio. In questo modo l’umanità è in grado di stabilire una relazione con Dio e di compiere la Sua volontà.

Uemura espresse le sue convinzioni nelle seguenti parole: “Crediamo che Dio è diven-tato uomo. È venuto in questo mondo, morì sulla croce e riscattò l’uomo dal peccato. E crediamo che Gesù Cristo è l’unico Figlio del Dio vivente, che presta attenzione alle pre-ghiere e alle suppliche dell’umanità”. Questa fede è la fede storica della Chiesa, professata

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lungo i secoli da tutti i cristiani. Tuttavia, il pensiero di Ebina non è conforme a questa fede. Secondo Uemura, se si comprendono correttamente le parole di Gesù riportate dai Vangeli e testimoniate dagli apostoli, i primi cristiani credevano che Cristo era Dio e lo veneravano come tale. Le prime dottrine cristiane riguardanti il Logos e l’Incarnazione nacquero spontaneamente da questa fede, e non dalle disquisizioni speculative dei primi cristiani.

Dopo aver criticato il pensiero di Ebina, Uemura scrisse nella sua rivista settimanale Novità evangeliche una serie di quattordici articoli dal titolo “Cristo e le sue opere”, per presentare le sue idee in maniera costruttiva. “Il Cristianesimo è Cristo. La cosa più importante di Lui è la sua divinità e la sua incarnazione”. Così dicendo, egli intedeva insistere sull’importanza di presentare in modo chiaro la persona e l’opera di Cristo. Cercò poi di dimostrare che gli apostoli onoravano e adoravano Cristo in quanto Dio, basando le sue argomentazioni sul Nuovo Testamento, specialmente sulle lettere paoline e giovannee e sulla Lettera agli Ebrei. Secondo Uemura, la loro fede si basava sulla divinità di Gesù, sull’assenza in lui di qualsiasi peccato, e sulla natura soprannaturale della sua risurrezione. Uemura si dimostrava così molto cauto nell’utilizzare le varie vite di Gesù scritte da teologi liberali come David F. Strauss, Alois E. Biedermann e Adolf von Har-nack. Tuttavia, secondo Yoshitaka Kumano, gli argomenti addotti da Uemura non devono essere considerati come degli studi accademici, quanto piuttosto come “un’apologetica di carattere edificante”. E se si considera la situazione in cui si trovava al tempo la Chiesa giapponese, la valutazione di Kumano pare essere pertinente e ragionevole.

Per esempio, Uemura afferma che Paolo ha reso Cristo “inferiore a Dio”. Rifacendosi alla Prima lettera di san Paolo ai Corinzi, nella quale Paolo scrive “capo della moglie è l’uomo, e capo di Cristo è Dio”3, Uemura prosegue affermando:

Sebbene l’uomo e la donna sono della stessa specie, esiste una distinzione tra loro, e il loro modo d’essere non è lo stesso. Tra gli esseri umani, che sono uguali per natura, vi è una relazione di subordinazione. Ciò è vero anche della relazione tra Cristo e Dio. Malgrado Cristo possegga una natura divina, e sia uno con il Padre, egli deve essere subordinato al Padre perché è Figlio. Il Figlio rispetta, serve e segue Dio Padre mostrandogli pietà filiale.

Con queste parole Uemura intede chiarire l’idea che Cristo deve essere servito in quanto Signore, ma, allo stesso tempo, Cristo deve a sua volta servire in quanto servo. Tutto ciò non presenta alcuna difficoltà. Tuttavia, quando Uemura interpreta la relazione tra Dio e Cristo nei termini della relazione tra l’uomo e la donna, così come essa è presente nella teologia di Paolo e anche, in mondo analogo, nella pietà filiale confuciana, ciò la rende molto simile al “subordinazionismo” di stampo origenista che fu condannato dal

3. [1Cor 11,3. Ndt].

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Concilio di Nicea (325 d.C.). Eppure, Uemura afferma che la cristologia degli apostoli è riassunta nel Credo di Nicea. Nel 1904 fonda la Scuola Teologica di Tōkyō, di cui rimase presidente fino alla morte. Nelle sue lezioni di teologia sistematica, che furono pubblicate in serie su Novità evangeliche (8 maggio 1926 – 4 agosto 1927), egli usa espressioni del tipo “la via della pietà filiale” e “subordinazione”.

Come abbiamo visto, le idee di Ebina e Uemura erano in netto contrasto tra loro. Rife-rendosi alla posizione di Ebina sulla Trinità, Uemura disse che Ebina non era in grado di comprendere la salvezza di Cristo perché non aveva sufficientemente colto il problema del peccato. Per tutta risposta, Ebina parlò della sua esperienza religiosa, affermando che il fondamento del peccato risiede nell’egoismo. La salvezza di Cristo consiste nel passare dall’ego-centrismo al teo-centrismo attraverso la croce di Cristo. La causa delle loro posi-zioni divergenti risiede nella metodologia impiegata dalle loro rispettive teologie. Ebina comprendeva la sua esperienza religiosa nei termini della logica confuciana e interpre-tava la Bibbia e le altre varie dottrine a partire da quella sua precomprensione soggettiva. Uemura, invece, subordinava la sua esperienza alla tradizione evangelica ed elaborava le sue idee in maniera oggettiva, fondandole sulla Bibbia. A causa di queste differenze, le loro idee non poterono essere armonizzate. Ciascuno insistette nel mantenere le proprie opinioni e ad attaccare quelle dell’altro.

Una delle decisioni prese dalla Conferenza dell’Alleanza Evangelica svoltasi nel 1902 in merito a questa controversia ebbe delle conseguenze spiacevoli. La conferenza definì l’evangelicalismo come quella fede in Gesù Cristo che, in quanto Dio, si è fatto uomo per redimere l’umanità. Ciò significava che venivano accolte le idee di Uemura. Tuttavia, ben presto sorsero delle perplessità circa il ruolo dell’Alleanza Evangelica e il credo della Chiesa. La decisione della conferenza fu raggiunta in violazione delle sue stesse regole e attraverso subdole manovre politiche. Scoppiarono disordini e trambusti e coloro che erano stati eletti presidente e vice-presidente dell’Alleanza si rifiutarono di assumere l’in-carico. Quando nel 1912 l’Alleanza Evangelica fu sciolta per formare la Federazione delle Chiese, nella nuova costituzione non fu inclusa alcuna definizione di evangelicalismo.

La teologia di Hiromichi Kozaki

Come abbiamo già notato, Hiromichi Kozaki aveva accolto il Cristianesimo come reli-gione della rivelazione, la quale trascendeva la ragione confuciana. Poiché considerava il Confucianesimo come via preparatoria al Cristianesimo, e il Cristianesimo come la perfezione e il compimento del Confucianesimo, la sua comprensione del Cristianesimo era fortemente influenzata dal pensiero confuciano. La sua visione sul rapporto tra la teoria evoluzionistica e il Cristianesimo era anch’essa condizionata da questa prospettiva.

Nei primi anni del Giappone moderno la teoria evoluzionista ebbe un forte impatto sulla teoria politica e sul Cristianesimo. Kozaki venne a conoscenza dei problemi riguar-danti questa teoria alla Dōshisha, in primo luogo da John T. Gulick, un missionario

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dell’American Board e, in secondo luogo, da Henry Faulds, un missionario presbiteriano scozzese, mentre Kozaki stava svolgendo la sua attività evangelica a Tōkyō. Egli giunse alla conclusione che quella teoria non contraddicesse la Bibbia e che, al contrario, la teoria teistica dell’evoluzione fosse in armonia con l’insegnamento della Sacra Scrittura.

Kozaki continuò a seguire con attenzione questa tematica. Nel suo articolo “La teoria evoluzionistica e il Cristianesimo” (1903) sostenne che il problema non riguardava tanto il modo in cui armonizzare l’evoluzionismo e il teismo, bensì come accomodare la logica dell’evoluzione al Cristianesimo. La logica evoluzionistica era da lui intesa come una spe-cie di parabola del paradiso, cioè come una crescita che portava dal seme al frutto. Nel mondo attuale questa logica ben si combinava con lo sviluppo uomano e con il progresso storico, formando così una completa visione di mondo. Ecco perché, come egli sosteneva, la nostra visione di mondo non corrisponde più a una prospettiva statica, bensì a una visione dinamica della realtà. Nel passato l’universo era ritenuto una realtà inanimata che obbediva alla legge naturale impostagli da Dio. Ora, invece, l’universo deve essere inteso come una realtà vivente nella quale Dio non solo è immanente, ma continua anche a seguirne gli sviluppi. Grazie all’immanenza di Dio e all’orientamento che imprime alla realtà, le attività umane come la politica, l’economia e la cultura, assumono un significato religioso. Kozaki era del parere che la logica evoluzionistica potesse essere applicata anche alla dottrina dello Spirito Santo. Poiché la Chiesa era stata fondata dalla discesa dello Spi-rito Santo e ne era arricchita dalla sua grazia, lo Spirito Santo non trascende la Chiesa, ma la guida dall’interno. In questo modo, la nostra esperienza di fede si intensifica sempre più, e la nostra vita religiosa ne risulta stimolata.

Appare quindi evidente come non solo il pensiero evoluzionistico di Kozaki modelli la sua comprensione della dottrina cristiana ma anche, e in secondo luogo, come le intui-zioni razionali dell’umanità vengano a essere interpretate a partire dalla sua fede cristiana nell’opera di Dio e dello Spirito Santo. Per Kozaki fede e ragione non sono in conflitto tra loro, bensì sono interdipendenti, e l’esito di questa relazione è da lui chiamato “ragione santificata dallo Spirito Santo”.

Ora, e a partire da questa sua peculiare prospettiva di fede, a che tipo di teologia conduce questa “ragione santificata dallo Spirito Santo”? Kozaki fu sempre molto critico nei riguardi della teoria dell’infallibilità della Bibbia. Nel 1889 la Dōshisha organizzò la prima scuola estiva per studenti, giovani e leader religiosi provenienti da tutto il Giap-pone. Kozaki tenne una conferenza dal titolo “L’ispirazione biblica” ed elaborò le sue idee rifacendosi alle posizioni di George T. Ladd, della Yale University, e di Joseph H. Thayer, della Harvard University. Secondo Kozaki, dire che la Bibbia è ispirata da Dio non signi-fica affermare che le sue parole siano letteralmente infallibili. L’ispirazione biblica indica soltanto che essa fu scritta sotto la guida dello Spirito Santo. “L’‘ispirazione’ della Bibbia rimanda all’influsso dello Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio non agisce sulle cose, ma sugli esseri umani, non sulle parole, ma sul cuore, non dall’esterno ma dall’interno”. Pertanto, noi non dobbiamo interessarci della personalità degli scrittori della Bibbia o dei loro

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metodi di scrittura. Dobbiamo invece comprendere l’importanza dei fatti registrati nella Bibbia, e cioè che “Il Figlio di Dio divenne uomo e visse in mezzo a noi, e fu poi crocifisso per l’umanità. Questa è la grande gioia che riguarda ogni uomo”.

Come Kozaki ebbe modo di dire in seguito, fu durante questo periodo che egli ebbe modo di iniziare a riflettere sulla sua “ragione santificata dallo Spirito Santo”. La relazione tenuta alla scuola estiva dimostra chiaramente che egli aveva formulato questa idea men-tre stava elaborando le proprie opinioni sulla Bibbia. Tuttavia, nella relazione non spiega in maniera esauriente a che cosa intendesse riferirsi con questa espressione.

Kozaki si interessò molto alla controversia tra Ebina e Uemura. Nel 1902 scrisse per il Tōkyō Weekly News, di cui era l’editore, il saggio “Una lettura della prospettiva trinitaria di Ebina”. In questo scritto sostiene che il problema cristologico rappresenta per la Chiesa una questione cruciale, e prosegue criticando le idee di Ebina non solo perché non erano in sintonia con l’essenza del Cristianesimo, ma anche perché avrebbero ostacolato la cre-scita della Chiesa giapponese. Mise inoltre in dubbio l’affermazione di Ebina secondo la quale il suo pensiero scaturiva da una propria consapevolezza religiosa di Gesù, mentre i Padri della Chiesa, dal secondo secolo in poi, davano rilievo alla dottrina della Trinità. Quest’ultima era un’idea dedotta dal concetto greco di Logos, il quale, secondo Ebina, non aveva nulla a che vedere con la consapevolezza religiosa di Gesù. Kozaki sostenne, invece, che i princìpi del Cristianesimo e la dottrina della Trinità elaborata dalla Chiesa primitiva, erano già presenti nei Vangeli e nelle Lettere grazie all’immanenza dello Spirito Santo che guidava la Chiesa, e che solo in seguito furono accolti come dogmi. In questo senso, affermava Kozaki, questi dogmi sono il risultato della “ragione santificata dallo Spirito Santo”. Formulando questi dogmi, i Padri della Chiesa interpretarono in maniera ellenica la tradizione apostolica che si riferiva a Gesù. Kozaki cercò quindi di trovare, a modo suo, il vero rapporto tra ragione e fede.

Nel 1911 pubblicò il libro L’essenza del Cristianesimo. Quest’opera, senza dubbio la più originale tra quelle da lui scritte e che presenta un compendio delle sue più recenti idee, aveva anche lo scopo di difendere l’evangelicalismo dagli attacchi della Nuova Teologia. I problemi che dividevano i cristiani giapponesi, quali la relazione tra il Cristianesimo e la scienza, il rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, l’infallibilità della Bibbia, la cristologia e la redenzione, erano sorti perché non si era ancora chiarito a sufficienza quale fosse l’essenza del Cristianesimo. La posizione di Kozaki era invece chiarissima. Secondo lui, ciò che rende il Cristianesimo incomparabile è la fede in Cristo, la quale è stata costantemente sostenuta dalla Bibbia e riaffermata lungo tutta la storia della Chiesa. Perciò la Nuova Teologia, nel ritenere che l’uomo dovesse credere in Dio così come lo stesso Gesù aveva creduto in Dio, non coglieva affatto l’essenza del Cristianesimo.

A riprova di questo fatto, Kozaki affrontò il tema delle origini del Cristianesimo, con-centrandosi soprattutto sulla problematica “Gesù o Paolo” sollevata da William Wrede e da altri pensatori. La Nuova Teologia insisteva sul fatto che la teologia paolina, ponendo Gesù come oggetto di fede, non aveva nulla a che vedere con gli insegnamenti di Gesù. I

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suoi sostenitori, perciò, invocavano un ritorno a Gesù e un abbandono di Paolo. Kozaki era invece convinto che la teologia paolina rappresentasse uno sviluppo naturale del van-gelo proclamato da Gesù. Ciò ben riflette la sua visione secondo la quale il Cristianesimo, sotto la guida dello Spirito Santo, era in grado di evolversi lungo la direzione a esso più propria.

Kozaki, seguendo il pensiero di Peter T. Forsyth, divideva gli orientamenti religiosi del momento in due gruppi: da una parte quello che credeva in Gesù, e dall’altra quello che credeva in Dio (come Gesù aveva fatto). La differenza tra le due posizioni scaturiva da due diverse concezioni riguardanti il peccato, le quali a loro volta riflettevano altrettante idee su Dio. La Nuova Teologia, che si fondava su un panteismo immanentistico e che sosteneva una visione ottimistica dell’uomo, non era ben accetta da coloro che si erano sottoposti a un doloroso esame di coscienza di fronte a Dio. Una seconda distinzione derivava dalle diverse enfasi poste dai due gruppi. Il primo gruppo ribadiva la necessità di una drammatica svolta penitenziale e sul bisogno di iniziare un nuovo cammino esisten-ziale; il secondo gruppo insisteva invece sulla necessità di sviluppare l’autoconsapevolezza e dar vita a una più profonda attività conoscitiva. Quest’ultima posizione era sostenuta dalla Nuova Teologia, ed era molto simile sia a quella del risveglio buddhista (kenshō) sia a quella della conoscenza suprema confuciana (kakubutsu chishi). Un’ulteriore distin-zione indicata da Kozaki riguardava la differenza tra fede e conoscenza, oltre che tra l’au-tosalvezza umana e la salvezza proveniente da Dio. Egli, inoltre, cercò di provare gli errori della Nuova Teologia rifacendosi alla storia della Chiesa. Nella storia recente, movimenti come il socinianesimo, l’unitarianismo e il congregazionalismo americano che avevano abbracciato le idee della teologia liberale e che godevano della popolarità del momento grazie alla novità delle loro proposte, erano soggette a una costante diminuzione del numero dei loro membri. Al contrario, quelle confessioni che avevano mantenuto salde le loro idee ortodosse — idee che a taluni apparivano di strette vedute e che sembravano essere contraddette dalle moderne teorie accademiche, oltre che dal senso comune — avevano invece visto aumentare il numero dei loro sostenitori. Ciò era dovuto al fatto che queste ultime confessioni erano ben radicate nell’evangelicanismo e svolgevano con grande efficacia numerose attività evangeliche.

Malgrado Kozaki criticasse la Nuova Teologia, ammirava però lo spirito di ricerca libero e intraprendente dei suoi simpatizzanti. Egli descrisse la propria posizione come quella di un “evangelicalismo progressivo”, definendolo nel modo seguente:

Ciò che chiamo “evangelicalismo progressivo” è il cosiddetto Cristianesimo moderno, che si avvale dei liberi studi e accetta — nell’affrontare i problemi religiosi — l’applicazione del pensiero scientifico moderno e i princìpi dello storicismo. Non mi differenzio dagli altri studiosi della Nuova Teologia per l’e-laborazione e la direzione della propria fede e del proprio pensiero, ma solo per i risultati a cui approdo. Non credo in Dio, in Cristo e nella sua redenzione a

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motivo dell’ineffabilità della Bibbia. Sono giunto a questa conclusione studiando la Bibbia e la storia del Cristianesimo in maniera obiettiva, e diventando allo stesso tempo consapevole della mia fede.

La Nuova Teologia fondava la comprensione del Cristianesimo sulla ragione umana, fino quasi a escludere la rivelazione. Kozaki, invece, malgrado confidasse nella ragione umana, era però convinto che il criterio ultimo del Cristianesimo fosse quella ragione umana che accogliesse la rivelazione; in altre parole, la “ragione santificata dallo Spirito Santo” — o la testimonianza di coloro che avevano avuto un’esperienza di fede salfivica mediante il vangelo.

Che valore può dunque essere dato alla posizione di Kozaki? Egli visse in un periodo dominato dal conflitto teologico tra il liberalismo e il fondamentalismo, e fu circondato dai sostenitori e dai simpatizzanti della Nuova Teologia. Scegliendo una via di mezzo, rifiutò sia l’infallibilità della Bibbia sia l’interpretazione razionale della Bibbia. Sostenne quel tipo di evangelicalismo che riponeva la sua fede in Gesù Cristo e nella sua salvezza, trascendendo il conflitto tra liberalismo e fondamentalismo. Presentò questa sua posi-zione come l’essenza del Cristianesimo, un’essenza che poteva essere scoperta nella Bibbia e lungo tutta la storia della Chiesa e che, allo stesso tempo, utilizzava nuove forme di pensiero e faceva largo uso delle moderne discipline accademiche.

Fino a che punto Kozaki riuscì in questa sua impresa? Come dimostra la citazione appena riportata, Kozaki affermò di aver utilizzato i risultati offertogli dalla storiografia moderna. Tuttavia, possiamo legittimamente chiederci in che misura gli esiti della critica storica dei Vangeli trovino riscontro nella sua interpretazione biblica riguardante il pro-blema del Gesù storico e del Gesù della fede. Le sue conclusioni si fondavano perlopiù sul senso comune. Egli affermava che il liberalismo doveva essere nell’errore perché i suoi sostenitori stavano calando di numero, mentre i simpatizzanti dell’ortodossia stavano crescendo. Ma questo non è certo un argomento plausibile. Il problema della verità o della falsità delle cose non può essere giudicato in questo modo. Inoltre, se si sostiene, come fece Kozaki, che la “ragione santificata dallo Spirito Santo” è il criterio ultimo di verità, allora la Bibbia e la tradizione storica della Chiesa hanno pari importanza, e non vi è alcuna distinzione tra la Bibbia e i vari credo elaborati storicamente.

In nome di quel suo evangelicalismo progressivo, Kozaki introdusse idee confuciane all’interno dell’area di governo e la teoria evoluzionista nel Cristianesimo. Di conseguenza, la tensione sempre implicita nel rapporto tra ragione e rivelazione venne gradualmente a sfumare, dando luogo a una felice combinazione tra le due. Questo è il motivo per cui la teologia di Kozaki non riuscì a fornire una valida prospettiva mediante la quale criticare il comportamento dello stato imperiale del Giappone moderno.

Il concetto di Non-Chiesa (Mu-kyōkai) di Kanzō Uchimura

Quando nel 1888 Kanzō Uchimura ritornò dal suo periodo di studi in America, venne

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assunto come insegnante in diverse scuole cristiane, oltre che in un istituto statale, e prima di diventare un evangelico indipendente esercitò anche la professione di gior-nalista. I successivi quarant’anni della sua vita furono vissuti in uno stato di profonda inquietudine. La sua forte personalità e il suo zelo missionario lo portarono ben presto a scontrarsi con i violenti flutti del Giappone moderno.

Uchimura ricercava appassionatamente uno stile di vita in cui potesse credere in Cri-sto da persona giapponese e questo gli procurò, oltre a numerosi dissidi con i missionari, anche la sua estromissione dalle Chiese costituite. Nel 1900 tenne un incontro con coloro che condividevano le sue preoccupazioni e si mostravano vicini alle sue idee. I parteci-panti all’incontro, provenienti da varie zone del Paese, dettero poi a loro volta avvio a dei raduni nelle località in cui risiedevano. Per promuovere l’evangelismo e la comunione con queste persone, Uchimura iniziò a pubblicare una rivista mensile dal titolo Seisho no ken-kyū (Studi biblici), e tenne dei raduni domenicali presso la sua abitazione, dando anche delle conferenze. La comunità che sorse da questi incontri venne a essere considerata da Uchimura come la “Mu-kyōkai”, la “Non-Chiesa”. La diffusione della rivista aumentò sen-sibilmente, così come pure il numero dei partecipanti ai raduni, e i gruppi di studio ben presto si moltiplicarono. Dopo la sua morte, i suoi seguaci proseguirono il suo metodo di evangelismo e il Movimento della Non-Chiesa è tuttora attivo.

Nel 1949, al termine della seconda guerra mondiale, Emile Brunner si recò in Giappone e dal 1953 al 1955 fu visiting professor all’Università Internazionale Cristiana, dedicandosi all’evangelismo e all’insegnamento della teologia in varie località del Paese. Secondo Brunner, l’essenza della Chiesa consiste nella comunità di Cristo, che è un’as-sociazione di membri istituita dallo Spirito Santo. Tuttavia, nel corso della sua storia la Chiesa si è trasformata in un’istituzione legale a causa dell’evoluzione, del cambiamento o perfino del regresso dell’ecclesia neotestamentaria (Das Mißverständnis der Kirche, 1951). Brunner era chiaramente interessato al movimento della Non-Chiesa, che pareva soste-nere idee molto simili alle sue, e cercò di fungere da intermediario tra la Chiesa ufficiale e la Non-Chiesa. Al suo ritorno in Svizzera scrisse vari articoli di elogio nei confronti di Uchimura e del suo Movimento.

Nel 1979 Carlo Caldarola, uno studioso americano di sociologia della religione, pub-blicò un libro dal titolo Christianity: The Japanese Way, nel quale, dopo aver accostato le idee di Uchimura e degli altri leader della Non-Chiesa, e dopo aver analizzato la situa-zione giapponese da un punto di vista sociologico, giunse alla conclusione che la Non-Chiesa rappresentasse uno dei migliori esempi di indigenizzazione del Cristianesimo in Giappone. Poiché ora sono disponibili molti altri libri in inglese su Uchimura e le sue idee, il Movimento della Non-Chiesa è ben conosciuto in Occidente.

All’inzio della nostra trattazione si deve subito affermare che Uchimura non era affatto contrario all’idea di Chiesa e che non la osteggiò o considerò superflua. Di fatto, era convinto della validità di ciò che riteneva essere l’essenza della Chiesa, riconoscendone la

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necessità. Tuttavia, egli era convinto che la Chiesa attuale si fosse allontanata da quell’es-senza e che per opporsi a quel declino vi fosse bisogno della Non-Chiesa.

Nel suo articolo Ekklesia (in Studi biblici, 1910, n. 5), egli afferma che il significato originale del termine ekklesia si discosta da quello di kuriakon — vocabolo da cui deriva la parola “Chiesa” e il cui significato è quello di “casa di Dio”. Ekklesia significa invece “congregazione” o “raduno”. Secondo i Vangeli, Cristo desiderò “creare una particolare congregazione spirituale, fondata non sulla legge ma su quella fede basata sull’amore, la quale nasce dalla libera decisione di credere in Gesù Cristo”. Cristo non ha voluto “fon-dare la Chiesa basandosi sui modelli autoritari”, ma ha voluto creare una “comunità di fratelli basata sul modello familiare”. Egli prosegue affermando che

Nella cosiddetta Chiesa, vi sono vescovi, anziani, teologi, costituzioni e credi. È una specie di Governo o di partito politico che tenta di espandere il suo potere e salvare le persone non mediante la fede, ma grazie all’opinione pubblica. Seb-bene si chiami Chiesa, essa non è la Chiesa cosituita da Cristo. Diversamente da questa Chiesa, noi privilegiamo apertamente la Non-Chiesa (Studi biblici, 1921, n. 11).

Uchimura non sembra quindi opporsi per principio alle leggi o gli ordinamenti della Chiesa. Nel suo articolo Istituzioni e vita (in Studi biblici, 1916, n. 4) egli sostiene che la vita tracende le istituzioni perché essa non trae origine, né è vicolata, dalle leggi. A differenza delle istituzioni, la vita è dinamica e libera. Perciò coloro che considerano importanti le istituzioni, considerano la vita come un qualcosa di pericoloso. Al con-trario, coloro che alle istituzioni antepongono la vita e la fede, considerano le istituzioni come un prodotto della fede. Ebbene, sono proprio questi individui che generano la Non-Chiesa. In altre parole, Uchimura è convinto che le istituzioni, anche se il pensiero comune ritiene che derivino dalla fede, in realtà sono in conflitto con la vita e sono fonte di immobilismo. La comunità dei credenti in Cristo e la loro vita spirituale sono quindi in netto contrasto con la Chiesa istituzionale e con le sue strutture burocratiche. Perciò, fino a quando esisterà questo conflitto, è necessario che la Non-Chiesa continui ad essere fedele alla sua missione.

Ora, dato che la Non-Chiesa di Uchimura traeva la sua ragion d’essere a partire dalle particolari circostanze del tempo, anche i suoi obiettivi sarebbero potuti cambiare col mutare della situazione. E, di fatto, questo è proprio ciò che accadde — almeno per quanto riguarda le sue riflessioni sui sacramenti. Quando era studente a Sapporo, Uchi-mura aveva fondato la Sapporo Independent Church, e continuò a farne parte eccetto che per un breve periodo di tempo. Poiché tra i membri della Chiesa non c’era unanimità di consensi sulla questione riguardante l’abolizione del sacramento del battesimo e di quello della santa comunione, essi si rivolsero a Uchimura chiedendogli un parere. Egli espose le

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sue idee nell’articolo Sull’abolizione del battesimo e della santa comunione (in Studi biblici, 1901, n. 2), nel quale afferma:

L’amministrazione dei sacramenti può rivelarsi utile per alimentare la fede, ma nessuno può affermare che la partecipazione in essi sia essenziale per la salvezza. Non si è salvati per le opere (cioè per la partecipazione ai riti), ma per fede. Si deve ricevere il battesimo dello Spirito, non quello dell’acqua. Solo coloro che sono stati redenti da Cristo conoscono il significato dei sacramenti. Se mi fosse chiesto di scegliere tra la fede in Gesù Cristo e l’amministrazione dei sacramenti, sceglierei la prima. Per rendere ancor più evidente il potere dello Spirito mediante la fede, perché non abolite temporaneamente il battesimo e la santa comunione? La missione della Sapporo Indipendent Church è quella di proclamare il Vangelo.

Queste opinioni venivano espresse al tempo in cui Uchimura stava iniziando a promuo-vere i princìpi della Non-Chiesa. In quel periodo egli provava una particolare ostilità nei confronti dei sacramenti e dei rituali della Chiesa, a cui cercava di opporre la fede evan-gelica. Tuttavia, circa dieci anni dopo, egli scrisse Il battesimo e la santa comunione (in Studi biblici, 1912, n. 9), uno scritto redatto in occasione della morte per malattia della sua amata figlia Ruth. Poco prima di spirare e confidando sempre più in Dio, la figlia decise di ricevere la santa comunione assieme ai genitori. Uchimura descrisse questa scena in maniera molto commovente in Felice malattia (in Studi biblici, 1912, n. 2). L’articolo sui sacramenti pare essere stato stilato in ricordo della figlia.

Come aveva già scritto in precedenza, in questo articolo egli ribadisce l’idea che i sacramenti non posseggono alcun potere salvifico. Tuttavia, ora continua affermando che i sacramenti (sacramenta) sono segni (notae) di realtà sacre ed espressioni visibili dell’invisibile grazia di Dio. Il battesimo “è il segno della fede dei credenti nella morte e risurrezione di Cristo”, l’espressione di quella fede “rivoluzionaria” mediante la quale si muore al peccato per rinascere in Cristo. La santa comunione è il segno che ci ricorda della sofferenza di Cristo ed è un mezzo per accogliere in noi la sua vita spirituale — anche se la vita spirituale dei credenti non può trarre alcun sostentamento dal rito della santa comunione. La reale partecipazione alla santa comunione consiste invece nel leg-gere e meditare la Bibbia, la quale ci comunica la parola di Dio in spirito di pietà. Tuttavia, Uchimura sostiene che se si partecipa al rito della santa comunione con un atteggiamento di fede, allora la fede, la speranza e la carità — che per loro natura sono incomunicabili a parole — possono ora essere resi tangibili e reali. Uchimura si riferiva qui forse al rito della santa comunione celebrato sul letto di morte della figlia, e stava riflettendo sul con-cetto di sacramento come quel segno che trascende la contrapposizione tra fede e rito.

Proseguiamo ora prendendo in esame il ruolo che la Non-Chiesa ebbe nella rifles-sione e nella prassi di Uchimura. A questo riguardo possiamo accennare ad alcuni suoi

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articoli, il primo dei quali, frequentemente citato e che porta il titolo La concezione della Non-Chiesa (Non-Chiesa, 1901, n. 3), fu redatto verso il 1900, periodo in cui iniziava a esporre con maggior precisione i princìpi della Non-Chiesa. Egli descrive il concetto di Non-Chiesa in vari modi. Per esempio, afferma che la Non-Chiesa non ignora né cerca di soppiantare la Chiesa, ma è piuttosto una Chiesa per tutte quelle persone che sono prive di una Chiesa istituzionalizzata, come ad esempio coloro che sono senza denaro, senza genitori o una casa. La Non-Chiesa è l’autentica Chiesa. In paradiso non ci sono né clero né sacramenti. La Non-Chiesa è perciò la prefigurazione di quella comunità che verrà inaugurata dall’imminente venuta del regno di Dio. Tuttavia, finché rimaniamo in questo mondo, la presenza della Chiesa è assolutamente necessaria. Ed egli descrive l’immagine di questa Chiesa nei seguenti termini:

(La Chiesa) è l’universo creato da Dio. È la natura. Questa è la Chiesa dei credenti della Non-Chiesa in questo mondo. Il suo soffitto è il cielo limpido e intarsiato di stelle. Il suo pavimento sono i verdi prati. I sui tappeti sono i colorati fiori. I suoi strumenti musicali sono gli alberi di pino. I suoi musicisti sono gli uccelli della foresta. Il suo pulpito è la cima di una montagna e il suo predicatore è Dio stesso. Questa è la Chiesa che appartiene a noi, i credenti della Non-Chiesa. La Non-Chiesa è davvero una Chiesa. Solo coloro che non hanno una Chiesa, posseggono la Chiesa migliore.

Queste parole di Uchimura non descrivono affatto ciò a cui concretamente dovrebbe corrispondere la Non-Chiesa. Tuttavia, l’immagine di Chiesa che la Non-Chiesa ricerca, e il principio su cui questa Non-Chiesa si basa, sono chiari. La sua idea fondamentale è che la Non-Chiesa non è una realtà artificiale, bensì naturale. Questa idea riflette sorprendentemente una delle visioni sulla natura più care al Giappone. Fin dai tempi antichi, i giapponesi hanno infatti instaurato un rapporto molto intimo con la realtà naturale, convinti com’erano che la propria vita potesse dirsi appagata soltanto mediante il contatto con la natura. Se interpretata da questo punto di vista, la società umana è un universo caotico e insensato, colmo di meschinità e di artificiosità. Ecco perché una delle aspirazioni più profonde dei giapponesi è quella di riuscire a evadere da questo tipo di mondo, lasciandosi abbracciare dalla natura. La mentalità giapponese, perciò, distingue nettamente tra natura e artificiosità umana, e incoraggia stili di vita strettamente connessi all’ambiente naturale. Se si paragona un dipinto a olio a un disegno in bianco e nero, un giardino fiorito a un cortile spoglio, una casa imbiancata a una semplice costruzione in legno, allora ci si potrà subito rendere conto di quanto diversa sia la mentalità giapponese da quella occidentale.

In quanto giapponese, Uchimura era in perfetta sintonia con questa mentalità. Per lui le leggi, le istituzioni e le organizzazioni delle Chiese e delle confessioni occidentali risul-tavano artificiose e innaturali. La Chiesa di Dio e Cristo, così pensava, avrebbero dovuto

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essere molto più semplici, più puri e spontanei. Di fatto, queste idee erano strettamente connesse alla sua particolare interpretazione della Bibbia. Si rifiutava di considerare come criteri ermeneutici le dottrine e i credi tradizionali, interpretando invece la Bibbia a par-tire dalla sua mentalità giapponese. Uno degli esiti di questo su approccio fu appunto la sua idea di ekklesia descritta in precedenza. A questo proposito espresse il proprio disac-cordo nei confronti sia della Chiesa cattolica romana, sia delle confessioni protestanti con le seguenti parole:

Il Vangelo in cui credo è Gesù Cristo, e questi crocifisso. Mi indigno contro ogni dottrina, o insieme di dottrine, che trascendono o non annunciano questa che è la più semplice delle dottrine. Il Protestantesimo, come io lo comprendo, è Cri-sto versus l’ingenuità umana, la fede versus le Chiese. È la semplicità schierata contro la complessità, un organismo vivente contro delle morte organizzazioni (Protestantismo, 1916, n. 5).

Tutto ciò lo indusse ad affermare che, se la sua Non-Chiesa si fosse allontanata dai prin-cìpi professati dal Protestantesimo, egli l’avrebbe certamente contestata. Siamo qui in presenza di una magnifica ellisse di cui la fede cristiana e la coscienza giapponese rap-presentano i due assi.

Uchimura era convinto che un autentico cristianesimo giapponese sarebbe sorto solo quando un vero giapponese avesse creduto in Cristo. Un simile Cristianesimo non sarebbe stato né un’imitazione del Cristianesimo occidentale, né un Cristianesimo “giap-ponesizzato”. Allo stesso modo con cui il Cristianesimo aveva dato vita a una particolare tradizione occidentale, così il Cristianesimo che doveva nascere in Giappone avrebbe dovuto possedere una sua natura originale e indipendente. E questa nuova forma di Cri-stianesimo, credeva Uchimura, avrebbe potuto senz’altro essere quello professato dalla Non-Chiesa.

L’ultimo articolo di Uchimura, scritto nel 1930, fu pubblicato postumo. Ne riportiamo un estratto:

Il mio Non-chiesismo non era un “ismo” per amore degli “ismi”. Era un “ismo” di fede. Era una convinzione che nasceva dall’affermazione che non ci si salva per le opere, ma solo per fede. (…) Esso [il mio Non-chiesismo] non era un “ismo” per attaccare la Chiesa. Era un “ismo” per difendere la fede. La fede nella croce ha priorità su ogni cosa, e porta al Non-chiesismo. La croce è il primo “ismo”, e il Non-chiesismo il secondo o il terzo. La ragione per cui a volte attacco con fermezza la Chiesa è il fatto che ci sono delle persone la cui fede non rispec-chia la verità del Vangelo. (…) Per chiarire ulteriormente la mia posizione, affermo quanto segue: non mi ritengo parte di quel Non-chiesismo oggi così di moda. Non provo alcun desiderio di attaccare la debole Chiesa di oggi. Durante il breve tempo che mi resta proclamerò il vangelo della croce con voce ancora

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più ferma. Se necessario, questo Vangelo distruggerà la Chiesa e la ricostruirà. Non sono un Non-chiesista fino al punto da ritenermi indifferente ai problemi della Chiesa. Voglio essere un Non-chiesista che rigetta tutte le Chiese chiamate Chiese, e tutti gli “ismi” chiamati “ismi” (Opere complete, 32, pp. 347ss).

Uchimura scrisse queste parole in risposta alle idee di alcuni suoi discepoli, di cui Toraji Tsukamoto (1885–1973) era senz’altro uno di più attivi e intraprendenti. Per Tsukamoto la fede della Chiesa e la fede della Non-Chiesa erano incompatibili tra loro. Poiché, secondo Tsukamoto, la Chiesa insiste sul fatto che “se non si va in Chiesa non si può essere salvati”, allora la Non-Chiesa avrebbe dovuto sostenere l’idea opposta, e che cioè “c’è salvezza al di fuori della Chiesa”. Egli si spinse fino al punto di dichiarare:

Se la mia fede fosse erronea e la fede della Chiesa fosse corretta, se cioè fosse impossibile salvarsi mediante la sola fede, allora la mia salvezza sarebbe senza speranza, e svanirebbe ogni ragione della mia fede in Cristo.

Rispondendo a queste affermazioni, Uchimura suggerì a Tsukamoto di non considerare la Chiesa e la Non-Chiesa in termini esclusivisti, come un “o questa o quella”: è infatti necessario guidarle e dimostrarsi amichevoli nei confronti di entrambe. L’ultimo articolo di Uchimura fu scritto con l’intento di esprimere il suo profondo dissenso nei confronti delle opinioni di Tsukamoto, e per affermare che quelli di Tsukamoto non erano che degli “ismi” fini a se stessi, pronunciati al solo scopo di attaccare la Chiesa. Uchimura si dis-sociava da un simile Non-chiesimo, definendosi ancora una volta un evangelico indipen-dente. Ciò, ovviamente, non significava affatto che avesse abbandonato il Non-chiesimo, dato che era stata proprio la sua fede a spingerlo a elaborare il concetto di Non-Chiesa. Tuttavia, negli suoi ultimi anni affermò ripetutamente che uno dei problemi fondamen-tali della Chiesa era quello di sapere se la Chiesa attuale fosse fedele o meno alla Chiesa di Cristo. Di fatto, egli rimase un evangelico indipendente fino alla sua morte.

Il problema irrisolto che permane tutt’oggi è quello di sapere se Uchimura formulò la sua idea di Non-Chiesa su basi teologiche. Come abbiamo visto, egli distingueva chiara-mente tra la Chiesa come comunità di credenti e la Chiesa come istituzione, tra la fede evangelica e i riti. In altre parole, elaborò una doppia natura della Chiesa e utilizzò tutte queste sue distinzioni ponendole in contraddizione tra loro. Tuttavia, questa sua prospet-tiva non appare coerente con la posizione da lui adottata nei confronti dei sacramenti. Inoltre, egli introdusse alcuni aspetti del pensiero giapponese all’interno del suo concetto di Non-Chiesa, senza prima passarli al vaglio della riflessione teologica. In ultima analisi, il Non-chiesismo di Uchimura fu l’espressione di uno spirito critico rivolto alla Chiesa (e della Non-Chiesa) così come essa esisteva al tempo. Più di ogni altra cosa Uchimura desiderava essere un cristiano giapponese libero e originale.

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Toshio Satō

Indagine storica (1907–1945)

L’ascesa degli studi teologici

Dopo il 1907 gli studi teologici in Giappone iniziarono final-mente a essere intrapresi dagli stessi giapponesi. Lo stesso si può affermare di altre aree degli studi accademici. Prima di questo periodo, ad esempio, all’Università Imperiale di Tōkyō i corsi di filosofia erano tenuti principalmente da stranieri come Fenollosa, Cooper, Busse, Koebel e altri. Dopo il 1907, invece, i giapponesi iniziarono a svolgere un ruolo fondamentale nell’in-segnamento e a pubblicare dei propri lavori accademici. Dopo il 1907, inoltre, iniziarono a circolare opere teologiche scritte dai discepoli dei giovani membri della prima generazione (Kanzō Uchimura, Masahisa Uemura, Danjō Ebina e Hiromichi Kozaki). Alcuni esempi di questi lavori sono Una nuova interpretazione del Cristianesimo (1909) di Tokumaro Tominaga; Breve storia del Cristianesimo (1909) di En Kashiwai; Storia della Riforma (1909)

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di Tsutomu Murata; Grande dizionario del Cristianesimo (1911) di Mizutaro Takagi; e La teologia veterotestamentaria (1911) di Toshimichi Imai.

L’origine del Cristianesimo (1908) di Seiichi Hatano (1877–1950) rimane comunque l’opera più importante di questo periodo, perché rappresentò il punto di partenza per la pubblicazione di molti altri testi accademici che fecero la loro comparsa in quegli anni. Hatano aveva studiato all’Università Imperiale di Tōkyō (che era stata fondata nel 1877 come prima università statale, e che conservò il suo status fino al 1897), e fu battezzato da Masahisa Uemura. Profondamente influenzato da Raphael von Koeber, un intellettuale russo-tedesco, egli imparò l’approccio filologico ai classici della filosofia e la sua tesi di dottorato, Uno studio su Spinoza, fu scritta in tedesco. Alcuni anni prima aveva pubbli-cato la sua prima opera, Una sintesi storica della filosofia occidentale, la quale, sebbene fosse scritta da un giovane appena ventiquattrenne, rappresentava un risultato straordi-nario per quel mondo filosofico giapponese, al tempo ancora alquanto immaturo.

Nel 1904 Hatano si recò in Germania per due anni di studi. A Berlino seguì le lezioni di Otto Pfleiderer e di Adolf von Harnack; a Heidelberg, grazie all’aiuto di Wilhelm Win-delband, entrò in contatto con la filosofia della Badische Schule. In campo teologico si sentiva attratto dalle lezioni di Johannes Weiss, Ernst Troeltsch e Adolf Deissmann. Nel 1906, al suo ritorno in Giappone, venne assunto come docente associato dall’Università Imperiale di Tōkyō per tenere un insegnamento di Cristianesimo delle origini. Il suo volume L’origine del Cristianesimo, pubblicato due anni più tardi, si basava sulle lezioni da lui svolte in quell’Università. Nella Prefazione egli scrive:

Se oggi si intende studiare la storia del Cristianesimo, è necessario accostare il mondo accademico tedesco. È superfluo ricordare che debbo molto ai suoi grandi interpreti, in special modo a Bousset, Dobschütz, Harnack, H. J. Holtz-mann, Jülicher, Knobb, Pfleiderer, J. Weiss, Weizächer, Wernle, Wrede e Zahn.

Da queste parole traspare tutto il desiderio e l’entusiasmo con cui Hatano cercò di assor-bire e assimilare i risultati dell’erudizione tedesca. Sebbene si fosse lasciato ampiamente influenzare dalla Religionsgeschichtliche Schule, al tempo all’apice della sua fama, egli ebbe modo di imparare anche da altre scuole — come ben dimostra la lista dei nomi sopraindicati. L’origine del Cristianesimo è l’opera che compendia i suoi studi in Germania. È inoltre importante notare che Hatano non solo non era stato ordinato pastore, e che quindi era un laico, ma anche che egli non aveva studiato presso alcun istituto teologico. I suoi interessi accademici furono invece ispirati da un’università secolare, e i suoi studi cristiani erano legati alla sua attività di docente presso l’Università Imperiale di Tōkyō, un’università statale. Questo fu il modo con cui gli studi cristiani vennero a essere rico-nosciuti dal mondo accademico giapponese.

In seguito, molti altri studenti ebbero modo di incamminarsi sullo stesso percorso tracciato da Hatano, laureandosi all’Università di Tōkyō e intraprendendo studi accade-

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mici cristiani senza per questo frequentare una scuola teologica. Ancora oggi l’Università di Tōkyō (il nome adottato dall’Università Imperiale di Tōkyō dopo la seconda guerra mondiale), pur essendo priva di una sua Facoltà di Teologia, offre agli studenti la possi-blità di studiare alcune materie riguardanti il Cristianesimo, soprattutto lo studio filolo-gico e storico del Nuovo Testamento. Tuttavia, gli studenti devono dedicarsi allo studio del Cristianesimo scegliendolo tra le varie discipline accademiche offerte dall’università statale. Alcuni studenti più fortunati ebbero modo di recarsi in Germania per approfon-dire i loro studi.

Ken Ishihara (1882–1976) fu tra coloro che si specializzarono in Storia del Cristia-nesimo. Studiò filosofia all’Università Imperiale di Tōkyō e subì l’influsso di Hatano, che era più anziano di lui. In seguito, dopo aver studiato in Germania sotto la guida di Hans von Schubert, divenne professore di storia antica e medievale (oltre che di filosofia occidentale) all’Università Imperiale di Tōkyō. Si dedicò alla storia del Cristianesimo e del pensiero cristiano diventando il pioniere degli studi di storia cristiana in Giappone.

Shigehiko Satō (1887–1935), che fu battezzato da Danjō Ebina, studiò a Tōkyō e all’Uni-versità Imperiale di Kyōto. Mentre stava approfondendo i suoi studi a Tōkyō, ebbe modo di seguire le lezioni di Masahisa Uemura presso il Seminario Teologico di Tōkyō, fondato dallo stesso Uemura. In seguito si recò in Germania, studiando a Berlino e a Tubinga. Sotto la guida di Karl Holl si dedicò allo studio del pensiero di Lutero, di cui, dopo il suo rientro in Giappone, fu considerato un esperto.

Teruo Soyano (1889–1929) fu battezzato da Uemura e studiò filosofia all’Università Imperiale di Tōkyō. Dopo aver insegnato presso la Scuola Superiore di Fukuoka, una scuola specializzata in materie umanistiche, fu invitato da Tokutarō Takakura (il quale era succeduto a Uemura in qualità di presidente) a ricoprire l’insegnamento di filosofia e teologia al Seminario Teologico di Tōkyō. Soyano dedicò gli ultimi della sua breve vita allo studio del pensiero di sant’Agostino.

Seigo Yamaya (1889–1982) studiò all’Università Imperiale di Tōkyō e divenne un funzionario del Governo. Tuttavia, poiché desiderava approfondire lo studio del Cristia-nesimo (specialmente quello riguardante il Nuovo Testamento) decise di dedicarsi all’in-segnamento di giurisprudenza nelle scuole superiori e di intraprendere gli studi biblici da autodidatta. Dopo aver ottenuto il dottorato all’Università Imperiale di Kyōto grazie a uno studio su san Paolo, insegnò Cristianesimo delle origini nella stessa università.

Tutti e quattro questi intellettuali, così come accadde per Hatano, studiarono all’Uni-versità Imperiale di Tōkyō e nessuno di loro frequentò una scuola teologica con lo scopo di accedere al ministero pastorale. Anche se Sato e Yamaya furono in seguito ordinati pastori, Ishihara e Soyano rimasero nella loro condizione laicale. Mentre due di loro si recarono a studiare in Germania, molti altri intrapresero i loro studi da autodidatti. È interessante notare che ciascuno di loro, incluso Hatano, subì l’influsso di Uemura. Ciò sta a indicare che Uemura si dedicava non solo all’istruzione dei pastori, ma anche alla formazione di quegli studiosi che in seguito avrebbero intrapreso degli studi accademici

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sul Cristianesimo. Un altro elemento degno di nota è che attraverso questi intellettuali gli studi teologici tedeschi vennero introdotti nel mondo cristiano giapponese. Prima di allora, le Chiese protestanti giapponesi avevano assimilato la loro teologia principalmente dai missionari americani — eccezion fatta per il Cristianesimo liberale, che fu introdotto nel 1885 da Spinner, un missionario tedesco della Allgemeiner Evangelisch-Protestanti-scher Missionsverein.

L’introduzione del sapere tedesco, che certamente contribuì a elevare il livello degli studi teologici in Giappone, non era del tutto indipendente dalla nuova politica educativa del Governo, che nel 1887 decise di seguire il modello di istruzione tedesco. In seguito, la lingua tedesca fu adottata dalla maggioranza delle università statali, mentre l’inglese rimase la lingua straniera più diffusa nelle scuole cristiane. Per questa ragione, molti istituti teologici inviarono i propri studenti a continuare gli studi in America per diven-tare professori di teologia, mentre i cristiani laureati nelle università statali si recarono a studiare Cristianesimo in Germania, portando con sé, al loro rientro in Giappone, le innovazioni apportate dalla teologia accademica tedesca. Un’eccezione a questa regola fu il Seminario Teologico di Tōkyō (Tōkyō shingakusha), il quale non era stato fondato dai missionari americani, ma da Uemura. Quest’ultimo incoraggiava gli studenti ad appren-dere la teologia anglosassone, invece che quella americana, e a studiare la lingua tedesca. Poiché molti diplomati delle scuole statali si radunavano nella sua Chiesa, Uemura ebbe modo di esercitare un notevole influsso sui vari intellettuali laici che avevano studiato la teologia tedesca.

Le persone appena menzionate non furono ovviamente gli unici intellettuali che in questo periodo produssero opere accademiche cristiane. Vi erano laureati di altre scuole teologiche giapponesi che si recarono a studiare in America e che ritornarono in Giappone per dedicarsi all’insegnamento e per approfondire i propri studi. Tra questi possiamo ricordare professori come Masumi Hino (1874–1943), della Scuola Teologica Dōshisha, che scrisse il primo libro di Storia della dottrina cristiana; Zenda Watanabe (1885–1978), della Scuola di Teologia Meiji Gakuin, la cui area di interesse principale era l’Antico Testamento e che in seguito si recò per studi in Germania; Kyoji Tomino-mori (1887–1954), uno studioso di Nuovo Testamento della Dōshisha, e Setsuji Ōtsuka (1887–1977), interessato al tema della morale cristiana, anch’egli appartenente alla Dōs-hisha. Dato che alcuni di questi studiosi verranno presi in esame in seguito, qui basterà per ora ricordare che in gioventù molti di loro ebbero modo di studiare in America e di acquisire una certa conoscenza della lingua tedesca, adattandosi così alle tendenze della vita accademica giapponese.

Ritorniamo ora a trattare di Hatano per comprendere l’evoluzione che subì negli anni successivi il suo pensiero, dato che fu il primo a introdurre in Giappone opere acca-demiche pubblicate in tedesco. Nel 1917 Hatano fu nominato professore all’Università Imperiale di Kyōto, dove insegnò filosofia della religione e si dedicò energicamente alla formulazione di un coerente sistema di pensiero. Nel 1920 pubblicò L’essenza e i problemi

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fondamentali della filosofa della religione. Fino ad allora alle sue idee era mancato un solido fondamento, dato che il suo approccio al problema dell’essenza della religione aveva preso spunto dalle critiche che Troeltsch aveva rivolto a Schleiermacher. L’atten-zione dell’accademia tedesca si stava spostando dalla critica neo-kantiana alla psicologia e alla fenomenologia della religione, e anche Hatano si mosse lungo la stessa direzione. Nel suo Introduzione alla filosofia della religione (1940), scrisse: “La filosofia della religione consiste in un’analisi introspettiva dell’esperienza religiosa e in una sua autocomprensione riflessiva”. Ciò era in sintonia con la metodologia della psicologia della religione di Wob-bermin, come più tardi Hatano confessò in una lettera a Enkichi Kan. L’opera precedente, Filosofia della religione (1935), e quella successiva, Tempo ed eternità (1943), erano state scritte entrambe a partire da questa impostazione metodologica. Nell’insieme, queste tre opere formano una trilogia.

La posizione filosofica di Hatano può essere riassunta con il termine personalismo. Tuttavia, il suo personalismo, al contrario di altre elaborazioni che portano questo nome, possiede una caratteristica peculiare. Hatano suddivide la vita in tre fasi. La prima fase è quella della “vita naturale”, nella quale ci si concentra sulla propria realtà e si decostuisce la realtà dell’altro scomponendola in semplici oggetti. La seconda fase è quella della “vita culturale”, nella quale la realtà dell’altro viene sostituita da un oggetto, diventando così un luogo neutro che può essere contemplato dal soggetto (in termini filosofici ciò corri-sponde all’Idealismo). La terza fase consiste nella “vita religiosa”, che non è una relazione tra l’io e un oggetto ma una relazione personale con Dio, come quella che si instaura nel rapporto io-tu. Il fondamento di questa comunità interpersonale è l’amore. L’ultima opera di Hatano, Tempo ed eternità, che esprime il suo pensiero più maturo, è un’applicazione di questa fondamentale idea di vita in termini di tempo ed eternità in vista di un suo futuro sviluppo.

Il Cristianesimo evangelicoTokutarō Takakura (1885–1934) fu anch’egli discepolo di Uemura. Sebbene fosse entrato all’Università Imperiale di Tōkyō per studiare giurisprudenza, ben presto si traferì al Seminario Teologico di Tōkyō che, come dicevamo, era stato fondato dallo stesso Uemura. Subito dopo essersi laureato, venne ordinato pastore e prestò il suo servizio alle Chiese di Kyōto e Sapporo, dove proseguì i suoi studi di teologia. Nel 1918 fu nominato professore al Seminario Teologico di Tōkyō e nel 1921 si recò in Gran Bretagna per appro-fondire gli studi. All’inizio andò in Scozia per studiare al New College di Edimburgo con H. R. Mackintosh e W. Paterson. Takakura subì specialmente l’influsso teologico di quest’ultimo, un pensiero che egli denominò “evangelicalismo calvinista”. Dopo aver trascorso nove mesi a Edimburgo, fu invitato da Ken Ishihara a recarsi in Germania, dove ebbe modo di familiarizzarsi con il mondo teologico di quel Paese. Ritornato in Inghilterra si iscrisse al Mansfield College di Oxford e si dedicò alla lettura di Troeltsch, von Hügel e Forsyth. Il fatto che lesse simultaneamente le opere di questi teologi e filosofi

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della religione di estrazione così diversa tra loro, dimostra la vastità di interessi teologici del giovane Takakura. Si spostò poi a Cambridge, dove rimase positivamente impressio-nato dal pensiero di John Oman.

Takakura ritornò in Giappone nel 1924 e iniziò a insegnare al Seminario Teologico di Tōkyō, diventandone presidente dopo la morte di Uemura. Oltre all’insegnamento, fondò la Chiesa di Toyama. Questa Chiesa, che in seguito prese il nome di Shinanomachi, includeva tra i suoi membri Hatano, Ishihara, Soyano e Yamaya (che in seguito vi assunse le responsabilità di pastore). Takakura si dedicò anche al lavoro evangelico e fu durante questo periodo che prese forma il cosiddetto “Cristianesimo evangelico”. Tra i tre teologi e filosofi della religione appena menzionati, egli scelse di studiare in maniera particolare Forsyth e ne sostenne la singolare posizione teologica.

Il Cristianesimo evangelico (1924) fu il testo più rappresentativo di Takakura. Quest’o-pera offre un ottimo sommario della sua teologia e ben presto divenne un bestseller. Prima della pubblicazione del libro, una trilogia di suoi lavori precedenti mette in evi-denza lo sviluppo del suo pensiero teologico: Il regno della grazia (1921), Grazia e fedeltà (1921) e Grazia e chiamata (1925).

Il tema della sua tesi di laurea al Seminario Teologico di Tōkyō era incentrata sul pensiero di Schleiermacher, i cui echi riecheggiano ancora nella sua prima opera, Il regno della grazia. Gradualmente, però, crebbe in lui la sua fede nella redenzione e, alla pubblicazione di Grazia e fedeltà, si può già notare il suo avvicinamento al Cristianesimo evangelico. Il suo terzo libro, Grazia e chiamata, composto da una collezione di omelie pronunciate presso la Chiesa di Toyama, espone già in maniera chiara e precisa i princìpi della sua fede evangelica. Si può quindi affermare che quest’ultima assunse una forma definitiva verso la fine del 1924 o agli inizi del 1925.

Di che cosa tratta questa sua fede evangelica e in che cosa consiste il suo Cristiane-simo? Takakura li aveva entrambi ereditati dal suo maestro Masahisa Uemura. Sebbene Uemura fosse un uomo di profonda cultura e di vasta erudizione, il suo Cristianesimo, come egli stesso lo descriveva, era di natura evangelica e si basava sul pensiero elaborato da missionari americani come Brown, Hepburn e Ballagh, i quali erano stati tutti simpa-tizzanti dell’Alleanza Evangelica Mondiale, fondata in Gran Bretagna nel xix secolo. La prima Chiesa giapponese fondata da Uemura e dai suoi seguaci in Yokohama ebbe inizio con il raduno di preghiera di Capodanno dell’Alleanza Evangelica Mondiale. L’Alleanza aveva come suoi obiettivi il “romanesimo” e l’anglicanesimo della High Church, ed era caratterizzata dalla Erweckungsbewegung [Movimento del risveglio], a cui presero parte persone di grande zelo e spirito missionario. Uemura, che aveva appreso il Cristianesimo evangelico dai missionari americani, si dedicò a esso studiando le opere di teologi bri-tannici quali Forsyth e Denney. Takakura, che ereditò questo tipo di Cristianesimo da Uemura, ebbe modo di elaborarlo e raffinarlo ulteriormente attraverso i suoi studi all’U-niversità Imperiale di Tōkyō e le idee che aveva appreso dai teologi inglesi.

Qual è dunque il contenuto del Cristianesimo evangelico di Takakura? Egli è cono-

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sciuto come colui che aveva introdotto la figura di Calvino in Giappone, così come Sato aveva introdotto quella di Lutero. Sebbene sia evidente l’influsso che il pensiero di Cal-vino esercitò sulla sua fede, Takakura non desiderava essere considerato un calvinista, affermando invece che “Il punto fondamentale su cui voglio insistere è la volontà di riconoscere e sperimentare il Cristianesimo come religione della Bibbia, rendendolo poi attraente nei confronti degli altri”. Con il termine “religione della Bibbia” Takakura inten-deva dire che il Cristianesimo aveva avuto inizio con i profeti, era proseguito lungo tutto il Nuovo Testamento e aveva trovato un rinnovato impulso grazie ai riformatori. Questo è ciò che egli chiamava Cristianesimo evangelico e, dal suo punto di vista, il Cattolicesimo e il Cristianesimo liberale moderno e culturale erano da considerarsi come delle religioni bibliche contaminate da elementi pagani.

Il pensiero teologico di Takakura, così, si avvicinava molto a quello di Forsyth. Dopo la seconda guerra mondiale Forsyth era conosciuto con il titolo “il barthiano prima di Barth” e Takakura, al pari di Foryth e Barth, intraprese una lotta teologica simile alla loro. Di fatto, si oppose alla teologia liberale contemporanea, al Cristianesimo umanista e al Cristianesimo sociale. Era quindi del tutto naturale che, quando fu introdotta in Giappone, egli diventasse un simpatizzante della teologia dialettica e che molti dei suoi discepoli ne rimanessero contagiati. Dal punto di vista della storia della teologia, egli fu il precursore della teologia dialettica, la quale ebbe un influsso enorme sulla teologia in Giappone.

Il Cristianesimo socialeLe origini del socialismo cristiano in Giappone risalgono al periodo Meiji. In questo periodo, il socialismo cristiano svolse un ruolo di notevole importanza all’interno dell’in-tero movimento sociale. Al tempo, la maggioranza dei socialisti era cristiana, anche se dopo il periodo Taishō si ebbe un predominio del materialismo storico.

Il movimento sociale del periodo Meiji cadde nell’oblio a causa di una vicenda di altro tradimento — il tentato assassinio nel 1918 dell’imperatore Meiji, che si ritiene fosse stato tramato dallo stesso Governo. Tuttavia, agli inizi del periodo Taishō si iniziarono a notare i primi segni di rinascita del movimento. Al tempo, il movimento operaio in Giappone era capeggiato da Toyohiko Kagawa (1888–1960), che aveva interrotto le sue attività sociali nei sobborghi della città per dedicarsi al movimento operaio. I suoi fondamenti filosofici erano radicati nel socialismo cristiano ed erano quindi in disaccordo con quelli dell’emergente movimento operaio marxista. Sebbene agli inizi si trovasse in sintonia con le posizioni assunte dall’estrema sinistra del movimento sociale, fu poi spinto a simpa-tizzare per quelle dell’estrema destra. In seguito si dedicò al movimento cooperativo e al movimento evangelico nazionale denominato “Il regno di Dio”.

Il movimento chiamato “Cristianesimo sociale” ebbe inzio durante i primi anni del periodo Shōwa. A differenza del socialismo cristiano dei periodi Meiji e Taishō, che si rivolgeva principalmente a coloro che non appartenevano alla Chiesa, il Cristianesimo

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sociale era piuttosto un movimento critico che coinvolgeva la Chiesa stessa. Il suo credo fondamentale era che il Cristianesimo sociale dovesse aver precedenza sul Cristianesimo individuale, e tra i suoi suoi sostenitori si annoverano molti studenti cristiani. All’inizio del periodo Shōwa nacque all’interno dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ymca) il cosiddetto Movimento degli Studenti Cristiani (scm). Tuttavia, poiché erano in molti a ritenere che la sigla scm indicasse il Movimento Socialista Cristiano, il Movimento degli Studenti Cristiani subì il potente influsso del Cristianesimo sociale, diventandone poi il portavoce. Tra i suoi vari leader si possono ricordare Shigeru Nakajima (1888–1946), Enkichi Kan (1895–1972) e Yonetaro Kimura (1889–1949).

Nakajima fu l’ideologo principale del movimento. Studiò legge all’Università Imperiale di Tōkyō e frequentò la Chiesa Hongo di Danjō Ebina. Divenne professore di giurispru-denza, prima all’Università Dōshisha e in seguito all’Università Kansei Gakuin. Nakajima fu una figura di spicco del movimento sociale cristiano, il quale aveva avuto inizio prima della fondazione del scm. Nel 1931 organizzò presso la sede del ymca di Kyōto l’Alleanza del Cristianesimo Sociale del Kansai (la regione occidentale del Giappone), che nel 1933 fu riorganizzata con il nome di Alleanza Nazionale del Cristianesimo Sociale. Fu inoltre curatore della rivista Cristianesimo sociale.

Poiché era solito usare l’espressione “amore redentivo”, alcuni ritengono che il pensiero di Nakajima avesse tratto ispirazione da quello di Kagawa, nei cui confronti Nagajima provava grande stima. Non ci sono invece indizi per affermare che Nakajima abbia subito l’influsso di quel movimento protestante chiamato “Vangelo Sociale d’America”, sebbene ne conoscesse certamente l’esistenza. Nagajima elaborò una propria filosofia sociale, sulla quale ebbe modo di ritornare a più riprese raffinandola col tempo. Scrisse diverse opere aventi per tema il Cristianesimo sociale, la prima delle quali fu Dio e comunità (1929). In seguito pubblicò Il Cristianesimo sociale e la nuova esperienza di Dio (1931) e L’essenza del Cristianesimo sociale: la religione dell’amore redentivo (1937). Il suo pensiero fu sempre coerente e sistematico, e queste opere rappresentano delle semplici variazioni sul tema. Egli esordisce presentando il concetto di regno di Dio, che interpreta come la “comunità di Dio”. Secondo Nakajima, l’idea di “comunità” è diversa a quella di “associazione”. La nazione, la Chiesa, la Lega delle Nazioni, i sindacati e le aziende sono tutte associazioni che perseguono un determinato fine, che hanno un’organizzazione, una costituzione e un regolamento — oltre che dei membri con dei propri diritti e doveri. La comunità, invece, è principalmente una relazione tra persone, una comunità volontaria e spontanea che è alla base di tutte le associazioni — e tutte le include. Nakajima la chiama “comunità dell’unione” e “comunità della solidarietà”. La comunità si evolve non attraverso la lotta di classe, come insiste il marxismo, ma attraverso una maggior armonia tra le persone e nell’esercizio della solidarietà. Egli chiama questa evoluzione “comunizzazione” e sostiene che ciò che aiuta la comunità a progredire in questa comunizzazione sia l’amore. All’apice di questo progresso egli pone il regno di Dio, la somma realizzazione di questa comunità dell’unione.

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Il Cristianesimo sociale di Nakajima, per usare la terminologia tedesca, è più reli-giös-sozial che christlich-sozial, ma mentre il religiös-sozial nutre una profonda simpatia per il marxismo, Nakajima è invece critico nei confronti della filosofia di Marx, alla quale oppone una propria filosofia sociale. Non si deve poi sottovalutare il fatto che la sua teoria del progresso sociale in cammino verso la comunità dell’unione deriva da una sua personale visione evoluzionistica della storia. Secondo Nakajima, la storia dell’umanità prende avvio da una società primitiva, procede verso l’autoritarismo militarista feudale del periodo medievale, continua la sua marcia verso l’età del capitalismo costituzionale nazionale e sta ora per sfociare nell’età del socialismo internazionale. L’odierna società del socialismo internazionale rifiuta le lotte imperialiste tra le nazioni, le relazioni di potere capitalista e l’utilizzazione dell’economia monetaria. Essa è destinata a diventare la grande nuova comunità dell’umanità ed è perciò la società che più si avvicina al regno di Dio, cioè alla comunità di Dio. In questa società le persone sopprimono i loro impulsi egoistici mediante l’amore della socializzazione, trasformano i rapporti basati sul potere e sulla contesa in relazioni di mutuo aiuto e servizio; e si propongono di creare una comunità mediante una maggior armonia tra le persone e l’esercizio della solidarietà. Là dove si rea-lizzerà questo compito, si realizzerà anche il regno dell’amore. Qual è dunque la relazione tra la realizzazione del regno di Dio e Gesù Cristo? Per Nakajima, Cristo è un concetto astratto, un altro termine usato per indicare la socializzazione (l’amore redentivo) o il nome di Dio che è all’opera nella società. Ciò significa che Cristo è immanente e opera in ogni uomo e in ciascuna società. Cristo non è nient’altro che un principio, un assioma operativo nei cieli, sulla terra e all’interno della società umana ancor prima della venuta di Gesù. Tuttavia, poiché Gesù ha pienamente realizzato questo principio-Cristo, al prin-cipio-Cristo che si è manifestato in Gesù è stato dato il nome di “Gesù Cristo”. Che cosa dunque intende Nakajima per salvezza? La salvezza è, ovviamente, la salvezza dal peccato, e il peccato è un’azione ispirata da motivazioni egoistiche e asociali. La salvezza significa dunque diventare degli esseri sociali attraverso l’amore di Cristo; significa spogliarsi dell’uomo vecchio per rivestirsi dell’uomo nuovo, indica il rifiuto dell’io individualistico per promuovere l’io sociale. Essere redenti significa essere mossi da quell’amore che Cri-sto provava per la socializzazione, significa liberarsi dal peccato per entrare a far parte di quella vita in cui le persone offrono se stesse a Dio — oltre che a praticare assieme a Gesù l’amore per la socializzazione diventando sui collaboratori nella realizzazione del regno e nella lode a Dio.

È importante notare che Nakajima non rifiuta il paolinismo, come invece hanno fatto i sostenitori del Vangelo sociale. Secondo lui, proprio perché il Cristianesimo è la religione dell’amore redentivo e del vangelo della croce, nessuno può respingere il pensiero pao-lino sulla redenzione. Il presupposto fondamentale del Cristianesimo sociale è la pratica dell’amore redentivo (l’amore della socializzazione) che si attua assieme a Gesù. Egli tut-tavia non accetta “l’espiazione vicaria legalista” o “l’espiazione sacrificale sacerdotale”. L’e-sperienza redentiva di Paolo, secondo Nakajima, è quella secondo cui l’io interiore sociale

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scopre in Gesù la più alta manifestazione dell’io sociale, ottenendo così la liberazione dell’io sociale mediante un’incondizionata obbedienza a Gesù. L’espiazione non deve dunque essere interpretata solo in maniera passiva, ma anche in maniera attiva. Nakajima sottolinea la pratica dell’amore redentivo e, sebbene utilizzi spesso la parola redenzione, il problema rimane quello di sapere in che modo e con quanta accuratezza la interpreti. Ciò nonostante, una delle caratteristiche del suo Cristianesimo sociale riguarda proprio il fatto che egli non escluda dalle sue disquisizioni il pensiero di Paolo.

La teologia dialetticaLa nascita della teologia dialettica ebbe luogo nel 1919 con la pubblicazione de L’Epistola ai Romani di Karl Barth. In Giappone gli scritti di Barth e di Emil Brunner iniziarono a circolare già nel 1925 con articoli pubblicati su giornali e periodici, ma il loro pensiero divenne ben presto così popolare che nel 1930 fecero la loro comparsa le prime tradu-zioni. In particolar modo la Teologia della crisi di Brunner, che fu tradotta da Gosaku Okada nel 1931, venne letta non solo all’interno dei circoli cristiani, ma anche da un pubblico più vasto.

Il primo studio scritto da un giapponese su questa corrente teologica fu la Introduzione alla teologia dialettica (1932), di Yoshitaka Kumano. L’anno seguente venne pubblicato il volume Teologia dialettica (1933), di Hidenobu Kuwada. In seguito Enkichi Kan scrisse due saggi, uno sulla teologia dialettica (Rinascita religiosa, 1934) e l’altro sulla teologia di Brunner (La moderna filosofia della religione, 1934), che ne introdusse fedelmente il pen-siero. Kumano era uno studente di Uemura, fin dagli inizi interessato al mondo evange-lico, mentre Kuwada, che aveva compiuto gli studi in America, abbandonò il liberalismo ritschliano per avvicinarsi alla teologia dialettica. Kan, che con Nakajima era stato un ideologo del Cristianesimo sociale, mutò anch’egli prospettiva e divenne un sostenitore della teologia dialettica. Quando introdussero per la prima volta questa teologia, si rife-cero principalmente agli scritti di Brunner perché ritenevano che la sua teologia dialettica fosse più comprensibile. Perfino Takakura, che era più anziano di Kumano, Kuwada e Kan, e li aveva preceduti nello studio della teologia dialettica, usava dire che Brunner era un ottimo teologo, mentre Barth possedeva delle idee pericolose.

Tuttavia, non appena venne pubblicata la Dogmatica ecclesiale di Barth e i teologi giapponesi riuscirono finalmente a cogliere la novità della sua teologia, essi adottarono il pensiero di Barth invece che quello di Brunner. Questa loro preferenza teologica divenne decisiva nel 1934, anno in cui scoppiò la controversia tra Barth e Brunner riguardante la teologia naturale. Molti studiosi di teologia si schierarono in favore di Barth e da allora il loro interesse si focalizzò principalmente sui suoi scritti. Questa situazione non mutò neppure quando Brunner, dopo la seconda guerra mondiale, visitò per ben due volte il Giappone e insegnò per due anni come docente aggregato all’Università Cristiana Inter-nazionale.

La teologia barthiana fu da subito oggetto di studio sia nel Giappone orientale che in

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quello occidentale. In quello occidentale (nelle vicinanze di Kyōto) fu formato un gruppo di studio per tradurre il Römerbrief di Barth sotto la guida di Keiji Ashida, un professore della Scuola Teologica Dōshisha. Kagami Hashimoto, il membro principale del gruppo, si era al tempo appena laureato all’Università Imperiale di Kyōto e, malgrado avesse scritto diversi articoli su Barth, si era dedicato anche allo studio di Kierkegaard. Anch’egli, infatti, al pari di Kierkegaard, era molto interessato alla vita monastica. Un altro membro del gruppo, Tasuku Matsuo, sebbene non avesse ricevuto un’istruzione formale a causa di una malattia, studiò il tedesco da autodidatta. Incoraggiato dal missionario tedesco Egon Hessel, tradusse i saggi di Barth Die Kirche und die Kultur, Rechtfertigung und Heiligung e Die Not der evangelischen Kirche. Nobuo Harada, la cui tesi alla Dōshisha recava il titolo L’antropologia di Karl Barth, pubblicò un libretto intitolato Un’esposizione della dogmatica di Barth, che fu scritto mentre svolgeva il ministero pastorale in una chiesa. Questi tre studiosi morirono relativamente giovani, mentre chi visse un po’ più a lungo fu un altro membro del gruppo, Yoshiki Shimizu. Shimizu, che nei suoi anni studenteschi e molto prima di accostarsi al pensiero di Barth, era stato un ideologo del scm, divenne profes-sore di teologia all’Università Kanto Gakuin e pubblicò in due volumi l’opera Teologia protestante.

In oriente (nei dintorni di Tōkyō), nella Chiesa Shinanomachi che era stata fondata da Takakura, si era attivato un altro gruppo di studiosi interessati al pensiero di Barth. Masatoshi Fukuda, che dopo la morte di Takakura avvenuta nel 1934 divenne pastore della Chiesa Shinanomachi, pubblicò un libro composto da una collezione di saggi dal titolo Ordo Gratiae, un volume che risentiva pesantemente della prospettiva cristologica barthiana. Takenosuke Miyamoto, anch’egli membro di questa Chiesa e laureatosi alla Facoltà di Filosofia dell’Università Imperiale di Tōkyō, cercò di elaborare una sua filo-sofia a partire dal pensiero di Barth. Sakae Akiwa, che nell’immediato dopo guerra fu una figura di spicco negli ambienti giornalistici e che dette vita a una feroce controversia in seguito alla pubblicazione del libro Esodo dal Cristianesimo, divenne un seguace di Takakura e si dedicò anch’egli allo studio di Barth. Kano Yamamoto, influenzato dal pensiero di Takakura e di Barth, divenne un esponente barthiano, coerente negli studi e nella difesa del pensiero del teologo svizzero. Yoshio Yoshimura, che si laureò in filosofia all’Università Imperiale di Tōkyō, si interessò del pensiero di Kierkegaard e di quello di Barth, e in seguito tradusse il Römerbrief. Yoshinori Matsutani, studioso di filosofia, si appassionò anch’egli alla teologia di Barth e scrisse Pensieri di un teologo e Introduzione alla dottrina della Trinità. Tra le varie traduzioni delle opere di Barth si deve ricordare quella di Das Wort Gottes und die Theologie, compiuta da vari gruppi di studiosi prove-nienti sia da Tōkyō che da Kyōto. Tra le varie riviste che subirono l’influsso del pensiero barthiano e che meritano di essere menzionate ricordiamo Risurrezione, a cui contribuì il giovane Katsumi Takizawa, e Il mondo della croce, che fu pubblicata da Egon Hessel con l’aiuto di Kano Yamamoto. Una serie di traduzioni di vari saggi barthiani raccolte sotto il titolo Teologia della croce, contribuirono a introdurre idee barthiane in campo teologico.

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Occorre tuttavia notare che al tempo le opere principali di Barth non erano ancora state tradotte e che prima della seconda guerra mondiale non era apparsi studi sistematici sulla sua teologia. Fu soltanto nel dopoguerra che apparve la traduzione della Kirchliche Dogmatik e che alcuni giovani studiosi giapponesi in Germania o in Svizzera iniziarono a scrivere le loro tesi di dottorato su Barth.

Perché dunque la teologia dialettica, e specialmente la teologia di Barth, destò una così viva impressione sulla comunità cristiana giapponese? Le risposte possono essere varie; la ragione principale, tuttavia, risiede nel fatto che, al tempo, gli intellettuali cristiani giapponesi erano convinti di essere finalmente giunti, mediante la teologia dialettica, alle profondità del pensiero cristiano. Sebbene attratti dal Cristianesimo dei missionari ame-ricani, non erano al corrente di altre forme di Cristianesimo che possedessero una qualità intellettuale altrettanto rilevante. Tra la popolazione era diffuso il sentimento che il Bud-dhismo avesse elaborato un pensiero molto più evoluto di quello cristiano. Inoltre, sin dalla metà del periodo Meiji, molti intellettuali avevano subito l’influsso dell’Idealismo tedesco e gli studiosi cristiani, essendone rimasti attratti, si dimostravano insoddisfatti nei riguardi della teologia cristiana studiata finora, la quale era giudicata essere troppo superficiale nei suoi ragionamenti. Una volta introdotta in Giappone, la teologia dialet-tica sferrò un feroce attacco contro l’Idealismo tedesco e non deve perciò meravigliare il fatto che i cristiani giapponesi si sentirono immediatamente affascinati da quel tipo di pensiero teologico. Tuttavia, non furono solo i cristiani a rimanerne sedotti, ma anche altri intellettuali non-cristiani. Kitarō Nishida, ad esempio, uno dei filosofi di spicco nel panorama culturale giapponese, si interessò alla teologia dialettica, così come del resto fecero altri suoi discepoli, tra i quali Tetsurō Watsuji e Kyoshi Miki, che divenne un pen-satore molto conosciuto. La teologia dialettica si trovò quindi ben presto a occupare una posizione di tutto rispetto all’interno dei circoli filosofici giapponesi.

Una risposta convincente alla domanda sui motivi per cui gli intellettuali giapponesi furono particolarmente attratti dalla teologia barthiana non è stata ancora data, anche se almeno una ragione sembra essere indiscutibile, quella del suo radicalismo. Un simile radicalismo appare senz’altro come un elemento di impedimento in una società già pro-fondamente cristiana. E, di fatto, la teologia di Brunner, che è molto più moderata rispetto a quella di Barth, pare adattarsi meglio a quel tipo di società. Tuttavia, in un ambiente sociale come quello giapponese, dove il Cristianesimo non è stato ancora inculturato, un pensiero teologico moderato ed equilibrato viene a essere più facilmente disprezzato, mentre ciò che suscita maggior interesse, attrattiva ed elogio è appunto il radicalismo. Questo appare dunque come il segreto della teologia dialettica, specialmente quella di stampo barthiano, che ha goduto di una popolarità travolgente in Giappone.

Il Cristianesimo GiapponeseIl “Cristianesimo Giapponese” nacque con l’ascesa dell’ultranazionalismo durante il periodo bellico, esattamente come il movimento conosciuto con il nome di “Deutsche

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Christen” (Cristiani Tedeschi) si sviluppò in seno al Nazismo tedesco. Tuttavia, esisteva una notevole differenza tra la Germania e il Giappone. Il movimento dei Deutsche Christen, direttamente connesso al governo nazista, portò alla fondazione della “Beken-nende Kirche” (Chiesa confessionale), che si oppose apertamente a quel movimento. In Giappone, invece, il Cristianesimo Giapponese rappresentava un gruppo minoritario all’interno della società giapponese, così che le Chiese tradizionali non ne risentirono l’influsso.

Tuttavia, esempi di questo tipo di movimento si possono rintracciare già durante il periodo Meiji. Michitomo Kanamori, per esempio, durante il periodo nazionalista si dichiarava favorevole a un Cristianesimo di ispirazione giapponese; Danjō Ebina auspi-cava un tipo di Cristianesimo shintoista che fondesse in sé l’etica giapponese e il Cristia-nesimo, mentre Tokio Yokoi simpatizzava per un tipo di Cristianesimo giapponese che armonizzasse il Cristianesimo e il Confucianesimo. Il Cristianesimo Giapponese sorto durante il periodo Shōwa promoveva le seguenti idee:

a) poiché il Mikuni (il regno dell’Imperatore) e il Mikuni (regno di Dio) sono pro-nunciati allo stesso modo, l’obbedienza all’Imperatore e il sostegno all’avanzata del Giappone in Cina aiutano a promuovere il regno di Dio;

b) l’Imperatore e Cristo sono identici, altrimenti i giapponesi non crederebbero nel Cristianesimo;

c) per i giapponesi, se non proprio per gli occidentali, gli antichi scritti shintoisti quali il Kojiki e il Nihongi rappresentano l’Antico Testamento1;

d) Yahweh, il Dio dell’Antico Testamento, e il dio Amenominakanushinokami menzionato nel Kojiki sono un’unica divintà2;

1. [Il Kojiki (Racconto degli antichi eventi) è il testo più antico riguardante la mitologia imperiale ed è stato scritto nel 712 da un nobile di corte di nome Ō no Yasumaro. Esso contiene miti e racconti semi-storici riguardanti i clan imperiali. Il testo fornisce un resoconto degli avvenimenti che hanno inizio con la comparsa delle prime divinità nell’alta pianura del cielo (takamagahara) e con la creazione delle isole del Giappone dal disordine primordiale, e termina con alcune brevi notizie concernenti la principessa Toyomikekashikiya, meglio conosciuta come imperatrice Suiko (554–628). Il Nihongi (Cronache del Giappone) è un documento dal contenuto simile al Kojiki, redatto durante il periodo Nara e completato nel 720. Contiene i miti e la storia leggendaria del clan imperiale Yamato, che legittimò la dinastia e il governo dell’Imperatore. Per questi e altri termini riguardanti lo Shintoismo, rimandiamo al nostro T. Tosolini, Dizionario di Shintoismo, Asian Study Centre, Osaka 2014. Ndt].

2. [Amenominakanushinokami è il dio “signore dell’augusto centro del cielo”, la prima delle divinità celesti menzionate nel Kojiki assieme agli altri due kami Takamimusubinokami (“l’alta augusta divinità generatrice”) e Kamimusubinokami (“divinità generante divinamente”). Lo studioso shintoista Hirata Atsutane (1776–1843) considerava Amenominakanushinokami la divinità suprema dello Shintoismo, e nella moderna teologia shintoista è spesso raffigurato come il kami creatore, soprattutto perché il processo generativo descritto nel Nihongi si affida ai concetti di yin e yang, di derivazione cinese. Ndt].

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e) come è riportato dall’Antico Testamento, e in particolar modo nel Libro di Isaia, la missione dei giapponesi è quella di ricostruire Israele, e la guerra contro la Cina è parte di questa missione.

Molti di coloro che cercarono di abbinare il Cristianesimo al nazionalismo e al patriot-tismo finirono per travisare il contenuto della fede cristiana. Alcuni appoggiarono apertamente il nazionalismo e il conflitto bellico mantenendo, allo stesso tempo, la loro tradizionale fede cristiana. Citando per esempio le parole di Louis Pasteur: “Sebbene non vi siano limiti nella scienza, esistono dei limiti tra gli scienziati”, si schieravano in favore di un Cristianesimo dallo spiccato spirito nazionalistico — pur riconoscendo, allo stesso tempo, la natura universale della fede cristiana.

Il motivo per cui era sorto un simile Cristianesimo Giapponese risiedeva nel fatto che tutte le idee che il Giappone aveva importato dall’Occidente erano state adottate solo a livello superficiale, mentre la mentalità tradizionale continuava a rimanere ben radi-cata nel subconscio, pronta a riemergere non appena se ne fosse presentata l’occasione. Come afferma il politologo Masao Maruyama ne Il pensiero del Giappone (1960), quando il Giappone importa un’idea straniera, il passato non è mai oggettivato e assorbito nel presente, ma, al contario, i concetti tradizionali si conservano e si stratificano. Il passato non sfida il presente: esso viene semplicemente rimosso, ovvero scompare dalla coscienza eclissandosi nella “dimenticanza”. Il passato, tuttavia, a volte riemerge come “memoria”. E questo è ciò che accade al Cristianesimo: sebbene giapponesi sembrino accogliere il Cri-stianesimo, di fatto il pensiero tradizionale (l’ultranazionalismo) non svanisce mai dalla mentalità collettiva giapponese, ma si inabissa nella sua anima, pronto a riemergere non appena si riaffacci nella storia una nuova stagione nazionalistica.

Chi furono coloro che, con tutta probabilità, si dimostrarono più propensi nell’ac-cogliere questo tipo di Cristianesimo Giapponese? Un primo gruppo di pensatori era formato da coloro che avevano accolto il Cristianesimo liberale. Poiché la loro fede non era del tutto ortodossa — ed era quindi incapace di arginare l’esuberanza delle loro idee — adottarono con realtiva facilità il Cristianesimo Giapponese. Kanamori, Ebina e Yokoi, per citare solo alcuni dei sostenitori di questo tipo di Cristianesimo durante il periodo Meiji, erano diventati teologi liberali sotto l’influsso della cosiddetta Nuova Teologia. Un secondo gruppo di intellettuali era composto da coloro che venivano accostati al Pieti-smo. Più interessati alla Bibbia e alla pietà cristiana che all’ortodossia della dottrina, erano dei cristiani decisi e leali. Erano convinti che tutti i giapponesi dovessero abbracciare lo spirito giapponese, eccetto, ovviamente, i peccatori: questo, perché solo coloro che sono giustificati e santificati per fede possono diventare dei veri precettori dello spirito giap-ponese. E questo era anche il modo con cui conciliavano il Cristianesimo con lo spirito giapponese.

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Lo sviluppo degli studi teologici

Studi biblici

Zenda WatanabeL’esponente più rappresentativo degli studi veterotestamentari durante questo periodo è Zenda Watanabe (1885–1978). Watanabe inizialmente insegnò teoria dell’“ispirazione ver-bale” presso la Holiness Church affontando, allo stesso tempo, il problema del “principio dell’interpretazione biblica”. Si recò in America iscrivendosi ai corsi di studi biblici e di Antico Testamento presso il Nazarene College di Pasadena, la Pacific School of Religion di Berkeley e l’Università della California. Quando rientrò in Giappone in qualità di esperto di tematiche veterotestamentarie, la teoria dell’ispirazione verbale era già stata sostituita con un diverso e più moderno approccio agli studi biblici.

Dopo aver insegnato al Seminario Takinogawa Seigakuin e alla Scuola Teologica Dōs-hisha, Watanabe divenne cappellano presso il Collegio delle Donne Cristiane di Tōkyō. In quel periodo pubblicò i suoi primi scritti — i tre volumi de La teologia dei libri veterote-stamentari (1921–1924) — che rivelano la sua inusuale abilità di scrittore. In seguito con-tinuò a scrivere libri sull’Antico Testamento fino al al termine dei suoi anni. Introduzione ai cinque libri di Mosè (1949) è la sua opera più riuscita, mentre Prima dell’Esodo (1972), che consiste in una descrizione del mondo semita, è l’ultima delle sue opere maggiori.

In qualità di teologo, Watanabe si dedicò a esaminare le varie dottrine della Bibbia per rispondere all’interrogativo sul modo in cui la parola dell’uomo si trasforma in Parola di Dio. I suoi studi toccavano quindi tematiche riguardanti soprattutto la teologia sistematica. Scrisse tre libri sulla dottrina della Bibbia: La canonicità della Bibbia (1949), L’interpretazione della Bibbia (1954) e La teologia della Bibbia (1963). Sebbene questi lavori furono pubblicati al termine della seconda guerra mondiale, Watanabe si era dedicato allo studio della dottina biblica a partire dal 1935, quindi ben dieci anni prima che quelle opere venissero pubblicate. In precedenza, Watanabe si era recato in Germania per stu-diare i “princìpi dell’interpretazione biblica”. Su raccomandazione di von Seeberg, si recò a Fribugo per studiare con Husserl, da cui imparò il metodo fenomenologico, zu den Sachen selbst!, nel quale trovò la chiave interpretativa per rimpiazzare lo studio stori-co-critico della Bibbia. Il suo metodo era simile a quello adottato da Barth e da Brunner, i quali si erano anch’essi dedicati ai problemi di critica storica.

Watanabe non intende certo negare in maniera apodittica il valore della critica storica. Tuttavia, ne riconosce i limiti e propone un approccio canonico e teologico alla Bibbia (oltre che raccomandarne uno studio filologico e storico). Infatti, mentre quest’ultimo si interessa di questioni concernenti il passato (per esempio, in che modo fu scritta la Bibbia), il primo tratta invece del presente (che cos’è la Bibbia? qual è la sua essenza?). Secondo Watanabe, anche lo studio filologico e storico della Bibbia dovrebbe preoccu-parsi di eliminare il materiale estraneo al testo sacro e di rimuoverne le aggiunte poste-

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riori — oltre che riflettere sulla modalità con cui il materiale fu editato nella forma cano-nica presente, e sui motivi per cui, in seguito, ne fu aggiunto dell’altro. Inoltre, l’approccio canonico e teologico propone di interpretare la Bibbia come un canone, come Parola di Dio, offrendo così una chiave metodologica per entrare in dialogo con il canone stesso e considerarlo come un “Tu”. Tutto ciò significava, per Watanabe, leggere la Bibbia alla luce della “storia della salvezza”.

Junichi AsanoJunichi Asano (1899–1982), di quindici anni più giovane di Watanabe, fu un altro ricerca-tore che si dedicò agli studi veterotestamentari. Dopo una prima esperienza nel mondo degli affari, studiò al Seminario Teologico di Tōkyō e all’Università di Edimburgo. Maturò il suo interesse per l’Antico Testamento grazie a un professore di storia al Collegio di Economia e Commercio e in seguito venne incoraggiato a proseguire negli studi dal suo pastore, Akira Mori. Fu tuttavia il suo maestro Tokutaro Takakura che gli raccomandò di studiare l’Antico Testamento e concentrarsi soprattutto sul significato e l’importanza del profetismo. Si recò poi a studiare a Edimburgo con A. C. Welch.

Al suo ritorno, sebbene avesse iniziato a insegnare presso alcune scuole teologiche di Tōkyō, Nippon e Aoyama, Asano si chiese quale professione dovesse scegliere come sua occupazione principale — se il ministero pastorale oppure gli studi accademici. Alla fine decise di diventare un pastore e fondò la Chiesa di Mitake, anche se non smise mai di dedicarsi allo studio. Asano fu una persona emblematica della sua generazione — dato che iniziava a percepire il conflitto, finora sconosciuto ai suoi maestri Uemura e Taka-kura, tra l’essere un pastore evangelico e uno studioso. Tuttavia, subito dopo il suo rientro in Giappone pubblicò la sua prima opera, Uno studio dei profeti (1931) con un’introdu-zione di Takakura. Alcune sue pubblicazioni, quali Interpretazione di alcuni Salmi (1933), La Bibbia dell’Antico Testamento (1939) e Alcuni problemi di teologia veterotestamentaria (1941) contribuirono a conferirgli la fama di principale studioso dell’Antico Testamento del suo tempo.

Purtroppo, durante la guerra, Asano subì una dolorosa disavventura: a causa di un incendio causato dai bombardamenti perse quasi tutti i suoi libri, oltre che molti dei suoi averi — un evento questo che lo indusse ad abbandonare gli studi. Dopo essersi ripreso da quella disgrazia, divenne professore presso la Facoltà teologica dell’Università Aoyama Gakuin, e fino al termine della sua vita dedicò tutte le sue energie alla ricerca e alla pubblicazione — e ciò malgrado avesse dovuto sottoporsi per ben due volte a una laparotomia. La sua opera principale, Uno studio sui profeti israeliti (1955) fu pubblicata come prima parte di una trilogia, e, sebbene la sua intenzione fosse quella di dedicare il secondo volume alla letteratura sapienziale, si interessò invece esclusivamente al libro di Giobbe (forse a causa della somiglianza tra la vicenda di quest’ultimo e la triste esperienza occorsagli durante la guerra) pubblicando di seguito Uno studio sul libro di Giobbe (1962) e Commento al libro di Giobbe (4 voll., 1965–1974). Il suo campo d’interesse non era tanto

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lo studio filosofico quanto piuttosto il pensiero teologico e le sue opere rimasero per lo più a un livello pioneristico. Il suo talento di scrittore e il suo stile semplice possono essere ammirati anche nei suoi ultimi lavori, come Il libro di Giobbe (1968), I Salmi (1972) e Mosè (1980).

Seigo YamayaÈ importante ricordare che tra i vari studiosi di questo periodo molti di loro insegnarono Nuovo Testamento nelle loro proprie scuole teologiche, oltre a dedicarsi a varie attività accademiche3. Tra questi, una menzione particolare merita Seigo Yamaya — non solo per i numerosi scritti da lui pubblicati, ma anche per l’elevato standard accademico che rag-giunse quasi da autodidatta. Come abbiamo menzionato in precedenza, Yamaya abban-donò la sua carriera di funzionario governativo per dedicarsi all’insegnamento in un collegio statale, e iniziò a studiare il Nuovo Testamento da sé. Incoraggiato da Hatano, e a differenza dei suoi contemporanei che subirono l’influsso dell’ambiente anglo-americano, Yamaya si dedicò allo studio delle opere riguardanti il Nuovo Testamento pubblicate in tedesco. Benché Uemura lo avesse introdotto alla conoscenza degli scritti della Religion-sgeschichtliche Schule, la prospettiva biblica di Yamaya non assuse mai dei toni radicali, ma rimase piuttosto moderata.

La sua opera più rappresentativa, La teologia di Paolo (1936), che traeva spunto dalla sua tesi di dottorato, non solo evidenzia gli influssi esercitati sul suo pensiero dalla Religionsgeschichtliche Schule, ma si propone anche di presentare alcune elaborazioni personali. Il suo studio esegetico dal titolo Il Nuovo Testamento. Nuova traduzione ed ese-gesi (5 voll., 1930–1948) comprendeva un’analisi di 1 e 2 Tessalonicesi, Galati, 1 e 2 Corinti, Romani, Filippesi e Filemone.

Dopo essersi dimesso dall’insegnamento, diventò pastore della Chiesa di Muromachi a Kyōto e, al termine della guerra, di quella di Shinanomachi di Tōkyō. Per tre anni fu membro della commissione incaricata di tradurre il Nuovo Testamento in lingua cor-rente. In seguito fu professore al Seminario Teologico di Tōkyō, continuando a scrivere opere sul Nuovo Testamento come L’origine del Cristianesimo (2 voll., 1957–1958), che rappresenta un sommario dei suoi lunghi anni di studio di storia del Cristianesimo; Bibliografia ragionata del Nuovo Testamento (1943), una specie di introduzione al Nuovo Testamento; e La teologia neotestamentaria (1966), un sommario del pensiero teologico del Nuovo Testamento. Con questi suoi scritti Yamaya offrì un notevole contributo agli studi giapponesi sul Nuovo Testamento, specialmente a quelli su Paolo. Yamaya è famoso in Giappone anche per aver tradotto Das Wesen des Christentums di Harnack e Das Hei-lige di Otto.

3. Nel campo del Nuovo Testamento altre persone meritano di essere menzionate oltre a Yamaya, come ad esempio Toraji Tsukamoto e Kōkichi Kurosaki. Dato che di questi ultimi due studiosi tratteremo nella sezione dedicata al gruppo del Mu-kyōkai (Non-Chiesa), in questa sezione ci limiteremo a prendere in considerazione solo Seigo Yamaya.

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Teologia storica

En Kashiwai (1870–1920) fu il primo giapponese a pubblicare una storia del Cristiane-simo e Masumi Hino (1874–1943) il primo a compilare una storia della dottrina cristiana. La Storia del Cristianesimo di Kashiwai fu pubblicata postuma nel 1924, mentre la Storia della dottrina cristiana di Hino fece la sua comparsa nel 1917. Oltre a Kashiwai e Hino, altri quattro studiosi meritano di essere menzionati per il loro contributo nell’ambito della teologia storica: Ken Ishihara, Tadakazu Uoki, Tetsutarō Ariga e Shigehiko Satō.

Ken IshiharaKen Ishihara (1882–1976) fu il pioniere in Giappone degli studi storici sul Cristianesimo. Come abbiamo già menzionato, studiò storia dapprima all’Università Imperiale di Tōkyō e in seguito filosofia con Koeber. In Germania studiò con von Schubert, uno storico della Chiesa. Malgrado ricoprisse l’incarico di professore di Storia della filosofia occidentale antica e medievale all’Università Imperiale Tohoku, Ishihara era tendenzialmente uno storico e terminò la sua lunga vita come uno storico del Cristianesimo.

Da giovane pubblicò un’opera dal titolo Filosofia della religione (1916), proibendone in seguito la ristampa. Pubblicò numerosi articoli e libri incentrati unicamente sulla storia del Cristianesimo e sulla storia del pensiero cristiano. A questo riguardo sarebbe interessante instaurare un confronto tra Ishihara e il suo maestro Seiichi Hatano, il quale, essendosi in precedenza interessato alla storia del pensiero da una prospettiva filologica, si dedicò negli ultimi anni a pubblicare opere sistematiche di filosofia della religione.

In gioventù Ishihara aveva desiderato studiare i Padri della Chiesa. La sua tesi di dot-torato all’Università Imperiale di Tōkyō aveva avuto come tema il pensiero di Clemente Alessandrino. In seguito scrisse il volume Le Reden über die Religion di Schleiermacher (1922), che include la traduzione del testo originale oltre che un commento di circa sessanta pagine. Durante il suo insegnamento all’Università Imperiale Tohoku, iniziò a allargare i suoi interessi fino a occuparsi del pensiero di Eckhart, di Lutero e degli studi biblici. Come egli stesso ebbe a dire, si sentiva in qualche modo spinto ad avventurasi oltre la propria materia di riferimento. In questo periodo pubblicò Storia del Cristiane-simo (1934), un testo scolastico che fu inserito in una delle collane della Iwanami shoten, la più prestigiosa delle case editrici giapponesi. E poiché non esistevano opere simili in circolazione, il libro, anche se breve, conobbe per molti anni una certa notorietà.

Dopo essersi ritirato dall’Università Imperiale Tohoku, Ishihara fu presidente del Col-legio delle Donne Cristiane di Tōkyō, occupandosi principalmente dell’amministrazione. In seguito ritornò alla quieta vita accademica insegnando all’Università Aoyama Gakuin. Da quel periodo in poi fino al 1959 pubblicò dodici libri sulla Riforma, quindici sulla Chiesa Cattolica Romana, nove sulla teologia del Nuovo Testamento e sulla Chiesa delle origini, tredici sul Cristianesimo orientale e giapponese, e quindici su vari altri soggetti. Tra questi studi, quelli riguardanti la storia delle missioni in Oriente rappresentano un unicum nel loro genere. Egli si interessò a quest’ultimo argomento su suggerimento del

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suo maestro von Schubert, il quale era convinto che lo studio della storia delle missioni fosse di vitale importanza per comprendere il Cristianesimo in Giappone. Negli ultimi anni Ishihara divenne membro dell’Accademia Giapponese e ricevette dal governo la Medaglia alla Cultura. Oltre alla revisione del suo Storia del Cristianesimo, si dedicò poi alla pubblicazione delle sue ultime opere, L’origine del Cristianesimo (1972) e Lo sviluppo del Cristianesimo (1972).

Tadakazu UokiDopo essersi laureato alla Dōshisha, Tadakazu Uoki (1882–1954) si recò a studiare all’U-nion Theological Seminary di New York con A. C. McGiffett, ottenendo un master in Sacra Teologia (s.t.m.) con una tesi su Spener. Studiò poi per sei mesi a Marburgo, in Germania. Al suo rientro in Giappone divenne professore di storia della teologia alla Dōshisha, un ruolo che ricoprì fino alla sua morte. Sebbene nei suoi primi anni di studio scrisse una Storia del pensiero teologico del protestantesimo tedesco moderno (1934) in seguito concentrò interamente il suo pensiero sulla figura di Lutero e su quella di Calvino.

La peculiarità dell’approccio storico-teologico di Uoki risiede nell’attenzione che egli presta alla storia della spiritualità cristiana — e ciò soprattutto grazie all’influsso della Geistesgeschichte di Dilthey — piuttosto che alla storia della teologia o alla storia del pensiero cristiano. Egli diede molta importanza all’esperienza vissuta del Vangelo, da lui inteso come “il grembo della madre da cui nasce la dottrina”, e la metodologia da lui impiegata per investigare la storia della spiritualità cristiana si proponeva di spiegare proprio quell’esperienza. “La storia della spiritualità cristiana” per usare le sue parole, “è lo studio e la descrizione degli sviluppi e dei cambiamenti avvenuti nella comprensione della rivelazione e dell’esperienza del Vangelo, il quale ha dato origine alla Chiesa cri-stiana come gruppo di credenti attraverso i secoli, a partire dalla Chiesa delle origini fino ai nostri giorni”.

Un altro metodo impiegato da Uoki è stato quello dell’analisi tipologica. A suo dire, nella storia della spiritualità cristiana si possono riscontrare le seguenti tipologie: greca, latina, tedesca, anglosassone e asiatica4. Sebbene Uoki riconoscesse delle differenze tra il pensiero di Lutero e quello di Calvino, egli li incluse entrambi all’interno della tipologia tedesca, evitando così di creare un’ulteriore tipologia — quella francese. Il suo Storia della spiritualità cristiana: lo spirito della teologia di Calvino (1948) fu redatto a partire da questa sua originale prospettiva. Scrisse diversi articoli su Lutero, anche se non riuscì mai a pubblicare un’opera completa su di lui. La tradizione spirituale del cristianesimo giapponese (1941) tratta in dettaglio della spiritualità giapponese presente all’interno della spiritualità asiatica e studia il modo con cui i giapponesi, educati nello Shintoismo, nel Confucianesimo e nel Buddhismo, siano stati trasformati venendo a contatto con il Vangelo.

4. Uoki ha forse mutuato questa tipologia da R. Seeberg.

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Tetsutarō Ariga

Anche Tetsutarō Ariga (1889–1977), così come Uoki, si laureò alla Dōshisha, recandosi poi in America, dove studiò all’Università di Chicago e alla Columbia University — oltre che all’Union Theological Seminary di New York, dove conseguì un master in Sacra Teologia (s.t.m.). Al suo rientro fu chiamato a insegnare alla Dōshisha e vi rimase fino al 1948, quando l’Università di Kyōto lo invitò a ricoprire il ruolo di professore di studi cristiani.

Nel 1935 fece ritorno all’Union Theological Seminary, dove scrisse una tesi su Origene, diventando così il primo giapponese a ricevere il dottorato in Teologia in quel Seminario. La sua pubblicazione Uno studio su Origene (1943) era basata su quella sua dissertazione. In precedenza, Ariga aveva curato con Uoki il testo Una sintesi di storia del pensiero cri-stiano (1934), di cui aveva scritto le parti riguardanti il mondo antico e quello medievale. Dopo la seconda guerra mondiale pubblicò una serie di articoli sotto il titolo Teologia simbolica (1946), e nei suoi ultimi cinque anni di vita pubblicò la sua opera principale, Problemi di ontologia nel pensiero cristiano (1969).

Poiché Ariga era uno storico della Chiesa, non ebbe difficoltà alcuna a cimentarsi nello studio dei Padri della Chiesa, seguendo in questo l’esempio di Ishihara. Tuttavia, mentre Ishihara era ritenuto il pioniere indiscusso degli studi patristici, Ariga, con la sua opera su Origene, ebbe modo di incrementare ulteriormente la popolarità di questo ambito di studi.

Sebbene i suoi interessi si rivolgessero principalmente ai pensatori antichi cristiani, si sentiva attratto anche dalle tematiche teologiche. Ariga si era recato a studiare in America prima che la teologia dialettica fosse introdotta in Giappone, e prima ancora dell’ascesa della neo-ortodossia in America, e quindi la sua teologia traeva ispirazione sopratut-tutto dai princìpi della teologia liberale. Per questa ragione, dato che i circoli teologici del tempo stavano risentendo del potente influsso esercitato dalla teologia dialettica, soprattutto quella di matrice barthiana, Ariga deve aver provato un pronfondo senso di isolamento quando ritornò in Giappone e iniziò a esprimere liberamente le proprie idee. Ciò nonostante, e malgrado il predomino della teologia dialettica, egli provò sempre un profondo rispetto per il patrimonio teologico del xix secolo, emulando in questo la tra-dizione di Schleiermacher, Harnack e Troeltsch.

Negli ultimi anni Ariga suscitò scalpore nei circoli teologici per la sua insistenza sul concetto di hayatologia5 presente nel pensiero ebraico, che egli vedeva contrapposto al pensiero greco. Secondo Ariga, nel pensiero ebraico il Sein non può essere pensato indipendentemente dal Werden e dal Geschehen. Sebbene questa sua intuizione non fu ampiamente discussa nei circoli teologici giapponesi, Ariga ha avuto il merito di averla introdotta per primo, anticipando così le riflessioni presenti nei lavori di E. Jüngel (Gottes Sein ist im Werden, 1976) e di Hans Küng (Menschenwerdung Gottes, 1976).

5. [La hayatologia (che deriva dal verbo ebraico in Es 3,14: “Io sono colui che sono”), è contrapposta da Ariga all’ontologia del pensiero greco. Ndt].

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Shigehiko Satō

Shigehiko Satō (1887–1935) era di cinque anni più giovane di Ishihara, anche se più anziano di Uoki e Ariga. Sebbene avesse studiato il pensiero di Lutero, si interessò soprat-tutto di tematiche riguardanti la teologia sistematica, ed è quindi strano considerarlo solo come uno scrittore di storia della Chiesa o di storia della dottrina. Di fatto, la sua posizione ufficiale era quella di professore di storia della teologia presso il Seminario Luterano.

Come abbiamo già accennato, Satō studiò i testi di Lutero all’Università Imperiale di Tōkyō e, allo stesso tempo, studiò anche alla Scuola Teologica di Tōkyō con Uemura. Mentre svolgeva la sua attività di pastore, pubblicò Il giovane Lutero (1920), che lo mise in contatto con il missionario luterano americano Jens Winther, il quale lo invitò a insegnare al Kyūshū Gakuin, una scuola teologica luterana di Kumamoto. Dal 1922 a 1924 si recò in Germania per studi a Tubinga e Berlino, dove si dedicò ad approfondire il pensiero di Lutero con Karl Holl.

Non appena ritornato in Giappone, Satō divenne professore al Seminario Teologico Luterano di Tōkyō, fondò la Società per gli studi luterani e pubblicò la rivista Studi Lute-rani cercando di propagandare con passione le idee di Lutero. Come accadde a Takakura, morì prima di raggiugere i cinquant’anni. Tuttavia, e al contrario di Takakura che era con-vinto dell’importanza del pensiero di Calvino pur rimanendo uno studioso di dogmatica, Satō non fu uno studioso di dogmatica e rimase uno studioso di Lutero.

Durante tutta la sua attività accademica, Satō si occupò della dottrina della fede. Detto altrimenti, la sua preoccupazione teologica principale riguardava l’esperienza reli-giosa. Mentre era a Berlino scrisse Uno studio dell’esperienza religiosa (1924), nella cui “Introduzione” si legge: “Lo scopo di questo lavoro è lo studio dell’esperienza religiosa e della peculiare esperienza della religione, convinti come siamo che l’essenza della reli-gione consista nell’esperienza”. In quest’opera egli tratta della religione della ragione di Kant, della religione del sentimento di Scheiermacher e della religione della coscienza di Lutero. A queste riflessioni fece seguito uno studio su Lutero basato sulla sua tesi di dot-torato all’Università Imperiale di Kyōto, e che diverrà la sua opera principale. Il pensiero fondamentale di Lutero sulla Lettera ai Romani del 1933 fu scritto a testimonianza del suo interesse per la dottrina della fede.

Satō si mostrava critico nei riguardi della teologia dialettica, schierandosi invece con il cosiddetto Rinascimento luterano, uno dei movimenti teologici del xix e xx secolo. Ciò lo portò a scontrarsi con Takakura, il quale non nascondeva le sue simpatie per la teologia dialettica.

Teologia sistematica

Setsuji Ōtsuka Nel seguire lo sviluppo della teologia sistematica dagli inzi del periodo Shōwa fino al

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termine della seconda guerra mondiale (1926–1945), dobbiamo senza dubbio accennare alla teologia dialettica (specialmente quella barthiana) e all’influsso che essa esercitò sui teologi giapponesi, inclusi i cinque studiosi di cui tratteremo in questa sezione. Tra questi cinque studiosi Setsuji Ōtsuka (1887–1977) rappresenta però un’eccezione perché, sebbene avesse subito il fascino della teologia barthiana, non ne rimase contagiato — come invece accadde agli altri del gruppo. Ciò è forse dovuto al fatto che era il più anziano dei cinque e, sebbene fosse nato due anni dopo Takakura e Watanabe, era di ben dieci anni più vec-chio degli altri. Quando la teologia dialettica inizò a essere studiata e conosciuta, Ōtsuka aveva già passato i quarant’anni.

Non appena si laureò alla Dōshisha, il giovane Ōtsuka si recò in America dove ottenne il Baccalaureato in teologia (b.d.) e un Master of Arts (m.a.) alla Columbia University. Negli anni seguenti ebbe questo da dire sul suo periodo di studi all’estero: “In America sono stato discepolo di McGiffert, W. Brown e T. Hall. Ho frequentato i seminari di F. Adler e J. Dewey. Subii l’influsso della scuola ritschliana dai professori della Union, della scuola kantiana da Adler e del positivisimo da Dewey”. In altre parole, egli fu al tempo attratto dal liberalismo. La sua tesi di Master alla Columbia trattava di Thomas Hill Green.

Dopo il suo ritorno, Ōtsuka insegnò prima Morale cristiana e poi Dogmatica alla Dōshisha. Sebbene il suo pensiero avesse avuto modo di assorbire qualche elemento dalla teologia dialettica, egli non divenne mai un barthiano, come invece accadde al suo profes-sore Keiji Ashida. A questo riguardo, Prolegomena all’etica cristiana (1935) e Antropologia cristiana (1948) rimangano le sue opere più rappresentative. Il primo testo tratta della collocazione dell’etica cristiana all’interno della teologia, della natura e del metodo propri dell’etica cristiana, della sua specificità in rapporto alla morale, e del regno di Dio come il summum bonum. Nonostante sia un libro abbastanza prolisso, era stato pensato da Ōtsuka come un’introduzione alla materia (anche se non riuscì mai a scriverne il corpo centrale). Il secondo libro presentava “la descrizione delle risposte dei teologi moderni alle domande fondamentali sull’antropologia cristiana”, incluse quelle di Emil Brunner, Reinhold Niebuhr e Otto Piper. Negli ultimi anni, pubblicò Sintesi del Cristianesimo (1971). Malgrado fosse scritto per trasmettere l’ortodossia della fede cristiana, il libro ha più il carattere di un sommario di dogmatica. Circa il tema della redenzione, egli affermò che sebbene in precedenza avesse considerato il castigo divino come una punizione edu-cativa, ora invece lo riteneva un’azione retributiva.

Hidenobu Kuwada Hidenobu Kuwada (1895–1975) iniziò i suoi studi teologici al Meiji Gakuin, anche se al Dipartimento di Teologia non vi era alcun insegnante di teologia sistematica. Fu August Reischauer, un missionario americano e insegnante di filosofia, che lo incoraggiò a inte-ressarsi di teologia sistematica.

Terminati gli studi al Meiji Gakuin, Kuwada si recò al Seminario Teologico Auburn di New York, dove studiò teologia sistematica con il professore scozzese John Baillie. Grazie

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alle lezioni di Baillie, in seguito pubblicate con il titolo L’interpretazione della religione: uno studio introduttivo ai princìpi teologici, Kuwada si familiarizzò con i teologi europei del xix secolo, come Schleiermacher, Ritschl, Herrmann e Troeltsch. Dopo aver ricevuto il Baccalaureato in teologia (b.d.) alla Auburn, andò a studiare alla Harward Divinity School, dove si specializzò in filosofia della religione con E. C. Moor, ottenendo un master in Sacra Teologia (s.t.m.).

Al suo ritorno, Kuwada insegnò al Meiji Gakuin e nel 1930 fu nominato professore di teologia sistematica presso la Scuola Teologica del Giappone (la quale era sorta in seguito alla fusione della Scuola di Teologia della Meiji Gakuin con il Seminario Teologico di Tōkyō). Sebbene si sentisse affascinato dai volumi Der Verkehr des Christens mit Gott di Herrmann e Das Heilige di Otto, non possedeva ancora una visione teologica personale e le sue idee si basavano su quelle elaborate dalla teologia ritschliana. Tuttavia, al suo ritorno in Giappone si appassionò alla teologia dialettica. Kuwada descrisse questo suo cambiamento non tanto come una svolta, quanto piuttosto come una metanoia, perché mediante questa teologia sperimentò una conversione di fede. Confessò pubblicamente questa sua conversione durante una funzione liturgica nella cappella del seminario e annunciò apertamente di aver rinunciato alla teologia liberale. Poiché anche Keiji Ashida, della Dōshisha, sperimentò una conversione simile, l’impatto che queste persone ebbero sulla teologia liberale fu notevole. Quando in seguito Kuwada venne eletto presidente del Tōkyō Union Theological Seminary, il lavoro amministrativo lo occupò a tal punto da non permettergli di scrivere un’opera accademica di un certo rilievo. Ebbe però modo aiutare le varie Chiese grazie alla sua attività di educatore. Essendo un buon professore, piuttosto che un teologo creativo, formò molti studenti di teologia e li avviò come pastori.

Tuttavia, prima di occuparsi del lavoro di amministrazione del seminario, Kuwada fu uno scrittore abbastanza prolifico. Il suo lavoro più rappresentativo, dal titolo Una sintesi della teologia cristiana (1941), è un sommario di dogmatica (nonostante lo stile americano con cui è stato redatto il titolo). L’influsso della teologia di Barth su quest’opera è note-vole, e ciò risulta evidente soprattutto dai prolegomena. Da Barth, come egli stesso disse, aveva appreso che la teologia è una scienza della Chiesa e una scienza della rivelazione. Si potrebbe anche affermare che questo testo rappresenti la prima introduzione alla dogam-tica in Giappone. Malgrado esistesse già un libro chiamato Dogmatica all’interno dell’o-pera omnia di Takakura, quest’ultimo fu pubblicato postumo dagli appunti tratti dalle sue lezioni. Il libro di Kuwada divenne quindi un classico, oltre che una lettura obbligatoria in vista dell’esame di ordinazione.

Tra i vari scritti di Kuwasa si possono ricordare Teologia dialettica (1933), che contribuì a introdurre questo tipo di teologia in Giappone, L’essenza del Cristianesimo (1932) e Per comprendere la teologia (1939). Uno dei suoi articoli più famosi porta il titolo “L’educa-zione religiosa considerata dal punto di vista dell’Evangelicalismo” e trae spunto da una conferenza che egli tenne a Nikko nel 1935. Basandosi in particolar modo su Das Gebot und die Ordnungen di Brunner, sostiene che l’educazione religiosa deve necessariamente

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fondarsi sulla visione cristiana dell’uomo. Al tempo non si era ancora dato vita ad alcun dibattito riguardante l’educazione religiosa dal punto di vista teologico, e l’articolo venne considerato come un richiamo polemico affinché si stabilisse un principio evangelico per l’educazione religiosa. Dopo la seconda guerra mondiale, quando John C. Bennett venne in Giappone, Kuwada approvò le sue esortazioni in favore della prassi sociale della Chiesa. Poiché al tempo questo sostegno di Kuwada giunse inaspettato, il fatto provocò un forte interesse e suscitò non pochi dibattiti.

Enkichi Kan L’ambiente ecclesiologico in cui crebbe Enkichi Kan (1895–1972) fu l’episcopalismo. Dopo aver studiato con Seiichi Hatano all’Università Imperiale di Kyōto, si recò a Harward dove ottenne un master in Sacra Teologia (s.t.m.). Al suo ritorno divenne professore all’Uni-versità Rikkyō e svolse la sua attività fino a tarda età.

Kan venne a conoscenza del pensiero di Troeltsch grazie a Hatano. Scrisse diversi arti-coli su di lui e tradusse alcuni dei suoi scritti. La sua opera I concetti fondamentali della filosofia della religione (1930) risentiva fortemente delle idee del teologo tedesco. In quel periodo, inoltre, stava nascendo il Movimento sociale cristiano, e sia Kan che Shigeru Nakajima ne divennero convinti attivisti. La trasformazione del Cristianesimo e i suoi princìpi (1930) fu un altro dei suoi libri che suscitò un certo scalpore, dato in esso soste-neva l’idea che la Chiesa dovesse necessariamente avere un risvolto sociale. A partire dal 1933 si dedicò a scrivere articoli riguardanti la teologia dialettica, che furono pubblicati su varie riviste. Nel 1934 dette alle stampe La rinascita della religione e La moderna filosofia della religione, entrambi fortemente debitori nei confronti del pensiero di Brunner. Kan abbandonò presto i dettami del Cristanesimo sociale per appoggiare i princìpi della teolo-gia dialettica, adeguandosi così prontamente alla nuova tendenza europea del momento.

Poiché era molto ricettivo nei confronti delle nuove idee che circolavano negli ambienti teologici, Kan si interessò anche del pensiero di Paul Tillich e Nikolai Berdyaev, le cui idee stavano iniziando ad avere un certo seguito in Europa. Ne tradusse le opere e si adoperò per diffonderne il pensiero in Giappone. Tuttavia, gradualmente iniziò a inte-ressarsi ai vari teologi dialettici, e in special modo a Barth. Nel 1939 scrisse un breve libro su di lui dal titolo La teologia di Barth, e nell’immediato dopoguerra si dedicò con vigore ad approfondire ulteriormente la teologia barthiana, pubblicando in seguito Uno studio su Karl Barth. Dopo la sua morte Il testo fu ulteriormente ampliato e sua moglie lo dette alle stampe con il titolo Uno studio sulla teologia di Barth (1979).

Malgrado Kan fosse un ottimo traduttore e un buon diffusore delle nuove idee teolo-giche provenienti dall’estero, il più rappresentativo dei suoi testi fu Ragione e rivelazione (1953), che gli valse il dottorato all’Università di Tōkyō. In questo libro inizialmente distingue tra la filosofia della religione “filosofica” basata sulla ragione e la filosofia della religione “teologica” fondata sulla rivelazione. La prima ha come fondamento la ragione, la seconda la rivelazione. Esempi della prima sono le teologie di Troeltsch e di Wobber-

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min; della seconda quelle di Brunner e di Barth di cui Kan offre nel libro una sua perso-nale interpretazione.

Brunner aveva elaborato le sue idee sulla filosofia della religione in Religionsphi-losophie evangelischer Theologie (Filosofia della religione della teologia evangelica). Secondo Brunner il compito della filosofia della religione è quello di stabilire delle rela-zioni a) tra la rivelazione e la conoscenza razionale e b) tra la rivelazione e la religione. Barth, invece, non offre alcun indizio su quale debba essere il compito della filosofia della religione. Per supplire a questa mancanza, Kan si impegna a elaborare una risposta a quella domanda proprio a partire da una prospettiva barthiana, e questo è l’aspetto più originale del suo libro. Secondo Kan, Brunner considera la rivelazione come il correttivo e il compimento della ragione, la quale è corrotta dal peccato. Il presupposto di questa intuizione è che sussista ancora un punto di contatto tra la rivelazione e la ragione umana e che proprio in questo punto di contatto la rivelazione istituisca una connessione con la ragione — per quanto quest’ultima sia snaturata dal peccato. Per Barth, invece, la ragione è priva di un simile punto di contatto: “Il contatto è istituito dalla rivelazione stessa, o da qualunque cosa piaccia a Dio”. Detto altrimenti: nessuno è in grado di sapere come stabilire questo contatto. Offrendo questa interpretazione del pensiero barthiano, Kan prosegue affermando che il compito della filosofia della religione è quello di rispondere ai seguenti interrogativi: a) sebbene la teologia non possa evitare di utilizzare una termi-nologia filosofica, come può la teologia rispondere a coloro che affermano che le idee teo-logiche non possiedono alcun legame con quelle usate dai vari sistemi filosofici? b) come può il teologo fissare i limiti della filosofia, dato che quest’ultima sostiene di possedere le risposte ultime? Il teologo è poi in grado di chiarire quali siano le modalità e le direzioni da seguire, allorquando decida di dedicarsi alla filosofia?

Yoshitaka KumanoA differenza di Kuwada e Ariga, i quali trascorsero la loro gioventù in un’atmosfera dominata dalla teologia liberale, il giovane Yoshitaka Kumano (1899–1981) venne com-pletamente contagiato dalla fede e dalla teologia di Masahisa Uemura. Si potrebbe quasi affermare che egli spese gran parte della sua vita a seguire e ad approfondire il sentiero tracciato dal suo maestro di pensiero e di teologia. Seguì tutto il curriculum degli studi teologici alla Scuola Teologica di Tōkyō e non si recò mai all’estero. Ciò nonostante, il teologo americano Michalson affermò che la teologia di Kumano era “la più occidentale” di tutte6.

Dopo essersi laureato alla Scuola Teologica di Tōkyō, Kumano collaborò con la rivista Il nuovo settimanale evangelico, di cui Uemura era editore, e servì per vari anni in qualità di pastore la Chiesa di Hakodate. Dopo il suo ritorno a Tōkyō continuò il suo lavoro

6. La sua esperienza è comunque molta diversa da quella di Kazō Kitamori, che era più anziano di lui. Anche Kitamori non studiò all’estero, tuttavia la sua teologia conserva una forte sensibilità giapponese.

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pastorale e insegnò alla Scuola Teologica del Giappone, diventando più tardi professore al Tōkyō Union Theological Seminary. Si dedicò più alla scrittura che alla pastorale o alle attività educative, e molto del tuo tempo e della sua fatica furono spese per leggere e approfonditamente la letteratura occidentale, diventando il pioniere della dogmatica in Giappone.

Kumano, al pari di Kuwada, divenne famoso per aver introdotto la teologia dialet-tica in Giappone attraverso la pubblicazione del suo Introduzione alla teologia dialettica (1932). Tuttavia, non si limitò semplicemente a introdurla, ma a partire dai risultati da essa ottenuti iniziò ben presto a elaborare una propria prospettiva. Uno dei suoi primi testi, Escatologia e filosofia della storia (1933), può a buon diritto essere paragonato a quelli pubblicati in questo periodo in Occidente e, se il termine “escatologia” divenne un vocabolo conosciuto in Giappone, ciò è dovuto alla grande popolarità che raggiunsero i suoi scritti.

Fu editore della rivista Studi protestanti, stampata in maniera privata, e pubblicò vari testi, tra i quali Le domande fondamentali della cristologia (1934), Uno studio delle lettere giovannee (1934), Teologia contemporanea (1934), L’unicità del Cristianesimo (1937), Fede e realtà (1941), La fede dell’apostolo Paolo (1941), Problemi di teologia neotestamentaria (1943) e Troeltsch (1944).

È abbastanza sintomatico il fatto che durante questo periodo Kumano si interessasse al problema dei credi e delle dottrine della Chiesa istituzionale. Sebbene questo suo interesse gli sia sorto seguendo il dibattito contemporaneo sull’unione della Chiesa in concomitanza con la formazione della Chiesa Unita di Cristo in Giappone (Kyōdan), è probabile che sia stato invogliato a studiare questa tematica da Motokichiro Ōsaka, un anziano allievo di Uemura. Dopo la seconda guerra mondiale, e ad anni alterni, Kumano insegnò Simbolica ecclesiale, raccogliendo molti scritti su quest’area di studio. Tuttavia, e malgrado molti pensassero che stesse preparando un’opera voluminosa al riguardo, pubblicò solo un breve libro su questo argomento, dal titolo La Chiesa e il credo (1942).

Subito dopo la fine della guerra, pubblicò i due testi Sintesi del Cristianesimo (1947) e L’essenza del Cristianesimo (1949), nei quali (soprattutto nel primo) affronta il problema dell’essenza del Cristianesimo sollevato da Harnack e Troeltsch — senza per questo abbandonare la dogmatica, cosa che invece avvenne per i due pensatori tedeschi. Anzi, pone a fondamento della propria dogmatica proprio il problema dell’essenza del Cristia-nesimo. Si potrebbe anche affermare che questo testo sia il più creativo tra quelli da lui scritti e può essere letto come una sintesi espositiva della sua dottrina della Chiesa, una dottrina che dimostra simpatie sia per il Cattolicesimo romano sia per l’anglicanesimo della High Church. Ciò rende le sue posizioni molto vicine a quelle di Motokichiro Ōsaka, il quale era un cultore dei Padri della Chiesa e che, secondo Yoshimitsu Akagi, professore al Tōkyō Union Theological Seminary, optava per una specie di Protestantesimo cattolico.

Kumano continuò a essere uno scrittore prolifico anche nel dopoguerra, pubblicando Martin Lutero (1947), I vangeli sinottici (1952) e Introduzione alla morale cristiana (1960).

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Particolare attenzione si deve comunque prestare al suo Dogmatica, pubblicato in tre volumi nel 1954, 1959 e 1965. Questi testi possono essere considerati il suo opus magnum e la loro qualità accademica è superiore a qualsiasi altro testo pubblicato su questo argo-mento in Giappone. Dopo essersi ritirato dal Tōkyō Union Theological Seminary, si dedicò alla storia della teologia in Giappone e pubblicò Una storia del pensiero teologico giapponese (1968). Malgrado avesse dato inizio alla stesura di Una storia del pensiero morale giapponese sulla rivista Mondo e Vangelo, morì prima di riuscire a portarla a com-pimento.

Kumano ereditò la fede e la teologia di Uemura, non cedendo mai alle lusinghe della teologia liberale. Tuttavia, mentre la prospettiva teologica di Uemura si limitava a consi-derare il solo mondo anglosassone, quella di Kumano era assai più vasta ed era alimentata dalla lettura di varie opere di teologia tedesca, oltre che dai suoi interessi nei confronti degli scritti di alcuni teologi francesi. A differenza di Kuwada, che aveva abbandonato la teologia liberale in favore di quella dialettica, Kumano si era familiarizzato con le opere di Schleiermacher, Ritschl e Troeltsch senza per questo adottarne la prospettiva liberale, interessandosi persino al pensiero di Dilthey. Tutti questi suoi interessi lo aiutarono ad allargare e ad approfondire la sua posizione teologica, e lo stile impresso da Kumano agli studi accademici sopravvive tutt’oggi al Tōkyō Union Theological Seminary. Il tema che lo occupò per tutta la vita, così come impegnò altri teologi del xx secolo, riguardava il problema della fede e della storia, ed egli sfruttò al meglio tutte le sue doti intellettuali per cercare di affrontare questo fondamentale problema, contribuendo così a dar vita alla teologia in Giappone.

Takenosuke Miyamoto Takenosuke Miyamoto (1905–1997) si laureò al Dipartimento di Filosofia dell’Università Imperiale di Tōkyō e fu invitato da Takakura a insegnare presso la Scuola Teologica del Giappone. Takakura era non solo il Preside della Scuola, ma anche il pastore di Miya-moto. In seguito Miyamoto divenne professore di Filosofia della religione al Tōkyō Union Theological Seminary, presidente del Collegio delle Donne Cristiane di Tōkyō e rettore del Ferris Jogakuin.

Miyamoto non fu ordinato pastore e rimase nel suo stato laicale. Avendo subito il forte influsso di Karl Barth e di Tokutaro Takakura, il suo sistema di pensiero oscillava tra filosofia e teologia e, poiché era simpatizzante di Seiichi Hatano, ne ereditò anche le intuizioni sulla filosofia della religione. Al seminario insegnò per diversi anni Filosofia della religione come parte del curriculum di teologia sistematica, un’attività questa che lo rese una figura quasi unica all’interno dei circoli teologici giapponesi.

Nella sua prima opera, I problemi fondamentali della morale cristiana (1939), affronta i problemi della morale a partire dalla prospettiva della teologia dialettica, rifacendosi a Kant e Nicolai Hartmann. Poiché quest’opera non intedeva essere semplicemente un’introduzione alla teologia dialettica, ma un’elaborazione del tutto originale che traeva

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spunto da quella stessa teologia, essa ottenne un discreto successo. In seguito pubblicò una raccolta di saggi dal titolo Filosofia della religione (1942). In questo periodo si dedicò a riflettere su come sia possibile per i cristiani dedicarsi allo studio della filosofia, e le conclusioni del suo lavoro furono pubblicate nel testo Filosofia come simbolo (1948). A suo avviso, malgrado non possa contribuire direttamente alla rivelazione — come invece fa la teologia — la filosofia si fonda sull’amore, il quale è a sua volta radicato nella fede, e manifesta le proprie idee in maniera simbolica. Detto altrimenti: proprio perché il filo-sofo cristiano viene annichilito dalla Sache trascendente ed è quindi soggetto alle limita-zioni del proprio pensiero filosofico, egli è in grado di riflettere e indicare l’espressione di quella stessa Sache trascendente — o, in altre parole, può incamminiarsi lungo il percorso della simbolizzazione.

Miyamoto scrisse in seguito altri libri, tra i quali La logica della vita religiosa (1949), L’immagine dell’uomo nel Cristianesimo moderno (1958), Seiichi Hatano (1965) e I problemi fondamentali della filosofia della religione (1968). Tutte queste opere dimostrano che, seb-bene Miyamoto fosse stato contagiato dalla teologia barthiana, negli anni successivi la sua prospettiva ebbe modo di ampliarsi grazie anche agli insegnamenti di Hatano e Tillich — che incontrò in America. Come abbiamo affermato in precedenza, sebbene Kan, che era un discepolo di Hatano, si fosse interessato alla filosofia della religione senza però elaborarne una propria, anzi dedicando i suoi ultimi anni allo studio di Barth, Miyamoto, al contrario, abbandonò le sue simpatie giovanili per la teologia barthiana, distinguen-dosi in seguito come filosofo della religione e attento conoscitore del pensiero di Hatano. Miyamoto fu così in grado di elarborare una personale e orginale filosofia della religione.

I teologi del Movimento della Non-Chiesa

Toraji Tsukamoto

Molti dei discepoli di Kanzō Uchimura, fondatore del Movimento della Non-Chiesa, diventarono degli evangelici indipendenti come il loro maestro. Tra questi, due di loro — Toraji Tsulkamoto e Kōchiki Kurosaki — si dedicarono in particolar modo allo studio della Sacra Scrittura.

Toraji Tsukamoto (1885–1973) si laureò all’Università Imperiale di Tōkyō e lavorò per nove anni come funzionario del Governo presso il Ministero dell’Agricoltura e del Commercio. Inizialmente aveva studiato Sacra Scrittura mentre lavorava per il Ministero, ma “poiché non riusciva a dedicarsi al lavoro di funzionario così come si dedicava allo studio della Bibbia”, decise di abbandonare il suo impiego e di occuparsi esclusivamente degli studi biblici. La morte della moglie durante il grande terremoto del 1923 causò un drastico cambiamento nella sua vita. Rinunciò all’idea di recarsi a studiare in Germania, impegnandosi invece all’attività di evangelismo. Nel 1929 si rese autonomo da Kanzō Uchimura e inziò a tenere degli incontri regolari di studio della Bibbia, che continuò fino

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al 1960, quando si ammalò. Nel 1930 dette avvio alla pubblicazione della rivista mensile Sapienza biblica, che continuò fino al 1963. Dai quarantacinque ai settantasette anni si dedicò interamente agli incontri di studio della Bibbia e alla pubblicazione della rivista.

Nonostante queste sue attività, ebbe modo di scrivere tre opere su tematiche neote-stamentarie. La prima, Traduzione in lingua corrente del Nuovo Testamento, portata a ter-mine in quattordici anni, tra il 1931 e il 1944, rappresenta un lavoro pioneristico nel settore e fu pubblicata nell’immediato dopoguerra dalla Società Biblica Giapponese. L’opera fu in seguito inclusa dall’editore Iwanami in una serie di edizioni tascabili a carattere divul-gativo. La sua seconda opera portava il titolo Un elenco di differenze nei Vangeli (1951) e il manoscritto del testo fu portato a termine nei tre anni successivi alla sua decisione di dedicarsi completamente allo studio della Bibbia. Sebbene Tsukamoto avesse redatto il manoscritto senza alcuna intenzione di darlo alle stampe, circa trent’anni dopo (e grazie anche al fatto che il testo era sopravissuto al terremoto) si decise a pubblicarlo, grazie anche all’incoraggiamento dei suoi amici. Il testo è un’opera pregevole, di grande valore accademico, e offre un contributo importante agli studi biblici in Giappone. La terza opera riguarda invece uno studio sulla vita di Gesù, un testo composto dai 237 articoli che tra il 1939 e il 1949 aveva scritto sull’argomento per la sua rivista Sapienza biblica. Pare che lo stesso Tsukamoto trattasse queste sue opere come una trilogia. Come il cognato Tarō Yamashita disse di lui, “Tsukamoto studiò e condivise pienamente i risultati della critica biblica del tempo. Tuttavia, quando si trattava di parlare della propria fede, accantonava tutti i suoi studi accademici ed entrava direttamente nella discussione. Ecco perché la sua fu una Vita di Gesù del tutto singolare”. Tsukamoto era una persona appassionata dei suoi studi biblici, ma era soprattutto un devoto credente.

Secondo Goro Mayeda, suo discepolo e studioso del Nuovo Testamento, Tsukamoto avrebbe rifiutato il titolo di “studioso di Bibbia”, anche se, nel senso più ampio del ter-mine, lo era stato davvero. A mio avviso, si discosta da tutti quegli specialisti che si avvicinano al Nuovo Testamento considerandolo come un’opera di teologia. Al pari di Kurosaki, Tsukamoto seguì l’esempio di Kanzō Uchimura e trascorse l’intera sua esistenza da evangelico indipendente. Sebbene possedesse una profonda conoscenza biblica, non insegnò mai all’Università. Non è chiaro se provasse qualche interesse per la teologia, ma una cosa è comunque certa: sebbene fosse un evangelico indipendente, si dedicò allo studio della Bibbia con tutta la competenza che lo contraddistingueva. Uchimura ebbe modo di parlare della “disseminazione biblica di Tsukamoto” riferendosi soprattutto alla passione con cui Tsukamoto si dedicò agli studi biblici, oltre che al considerevole numero delle sue pubblicazioni.

Kōkichi Kurosaki Dopo essersi laureato all’Università Imperiale di Tōkyō, Kōkichi Kurosaki (1886–1970) lavorò per la Sumitomo, una delle società commerciali più importanti del Giappone. Alla morte della moglie, sentì di essere stato chiamato alla vita di evangelico indipendente e

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trascorse il resto della sua esistenza come insegnante di Bibbia. Il percorso religioso di Kurosaki fu quindi molto simile a quello intrapreso da Tsukamoto, anche se, ovviamente, il suo cammino esistenziale fu alquanto diverso.

Figlio di uno studioso di cinese classico, Kurosaki — nonostante il suo retaggio fami-liare — divenne cristiano e seguace di Uchimura mentre frequentava la Prima Scuola Superiore di Tōkyō. Al tempo in cui lavorava per la Sumitomo, divenne precettore dell’e-rede della famiglia Sumitomo e si recò con lui in America. Quando decise di abbandonare la società commerciale e di farsi evangelico, furono in molti che si opposero a questa sua scelta. Di particolare interesse sono le ragioni che il padre addusse per contrastare la decisione presa dal figlio. La prima riguardava il fatto che Kōkichi non aveva ancora ripa-gato tutti i favori ricevuti dalla famiglia Sumitomo. La seconda fu che chi insegna “la via”, deve rivolgersi solo a coloro che desiderano cercarla, evitando di sminuirla svendendola a chiunque. Ora, poiché il padre era rimasto fedele al suo signore feudale, il quale era contrario alla cultura occidentale, la conversione al Cristianesimo di Kōkichi significava nientemeno che l’abbandono del tradizionale ambiente spirituale. Tuttavia, in vecchiaia Kurosaki osservò che, sebbene fosse diventato un evangelico indipendente contro la volontà paterna, ne aveva di fatto seguito l’esempio: così come il padre aveva speso la vita insegnando i Classici cinesi, così lui aveva trascorso la sua esistenza insegnando le Scritture cristiane.

Un anno dopo le sue dimissioni da Sumitomo, Kurosaki si recò in Europa per pro-seguire gli studi. Dapprima andò a Berlino, poi a Tubinga dove incontrò Karl Heim, il quale gli consigliò di pubblicare la sua storia di conversione con il titolo Bekehrung eines Gottlosen. Si spostò poi a Ginevra per studiare il pensiero di Calvino con E. Choisy, e rientrò in Giappone dopo aver visitato la Gran Bretagna e la Palestina.

Nel 1926 Kurosaki iniziò la pubblicazione della rivista mensile Vita eterna e nel 1930 organizzò numerosi incontri biblici nella zona del Kansai, incluse le città di Ōsaka, Kyōto e Kōbe. Si dedicò inoltre alla stesura di numerose opere di carattere divulgativo. La sua rivista fu per un certo periodo messa al bando non solo perché, dopo l’incidente avvenuto in Manciuria, condannava apertamente le politiche del Governo giapponese, ma anche perché criticava severamente le politiche hitleriane. Nel dopoguerra la rivista riprese a essere stampata e la sua pubblicazione proseguì fino al 1966.

Al pari di Tsukamoto, Kurosaki si interessò agli studi biblici; ma, poiché aveva studiato teologia con Heim, i suoi interessi erano molto più vasti di quelli di Tsukamoto. Tuttavia, mentre le opere di Tsukamoto erano più specialistiche, quelle di Kurosaki possedevano un carattere più divulgativo. Il suo primo libro era composto da una raccolta di studi biblici che per oltre quarant’anni aveva pubblicato sulla sua rivista. La sua seconda opera consisteva in una serie di Commenti al Nuovo Testamento che aveva iniziato nel 1929 e che portò a termine nel 1950. Il terzo testo, Brevi commenti all’Antico Testamento, in tre volumi, fu scritto con la collaborazione di un certo numero di amici. La sezione gre-

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co-giapponese della sua quarta opera, Concordanze del Nuovo Testamento, fu pubblicata prima della guerra, mentre la parte giapponese-greco fu completata nel dopoguerra.

Tutti questi lavori testimoniano dell’incrollabile pazienza e dell’inesauribile energia con cui Kurosaki si accostò allo studio della Bibbia. Al pari di quella del suo amico Tsukamoto, la sua vita fu interamente dedita agli studi biblici, anche se, come abbiamo già affermato, egli si interessò anche di altre questioni teologiche. Oltre al suo libro su Calvino, redasse diversi articoli sulla dottrina della Chiesa, cercò di esaminare da una prospettiva teologica il fenomeno della Mu-kyōkai (Non-Chiesa) ed ebbe modo di riflet-tere sul problema della santificazione.

I teologi cattolici

Sebbene oggi la Chiesa cattolica possa contare su un discreto numero di teologi, durante il periodo 1912–1945 il loro gruppo era molto ristretto. Di seguito prenderemo in esame soltanto due di loro: Sōichi Iwashita e Yoshihiko Yoshimitsu.

Sōichi Iwashita Sōichi Iwashita (1889–1949) nacque in una famiglia agiata e ricevette il battesimo durante gli anni del liceo. Dopo essersi laureato all’Università Imperiale di Tōkyō, dove aveva studiato filosofia, divenne insegnante alla Settima Scuola Superiore di Kagoshima. Nel 1918, grazie a una borsa di studio del Ministero dell’Educazione, si recò in Europa per proseguire gli studi. Nel 1925, al termine del suo soggiorno all’Università cattolica di Lovanio in Belgio, al Seminario di St. Edmund in Inghilterra e al Collegio Urbano “De Propaganda Fide” a Roma, fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Venezia. Al suo rien-tro, iniziò a diffondere il pensiero cattolico mediante un energico programma di studio e di pubblicazioni.

Nonostante fosse diventato responsabile di un lebbrosario, continuò a studiare e a scrivere fino al termine dei suoi giorni, contribuendo così in maniera sorprendente all’at-tività missionaria e intellettuale del tempo. È ricordato come uno studioso che pose le basi per lo studio del pensiero europeo medievale in Giappone. Grazie ai suoi numerosi scritti e alla sua solida formazione teologica aiutò la Chiesa cattolica giapponese ad assu-mere un ruolo di leadership.

Da studente, Iwashita subì l’influsso del pensiero di von Koeber, mentre nei suoi anni giovanili nutrì una profonda attrattiva per le opere di von Hügel e in seguito per quelle di Garrigou-Lagrange. Il suo interesse accademico non era rivolto solo ai Padri della Chiesa e alla filosofia scolastica, ma anche al pensiero moderno, soprattutto a quello di Martin Lutero. Desiderava studiare il pensiero di Lutero a partire da una prospettiva cattolica, in quanto era convinto che Lutero avesse in qualche modo distorto il pensiero europeo. Così facendo, intendeva dimostrare l’ortodossia della tradizione cattolica.

Come ebbe a dire il discepolo Yoshihiko Yoshimitsu, Iwashita non era quel tipo di stu-

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dioso che elabora un sistema di pensiero a partire dalle idee metafisiche, ma era convinto di essere in grado di dimostrare, da un punto di vista sia teoretico che pratico, la verità di Cristo a partire dalla concretezza storica della vita religiosa. Ad esempio, sebbene i suoi amici gli chiedessero di dedicarsi nuovamente alla vita accademica, decise di occuparsi del lebbrosario, cosa questa che destò viva impressione nell’opinione pubblica. A quanto pare, questa sua decisione fu presa per motivi caritatevoli e con l’intenzione di essere partecipe del sacrificio di Cristo.

Una delle sue opere più caratteristiche, pubblicata postuma, porta il titolo Il deposito della fede (1941) e consiste in una raccolta di vari saggi teologici pubblicati in precedenza sulla rivista Studi cattolici, nei quali Iwashita affonta il problema dell’autorità della Chiesa cattolica, il sacerdozio e i sacramenti, la giustificazione e la santificazione, e altre tema-tiche simili. Un altro suo testo, Uno studio sulla storia della filosofia medievale, fu pub-blicato anch’esso postumo ed era composto da alcuni saggi già pubblicati, come Correnti di pensiero medievale (1928), Filosofia neo-scolastica (1932) e “La città di Dio” di Agostino (1935).

Yoshihiko Yoshimitsu Durante il periodo di studio trascorso presso l’Università Imperiale di Tōkyō, Yoshimitsu (1904–1945) entrò in contatto con il pensiero di Iwashita e si convertì al Cattolicesimo. Dopo essersi laureato, si recò in Francia a studiare neo-tomismo con Jacques Maritain. Ritornò in Giappone nel 1933 e iniziò a insegnare presso l’Università Sofia e il Seminario Cattolico. Sua moglie morì tre mesi dopo il loro matrimonio. In seguito divenne leader del movimento studentesco cattolico. Nel 1935 fu nominato professore di Etica all’Uni-versità Imperiale di Tōkyō e si dedicò con grande impegno alla scrittura. Morì di cancro ai polmoni nel 1945.

Con Iwashita, Yoshimitsu fu uno dei leaders intellettuali dei cattolici in Giappone, sebbene morì prima di poter ricevere l’ordinazione sacerdotale. Molti dei suoi scritti non trattano solo di teologia, ma anche di filosofia della religione e di filosofia cristiana, con particolare riferimento alla Geistesgeschichte. Poiché l’Università Imperiale di Tōkyō non offriva un programma di studi sul pensiero medioevale europeo, Yoshimitsu fu ini-zialmente introdotto a quest’area di studio da Iwashita mediante la lettura della Summa Theologica di san Tommaso. In seguito si accostò al neo-tomismo grazie ai suoi studi con Maritain a Parigi e al pensiero cattolico moderno grazie alla corrispondenza con Erich Przywara quando questi si trovava a Monaco.

Nei dieci anni intercorsi tra il suo ritorno in Giappone fino alla sua prematura morte, Yoshimitsu scrisse diversi articoli che dimostrano come i suoi contributi non si limitas-sero alla sola introduzione del neo-tomismo, ma prestassero attenzione anche al pensiero moderno — da lui considerato una vera malattia, e il cui rimedio era da ricercarsi nel tomismo. Yoshimitsu si sentiva attratto da tutti quei pensatori — come ad esempio Pascal, Kierkergaard, Nietzsche e John Henry Newman — che, dopo aver descritto con preci-

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sione la crisi e le sciagure prodotte dal pensiero moderno, cercavano di offrirne anche un’alternativa. Nell’accostarsi a questi pensatori, sperimentva su di sé l’angoscia dell’uomo moderno, esprimendo al contempo la sua personale convinzione che proprio in questa angoscia si potessero scovare dei segni di salvezza.

Yoshimitsu nutrì un profondo interesse anche per la letteratura e spesso ebbe modo di discutere di pensatori quali Dostoevski, Rilke e Péguy. Per questa ragione egli fu chiamato “il filosofo poeta”.

Tra le sue varie opere si possono ricordare Cattolicesimo, Tommaso, Newman (1934), I problemi fondamentali dell’etica culturale (1936), Poesia, amore ed esistenza (1940), e Il Dio del filosofo (1947). Dopo la sua morte, le opere complete di Yoshimitsu furono pubblicate in quattro volumi: vol. 1, L’idea di cultura e religione (1947); vol. 2, Uno studio del Geiste-sgeschichte medievale (1948); vol. 3, Uno studio di storia della filosofia moderna (1949); vol. 4, La mistica e l’età moderna (1952).

I periodi dall’anteguerra al dopoguerra

Il decennio che precedette la fine della guerra (1935–1945) fu dominato dalla teologia barthiana, tanto che essa diventò la nuova ortodossia del cristianesimo giapponese. In questo periodo Barth aggiunse il volume 2/1 alla sua Kirchliche Dogmatik, distanziandosi alquanto da quello scolasticismo conosciuto con il nome di “dogmatica barthiana”. È innegabile che lo spirito della teologia barthiana, con la sua attenzione nei confronti della teologia della Parola di Dio, della teologia della rivelazione e dell’interesse per la cristo-logia, esercitò un irresistibile influsso sulla teologia protestante giapponese del tempo.

La teologia del dopoguerra deve essere interpretata alla luce di questa situazione prebellica. Uno dei più ferventi entusiasi dell’ortodossia barthiana fu senz’altro Kano Yamamoto. Nel 1947 pubblicò Politica e religione. Come lottò Barth?, che ebbe il merito di introdurre il Barth del Kirchenkampf tedesca. In seguito, sempre sotto il potente influsso della teologia barthiana, scrisse la sua opera principale, La teologia della Heilsgeschichte (1972).

Tuttavia, alcuni teologi giapponesi cercarono in vari modi di detronizzare questa orto-dossia barthiana. Kazō Kitamori (1916–1998), autore di Teologia del dolore di Dio (1946), cioè di una teologia incentrata sull’idea di un Dio-amore che soffre accanto all’uomo, criticò la teologia barthiana per l’eccessiva enfasi accordata alla figura di Dio a scapito di quella dell’uomo, e per la preminenza riservata al primo comandamento all’interno del suo sistema teologico. Kitamori interpretò la teologia di Barth come una teologia che prestava esclusivamente attenzione al Dio della legge. Come ci si potrebbe aspettare, le repliche di Barth agli attacchi sferrati da Kitamori furono quanto mai veementi.

Jirō Ishii (1910–1987), al termine di un lungo periodo di studi, dette alle stampe Uno studio su Schleiermacher (1948). Lo scopo di questo suo lavoro non era quello di porre Schleiermacher in competizione con Barth, quanto piuttosto di difendere Scheiermacher

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dalle critiche di Barth e di Brunner. Secondo Ishii, la teologia di Schleiermacher non è affatto una forma di soggettivismo, come insiste Brunner, quanto piuttosto un höherer Realismus, come aveva ben compreso Hatano.

Kazuo Mutō (1913–1995) è un altro teologo che intraprese un percorso teologico diverso da quello di Barth. Così come Enkichi Kan, promosse una filosofia della religione “teologica” piuttosto che una filosofia della religione “filosofica”. Il suo intento era quello di porre la filosofia della religione come medium tra la teologia e la filosofia. Secondo Mutō, la precedente filosofia della religione si proponeva di porre come medium tra la teologia e la filosofia la ragione, con il risultato che la teologia veniva a perdere la sua autonomia. La teologia di Barth e di Brunner, al contrario, insistendo sulla totale autosufficienza della teologia, svuotava la filosofia della sua autonomia. A differenza di queste due posizioni Mutō vede nell’esistenzialismo religioso di Kierkergaard un modello di filosofia della religione teologica che non privando la teologia e la filosofia delle loro rispettive autonomie, tuttavia le media. Questa prospettiva è articolata nel suo Tra teolo-gia e filosofia della religione (1961).

La tendenza a opporsi all’ortodossia barthiana può chiaramente essere notata negli autori della generazione più giovane, i quali iniziarono a studiare teologia nell’imme-diato dopoguerra. Toshio Satō (1923–2007), malgrado provasse grande stima per Barth, si dedicò allo studio della teologia del xix secolo con l’intento di contrastare la teologia barthiana. Nel suo testo Teologia moderna (1964) discusse del pensiero di Schleiermacher, Ritschl, Herrmann e Troeltsch. In seguito i suoi scritti seguirono due filoni di pensiero: quello della dogmatica, con particolare attenzione al pensiero di Barth, e quello dell’etica culturale, in cui privilegiava il pensiero di Troeltsch.

Yasuo Furuya (1926–2018), ebbe modo di conoscere il pensiero di Barth grazie a Kano Yamamoto e fu incoraggiato a studiarlo da Yoshitaka Kumano. La sua dissertazione alla Princeton University riguardava l’assolutezza del Cristianesimo, e anche in questo caso si nota una certa attenzione per i problemi sollevati da Barth e Troeltsch. Anche se Furuya scrisse molte opere sul Cristianesimo americano, mantenne però sempre vivo l’interesse per la tematica riguardante il rapporto tra Cristianesimo e le altre religioni, e pubblicò un libro dal titolo Teologia delle religioni (1985).

Hideo Ōki (1928–), che aveva studiato con Brunner in Giappone e si sentiva vicino alle idee di Troeltsch, si iscrisse all’Union Theological Seminary e discusse la sua tesi sul Puritanesimo con Reinhold Niebuhr. Ōki fu il primo teologo a introdurre al pubblico cri-stiano la teologia dell’alleanza e l’idea puritana del diritto naturale. Come dimostra il suo primo libro, Brunner (1962), all’inizio stimava la teologia di Brunner, ma in seguito prestò maggiore attenzione al pensiero di Barth, su cui scrisse uno studio dal titolo Barth (1984).

Yoshinobu Kumazawa (1929–2002) studiò con Brunner, si interessò al pensiero di Bultmann e discusse la sua tesi sull’ermeneutica a Heidelberg. Il suo primo libro, Bult-mann (1962), divenne un’opera pionieristica nel campo dell’ermeneutica, un’area di studio che conobbe la sua diffusione agli inizi nel dopoguerra.

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Sebbene ci siano altri teologi che qui potrebbero essere presi in considerazione, il loro pensiero verrà analizzato nel capitolo seguente. Qui ci siamo limitati a tratteggiare solo alcuni aspetti di quell’atmosfera teologica postbellica che subentrò all’ortodossia barthiana del periodo bellico.

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la terza generazione, 1945–1970

Seiichi Yagi

La resa incondizionata del Giappone, avvenuta nel 1945, ebbe delle importanti ripercussioni per il Pae­se. La Guerra del Pacifico era stata infatti contrasse­

gnata da quattro elementi:

a) L’imperialismo: dopo aver raggiunto una parziale modernizzazione attraverso l’adozione del sistema capi­talistico, il Giappone iniziò a colonizzare i Paesi vicini e invase la Cina;

b) Il nazionalismo: la guerra incoraggiò il Giappone tradi­zionalista a resistere all’assoggettamento del Paese da parte della civiltà occidentale. La liberazione dei Paesi asiatici dal colonialismo occidentale fu uno degli obiettivi dichia­rati della guerra, anche se in realtà era il Giappone che desiderava sostituirsi alle potenze del mondo occidentale;

c) Un sistema di governo guidato dall’Imperatore, con­nesso allo Shintoismo;

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d) Il totalitarismo: la guerra fu condotta in uno stato di emergenza totalitaria sotto la guida dell’Imperatore, considerato una figura divina.

Dopo la resa, i quattro aspetti della guerra appena menzionati produssero altrettanti effetti:

a) Il crollo del vecchio sistema politico e un crescente interesse o simpatia nei confronti del comunismo; la nascita, specialmente tra gli intellettuali, di un movi­mento che si opponeva allo status quo;

b) Una quasi totale mancanza di rispetto per la tradizione giapponese e un’ammi­razione per la cultura occidentale, incluso il Cristianesimo;

c) La separazione tra religione e Stato introdotta nella nuova Costituzione;

d) la democratizzazione del Giappone — forse il più importante incentivo per lo sviluppo del Giappone durante il periodo postbellico.

Con la nuova Costituzione, il Giappone rinunciò alle sue mire imperialistiche e al diritto di intervenire nei conflitti bellici, esprimendo perciò la sua volontà di rimanere ai margini delle potenze mondiali. Tuttavia, l’acuirsi della tensione tra l’America e la Russia incorag­giò il Giappone ad adottare il sistema capitalistico, favorendo così il proprio ingresso tra le nascenti potenze economiche. Tutti questi elementi politici ed economici che caratte­rizzarono l’immediato dopoguerra, ebbero un notevole influsso sulla vita del Paese. Di un certo rilievo fu l’interesse che il Giappone provò nei confronti del comunismo, del Cristianesimo e dell’esistenzialismo — quest’ultimo originato dalla sconfitta del naziona­lismo, che portò molti a interrogarsi sul significato della propria esistenza.

Sebbene lo Stato, durante il periodo bellico, non avesse proibito il Cristianesimo, que­sto veniva in ogni caso considerato un elemento estraneo e occidentale, e quindi dannoso per la nazione. Un buon numero di cristiani si schierarono in favore della guerra, facendo così sfoggio della loro lealtà nei confronti del Giappone. Tuttavia, la situazione mutò radicalmente nel dopoguerra e il Cristianesimo iniziò a esercitare un certo fascino sulla società. Il numero dei cristiani e il loro l’influsso sugli intellettuali crebbe a dismisura. La Chiesa cristiana era però molto cambiata rispetto a quella dell’anteguerra: era ora mag­giormente orientata dal punto di vista sociale e condannava apertamente le ingiustizie sociali. Al suo interno vi si potevano trovare perfino dei comunisti cristiani. La Chiesa doveva inoltre offrire risposte alle domande esistenziali delle persone e ciò portò allo sviluppo della teologia esistenzialistica cristiana. Tutte queste circostanze indussero una Chiesa ancora fin troppo occidentalizzata a ricercare quei fondamenti che le avrebbero garantito non solo una certa indipendenza, ma anche una più autentica testimonianza di

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fede all’interno di un contesto sociale non cristiano. Questo è il motivo per cui la teologia di Karl Barth fu accolta in maniera così entusiastica. I cristiani iniziarono a criticare il sistema imperiale e l’unione di religione e Stato, soprattutto così come questa si mani­festava nel culto del santuario Yasukuni (in cui si praticava la divinizzazione dei caduti in guerra). Inoltre, si dichiaravano piuttosto scettici e critici nei riguardi dell’improvvisa crescita “imperialistica” dell’economia giapponese.

La resa portò un cambiamento radicale anche nel sistema dei valori del Paese, ren­dendo molti giovani consapevoli della mancanza di giustificazione dello status quo. Il trauma provocato dal crollo di tutti quei valori a cui i giovani si erano in precedenza affidati ritenendoli come il loro sommo bene, li spinse a dubitare di qualsiasi fonda­mento o principio autoritario. Ciò portò alcuni giovani cristiani a vagliare criticamente il Cristianesimo e i suoi princìpi, incoraggiandoli a entrare in contatto con altre religioni, soprattutto con il Buddhismo. Ciò che invece rimase immutato anche durante il periodo postbellico fu l’impegno a familiarizzarsi con la teologia occidentale.

Questa breve analisi, necessariamente sommaria, ci offre una provvisoria introdu­zione alle circostanze che caratterizzarono il periodo dell’immediato dopoguerra. Pas­siamo ora a esaminare qualche esempio concreto.

Negli anni che seguirono la resa, la teologia di Karl Barth fu accolta con grande entusiasmo. Essa aveva già esercitato un considerevole influsso negli anni trenta, ma dal dopoguerra fino alla fine degli anni sessanta ricoprì un ruolo indiscusso all’interno delle chiese protestanti giapponesi. La presenza di Emil Brunner in Giappone negli anni cinquanta, la sua dottrina, il suo impegno per stabilire una relazione tra la Chiesa e la Non­chiesa rimasero per molto tempo impressi nella memoria dalla chiesa giapponese. Sebbene godesse di grande stima, la sua teologia non riuscì a ottenere i riconoscimenti dovuti, a causa dell’intenso interesse dei protestanti giapponesi nei confronti della teo­logia barthiana, la quale rifiutava la theologia naturalis di Brunner. Uno dei teologi che rimase fedele a Barth anche dopo il 1970, fu Kano Yamamoto, il quale nel 1972 pubblicò La teologia della Heilsgeschichte.

I giovani teologi che avevano studiato in America iniziarono a divulgare le idee di Reinhold Niebuhr e Paul Tillich, e tradussero in giapponese le loro opere maggiori. Dalla fine del 1950, Rudolf Bultmann e la sua scuola trovarono entusiastici estimatori in impor­tanti circoli intellettuali. La controversia scaturita tra Bultmann e Barth si rifletteva anche nelle discussioni teologiche che al tempo vertevano su problemi quali quelli di critica sto­rica, di ermeneutica e del Gesù storico. In questo periodo lo studio della Bibbia non fu più relegato nei soli ambienti ecclesiastici, ma divenne una materia di studio universitario.

In questo periodo crebbe anche l’interesse per il pensiero di Dietrich Bonhoeffer. Durante la seconda metà degli anni sessanta vennero introdotte le idee di J. Moltmann e W. Pannenberg, i cui testi più importanti furono tradotti e accompagnati da studi comparativi riguardanti le rispettive teologie. Naturalmente, un certo interesse suscitò anche la teologia americana: venne ad esempio tradotto La città secolare di H. Cox e

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la teologia della “morte di Dio” fu al centro di numerosi dibattiti. Notevoli progressi si registrarono nello studio della storia della teologia, della teologia sistematica e della Bibbia. Le seguenti sono alcune delle opere più importanti pubblicate nel campo della teologia sistematica e della storia della teologia: Yoshinobu Kumazawa, Bultmann (1962); Toshio Satō, Teologia moderna (1964) e Perdita e ripristino della religione: la secolarizza-zione come destino del Cristianesimo (1978); Hideo Ōki, Le teorie morali del Puritanesimo (1966); Yūzaburō Morita, La modernità del Cristianesimo (1973); Keiji Ōgawa, Soggettività e trascendenza (1975).

Gli autori appena citati, così come altri teologi che insegnarono in dipartimenti e scuole di teologia, svolsero il ruolo di rappresentanti degli studi cristiani e contribuirono in maniera determinante ad approfondire il livello degli studi teologici in Giappone — sebbene questi ultimi risentissero ancora ampiamente dell’influsso del pensiero occiden­tale. In questo capitolo, tuttavia, non prenderemo in esame le loro opere. Presenteremo invece il lavoro di quei pensatori che sebbene godessero di una crescente popolarità per l’ampia diffusione dei loro testi, rimasero ai margini della teologia ufficiale, operando in modo isolato e insegnando per la maggior parte in scuole statali.

Uno degli aspetti caratteristici di questo periodo fu la fondazione di alcune importanti società per lo studio della teologia: la Società Giapponese per gli Studi dell’Antico Testa­mento (1933, rifondata poi nel 1947); la Società per lo Studio della Storia del Cristianesimo (1949); l’Istituto Biblico Giapponese (1950); la Società Giapponese per gli Studi del Nuovo Testamento (1960); i Simposi Zen­Cristianesimo (1967); e la Società Giapponese per gli Studi Buddhisti­Cristiani (1982).

Tra il 1969 e il 1972 quasi tutte le università del Giappone, comprese quelle cristiane, furono travolte da violenti movimenti studenteschi. Per questa ragione furono soppressi i corsi di Cristianesimo e di letteratura sia al Dipartimento dell’Università Aoyama Gakuin di Tōkyō sia al Dipartimento di Teologia dell’Università Kanto Gakuin di Yokohama.

Giunti al termine di questa premessa generale, procediamo ora all’analisi dei singoli teologi e del loro pensiero.

Kazō Kitamori e la teologia del dolore di Dio

Nel 1946 — un anno dopo la resa del Paese — il giovane teologo Kazō Kitamori (1916–1998), al tempo docente associato al Seminario Teologico del Giappone (ora rinominato Tōkyō Union Theological Seminary), pubblicò Teologia del dolore di Dio sollevando un notevole scalpore tra i lettori cristiani. Il solo fatto che un giapponese avesse scritto un’o­pera originale di teologia sistematica, diventando così il primo vero teologo in Giappone, destò considerevole sorpresa e interesse. Kitamori, che era nato nel 1916 e si era laureato alla Scuola di Teologia Luterana nel 1938 e al Dipartimento di Filosofia dell’Università Imperiale di Kyōto nel 1941, aveva scritto un saggio sul dolore di Dio già durante il suo periodo di studi (1936). L’idea del dolore di Dio sorse in lui mentre si sforzava di com­

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prendere correttamente e adeguatamente il Vangelo, e già da allora riconobbe nell’idea del dolore di Dio il nucleo fondamentale del Vangelo.

Secondo Kitamori, il dolore di Dio è la prova che Dio ama l’oggetto della sua ira, cioè i peccatori, e questo suo amore trascende la sua collera. Ciò significa anche che il Dio che ama e il Dio che prova ira sono uno e il medesimo Dio. Dio ama coloro che Dio non può amare in maniera spontanea, e per questo ha mandato nel mondo il suo unico Figlio. Poiché il Dio d’amore trascende il Dio irascibile, allora Dio è il Dio che abbraccia e avvolge ogni cosa. Tuttavia, l’amore di Dio non è affatto un amore immediato, ma un amore mediato dal dolore e fondato sul dolore. Dio non è semplicemente il Dio che prova ira e non è neppure il Dio che semplicemente ama. In questo modo Kitamori intravede nel dolore di Dio l’essenza stessa del Vangelo.

Tutto ciò significa forse che Kitamori sostenga una visione patripassionista di Dio? Nel rispondere a questa domanda, Kitamori traccia nel suo libro una netta distinzione tra il Dio Padre, che prova dolore, e il Dio Figlio, che invece muore in croce. Chi soffre sulla croce è il Dio Figlio, non il Dio Padre. Il Padre prova dolore a causa della morte del Figlio. Kitamori insiste quindi nel ritenere che la teologia del dolore di Dio non sia per nulla contraria all’ortodossia della fede e, convinto della genuinità della propria interpretazione del Vangelo, procede a sferrare una feroce critica al pensiero barthiano. Kitamori è infatti convito che il Dio di Barth non possa coincidere con il Dio che abbraccia ogni cosa, per­ché Barth insiste sull’esclusività della rivelazione, sull’opposizione tra Dio e mondo, e sulla distinzione qualitativa che intercorre tra loro. Kitamori critica poi la teologia liberale, perché questa predica un Dio il cui amore si risolve in un’immediatezza priva di dolore. Critica inoltre il Cristianesimo ellenico perché descrive Dio con categorie ontologiche, trascurando così l’idea di un Dio che prova dolore. Secondo Kitamori, la teologia tedesca non ha sufficientemente riflettuto e insistito sul concetto del dolore di Dio.

Per Kitamori il dolore umano rappresenta un’analogia, un simbolo del dolore di Dio. Ovviamente, il dolore umano è qualitativamente diverso dal dolore di Dio in quanto il primo deriva dal peccato umano, che è fatto oggetto dell’ira di Dio. Entrambi i dolori, però, posseggono un elemento in comune, così che il primo può fungere da richiamo analogico per il secondo. Kitamori offre un esempio di questa analogia discutendo il concetto di tsurasa, un’idea questa che è peculiare della letteratura giapponese. Tsurasa è il dolore di colui che, per salvare coloro che ama, infligge dolore a se stesso o al proprio figlio, fino al punto di ucciderlo. In altre parole, la tradizione culturale del Giappone può essere considerata come una specie di propedeutica per la comprensione del Vangelo. (Il fatto che il concetto di tsurasa sia inteso come un’analogia per il dolore di Dio, può aver offerto una qualche consolazione a coloro che sperimentarono questo tsurasa durante la guerra).

Secondo Kitamori, il cristiano può certamente essere uno in Dio, come nella mistica, ma non può essere uno in Dio in maniera immediata. Non è però del tutto corretto soste­nere che quest’ultima unione sia impossibile. Di fatto, Dio e l’uomo diventano immedia­

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tamente uno nel dolore, cioè in ciò che nega l’immediatezza. Questo, perché, anche se il dolore è ciò che nega l’unione immediata dell’uomo con Dio, nel dolore esiste un’unione mistica di umanità e di divinità, e questa unione mistica non abolisce il discorso etico, quanto piuttosto lo fonda. L’autonegazione di Dio, infatti, non è solo la condizione di possibilità dell’autonegazione umana, ma è anche ciò che stimola nell’uomo una risposta etica. Il dolore divino si trasforma quindi in dolore umano, il quale sfocia nell’imperativo morale dell’amore per i propri nemici.

A partire da questa idea del dolore di Dio, l’escatologia cristiana si articola nel modo seguente: la fine della storia avrà luogo quando il Vangelo sarà predicato fino ai confini del mondo (Mt 24,14), e la condizione indispensabile per raggiungere la fine della storia è appunto la consumazione del dolore di Dio. Il Figlio dell’Uomo è colui che soffre per primo e la fine della storia avrà luogo quando il dolore del mondo avrà raggiunto il suo compimento.

L’opera Teologia del dolore di Dio raggiunse una notorietà tale che Kitamori fu ben pre­sto considerato come il teologo giapponese. Tuttavia, la sua teologia non fu molto apprez­zata dai teologi accademici. In primo luogo, perché si riteneva che le sue idee sostenessero il patripassionismo, nonostante Kitamori avesse ripetutamente respinto questa accusa. In secondo luogo, perché Kitamori aveva criticato la teologia di Barth proprio quando quest’ultima stava dominando il pensiero teologico. In terzo luogo, perché Kitamori, con­tro il diffuso sentire del tempo, manteneva un atteggiamento positivo nei confronti della tradizione culturale giapponese. Da ultimo, Kitamori avrebbe dovuto esporre la genesi del dolore di Dio in maniera molto più articolata e convincente, evitando così le criti­che di coloro che ritenevano che quell’idea non fosse coerente con la fede della Chiesa. Kitamori ricevette un’accoglienza diversa e certamente più positiva da parte dei cristiani e dei filosofi del Mu-kyōkai. Negli anni sessanta il dolore di Dio divenne un tema molto studiato in Europa e la teologia di Kitamori fu commentata da teologi come D. Sölle, J. Moltmann e H. Küng. L’opera Teologia del dolore di Dio è stata tradotta in diverse lingue europee e oggi sembra stia attirando una considerevole attenzione anche in Giappone.

Sakae Akaiwa e l’esodo dal Cristianesimo

Sakae Akaiwa (1903–1966) non fu un accademico ma un pastore, e qui di seguito ci occuperemo più della vicenda della sua vita che dei suoi scritti. Akiwa nacque nel 1903 nella prefettura di Ehime, nello Shikoku. Nel 1928 si laureò presso il Seminario Teologico di Tōkyō (ora rinominato Tōkyō Union Theological Seminary), e nel 1932 fu ordinato pastore della Chiesa di Cristo in Giappone (ora chiamata Chiesa Unita di Cristo in Giappone). In seguito si dedicò con successo alla missione di pastore protestante e alla scrittura. Nel 1930 ebbe modo di accostare le idee di Karl Barth, di cui divenne uno dei più entusiastici sostenitori.

Al termine della guerra, Akaiwa cominciò a provare una crescente simpatia per il

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marxismo. Quest’ultimo non lo attraeva tanto perché fosse convito della necessità storica della transizione dal capitalismo al comunismo. Akaiwa riteneva infatti che l’uomo fosse una creatura capace di entrare in comunione con Dio, oltre che un individuo posto all’in­terno di una relazione io­tu e membro attivo della società; considerava quindi l’umanità nella sua totalità, e a questa sua visione dette il nome di “umanesimo”. La sua simpatia per il marxismo si fondava perciò su questo suo “umanesimo”, il quale era a sua volta basato su ciò che aveva appreso riguardo alla natura umana dall’insegnamento di Gesù.

Akaiwa era contrario all’uso della violenza come motore della trasformazione sociale, ma era anche convinto che i metodi usati dal sistema capitalistico fossero altrettanto brutali. Nel 1949 decise quindi di aderire al partito comunista, fatto questo alquanto inu­suale per un cristiano. Tuttavia, questa sua decisione non fu mai realizzata, forse perché il partito comunista si dimostrò restio ad accoglierlo tra le sue fila, o forse ancora perché Akaiwa stesso temeva di scandalizzare i fedeli della sua chiesa. Da un punto di vista teo­logico, egli non condivideva appieno i princìpi marxisti, ed era convinto che l’assolutiz­zazione dell’aspetto economico­politico della vita umana — la quale assoggetta gli esseri umani alla causa del marxismo — travisi la verità.

Akaiwa iniziò a distanziarsi dalla teologia barthiana dopo il 1955. Ciò avvenne, come egli stesso ebbe modo di riferire, nel modo seguente. Akaiwa lesse i libri che Barth aveva scritto su Mozart. In essi Barth affermava di non sapere se le composizioni di Bach venissero suonate in paradiso, ma di essere comunque certo che quando gli angeli si radunavano tra loro suonavano quelle di Mozart, e che Dio era felice di ascoltarli. Akaiwa si chiese come mai Barth, un semplice uomo, conoscesse così tante cose di Dio. Ciò lo indusse a una certa antipatia nei confronti della persona di Barth, che in seguito si estese a tutta la teologia barthiana. Nel marzo 1959 si recò da un venditore di libri di seconda mano e si disfò di tutti i volumi della Dogmatica ecclesiale di Barth — volumi che solo poco tempo prima erano stati da lui considerati il proprio orgoglio e gaudio. Con il rica­vato invitò tutti i suoi amici in un ristorante di Tōkyō e celebrò la sua liberazione dalla teologia barthiana con un buon bicchiere di champagne.

Barth, secondo lo stesso Akaiwa, era stato per lui come una specie di super­ego: sotto il suo controllo, aveva dovuto divulgare la teologia barthiana, ma ora era finalmente diventato consapevole di ciò che stava facendo. Un ulteriore elemento che contribuì alla sua liberazione fu la scoperta degli studi di critica neotestamentaria di stampo tedesco che lo convinsero della bontà degli studi storiografici e di critica biblica.

Nel 1964 Akaiwa scrisse L’esodo dal Cristianesimo, nel quale racconta il suo esodo personale non solo dalla teologia barthiana, ma anche dallo stesso Cristianesimo. In sin­tesi, il libro sostiene che i Vangeli non sono una documentazione storica di Gesù e che le categorie e i concetti della teologia paolina sono mitologici. In questo senso, il libro non rappresenta un contributo teologico originale, in quanto si limita solo a ribadire i risultati a cui erano già approdati gli studi di critica neotestamentaria del periodo postbellico. Tuttavia, Akaiwa giunse a queste conclusioni in maniera del tutto onesta e sincera, con­

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vinto com’era che il Cristianesimo tradizionale fosse privo di qualsiasi fondamento. Per questa ragione rifiutò quel tipo di interpretazione bultmanniana che sebbene accettasse la predicazione degli apostoli, intendeva però escludere dal Nuovo Testamento qualsiasi autocomprensione esistenziale. Si decise quindi ad abbandonare sia il Cristianesimo sia la predicazione apostolica. In seguito dimostrò una profonda simpatia per il Buddhismo, specialmente per lo Zen, ritenendo che la realtà ultima fosse identica alla śūnyatā1. A questo riguardo sembra che Seiichi Yagi abbia in qualche modo condizionato il pensiero di Akaiwa, dato che lo conobbe quando quest’ultimo era avanti negli anni. Comunque sia, Akaiwa morì di cancro al fegato nel 1966, prima di elaborare chiaramente quale fosse il significato del Buddhismo per il Cristianesimo.

L’esodo dal Cristianesimo suscitò tra i lettori numerose reazioni, la maggior parte delle quali furono negative. Rinzo Shiina, uno dei più conosciuti romanzieri di quel periodo, era membro della chiesa di Akaiwa. Fu battezzato da lui nel 1950 ed ebbe modo di colla­borare regolarmente con Yubi, una rivista cristiana diretta dallo stesso Akaiwa. Tuttavia, man mano che Akaiwa diventava sempre più critico nei confronti del Cristianesimo tradizionale, Shiina dal canto suo diventava sempre più insofferente nei suoi confronti, tanto che quando nel 1964 Akaiwa pubblicò L’esodo dal Cristianesimo, Shiina interruppe la sua collaborazione con la rivista Yubi e iniziò ad attaccare Akaiwa per iscritto. Nel 1966, inoltre, Shiina pubblicò una novella dal titolo Il buon diavolo, in cui ridicolizza la figura del suo ex insegnante. Anche la Chiesa Unita di Cristo in Giappone era contraria alle conclusioni a cui era approdato lo studio di Akaiwa e molti teologi, tra cui Kitamori, rite­nevano che egli avesse ormai abbondantemente superato i limiti posti dal Cristianesimo. Qualcuno pensò perfino di estrometterlo dalla comunità cristiana, cosa questa che non ebbe seguito perché Akiwa morì prima.

Nei suoi ultimi anni, Akaiwa disconobbe quanto in precedenza aveva attivamente promosso e morì prima di esser riuscito ad articolare in maniera compiuta la sua nuova posizione teologica. Era in uno stato di continuo movimento e transizione, ed era come se nella sua figura si rispecchiasse l’intera storia della teologia in Giappone del xx secolo. Non esiste quindi un’unica teologia di Akaiwa. Un elemento che però rimase costante lungo tutta la sua esistenza fu la sua relazione con Gesù. Nei suoi anni di studio scrisse di come fosse riuscito a incontrare Dio attraverso Gesù. Akaiwa, come abbiamo già menzionato, si era definito un umanista il cui umanesimo era fondato sull’incontro con Gesù. Nel suo periodo barthiano affermò di non avere alcuna conoscenza di Dio, ma che attraverso la sua relazione con Gesù si sentiva vicino a quella realtà che Gesù chiamava “Padre”. Negli ultimi anni scrisse che Gesù era in grado di risvegliare in lui la sua indivi­dualità più intima. Tuttavia, poiché era al corrente della critica neotestamentaria, sapeva

1. [Il termine sanscrito śūnyatā (che si può tradurre con “vacuità”, “inesistenza”, “insostanzialità”, “relatività” e “inesauribilità”) è usato nel Buddhismo per indicare e incoraggiare una consapevolezza del “modo in cui le cose sono veramente”, cioè della pratica di percepire l’esistenza in modo “vuoto”, un comportamento questo reso possibile dalla compassione e dalla saggezza. Ndt].

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anche che il suo incontro con i Vangeli non poteva corrispondere ipso facto all’incontro con il Gesù storico. Gesù, per così dire, rappresentava per lui il simbolo della śūnyatā, e ciò proprio perché il suo incontro con il Gesù dei Vangeli sinottici gli aveva rivelato il significato della śūnyatā. Ciò che Akaiwa intendeva dire con questo, era che l’incontro con il Gesù dei Vangeli gli aveva manifestato la realtà ultima, quella realtà su cui poi ebbe modo di fondare il suo umanesimo e che egli definiva con il termine “Dio” o “śūnyatā”, a seconda delle circostanze.

Nobuo Odagiri e la sua “cristologia”

Nobuo Odagiri (1909–1982) non fu né un professore di teologia né un pastore, ma un laico che esercitò la professione medica e scrisse di letteratura cristiana in maniera sem­plice e diretta. Lo citiamo in questo contesto perché le problematiche da lui espresse (anche se in maniera un po’ naïve) sulla cristologia tradizionale suscitarono notevole interesse in seno al cristianesimo giapponese. Nato in Hokkaidō nel 1909, si laureò alla Facoltà di Medicina dell’Università Imperiale dell’Hokkaidō nel 1934, ma ebbe modo di praticare medicina solo dopo la seconda guerra mondiale. Aveva frequentato la scuola materna connessa alla Chiesa Cristiana Indipendente di Sapporo, fu battezzato nel 1927 e divenne un membro attivo della Chiesa. Nel 1949, mentre partecipava alla riorganiz­zazione dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ymca) a Sapporo, rimase alquanto per­plesso nel leggere uno degli articoli inseriti nel programma del gruppo. In esso si affer­mava che il ymca credeva in Gesù Cristo, Dio e Salvatore, basandosi sulla testimonianza della Bibbia. Secondo Odagiri, invece, la Bibbia non affermava affatto che Gesù Cristo era Dio. Odagiri non intendeva qui sollevare alcun problema esegetico: per lui, infatti, il cuore del messaggio cristiano consisteva nella missione redentrice di Gesù Cristo morto in croce per i nostri peccati, mentre la fede cristiana non era altro che l’accettazione fedele di questo stesso messaggio. Poiché Dio non può morire, così pensava Odagiri, allora la morte di Gesù in croce — se Gesù era davvero Dio — non era altro che una specie di finzione teatrale, non una morte reale. Questo suo ragionamento, ovviamente, avrebbe invalidato l’intero Vangelo.

Dopo uno studio approfondito dei testi biblici, Odagiri affermò con sempre maggior insistenza che Gesù Cristo non era Dio, quanto piuttosto il Figlio di Dio. Il punto di avvio del suo ragionamento era senz’altro biblico, perché egli asseriva che nella Bibbia non vi era un singolo versetto in cui si affermasse in maniera inequivocabile che Gesù era Dio, così come non c’era alcun versetto che affermasse in maniera apodittica che Gesù era la seconda persona della Trinità, il Dio­Figlio. Questa sua interpretazione si basava sulla sua fede nel significato soteriologico della morte di Gesù in croce, la quale non avrebbe avuto alcun senso se Gesù fosse stato un Dio immortale. Gesù era invece il Figlio di Dio, incar­nato, morto e risuscitato, e ciò era del tutto coerente con quanto riportato dalla Bibbia.

Questa disputa cristologica interessò inizialmente soltanto l’Associazione Cristiana

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dei Giovani. Tuttavia, Odagiri era convinto che essa avrebbe dovuto coinvolgere tutto il popolo cristiano e che sarebbe poi dovuta diventare oggetto di discussione accademica. Per questa ragione nel 1952 si spostò a Tōkyō e, oltre alla sua attività medica, cercò di organizzare un gruppo di studio che affrontasse alcuni problemi di cristologia. Nel 1955, con Kitamori e altri intellettuali, condusse un aperto dibattito sul tema attraverso la rivi­sta cristiana Kaitakusha. Poiché il “dolore di Dio” di Kitamori insisteva non solo sull’unità del Dio trinitario, ma anche sulla distinzione di persone, Kitamori era molto critico nei confronti delle idee di Odagiri. Kitamori, inoltre, sosteneva la tesi della divinità di Gesù Cristo a partire dalle testimonianze scritturali. Odagiri, per nulla persuaso dalle critiche rivoltegli da Kitamori, passò al contrattacco e continuò a sostenere con sempre maggior vigore il proprio punto di vista. Nel 1960 fu invitato dalla Società della missione tedesca del nord a recarsi in Germania per tenere delle conferenze e condurre dei dibattiti con dei teologi all’Università di Amburgo. Oltre a organizzare il gruppo di studio incentrato su temi cristologici, dopo il suo ritorno in Giappone promosse una serie di conferenze con oltre venti eminenti teologi, riguardanti la stessa tematica. Queste conferenze furono in seguito pubblicate nel 1968 sotto il titolo Studi di cristologia. Tra i partecipanti erano presenti molti teologi inclusi in questo libro2.

Un dibattito su Buddhismo e Cristianesimo

Il pensiero di Katsumi Takizawa e quello di Seiichi Yagi verranno trattati in seguito. Tut­tavia, meritano di essere menzionati in questo capitolo perché entrambi contribuirono al dibattito tra Buddhismo e Cristianesimo che ebbe inizio negli anni sessanta e che pro­seguì per oltre un ventennio. Takizawa, che nel 1941 aveva pubblicato Uno studio su Karl Barth, si era già distinto come teologo prima della seconda guerra mondiale, ma ottenne pieno riconoscimento in qualità di teologo e filosofo soltanto nel dopoguerra.

Katsumi Takizawa nacque nel 1909 nella prefettura di Tochigi ed entrò alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Imperiale di Tōkyō nel 1927. Le lezioni che seguì ebbero su di lui l’unico effetto di persuaderlo a mettere in discussione i fondamenti stessi della legge e della giustizia. Poiché le lezioni lo annoiavano, nel 1928 si iscrisse all’Università Imperiale del Kyūshū — al tempo un trasferimento alquanto inusuale — per studiare filo­sofia. Nonostante si applicasse con dedizione allo studio della filosofia europea, non riuscì però a trovare una soluzione soddisfacente per i dubbi esistenziali che lo ossessionavano sin dalla giovinezza. Alla fine, sperimentò una specie di illuminazione — un qualcosa simile a “delle squame che cadono dagli occhi” — mentre era alle prese con le opere di

2. Odagiri avrebbe dovuto intrattenere un dialogo con Katsumi Takizawa, che verrà trattato nella sezione seguente. Se ciò fosse accaduto, Odagiri avrebbe senz’altro potuto ampliare le sue prospettive riguardanti il rapporto tra il Logos, Gesù e Cristo. Ho spesso insistito affinché Odagiri prendesse in seria considerazione le idee di Takizawa. Tuttavia, Odagiri e Takizawa, che contribuì al volume Studi di cristologia, non dimostrarono alcun interesse per i loro rispettivi lavori.

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Kitarō Nishida (1870–1945), filosofo zen e fondatore della cosiddetta “Scuola di Kyōto”. Takizawa comprese immediatamente il significato dell’espressione nishidiana “identità assolutamente contraddittoria”3.

Nel 1933, pubblica sulla rivista filosofica Risō l’articolo “La concezione generale e l’in­dividuo”, che rappresenta un tentativo di interpretare la filosofia di Nishida. Quest’ultimo, dopo aver letto il testo, gli inviò una lettera di congratulazioni. In seguito strinse ottimi rapporti con Nishida, anche se non fu mai suo studente all’Università Imperiale del Kyūshū. Nel 1934, prima di recarsi in Germania con una borsa di studio della Fondazione “Alexander von Humboldt”, chiese a Nishida a chi avrebbe dovuto rivolgersi per i suoi studi e Nishida lo incoraggiò a recarsi da Karl Barth, perché “parlava di Dio molto meglio di Heidegger”. Takizawa andò quindi a Bonn diventando in seguito uno degli studenti preferiti di Barth.

Dopo il suo rientro in Giappone, insegnò dal 1947 al 1971 filosofia della religione presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Imperiale del Kyūshū. Nel 1965, 1974, e dal 1977 al 1978 fu visiting professor in Germania. Nel 1984 il Dipartimento di Teologia dell’Università di Heidelberg gli conferì una laurea ad honorem per i suoi contributi al dialogo tra Buddhismo e Cristianesimo, così come per quello tra teologia e filosofia. Taki­zawa muorì di leucemia poco prima della sua partenza per Heidelberg.

Nel 1964, Takizawa pubblicò Buddhismo e Cristianesimo, che rappresenta uno stu­dio critico sulla filosofia della religione di Shin’ichi Hisamatsu (1889–1980). Studente di

3. [Questa formula che Nishida inizia a usare a partire dal 1937, si riferisce alla struttura dialettica della realtà in quanto autodeterminazione del Nulla assoluto. Come spiega Heisig, “Per Nishida la vera autoidentità non prende la forma di ‘A è A’, ma quella di un’unità di elementi contraddittori, così che… ‘più contraddittori sono gli opposti, più si tratta di un’identità’. Non si tratta qui di negare il principio di non contraddizione, ma di relativizzarlo in quanto inadatto a parlare della realtà. In altri termini, Nishida non dice che ‘A è non­A’, quanto piuttosto qualcosa come ‘A­eppure­non­A è A’. Questo punto merita di essere considerato con maggiore attenzione… La particella che abbiamo reso (…) con ‘eppure’ traduce un carattere cinese notoriamente ambiguo (che di solito si pronuncia soku in giapponese). Il suo significato include ‘vale a dire’, ‘al tempo stesso’, ‘e anche’, ‘o’, ‘immediatamente’ e ‘in quanto tale’. La cosa fondamentale è che si tratta della connessione di due elementi o attributi, il secondo dei quali è attaccato al primo in modo naturale e ovvio. (…) Nishida non ha intenzione di violare le regole di grammatica ‘A non è non­A’ e ‘B è non­A’, che sono implicate nella distinzione tra è e non è. Se avesse fatto qualcosa di simile, avrebbe dovuto anche rinunciare all’argomentazione razionale. Quel che Nishida intende dire, invece, è qualcosa di questo tipo: ‘A non è solo A, e non­A non è solo non­A; né A e non­A sono semplicemente due aspetti diversi di un’identica cosa; A è A e non­A è non­A, ma nessuno dei due è reale a meno che ognuno dei due non appartenga all’altro così com’è’. E la ragione per cui dice questo, è che gli permette di aggiungere che ‘A trasforma B e B trasforma A’ in virtù di ‘qualcosa di comune a entrambi’. (…) Qui si chiarisce il punto centrale della formulazione di un’identità assolutamente contraddittoria: questa idea di identità non è l’esaltazione di un elemento della realtà o un attributo, ma semplicemente un modo di affermare che il fatto che le cose hanno una propria identità non è per nulla dovuto a qualcosa di interno a loro — un principio sostanziale — ma si fonda sul fatto che il mondo relativo dell’essere si colloca nell’assoluto del nulla”, in J. W. Heisig, Filosofi del nulla. Un saggio sulla scuola di Kyoto, trad. a cura di E. Fongaro, C. Saviani e T. Tosolini, Chisokudō Publications, Nagoya 2017, pp. 101–104. Ndt].

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Nishida, Hisamatsu era al tempo professore emerito dell’Università di Kyōto, oltre che rinomato maestro e filosofo zen.

In quanto buddhista zen, Hisamatsu sosteneva una specie di “ateismo”, ma non un ateismo in cui si afferma solo l’esistenza dell’uomo e del mondo negando al contempo quella di Dio. Hisamazu rifiutava il teismo. Per lui Dio e il Buddha, in quanto esseri oggettivi, non erano che un’illusione. Non esiste alcun Buddha eccetto quello che si risveglia al “sé senza forma” (l’oggetto più profondo nella e della persona), realizzandosi nell’individuo come “vero sé” nel momento stesso in cui il vecchio sé muore confron­tandosi con l’assoluta contraddizione di essere e non­essere, di valore e non­valore. Il vero Buddha è il “Buddha che io sono”. Nel migliore di casi, l’oggettivazione di Dio o del Buddha è una costruzione secondaria.

Nel suo Buddhismo e Cristianesimo Takizawa riconosceva la sincerità della religione di Hisamatsu, non tacciandola mai di “fallacia pagana”. Tuttavia, Takizawa criticava Hisama­tsu per non aver chiaramente separato il Buddha assoluto dal Buddha che ciascuno di noi può diventare. In particolare, Takizawa distingue tra il “contatto primario” e il “contatto secondario” di Dio con l’uomo. Il contatto primario è la realtà primordiale dell’Emma­nuele, del Dio­con­noi o, in altre parole, di Cristo. Questa è una realtà che è presente in maniera incondizionata in ciascun individuo, non importa ciò che quell’individuo può aver fatto o non, o se esso sia cristiano o meno. Non tutti sono però consapevoli di questa realtà. Quando un individuo si risveglia a questa realtà primordiale, diventa consapevole del dinamismo di cui quella realtà è capace, e la sua esistenza si trasforma in vita reli­giosa. Questo è ciò che Takizawa chiama “il contatto secondario di Dio con l’uomo”. Per Takizawa, il Buddhismo e il Cristianesimo sono autentiche religioni basate sulla realtà primordiale dell’Emmanuele, ed entrambe ne rappresentano il contatto secondario. Il Buddhismo è dunque una religione simile al Cristianesimo. I buddhisti, tuttavia, non operano la distinzione tra il contatto primario e quello secondario di Dio con l’uomo. Al contrario, insistendo sull’inseparabilità tra la realtà primordiale e la forma che essa assume nel contatto secondario, analizzano tutte le problematiche religiose prendendo come criterio di giudizio l’evento del Risveglio.

Takizawa fu anche un critico del Cristianesimo tradizionale: quest’ultimo, sebbene di solito operi una rigorosa distinzione tra i due contatti, non utilizza però la stessa distin­zione nei riguardi della figura di Gesù. Per Takizawa, Gesù era un uomo che aveva rea­lizzato il contatto secondario in maniera così perfetta da diventare egli stesso un modello per tutti gli altri esseri umani. Ciò non significa però che sia stato Gesù a determinare il contatto primario. Tuttavia, il Cristianesimo tradizionale, incluso quello del maestro di Takizawa, cioè Karl Barth, sostiene invece che il contatto primario ha avuto luogo attraverso Gesù Cristo. (Dobbiamo qui aggiungere che Gesù è considerato il contatto primario stesso). In questo modo Gesù fu ben presto considerato come il solo Salvatore, e il Cristianesimo come l’unica vera religione. Per Takizawa, invece, il contatto primario deve essere chiaramente distinto da Gesù, il quale non rappresenta che una (anche se, in

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fondo, la più esemplare) delle possibili forme che caratterizzano il contatto secondario. Le opere di Takizawa, nelle quali trovarono espressione queste idee, ebbero un gran seguito di lettori sia in ambienti cristiani che buddhisti. Tuttavia, il suo pensiero fu solo parzial­mente accolto dai teologi accademici, molti dei quali non sembravano assumere delle posizioni precise nei confronti delle sue idee.

In seguito Takizawa descrisse il rapporto tra Dio e l’uomo che si instaura nel con­tatto primario come “inseparabile, non identificabile e irreversibile”, ed estese queste caratteristiche anche alla relazione tra il contatto primario e secondario. Ciò diede adito a un dibattito tra coloro che avevano accettato la distinzione proposta da Takizawa sul concetto di “irreversibilità”. A loro si aggiunsero anche Ryōmin Akizuki e Masao Abe, entrambi filosofi zen, il teologo protestante Masaaki Honda e il teologo cattolico Seiichi Yagi. L’esito di questo dibattito fu pubblicato nel volume Buddhismo e Cristianesimo: cercando un dialogo con Takizawa (1981), a cura di Yagi e Abe. In quanto buddhista, Abe insisteva sulla reversibilità fondamentale di qualsiasi relazione; Akizuki, al contrario, si schierava per una irreversibilità funzionale, mentre Yagi individuava il momento dell’ir­reversibilità nella relazione tra l’io e il sé, quando la divinità e l’umanità formano un tutt’uno nel sé. Dando sfoggio di notevole perspicacia, Masaaki propose un’ultima for­mulazione, secondo la quale la reversibilità e l’irreversibilità si condizionano a vicenda.

Il concetto di irreversibilità era diventato un punto di contesa perché la relazione tra il fondamento e l’esser fondato è essenzialmente reversibile per il Buddhismo (questa è la tesi di Abe), mentre nel Cristianesimo la relazione tra Dio e l’uomo è irreversibile. Takizawa aveva adottato il pensiero di Nishida per discutere del concetto di “inseparabile e non­identificabile”, mentre aveva adottato quello di Barth per esporre quello di “irre­versibilità”. Probabilmente, Takizawa avrebbe dovuto esaminare più a fondo la qualità ontologica del contatto primario, perché, se è vero che la sua esistenza non può essere negata, essa non può però essere considerata indipendente dalle situazioni in cui si attua. Cristo, ad esempio, è rimasto virtualmente inesistente per san Paolo (che era stato scelto fin dal seno materno per essere l’apostolo dei Gentili), fino a quando il Figlio di Dio non gli si è rivelato (cfr. Gal 1,15). Allo stesso modo anche la realtà primaria è virtual­mente inesistente per coloro che non sono risvegliati a essa così da potergli rispondere in maniera consapevole. Anche nello Zen la natura di Buddha, che è presente in ogni individuo, è inesistente fino a quando non ci si risveglia a essa. Il paradosso, qui, risiede nel fatto che il contatto primario si attualizza nel momento stesso in cui accade l’evento del contatto secondario. Il contatto primario si attualizza quindi per la prima volta nel contatto secondario, cioè “nel” e “per” l’individuo risvegliato. In questo senso possiamo quindi affermare che il contatto primario è stato stabilito (attualizzato) per la prima volta — almeno da una prospettiva cristiana — “in” Gesù e “alla maniera di” Gesù. Ciò non significa, ovviamente, che il modo con cui si attualizza il contatto primario debba essere circoscritto alla sola figura di Gesù. La sua attualizzazione è possibile in ogni tempo e in ogni persona. Gautama Buddha, per esempio, è un’altra persona che ha attualizzato

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questo contatto primario. La realtà primaria esiste nella persona risvegliata e in quanto individuo risvegliato, e si attua solo nel “Buddha che io sono”, come sosteneva Hisamatsu. In questo senso, dunque, ha ragione Hisamatsu. Tuttavia in Paolo, ad esempio, vi è una chiara consapevolezza della distinzione tra il suo essere separato da Cristo e il suo essere unito a Cristo (cfr. Gal 2,20). Nel rapporto tra Paolo e Cristo esiste dunque un momento di irreversibilità. E In questo senso ha invece ragione Takizawa.

È spiacevole il fatto che Hisamatsu non abbia risposto alle intuizioni di Takizawa, dato che entrambi sono ora scomparsi. Tuttavia il problema da loro posto deve essere investi­gato in profondità perché la distinzione operata da Takizawa è di notevole rilevanza per la cristologia. Mentre i recenti studi neotestamentari si sono concentrati sulla distinzione diacronica tra il Gesù della storia e il Cristo del kerygma, Takizawa richiamava invece l’attenzione sulla distinzione sincronica tra Gesù e il Cristo, cosicché il Cristianesimo diventa, almeno in linea di principio, intelligibile per tutti. Questa distinzione è ovvia­mente significativa per il dialogo tra il Cristianesimo e il Buddhismo, perché evidenzia non solo la possibilità, ma anche la necessità, di un vero dialogo tra buddhisti e cristiani, evitando così sterili comparazioni. Con questa distinzione Takizawa individua anche il percorso per superare la pretesa di assolutezza del Cristianesimo, una rivendicazione questa che è sempre stata considerata problematica.

Ciò risulta di estrema importanza per un incontro tra il Buddhismo e i cristiani giap­ponesi. Questi ultimi, infatti, o simpatizzano unicamente con la fede del Buddhismo della Terra Pura in Amida Buddha — ritendendo al contempo la figura di Amida Buddha un idolo (una tendenza, questa, presente negli ambienti protestanti) —, oppure sono inclini ad accostare il Buddhismo zen con il solo intento di apprenderne le tecniche di medita­zione — senza però comprendere a fondo la dottrina zen (una tendenza, questa, presente invece tra i cattolici).

Uno dei teologi che ebbe modo di sfidare in maniera significativa il pensiero di Taki­zawa fu Seiichi Yagi. Yagi nacque a Yokohama nel 1932, il padre fu un allievo di Kanzō Uchimura. Diventò cristiano durante il periodo di studi all’Università di Tōkyō grazie alla lettura delle opere di Kierkegaard e di Uchimura. Dopo la laurea si dedicò nella stessa Università agli studi neotestamentari assieme a Goro Mayeda. Tra i suoi compagni di studi si possono ricordare Akira Satake, Sasagu Arai e Kenzō Tagawa (il cui pensiero verrà analizzato nella sezione seguente). Dal 1957 al 1959 studiò teologia presso l’Univer­sità di Göttingen e, seguendo le lezioni di Ernst Käsemann sul Vangelo di san Matteo, ebbe modo di imparare i metodi della critica storica. In seguito si dedicò alla lettura delle opere di Rudolf Bultmann e fu particolarmente interessato al concetto di “demitizza­zione”.

Fu durante questo periodo trascorso in Germania che per la prima volta Yagi venne a contatto con il Buddhismo zen. Durante il soggiorno gli furono più volte chieste spie­gazioni sugli insegnamenti buddhisti. Tuttavia, essendo cristiano, non aveva coltivato un interesse particolare per quella religione e ne possedeva solo una conoscenza rudimen­

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tale. Imbarazzato da questa sua ignoranza, Yagi si fece prestare e lesse diversi testi sul Buddhismo, tra cui quelli di D. T. Suzuki sullo Zen. Con sua sorpresa, si accorse di non riuscire assolutamente a comprenderli. Questa esperienza gli procurò una profonda crisi esistenziale. Nel 1958 fece visita a Wilhelm Gundert, il quale si era recato in Giappone all’inizio del secolo e aveva conosciuto Uchimura e i suoi studenti, oltre che il padre di Yagi.

Al suo ritorno in Germania, Gundert insegnò Studi Giapponesi all’Università di Amburgo. Quando Yagi andò a fargli visita a Ulm, una stupenda cittadina della Germania meridionale, Gundert era ormai diventato un professore emerito e stava traducendo in tedesco il Biyan lu, un classico dello Zen cinese. Yagi non sapeva di questa sua attività, dato che era venuto a far visita a Gundert semplicemente perché suo padre lo aveva pregato di portare i suoi saluti al suo vecchio amico. Quando venne l’ora di congedarsi, Gundert lo accompagnò in stazione e gli regalò una bozza della traduzione del primo capitolo del Biyan lu, l’originale in cinese e un dettagliato commento del testo. Nel suo viaggio di ritorno a Göttingen, Yagi rilesse il manoscritto innumerevoli volte fino a quando, completamente sfinito, decise di prendersi una pausa senza pensare più a nulla e improvvisamente ebbe un’istantanea illuminazione.

Yagi si rese ben presto conto del parallelismo che esisteva tra la sua prima esperienza religiosa, quando divenne cristiano, e questa sua seconda esperienza in treno, e questo parallelismo lo aiutò a valutare sotto una luce nuova la sua prima esperienza religiosa, ritenendola una sorta di liberazione dal potere esercitato dal linguaggio. Prima di farsi cristiano, la morale aveva svolto un ruolo fondamentale nell’aiutarlo a discernere il miglior modo di agire. Tuttavia, ciò che un tempo riteneva l’esito di una relazione per­sonale, in realtà non era stato altro che un processo di assoggettamento del suo ego a un codice morale o, detto altrimenti, egli considerava il suo super­ego come il vero soggetto della sua persona — e tutto questo senza che lui se ne fosse reso minimamente conto. Quando era diventato cristiano, aveva simpatizzato con il detto paolino secondo il quale era Cristo che ora viveva in lui (Gal 2,19ss) e aveva interpretato questa sua presa di coscienza come il risultato di un evento salvifico, cioè come l’esito del processo redentivo operato da Gesù Cristo. Ora questa sua seconda esperienza gli indicava chiaramente che l’incontro che egli riteneva di aver avuto con degli esseri concreti, di fatto non era stato altro che un incontro tra il suo ego e delle semplici realtà nominali — o anche che aveva proiettato una sua idea su questi esseri che aveva “incontrato” convincendosi poi che essa esprimesse davvero la loro realtà. Una specie di muro invisibile gli aveva celato l’auten­tica realtà delle cose. La distinzione soggetto­oggetto e i concetti con cui si designano gli esseri — cioè l’inevitabile struttura del nostro linguaggio — avevano preteso di rappre­sentare la realtà nella sua essenza.

Mediante questo parallelismo, Yagi apprese la realtà dell’“esperienza immediata” che precede quel muro invisibile, sia nella sua distinzione soggetto­oggetto (come nel

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Buddhismo) che in quella io­tu (come nel Cristianesimo)4. Iniziò così gradualmente a comprendere che solo l’esperienza pura (la quale anticipa ogni costruzione linguistica) apre la via alla realizzazione della vita religiosa, in quanto è il nostro uso del linguaggio che fa sorgere l’io, facendo così sfociare nell’egocentrismo. In questo modo, l’esperienza immediata diventa il modo privilegiato per superare l’assolutizzazione dell’io e la consa­pevolezza del sé (cioè del soggetto ultimo di una persona). Più Yagi rifletteva su questo argomento, più si convinse che lo Zen possedeva un’“autocomprensione esistenziale” simile a quella del Cristianesimo — e questo fu il termine che egli utilizzò perché in quel periodo era impegnato a interpretare il concetto di autocomprensione del Nuovo Testa­mento. Ciò lo convinse della relatività del Cristianesimo e lo condusse a individuare il fondamento del Cristianesimo non tanto nella morte, risurrezione e espiazione di Gesù Cristo, quanto piuttosto nel Logos, ovunque all’opera per realizzare l’esperienza religiosa.

Nel 1960, al suo rientro in Giappone, il Dipartimento di Teologia dell’Università Kantō Gakuin lo invitò come docente di studi neotestamentari. Tuttavia, nel 1965 abban­donò il Dipartimento a causa di alcune tensioni sorte dalla sua interpretazione critica del Cristianesimo tradizionale e si trasferì presso l’Istituto di Tecnologia di Tōkyō, dove vi rimase fino al 1988 in qualità di professore di tedesco.

Nel 1963 Yagi pubblicò La formazione del pensiero neotestamentario in cui — sebbene non avesse ancora del tutto sistematizzato il suo pensiero — espone i seguenti concetti. Il kerygma del Cristianesimo primitivo — inclusa la risurrezione di Gesù — non è altro che un’interpretazione dell’evento del Risveglio narrato secondo la mentalità del tempo (evento, questo, che trova un parallelo nel Buddhismo zen). Per comprendere la forma­zione del kerygma neotestamentario non vi è quindi alcun bisogno di supporre l’inter­vento diretto di una potenza soprannaturale. Nell’evento del Risveglio si supera l’assolu­tizzazione dell’io, cioè di quell’idea che erroneamente porta a considerare le elaborazioni secondarie del nostro linguaggio come primarie. Al contrario, la realtà consiste piuttosto in una compenetrazione tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e il tu, tra il sé (il Cristo che vive in me) e l’io. Yagi usa il termine “intuizione pura” (invece di quello nishidiano di “esperienza pura”, che gli sembrava inadatto) per indicare quell’evento mediante il quale quel muro invisibile scompare, e la compenetrazione tra l’io e la realtà diventa visibile in

4. [Il concetto di “esperienza immediata” è mutuato dalla filosofia nishidiana. Come si legge nel paragrafo iniziale di Uno studio sul bene, l’opera che segna l’esordio filosofico di Nishida, “Fare esperienza significa conoscere il reale concreto così com’è. È conoscere in conformità al reale concreto, tralasciando completamente ogni intromissione da parte nostra. Puro è in senso proprio lo stato dell’esperienza così com’è, senza nessuna aggiunta del discernimento riflessivo., dato che di solito a ciò che si dice esperienza si mescola in realtà qualche pensiero. Per esempio, nell’attimo in cui si vedono i colori o si sentono i suoni, ‘puro’ indica non solo l’assenza del pensiero che questi suoni e colori siano dovuti all’azione degli oggetti esterni o che sia l’io a percepirli, ma ‘puro’ connota un’anteriorità persino rispetto all’aggiunta del giudizio su cosa siano questi colori e questi suoni. Per questo l’esperienza pura è identica all’esperienza immediata. Quando si fa esperienza direttamente del proprio stato di coscienza non ci sono ancora né soggetto né oggetto, la conoscenza e il suo oggetto sono completamente unificati. Questo è il modo più puro dell’esperienza” in K. Nishida, Uno studio sul bene, trad. di E. Fongaro, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 11. Ndt].

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maniera intuitiva. Secondo Yagi, l’“intuizione pura” diventa il concetto attraverso il quale si è in grado di comprendere tutto il Nuovo Testamento. La tesi principale del suo libro è che si può interpretare il linguaggio del Nuovo Testamento senza per questo metterne in dubbio la verità. La pubblicazione di quest’opera fu quindi un evento significativo per il cristianesimo giapponese.

Takizawa ebbe modo di leggere il testo di Yagi, e come risposta allo scritto di questo giovane e sconosciuto teologo, scrisse Il Gesù biblico e il pensiero moderno (1965). Seb­bene in un certo qual modo apprezzasse quel testo, Takizawa lo criticò su tre punti: a) Yagi spiega la formazione delle idee neotestamentarie senza però esaminare in maniera critica la loro veridicità; b) Yagi, come Bultmann del resto, non comprende l’idea del trascendente; c) L’“intuizione pura” di Yagi, così come l’“esperienza pura” di Nishida, non fornisce alcun fondamento per la comprensione religiosa.

Dal canto suo, Yagi aveva letto Buddhismo e Cristianesimo di Takizawa e ne aveva subito apprezzato la distinzione operata tra il contatto primario e secondario di Dio con l’uomo. Nel 1965 Yagi lesse le critiche mossagli da Takizawa riconoscendo che il giudi­zio espresso circa i primi due punti era corretto. Di fatto, Yagi, al tempo non possedeva ancora un termine adeguato per indicare il “vero sé”. Tuttavia, si trovava in disaccordo sul terzo punto, ritenendo che Takizawa avesse frainteso il suo pensiero. Yagi sosteneva che a prescindere dal nome dato all’“intuizione pura” (forse un termine più corretto sarebbe stato quello di “esperienza immediata”), essa doveva essere considerata come un evento attraverso il quale ci si rende conto che l’uso indiscriminato del nostro linguaggio crea come dei muri invisibili. Yagi rispose alle critiche di Takizawa con Il Cristo biblico e l’esistenza (1967) nel quale sosteneva la distinzione operata da Takizawa fra i due contatti e cercava di mostrare, nell’accettare la critica espressa nei primi due punti, come la sua prospettiva non fosse del tutto dissimile da quella di Takizawa. Ciò, tuttavia, non riuscì a soddisfare Takizawa, che, sebbene accettò i testi di Yagi come tesi di dottorato, continuò a muovergli delle critiche sul terzo punto. Tutto ciò dette inizio a un dibattito tra i due pensatori a cui più tardi parteciperà anche Akizuki5. Yagi, dal canto suo, restò fermo sulle proprie opinioni e il dibattito si protrasse sia pubblicamente che privatamente fino all’im­provvisa morte di Takizawa avvenuta nel 1984.

Fin dall’inizio Yagi aveva avuto l’impressione che Takizawa, che pur possedeva un’idea chiara del sé (l’attualità del contatto primario), fosse ignaro dell’esperienza immediata che si verifica durante la fase dell’incontro soggetto­oggetto, e che non argomentasse a partire dall’esperienza vera e propria, quanto piuttosto sulla base dell’ambigua descrizione dell’esperienza dedotta da Nishida. Più discuteva con Takizawa, più se ne convinceva. Nel frattempo, Yagi dette vita a un dialogo con Shin’ichi Hisamatsu (La religione del Risve-glio, 1980) e un altro con Keiji Nishitani (1900–1990), un filosofo zen. Quest’ultimo fu pubblicato in un testo uscito nel 1989 dal titolo Esperienza immediata. Anche in questi

5. Vedi Takizawa, Yagi e Akizuki, Dove va cercato Dio? (1977).

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dialoghi Yagi continuò a insistere sul fatto che la critica mossagli da Takizawa riguardo al concetto di “intuizione pura” non fosse del tutto pertinente e, poiché Takizawa non rimase mai del tutto persuaso delle risposte di Yagi, il loro dibattito non giunse ad alcuna conclusione. Tuttavia, questi dialoghi costrinsero Yagi a sottoporre il proprio pensiero al vaglio della filosofia e a sviluppare maggiormente la propria posizione per fronteggiare le critiche mossigli da Takizawa. Ciò lo condusse a interessarsi di filosofia della religione, a distanziarsi dagli studi neotestamentari e a intrattenere un dialogo con il Buddhismo nel tentativo di chiarire l’essenza del Buddhismo e del Cristianesimo attraverso il dialogo interreligioso. Dal 1988 insegna filosofia e etica all’Università Toin di Yokohama.

Yoshio Noro e la teologia esistenziale

Yoshio Noro (1925–2010) merita di essere qui menzionato perché nel 1964 pubblicò la sua prima opera di una certa importanza dal titolo Teologia esistenziale. Noro era nato a Tōkyō nel 1925. Dopo essersi laureato presso il Seminario Teologico del Giappone, si recò negli Stati Uniti, dove studiò al Seminario Teologico di Drew e all’Union Theological Seminary, conseguendo nel 1955 il dottorato in Teologia (th. d.). Dal 1956 al 1972 fu pro­fessore di Teologia sistematica presso il Dipartimento di Lettere dell’Università Aoyama Gakuin di Tōkyō (di cui divenne anche Decano) e nel 1970 ottenne il dottorato in Lettere (litt. d.) all’Università di Kyōto. A causa dei disordini provocati dal movimento studen­tesco, si trasferì al Dipartimento di Lettere dell’Università Rikko di Tōkyō, dove rimase fino al 1992 in qualità di professore di Teologia sistematica.

Teologia esistenziale è un testo scritto in risposta al clima teologico giapponese del momento, il quale era largamente dominato dalla controversia tra i seguaci di Karl Barth e quelli di Rudolf Bultmann. Al tempo, la Chiesa tradizionale giapponese si mostrava cauta nei confronti della teologia esistenziale di Bultmann, perché la considerava un possibile pericolo per i princìpi della fede cristiana, della Chiesa e della stessa teologia. In compenso, alcuni giovani teologi stavano introducendo in Giappone la più recente teologia tedesca. In questo periodo, che in un certo senso può essere considerato critico, Noro pubblicò il suo libro per dimostrare che la teologia esistenziale era in grado non tanto di distruggere, quanto piuttosto di rafforzare la Chiesa e la teologia — anche se nel suo libro Noro provava simpatia più per le posizioni espresse da Paul Tillich che per quelle di Rudolf Bultmann.

In Teologia esistenziale Noro critica Barth per il suo sistema teologico “dall’alto” che rende impraticabile il dialogo con il mondo moderno. Allo stesso tempo, però, rifiuta la demitizzazione radicale in quanto ritiene che la fede cristiana abbia bisogno dei miti. A suo parere l’esistenza umana diventa davvero autentica solo quando è in grado di rispondere a Dio — il quale fu rivelato in Gesù Cristo e parla all’uomo mediante l’evento salvifico di Gesù Cristo. Noro chiama tutto ciò “destino umano”. Detto altrimenti, la rive­lazione è quell’evento che fornisce la risposta al problema esistenziale dell’uomo. A questo

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riguardo, le riflessioni di Noro si avvicinano molto alla teologia apologetica di Tillich. Tuttavia, la tematica principale del libro è la relazione io­tu, cioè la relazione interper­sonale quale è stata descritta da Martin Buber. Noro critica infatti la teologia di Tillich (così come anche la teologia filosofica di Takizawa) perché è troppo ontologica per poter rimanere fedele alla personalità di Dio e a quella dell’uomo.

Noro fu un grande amico di Odagiri, di cui riconosceva l’influsso sull’elaborazione del proprio pensiero cristologico. L’essenza della cristologia di Noro, tuttavia, risiede nell’affermazione che l’evento storico di Cristo è il risultato dell’azione di Dio. Con ciò Noro traccia una netta distinzione tra la dimensione dei fatti storici e la dimensione del significato storico. In seguito egli amplia ulteriormente questa distinzione, facendola sfociare nel “pensiero dimensionale”, secondo cui la realtà possiede molte dimensioni tra loro opposte e non uniformabili, per cui l’unica maniera per poter accedere a tutte queste dimensioni è quella di approfondirne una in particolare. La relazione tra la sto­ria e la teologia, tra i fatti naturali e l’azione di Dio, deve dunque essere intesa in questa maniera. Questo suo pensiero svela una certa affinità con quello di F. Gogarten. In breve, la sua idea di esistenza umana rimanda a quello di personalità, la quale si realizza quando l’uomo risponde alla chiamata di Dio.

Noro intende perciò la storia non come uno svolgersi di eventi determinati da Dio, ma come un dramma dialogico che si svolge tra Dio e l’uomo, di cui nessuno può prevedere gli sviluppi storici. È inoltre convinto dell’esistenza della vita dopo la morte, in quanto ciascun uomo è amato dal Dio eterno come interlocutore del dialogo divino. L’uomo non può così semplicemente essere ridotto a un nulla. L’uomo, inoltre, proprio a partire da questo presupposto dell’esistenza della vita dopo la morte, può trascorrere un’esistenza appagante e felice, dando perciò ulteriore prova di come esista davvero una vita dopo la morte — un ragionamento, questo, che lo avvicina a quello espresso dalla filosofia kantiana.

Alla luce di queste considerazioni, ci si potrebbe chiedere se esista un previo modello di riferimento per la pienezza di vita dell’uomo che viene poi realizzato dalla rivelazione; oppure se la rivelazione neghi una volta per tutte i desideri religiosi umani affinché la grazia divina lo realizzi. Nel suo libro Tra teologia e filosofia della religione (1961), Kazuo Mutō sostiene la seconda alternativa, optando per l’unione paradossale tra la fede nella rivelazione e l’esperienza religiosa umana. Noro pare invece essere propenso verso la prima alternativa, un orientamento, questo, che diventerà sempre più evidente con il trascorrere degli anni.

Gli ultimi lavori di Noro sono Teologia esistenziale e etica (1970), John Wesley: la sua vita e teologia (1975) e Dio e la speranza (1986). In quest’ultima opera Noro elabora i suoi concetti teologici usando lo stile letterario della recensione, mediante il quale esamina numerosi testi di teologia europea e americana, specialmente quelli che trattano della teologia del processo, anche se ignora completamente i teologi giapponesi (eccezion fatta per le critiche che rivolge a Kitamori e Odagaki). Non è facile riassumere il contenuto di

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quest’opera, anche se le sue tematiche principali sono chiare. Noro esamina innanzitutto i vari fenomeni della sofferenza, dell’irrazionale, del nihil, della morte e così via, per affer­mare poi, dopo ogni singola analisi, il principio della speranza. Teologia esistenziale tratta invece del mondo e della storia che sono da lui intesi come il topos dell’esistenza umana. Poiché Dio è una persona, e non il fondamento dell’essere, Dio è un ente, l’assoluto relativo e non il totalmente assoluto. Rifacendosi al pensiero di J. Berdjaev e J. Böhme, afferma che Dio sorge eternamente dal nihil, crea dal nihil e infine, schierandosi contro questo nihil, lo trascende. Per Noro, la realtà del nihil è identica sia per Dio sia per l’uomo. Tuttavia, in Dio non esiste alcun male, dato che il male, se fosse originato da Dio, non potrebbe essere eliminato dal mondo. Noro analizzerà poi il fenomeno dell’irrazionale usando la stessa argomentazione.

L’esistenza umana non può raggiungere l’unione perfetta con Dio, perché la vita dell’uomo è incompleta, oltre che breve. Per questa ragione Noro introduce l’idea del samsara, cioè di quel principio secondo il quale, dopo aver sperimentato innumerevoli rinascite in questo mondo, l’esistenza umana giunge finalmente alla sua pienezza. L’in­troduzione del concetto di samsara all’interno della sua teologia fu considerato alquanto strano e bizzarro da molti cristiani. Tuttavia, Noro si trovò costretto ad ammettere il con­cetto di samsara perché, pur accettando l’idea dell’esistenza della vita dopo la morte, egli negava l’esistenza di un aldilà dove si sarebbero dovuti recare i defunti. Secondo Noro, il samsara non indica però una sofferenza permanente. Se il “dolore” fosse un attributo di Dio, come insiste Kitamori, la sofferenza non potrebbe essere eliminata dall’umanità. Per questa ragione in Dio non vi è né dolore né sofferenza. L’uomo ha bisogno del Dio amore perché è troppo debole e fragile per tollerare la propria radicale solitudine. Quindi Dio esiste e noi siamo eterni. L’uomo non è in grado di sapere quando la storia raggiungerà il suo compimento, cioè quando essa terminerà e verrà instaurato il regno di Dio. Può solo sperare di godere di quei rari momenti in cui si mettono in atto gesti e opere di solidarietà e di amore o, in altre parole, di quei momenti in cui sperimenta la pienezza dell’esistenza umana.

Noro, pur affermando la sua fede nel samsara (una realtà che il Buddhismo si propone di superare sia dal punto di vista teorico che pratico), non è però un entusiastico soste­nitore del dialogo con il Buddhismo, in quanto intravede nel dialogo interreligioso un tentativo di concentrarsi solamente sulle caratteristiche comuni presenti nel Buddhismo e nel Cristianesimo, trascurando così la specificità e particolarità di entrambi.

Lo studio neotestamentario negli anni 1960 Kenzō Tagawa e Sasagu Arai

Poiché lo studio neotestamentario moderno tratta soprattutto di problemi di natura molto specialistica, è alquanto difficile tracciarne una storia generale e nelle pagine che seguono ci occuperemo solo degli studi di carattere generale rivolti al vasto pubblico. Gli

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studi più specialistici e i loro autori non saranno qui menzionati, non perché ritenuti insi­gnificanti, ma perché sarebbe impossibile trattarli tutti in maniera adeguata. Di seguito menzioniamo il titolo (senza però discuterne il contenuto) di alcuni testi degni di nota pubblicati tra il 1950 e il 1970: Goro Mayeda, Introduzione al Nuovo Testamento (1956); Hideyasu Nakagawa, Studi sulla Lettera agli Ebrei (1957); Jisaburō Matsuki, La Lettera ai Romani (1966), Teologia del Nuovo Testamento, I (1972) e Il rapporto di Gesù con il Nuovo Testamento (1980); Akira Satake, Lettera ai Filippesi (1969), Lettera ai Galati (1974) e L’a-postolo Paolo (1981); Shin’ichi Matsunaga, Corpo e etica: la teologia di san Paolo (1976).

Gli studi accademici veterotestamentari, come già accennato nel capitolo precedente, avevano avuto inizio prima della seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, durante gli anni sessanta, gli studi biblici furono condotti in ambito universitario, rivendicando così una certa autonomia dalla Chiesa. Questo fu il caso, per esempio, di Masao Sekine e Goro Mayeda, due intellettuali appartenenti alla Non­Chiesa. Entrambi avevano studiato in Germania e insegnato in università statali, Sekine come docente di Antico Testamento all’Università di studi pedagogici di Tōkyō e Mayeda come professore di Nuovo Testa­mento all’Università di Tōkyō. Le università statali giapponesi non possedevano un pro­prio Dipartimento di Teologia, perché la nuova Costituzione promulgata nell’immediato dopoguerra aveva sancito la separazione tra religione e Stato. Esistevano dei corsi acca­demici sullo studio delle religioni, ma nessun Istituto per la formazione del clero. Akira Satake, Kenzō Tagawa, Sasagu Arai e Seiichi Yagi, gli studiosi di Nuovo Testamento di cui ci occuperemo in questo capitolo, furono tutti discepoli di Mayeda prima di proseguire i loro studi in Europa.

Kenzō Tagawa nacque a Tōkyō nel 1935. Nel 1958 si laureò dall’Università di Tōkyō e, dopo gli studi post­laurea condotti sul Nuovo Testamento, si recò a Strasburgo per studiare con E. Trocmé. Nel 1966 dette alle stampe Miracles et Évangile e al suo ritorno in Giappone Una fase della storia del Cristianesimo delle origini (1968). In questo libro, che personalmente considero uno dei migliori studi sul vangelo di Marco, egli applica il metodo di critica della redazione (un metodo elaborato da Hans Conzelmann ne Il centro del tempo, il cui titolo originario era Die Mitte der Zeit pubblicato nel 1953) allo studio della teologia lucana.

Tagawa era convinto (così come lo era il suo maestro Trocmé) che i capitoli 14–16 del vangelo di Marco rappresentassero un’aggiunta posteriore al testo evangelico, anche se desta maggior interesse la sua tesi riguardante la comprensione galilea che l’evangelista aveva di Gesù. Con questo egli intendeva affermare che l’evangelista Marco non solo aveva raccolto in Galilea delle tradizioni orali su Gesù, ma anche che aveva intenzio­nalmente scritto il suo vangelo contro l’idea gerosolimitana del kerygma cristologico, la quale riconosceva in Cristo il Figlio di Dio, la figura escatologica che era morta e risorta e che presto sarebbe apparsa nei cieli. Così come accade in san Paolo, la prospettiva gerosolimitana non si concentra affatto su Gesù di Nazareth. Marco, invece, interpreta l’Evangelium — la buona novella — proprio a partire dal fatto che Gesù è diventato uomo.

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Gesù di Nazareth era stata una persona sorprendente, straordinaria e timorosa — qualcuno che non poteva certo essere descritto con i tradizionali titoli di Figlio di Dio, Signore, Salvatore ecc. come invece contende la cristologia gerosolimitana. Il Gesù di Marco proibisce ai discepoli di parlare di lui (Mc 8,30), e diversamente dal Gesù narrato dal vangelo di Matteo, quello marciano non approva la confessione di Pietro: “Tu sei il Cristo”. I discepoli di Gesù, come ci vengono presentati da Marco, pare non siano assolu­tamente in grado capire la sua persona. L’errore della cristologia gerosolimitana, secondo Marco, risiede pertanto nell’interpretare la figura di Gesù attraverso l’utilizzo dei titoli cristologici. Ogni tentativo da parte degli studiosi di interpretare la teologia marciana al pari di quella di Matteo e Luca, cioè come se essa avesse inteso svelare il significato di Gesù mediante l’uso di concetti teologici, è quindi completamente fuorviante. Rifiutando questa metodologia, Marco intende quindi semplicemente narrare la vita di Gesù senza fare alcun uso di concetti cristologici.

Tagawa, sebbene fosse più giovane di Akaiwa, era un suo ottimo amico e dopo la sua morte gli succedette alla direzione della rivista Yubi. Gli fu in seguito revocata la docenza di studi neotestamentari alla Università Internazionale Cristiana di Tōkyō, perché durante i tumulti studenteschi aveva attaccato l’amministrazione universitaria, sostenendo la causa degli studenti e rifiutandosi di dare lezioni. Andò quindi a insegnare presso il Seminario di Studi Teologici in Zaire. Dal 1978, dopo il suo ritorno in Giappone, è insegnante di religione presso l’Università Femminile della prefettura di Ōsaka. Ha scritto un’eccellente commento al vangelo di Marco (vol. 1, 1972) e un’opera dal titolo Un uomo chiamato Gesù (1980). In quest’ultimo testo Gesù viene descritto come una persona che si schiera in favore del popolo sofferente e oppresso dai romani e dai capi del popolo d’Israele, e che intende offrire un’“opposizione paradossale” ai reggenti. Così, per esem­pio, le parole di Gesù in Luca 6,29 — “A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica” — devono essere interpretate come l’espres­sione di una rabbia quasi disperata: “Quando un uomo di potere viene da te e ti percuote sulla guancia, tu porgigli anche l’altra. È inevitabile. Quando un usuraio viene da te e ti spoglia del tuo mantello, gettagli anche la tua camicia, dicendogli: ‘Prendi pure questa’!”. E Tagawa interpreta tutte le parole e le azioni di Gesù a partire da questa prospettiva.

Sasagu Arai, figlio di un pastore protestante, nacque nel 1930 nella prefettura di Akita. Nel 1954 si laureò all’Università di Tōkyō, proseguendo poi i suoi studi sul Cristianesimo delle origini nello stesso ambiente accademico. In Germania studiò con E. Stauffer a Erlangen, ottenendo il dottorato in Teologia nel 1962. Al suo ritorno insegnò Cristiane­simo delle origini nel Dipartimento di Lettere dell’Università Aoyama Gakuin e nel 1969, durante la protesta universitaria, si trasferì all’Università di Tōkyō, rimanendoci fino al suo congedo avvenuto nel 1991.

Arai pubblicò i seguenti volumi sulla religione gnostica: Die Christologie des Evange-lium Veritatis. Eine religionsgeschichtliche Untersuchung (la sua tesi di dottorato, 1964) e Il Cristianesimo delle origini e lo gnosticismo (1971), che si aggiudicò il premio Japan Aca­

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demy. Fece ritorno poi agli studi neotestamentari, dando alle stampe Gesù e il suo tempo (1974); Commento agli Atti degli Apostoli (vol. 1, 1977) e Gesù Cristo (studi sulla tradizione e sui Vangeli sinottici, 1979).

Quasi allo stesso tempo, ma in maniera del tutto indipendente da G. Teißen, Arai ela­borò il metodo della sociologia letteraria, di cui Gesù e il suo tempo rappresenta un esem­pio significativo. Il suo metodo consiste principalmente nel prestare attenzione a quanto trasmesso dai sostenitori della tradizione di Gesù. Mentre la critica delle forme, sostenuta soprattutto da D. Dibelius, individuava l’origine (Sitz) della tradizione di Gesù nelle opere dei primi cristiani, Arai richiamò l’attenzione sull’importanza degli strati sociali ai quali questi appartenevano. Coloro che trasmisero le storie dei miracoli appartenevano agli strati più bassi della società, e una delle caratteristiche di questa tradizione risiede nell’or­dine impartito da Gesù di “andare a casa” (ad es. Mc 1,44; 2,11; 5,10). Questo comando di Gesù — che era rivolto a coloro che appartenevano a uno status sociale inferiore e che erano rifiutati sia dalla propria famiglia che dalla società — di fatto, rispondeva al loro desiderio di poter far parte di quei nuclei familiari e sociali. Con questa ingiunzione Gesù intendeva quindi scuotere l’ordine sociale costituito.

Prendendo invece in esame la tradizione che analizza le parole utilizzate da Gesù, Arai suggerisce che i sostenitori di questa tradizione, proprio perché usavano vocaboli come quelli di proprietà, speculazione, banca, credito, occupazione, banchetto ecc., appartene­vano alla classe della piccola borghesia. Al contrario delle storie dei miracoli, a questa tradizione appartengono quegli ordini dati da Gesù di abbandonare la propria famiglia e la società. A partire da questa osservazione, Arai afferma che l’ethos della piccola borghe­sia del tempo includeva l’attaccamento alla comunità religiosa. Comunque stiano le cose, le parole di Gesù avevano certamente lo scopo di sconvolgere l’ordine sociale costituito, rispondendo ai reali bisogni della gente. Così facendo, Gesù era entrato in conflitto con la classe dominante, la quale traeva i suoi benefici dalla stabilità dell’ordine sociale. La critica di Gesù nei confronti della legge e del tempio era quindi una critica rivolta allo status quo del tempo, e Gesù si era schierato a fianco dei poveri, chiamati anche peccatori, affinché potessero vivere in comunità un’esistenza gratificante e priva di discriminazioni.

Uno dei problemi riguardanti il testo di Arai è il fatto che il rapporto tra le tradizioni di Gesù e le rispettive classi sociali è, nei migliori dei casi, una questione di probabilità statistica, non certo una necessità logica. Non è improbabile, infatti, che tra coloro che appartenevano alla classe della media borghesia vi fossero alcuni coinvolti nelle storie dei miracoli. Tuttavia, Arai argomenta come se tutti coloro che erano associati con le storie dei miracoli appartenessero alle classi sociali inferiori, e che quindi conoscessero gli ordini di Gesù di abbandonare la propria famiglia e la società. Ci si potrebbe poi chiedere come — dato che Gesù osservava fedelmente la legge (vedi, ad esempio, Mc 1,44) — que­sto suo comportamento scuoteva di fatto l’ordine sociale. Secondo Arai nell’osservanza della legge da parte di Gesù si può intravedere un senso di sano realismo, ma ciò non pare offrire una soluzione adeguata al problema. Malgrado questi e altri interrogativi, Gesù e

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il suo tempo fu un testo che ebbe molti estimatori non solo tra i cristiani, ma anche tra i non cristiani — soprattutto tra coloro che ne traevano ispirazione per destabilizzare lo status quo giapponese del tempo.

Gli studi veterotestamentari nel secondo dopoguerra Masao Sekine

Dopo la seconda guerra mondiale si assiste a un prodigioso sviluppo degli studi vete­rotestamentari. Se durante gli anni cinquanta ci si era dedicati soprattutto allo studio di opere importate dall’Europa e dagli Stati Uniti, a partire dagli anni sessanta si iniziò a pubblicare monografie di grande pregio scritte da specialisti dell’Antico Testamento che avevano compiuto i loro studi in Europa e in America. Prima di proseguire con la descri­zione del pensiero di Masao Sekine, vorremmo qui includere una selezione di autori e delle loro opere più importanti pubblicate in questo periodo: Kōki Nakazawa, Studi sul Deutero-Isaia (1963); Kiyoshi Sakon, Studio sui Salmi (1972); Ken’ichi Kida, Profeti d’Isra-ele: i loro obblighi e i loro scritti (1976); Kōichi Namiki, L’antico Israele e le zone limitrofe (1979); Toshiyaki Nishimura, Profezia e sapienza nell’Antico Testamento (1981); Yoshihide Suzuki, Studi filologici sul Deuteronomio (1987). Sin dagli anni 1970, le opere di studiosi giapponesi quali Tomoo Ishida, Fujiko Kohata e Akio Tsukimoto sono state pubblicate nelle serie monografiche della Zeitschrift für die Alttestamentalische Werke, una rivista internazionale di studi veterotestamentari. Una delle caratteristiche degli studi sull’An­tico Testamento in Giappone riguarda l’impiego, a partire dal dopoguerra, del metodo sociologico elaborato da Max Weber, il cui Das antike Judentum fu tradotto da Yoshiaki Uchida tra il 1962 e il 1964. Uno degli esempi che si possono citare a riguardo è l’opera di Kōichi Namiki, il quale ha recentemente applicato ai suoi studi sull’Antico Testamento la metodologia weberiana della sociologia comparativa.

Masao Sekine ha esercitato un influsso notevole sul cristianesimo giapponese, non solo come studioso di Antico Testamento, ma anche come teologo. Nato a Tōkyō nel 1912, si è laureato al Dipartimento di Giurisprudenza nel 1935 e al Dipartimento di Let­tere all’Università Imperiale di Tōkyō nel 1944. Ottenne nello stesso anno un dottorato in Teologia alla Halle University e nel 1962 un dottorato in Lettere all’Università di Studi Pedagogici di Tōkyō, dove ebbe modo di insegnare dal 1954 al 1976. Nel 1971 il Diparti­mento di Teologia dell’Università di Erlangen, in Germania, gli ha conferito una laurea ad honorem.

Sekine è uno dei leader riconosciuti del Movimento della Non­Chiesa (Mu-kyōkai). Da studente, in Germania, divenne amico di Julius Schniewind, un evento questo che dette una svolta significativa alla sua identità cristiana. Come teologo della Non­Chiesa, sostenne fermamente la teologia della croce, mentre altri concetti fondamentali della sua interpretazione veterotestamentaria, come ad esempio quello di “paradosso e analogia”, furono mutuati dall’intellettuale protestante Shishio Nakamura (1889–1968), un filosofo

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della religione. Sekine subì inoltre un certo influsso per l’elaborazione della sua filosofia della religione dalla Scuola filosofica di Kyōto.

Le opere di Sekine coprono una vasta gamma di studi veterotestamentari: 1) la sua traduzione in giapponese dell’Antico Testamento che raggiunse una certa popolarità tra cristiani e non cristiani; 2) commenti ai libri dell’Antico Testamento, quali Il libro di Geremia (1964), Il libro di Giobbe (1970) e I Salmi (1972); 3) monografie, come La storia della religione e della cultura di Israele (1952), L’Antico Testamento: la sua storia, letteratura e pensiero (1955), Il pensiero e il linguaggio di Israele (1962), una raccolta di saggi dal titolo Storia della letteratura dell’Antico Testamento (2 voll., 1978–1980) e Pensatori dell’antico Israele (1982); 4) numerosi saggi sull’Antico Testamento scritti in diverse lingue europee e in giapponese, e 5) saggi, monografie e conferenze sul Mu-kyōkai e sulla fede cristiana.

Sekine ha contribuito a formare molti specialisti in Antico Testamento, dando così allo studio veterotestamentario in Giappone una reputazione internazionale. Caratte­ristica del suo approccio al testo biblico è la formulazione logica del pensiero veterote­stamentario, ponendo a base delle sue investigazioni linguistiche, filologiche e storiche i concetti elaborati dalla Scuola di Kyōto. Egli non presenta il pensiero veterotestamentario in maniera sistematica (così come fanno molti studi di teologia dell’Antico Testamento) ma, al contrario, analizzando il pensiero anticotestamentario in maniera diacronica, ne evidenzia il contenuto presente in ogni sua tappa storica in maniera sincronica — un metodo, questo, che gli parve molto più congeniale. Sekine, ad esempio, interpreta il concetto di profezia dell’Antico Testamento nel modo seguente: un profeta (l’individuo) rimuove le illusioni del popolo d’Israele (il particolare), come se quest’ultimo fosse spontaneamente unito a Dio (il generale), annunciando così una nuova alleanza basata sulla grazia di Dio. Questa interpretazione del ruolo dei profeti, che si avvale di una formulazione derivante dalla logica, gli proviene certamente dalle sue intuizioni riguar­danti la fede cristiana. In entrambi i casi, si rifiuta un’unione dell’uomo con Dio basata su un’immediatezza spontanea, dando invece maggior valore a un’unione basata su una mediazione soteriologica.

Nell’esaminare la teologia di Sekine, occorre ricordare che egli è un cristiano del Mu-kyōkai, era membro del gruppo guidato da T. Tsukamoto e che la morte espiatrice di Gesù in croce fu il motivo che lo spinse in gioventù a diventare credente. Dopo la guerra, Sekine partecipò per un certo periodo a un movimento di preghiera carismatico fondato da un leader che si era infiltrato tra i cristiani del Mu-kyōkai, anche se lo abbandonò quasi subito in quanto si accorse che quella particolare fede spirituale era priva della “parola della croce”. Da quel momento in poi pose al centro delle sue riflessioni il rapporto tra spirito e parola, un rapporto, questo, che presenta una certa difficoltà anche per l’inter­pretazione dell’Antico Testamento. Infatti, se da una parte lo spirito è all’opera attraverso la mediazione della parola, dall’altra le esperienze spirituali non possono aver luogo che nell’immediatezza. Abbandonando quel movimento carismatico, Sekine si accorse di essere entrato in una condizione che potremmo chiamare di “incredulità religiosa”, e in

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questa situazione riuscì ad avvicinarsi ancora una volta alla figura di Gesù, che, seppur fidandosi di Dio, era stato abbandonato da Dio. La prospettiva su cui si basava questa sua “incredulità­come­fede” era simile a quella di colui che gridava: “Credo. Aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24). In questo senso, essere increduli non significa ripudiare la fede — una decisione, questa, che di fatto eliminerebbe qualsiasi possibilità di fede. L’incredulità è piuttosto ciò che trascende la scelta umana tra il credere e il non credere. Si può qui pensare all’ideogramma Mu (nulla) che compone il termine Mu-kyōkai: lungi dal voler annullare la Chiesa, afferma invece che la Chiesa invisibile trascende ogni tipo di associazionismo umano. Così, mentre un buddhista potrebbe accostare il Mu alla śūnyatā (vacuità), il cristiano potrebbe invece interpretare il Mu come il definitivo “Sì” o “No” che Dio pronuncia su tutto ciò che riguarda l’uomo. Con ciò si eliminerebbe qual­siasi tentativo di attribuire un significato positivo alle azioni degli individui, solamente perché esse rimandano a un fondamento che è, appunto, umano. Sekine parla in questo contesto anche del “disamore come amore” e della “disperazione come speranza”, concetti che si rifanno all’interpretazione che Sekine dà del principio protestante della “sola fede”, un principio che è indice di una spiritualità molto intensa e profonda.

E questa spiritualità pare coincidere con un’immediata realtà religiosa di origine divina che non è fondata sulla parola della predicazione apostolica, avvicinando così il pensiero di Sekine a quello della filosofia di Nishida. D’altro canto, però, Sekine ha fermamente creduto nella morte espiatrice di Gesù in croce, ponendola al centro della sua predicazione. Perciò è contrario sia alla demitizzazione sia alla teologia pluralistica della religione. Tuttavia, e malgrado la sua simpatia nei confronti della Scuola di Kyōto, rimane scettico circa il dialogo con il Buddhismo. Si sarebbe quasi tentati di chiedergli quale rapporto esista secondo lui tra l’immediatezza spirituale e la fede come accettazione della parola del Vangelo — e questo, perché ci pare che non elabori in maniera sufficien­temente chiara questa connessione, sebbene entrambi i momenti siano provvisoriamente uniti nella sua comprensione sacramentale della totalità della persona. In questo senso egli deve affrontare il problema della relazione tra l’immediatezza della fede cristiana (la parola) e il Risveglio buddhista (l’immediatezza), e ci si può aspettare che in futuro ten­terà senz’altro di affrontare questo problema.

Conclusione

Tra il 1950 e il 1970 la teologia giapponese ha avuto un tenore principalmente cristologico, gettando così le basi per il periodo successivo, incentrato per lo più su una riflessione teologica riguardante Dio. La teologia giapponese entra così in una nuova fase.

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la teologia dopo il 1970

Masaya Odagaki

Lo Zeitgeist post-1970

La suddivisione della storia della teologia postbellica in due periodi, prima e dopo il 1970, non sempre ha ricevuto un con-senso unanime. Desidero quindi chiarire il senso di questa divi-sione e, allo stesso tempo, definire il fondamento metodologico di questo capitolo.

Ho chiamato il periodo che precede il 1970 “l’età classica” della teologia contemporanea. In questo periodo, intellettuali illustri come Barth, Bultmann e Tillich stavano dominando la scena teologica, e la metodologia più comune seguita da coloro che in Giappone intendevano dedicarsi agli studi di teologia era quella di intrattenere un dialogo con questi pensatori. Di fatto, qual-cuno ha definito questo periodo come il periodo della “cattività tedesca”. La teologia di Karl Barth, con la sua enfasi posta sulla differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, era in particolar modo così conosciuta e diffusa che molti teologi sentirono la neces-sità di entrare in un dialogo etico-teologico con lui — sia per

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appoggiare le sue idee sia per criticarle. Tuttavia, questa atmosfera teologica mutò radi-calmente dopo il 1970. Una rivista di teologia giapponese descrisse questo cambiamento come l’avvento dell’“epoca post-barthiana”. Sebbene quest’espressione non possieda una vera e propria giustificazione teologica (la si potrebbe paragonare all’espressione “epoca post-bultmanniana”), ha però il pregio di esprimere in maniera soddisfacente il cambio dell’umore teologico nel Paese.

Una delle caratteristiche peculiari del pensiero post-1970 riguarda l’esodo dal concetto di soggetto-oggetto. Coloro che si opposero in maniera energica a questo esodo furono ovviamente Barth, Bultmann e Tillich, i quali si dimostravano contrari al pensiero scien-tifico della teologia moderna. Tuttavia, nel criticare la teologia moderna, necessariamente ne presupponevano l’esistenza, se non altro perché la ponevano come oggetto della loro contestazione. Non riuscirono quindi a liberarsi totalmente dal pensiero che intendevano confutare, assumendo invece il pensiero elaborato dalla teologia moderna come postu-lato negativo della propria teologia. Per usare un termine caro a Karl Popper, il principio utilizzato per il loro approccio alla teologia moderna era quello del “falsificazionismo”.

A questo esodo dal concetto di soggetto-oggetto, che come abbiamo detto fu uno dei tratti caratteristici del pensiero post-1970, fece seguito l’abbandono della relazione falsifi-cazionista nei confronti del pensiero soggetto-oggetto moderno. A questo riguardo, due sono i punti a cui prestare attenzione.

In primo luogo, il sapere elaborato dopo il 1970 era fondato sulla meontologia, cioè sull’ontologia del Nulla (Me, in greco, indica una negazione condizionata ed è diverso da ou, che invece indica una negazione assoluta. La meontologia è quindi un’ontologia del Nulla, in senso heideggeriano). L’oggetto, nella relazione soggetto-oggetto, non può fon-dare alcun sapere. Questo è esattamente il problema dell’epistemologia contemporanea, o teoria della scienza, che necessariamente condiziona anche la teologia contemporanea. Dio, infatti, non può più essere considerato come quell’ente che, all’interno del paradigma soggetto-oggetto, deve essere dimostrato.

L’idea che Dio non possa più essere considerato un ente, è già rintracciabile in Barth e Tillich, anche se non pare che essi abbiano compreso appieno il significato di questa idea. Si potrebbe perciò affermare che il compito della teologia dopo il 1970 consista proprio nel rendere espliciti gli esiti di questa loro intuizione, dato che non la presero mai in seria considerazione. Non si potrebbe allora affermare che l’epistemologia meontologica, cioè il fatto che il sapere e l’interpretazione si fondino su ciò che non è più identificabile come un ente, rappresenti lo Zeitgeist — per usare un termine caro ai tedeschi — del pensiero post-1970? E che questo Zeitgeist non riguardi solo la teologia? Ad esempio, a partire da Heidegger i problemi del linguaggio (l’insistenza di Jacques Derrida e Richard Rorty sul decostruzionismo; il riesame della legittimità della conoscenza scientifica operato da Thomas Khun) sono tutti legati essenzialmente a questo pensiero meontologico. Anche la “conoscenza tacita” di Michael Polanyi e la “filosofia processuale” di Whitehead possono essere collegati alla meontologia, nonostante che questi due pensatori appartengano alla

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generazione precedente. La realtà meonotologica rappresenta quindi il problema princi-pale di questo periodo, e io intendo chiamare questa realtà lo “Zeitgeist post-1970”.

In secondo luogo, questo “Zeitgeist post-1970” meontologico ha delle affinità con il pensiero orientale del Mu (Nulla). È risaputo che Allen Ginsberg e Garry Snyder, leader del movimento della contro-cultura americana, erano interessati al pensiero orientale. Heidegger provava grande curiosità per i libri sullo Zen di Daisetsu Suzuki. Seisaku Yamamoto riporta che il pensiero di Whitehead possedeva qualche analogia con quello di Kitarō Nishida (Whitehead and the Philosophy of Nishida, 1985), e Robert Magliola ha segnalato delle similarità tra il pensiero di Jacques Derrida e il pensiero orientale (Der-rida on the Mend, 1984). Trascendere la contraddizione o l’opposizione soggetto-oggetto significa mettersi alla ricerca di un “qualcosa” che non sia né oggettivo né soggettivo. È quindi del tutto ovvio che questo “qualcosa” non possa essere com-preso dal soggetto e che sia considerato un Nulla all’interno del paradigma scientifico dell’epistemologia moderna. Tutto ciò presenta qualche somiglianza con l’idea orientale di Nulla. Nell’usare l’espressione “teologia post-1970” intendo quindi riferirmi a quella teologia che è stata elaborata all’interno di questo tipo di Zeitgeist.

La “teologia post-1970” è stata grandemente influenzata dalla filosofia di Kitarō Nishida (1870–1945). Prima di Nishida, la filosofia era dedita principalmente a com-mentare e interpretare il pensiero filosofico occidentale. Nishida, come si è più volte affermato, ha avuto il pregio di inaugurare un sistema filosofico giapponese adottando, e al tempo stesso criticando, la filosofia occidentale (che considera l’“essere” come fonda-mento della realtà) a partire dalla prospettiva orientale del Buddhismo zen (che invece assume a fondamento il “Nulla”). L’identità assolutamente contradditoria, il concetto cen-trale della filosofia di Nishida (sebbene non sia propriamente un concetto), ricorda molto la coincidentia oppositorum di Niccolò Cusano. Ma mentre Nishida interpreta il Nulla assoluto come quel luogo o campo in cui i poli opposti delle contraddizioni trovano una loro collocazione, Niccolò Cusano considera il Nulla assoluto come una specie di “sacra oscurità”1. Affermare che la “teologia post-1970” ha subito l’influsso della filosofia nishi-

1. [“Nishida parla di nulla assoluto perché si tratta di qualcosa che non viene ad essere né cessa, e in questo senso si distingue dal mondo dell’essere. E lo chiama nulla assoluto — o ‘nulla dell’assoluto’, come spesso scrive — perché non può essere circoscritto da un qualche fenomeno, individuo, evento o relazione nel mondo. La sua assolutezza significa proprio che tale nulla non è definito come opposto a qualcosa nel mondo dell’essere. Questo nulla è assoluto nel senso che è ‘ab-solutum’, libero da qualsiasi opposizione che potrebbe renderlo relativo, così che la sua unica opposizione al mondo dell’essere è quella di un assoluto nei confronti di un relativo. Il nulla si contrappone al mondo come l’assoluto si contrappone al relativo. La negazione del soggetto e dell’oggetto — o la negazione del sé che poggia sulla distinzione di soggetto e oggetto — è in primo luogo relativa, dato che si definisce in opposizione all’affermazione di quelle cose. Queste negazioni non diventano un nulla assoluto fino a che non si siano liberate di quella opposizione definitoria, vale a dire fino a che non vengano viste come un primo passo nell’autodeterminazione del nulla dell’assoluto stesso, in cui ciò che è stato negato nell’essere viene riaffermato così com’è. Nel nulla assoluto, come dice lo stesso Nishida, ‘la vera negazione è una negazione della negazione’. Chiamare la realtà stessa nulla assoluto, allora, significa dire che tutta la realtà è soggetta alla dialettica di essere e non essere, significa dire che l’identità di ogni cosa

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diana significa quindi affermare che abbiamo iniziato a elaborare una teologia giapponese a partire dalle idee orientali di Nulla e di Luogo2.

Ciò che qui è importante evidenziare, allora, è il cambiamento del clima teologico descritto in precedenza. L’anno 1970 non sempre è ritenuto uno spartiacque temporale ideale — così come lo fu invece il 1919, anno che segnò la nascita della teologia contem-poranea grazie alla pubblicazione de L’Epistola ai Romani di Karl Barth. Tuttavia, nel 1970 si verificarono alcune importanti trasformazioni nella mentalità collettiva. A questo riguardo si possono isolare due ragioni responsabili di questo mutamento. La prima riguarda la contestazione giovanile che in questo periodo si estese in tutto il mondo. Il movimento della contro-cultura, attivo dalla fine degli anni sessanta fino agli inizi degli anni settanta, esprimeva la disperata protesta dei giovani contro la società tecnocratica contemporanea, una società nella quale gli individui erano privati della loro umanità ed erano controllati a tal punto che perfino le loro proteste venivano manovrate dalla società. Scoraggiati da questa situazione, i giovani scelsero dei modelli di vita che adottassero un sistema di valori qualitativamente diverso da quello utilizzato dall’etica puritana moderna. Questo movimento non intendeva essere una protesta in stile “falsificazionistica” contro lo spirito moderno, quanto piuttosto un tentativo di vivere mediante uno spirito comple-tamente diverso, uno spirito che si rifiutava perfino di considerare la coscienza moderna come oggetto della propria protesta. Questo movimento esprime lo stesso Zeitgeist della contestazione studentesca che ebbe inizio nel maggio del 1968 in Francia e che in seguito si estese in tutti i Paesi sviluppati. Gli studenti si resero però ben presto conto che nessun sovvertimento del sistema di valori sarebbe mai stato in grado di risolvere le contraddi-zioni insite in quello stesso sistema. Era invece la coscienza stessa della società, così cre-devano, che doveva essere radicalmente trasformata. Per questo intendo includere questa consapevolezza dei giovani all’interno dello “Zeitgeist post-1970”.

In secondo luogo, le contestazioni universitarie fecero sentire il loro influsso sulle università cristiane, sulle scuole teologiche e sulla Chiesa giapponese. I giovani cristiani iniziarono a protestare apertamente contro il Cristianesimo istituzionalizzato, oltre che contro la sua natura artificiale e autoritaria. Tuttavia, le università e le autorità ecclesia-stiche non furono in grado di articolare delle risposte convincenti da offrire ai giovani in rivolta. Non riuscendo a comprendere che la contestazione era indirizzata non tanto a produrre una semplice revisione del sistema quanto piuttosto un radicale rinnovamento

è legata a un’assoluta contraddittorietà. In altri termini, il nulla relativizza non solo il ‘fondamento dell’es-sere’, ma anche qualsiasi modello di coesistenza o armonia che sottende, trascende, debilita o in altro modo oscura questa contraddittorietà. Al tempo stesso occorre dire che l’ascesa del nulla all’autoconsapevolezza nella coscienza umana, ‘vedere l’essere stesso direttamente come nulla’, è sia il punto in cui il sé può intuire direttamente se stesso, sia il punto in cui l’assoluto diventa più pienamente reale”, in J. W. Heisig, Filosofi del Nulla. Un saggio sulla scuola di Kyoto, op. cit., pp. 97–98. Ndt].

2. [Sul rapporto tra il concetto di “luogo” e quello di “esperienza religiosa” in Nishida, si veda K. Nishida, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, trad. e introduzione di T. Tosolini. Chisokudō Publications, Nagoya 2017. Ndt].

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della coscienza comune, le reazioni delle autorità furono alquanto repressive. In seguito ai disordini universitari furono soppressi due Dipartimenti di Teologia (nelle Università Aoyama Gakuin e Kantō Gakuin). E, sebbene le opinioni riguardanti gli stessi conflitti possano essere divergenti, le contestazioni avvenute durante gli anni 1970 in seno alla Chiesa ci costrinsero a riconsiderare il tipo di teologia che si sarebbe dovuto elaborare in questo Paese. In ogni caso, a partire dal 1970 la teologia è stata fondata su delle basi piuttosto instabili e insicure.

Questo capitolo intende gettare uno sguardo retrospettivo sulla recente situazione teologica, mantenendo, allo stesso tempo, la prospettiva indicata in precedenza. Con ciò, tuttavia, non intendo suggerire che la teologia così come si è stata elaborata dagli anni 1970 in poi sia stata formulata in modo tale da soddisfare le esigenze odierne. Al contra-rio, essa insiste sul fatto che il Dio del Cristianesimo è primariamente e originariamente meontologico, così come del resto lo è il Dio totaliter aliter. Se la teologia prima del 1970 possedeva un orientamento cristologico, la teologia dopo il 1970 è invece una teologia che si incentra sulla dottrina di Dio. La teologia che analizzeremo di seguito verrà esposta tenendo presente come questi propositi meontologici siano stati elaborati da ciascun teologo.

L’influsso del pensiero meontologico

Katsumi Takizawa

La teologia di Katsumi Takizawa, il compianto professore emerito della Kyūshū Univer-sity, ha avuto, secondo la mia personale opinione, l’obiettivo principale di sviluppare ulte-riormente l’elemento meontologico della teologia che era rimasto latente in Karl Barth. Questa è la ragione per cui in questo capitolo ci occuperemo del suo pensiero. Come abbiamo notato in precedenza (cfr. cap. 3), Takizawa è stato il primo teologo a instaurare un confronto tra il Cristianesimo e il Buddhismo, non tanto a livello di studio di religioni comparate, quanto piuttosto a livello dell’“essenza” della religione.

Nel suo Buddhismo e Cristianesimo (1964) Takizawa è d’accordo con Barth nell’affer-mare che il modo d’essere fondamentale dell’umanità è l’Emmanuele (il Dio-con-noi). L’Emmanuele è l’Urfaktum che esiste incondizionatamente per se stesso e che precede qualsiasi distinzione umana tra Dio e l’uomo, tra la fede e l’incredulità, tra l’individuo cristiano e quello non cristiano, ecc. Potremmo dire che l’Emmanuele ha qualcosa in comune con l’identità assolutamente contraddittoria (tra Dio e l’uomo) di Nishida. Un Dio che si pone di fronte all’uomo come totaliter aliter, come oggetto di fede dell’uomo, è un Dio che è affermato come tale all’interno della struttura della fede conoscitiva dell’uomo, e quindi non può essere considerato un autentico totaliter aliter. Dio, in quanto totalmente altro, può essere davvero “altro” solo in una dimensione che trascende ogni affermazione o negazione umana nei riguardi della totale alterità di Dio. Questo è

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il significato dell’Emmanuele. In altre parole, l’Emmanuele è l’Urfaktum che in nessun modo può essere incluso nell’ottica della moderna epistemologia. Takizawa afferma quindi che la teologia di Barth non è affatto teocentrica, come se intendesse opporsi all’antropocentrismo della teologia moderna. Nella teologia barthiana, invece, Dio tra-scende ogni distinzione tra teocentrismo e antropocentrismo, perché questi non sono altro che costruzioni teologiche umane. Da questo punto di vista il Dio del teismo, che si contrappone all’ateismo, non è il Dio dell’Emmanuele, e la critica al teismo mossa dal Buddhismo zen non solo è pertinente ma, da una prospettiva cristiana, è anche benac-cetta. Il fatto che Takizawa abbia accolto in maniera così positiva il pensiero di Barth, è indice che egli non solo che ne accettava la teologia, ma anche che intendeva adottarla e adeguarla all’idea dell’identità assolutamente contraddittoria di Nishida.

Secondo Takizawa, la teologia barthiana dell’Urfaktum cioè dell’Emmanuele, possiede alcuni punti in comune con lo Zen. Prima di recarsi in Europa a studiare con Barth, Takizawa si era interessato alla filosofia di Nishida, e fu lo stesso Nishida che consigliò a Takizawa di studiare con Barth. Come abbiamo brevemente menzionato nel capitolo precedente trattando di Yagi, Takizawa aveva utilizzato la sua particolare comprensione dell’Emmanuele per muovere delle critiche sia al Cristianesimo (inclusa la teologia bar-thiana) sia al Buddhismo zen. Poiché l’Emmanuele è quell’Urfaktum che trascende ogni ragionamento e conoscenza che l’uomo può avere su di esso, l’Urfaktum non può essere identificato neppure con quell’evento mediante il quale l’Emmanuele si è rivelato e mani-festato nella storia. Secondo Takizawa, l’Emmanuele si è realizzato in Gesù come modello per l’umanità. Tuttavia, il compimento dell’Emmanuele in Gesù non può applicarsi ana-logamente all’Emmanuele stesso, cioè all’Urfaktum. È certamente impossibile separare Gesù, in cui l’Emmanuele si è realizzato per la prima volta, dall’Emmanuele stesso — o, in altre partole, da Gesù Cristo, il Figlio di Dio rivelato. Tuttavia, secondo Takizawa, queste due realtà, almeno in linea di principio, devono essere distinte. Se si afferma che Dio in quanto Urfaktum è l’Emmanuele primario, allora il compimento dell’Urfaktum in Gesù rappresenta l’Emmanuele secondario. Secondo Takizawa l’ordine dell’Emmanuele pri-mario e quello dell’Emmanuele secondario non è mai reversibile, sebbene i due Emma-nuele siano inseparabili (anche se non identici) tra loro. Per Takizawa il Cristianesimo occidentale tradizionale, incluso il pensiero di Barth, non ha riflettuto attentamente sulla distinzione tra Emmanuele primario e secondario, e nemmeno sull’irreversibilità del loro ordine, considerandoli invece come un’unica e medesima realtà.

Takizawa, poi, critica anche lo Zen — soprattutto quello sostenuto uno dei suoi leader più noti, cioè da Shin’ichi Hisamatsu (1889–1980) — affermando che lo Zen più di ogni altra cosa rifiuta l’irreversibile priorità dell’Emmanuele. Hisamatsu insiste sul fatto che si debba “uccidere il Buddha”3. L’uomo è in grado di conoscere il Buddha come Hosshin,

3. [Il detto: “Se incontri il Buddha uccidi il Buddha” è incluso nella Raccolta dei detti di Linji (giap. Rinzai roku) che include le massime di Linji Yixuan (m. 866), il fondatore della Scuola Zen Linji. Per il Buddhismo, ovviamente, il Buddha è la figura che deve essere venerata per eccellenza. Tuttavia, “incontrarlo” significa

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la Realtà Ultima, solo attraverso il Buddha inteso come Hōshin, la manifestazione e la realizzazione dell’Hosshin. L’Hōshin, tuttavia, non è l’Hosshin, sebbene l’uomo possa com-prendere l’Hosshin solo mediante l’Hōshin. Per questa ragione si deve “uccidere” e “s-vuo-tare” l’Hōshin per realizzare l’Hosshin. Tillich aveva espresso un’idea simile, quando aveva affermato che la croce, per essere davvero tale, cioè rivelazione di Dio, deve diventare trasparente nei confronti di Dio e che, una volta raggiunta questa sua trasparenza, non vi è più necessità che la croce rimanga davvero tale. Meister Eckhart, in maniera simile, aveva affermato che è solo nel momento in cui diventiamo noi stessi geistlich arm, “poveri in spirito” (Mt 5,3) e s-vuotiamo il nostro spirito dalla spasmodica ricerca di Dio che il vero Dio — ora non più racchiuso dal nostro sguardo e dal nostro desiderio — manifesta se stesso. Secondo Eckhart, non è quindi del tutto errato ritenere che Dio possa essere chiamato Nulla, e questo proprio perché lo spirito dell’uomo che lo cercava è stato s-vuo-tato e Dio non è più considerato oggetto della conoscenza umana. Nel famoso sermone Surrexit autem Saulus de terra, Eckhart ebbe a dire: “Got ist ein niht” (Dio è un nulla). Le affinità tra il pensiero di Eckhart e lo Zen sono state più volte rimarcate. In ogni caso, è il risultato di una necessità logica il fatto che il “senza-forma” Hosshin, o Dio in quanto niht, non possegga una priorità irreversibile sul soggetto che cerca l’Hosshin o Got. Que-sto perché se attribuiamo una priorità irreversibile all’Hosshin o Got, noi li consideriamo come qualcosa di oggettivo, separandoci così da loro. Qualcosa di inseparabile, e al tempo stesso non identificabile, cioè qualcosa che trascenda la dicotomia soggetto-oggetto, non può essere un oggetto a cui possiamo accordare un attributo quale quello della priorità irreversibile. Tuttavia, secondo il parere di Takizawa, il fatto che lo Zen non ammetta la priorità irreversibile dell’Urfaktum rende il Risveglio buddhista una faccenda del tutto privata.

Riassumendo quanto detto finora, Takizawa interpreta il Dio totaliter aliter di Barth come un Urfaktum e insiste nel ritenere che questo Urfaktum possieda una priorità irreversibile sulle vicende umane — malgrado esso sia inseparabile da (ma non identico con) queste. Ora, a prescindere dalla pertinenza o meno dell’interpretazione di Barth effettuata da Takizawa, dobbiamo ammettere che Takizawa è riuscito nell’intento di accogliere la teologia barthiana armonizzandola con l’idea orientale del Nulla. Tuttavia, la mia opinione in merito è che Takizawa pare incapace di vagliare le proprie posizioni

che lo consideriamo come un oggetto esterno, posto al di fuori di noi: se ci attacchiamo a lui, egli diventa un intralcio per giungere al Risveglio, cioè a quella condizione in cui scompare ogni distinzione e opposizione oggetto-soggetto. Per una traduzione e commento al testo, si veda The Record of Linji, trad. di R. F. Sasaki, University of Hawai’i Press, Honolulu 2009, p. 22. Il testo, nella sua interezza, recita: “Seguaci della Via, se volete comprendere il Dharma (cioè legge universale che governa l’ordine fisico e morale dell’universo) non lasciatevi attrarre dalle beffarde opinioni degli altri. Uccidi immediatamente tutto ciò che incontri dentro o fuori di te. Se incontri il Buddha, uccidi il Buddha; se incontri un patriarca, uccidi il patriarca; se incontri un arhat (un monaco che ha raggiunto il pieno risveglio spirituale) uccidi l’arhat; se incontri i tuoi genitori, uccidi i tuoi genitori; se incontri un congiunto, uccidi il congiunto. Essendo libero da qualsiasi attaccamento, passa semplicemente oltre”. Ndt].

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in maniera critica. Infatti, l’insistenza sull’irreversibile priorità dell’Urfaktum è un’idea che nasce dall’insistenza di Takizawa stesso. Detto altrimenti, Takizawa non può in alcun modo attribuire una simile proprietà all’Urfaktum, perché l’Urfaktum trascende ogni comprensione umana. Nessuno potrà però negare il fatto che Takizawa abbia reso possibile un dialogo (oltre che un metodo per condurlo) tra Cristianesimo e Buddhismo mediante la critica di entrambe le religioni condotta a partire dalla sua comprensione dell’Emmanuele.

Seiichi YagiNella sua prima opera, La formazione del pensiero neotestamentario (1963), Seiichi Yagi (cfr. cap. 3) analizza il Nuovo Testamento a partire da alcune tipologie teologiche presenti in esso. Secondo Yagi tre sono i temi del Nuovo Testamento: l’impersonalità, l’individualità e la comunità. Gesù ha parlato dell’amore, della vita umana e della legge — argomenti, questi, che corrispondono ai tre temi sopra indicati e il cui obiettivo era quello di enunciare il regno di Dio. La Chiesa delle origini, nella quale vengono articolate tematiche simili, ha utilizzato queste tipologie per formulare l’“agire di Cristo”. Yagi pro-segue affermando che si deve distinguere il “regno di Dio” predicato da Gesù dal “Cristo” annunciato dalla Chiesa delle origini. Di fatto, anche i recenti studi neotestamentari distinguono tra il “Cristo” della Chiesa primitiva e il “Gesù della storia”. Accettando que-sta classificazione, assieme a quella elaborata da Takizawa tra il contatto primario (Cristo) e il contatto secondario (la cui attuazione ideale è Gesù), Yagi associa il “regno di Dio” di Gesù al “Cristo” della Chiesa delle origini, cioè al Cristo pasquale e pneumatico che vive “nei” credenti. “Cristo” è dunque un altro termine utilizzato per quella realtà che Gesù ha chiamato “regno di Dio”. A partire da queste premesse, Yagi procede a spiegare la fede nella risurrezione nel modo seguente: dopo la morte di Gesù, i discepoli compresero che in loro era presente quella realtà che Gesù aveva chiamato “regno di Dio” e interpretarono questo evento come un’epifania di Gesù, in maniera molto simile a quella descritta in Mt 4,16ss4. Le persone ritennero che in Gesù operasse il potere stesso di Giovanni Battista. Yagi è quindi convinto che il “regno di Dio” di Gesù e il “Cristo” della Chiesa primitiva siano un’unica e medesima realtà, e che questa realtà, che Yagi chiama “Ordine per Inte-grazione”, possa essere compresa da chiunque analizzi il contenuto del risveglio religioso — senza quindi alcun bisogno di presupporre una rivelazione speciale da parte di Dio in Gesù Cristo. Tutto ciò è molto simile al pensiero di Herbert Braun, il quale sosteneva che la fede pasquale è un evento che interpellava soprattutto la cristologia, non l’antropologia (Die Sinn der neutestamentlichen Christologie, 1957).

Con “Ordine per Integrazione”, Yangi intendeva dire che il modo d’essere dell’uomo è simile a quello di un polo di un magnete. I due poli del magnete sono diversi, tutta-

4. [“Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata. Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: ‘Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino’” Mt 4,16–17. Ndt].

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via l’uno è indispensabile all’altro. Il polo situato a nord, infatti, non può essere tale in assenza del polo situato a sud, e viceversa. In questo senso si può dire che all’interno del paradigma soggetto-oggetto, il soggetto è identico all’oggetto. Il luogo in cui il soggetto è identico all’oggetto è il cosiddetto “Campo dell’Integrazione”, e le tre tipologie dell’amore, dell’individuo e della comunità trovano la propria collocazione e modo d’essere all’in-terno di questo Campo. Ciò che Gesù ha indicato con il nome di “regno di Dio”, non è altro che il compimento di questo Campo. Inoltre, il Campo dell’Integrazione è radical-mente diverso dal campo di quella logica che spadroneggia sulla realtà in maniera razio-nale, cioè il campo del legalismo. Yagi giunse a queste conclusioni studiando il Nuovo Testamento, e in Gesù e Cristo (1969) egli ebbe a scrivere che il pensiero neotestamentario, “se lo interpreto correttamente”, appartiene al “Campo in cui il soggetto è identico all’og-getto”. In altre parole, il pensiero neotestamentario è diverso dal pensiero moderno basato sul paradigma soggetto-oggetto. Nel proporre questo tipo di ragionamento, Yagi si stava perciò già indirizzando verso ciò che abbiamo chiamato la “teologia post-1970”.

Nella sua opera Punti di contatto tra il Buddhismo e il Cristianesimo (1975) Yagi sostiene che questa Integrazione può essere paragonata a ciò che il Buddhismo chiama engi (origine interdipendente)5. Nel Buddhismo, inoltre, questo tipo di conoscenza che si basa sul rapporto soggetto-oggetto e che è stata elaborata dall’epistemologia odierna, prede il nome di funbetsuchi (conoscenza basata sulla distinzione). Trascendere il funbet-suchi significa perciò superare quel presupposto scientistico che sostiene che l’autentica conoscenza di un oggetto deriva dall’attività conoscitiva del soggetto. Secondo l’idea che soggiace al concetto di engi, invece, ogni cosa esiste in mutua interdipendenza, e non esi-ste alcun fondamento per ritenere che il soggetto debba godere di uno status conoscitivo privilegiato, come accade nel funbetsuchi. Vivere all’interno di questa rete di relazioni isti-tuite dall’engi significa perciò vivere all’interno del Campo dell’Integrazione — e questo, per Yagi, è proprio ciò che il Nuovo Testamento ci vuole trasmettere. Tuttavia, se questo è vero, allora il Dio del Nuovo Testamento in cui Gesù ha creduto non può essere un Dio personale, come sostiene la tradizione giudeo-cristiana, ma deve essere un Dio che assomigli molto a quel Nulla che trascende il funbetsuchi. Il Buddhismo e il Cristianesimo possono così trovare un punto di contatto grazie a questa particolare interpretazione di Dio (Gesù e il nichilismo, 1979).

Secondo Yagi, l’uomo vive all’interno del Campo dell’Integrazione grazie al Tra-scendente. Tuttavia, il Trascendente non è un soggetto ordinatore e la sua esistenza è diversa da quella degli altri oggetti nel Campo dell’Integrazione. L’analogia più idonea per descrivere il Trascendente è il “Campo”. Yagi scrive che “Quando formuliamo l’idea

5. [Il significato di questa dottrina buddhista si può riassumere nell’affermazione che ogni effetto ha una causa. In altre parole, tutto ciò che esiste ha un’origine che dipende da qualcos’altro (o da una molteplicità di fattori). Secondo questo punto di vista, tutti i fenomeni fanno parte di una serie causale, e non esiste nulla che sia in sé e di per sé indipendente. L’universo, perciò, non è visto come un insieme di elementi più o meno statici, ma come un sistema di cause ed effetti correlati e interdipendenti. Ndt].

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dell’Assoluto (cioè il Trascendente) come Campo, il concetto di Integrazione si incontra con la filosofia di Nishida” (Punti di contatto tra il Buddhismo e il Cristianesimo, p. 179). Secondo la filosofia di Nishida, all’interno del Campo dell’identità assolutamente con-traddittoria il soggetto è identico all’oggetto6. Yagi preferisce qui utilizzare l’espressione “il Trascendente”, piuttosto che “il Campo”, perché desidera conservare la dimensione di trascendenza dell’Assoluto. Poiché la filosofia di Nishida non pare riconoscere una discontinuità tra l’Assoluto e il Relativo, Yagi ritiene che Nishida possegga nei confronti dell’Assoluto una scarsa sensibilità morale: “Non vi è alcun posto all’interno della filo-sofia di Nishida per il peccato e la responsabilità individuale di fronte a Dio”. Secondo Yagi, il Trascendente, inteso come Campo della realtà, è quell’attività che separa, e allo stesso tempo unisce, A e non-A e per questo possiamo chiamarlo anche “Nulla” (Dove possiamo trovare Dio? 1977). In breve, per Yagi il Buddhismo e il Cristianesimo trovano un punto di contatto nel concetto di Integrazione — sebbene il Buddhismo lo intenda quasi come il fondamento dell’essere e il Cristianesimo quasi come il fondamento del soggetto trascendente. Ciò che invece distingue il Cristianesimo dal Buddhismo è l’idea del “Trascendente”. Secondo Yagi, infatti, il Cristianesimo ha bisogno della dimensione della trascendenza come elemento per riunire la comunità dei credenti, mentre questa dimensione è raramente riscontrabile nel Buddhismo.

L’idea di Yagi con cui mi trovo in disaccordo è quella che interpreta il Campo come il Trascendente, il quale, come abbiamo affermato in precedenza, si rapporta all’uomo in maniera discontinua. Mettendo da parte i concetti teologici classici come quelli di peccato e di responsabilità di fronte a Dio, se il Trascendente deve essere interpretato come Nulla, come Yagi sostiene, allora non si comprende perché il Trascendente debba essere definito come il Campo di Integrazione, distinguendolo così dal concetto nishi-diano di Campo. Non sono forse i concetti di Campo e di Trascendente incompatibili tra loro? Credo che qui Yagi continui a pensare al Campo di Integrazione come a un ente, cioè come a un oggetto all’interno dello schema soggetto-oggetto e, allo stesso tempo, si riferisca al Campo di Integrazione come al Campo del Nulla, in cui l’oggetto è identico al soggetto.

Yagi sostiene che la nostra vita autentica possiede una relazione diretta (in “prima persona”) e una relazione indiretta (in “terza persona”) con l’Assoluto. Nella nostra rela-zione indiretta con l’Assoluto noi rimaniamo separati dall’Assoluto stesso. Tuttavia, è solo quando ci poniamo di fronte all’Assoluto, che si riesce a riconoscere l’Assoluto e a dire qualcosa su di lui. Porsi in relazione indiretta con il Trascendente e riuscire a esprimere qualcosa su di lui usando un linguaggio comune è essenziale affinché l’Integrazione costituisca una comunità di credenti. In questo contesto il Trascendente appare come ciò che “con-fronta” l’uomo trasformandosi in “Signore” — mentre l’uomo, dal canto suo,

6. Per Nishida il ba (luogo) non è un concetto spaziale. Esso è piuttosto la dualità e la simultaneità dei due poli in contraddizione. Avrei preferito tradurre ba con “luogo” piuttosto che “campo”, dato che “campo” richiama un’entità spaziale. Uso il termine “Campo” come traduzione di ba su esplicita richiesta di Yagi.

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diventa consapevole della propria identità di “servo”. Yagi, così, è persuaso che queste sue riflessioni gli permettano di rimanere “all’interno della tradizione cristiana” (La falsità dell’io e la religione, 1980).

Nella sua opera più recente, La filosofia della struttura-fronte (1988), Yagi sviluppa l’idea dell’Integrazione nei termini di ciò che chiama “struttura-fronte”. Il fatto che il polo nord del magnete non sia ritenuto tale se manca il polo sud (e viceversa), sta a indicare che la zona di confine tra i due poli appartiene a entrambi — sia da un punto di vista temporale che spaziale. La zona di confine, in altre parole, è condivisa da entrambi. Tut-tavia, l’anteriore implica il posteriore e ogni cosa possiede un fronte e un retro. Detto altrimenti, è solo possedendo e condividendo entrambi lo stesso campo, che il polo nord e il polo sud esistono rispettivamente come polo nord e polo sud. Ciò non riguarda sol-tanto i due poli del magnete, ma ogni cosa esistente. E questa è anche la modalità con cui Yagi spiega il concetto di engi incontrato in precedenza. Yagi ritiene inoltre che questa “struttura-fronte” possa essere applicata non solo alla relazione verticale con il Trascen-dente, ma anche a quella orizzontale con gli oggetti individuali (“verticale” e “orizzontale” sono termini usati a Yagi). Yagi utilizza qui il vocabolo “Ordine di Integrazione” (a cui corrisponde il biblico “regno di Dio”) per indicare il concetto di una comunità formata da singoli individui (o cose) che vengono unificati assieme dalla “struttura-fronte”. Que-sta comunità, perciò, non solo è unificata, ma è anche connessa al (o si fonda sul) Tra-scendente all’interno della “struttura-fronte” (quest’ultima, ovviamente, intesa in senso verticale).

Ora, io personalmente non sono del tutto convinto — se davvero questa struttu-ra-fronte intende spiegare il concetto di engi — che un simile Trascendente sia da con-siderarsi un ente. Di fatto, Yagi è tra coloro che con più convinzione e nella maniera più esplicita possibile si è opposto al pensiero che Dio sia un ente, un oggetto della nostra comprensione, che cioè Dio possa essere trattato come un funbetsuchi. Tuttavia, un fronte presuppone sempre un retro, e non ci può essere alcun fronte laddove non esiste un oggetto formato da retro e fronte. Yagi, nella misura in cui parla della struttura-fronte in riferimento alla nostra relazione con il Trascendente, pensa al Trascendente come una cosa individuale, oppure come a un ente?

Come ho sostenuto in precedenza, le teologie di Takizawa e di Yagi sono motivate da ciò che ho chiamato “Zeitgeist post-1970” e la loro teologia si avvicina all’idea buddhista del Nulla in risposta all’avversione che provano nei confronti del paradigma soggetto-og-getto. Tuttavia, e a mio parere, in loro permane ancora una traccia di questo paradigma, soprattutto quando Takizawa parla della priorità irreversibile associata all’Emmanuele e Yagi parla del Trascendente come “Signore”. Certo, non possiamo eliminare la rela-zione indiretta (la “terza persona”) dal Campo dell’Integrazione perché, se lo facessimo, il Campo di Integrazione sfocerebbe in una falsa idea di integrazione. Masao Sekine afferma che il Dio dell’Antico Testamento è il Dio panenteistico nel quale il Nulla Asso-luto è identico all’Essere Assoluto e possiede quindi una qualità dell’oggetto, la “terza per-

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sona”. Tuttavia, questa “terza persona” non può in alcun modo essere paragonata a quel Trascendente che si pone di fronte all’uomo con discontinuità e, come Signore, riunisce la comunità dei fedeli. Ciò che unisce la comunità umana è un’idea o una norma, non l’“Ordine di Integrazione”.

La teologia delle religioni

Yasuo Furuya

Un’altra teologia che ha tentato di evadere dalla cosiddetta “cattività barthiana” è la “teologia delle religioni” di Yasuo Furuya (di cui egli tratta ne La teologia delle religioni, 1985). In un periodo di pluralismo come quello attuale, in cui nuovi valori (inclusi quelli religiosi) hanno fatto la loro comparsa, non si possono eludere le domande che le altre religioni (sempre che si accetti il presupposto che esistano altre religioni) pongono al Cri-stianesimo e le risposte che quest’ultimo ha cercato di offrire loro. Furuya, tuttavia, trova sorprendente il fatto che finora nessuno, in Giappone, si sia dedicato a questo ambito.

Una delle ragioni per questa manchevolezza riguarda senz’altro l’influsso esercitato dalla teologia barthiana. Come è risaputo, Barth insisteva sulla differenza qualitativa tra Dio e l’uomo. A suo avviso, si deve tracciare una distinzione tra fede e religione. Occu-parsi di questioni religiose significava per lui diventare nientemeno che degli infedeli, in quanto la religione non è altro che un costrutto umano. In altre parole, Barth era in genere contrario alle religioni in quanto erano il prodotto di un’attività umana, non divina. Ora, il ragionamento di Barth era rivolto soprattutto alla religione cristiana, ma i suoi seguaci giapponesi lo fraintesero assumendo che per “religione” Barth intendesse le “religioni non cristiane”, ritenendo così che il Cristianesimo fosse l’unico depositario della verità. Questa fu la ragione perché i suoi seguaci evitarono di interessarsi delle altre religioni. Inoltre, secondo Furuya, questi stessi seguaci, insistendo come il loro maestro sulla differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, furono tentati di comprendere (o, meglio ancora, di fraintendere) la fede come un qualcosa di totalmente indipendente dalle vicende umane. Ciò permise loro, tra le altre cose, di non confrontarsi con il sistema imperiale che, nel periodo che precedette la seconda guerra mondiale, si era trasformato quasi in una religione. La cosiddetta “cattività barthiana” fu dunque causata anche da queste incomprensioni della dottrina di Barth.

L’espressione “teologia delle religioni” apparve per la prima volta negli anni sessanta. Lo scopo di questa teologia era quella di instaurare un dialogo con le altre religioni (presupponendone quindi l’esistenza) all’interno dello studio delle religioni comparate, salvaguardando, allo stesso tempo, l’unica e assoluta validità della rivelazione divina in Gesù Cristo. Per questo, e usando un’espressione di Toshio Satō, essa era una teologia “dai molti occhi” (La perdita e il ripristino della religione, 1978). Secondo Furuya, questa era la situazione in Giappone durante gli anni settanta, quando la cattività barthiana scomparve

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dalla scena teologica. La teologia di Takizawa, con il suo approccio critico al Buddhismo e al Cristianesimo, e la teologia di Yagi, che ricercava un punto di contatto tra i due sistemi religiosi, possono ritenersi entrambe espressioni della teologia delle religioni (Furuya, La teologia delle religioni, p. 115ss). Il problema della teologia delle religioni è dunque quello del modo in cui riuscire a tutelare la pretesa di assolutezza e di senso del Cristianesimo in mezzo ad altre religioni che rivendicano anch’esse una propria assolutezza. In altre parole, la teologia delle religioni cerca di proseguire l’obiettivo che si era proposto di raggiungere Ernst Troeltsch, ma che aveva poi lasciato incompiuto.

L’intenzione di Furuya è quello di analizzare ed esaminare le altre religioni dal punto di vista teologico, o, nei termini barthiani che egli cita: “Eine theologische Würdigung der Religion und Religionen”. Ciò non significa un ritorno alla “cattività barthiana”, che mini-mizza le altre religioni rispetto a quella cristiana, quanto piuttosto tentare di isolare in esse degli elementi teologici. Questo ben si accorda con il pensiero di H. Richard Niebuhr secondo il quale la fede esclusiva nel monoteismo radicale darà paradossalmente vita a un amore universale che avrà cura non solo di ogni uomo (al di là di ogni distinzione di razza e di classe), ma persino dei propri nemici. Questa teologia è inoltre in totale sintonia con quella di Jürgen Moltmann, laddove afferma che tanto più riflettiamo sulla croce, quanto più limpido diventa il nostro sguardo sulle altre religioni. Usando le parole di Furuya, la teologia delle religioni è una teologia nella quale “l’esclusività della rivela-zione di Cristo non contraddice la sua globalità, e l’unicità di Cristo non contraddice la sua universalità” (La teologia delle religioni, pp. 333–35). In breve, la teologia sviluppata da Furuya è una teologia che cancella, e allo stesso tempo mantiene, la contraddizione tra il Cristianesimo e le altre religioni.

Furuya afferma che la sua opera La teologia delle religioni avrebbe dovuto intitolarsi Un’introduzione alla teologia delle religioni. Tuttavia, se è vero che egli avrebbe dovuto sviluppare maggiormente quella teologia in cui “l’unicità di Cristo non contraddice la sua universalità”, è già degno di nota il fatto che riesca a elaborare una teologia nella quale la contraddizione tra l’esclusività e globalità, tra l’unicità e l’universalità, non dia adito a un conflitto. Sono infatti convinto che l’assunto implicito di questa teologia delle religioni coincida proprio con quello dell’identità assolutamente contraddittoria di Nishida. Di fatto, laddove si intenda tenere assieme due entità assolutamente contraddittorie come quella dell’esclusività e della globalità, oltre che quella dell’unicità e dell’universalità, non si può immaginare alcuna posizione intermedia. Detto altrimenti, Furuya è ben consape-vole che ciò che la teologia delle religioni cerca di elaborare è una teologia che si discosta dai dettami della moderna logica razionalista. Sebbene Furuya non lo affermi esplicita-mente, questa teologia è alla ricerca di un’idea di Dio che non sia soggetta né ai principi dell’epistemologia né a quelli della fede. Il presupposto della teologia delle religioni — che cioè esistano nel mondo altre religioni oltre il Cristianesimo — e il modo con cui essa interpreta il Cristianesimo a partire dalla prospettiva del pluralismo religioso, devono invece condurre il Cristianesimo a riconoscersi come una religione relativa, non assoluta,

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cioè come una religione tra le tante. In questo risiede l’autentico significato del pluralismo religioso. Tuttavia, nessun individuo è disposto ad ammettere che la religione alla quale crede fermamente non sia altro che un fenomeno relativo. Non può esserci fede senza una qualche forma di esclusivismo, eppure l’analisi della propria esclusività è esattamente ciò di cui si occupa la teologia delle religioni. La sua metodologia non può quindi che coincidere con quella dell’identità assolutamente contraddittoria. E, come già sappiamo, il luogo dell’identità assolutamente contraddittoria è il Nulla.

Fin dagli anni settanta in Giappone si è tentato di dar vita a un dialogo tra il Cristia-nesimo e le altre religioni, e questa è una delle caratteristiche dell’atmosfera teologica del nostro Paese. Durante il periodo della “cattività tedesca” il compito che la teologia si era dato era quello della proclamazione e della missione, non quello del dialogo. Di fatto, un teologo che avesse deciso di dedicarsi al dialogo interreligioso, o persino al dialogo con un pensiero filosofico, era spesso e tacitamente considerato come una persona insicura7. In Giappone, inoltre, la Chiesa cattolica si è impegnata nel dialogo interreligioso molto più della Chiesa protestante — anche se nel caso della Chiesa cattolica, si dovrebbe dire “dopo il Vaticano Secondo” invece che “dopo il 1970”. Secondo padre Van Bragt, dell’Università cattolica Nanzan, l’atteggiamento fondamentale della Chiesa cattolica nei riguardi del dialogo è il seguente: “Da una parte dobbiamo trovare, per quanto possibile, un’intesa con l’altro mediante un’auto-negazione (…). Dall’altra, questo consenso è pos-sibile solo attraverso un serio confronto e intermediazione” (Absolute Nothingness and God, 1981, pp. 8–9). Detto altrimenti, per un serio dialogo interreligioso sono importanti sia l’auto-negazione che l’auto-affermazione — due attitudini contraddittorie tra loro. Oltre all’opera appena citata, il Nanzan Institute for Religion and Culture ha pubblicato altri volumi sul dialogo interreligioso che raccolgono gli atti di conferenze a cui hanno partecipato eminenti studiosi delle rispettive religioni. Ne citiamo solo alcuni: Religious Experience and Language: A Dialogue between Buddhism and Christianity (1978); Shinto and Christianity (1984); Esoteric Buddhism and Christianity (1986); Tendai Buddhism and Christianity (1988).

Tuttavia, Masao Takenaka ci avverte che l’interesse della Chiesa per il dialogo inter-religioso deriva forse più dal clima creato dall’odierno pluralismo religioso che da una necessità insita nel messaggio stesso di Gesù. Inoltre, e sempre a suo parere, sin dai tempi della Chiesa primitiva l’incontro del Cristianesimo con le altre religioni e con le culture pagane non è stato un vero dialogo, quanto piuttosto un confronto. I tentativi attuali di dialogare con altre religioni, conclude Takeda, scompariranno col tempo se non si radi-cheranno nel cuore del messaggio di Gesù (Il dialogo delle religioni nell’età moderna, 1979,

7. Esaminare le similarità o i parallelismi tra il Buddhismo e il Cristianesimo a partire da una prospettiva cristiana non è dialogo. A mio parere, Barth non entra in dialogo con il Buddhismo quando scrive che fu una providentielle Fügung [provvidenziale disposizione] di Dio che una religione come il Jodō shinshū (una Scuola buddhista fondata da Shinran) esistesse in Giappone nel xiii secolo.

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p. 6). Takenaka, da ultimo, auspica la possibilità di un dialogo interreligioso a partire da una prospettiva mondiale.

Masatoshi DoiLa ricerca teologica di Masatoshi Doi intende occuparsi del concetto di “significato” in teologia (Teologia del significato, 1963). Secondo Doi, il significato si realizza quando l’uomo associa a un oggetto la propria intenzionalità. Durante il periodo della “cattività barthiana”, i teologi giapponesi ritenevano che l’esistenza oggettiva della rivelazione di Dio fosse indipendente dall’esistenza umana. Scrive Doi, con toni che ricordano la teologia bultmanniana: “L’autoconsapevolezza dell’uomo, la comprensione della propria esistenza, cioè la Rivelazione, ha luogo solo in rapporto alla sua fede. Non c’è rivelazione dove viene a mancare la fede dell’uomo (“Sul significato” in Mahayana Zen Buddhism, n. 769, 1988, p. 7). Questi studi sul concetto di significato all’interno della ricerca teologica condus-sero Doi a interessarsi del dialogo interreligioso e dell’inculturazione del Cristianesimo in Giappone, rendendolo tra l’altro uno dei leader riconosciuti del East-West Religion Project dell’Università di Hawaii. Secondo Doi, l’intenzionalità non può essere isolata dal proprio contesto culturale, che normalmente è un contesto non cristiano. Tuttavia, egli si trova in disaccordo con Tillich quando questi afferma che l’era presente è l’era del dialogo, non quella della proclamazione. Afferma infatti Doi: “Personalmente, non credo di essere così lungimirante” (“Sul metodo teologico”, in Mahayana, p. 26).

Il problema fondamentale che lo studio della teologia delle religioni deve affrontare è quello di saper accogliere la relatività e il pluralismo delle religioni alla luce dell’assolu-tezza del messaggio cristiano. Si deve perciò accettare simultaneamente due atteggiamenti contraddittori: quello della relatività e quello dell’assolutezza del Cristianesimo. La nostra fede presuppone l’assoluta validità del messaggio cristiano. Allo stesso tempo, non si può negare il fatto che al mondo siano presenti molte altre religioni. La mia opinione perso-nale è che non sia possibile individuare una terza posizione nella quale sussumere tutte le religioni, come intendono invece fare gli studiosi di religione americani e europei. Questi tentativi sono in diretto contrasto con i concetti di assolutezza e di esclusività rivendicati da ogni religione. Gli studiosi che assecondano questi sforzi, dimostrano perciò di non comprendere appieno la realtà della religione. Un’autentica teologia delle religioni non può invece evitare la difficoltà di scoprire l’universalità all’interno della specificità.

Il “frammezzo” e la “dualità”

Furuya ha affermato che il suo Teologia delle religioni era in realtà una semplice introdu-zione al tema. Quale sarebbe, dunque, quell’idea fondamentale che si dovrebbe elaborare a partire da quell’introduzione? Secondo il mio parere, quest’idea deve coincidere con la teologia meonotologica, la cui caratteristica risiede nel suo situarsi nel “frammezzo” (betweenness) della contraddizione, cioè nella contraddizione frammezzo l’assolutezza

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del Cristianesimo e la sua relatività. Non so se Furuya approvi questa mia proposta. Tut-tavia, questa teologia meontologica è a mio avviso ciò che Furuya aveva in qualche modo suggerito nella sua introduzione. Takizawa e Yagi avevano invece cercato di individuare una realtà trascendendo quella contraddizione. In altre parole, Takizawa aveva cercato di descrivere l’Emmanuele come l’Urfaktum, mentre Yagi aveva descritto questa realtà come il Trascendente. Esiste tuttavia un altro tipo di teologia che non trascende, quanto piuttosto conserva, il “frammezzo” della contraddizione.

Kazuo MutōLa tematica che sin dalla pubblicazione di Tra teologia e filosofia della religione (1961) è rimasta al centro della filosofia della religione di Kazuo Mutō è quella del “frammezzo” o del “Luogo” tra la fede cristiana e la ragione filosofica. Sebbene sia stato uno dei primi studiosi della Scuola di Kyōto, Mutō si è occupato dello stesso problema, o delle stesse domande, che interessavano la “teologia post-1970”, e le sue riflessioni hanno anticipato i risultati offerti da altri teologi. Le sue opere Una nuova possibilità della filosofia della religione (1974) e Scritti teologici e filosofici, voll. 1-2 (1980–1986) rappresentano un tenta-tivo di svelare il significato del “frammezzo”, di quel luogo in cui si possa far coesistere l’esclusività della fede e l’universalità della filosofia.

Mutō è convinto che il compito della filosofia della religione sia quello di mediare tra la teologia e la filosofia — anche se, proprio perché la fede è per sua natura particolare e la filosofia ricerca l’universale, esse non sono armonizzabili in un insieme unitario. Questa unificazione sarebbe possibile soltanto all’interno dei dogmi teologici o dei concetti filo-sofici, ma una simile unificazione non rientra tra i compiti della filosofia della religione. Queste considerazioni ci aiutano subito a comprendere come la filosofia della religione di Mutō persegua un certo misticismo che di fatto abbandona il pensiero logico. Questa è anche la differenza tra la proposta di Mutō e quella di Takizawa e Yagi, i quali sembrano invece favorire un pensiero completamente logico. La predisposizione al misticismo non riguarda oggi solo la filosofia della religione, anche se esso è stato criticato sia dal pen-siero scientifico moderno sia dalla teologia dialettica. Tuttavia, soprattutto dopo il 1970, si è iniziato a riconoscere i limiti della ragione umana, oltre che le contraddizioni insite nel pensiero scientifico, e pertanto, la ricerca si è indirizzata su ciò che è ausserhalb [oltre] della ragione umana e del pensiero scientifico. Mutō si è avvicinato a questa atmosfera contemporanea analizzando il concetto di “frammezzo” e quello di “Luogo” tra fede e ragione.

Mutō, facendo ricorso alla terminologia di Kierkegaard, chiama questo “frammezzo” Religione A (?). Kierkegaard distingueva tra Religione A, cioè la realtà religiosa univer-sale che può diventare oggetto della filosofia della religione, e Religione B, cioè la fede in quel paradosso che riconosce nell’uomo storico chiamato Gesù il Cristo, il Figlio di Dio. Tutto ciò non riguarda un problema di verità, ma di fede. La Religione A e la Religione B sono in netta opposizione tra loro. Ciò nonostante, Mutō afferma che, in un certo

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qual senso, la Religione B non si dissolve o svanisce all’interno della Religione A, ma, al contrario, si completa in essa (Filosofia della religione, 1955, pp. 135ss). Si deve inoltre aggiungere che la Religione A non ha nulla in comune con l’idea religiosa intesa in senso idealistico. La realtà universale religiosa della Religione A implica che “la soggettività è la verità”, ed è questo concetto che caratterizza lo stadio religioso distinguendolo da quello etico, nel quale la verità coincide con l’oggettività. In altre parole, la verità della Religione A non riguarda l’oggettività, ma la passione, e la verità è un’incertezza oggettiva a cui possiamo avvicinarci solo in maniera appassionata. Questa prospettiva religiosa è perciò universale, perché altri individui, per esempio Socrate, hanno avuto modo di compren-derla alla stessa maniera.

Comunque stiano le cose, il pensiero di Kierkegaard sulla verità soggettiva pre-suppone che la verità stessa venga sostituita da un’altra verità (ciò che invece non può accadere per la verità oggettiva), e che quindi il suo fondamento possa essere negato e superato. Detto altrimenti, la caratteristica propria della Religione A risiede nel fatto che il suo fondamento non può essere ritenuto universalmente valido. Questo fondamento (che cioè la soggettività è la verità) è invece negato a partire da quella sua intrinseca caratteristica e, al contempo, questo fondamento si realizza proprio a partire da quella stessa negazione. Questo è il paradosso che Mutō indica con il termine Religione A (?), o il “frammezzo”. La Religione A (?) è quella realtà religiosa universale che si manifesta in seguito alla negazione dell’universalità della Religione B, e che quindi noi non possiamo conoscere attraverso alcun sistema razionale. In altre parole, la sua universalità risiede nel suo “non-essere”. Se ciascuna religione rimane circoscritta all’interno della propria Reli-gione B, allora non ci potrà essere alcun dialogo tra le religioni. Se, d’altra parte, si intende comparare le religioni a partire dalla Religione A (o anche per mezzo di idee filosofiche o religiose, come sembrano fare con certa regolarità gli studi di religioni comparate), allora questa stessa comparazione si scontra con l’idea dell’assolutezza della religione. Ecco perché, secondo Mutō, la Religione A (?), che consiste nel suo “non-essere”, è del tutto simile all’idea dell’identità assolutamente contraddittoria (Filosofia della religione, p. 20). Essa è quel “Luogo” tra la Religione A e la Religione B, la cui essenza risiede nella sua incompletezza e infinita apertura.

Mutō menziona spesso la teologia barthiana come esempio di Religione B, lasciando intendere con questo che mettersi alla ricerca della Religione A (?) significa distanziarsi dalla “cattività barthiana”. Mutō ha inoltre cercato di spiegare in vari modi il concetto di “frammezzo”. Analizzando il pensiero di Kant, Mutō afferma che per il filosofo tedesco Dio è un postulato della ragion pratica. Tuttavia, se questo postulato è considerato sol-tanto come un supplemento estrinseco mediante il quale completare la morale, allora la religione si trasforma in una specie di appendice dell’etica, rendendo impossibile così ogni autentica relazione tra la morale e la religione. Secondo Mutō, invece, il postulato della ragion pratica possiede un doppio significato. Ovvero, Dio è trascendente per la ragion pura, ma non lo è per la ragion pratica. Se Dio fosse trascendente anche per la

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ragion pratica, egli non potrebbe esserne il postulato. In questo senso Dio è innerhalb der Grenzen der Vernunft [entro i limiti della ragione] e intrinseco alla ragion pratica. A questo riguardo Mutō afferma che l’autentico significato della filosofia della religione kantiana è che “la dualità di ciò che è postulato (cioè Dio) è sia intrinseca sia trascendente al postulato della ragion pratica” (Saggi teologici e filosofici, vol. 2, p. 44). Secondo Mutō die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft [la religione entro i limiti della sola ragione] di Kant è il luogo dove die Religion ausserhalb der Grenzen der Vernunft [la religione oltre i limiti della ragione] diventa visibile. Essa è il luogo del “frammezzo” o della dualità, dell’innerhalb e dell’ausserhalb [dell’entro e dell’oltre] della ragione umana. L’uomo non è perciò in grado né di indicare né di individuare questo luogo in quanto tale. Rifacendosi alla critica kantiana nei confronti della prova cosmologica di Dio inclusa nella Kritik der reinen Vernunft, Mutō afferma che il luogo è “l’abisso” della ragione umana. Noi lo conosciamo solo attraverso la docta ignorantia, cioè mediante quel sapere umano che è consapevole dei propri limiti. Questo luogo è dunque presente ovunque e in ogni tempo all’interno del mondo umano, ed esso non è altro che la Religione A (?).

A questo proposito si deve notare il fatto che uno dei due poli che formano il “fram-mezzo” — cioè il polo che si contrappone alla ragione e alla filosofia — si sottrae a ogni conoscenza umana. Tuttavia, il “frammezzo” è tale (e questo è anche il suo significato) proprio perché include in sé questo polo sconosciuto. Il “frammezzo” non può quindi essere tematizzato e non potrà mai diventare auto-evidente all’intelletto umano. Noi non saremo mai in grado di indicare questo “frammezzo” allo stesso modo con cui, ad esempio, indichiamo una valle “frammezzo” due montagne. Ciò che possiamo indicare in questo modo è un ente, non il “frammezzo”. Diventa quindi evidente come questo “fram-mezzo” possieda delle caratteristiche simili a quelle del Nulla e del misticismo: nella unio mystica, infatti, noi non possiamo separarci da quel polo che, nonostante ci stia sempre di fronte, tuttavia si contrappone a noi.

Mutō stesso ha più volte riconosciuto il profondo influsso che la filosofia di Nishida ha esercitato sul suo pensiero. A suo avviso, il “frammezzo” può essere tradotto in termini nishidiani con il “luogo del Nulla”, cioè con il luogo dell’identità assolutamente contrad-dittoria. Mutō è anche convinto che il ”frammezzo” possieda le stesse caratteristiche del regno di Dio neotestamentario. Nel regno di Dio, infatti, noi siamo allo stesso tempo uniti e posti di fronte a Dio (Saggi teologici e filosofici, vol. 2, p. 6).

In breve, Mutō continua a utilizzare parole “aperte” e “generiche” — “frammezzo”, “Religione A (?)”, “mistero” e “Nulla” — senza per questo voler trascendere tutti questi concetti, come avevano invece tentato di fare Takizawa e Yagi. In questo modo Mutō è libero dalla “cattività barthiana” ed entra di diritto a far parte del gruppo dei pensatori post-1970. Ciò che i termini “frammezzo”, “Luogo del Nulla” e “regno di Dio” intendono significare è il modo d’essere di Dio e dell’Assoluto. Per questa ragione tutti questi termini trascendono le religioni umane e positivistiche, oltre che la distinzione tra religione e filosofia. Il Dio di Mutō è ausserhalb della distinzione tra il pensiero e la religione, tra l’O-

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riente e l’Occidente. In questo senso, ciò che qui si rende necessario è un “Cristianesimo senza religione” — che è un’altra delle caratteristiche della “teologia post-1970”.

Masaya OdagakiSe il filosofo della religione Mutō aveva cercato di descrivere il “frammezzo” come quel Luogo che include in sé la religione e la filosofia, il teologo Masaya Odagaki si è invece interessato della “Dualità” tra fede e ragione, tra fiducia e incredulità. Odagaki fu il primo teologo in Giappone a insistere sul fatto che Dio può essere adeguatamente descritto mediante il concetto di Nulla assoluto (Teologia ermeneutica, 1975). Al pari di Mutō, Oda-gaki non tenta di trascendere il “frammezzo” in quanto è convinto che l’alterità assoluta di Dio supera ogni comprensione umana, e che il “frammezzo” — o la “Dualità” tra essere e non-essere — sia l’unico modo con cui Dio possa preservare la sua natura di totaliter aliter. In questo senso, e da un punto di vista epistemologico, Dio non esiste; Dio, cioè, è Nulla.

Anche Barth e Tillich avevano espresso concetti molto simili, e l’idea che Dio non debba essere considerato come un oggetto del pensiero è presente anche nella teologia della morte di Dio e in quello della teologia della liberazione. Tutte queste prospettive hanno una loro ragion d’essere e sono teologicamente necessarie. Tuttavia, l’idea che Dio sia Nulla è considerata dal Cristianesimo convenzionale come un’idea anti-cristiana. Soprattutto le giovani chiese, come quella giapponese, hanno reagito a questo tipo di ragionamento teologico in maniera a dir poco isterica. Ad esempio, il motivo per cui due delle scuole teologiche del Paese furono chiuse durante le contestazioni universitarie, come abbiamo menzionato in precedenza, risiede nel fatto che la nostra Chiesa tradizio-nale giapponese era al tempo così debole da non riuscire ad opporre alcuna resistenza alla cosiddetta teologia radicale. In ogni caso, il tema centrale della teologia di Odagaki riguarda il non-teismo, il fatto, cioè, che Dio non può essere conosciuto come fosse un oggetto. In altre parole, egli argomenta a favore del panenteismo, e rifiuta quell’ateismo nietzschiano che nega il Dio del teismo.

Odagaki afferma che “Gesù” è diventato “Cristo” grazie a un evento linguistico. Secondo Heidegger, il linguaggio è “annuncio dell’essere”, la manifestazione “chiaroscu-rale dell’essere stesso”. Il linguaggio è Unterschied [differenza] tra l’essere e l’ente. L’essere è nel linguaggio das Anwesen des Anwesenden [la presenza di ciò che è presente], cioè pos-siede un duplice aspetto, e questo essere, se considerato dalla prospettiva dell’ente, è Nulla. Questo Nulla, tuttavia, non è il ni-ente, nel senso della negazione dell’ente, ma il Nulla che permette a un ente (e quindi anche alla negazione di un ente) di essere. In termini nishidiani, esso è il Nulla assoluto. Gesù è la rivelazione di Dio perché le parole di Gesù sono state un evento linguistico e una manifestazione chiaroscurale di Dio. Per questo il modo più appropriato di considerare Dio è quello di ritenerlo un Nulla. Questo doppio modo di essere è, come ho avuto modo ripetutamente di scrivere, il vero modo di essere totaliter aliter dell’assoluto. Per Odagaki, è del tutto inutile indagare il rapporto tra Dio e

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l’essere perché l’evento-linguaggio si occupa di ciò che trascende ogni distinzione e com-parazione umane (Teologia ermeneutica, p. 327). Certo, Odagaki è il primo ad ammettere che gli sarebbe stato impossibile articolare queste sue affermazioni se non avesse subito l’influsso del pensiero di Gerhard Ebeling, Ernst Fuchs e, in particolar modo, di Martin Heidegger. Tuttavia è anche convinto come all’interno del pensiero orientale esista una filosofia del linguaggio che non considera il linguaggio come un semplice strumento per veicolare dei concetti ma, al contrario, come ciò che permette alla realtà di manifestarsi. I kōan del Buddhismo zen, ad esempio, ne sono un’ottima dimostrazione8.

Secondo Odagaki, la dualità degli opposti — essere-ente, Dio-uomo, assoluto-rela-tivo — che Mutō aveva descritto come un “frammezzo”, era stata presa in considerazione anche da Niccolò Cusano, Meister Eckhart e Plotino, oltre che da Laozi e Zhuangzi (A un Dio ignoto, 1980). Poiché i concetti di opposizione e di distinzione sono una creazione dell’attività conoscitiva umana, la distinzione tra pensiero orientale e pensiero occiden-tale non possiede alcun significato all’interno del luogo della dualità — dato che questa trascende ogni distinzione. Da un punto di vista teologico, la fede possiede il duplice aspetto di fiducia e di incredulità. Il simul justus et peccator di Lutero non deve perciò essere inteso solo in senso etico, ma anche in senso epistemologico — come ebbe a dire Tillich. E anche la mistica tedesca afferma che il vero Dio è Gott über Gott [Dio oltre Dio]. Quest’ultima affermazione non indica però, secondo Odagaki, che ci sia un autentico Dio oltre il Dio che viene conosciuto come oggetto, quanto piuttosto che Dio è una dualità di presenza-assenza (Teologia filosofica, 1983).

L’assoluto è dunque una dualità di assoluto-relativo. In questo senso, l’assoluto che si pone di fronte al relativo non può essere considerato un assoluto — dato che, se non ci fosse il relativo, non ci sarebbe neppure alcun rapporto tra l’assoluto e il relativo. Allo stesso modo, Dio può essere inteso come la dualità Dio-uomo. Da ciò si deduce che l’assoluto è costituito da tre elementi (l’assoluto, il relativo e la dualità assoluto-relativo), per cui anche Dio è formato da tre elementi (Dio, l’uomo e la dualità Dio-uomo). In ciò consiste, secondo Odagaki, la dottrina della Trinità, e il concetto di “dualità” corrisponde a quello dello Spirito Santo (Dio nel pensiero contemporaneo, 1988). Non vi è alcun dub-

8. [“Il sistema di istruzione della Scuola Zen Linji (giap., Rinzai) si basa sul cosiddetto kōan che letteralmente, significa ‘accordo pubblico, ufficiale, emanato da una autorità’. È lo strumento con il quale il maestro istruisce il suo discepolo. Si tratta di espressioni che non seguono la logica comune, come, per esempio: “nel rumore provocato da un battito di mani, qual è il rumore di una sola mano?”. Oppure: “come si può bere tutta l’acqua di un lago?”. Dal punto di vista del senso comune, non si può rispondere a domande simili. II novizio però dovrà pensare e ripensare la domanda che gli è stata fatta. Non si tratta di dare una risposta plausibile dal punto di vista logico-razionale, ma di una espressione che, in qualche modo, dimostrerà al maestro che il novizio ha superato la logica comune della vita di tutti i giorni, logica che non potrà mai risolvere il problema ultimo della nostra esistenza. Questo esercizio può durare per tutta la vita del novizio, e può anche finire in un istante”, in G. Filoramo (a cura di), Buddhismo, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 259–260. Ndt].

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bio, quindi, che anche il pensiero teologico di Odagaki sia stato influenzato dalla filosofia di Nishida.

indigenizzazione

La “teologia post-1970” in Giappone, come affermato in precedenza, si è ormai liberata dalla “cattività tedesca” e ha cercato di elaborare un pensiero originale che non si riduca alla semplice analisi e studio della teologia americana o europea. Detto altrimenti, in que-sto periodo si sono finalmente venute a creare in Giappone quelle le condizioni necessarie per dare vita a una significativa indigenizzazione del Cristianesimo. Con molta proba-bilità il processo di indigenizzazione è un problema peculiare del nostro Paese, perché, quando il Cristianesimo vi fu introdotto, il Giappone possedeva già delle religioni e una filosofia altamente sofisticate. Il cristianesimo protestante, al contrario, può vantare solo una storia centenaria. Esaminare la Chiesa e la teologia giapponese applicando i criteri del Cristianesimo europeo, come Ishihara e Kumano hanno fatto, è a mio parere un eser-cizio del tutto inutile.

La teoria dell’indigenizzazione ha subìto una svolta decisiva a partire dal 1970, e Kyodo Takeda è convito di averne isolato ben cinque tipologie: quella sommersa (in cui il rag-giunto compromesso annienta ed elimina uno dei due contraenti); quella dell’isolamento (in cui si viene isolati perché si rifiuta il compromesso); quella della contrapposizione; quella dell’innesto (in cui si assiste a una fusione che però mantiene, sullo sfondo, una certa diversità di posizioni); e quella dell’apostasia (in cui, paradossalmente si procede all’indigenizzazione mediante il ripudio della propria religione). Ora, Takeda, ritiene che queste tipologie siano le uniche possibili quando il Cristianesimo (in quanto religione positiva), cerca di adattarsi a un’altra cultura evitando di rivedere le proprie posizioni o di riformarsi al suo interno. Takeda, dal canto suo, predilige la tipologia dell’innesto, secondo la quale il Cristianesimo deve rapportarsi alla cultura giapponese immergendosi e radicandosi in essa senza per questo rinunciare al suo spirito critico — così come ci viene suggerito dalla parabola del chicco di grano (“Il compito e il metodo per accogliere il Cristianesimo: sul pensiero di Inazo Nitobe” in Il metodo e l’oggetto della storia del pen-siero: il Giappone e l’Europa, a cura di K. C. Takeda, 1961). In ogni caso, e all’interno di tutte queste tipologie, pare che l’elemento fondamentale su cui poi si sono elaborati tutti gli altri approcci sia stato quello del rapporto conflittuale tra il Cristianesimo e le religioni giapponesi.

Tuttavia, anche il pluralismo religioso professato da John Hick, John Cobb Jr. e W. C. Smith pare non sia privo di difficoltà. Innanzitutto perché il pluralismo religioso nega quell’assolutezza che ogni religione rivendica per sé e, così facendo, nega la religione stessa — dato che non esiste una religione che non professi o affermi delle verità assolute e incondizionate. La teologia delle religioni, che si era trovata inevitabilmente a opporsi alla “cattività barthiana”, deve ora opporsi in egual misura al pluralismo religioso. In secondo

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luogo, come può l’uomo arrogarsi il diritto di considerarsi neutrale e di paragonare una religione con un’altra? La fede non ha nulla a che vedere con questi confronti o paragoni e lo studio comparato delle religioni non intacca minimamente la vita religiosa, cioè la fede. Il dialogo tra le religioni, e l’indigenizzazione del Cristianesimo potranno aver luogo solo quando ciascuna religione, mediante un processo dialogico, trasformerà se stessa auto-negandosi. Tuttavia, la trasformazione di quella religione attraverso il dialogo non è affatto incompatibile con l’unicità e originalità che quella stessa religione rivendica per sé. Al contrario, una religione diventa relativa solo quando non vi è in essa alcun cam-biamento — dato che il concetto di immutabilità ha senso solo se presuppone l’esistenza di altre entità, e quindi quella religione si considera come una tra le tante espressioni religiose.

Yōji InoueYōji Inoue è un sacerdote cattolico che ha tentato di inculturare il Cristianesimo in Giap-pone ipotizzando un cambiamento all’interno del Cristianesimo stesso, evitando così gli approcci conflittuali descritti da Takeda. Questo suo tentativo fa parte di ciò che ho chiamato “teoria dell’indigenizzazione post-1970”. Durante gli otto anni passati in Francia nell’Ordine di Nostra Signora del Monte Carmelo, Inoue ebbe modo di accorgersi della profonda differenza tra il Giappone e l’Europa. A suo dire, se il fondamento del pensiero occidentale si fonda sul concetto di “sostanza”, quello giapponese si basa invece su quello di “luogo che include la sostanza”. Per quanto riguarda la natura, poi, mentre quella europea potrebbe essere descritta come una “cultura della pietra” che svilisce la natura, quella giapponese è invece una cultura che ama immergersi “nella natura”. Perciò ogni tentativo di inculturare il Cristianesimo europeo in Giappone senza modificarne l’idea di la sostanza, non può che condurre all’insuccesso. Perché l‘inculturazione sia efficace è necessario che il Cristianesimo si trasformi da religione della “sostanza” a religione del “luogo”. Secondo Inoue, infatti, il Dio cristiano non è un oggetto-sostanza di cui l’uomo possa disporre ponendosi al di fuori di Dio, ma Dio è una realtà molto simile a quella di un luogo. Quando Gesù si rivolse a Dio chiamandolo “Abba”, Dio non era per Gesù una sostanza oggettivabile — anche se certamente era a Lui che Gesù rivolgeva le sue preghiere e le sue invocazioni. Quando un bambino supplica suo padre chiamandolo “Abba” non esiste più una chiara distinzione tra il bambino (il soggetto) e suo padre (l’oggetto): esiste solo la felice esperienza dell’unità nell’amore — o, meglio ancora, del “luogo”. Come scrive Inoue: “Quando Gesù pronunciò la parola Abba e si rivolse a Dio si verificò un’esperienza di unità nell’amore oltre la dicotomia soggetto-oggetto” (Il Giap-pone e il volto di Gesù, 1976). Ciò che qui conta davvero è la realtà, o il luogo, che include sia il soggetto che l’oggetto. Il modo con cui il Cristianesimo (il soggetto) si pone di fronte alla religione giapponese (l’oggetto della religione cristiana) deve quindi essere rivisto, affinché entrambi trovino la loro collocazione e si uniscano all’interno del “luogo” dell’a-more. E questo è ciò che Inoue pare voler suggerire con le sue elaborazioni teologiche.

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In ogni caso, Inoue è convinto che l’indigenizzazione diventerà effettiva solo quando la contrapposizione soggetto-oggetto verrà superata mediante una radicale trasformazione del Cristianesimo.

La semplice analisi degli elementi comuni o simili tra il Cattolicesimo e la religione giapponese non porterà ad alcuna indigenizzazione del Cristianesimo. Dal punto di vista della religione cattolica, questa indigenizzazione prenderà forma solo quando Dio ces-serà di essere considerato un oggetto racchiuso all’interno del Cattolicesimo e diventerà invece un “luogo” che trascende la contrapposizione tra Cristianesimo e non Cristiane-simo, tra essere e non-essere. Nelle parole di Inoue, Dio “trascende quell’ambito in cui la distinzione tra essere e non-essere diventa significativa”, e “Dio non è qualcosa che può diventare un oggetto della nostra consapevolezza”. In altre parole, “Dio è Uno, e si manife-sta come Nulla. In questo senso possiamo dire che Dio è il luogo del Nulla” (Il Giappone e il volto di Gesù, p. 78). È quindi del tutto evidente ritenere che Inoue abbia elaborato un’i-dea meontologica di Dio, la quale, come abbiamo visto, è tipica della “teologia post-1970”.

In breve, Inoue sostiene che dobbiamo ritornare a una religione del “luogo”, così come auspicato da Gesù stesso, rifiutando la religione della “sostanza” che è propria della tradi-zione occidentale del Cristianesimo europeo. Inoue non nasconde le sue simpatie per la teologia della Chiesa orientale, in special modo per quella di Vladimir Lossky, secondo il quale Dio è al di là di ogni contrapposizione e opposizione tra gli individui, e trascende perfino l’antitesi tra essere e non-essere sfociando così in un’idea di Dio che è molto simile a quella del “luogo”. Secondo Inoue, l’indigenizzazione del Cristianesimo in Giap-pone sarà possibile solo quando il Cristianesimo europeo riuscirà a penetrare il livello della “religione del luogo” che soggiace alla “religione della sostanza”. Detto altrimenti, l’indigenizzazione del Cristianesimo in Giappone — il cui pensiero si fonda sul “luogo” e non sulla “sostanza” — potrà prendere forma solo mediante una radicale trasformazione del Cristianesimo occidentale. E questo tipo di trasformazione implica, in un certo qual modo, l’auto-negazione del Cristianesimo tradizionale di matrice occidentale. Una simile auto-negazione non rappresenta, in fondo, uno degli elementi originali che emergono dall’evento della crocifissione di Cristo?

Shūsaku EndōIl novellista cattolico Shūsaku Endō è un altro di quei pensatori convinti che il Cristiane-simo, se si desidera davvero che la sua missione abbia successo, debba necessariamente sottoporsi a un processo di auto-negazione. La sua intuizione di fondo riguardante il Cristianesimo è che l’umanità potrà rendersi consapevole di Dio solo attraverso il Suo assoluto silenzio, e di Cristo solo attraverso la tragica morte di Gesù in croce. Una per-sona che abita nell’ombra può descrivere la luce solo a partire dall’oscurità in cui vive. Tuttavia, l’uomo è inserito in una realtà che non gli permette di distinguere l’ombra dalla luce. In un opuscolo allegato al suo libro Sul Mar Morto (1973), Endō afferma che, se uno scrittore si proponesse di descrivere la santità, questa assumerebbe un significato grotte-

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sco in quanto verrebbe a essere necessariamente distorta dalla comprensione che l’uomo ne ha. In altre parole, l’umanità è incapace di incontrare l’autentico Dio all’interno della religione. Perciò, se esiste davvero per l’uomo una possibilità di cogliere Dio e Cristo, questa non potrà che essere identica al silenzio di Dio e alla morte di Gesù. Di conse-guenza, l’umanità sarà davvero in grado di comprendere Dio, solo quando avrà negato quella religione chiamata Cristianesimo. La prospettiva di Endō pare essere così molto più vicina a quella elaborata dalla theologia crucis che non a quella di matrice cattolica, e l’immagine del Cristianesimo qui proposta non ha nulla a che vedere con quella di una religione circoscritta entro gli schemi interpretativi umani.

Se davvero il Cristianesimo desidera inculturarsi in un Pese non cristiano, è neces-sario che esso trasformi se stesso mediante un’auto-negazione. Una missione che non avverta questa esigenza, diventa inevitabilmente arrogante — non importa quanto umile possa sembrare il suo atteggiamento nei confronti delle religioni locali. La missione non deve aspirare alla conquista di altre religioni, ma deve imparare dalla croce, che è la forma più radicale di auto-negazione. Tuttavia, questa auto-negazione non deve neces-sariamente condurre a un abbandono o a una resa di sé. Il problema vero della teologia della missione, perciò, risiede proprio nella difficile ricerca di un equilibrio tra queste due posizioni antitetiche.

La coscienza storicaDopo il 1970 si è iniziato ad analizzare la storia del Cristianesimo nel Giappone moderno (e quindi la comprensione del Cristianesimo nel Giappone moderno) con occhi nuovi. Questa recente coscienza storica sostiene che sia del tutto inutile interpretare la storia del cristianesimo giapponese utilizzando i criteri del cristianesimo americano ed europeo, e che si debba quindi iniziare a riscrivere la storia del cristianesimo giapponese a partire dalla propria consapevolezza storica. Questa consapevolezza rappresenta perciò un ulte-riore indizio dell’allontanamento dell’odierna teologia giapponese dalla “cattività tedesca”.

L’adozione di questa nuova prospettiva storica si era resa necessaria a partire dal con-flitto ecclesiastico che si è verificato durante gli anni settanta. Akio Dōi, nel poscritto al suo Storia del cristianesimo protestante in Giappone (1980), sostiene che la storiografia ufficiale del cristianesimo giapponese deve necessariamente tener conto di quest’epoca di grandi cambiamenti e sconvolgimenti che caratterizzano il Giappone odierno. Perciò si deve innanzitutto prestare attenzione all’attuale situazione della Chiesa giapponese e al contesto in cui essa vive. In secondo luogo, continua Dōi, “La storia del Cristianesimo dopo il 1970 deve essere raccontata descrivendo il corso degli eventi avvenuti in quest’e-poca di grandi cambiamenti, e ne deve chiarire il significato” (p. 459). Dōi è quindi in disaccordo con la posizione sostenuta da Ishihara, il quale critica la Chiesa giapponese assumendo come criterio di giudizio la storia del Cristianesimo europeo. Dōi scrive invece che “La storia del cristianesimo giapponese deve essere modellata a partire dal proprio contesto”, non importa quanto ancora immatura essa possa sembrare (Saggi sulla

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storia del cristianesimo protestante giapponese, 1987, p. 15). Credo quindi che si possa tran-quillamente affermare che un nuovo tipo di coscienza storica, diversa da quella promossa da Ishihara, sia venuta sviluppandosi in questo Paese.

Una delle tematiche principali che negli ultimi cent’anni ha riguardato la Chiesa giapponese è stata quella del suo rapporto con il sistema imperiale (Arimichi Ebisawa e Saburō Ōuchi, Storia del Cristianesimo in Giappone, 1970, pp. 139, 141). Del cosiddetto “incidente di alto tradimento” di Kanzō Uchimura nei confronti dell’Imperatore, si è già avuto modo di accennare nel primo capitolo, ma esistono anche casi in cui si sono verificati dei comportamenti opposti a quello appena citato. Nel 1942, l’anno seguente alla nascita della Chiesa Unita di Cristo in Giappone, il rappresentante di questa Chiesa, sotto pressione del Governo giapponese, ha visitato e reso omaggio al santuario di Ise (il santuario principale dello Shintoismo) informando la dea ancestrale dell’Imperatore, Amaterasu-ō-mikami, dell’avvenuta fondazione della Chiesa9. È davvero difficile trovare un esempio simile in tutta la storia del Cristianesimo, e non vi è alcun dubbio che sullo sfondo di questo patetico avvenimento si stagli l’ombra della “cattività barthiana” — oltre che quella di una carente interpretazione della teologia di Barth.

Un secondo problema che interessa l‘odierna Chiesa giapponese è quello dello sta-tus giuridico del santuario Yasukuni. Fino al termine della seconda guerra mondiale, Yasukuni era considerato un santuario governativo shintoista dedicato ai caduti di guerra — per molti versi era quindi paragonabile a una tomba del milite ignoto. Dopo la seconda guerra mondiale, e in seguito alla separazione tra religione e Stato, il santuario è stato legalmente riconosciuto come una “istituzione religiosa”. Tuttavia, a partire dal 1969, varie forze politiche hanno iniziato a esercitare una certa pressione affinché il santuario ritornasse sotto il controllo del Governo, violando così il principio della separazione tra religione e Stato, uno dei principi cardini della moderna società civile. Fino a questo momento, però, queste iniziative politiche sono state arginate soprattutto grazie all’oppo-sizione promossa dagli ambienti cristiani e buddhisti (ed. Nanzan University, Shinto and Christianity, 1984; Masahiro Tomura, Il fascismo giapponese e il problema del santuario Yasukuni, 1974).

9. [Amaterasu-ō-mikami (“Grande dea che splende nei cieli”) è il kami (divinità) riverito principalmente al santuario interno dell’Ise jingū e in numerosi altri santuari sparsi in tutto il Giappone. Il suo nome è di solito tradotto con “dea-sole”. Informazioni su Amaterasu e sul fratello Susano-o ci vengono fornite dal Kojiki e dal Nihongi, secondo i quali Amaterasu decide di nascondersi dentro la rocciosa grotta del cielo in risposta all’atteggiamento oltraggioso di Susano-o. Essa uscirà dalla grotta incuriosita dalle risate delle ottocento miriadi di dei (yao-yorozu-no-kami) che osservano divertiti la danza scomposta e sfrenata della dea Ame-no-uzu-me. Rispetto a Susano-o, Amaterasu compare solo di rado nei miti successivi. Essa è comunque venerata a livello popolare come dea-sole o come dea connessa con il sole. Amaterasu è nata dall’occhio sinistro della divinità Izanagi mentre si purificava al ruscello dopo esser ritornato dal regno dei morti. È la nonna di colui che per primo ha unificato il Giappone (Ninigi), e la bisnonna del primo imperatore (Jimmu). Poiché Amaterasu aveva intimato al nipote di regnare sulla terra, i successori di Ninigi giustificavano la loro pretesa di governare il Paese dichiarandosi discendenti di Amaterasu. Amaterasu è dunque l’antenata e la divinità tutelare della dinastia imperiale. Ndt].

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Sempre sullo sfondo delle tematiche relative all’indigenizzazione del Cristianesimo in Giappone, credo che uno degli obiettivi principali quando si affronta il problema del sistema imperiale e dello Shintoismo — religione che è inseparabilmente legata alla figura dell’Imperatore — sia quello di rendere assolutamente chiara la nostra posizione. Ho infatti l’impressione che il cristianesimo giapponese abbia in generale, data la vaghezza delle risposte offerte finora, quasi rinunciato a interessarsi a questo problema. Le ecce-zioni, ovviamente, non mancano. Tuttavia, la libertà di fede all’interno della moderna società civile quasi ci impone di considerare la nostra fede come una realtà relativa (anche se, allo stesso tempo, una realtà assoluta). Come dicevamo in precedenza, questo è un problema che riguarda principalmente la teologia delle religioni. Se non si è convinti della relatività della nostra religione, l’opposizione al semi-religioso sistema imperiale e al problema del santuario Yasukuni si trasformerà in una specie di altalena che rifletterà gli alti e bassi delle rispettive superiorità religiose. Qual è il migliore: il Cristianesimo o lo Shintoismo? Questa domanda non solo è inutile e senza risposta, ma contraddice anche la nostra prospettiva teologica. Una possibile risposta potrà essere data solo a partire dalla trasformazione e auto-negazione del Cristianesimo — e non solo del Cristianesimo, ovviamente, ma anche delle altre religioni, cioè da quella teologia meontologica che caratterizza la “teologia post-1970”.

• •

Al termine di questo capitolo, desidero porre una domanda ai lettori occidentali che hanno sfogliato questo libro. Ho più volte affermato in questo capitolo che il Cristiane-simo tradizionale occidentale deve subire una trasformazione mediante un’auto-nega-zione, diventando così un Cristianesimo meontologico. Mi sono anche chiesto se questo non fosse, in fondo, il significato della theologia crucis. Quali risposte potrebbe fornire la vostra teologia a queste mie considerazioni?

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conclusioni

Yasuo Furuya

È una pura coincidenza il fatto che, terminata la redazione dei quattro capitoli di questo libro, il Giappone sia entrato in un nuovo periodo storico in

seguito alla morte dell’imperatore Shōwa, avvenuta nel gennaio 1989. È poi abbastanza simbolico il fatto che questo testo di teolo-gia, il primo a fare la sua comparsa dopo la morte dell’Imperatore (un testo che, tra l’altro, ha dimostrato in maniera drammatica come il Giappone shintoista continui a rimanere identico a se stesso), fosse un testo di “teologia del Giappone”. Il volume Teo-logia del Giappone curato da Yasuo Furuya e Hideo Ōki, era un invito affinché la teologia ponesse al centro del suo interesse le sorti teologiche del Giappone.

Secondo questi autori, la teologia del Giappone non è una teo-logia giapponese. Il genitivo presente nel titolo è oggettivo, non soggettivo: questo testo interroga il Giappone, in maniera radi-cale e totale, da un punto di vista teologico. La teologia del Giap-pone è una teologia che si interroga sull’essenza del Giappone in quanto tale, ed è probabile che questo tipo di teologia non sia mai stata proposta o tentata nella storia della teologia cristiana.

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Il libro è suddiviso in due parti. La prima parte, scritta da Furuya, è uno studio storico sul rapporto tra il Giappone e il Cristianesimo. La storia mostra chiaramente che il Giap-pone non è stato un problema astratto per il Cristianesimo e che, da parte sua, neppure il Cristianesimo si è rivelato un problema teorico per il Giappone. Il Cristianesimo e il Giappone si sono combattuti in maniera formidabile. Questo è il motivo che ha portato il Giappone a espellere i missionari cattolici romani dal Paese, a bandire il Cristianesimo e, nel xvii secolo, a chiudere il Paese all’Occidente per oltre due secoli. Quando nel xix secolo il Giappone fu costretto a riaprirsi all’Occidente, il Governo dette vita a una nuova corrente religiosa per ostacolare la diffusione del Cristianesimo. Questa nuova corrente fu chiamata “Shintoismo di Stato” e si basava sulla venerazione dell’Imperatore1. Inoltre, durante il periodo isolazionistico il Cristianesimo riuscì a sopravvivere alle persecuzioni solo grazie ai “cristiani nascosti”, la cui fede aveva però adottato elementi buddhisti e shin-toisti. I cristiani rimasero succubi dello Shintoismo di Stato persino durante il periodo di modernizazzione del Giappone e furono forzati a collaborare e a obbedire ai suoi det-tami, non riuscendo così a opporsi al militarismo imperante e al conflitto mondiale. Nel dopoguerra, grazie anche alla nuova Costituzione fondata sulle idee democratiche e sui diritti umani occidentali, il Cristianesimo godette di molta più libertà di prima. Tuttavia, il Cristianesimo è ancora una minoranza quasi insignificante, e rappresenta circa l’1% della popolazione. Come mai?

Furuya pare essere d’accordo con quanto Hendrik Kraemer disse riferendosi al Giap-pone post-bellico, un Giappone che solo in apparenza pareva avesse avviato un periodo di cambiamento:

Dopo l’occupazione, quando il Giappone dovette ricostruire il proprio Paese e imparare la “via democratica” sotto l’influsso degli americani, l’Imperatore rinunciò alla propria “divinità” e lo Shintoismo di Stato fu soppresso. Tuttavia, sarebbe alquanto ingenuo pensare che questa rinuncia pronunciata via radio abbia portato qualche cambiamento nel cuore dei giapponesi circa il posto che l’imperatore occupa all’interno della “via gerarchica” giapponese. Egli continua a rimanere il Capo sacro, inviolabile e indiscusso. (…) È quindi importante, oltre che saggio, ammettere che l’essenza spirituale del Giappone non sia affatto mutata negli anni. (…) Lo Shintoismo continuerà a custodire la vera anima del Giappone (World Cultures and World Religions. The Coming Dialogue, 1960, pp. 225–26).

1. [Il temine “Shintoismo di Stato” può essere utilizzato per indicare l’ideologia che promuove lo Shintoismo come parte integrante dello Stato e come disposizione naturale dell’individuo giapponese (a qualsiasi religione esso appartenga). Di questa ideologia fa parte, ad esempio, il nazionalismo shintoista, un punto di vista che ebbe origine con il movimento kokugaku (studi nazionali) si sviluppò durante il periodo 1868–1945, persiste tutt’oggi nelle ufficiose promozioni statali dello Shintoismo, e che un giorno potrebbe di nuovo tornare in vigore. Ndt].

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Gli avvenimenti accaduti alla morte dell’imperatore nel 1989 non sono che una conferma di quanto Kraemer aveva osservato e predetto trent’anni prima. Tuttavia, prima ancora della morte dell’Imperatore, Furuya aveva affermato che il problema vero del Cristiane-simo in Giappone era il Giappone stesso — la cui essenza spirituale e il cui modo di vivere hanno tutt’ora una matrice shintoista (con l’imperatore posto al loro apice). Questa è la ragione per cui c’è bisogno di una teologia del Giappone. L’anima spirituale del Giappone è così potente che perfino i cristiani giapponesi ne rimangono affascinati, e non c’è quindi da stupirsi se durante il periodo bellico molti cristiani giapponesi appoggiarono la guerra e l’ultranazionalismo. Questi cristiani furono del tutto incapaci di relativizzare la propria idea del Giappone, o di valutare in modo critico il nazionalismo. Ciò di cui i cristiani hanno dunque bisogno, e non solo per loro stessi ma anche per il Giappone e il mondo intero, è l’elaborazione di una prospettiva che trascenda un nazionalismo etnocentrico e ipocrita.

Il compito della teologia in Giappone non è solo quello di vagliare criticamente le vicende del Giappone e del suo nazionalismo, ma di chiarire la missione stessa del Giap-pone in quanto nazione e di aiutarlo a raggiungere gli obiettivi che esso si propone. E, secondo Furuya, la missione del Giappone è proprio quella di essere una “nazione paci-fista”, così come afferma la Costituzione emanata nel dopoguerra. Questa Costituzione è unica nel suo genere e, si potrebbe dire, quasi cristiana nei suoi intenti. Come mai, e perché, il Giappone ha adottato una simile Costituzione nella quale si afferma che il Giappone rinuncerà per sempre alla guerra?

Dopo aver studiato la storia del Giappone e dei suoi rapporti con il Cristianesimo, Furuya è convinto che tutto ciò sia frutto di un fatto provvidenziale. Se il Giappone non fosse stato sconfitto, ora non potrebbe vantare una Costituzione pacifista. Inoltre, per usare un’espressione abbastanza comune, il “battesimo della bomba atomica” ha ucciso il Giappone militarista, dalle cui ceneri è sorta una nuova generazione incline alla pace. La missione del Giappone è quindi quella di essere una nazione pacifista in un mondo costantemente minacciato dalla guerra nucleare. Il compito della Chiesa giapponese, pertanto, non è solo quello di vigilare sulle sorti del Paese, ma anche e soprattutto quello di sentirsi responsabile per il Giappone affinché esso continui a essere fedele alla sua mis-sione. Furuya esorta perciò la Chiesa giapponese a rimanere salda nel proprio mandato, che è quello dell’evangelizzazione del Giappone. Se il Cristianesimo non raggiungerà almeno il 10% della popolazione, allora la Chiesa sarà venuta meno alla sua vocazione di essere “sale della terra” e “luce del mondo”. L’evangelizzazione del Giappone è perciò uno dei compiti che spettano alla teologia del Giappone.

La seconda parte del libro, scritta da Ōki, si incentra invece sulle questioni metodolo-giche concernenti la teologia del Giappone. Ora, proprio perché si tratta di una teo-logia, il suo discorso deve necessariamente fondarsi su Dio e partire da questa prospettiva per poi iniziare a riflettere sul Giappone. Ōki si dimostra però contrario all’idea che la dottrina della creazione sia la più adatta per discutere sul Giappone, cosa questa che

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una certa “teologia tedesca” ha cercato di fare con gli studi di Friedrich Gogarten. Per riflettere sulla situazione giapponese da un punto di vista teologico, Ōki propone invece un metodo chiamato “relativismo teologico”, un criterio che egli deduce dal pensiero profetico veterotestamentario e che è stato ben espresso da Amos (9,7–8)2.

Il relativismo teologico sostiene l’idea che, da un punto di vista storico-mondiale, tutte le razze e le nazioni debbano essere considerate relative nei confronti di Dio. Secondo questo modo di vedere, Dio non può più essere il Dio di una nazione, cioè di Israele, ma le trascende tutte. Il punto di vista di Dio, perciò, nega e sostituisce il punto di vista dell’uomo. In questo senso, il relativismo teologico sostiene un’idea di rivelazione che è molto più inclusiva di quella barthiana. La teologia si trasforma qui in teologia della sto-ria e questo, secondo Ōki, ci permette di accostare la situazione del Giappone e di situarlo come tema teologico non tanto a partire da quella dottrina della creazione (che è elabo-rata in un contesto dogmatico) quanto piuttosto da quella prospettiva che è propria della teologia della storia. La teologia del Giappone è quindi e prima di tutto una radicalizza-zione della teologia che interpreta la situazione giapponese a partire da Dio e, in secondo luogo, essa ritiene di possedere tutti i requisiti necessari per essere definita una teologia storica. Tutto ciò, ovviamente, non ha nulla a che vedere con la teologia barthiana. Ecco perché, conclude Ōki, se davvero si vuole affrontare la situazione giapponese in maniera teologica, la teologia deve adottare una nuova metodologia.

La “teologia del Giappone” è diversa dalla cosiddetta “Teologia Giapponese” — come quella, ad esempio, del dolore di Dio sviluppata da Kitamori. Essa non si interessa solo del Giappone e del contributo che quest’ultimo può offrire alla teologia, ma riguarda in primo luogo i giapponesi stessi e il loro grado di coinvolgimento nel processo di for-mazione teologica. In altre parole, uno dei problemi che la teologia del Giappone deve affrontare è quello della soggettività dei giapponesi. Come ha sottolineato Karl Löwith, “I giapponesi sono tutti dei patrioti” che amano se stessi, convinti di non possedere alcun difetto, ritenendosi perciò immuni da quella continua autocritica che caratterizza gli europei. Questa acuta osservazione di Löwith si applica anche ai cristiani giappo-nesi. Come Furuya afferma nella prima parte del libro, il problema non riguarda solo la situazione giapponese (l’oggetto della teologia del Giappone), ma anche i cristiani giapponesi (cioè il soggetto della teologia del Giappone). Anche questi ultimi, infatti, si sono dimostrati incapaci (sia prima che dopo la guerra) di relativizzare il fenomeno del nazionalismo e di opporsi a quello del patriottismo. Anche in questo caso, nell’affrontare il problema della soggettività, è necessario adottare i princìpi del relativismo teologico.

2. [“Non siete voi per me come gli Etiopi, Istraeliti? Parola del Signore. Non ho io fatto uscire Israele dal paese d’Egitto, i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir?” (Am 9,7). In nota la Bibbia di Gerusalemme spiega questo versetto nel modo seguente: “Gli etiopi: cioè un popolo lontano, all’estremità del mondo (l’attuale Sudan). Israele ha dunque torto di credersi ‘il primo dei popoli’ (…) - Non ho fatto uscire: gli istraeliti non devono inorgoglirsi della loro elezione (cf. Dt 9,6). Essa non è un privilegio, ma una responsabilità (…) e Dio esercita la sua sollecitudine sugli altri popoli (cf. Is 19,22–25)”. Ndt].

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La teologia del Giappone, tra le sue varie tematiche, pare comunque più interessata a quella che si interroga su come creare un ambiente teologico. Quale potrebbe essere il topos, o il luogo, all’interno del quale si potrebbe dar vita a un simile ambiente teologico? Ōki, dopo aver discusso dello “spirito giapponese” di Norinaga Motoori (uno studioso shintoista del xviii secolo) e del concetto di topos di Kitarō Nishida (un filosofo buddhi-sta del xx secolo), conclude affermando:

“La teologia del Giappone” si può formare solo all’interno di un ambiente teologico ottenuto mediante la “conversione”, e solo all’interno di quel topos teologico creato dall’“evento della risurrezione”. Quel “topos” è la “Chiesa”. In questo senso, la “teologia del Giappone” è un’ecclesiologia il cui Sitz è la “Chiesa”. Il soggetto dell’ecclesiologia è, ovviamente, quel “Dio” che si è rivelato in Gesù Cristo. Parlando di questo “Dio” (theo-logia) noi ci assoggettiamo in maniera consapevole al Dio assoluto attraverso il relativismo teologico, e da questa posi-zione intendiamo interpellare il “Giappone” (Teologia del Giappone, pp. 269s).

Nella Prefazione a un recente numero di Theological Studies in Japan (n. 28, 1989), Furuya si appella ai membri della Japan Society of Christian Studies affinché contribuiscano alla formazione di questa teologia in Giappone. A tutt’oggi, però, non pare che questo suo invito sia stato accolto. Non vi è alcun dubbio, tuttavia, che la teologia in Giappone — ora che ha ricevuto un certo riconoscimento e le sue opere inziano a circolare — si dedicherà ben presto a sviluppare il proprio pensiero teologico tralasciando così gli studi incentrati sulla teologia europea e americana.

Un indizio di questo mutamento lo possiamo già individuare nel presente lavoro, cioè sul fatto che questo nostro testo rappresenta il primo libro di storia della teologia giapponese scritto da teologi giapponesi. La storia della teologia giapponese è certamente un argomento fondamentale della teologia del Giappone e, in questo senso, il nostro libro può essere considerato come uno dei primi risultati di questa teologia. Ciò però non significa che in Giappone ci debba essere un’unica formulazione teologica — basti qui solo pensare al fatto che in questo nostro libro abbiamo presentato diverse teologie del Giappone e che ciascun capitolo riflette il personale pensiero teologico dell’autore. Proprio per questo, i lettori di questo libro verranno a contatto non con un’interpreta-zione singola, quanto piuttosto con diverse interpretazioni della storia della teologia in Giappone. D’altra parte, il Cristianesimo in Giappone ha assunto forme sempre diverse, rispecchiando in questo non solo la propria complessità, ma anche la complessità dello stesso Giappone.

È nostra speranza che questa prima storia della teologia giapponese, scritta da teologi giapponesi, possa incuriosire i lettori di altri Paesi, aiutandoli a comprendere maggior-mente il Giappone e il cristianesimo giapponese. Il Giappone, e l’influsso che ora esercita a livello mondiale, non possono più essere sottovalutati. Tuttavia, il rapporto che il Giap-

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pone intrattiene con il mondo e con il Cristianesimo odierni non è privo di problemi. A causa, o anche nonostante, la sua modernizzazione e occidentalizzazione, il Giappone è un Paese in cui i cristiani sono ancora una piccola minoranza della popolazione. Ciò significa che il Cristianesimo rimane a tutt’oggi una religione problematica per il Giappone.

La teologia del Giappone acquista perciò significato e valore non solo per il Cristia-nesimo e la Chiesa giapponese, ma anche per il Cristianesimo e la Chiesa universale. Infatti, quando si dedicano alla teologia del Giappone, i teologi giapponesi devono neces-sariamente dedicarsi anche alla teologia mondiale. La teologia del Giappone, per quanto paradossale possa sembrare, è destinata a diventare una teologia ecumenica, e quanto più i teologi giapponesi si interesseranno alle tematiche riguardanti la teologia del Giappone, tanto più dovranno interessarsi alle tematiche ecumeniche della Chiesa e della teologia.

I teologi giapponesi, finora, non hanno offerto un contributo significativo alla teo-logia cristiana su scala mondiale, e questo non solo a causa delle barriere linguistiche, ma anche a causa della loro particolare posizione teologica. Tuttavia, e come dimostra la storia della teologia giapponese, questi teologi hanno a tal punto studiato e imparato dalla teologia occidentale che ora si sentono pronti a occuparsi sia della teologia del Giappone che di quella mondiale.

Ciò potrebbe offrire una risposta a una domanda che i lettori di questo libro si saranno senz’altro posti. Un nome di teologo giapponese abbastanza familiare nel mondo ecume-nico, ma che non è stato incluso in questo testo, è quello di Kosuke Koyama (1929–2009). Sin dalla pubblicazione del suo Waterbuffalo Theology (1974), Koyama è stato considerato come uno dei teologi giapponesi più rappresentativi. Sfortunatamente, il suo contributo alla teologia del Giappone è stato pressoché nullo. Ciò è forse dovuto al fatto che egli ha studiato per molti anni all’estero, e che i suoi scritti si rivolgono soprattutto ai cristiani non giapponesi. Oppure anche al fatto che fino a poco tempo fa i teologi giapponesi erano poco interessati alla teologia del Giappone. Ora, invece, poiché hanno iniziato a riflettere sulla situazione giapponese da un punto di vista teologico, potrebbero di nuovo interessarsi alla prospettiva di Koyama. Infatti, avendo vissuto all’estero per molti anni, Koyama ha potuto riflettere sulla situazione giapponese dall’esterno, dedicandosi anche a una sorta di teologia del Giappone (senza per questo usare mai questo termine), come ben dimostra la sua opera Mount Fuji and Mount Sinai (1984).

Da ultimo, desideriamo ritornare su due questioni a cui avevamo accennato nell’In-troduzione. La prima chiedeva se fossimo diventati teologicamente adulti così da riuscire a scrivere una storia della teologia giapponese. La seconda chiedeva se esistesse o meno una “teologia giapponese”. Come indicato nell’Introduzione, desideriamo conoscere i pareri e le reazioni dei lettori. Qualunque siano le vostre risposte, nutriamo la speranza di poter intrattenere un dialogo con voi, così da poterci dedicare (almeno per quanto ci riguarda) ai vari compiti che spettano alla Chiesa e alla teologia odierna. O, per lo meno, è nostra speranza che questo volume vi sia stato di aiuto per comprendere la nostra situa-zione teologica e storica, una comprensione che riteniamo necessaria per dar vita a un fruttuoso dialogo.

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Gli autori | 133

Gli autori

Akio Dōi è professore di Storia della Chiesa alla School of Theology, Dōshisha Uni-versity, Kyōto. Ha studiato alla School of Theology, Dōshisha University, e all’Union Theological Seminary di New York. È un ministro ordinato del Kyōdan (Chiesa Unita di Cristo in Giappone).

Yasuo Furuya è cappellano e professore di Teologia e di Religione all’International Christian University di Tōkyō. Ha studiato al Tōkyō Union Theological Seminary; al San Francisco Theological Seminary; all’Università di Tubinga e al Princeton Theolog-ical Seminary (th. d.). È stato inoltre pastore della International Christian University Church.

Masaya Odagaki è professore di Religione al Kunitachi College Music di Tōkyō. Ha studiato alla School of Theology, alla Aoyama Gakuin University di Tōkyō e al Drew University (ph. d.). È un officiante autorizzato del Kyōdan.

Toshio Satō è professore di Teologia sistematica presso il Tōkyō Union Theological Seminary. Ha studiato al Tōkyō Union Theological Seminary, all’Union Theological Seminary di New York e al Hartford Theological Seminary (ph. d.). È stato pastore della Chiesa di Nakamurabashi (Tōkyō) appartenente al Kyōdan.

Seiichi Yagi è professore di Filosofia ed Etica alla Toin University di Yokohama. Ha studiato all’Università di Tōkyō, all’Università di Göttingen e ha ricevuto il d. litt. all’Università del Kyūshū.

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bibliografia

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Akaiwa, Sakae 1964 Kirisutokyō Dasshutsuki (L’esodo dal Cristianesimo).

Arai, Sasagu 1971 Genshi Kirisutokyō to Gunōsisushugi (Il Cristianesimo delle origini e lo gnosticismo). 1974 Iesu to sono Jidai (Gesù e il suo tempo). 1977 Shitogyōden (Commento agli Atti degli Apostoli), vol. 1. 1979 Iesu Kirisuto (Gesù Cristo).

Ariga, Tetsutarō 1934 (con Tadakazu Uoki), Gaisetsu Kirisutokyō Shisōshi (Una sintesi di storia del pensiero

cristiano). 1943 Origenesu Kenkyū (Uno studio su Origene). 1946 Shōchōteki Shingaku (Teologia simbolica). 1969 Kirisutokyō Shisō ni okeru Sonzairon no mondai (Problemi di ontologia nel pensiero

cristiano).

Asano, Junichi 1931 Yogensha no Kenkyū (Uno studio sui Profeti). 1933 Shihen Senshaku (Interpretazione di alcuni Salmi). 1939 Kyūyaku Seisho (La Bibbia dell’Antico Testamento). 1941 Kyūyaku Shingaku no Shomondai (Alcuni problemi di teologia veterotestamentaria). 1955 Isuraeru Yogensha no Kenkyū (Uno studio sui profeti israeliti). 1962 Yobuki no Kenkyū (Uno studio sul Libro di Giobbe). 1968 Yobuki (Il Libro di Giobbe). 1965–1974 Yobuki Chūkai (Commento al Libro di Giobbe), 4 voll. 1972 Shihen (I Salmi). 1980 Mōse (Mosè).

Dōi, Akio 1980 Nihon Purotesutanto Kirisutokyōshi (Storia del cristianesimo protestante in Giappone). 1987 Nihon Purotesutanto Kirisutokyōshi Shiron (Saggi sulla storia del cristianesimo prote-

stante giapponese).

Doi, Masatoshi 1963 Imi no Shingaku (Teologia del significato).

Ebina, Danjō 1903 Kirisutokyō no Hongi (L’essenza del Cristianesimo).

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138 | Storia della Teologia Giapponese

Furuya, Yasuo 1985 Shūkyō no Shingaku (Teologia delle religioni).

Furuya, Yasuo, Hideo Ōki 1989 Nihon no Shingaku (Teologia del Giappone).

Hatano, Seiichi 1908 Kirisutokyō no Kigen (L’origine del Cristianesimo). 1920 Shūkyōtetsugaku no Honshitsu oyobi sono Konponmondai (L’essenza e i problemi fonda-

mentali della filosofia della religione). 1935 Shūkyōtetsugaku (Filosofia della religione). 1940 Shūkyōtetsugaku Joron (Introduzione alla filosofia della religione). 1943 Time and Eternity (orig. in inglese).

Hino, Masumi 1917 Kirisutokyō Kyōrishi (Storia della dottrina cristiana).

Ikeda, Yutaka 1982 Kyūyakuseisho no Sekai (Il mondo dell’Antico Testamento).

Imai, Toshimichi 1911 Kyūyaku Seisho Shingaku (La teologia veterotestamentaria).

Inoue, Yōji 1976 Nihon to Iesu no Kao (Il Giappone e il volto di Gesù).

Ishihara, Ken 1915 Shūkyō Tetsugaku (Filosofia della religione). 1922 Schleiermacher no Shūkyōron (Le Reden über die Religion di Schleiermacher). 1934 Kirisutokyōshi (Storia del Cristianesimo). 1972 Kirisutokyō no Tenkai (Lo sviluppo del Cristianesimo). 1972 Kirisutokyō no Genryū (L’origine del Cristianesimo).

Ishii, Jirō 1948 Schleiermacher Kenkyū (Uno studio su Schleiermacher).

Iwashita, Sōichi 1928 Chūsei Shichō (Correnti del pensiero medievale). 1932 Shin Sukora Tetsugaku (Filosofia neo-scolastica). 1935 Augustinusu ‘Kami no Kuni’ (“La città di Dio” di Agostino).

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bibliografia | 139

1941 Shinkō no Isan (Il deposito della fede). 1942 Chūsei Tetsugakushisōshi Kenkyū (Uno studio sulla storia della filosofia medievale).

Kan, Enkichi 1930 Shūkyōtetsugaku no Kisogainen (I concetti fondamentali della filosofia della religione). 1930 Kirisutokyō no Tenkō to sono Genri (La trasformazione del Cristianesimo e i suoi princìpi). 1934 Gendai no Shūkyōtetsugaku (La moderna filosofia della religione). 1934 Shukyō Fukkō (Rinascita religiosa). 1939 Baruto no Shingaku (La teologia di Barth). 1953 Risei to Keiji (Ragione e rivelazione). 1968 Kāru Baruto Kenkyū (Uno studio su Karl Barth). 1979 Baruto Shingaku no Kenkyū (Uno studio sulla teologia di Barth).

Kashiwai, En 1909 Kirisutokyō Shōshi (Breve storia del Cristianesimo). 1924 Kirisutokyōshi (Storia del Cristianesimo).

Kida, Ken’ichi 1976 Isuraeru Yogensha no Shokumu to Bungaku (Profeti d’Israele: i loro obblighi e i loro

scritti).

Kitamori, Kazō 1946 Kami no Itami no Shingaku (Teologia del dolore di Dio).

Koyama, Kosuke 1974 Waterbuffalo Theology. 1984 Mount Fuji and Mount Sinai.

Kozaki, Hiromichi 1886 Seikyō Shinron (Nuovo saggio su politica e religione). 1891 Nihon Genkon no Kirisutokyō narabini Shōrai no Kirisutokyō (Il presente e il futuro del

Cristianesimo in Giappone). 1892 Jiyū Shingaku (Teologia liberale). 1911 Kirisutokyō no Honshitsu (L’essenza del Cristianesimo).

Kumano, Yoshitaka 1932 Benshōhōteki Shingaku Gairon (Introduzione alla teologia dialettica). 1933 Shūmatsuron to Rekishitetsugaku (Escatologia e filosofia della storia). 1934 Kirisutoron no Konponmondai (Le domande fondamentali della cristologia). 1934 Yohane Shokan no Kenkyū (Uno studio delle lettere giovannee).

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140 | Storia della Teologia Giapponese

1942 Kyōkai to Shinjō (La Chiesa e il credo). 1934 Gendai no Shingaku (Teologia contemporanea). 1941 Shinkō to Genjitsu (Fede e realtà). 1941 Shito Pauro no Shinkō (La fede dell’apostolo Paolo). 1943 Shinyaku Seishoshingaku no Shomondai The Problems of New Testament Theology (Pro-

blemi di teologia neotestamentaria. 1947 Maruchin Rutā (Martin Lutero). 1947 Kirisutokyō Gairon (Sintesi del Cristianesimo). 1949 Kirisutokyō no Honshitsu (L’essenza del Cristianesimo). 1954, 1959, 1965 Kyōgigaku (Dogmatica), 3 voll. 1960 Kirisutokyō Rinri Nyūmon (Introduzione alla morale cristiana). 1968 Nihon Kirisutokyō Shingaku Shisoshi (Storia del pensiero teologico del cristianesimo

giapponese). 1952 Kyōkan Fukuinsho (I vangeli sinottici). 1944 Toreruchi (Troeltsch). 1941 Kirisutokyō no Tokuisei (L’unicità del Cristianesimo).

Kumazawa, Yoshinobu 1962 Burutoman (Bultmann).

Kurosaki, Kōkichi 1929–1950 Chūkai Shinyakuseisho (Commenti al Nuovo Testamento). 1929–1950 Shinyakuseisho Goku Sakuin (Concordanze del Nuovo Testamento). 1950 Kyuyakuseisho Ryakkai Old Testament Short Commentaries (Brevi commenti all’Antico

Testamento), 3 voll.

Kuwada, Hidenobu 1932 Kirisutokyō no Honshitsu (L’essenza del Cristianesimo). 1933 Benshōhōteki Shingaku (Teologia dialettica). 1939 Shingaku no Rikai (Per comprendere la teologia). 1941 Kirisutokyō Shingaku Gairon (Una sintesi della teologia cristiana).

Murata, Tsutomu 1909 Shūkyo Kaikakushi (Storia della Riforma).

Maruyama, Masao 1960 Nihon no Shisō (Il pensiero del Giappone).

Matsuki, Jisaburō 1961 Ningen to Kirisuto (L’uomo e Cristo).

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Mutō, Kazuo 1955 Shūkyōtetsugaku (Filosofia della religione). 1961 Shingaku to Shūkyōtetsugaku no Aida (Tra teologia e filosofia della religione). 1974 Shūkyōtetsugaku no Atarashii Kanosei (Una nuova possibilità della filosofia della reli-

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simo sociale: la religione dell’amore redentivo). 1965 Seisho no Iesu to Gendai no Shii (Il Gesù biblico e il pensiero moderno).

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Noro, Yoshio 1964 Jitsuzonronteki Shingaku (Teologia esistenziale). 1970 Jitsuzonronteki Shingaku to Rinri (Teologia esistenziale e etica). 1975 Wesley no Shōgai to Shingaku (John Wesley: la sua vita e teologia).

Odagaki, Masaya 1975 Kaishakugakuteki Shingaku (Teologia ermeneutica). 1980 Shirarezaru Kami ni (A un Dio ignoto). 1983 Tetsugakuteki Shingaku (Teologia filosofica). 1988 Gendai Shisō no nakano kami (Dio nel pensiero contemporaneo).

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Ōgawa, Keiji 1975 Shutai to Chōetsu (Soggettività e trascendenza).

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Ōtsuka, Setsuji 1935 Kirisutokyō Rinrigaku Josetsu (Prolegomena all’etica cristiana). 1948 Kirisutokyō Ningengaku (Antropologia cristiana). 1971 Kirisutokyō Yōgi (Sintesi del Cristianesimo).

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Satō, Toshio 1964 Kindai no Shingaku (Teologia moderna). 1978 Shūkyo no Sōshitsu to Kaifuku (Perdita e ripristino della religione: la secolarizzazione

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Tagawa, Kenzō 1968 Genshi Kirisutokyōshi no Ichidanmen (Una fase della storia del Cristianesimo delle origini). 1972 Maruko Fukuinsho Chūkaisho (Commento a Marco), vol. 1. 1980 Iesu to yuu Otoko (Un uomo chiamato Gesù).

Takagi, Mizutarō 1911 Kirisutokyō Daijiten (Grande dizionario del Cristianesimo).

Takakura, Tokutarō 1921 Onchō to Shinjitsu (Grazia e fedeltà). 1921 Onchō no Ōkoku (Il regno della grazia). 1925 Onchō to Shōmei (Grazia e chiamata). 1927 Fukuinteki Kirisutokyō (Il Cristianesimo evangelico).

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indice dei nomi

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Abe, Masao 87Adler, F. 60Akagi, Yoshimitsu 64Akaiwa, Sakae 49, 80–3, 96Akizuki, Ryōmin 87, 91Arai, Sasagu 88, 94–8Ariga, Tetsutarō 56, 58–9, 63Asano, Junichi 54Ashida, Keiji 49, 60–1Agostino 41

Baillie, John 60–1Ballagh, James H. 15–6, 44Barth, Karl 5, 7, 45, 48–50, 53, 58, 60–3, 65–6,

71–3, 77, 79–82, 84–7, 92, 101–2, 104–7, 112–15, 117–19, 121, 125, 130

Beecher, Henry W. 15Bennett, John C. 62Berdyaev, Nicholas 62, 94Biedermann, Alois E. 26Böhme, Jakob 94Bonhoeffer, Dietrich 5, 77Bousset, Wilhelm 40Braun, Herbert 108Brown, Samuel R. 16, 44Brown, W. 60Brunner, Emil 32, 48, 50, 52, 60–3, 72, 77Buber, Martin 93Bultmann, Rudolf 72, 77, 82, 88, 91–2, 101–2, 115Bushnell, Horace 15

Caldarola, Carlo 32Calvino 45, 57, 59, 68–9Choisy, E. 68Clark, William S. 17–8Clemente Alessandrino 56Cobb, John, Jr. 121Conzelmann, Hans 95Cox, Harvey 77Cusano Niccolò 103, 120

Deissmann, Adolf 40Denney, James 44Derrida, Jacques 102–3Dewey, John 60Dibelius, D. 97Dilthey, Wilhelm 57, 65

Dobschütz, E. 40Dōi, Akio 124Doi, Masatoshi 115Dostoevski, F. 71Drummond, Richard H. 9

Ebeling, Gerhard 120Ebina, Danjō 11, 13–6, 22–6, 29, 39, 41, 46, 51–2Ebisawa, Arimichi 125Eckhart, Meister 56, 107, 120Endō Shūsaku 123–24

Faulds, Henry 28Forsyth, Peter T. 30, 41, 44–5Fuchs, Ernst 120Fukuda, Masatoshi 49Furuya, Yasuo 72, 112–12, 115–16, 127–31

Garrigou-Lagrange 69Gautama Buddha 87Germany, Charles 4Ginsberg, Allen 103Gogarten, Friedrich 93, 130Green, Thomas Hill 60Gulick, John T. 27Gundert, Wilhelm 89

Hall, T. 60Harada, Nobuo 49Harnack, Adolf von 26, 40, 55, 58, 64Hartmann, Nicolai 65Hashimoto, Kagami 49Hatano, Seiichi 40–4, 55–6, 62, 65–6, 72Heidegger, Martin 6, 85, 102–3, 119–20Heim, Karl 68Hepburn, J. C. 44Herrmann, W. 61, 72Hessel, Egon 49Hick, John, 121Hino, Masumi 42, 56Hisamatsu, Shin’ichi 85–6, 88, 91, 106Holl, Karl 41, 59Holtzmann, H. J. 40Honda, Masaaki 87Hügel, F. von 43, 69Husserl, Edmund 53

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150 | Storia della Teologia Giapponese

Iglehart, Charles W. 10Imai, Toshimichi 40Inoue, Yōji 122–23Ishida, Tomoo 98Ishihara, Ken 4–6, 41, 43–4, 56–9, 121, 124–5Ishii, Jirō 71–2Iwashita, Sōichi 69–70

Janes, Leroy Lansing 13–5Jülicher, Adolf 40Jüngel, Eberhard 58

Kagawa, Toyohiko 45–6Kan, Enkichi 43, 46, 48, 62–3, 66, 72Kanamori, Michitomo 20–3, 51–2Kant, Immanuel 59, 65, 117–18Kasemann, Ernst 88Kashiwai, En 39, 56Kida, Ken’ichi 98Kierkegaard, Soren 49, 88, 116–17Kimura, Yonetaro 46Kitamori, Kazō 63n, 71, 78–80, 82, 84, 93–4, 130Knapp, Arthur M. 20Koeber, Raphael von 40, 56, 69Kohata, Fujiko 98Koyama, Kosuke, 132Kozaki, Hiromichi 11, 14–5, 20–1, 27–31, 39Kraemer, Hendrik 128–29Kuhn, Thomas 102Kumano, Yoshitaka 4, 6, 26, 48, 63–5, 72, 121Kumazawa, Yoshinobu 72, 78Küng, Hans 58, 80Kurosaki, Kōchiki 55n, 66–9Kuwada, Hidenobu 48, 60–5

Ladd, George T. 28Laozi 120Lossky, Vladimir 123Löwith, Karl 5, 130Lutero, Martin 18, 41, 45, 56–7, 59, 69, 120

McGiffert, Arthur Cushman 60Mackintosh, Hugh Ross 43Magliola, Robert 103Maritain, Jacques 70Maruyama, Masao 52Matsuki, Jisaburō 95

Matsunaga, Shin’ichi 95Matsuo, Tasuku 49Matsutani, Yoshinori 49Mayeda, Goro 67, 88, 95Meiji, Imperatore 45Michelson, Carl 3Miki, Kiyoshi 50Miyamoto, Takenosuke 49, 65–6Moltmann, Jürgen 77, 80, 113Mori, Akira 54Morita, Yūzaburō 78Motoori, Norinaga 131Murata, Tsutomu 40Mutō, Kazuo 72, 93, 116–20

Nakagawa, Hideyasu 95Nakajima, Shigeru 46–8, 62Nakamura, Shishio 98Nakazawa, Kōki 98Namiki, Kōichi 98Neesima, Jyo 13, 18Newman, John Henry 70Niebuhr, H. Richard 113Niebuhr, Reinhold 7, 60, 72, 77Nietzsche, Friedrich 70Nishida, Kitarō 50, 85–7, 90n, 91, 100, 103, 104n,

105–6, 110, 113, 118, 121, 131Nishimura, Toshiyaki 98Nishitani, Keiji 91Noro, Yoshio 92–4

Odagaki, Masaya 93, 119–21Odagiri, Nobuo 83–4, 93Ōgawa, Keiji 78Ōki, Hideo 7, 72, 78, 127, 129–31Ōuchi, Saburo 125Okada, Gosaku 48Oman, John 44Origene 58Ōsaka, Motokichiro 64Ōtsuka, Setsuji 42, 59–60Otto, Rudolf 55, 61

Pannenberg, Wolfhart 77Pascal, Blaise 70Pasteur, Louis 52Paterson, W. 43

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indice dei nomi | 151

Péguy, Charles 71Perin, George L. 20Pfleiderer, Otto 20, 40Phillips, James M. 10Piper, Otto 60Platone 6Plotino 120Polanyi, Michael 102Popper, Karl 102Przywara, Erich 70

Reischauer, August 60Rilke, Rainer Maria 71Ritschl, Albrecht 61, 65, 72Rorty, Richard 102

Sakon, Kiyoshi 98Satake, Akira 88, 95Satō, Shigehiko 41, 45, 56, 59Satō, Toshio 72, 78, 112Schleiermacher, Friedrich 43–4, 58, 61, 65, 71–2Schniewind, Julius 98Schubert, Hans von 41, 56–7Seeberg, R. 53, 57nSeelye, Julius 18Sekine, Masao 95, 98–100, 111Shiina, Rinzo 82Shimizu, Yoshiki 49Smith, W. C. 121Snyder, Gary 103Socrate 117 Sölle, D. 80Soyano, Teruo 41, 44Spener, Philipp Jakob 57Spinner, Wilfred 20, 42Stauffer, E. 96Strauss, David F. 26Suzuki, Daisetsu 89, 103Suzuki, Yoshihide 98

Tagawa, Kenzō 88, 94–6Takagi, Mizutaro 40Takakura, Tokutarō 41, 43–5, 48–9, 54, 59–61, 65Takeda, Kiyodo 114, 121–22Takenaka, Masao 114–15Takizawa, Katsumi 49, 84–8, 91–3, 105–8, 111,

113, 116

Teißen, G. 97Thayer, Joseph H. 28Tillich, Paul 62, 66, 77, 92–3, 101–2, 107, 115,

119–20Tominaga, Tokumaro 39Tominomori, Kyoji 42Tommaso 70Tomura, Masahiro 125Trocmé, E. 95Troeltsch, Ernst 4, 40, 43, 58, 61–2, 64–5, 72, 113Tsukamoto, Toraji 37, 55n, 66–9, 99

Uchida, Yoshiaki 98Uchimura, Kanzō 11, 16–8, 31–7, 39, 66–8, 88–9,

125Uemura, Masahisa 11, 15–7, 21–7, 29, 39–44, 48,

54–5, 59, 63–5Uoki, Tadakazu 56–9

Van Bragt, Jan 114

Watanabe, Zenda 42, 53–4, 60Weber, Max 98Weiss, Johannes 40Weizächer, C. 40Welch, A. C. 54Wernle, Paul 40Whitehead, Alfred North 102–3Windelband, Wilhelm 40Winther, Tens 59Wobbermin, Georg 43Wrede, William 29, 40

Yagi, Seiichi 7, 82, 84, 87–92, 95, 106, 108–11, 113, 116, 118

Yamamoto, Kano 49, 71, 77Yamamoto, Seisaku 103Yamashita, Tarō 67Yamaya, Seigo 41, 44, 55Yokoi, Tokio 51–2Yoshimitsu, Yoshihiko 69–71Yoshimura, Yoshio 49

Zahn, Theodor 40Zhuangzi 120

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Asia

n Study Centre

Xaverian Missionaries – Japan

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storia della teologia giapponeseQuesto volume, il primo testo di storia di teologia giapponese scritto da studiosi giapponesi, intende offrire un'interessante panoramica sul percorso che la teologia ha seguito per radicarsi in Giappone, aiutando così coloro che sono attenti alle novità dello Spirito a comprendere che cosa significhi credere nel Vangelo in una cultura asiatica. Il volume testimonia anche del fatto che se fino a poco tempo fa i teologi giapponesi si erano quasi esclusivamente dedicati ad adattare al loro contesto orientale i risultati raggiunti dalle elaborazioni occidentali, recentemente hanno invece iniziato a offrire un nuovo e originale contributo al dibattito teologico. Un'originalità che sembra anticipare alcune delle recenti riflessioni pastorali e missiologiche della Chiesa.

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stor

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ella t

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gia

gia

ppon

ese Asian Study Centre

Yasuo Furuya (1926–2018). Dopo essersi laureato alla Scuola Teologica del Giappone (l’at-tuale Tokyo Union Theological Seminary), ha frequentato il San Francisco Theological Semi-nary, ottenendo nel 1952 il Baccalaureato in Teologia. Nel 1956 ha proseguito gli studi teologici presso l’Università di Tubinga, e nel 1959 ha conseguito il Dottorato in Teologia presso il Princ-eton Theological Seminary (New Jersey) con una tesi su The Absoluteness-claim of Christianity: A Theological Critique. Nello stesso anno è stato nominato docente alla International Christian University di Tokyo diventandone anche il direttore del Centro di Studi Religiosi. Dal 1972 fino al suo ritiro dall’insegnamento accademico (1997) è stato professore di Teologia nella stessa Università. È stato membro del consiglio di amministrazione del United Board for Christian Higher Education in Asia, New York City (1985–1991), membro della Japan Society of America Studies e parte del comitato scientifico del Japan Society Christian Studies.