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Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni (Prima parte) * Paolo Passaglia Indice Introduzione ......................................................................................................................... 2 Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria ............................................... 4 Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale .............................. 19 Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico-liberale .............................. 38 * Testo inedito.

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Storia costituzionale. Appunti dalle lezioni

(Prima parte)*

Paolo Passaglia

Indice

Introduzione.........................................................................................................................2

Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria...............................................4

Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale ..............................19

Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico-liberale ..............................38

* Testo inedito.

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Introduzione

La storia costituzionale italiana, pur nella sua relativa brevità – constatabile soprattutto

allorché la si compari con quella di altri Stati europei, quali, ad esempio, Inghilterra o Fran-

cia – è segnata da una serie di avvenimenti fortemente caratterizzanti, non solo sul piano

istituzionale, ma anche su quello politico, economico e sociale, che suggeriscono la suc-

cessione di fasi diverse, connotate da elementi di più o meno marcata discontinuità.

Alla luce di tale constatazione, appare opportuno tratteggiare una periodizzazione che,

nella misura in cui non venga ad essa attribuito valore euristico, può offrire un utile orien-

tamento preliminare.

Per tradizione consolidata (cui non sembra dato derogare, tanto più in un caso, come il

presente, nel quale la finalità perseguita è esclusivamente quella didattica), le fasi della

storia costituzionale italiana sono così individuate:

1] un primo periodo, denominato «monarchico-liberale», copre i decenni che vanno

dall’unità (salvo quanto si dirà tra breve in ordine allo strutturarsi delle istituzioni) sino

all’avvento del regime fascista;

2] segue il periodo corrispondente alla dittatura fascista, il cui dies a quo è solitamente

indicato nel 28 ottobre 1922 (data della c.d. «marcia su Roma»), sebbene sia preferibile

argomentare nel senso dell’esistenza di una fattispecie a formazione progressiva, che da

quella data prende avvio;

3] la fine dell’esperienza fascista, storicamente datata 25 luglio 1943 (allorché il Gran

Consiglio del Fascismo ebbe «sfiduciato» Mussolini), apre il c.d. «periodo costituzionale

provvisorio» (o «transitorio»);

4] finalmente, l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948, in-

troduce una fase nuova, nella quale stiamo tuttora vivendo.

La quadripartizione appena accennata non esclude – anzi, implica, vista almeno la du-

rata di alcune fasi – la possibilità di individuare sottoperiodi, senza che, tuttavia, essi infici-

no una fondamentale unitarietà delle esperienze dei quattro segmenti temporali indicati: in

quest’ottica, la trattazione che segue – di cui si pubblica la prima parte – cercherà di ri-

marcare l’esistenza di continuità, discontinuità e «micro-discontinuità», suggerite

dall’evoluzione della forma di Stato e della forma di governo. Tali ultime nozioni oriente-

ranno il metodo della ricerca, tesa ad isolare i caratteri essenziali dell’una e dell’altra nelle

singole fasi di cui si compone la storia costituzionale italiana.

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Prima di entrare in medias res, due ulteriori premesse sono peraltro necessarie. In pri-

mo luogo, una particolare attenzione dovrà essere dedicata all’origine dello Stato italiano

ed all’iniziale suo assetto istituzionale, al fine di cogliere i rapporti sussistenti tra il Regno

di Sardegna ed il Regno d’Italia. In secondo luogo, lo studio storico dell’esperienza costi-

tuzionale italiana consiglia di concentrarsi «sul passato», trasferendo l’esame più appro-

fondito della fase attuale all’esame degli istituti di diritto positivo, auspicabilmente condotto

anche in chiave diacronica.

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Prima lezione – Le origini della storia costituzionale unitaria

1. La formazione dello Stato italiano

La penisola italiana, nella prima metà del XIX secolo, era percorsa da un diffuso anelito

all’unificazione dei vari Stati ivi presenti, onde giungere ad una congruenza, personale e

territoriale, tra la Nazione italiana e lo Stato italiano: altrimenti detto, era radicata la volontà

di accomunare gli italiani all’interno di un unico Stato, indipendente dalle potenze straniere

egemoni (e segnatamente da quella austriaca).

Nel pensiero politico, questa volontà si tradusse in prefigurazioni teoriche

dell’unificazione sussumibili in due grandi categorie, l’una comprendente i fautori dell’unità,

l’altra i sostenitori della necessità e/o dell’opportunità di una federazione tra gli Stati esi-

stenti.

A teorizzare la formazione di uno Stato unitario fu, innanzi tutto, Mazzini, auspice di

un’insurrezione democratica al termine della quale raggiungere il duplice obiettivo

dell’unità e della repubblica. Analogamente, ma con un seguito assai esiguo in termini

numerici, il pensiero socialista-rivoluzionario propugnava una rivoluzione che associasse

all’unità un diverso assetto degli equilibri tra le classi (ciò che implicava, tra l’altro, la ne-

cessità di una rivoluzione promossa direttamente dalle masse lavoratrici ed il connesso ri-

fiuto di una insurrezione di stampo mazziniano, condotta da intellettuali e borghesi).

Alle impostazioni insurrezionali si affiancò, ma solo dopo il 1848 (e per le ragioni che

vedremo tra breve), l’idea, che risulterà vincente, di una unità come frutto di un processo

guidato dall’«alto», ispirato dal liberalismo moderato sotto l’egida del Regno di Sardegna.

La difficoltà pratica di ipotizzare la creazione di un unico Stato, testimoniata anche dal

tendenziale fallimento dei tentativi di insurrezione che costellarono l’età della Restaurazio-

ne e che culminarono con gli avvenimenti della Prima guerra di indipendenza (1848-1849),

alimentò approcci teorici diversi, accomunati dall’idea di creare una federazione tra gli Sta-

ti esistenti. In questo ambito teorico si muovevano il federalismo cattolico, il federalismo

laico ed una impostazione che potremmo definire – mutuando il lessico corrente negli studi

di storia dell’integrazione europea – come «funzionalista». Quest’ultima era propria essen-

zialmente dei teorici del libero scambio, che vedevano un primo passo verso l’unificazione

nel superamento di quelle divisioni giuridiche e materiali che si frapponevano tra i diversi

Stati: nella prospettiva di addivenire, in tempi relativamente rapidi, ad una federazione, si

propugnava, quindi, la formazione di un mercato unico delle merci, attraverso

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l’eliminazione dei dazi interni (sull’esempio dell’unione doganale – lo Zollverein – sviluppa-

tasi a partire dal 1818 tra gli Stati tedeschi), ma anche attraverso l’unificazione dei codici di

commercio e del sistema monetario, nonché – al precipuo fine di rendere più agevoli le in-

terazioni tra le comunità – la creazione di una rete ferroviaria unificata. A questa imposta-

zione potevano ascriversi anche i nove congressi degli scienziati italiani tenutisi tra il 1839

(a Pisa) ed il 1847.

Attorno agli anni quaranta dell’Ottocento, si sviluppò un federalismo di impronta cattoli-

ca, veicolato dal c.d. «neoguelfismo», che vedeva la necessità di affermare un cattolicesi-

mo liberale che favorisse l’indipendenza nazionale, anche attraverso riforme interne agli

Stati, tese a rendere possibile una confederazione di Stati posta sotto la guida ideale e,

poi, politica del Papato. Questa fusione di sentimento religioso e sentimento nazionale,

sancita dalla attribuzione al Papa della presidenza della confederazione, che significati-

vamente ribaltava l’ottica di Machiavelli (per il quale era proprio il Papato a costituire

l’ostacolo principale all’unità italiana), poneva in evidenza la circostanza secondo cui, in un

contesto nel quale la penisola era egemonizzata da una potenza straniera fortemente an-

corata alla religione cattolica, la Chiesa sarebbe stata l’unico organismo capace, per auto-

rità morale, di imporsi sull’Austria.

Il massimo esponente del pensiero neoguelfo fu Gioberti, il quale immaginava una si-

nergia tra l’autorità pontificia e la forza politica del Piemonte sabaudo, destinato ad essere

lo Stato guida della confederazione per la sua superiorità (anche militare) rispetto agli altri.

Gli avvenimenti del 1849, con la fine della Repubblica romana, imporranno, tuttavia, allo

stesso Gioberti una rivisitazione di quanto teorizzato nel suo Del primato morale e civile

degli Italiani (1843).

Se per Gioberti la guida spirituale pontificia avrebbe permesso una confederazione an-

che con la perdurante presenza austriaca nella Lombardia e nel Veneto e restando immu-

tati i confini territoriali dei diversi Stati, il presupposto di coloro che propugnavano un fede-

ralismo in chiave laica era proprio l’allontanamento dell’Austria dal territorio italiano. La po-

lemica anti-austriaca era però uno dei pochi elementi di comunanza tra le diverse teorie,

sovente molto divergenti: alla visione sabaudo-centrica della federazione di un liberale

moderato come Cesare Balbo, si opponevano – pur se con minore successo in seno

all’opinione pubblica – il federalismo con forti accentuazioni sociali(ste) di Ferrari e la con-

cezione gradualistica, nell’ottica di una forte autonomia municipale, propria di Cattaneo,

avverso tanto al regime dispotico austriaco quanto a quello – ritenuto culturalmente e poli-

ticamente arretrato – del Piemonte.

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La poliedricità di queste impostazioni (qui solo sommariamente evocata, tacendo di

molte altre posizioni pur autorevolmente espresse) venne ricondotta ad unità dalla azione

del Regno di Sardegna, che, sotto la guida del Re Vittorio Emanuele II e di Camillo Benso

Conte di Cavour, riuscì ad egemonizzare il panorama politico, convogliando lo sforzo per

l’unificazione sotto le insegne sabaude, nella prospettiva di una unità istituzionale di tutta

la penisola, strutturata sui modelli propri del regno subalpino.

La centralità assunta, nel processo di unificazione, dallo Stato sabaudo pone, sul piano

giuridico, il problema fondamentale dei rapporti che sussistono tra questo Stato e quello

che risulterà dopo che la penisola sarà stata unificata. In altri termini, il giurista è chiamato

ad interrogarsi sulla riscontrabilità di una continuità di fondo tra ciò che precede e ciò che

segue la proclamazione del Regno d’Italia ovvero sulla necessità di marcare un discrimen.

A tal riguardo, sono state avanzate fondamentalmente due tesi, l’una detta della fusione

(ANZILLOTTI), l’altra, prevalente, della incorporazione-annessione (SANTI ROMANO). Secon-

do la prima, la progressiva riunione dei territori del Regno di Sardegna con quelli degli altri

Stati (o con province degli altri Stati) presenti nella penisola sarebbe stato il risultato di una

fusione tra ordinamenti giuridici diversi tesa a produrre l’esistenza di un ordinamento giuri-

dico nuovo ed il contestuale dissolversi di quelli preesistenti. Di contro, la tesi della incor-

porazione (di Stati) – annessione (di territori appartenenti ad altri Stati) postula la continui-

tà del Regno di Sardegna, che si sarebbe esteso territorialmente a scapito delle altre enti-

tà giuridiche sino a coprire (quasi) tutta la penisola (con l’eccezione, fino al 1866, della

provincia di Mantova e del Veneto, e, fino al 1870, del Lazio), ciò che avrebbe reso il Re-

gno d’Italia nulla più che la continuazione, con un nome diverso, dello Stato sabaudo.

Onde prendere posizione sul tema, le indicazioni provenienti dai vari procedimenti di u-

nificazione territoriale del biennio 1859-1860, per quanto significative, non appaiono con-

clusive, principalmente per la loro eterogeneità. Di seguito, se ne fornisce, comunque, una

sintesi.

a) La Lombardia (con l’esclusione della provincia di Mantova) venne ceduta dall’Austria

(per il tramite della Francia) con il trattato di Zurigo (10 novembre 1859). Il passaggio delle

province dallo Stato asburgico a quello sabaudo non venne subordinato ad alcuna manife-

stazione di volontà popolare, essendosi – invero, opinabilmente – ritenuto valido nei suoi

risultati il plebiscito svoltosi nel 1848, con il quale, però, la volontà di far parte del Regno

sabaudo era stata manifestata nel quadro della espressa previsione di una assemblea co-

stituente incaricata di stabilire le basi di un nuovo Stato, di cui la dinastia sabauda avrebbe

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avuto la corona.

b) Il Granducato di Toscana venne annesso a seguito di un plebiscito indetto, per l’11

marzo 1860, da un governo provvisorio; il quesito che si poneva si sostanziava nella di-

chiarazione di volontà di unirsi al Regno di Vittorio Emanuele.

c) Del tutto analogo (e pressoché contestuale, essendosi i plebisciti svolti il 12 marzo

1860) fu il procedimento che condusse alla riunione dei territori dei Ducati di Modena e

Parma e delle Legazioni pontificie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna.

d) Il 21 ottobre 1860 si tennero, sotto il governo provvisorio di Giuseppe Garibaldi, i ple-

bisciti nei territori del Regno delle Due Sicilie. Con essi il popolo si pronunciò per «l’Italia

una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti».

Precedentemente, peraltro, lo stesso governo provvisorio, per decreto, aveva dichiarato

l’annessione dei territori al Regno di Sardegna.

e) Finalmente, il 4 novembre 1860, plebisciti il cui quesito era identico a quello redatto

per il Granducato di Toscana e per i territori emiliani vennero tenuti, sotto l’autorità dei

commissari del Regno sabaudo, nelle Marche e nell’Umbria.

Ora, confrontando i diversi procedimenti seguiti, possono rintracciarsi tanto elementi a

favore della tesi della fusione quanto elementi a favore della tesi opposta: a titolo esempli-

ficativo, possono citarsi, nel primo senso, i quesiti dei plebisciti svoltisi in Lombardia e nel

Regno delle Due Sicilie, mentre, nel secondo senso, gli altri quesiti e, in certi casi, anche

l’organizzazione dei plebisciti direttamente da parte di agenti del Regno di Sardegna.

Per sciogliere dunque l’alternativa tra la fusione e l’incorporazione-annessione non pos-

sono non prendersi in esame una pluralità di altri fattori.

In favore della tesi della fusione, e della conseguente soluzione di continuità tra Regno

di Sardegna e Regno d’Italia, milita certamente la constatazione delle profonde differenze

tra i due riscontrabili in ordine a due degli elementi costitutivi dello Stato, quali il popolo ed

il territorio.

Ad una osservazione più compiuta, tuttavia, gli argomenti che fanno propendere per la

tesi dell’incorporazione-annessione, e dunque per la continuità tra Regno di Sardegna e

Regno d’Italia, risultano preponderanti.

Innanzi tutto, la fusione non è astrattamente configurabile per tutti i casi di riunione di

territori, bensì soltanto per quelli che hanno visto una unione tra due entità statuali (Ducati

di Modena e Parma, Granducato di Toscana, Regno delle Due Sicilie), altrove trattandosi

necessariamente di trasferimenti di frazioni di territorio e di popolazione di uno Stato (Au-

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stria, nel caso della Lombardia; Stato pontificio, per le Marche e l’Umbria) ad un altro (Re-

gno sabaudo).

Anche così delimitata la sua valenza, la tesi della fusione si scontra con la circostanza

che i plebisciti furono, in ogni caso, atti non di diritto internazionale ma di diritto interno, ri-

conducibili agli Stati destinati ad estinguersi oppure al Regno di Sardegna, che li aveva in-

detti facendo dipendere dal loro esito la continuazione della situazione di fatto venutasi a

creare con l’occupazione militare da parte dell’esercito sabaudo.

Se i plebisciti furono atti di diritto interno, appare assai problematico far derivare da essi

tutti gli effetti che postula la tesi della fusione: la manifestazione di volontà di una popola-

zione, infatti, avrebbe avuto il triplice effetto di far estinguere lo Stato preesistente (ad e-

sempio, il Granducato di Toscana), di far estinguere il Regno di Sardegna, per come esso

era fino al momento del plebiscito, e di creare uno Stato nuovo, risultante dai primi due. In

buona sostanza, si sarebbe attribuito alla volontà di una popolazione estranea (sino a quel

momento) al Regno di Sardegna il potere di far dissolvere il Regno di Sardegna, ciò che

pare – quanto meno – difficilmente argomentabile. Aggiungasi che, in tal modo, si sarebbe

in presenza di una successione – quasi un tourbillon – di Stati nati e morti nel giro di poco

tempo, nell’intervallo tra un plebiscito e l’altro (giungendosi anche a recensire uno Stato

durato lo spazio di un giorno, tra l’11 ed il 12 marzo 1860, data dei plebisciti toscano ed

emiliani).

Oltre che dai problemi che emergono a seguire la tesi opposta, la tesi della continuità

(come conseguenza della incorporazione-annessione) è poi suffragata da tutta una serie

di ulteriori elementi formali e sostanziali di non trascurabile rilievo.

Per quanto attiene agli elementi formali, viene in evidenza, in primo luogo, la formula-

zione dei reali decreti emanati al fine di dichiarare, prendendo atto dei plebisciti, l’avvenuta

annessione delle province di volta in volta interessate allo Stato sabaudo (da notare è, pe-

raltro, che, nei decreti più recenti, quelli cioè relativi al Mezzogiorno, alle Marche ed

all’Umbria, si faceva espresso riferimento, a testimonianza dell’avvenuta percezione del

successo dell’opera di unificazione, allo «Stato italiano»).

Altro aspetto rilevante per la qualificazione giuridica in termini di continuità è la forma

che ha assunto la proclamazione del Regno d’Italia. La legge 17 marzo 1861, n. 4671, alla

quale si riconduce tradizionalmente la proclamazione ufficiale del «nuovo» Regno, si limi-

tava a prevedere, nel suo articolo unico, che «Vittorio Emanuele II assume[va] per sé e

per i suoi successori il titolo di Re d’Italia»: la continuità con il Regno di Sardegna è qui

dimostrata dalla laconicità di un testo che parrebbe quasi tendere a risolvere l’intero pro-

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cedimento di unificazione nell’attribuzione al sovrano sabaudo di un nuovo titolo.

Puramente formale, ma non per questo da trascurare aprioristicamente, nella misura in

cui si inserisce nel contesto appena descritto, è la decisione che fu assunta di mantenere

inalterata la numerazione ordinale del Re ed anche quella delle legislature, che fece sì che

la prima legislatura del Parlamento post-unitario fosse connotata dal numero ordinale

«VIII», a segnare il continuum rispetto alle sette legislature del Parlamento subalpino (dal

1848).

Relativamente agli aspetti di sostanza che indicano uno stretto legame tra ciò che pre-

cedette e ciò che seguì l’unificazione istituzionale della penisola può sottolinearsi la circo-

stanza che, nei rapporti internazionali, rimasero fermi soltanto i trattati stipulati dal Regno

di Sardegna, cadendo invece quelli stipulati dagli altri Stati.

Ad essere veramente dirimente è, peraltro, la spiccata continuità normativa tra il Regno

subalpino ed il Regno italiano, prodotto di una generale estensione del complesso del dirit-

to positivo piemontese all’intera penisola, simbolizzato dalla estensione a tutta la penisola

della vigenza dello Statuto albertino (su cui, v. infra) e veicolato, altresì, dalla legge 20

marzo 1865, n. 2248, sull’unificazione amministrativa del Regno, comprensiva di sei alle-

gati, concernenti, rispettivamente, la legge comunale e provinciale, quella di pubblica sicu-

rezza, quella sulla sanità pubblica, quella sul Consiglio di Stato, quella sul contenzioso

amministrativo e quella sui lavori pubblici. L’insieme di queste normative (e di altre, prece-

denti e successive), per quanto esse potessero apparire parzialmente nuove, si caratteriz-

zava per il forte legame con il diritto piemontese (non a caso significativamente innovato

nel 1859, nella prospettiva dell’ampliamento della sua sfera territoriale).

Non è dunque casuale che, per argomentare sul piano teorico la tesi

dell’incorporazione-annessione, chi – come MORTATI – ha preso spunto da questa conti-

nuità normativa, ha potuto constatare il mancato mutamento della c.d. «costituzione mate-

riale», testimoniato dal fatto che «l’estensione al resto della penisola del complesso nor-

mativo vigente in Piemonte fu espressione del predominio delle forze accentrate intorno

alla monarchia, che riuscì a frustrare l’aspirazione di quelle élites le quali, sotto la guida

spirituale di Mazzini, tendevano a realizzare un ordinamento del tutto diverso che si ade-

guasse alle nuove esigenze».

2. L’antefatto istituzionale: lo Statuto albertino

La conclusione cui si è giunti in tema di continuità della costituzione materiale tra il Re-

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gno di Sardegna ed il Regno d’Italia rende indefettibile, ogniqualvolta si vadano ad analiz-

zare le istituzioni post-unitarie, un flashback che consenta di tratteggiare la struttura delle

istituzioni subalpine, destinate a divenire le prime dell’Italia unita.

In una indagine siffatta, valido punto di partenza può essere quello della promulgazione

dello Statuto concesso dal Re Carlo Alberto ai regnicoli sardi il 4 marzo 1848, e destinato

a reggere lo Stato italiano almeno per tutto il periodo monarchico-liberale (sulla perdurante

validità dello Statuto in epoca fascista, v. infra).

Per cogliere appieno la natura di questa carta costituzionale, conviene esaminare parti-

tamente il contesto nel quale essa venne redatta e le sue caratteristiche formali.

2.1. Quando l’ondata rivoluzionaria del 1847-1848 scosse l’Europa continentale, il Re-

gno di Sardegna era ben lungi dal potersi considerare come uno Stato politicamente e so-

cialmente avanzato. Il regnante, Carlo Alberto, una volta salito al trono nel 1831, aveva a-

biurato le giovanili simpatie «liberali» (che lo avevano condotto ad appoggiare, durante i

moti del 1821, i militari rivoltosi) in favore della conservazione di istituzioni monarchiche

largamente ispirate al modello assolustico di Ancien régime.

Sul finire del 1847, tuttavia, la penisola italiana veniva percorsa da aliti riformistici (so-

prattutto nello Stato pontificio, dopo l’avvento al soglio di Pio IX, e nel Granducato di To-

scana), riverberatisi, all’interno del Regno di Sardegna, in dimostrazioni e moti di piazza,

che, tra il settembre e l’ottobre, si verificarono a Genova ed a Torino, e che indussero il

monarca sabaudo a licenziare i più reazionari tra i suoi ministri ed a concedere alcune, pur

timide riforme (annunciate il 30 ottobre e consistenti, tra l’altro, nell’abolizione di alcuni tri-

bunali straordinari, nell’introduzione di una limitata libertà di stampa e nel passaggio della

polizia, già incardinata nel Ministero della guerra, al Ministero degli interni).

Con il 1848, e la deflagrazione di una ondata rivoluzionaria che finirà per coinvolgere

l’intero continente, le riforme albertine si appalesarono insufficienti a soddisfare una opi-

nione pubblica profondamente colpita dal proclama del 29 gennaio con il quale il sovrano

di un regno notoriamente arretrato sul piano politico, quale quello delle Due Sicilie, promi-

se la concessione di una Costituzione, poi effettivamente promulgata il 12 febbraio, sulla

base del modello rappresentato dalla costituzione francese del 1830 (la Costituzione c.d.

orleanista).

La decisione del Re di Napoli ebbe vasta eco negli Stati della penisola, tanto che, nel

giro di poche settimane, costituzioni vennero concesse anche nel Granducato di Toscana

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(17 febbraio) e nello Stato pontificio (14 marzo).

È in questo contesto che, su pressione dell’opinione pubblica, il Re di Sardegna si aprì

alle istanze riformatrici. Qualche giorno dopo il proclama del Re di Napoli, Carlo Alberto

convocò (3 febbraio) un «Consiglio di conferenza» (l’organo corrispondente, in larga misu-

ra, a quello che verrà poi denominato Consiglio dei ministri), in cui discutere della conces-

sione di una costituzione.

Quale fosse l’atteggiamento della monarchia e dei ministri e quali fossero le intenzioni

che li animavano è ben rappresentato dalla frase con cui il Ministro dell’interno, Borelli, ar-

gomentò la propria posizione (peraltro condivisa da tutti i colleghi) in merito alla promulga-

zione di una costituzione: «bisogna concederla, non farsela imporre; dettare le condizioni,

non riceverle» [T.d.A.]. In buona sostanza, tutti i ministri di Carlo Alberto, professandosi

ostili, in astratto, ad ogni limitazione dell’autorità regia, si pronunciarono nondimeno a fa-

vore della costituzione, ché essa veniva percepita alla stregua di un «male minore», se

non addirittura come un passo ineluttabile (dirà, ancora, Borelli: «la costituzione è un male

[…]. Ma questo inconveniente sarebbe meno grande dell’altro. È dunque meglio […] adot-

tare un rimedio che sarà forse una sventura, che cadere in un male più grande. […] questo

rimedio è una costituzione» [T.d.A.]).

All’esito della riunione del 3 febbraio conseguì una nuova convocazione del Consiglio di

conferenza, allargato ad una decina di personalità di diverse tendenze, per il 7 febbraio.

La discussione allora svoltasi si concluse con una conferma degli intendimenti già espressi

e con la decisione di emanare un «proclama reale» che, unitamente all’annuncio della

concessione della costituzione, enucleasse quelli che ne sarebbero stati i caratteri fonda-

mentali.

Il giorno seguente, venne pubblicato un proclama con il quale Carlo Alberto dichiarava

di voler concedere «un compiuto sistema di governo rappresentativo», che si fondasse su

una serie di principi contestualmente enunciati in quattordici articoli. Tra i cardini del nuovo

sistema si segnalavano, in particolare: il riconoscimento della religione cattolica come reli-

gione ufficiale dello Stato (gli altri culti essendo «tollerati», conformemente a previsioni le-

gislative); l’irresponsabilità del Re, il quale sarebbe comunque rimasto l’unico titolare del

potere esecutivo; l’attribuzione del potere legislativo al Re ed a due camere, di cui una e-

lettiva e l’altra di nomina regia; l’esercizio della giurisdizione, nel nome del Re, da parte di

giudici inamovibili; la garanzia della libertà personale; la libertà di stampa (salva la previ-

sione di leggi repressive).

Così tracciati gli assi cartesiani del testo costituzionale che doveva essere redatto, il

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Consiglio di conferenza in composizione integrata si riunì nuovamente il 10 febbraio e, do-

po sole cinque sedute, presentò al sovrano uno «Statuto», promulgato il 4 marzo e pubbli-

cato in duplice lingua (in italiano a Torino, in francese – lingua in cui le sedute del Consi-

glio di conferenza si svolsero – a Chambéry, in Savoia).

Le vicende che seguirono, con la radicalizzazione dell’ondata rivoluzionaria, videro le i-

niziali vittorie dei liberali successivamente annichilite dal ritorno delle forze moderate e re-

azionarie, sì che tutte le costituzioni quarantottesche erano, alla fine del 1849, solo un ri-

cordo. Tutte, tranne una: lo Statuto del Regno di Sardegna era, infatti, sopravvissuto alla

disastrosa guerra tra Piemonte ed Austria. Da quel momento, lo stato sabaudo restò

l’unica entità politica italiana nella quale non fosse stato restaurato un regime di stampo

prettamente reazionario; su di esso, dunque, si concentrarono – come si è accennato – le

speranze di molti fautori dell’unificazione.

2.2. Il frangente in cui lo Statuto venne redatto caratterizzò fortemente il testo, per ciò

che attiene sia al suo significato storico-politico originario che ai suoi aspetti formali, oltre

che, ovviamente, ai contenuti in esso trasfusi.

Tralasciando, per il momento, l’analisi dei contenuti, pare di poter dire che il contesto in

cui la carta vide la luce e l’arrière-pensée dei redattori costituiscono una efficace chiave di

lettura per spiegare, quanto meno con buona approssimazione, (a) la denominazione che

alla carta venne data, (b) la scelta dei modelli di riferimento, ma anche (c) il tipo di costitu-

zione che ne risultò.

(a) Alla luce dell’evoluzione del diritto costituzionale posteriore alle rivoluzioni francese

ed americana, il nomen «Statuto fondamentale del Regno» suona anacronistico, se è vero

che le carte fondamentali dei regimi ottocenteschi si definiscono tutte (o quasi) «costitu-

zione».

La diversa denominazione fu scelta essenzialmente per la sua alienità da ogni afflato ri-

voluzionario, generalmente veicolato, nell’età della Restaurazione, dalla «lotta per la costi-

tuzione» che animava la nascente classe borghese italiana ed europea. L’utilizzo di una

sorta di vox media si coniugava dunque assai meglio, rispetto a denominazioni politica-

mente più impegnative, con l’intenzione di tenersi ben distanti da un sovvertimento

dell’esistente (è indubbio, lo si è visto, che si volesse concedere «quanto necessario», ma

pur sempre «il meno possibile»).

L’individuazione in concreto della vox media da utilizzare fu suggerita dalla necessità di

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proporre un nome che avesse comunque una qualche valenza evocativa: in tal senso, lo

«Statuto» appariva particolarmente adatto in ragione del suo richiamare l’esperienza co-

munale del Basso Medioevo, idealizzata ad un tempo come simbolo della lotta contro

l’autocrazia imperiale e come espressione di una età gloriosa per la penisola italiana.

(b) In ordine ai modelli cui il Consiglio di conferenza si rifece nel redigere la carta alber-

tina, è ampiamente attestata la forte influenza che sui redattori dello Statuto esercitarono

le carte costituzionali francesi del 1814 e del 1830. La prima, in particolare, rappresentava

il ritorno ad una monarchia limitata dopo il periodo rivoluzionario, nel quadro di una Re-

staurazione che, da moderata, sarebbe divenuta, ma solo con il tempo (specie con

l’ascesa al trono di Carlo X, nel 1824), apertamente reazionaria. La Costituzione orleani-

sta, nel 1830, rappresentava un aggiornamento – a tratti, una riproposizione – della carta

precedente, modificata essenzialmente nella base di legittimazione (la sovranità popolare

sostituiva la legittimazione dinastica del potere), più che nella struttura delle istituzioni.

Lo Statuto albertino fu modellato, in buona parte, su questi esempi (in taluni casi anche

attraverso una mera traduzione delle disposizioni), rivisitati però in chiave più tradizionale

e conservatrice, come dimostrava, tra l’altro, l’ordine degli argomenti trattati: ad esempio,

le carte del 1814 e del 1830 si aprivano con un breve elenco dei diritti dei francesi (l’art. 1

sanciva il principio di eguaglianza formale), mentre lo Statuto sanciva, all’art. 1, il carattere

confessionale dello Stato, per poi soffermarsi lungamente sulla figura del Re e – ma in

modo più sbrigativo e solo dall’art. 24 – sui diritti degli individui.

La preponderanza dell’influenza delle carte francesi non venne intaccata che molto par-

zialmente dalla Costituzione belga del 1831, ritenuta troppo «avanzata» dai redattori dello

Statuto. Pressoché nessuna eco ebbe, invece, la tradizione costituzionale britannica, solo

sommariamente (ed in modo approssimativo) conosciuta, mentre del tutto ignorata fu la

Costituzione americana.

In definitiva, lo Statuto albertino si poneva in linea di stretta continuità con la Restaura-

zione francese e, paradossalmente, lo faceva proprio negli stessi giorni in cui, con

l’insurrezione parigina del 22 febbraio 1848, la monarchia orleanista crollava e si instaura-

va una repubblica che, dopo un periodo di assestamento, si sarebbe dotata, il 4 novem-

bre, di una costituzione affatto nuova.

(c) Dall’aver seguito un modello che si era appena rivelato «vecchio», e dall’averlo fatto,

oltretutto, limandone alcuni degli aspetti più progressisti, risultò un tipo di legge fondamen-

tale che, per i caratteri suoi propri, si inseriva a pieno titolo nell’alveo delle costituzioni sino

ad allora esistenti. In particolare, lo Statuto albertino, alla stessa stregua della maggior

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parte delle carte del primo Ottocento, poteva definirsi come una costituzione (i) ottriata, (ii)

bilancio, (iii) flessibile e (iv) breve.

i) È stato sin qui evidenziato come lo Statuto fosse stato promulgato su iniziativa del Re

di Sardegna e dei suoi consiglieri, sul presupposto dell’assoluta libertà, sul piano giuridico,

in merito all’an della promulgazione. Il preambolo della Carta era, in tal senso, inequivoca-

bile, là dove Carlo Alberto affermava: «con lealtà di Re e con affetto di padre Noi veniamo

oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai nostri amatissimi Sudditi, col Nostro pro-

clama dell’8 dell’ultimo scorso febbraio […]. […] di Nostra certa scienza, Regia Autorità,

avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e

Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue […]».

Una lettura superficiale di questi passi del preambolo rende palese il carattere ottriato

(da octroyer, «concedere») dello Statuto: era il monarca, sino a quel momento assoluto,

che decideva di concedere la costituzione, utilizzando – per l’ultima volta – la formula tra-

dizionale degli atti sovrani («di Nostra certa scienza, Regia Autorità»). La partecipazione

popolare era del tutto assente dal procedimento di formazione; era ignorata dal preambolo

ogni pressione proveniente dall’esterno del palazzo reale; ogni possibile sollecitazione di-

versa dal moto spontaneo del sovrano, per il fatto stesso di essere taciuta, era confinata al

piano degli antefatti – giuridicamente irrilevanti – di natura politica e sociale.

Ad una analisi più attenta, tuttavia, il preambolo suggerisce l’opportunità di scindere il

piano formale da quello sostanziale. Se, infatti, formalmente la constatazione che si tratti

di una costituzione ottriata è inoppugnabile, sul piano sostanziale non deve essere sotto-

valutato il riferimento all’acquisizione del parere del Consiglio di conferenza né quello al

proclama reale di un mese prima. Entrambi questi elementi richiamavano una sorta di im-

plicito patto tra il sovrano, da un lato, e, dall’altro, la classe dirigente ed il popolo tutto, un

patto «costituzionale» con cui il Re andava incontro alle richieste liberali (incentrate

sull’introduzione di un «governo rappresentativo», non a caso enfatizzata nel proclama

dell’8 febbraio), affinché i beneficiari della concessione rinunciassero alla mobilitazione di

piazza e finanche al sovvertimento dell’ordine costituito (in tal senso, le parole di Borelli ci-

tate in precedenza sono quanto mai significative).

In definitiva, la qualificazione dello Statuto fondamentale del Regno è duplice: formal-

mente ottriata, sostanzialmente pattizia (o, forse meglio, «cripto-pattizia»).

ii) I termini del citato patto costituzionale rendono palese la configurabilità dello Statuto

alla stregua di una costituzione-bilancio, una costituzione, cioè, che non si propone un

programma di innovazione della società e delle istituzioni che si estenda nel futuro, ma

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che, viceversa, tende a fare il punto sulla situazione presente, per come essa si è venuta

configurando, in funzione di una sua conservazione e di una sua razionalizzazione.

La monarchia sabauda, conscia dell’impossibilità di mantenere istituzioni ereditate

dall’Ancien régime, cedette (per quanto fosse indispensabile) alle pressioni liberali, rialli-

neando in tal modo le istituzioni alla società. Il fine dichiarato era, ovviamente, quello di

consolidare lo status quo, lungi restando l’idea di proseguire nel solco appena tracciato.

L’evoluzione, per certi versi profonda, che il sistema conoscerà sarà resa possibile da

una diversa interpretazione dello Statuto propugnata, negli anni a venire, da (buona) parte

del ceto politico; per Carlo Alberto, e per i suoi consiglieri, la costituzione concessa doveva

essere – come si sottolineava nel preambolo – «perpetua ed irrevocabile».

iii) L’origine e le finalità dello Statuto ebbero profonde ripercussioni anche sulla colloca-

zione della carta costituzionale nel sistema.

Per tradizione consolidata, lo Statuto albertino è definito come una costituzione flessibi-

le (anzi, come un esempio tipico di costituzione flessibile), all’uopo potendosi addurre sia

l’assenza di un procedimento di revisione costituzionale, sia – e soprattutto – l’ampio ricor-

so, già nei primi mesi della sua vigenza, a modificazioni tacite e, sia pure in minor misura,

esplicite da parte di fonti legislative ordinarie.

Tra le modificazioni tacite, si segnalano, per solito, la profonda modifica dell’assetto del-

la forma di governo e la perdurante vigenza della carta anche dopo il mutamento della

forma di Stato durante il ventennio fascista (su entrambi i temi, v. infra).

Tra le modificazioni esplicite possono distinguersi quelle che hanno avuto l’effetto di e-

spressamente derogare pro futuro a disposizioni costituzionali da quelle che si sono so-

vrapposte alle medesime disposizioni, giungendo in qualche caso a svuotarle di significa-

to.

Nel primo senso, può citarsi il proclama di Carlo Alberto del 23 marzo 1848 con cui,

meno di tre settimane dopo la promulgazione dello Statuto, si ordinava che le truppe im-

pegnate nella guerra contro l’Austria sostituissero la bandiera dello Stato di cui all’art. 77

con quella tricolore. Qualche giorno più tardi, il regio decreto 11 aprile 1848 imponeva di

issare la nuova bandiera su tutte le navi militari e mercantili.

Tra le sovrapposizioni normative, invece, possono citarsi, per un verso, tutte quelle leg-

gi che, di volta in volta, ampliarono o restrinsero i margini di libertà statutariamente ricono-

sciuti agli individui, e, per l’altro, la successione di leggi che piegarono la natura confes-

sionale dello Stato ai canoni liberali dal Cavour sintetizzati nel motto «libera Chiesa in libe-

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ro Stato».

Gli argomenti, che parrebbero univocamente diretti a suffragare la tesi della flessibilità

dello Statuto, sono stati recentemente contestati da chi (come PACE) ha evidenziato che,

in realtà, lo Statuto era nato come rigido (anzi, iper-rigido) e che flessibile lo era poi diven-

tato.

In favore della tesi della originaria rigidità della carta sarda militerebbero, per un verso,

l’affermazione della sua perpetuità e della sua irrevocabilità e, per l’altro, l’assenza di ogni

previsione in merito al procedimento di revisione costituzionale, dalla quale dovrebbe de-

sumersi, non già la modificabilità con semplice legge ordinaria, bensì la radicale immodifi-

cabilità delle disposizioni statutarie. Ponendosi in quest’ottica, il carattere flessibile dello

Statuto sarebbe il frutto del mutare della situazione socio-politica, tale da provocare un

precoce invecchiamento di un testo che, per parte sua (in ragione di quanto sopra accen-

nato relativamente ai suoi modelli), già era nato un po’ «attempato».

La tesi ora menzionata, condivisibile nell’analisi del procedimento che ha condotto ad

una perdita di autorità dello Statuto sul piano politico, non lo è altrettanto, almeno così pa-

re, nel suo presupposto di partenza. Se l’iper-rigidità corrispondeva certamente alle inten-

zioni del sovrano, essa non era stata tuttavia pienamente tradotta in termini normativi (a tal

riguardo, potrebbe magari impiegarsi la constatazione, da GIANNINI formulata ad altro pro-

posito, secondo cui la carta «non [era] un capolavoro di tecnica giuridica»).

Per quanto attiene alla definizione dello Statuto come «Legge fondamentale perpetua

ed irrevocabile della Monarchia», a prescindere dalla problematica attribuzione di effetti

giuridici ad una affermazione contenuta non nell’articolato ma nel preambolo, può sottoli-

nearsi come la posposizione del genitivo («della Monarchia») all’aggettivazione («perpetua

ed irrevocabile») suggerisse una lettura dell’inciso in chiave non oggettiva, ma soggettiva.

Altrimenti detto, la perpetuità e l’irrevocabilità non erano da riferirsi allo Statuto, quanto

piuttosto all’atto di concessione del sovrano: lo Statuto parrebbe, cioè, essere stato una

concessione che Carlo Alberto avrebbe fatto ai suoi sudditi, una concessione vincolante

per sé e per i suoi successori, una concessione che avrebbe sigillato l’implicito patto costi-

tuzionale con le forze liberali. Nel preambolo, dunque, nulla veniva detto in ordine al pote-

re di queste ultime di modificare lo Statuto; si diceva soltanto che il sovrano assoluto si au-

to-limitava pro futuro, impegnandosi di fronte al popolo a non revocare – formalmente o

per facta concludentia – la carta costituzionale, ciò che invece sarebbe stato fatto, di lì a

poco, da tutti gli altri sovrani della penisola italiana, sull’esempio del Re di Napoli (che già

il 15 maggio 1848 aveva inaugurato la svolta reazionaria).

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Ad analoghi esiti conduce l’assenza di un procedimento aggravato di revisione costitu-

zionale. Lungi dal significare un implicito divieto di ogni revisione (peraltro prontamente

smentito, come detto, dallo stesso Carlo Alberto), tale assenza doveva essere contestua-

lizzata alla luce dello stato della dottrina costituzionalistica ottocentesca, ancora fortemen-

te ancorata – almeno in Europa – al dogma dell’onnipotenza del legislatore, con il che, là

dove un procedimento ad hoc facesse difetto, non poteva che applicarsi la regola generale

che vedeva nella legge un atto idoneo a recare qualunque contenuto, con la conseguenza

di far rifluire il procedimento di revisione costituzionale nell’alveo del procedimento legisla-

tivo ordinario. Prova ne sia il fatto che quei costituenti europei che, in quegli anni, intesero

redigere una costituzione rigida (come quella belga) ebbero cura di esplicitarlo attraverso

la previsione di un procedimento che rendesse la revisione più ardua rispetto

all’approvazione di una qualunque altra legge. Negli altri casi (come, ad esempio, in Fran-

cia), la legge restò sovrana.

In quest’ottica, la definizione dello Statuto albertino come «legge fondamentale», pure

contenuta nel preambolo, doveva essere letta ponendo l’enfasi non sull’aggettivo (onde

argomentare la sua diversità rispetto alle altre leggi), ma sul sostantivo (onde accomunarlo

agli altri atti di rango legislativo). La «fondamentalità», semmai, si tradurrà in una maggiore

autorità (rectius, autorevolezza) meta-giuridica rispetto alle altre leggi, la quale fece sì che,

nel corso dei decenni, lo Statuto venisse sovente invocato per opporsi o per sostenere de-

terminate posizioni e determinate leggi, ma ciò sempre nella dialettica politica e mai (o

quasi: v. infra) nelle sedi propriamente giudiziarie.

Questa ricostruzione, d’altra parte, è quella che, meglio delle altre, sembra coniugare il

carattere della irrevocabilità ex parte principis dello Statuto con la natura «cripto-pattizia»

dello stesso. Sul presupposto della modificabilità da parte del legislatore, infatti, il Re si sa-

rebbe, sì, privato della possibilità di «tornare indietro», ma si sarebbe al contempo salva-

guardato dal vedersi imporre riforme ulteriormente progressiste, se è vero che,

nell’impianto statutario (poi parzialmente superato nella prassi), il potere legislativo doveva

essere esercitato congiuntamente dalle due camere (con l’approvazione delle leggi) e dal

Re (con la sanzione e la promulgazione): il patto costituzionale era dunque garantito

dall’equilibrio tra i due contraenti.

iv) Sul piano strutturale, lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna è da annove-

rarsi tra le costituzioni brevi, tipiche del XIX secolo. Nel caso dello Statuto, in particolare, la

brevità si apprezzava sotto un duplice punto di vista.

Per un verso, l’articolato si concentrava essenzialmente sull’assetto istituzionale, limi-

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tandosi ad un sintetico e lacunoso catalogo di diritti di libertà (collocato nel titolo «Dei diritti

e dei doveri dei cittadini»: articoli 24-32). Il numero di articoli, relativamente ridotto (ottan-

taquattro, di cui tre disposizioni transitorie) era dunque specchio della distanza rispetto alle

costituzioni novecentesche, la cui lunghezza sarà generalmente manifestazione di una più

compiuta enucleazione dell’insieme dei diritti e dei doveri degli individui.

Per altro verso, la brevità poteva essere intesa nel senso che la sintetica formulazione

di molte disposizioni rese le medesime tanto laconiche da fornire nulla più che una cornice

assolutamente minimale all’interno della quale l’attività dei pubblici poteri avrebbe dovuto

svolgersi. In tal senso, ben può dirsi che lo Statuto albertino, sorvolando su taluni aspetti

anche essenziali, si mostrò «lacunoso» e, recando non poche formulazioni generiche, si

mostrò «elastico» nei suoi contenuti. Entrambe queste caratteristiche agevoleranno una

costante opera di interpretazione e di reinterpretazione cui la carta sarà sin da subito sog-

getta.

In parallelo con la sua flessibilità, lo Statuto vide le sue disposizioni, formalmente immu-

tate per decenni, divenire norme sempre più orientate in senso evolutivo. Ciò contribuì in

modo decisivo alla sopravvivenza della carta albertina, sancendone, quanto meno sino

all’avvento del fascismo, la capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze storiche che se-

gnarono i primi decenni dell’Italia post-unitaria. Incapaci di orientare in modo rigido la

prassi costituzionale, le disposizioni redatte nel 1848 la assecondarono, fino al momento

in cui risultarono, di fatto, definitivamente superate.

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Seconda lezione – La forma di Stato nel periodo monarchico-liberale

Per fornire un inquadramento generale della forma di Stato propria del Regno italiano

nei decenni successivi all’unità, possono essere individuati alcuni criteri di riferimento, on-

de analizzare partitamente la natura delle istituzioni e dei rapporti tra queste e la società

civile alla luce delle forme di esercizio della sovranità, delle modalità di tutela dell’interesse

generale nei rapporti economici e sociali, dell’applicazione del principio pluralistico in chia-

ve territoriale e della tutela giuridica apprestata alle situazioni giuridiche soggettive.

In relazione ai quattro criteri appena enucleati, il Regno d’Italia può essere definito, ri-

spettivamente, come uno Stato [A] elitario a tendenza democratico-rappresentativa, [B] li-

berale, [C] unitario e [D] di diritto.

[A] Uno Stato elitario a tendenza democratico-rappresentativa. – La storia del periodo

monarchico-liberale può essere utilmente esaminata in base alla tensione tra la conserva-

zione dei postulati tradizionali della sovranità e l’introduzione di forme più o meno avanza-

te di legittimazione del potere: fu, in effetti, costante il confronto – talvolta ai fini di una

composizione, talaltra ai fini di una contrapposizione – tra la sovranità di matrice dinastica,

traslitteratasi nella egemonia di una ristretta cerchia di impronta oligarchica, e la sovranità

popolare. Questo confronto rimase, nel corso dei decenni, fondamentalmente irrisolto,

sebbene il principio democratico (con la connessa sovranità «dal basso») fosse andato

acquisendo un peso ed uno spazio crescenti.

In ragione di questa considerazione liminare, può dirsi che, per quanto il principio de-

mocratico non sia mai giunto ad una definitiva affermazione sul piano effettuale (da ciò la

possibile definizione di «Stato a-democratico»), esso ha segnato una linea di tendenza

ben rintracciabile, almeno nel lungo periodo (da ciò, forse, la possibilità di aggiungere qua-

le definizione secondaria quella di «Stato tendenzialmente democratico»).

Il riferimento al concetto di «tendenza» appare particolarmente adeguato, nella misura

in cui può essere declinato, ad un tempo, come una «propensione verso» e come un

«mancato raggiungimento» di un obiettivo, e può perciò riassumere sia la dinamica in ba-

se alla quale l’istanza democratica divenne progressivamente preponderante rispetto ad

un impianto istituzionale (e ad un anelito mai sopito) di segno opposto sia l’assenza di una

compiuta affermazione della sovranità popolare come fonte di legittimazione dell’azione

dei pubblici poteri.

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Senza pretesa di completezza, possono qui prendersi in considerazione due processi

connessi, entrambi convergenti nel senso sopra indicato: (1) l’estensione del diritto di suf-

fragio, da un lato, e (2) la rilevante crescita, negli equilibri della forma di governo, degli or-

gani riconducibili alla volontà popolare. L’importanza di questi due processi giustifica, al-

meno così pare, il riferimento, nella definizione proposta, alla rappresentatività: nella pres-

soché totale assenza di strumenti partecipativi e, men che meno, di democrazia diretta (lo

svolgimento dei plebisciti «di annessione», per la loro eccezionalità, non è tale da inficiare

questa affermazione), il principio democratico fu veicolato esclusivamente nella forma del-

la rappresentanza, giocandosi dunque essenzialmente in termini di capacità elettorale e di

incidenza della selezione degli eletti sulla vita delle istituzioni.

1) È stato già ripetutamente sottolineato come lo Statuto albertino fosse nato con la

precipua finalità di conservazione – nei limiti del possibile – degli istituti tradizionali, nel

quadro di un allargamento assai temperato della partecipazione alla cosa pubblica, la qua-

le, da monopolio della Corona e dell’aristocrazia, veniva ad aprirsi anche alle classi diri-

genti borghesi, sostituendo in tal modo uno Stato assoluto di Ancien régime con uno Stato

a matrice (fortemente) elitaria. A questa prima apertura ne sarebbero seguite altre, in pa-

rallelo con i mutamenti indotti, dapprima, dall’estensione territoriale del Regno di Sardegna

(che comportò la necessità di integrare le élites dei territori via via entrati a far parte dello

Stato) e, poi, dalla ridefinizione degli assetti sociali che – a partire dalla fine del XIX secolo

– fece emergere come soggetti politici autonomi – da integrare nelle istituzioni per garanti-

re ad esse la sopravvivenza – le classi operaia e contadina, secondo modalità tali da as-

sociare queste ultime a politiche comunque guidate dall’alto.

Una tale dinamica trova una significativa testimonianza nell’estensione del diritto di elet-

torato attivo e passivo per la Camera dei deputati (una estensione analoga, sebbene ope-

rata in tempi diversi, si ebbe anche per gli organi elettivi di comuni e province). Sul punto,

lo Statuto albertino si mostrava quanto mai «elastico», all’art. 39 prevedendo che «la Ca-

mera Elettiva [era] composta di Deputati scelti dai Collegi Elettorali conformemente alla

Legge», e rinviando così integralmente a fonti successive l’intera materia elettorale.

Astrattamente, qualunque soluzione poteva essere adottata: anche quelle sperimentate

dai governi rivoluzionari del 1848, i quali, a Milano come a Venezia, in Toscana come a

Roma, avevano introdotto il suffragio universale maschile. La soluzione fu seguita, nel ca-

so del Regno di Sardegna e, poi, del Regno d’Italia, soltanto in occasione dei plebisciti che

scandirono il processo di unificazione della penisola: ciò, evidentemente, al fine di meglio

esplicitare il sostegno popolare a questo processo. Per le elezioni politiche, però, il suffra-

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gio universale venne escluso ab initio – e per lungo tempo – in conseguenza di una diffi-

denza, assai diffusa nel notabilato, nei confronti delle masse, derivante dal pregiudizio in

ordine alla corruttibilità del «povero» e dell’«ignorante», ma anche dal timore di veder

messo a repentaglio l’ordine costituito, sia creando uno Stato che superasse, in chiave

progressista, la visione della classe dirigente, sia affidando le istituzioni alla preponderan-

za numerica di una massa ritenuta (sia nella componente maschile che, ed in maggior mi-

sura, in quella femminile) troppo facilmente strumentalizzabile ad opera delle forze clerico-

reazionarie in funzione anti-risorgimentale.

La scelta del sistema censitario venne sancita con il regio decreto 17 marzo 1848, n.

680, il quale delineò una composizione del corpo elettorale che restò giuridicamente quasi

inalterata anche dopo l’avvenuta unificazione. I diritti politici venivano riconosciuti ai ma-

schi che avessero compiuto i venticinque anni, che fossero alfabetizzati e che fossero as-

soggettati ad una imposta diretta annua pari alla ragguardevole cifra di quaranta lire. La

somma era dimezzata per tutta una serie di categorie, individuate su base territoriale (gli

abitanti della Liguria, di Nizza e della Savoia), culturale (i laureati) o professionale (i notai,

gli avvocati, i direttori di stabilimenti industriali di medio-grandi dimensioni, i capitani marit-

timi, determinati impiegati civili a riposo, etc.). Il censo era escluso dai requisiti legittimanti

l’esercizio dei diritti politici per alcune altre categorie, in gran parte riconducibili alle élites

culturali (i membri di alcune accademie, i docenti di scuole regie e di università), militari (gli

ufficiali di rango superiore) o professionali (i membri delle Camere di commercio).

Una volta raggiunta l’unità, la legge 17 dicembre 1860, n. 4513, estese a tutto il territo-

rio nazionale le previsioni contenute nel decreto del 1848 (emendato nel 1859, ma solo su

aspetti di dettaglio), con il risultato che la già esigua percentuale di elettori rispetto alla po-

polazione si assottigliò ulteriormente (in ragione della maggiore arretratezza economica di

alcune parti della penisola rispetto al Piemonte), attestandosi attorno al 2%.

Negli anni settanta, la Sinistra, ancora all’opposizione, pose con forza la questione

dell’allargamento del suffragio, proponendo di agire su due dei tre requisiti fondamentali,

vale a dire abbassando l’età minima da venticinque a ventuno anni (corrispondente alla

maggiore età civile) ed eliminando drasticamente il requisito censuale.

Giunta al governo nel 1876, la Sinistra impiegò però sei anni per approvare una riforma

elettorale che corrispondesse, sia pure solo parzialmente, ai propri intendimenti iniziali. La

legge 22 gennaio 1882, n. 593, abbassò, in effetti, il limite anagrafico per l’elettorato attivo

a ventuno anni; il requisito censuale, tuttavia, venne eliminato solo per coloro che sapes-

sero «leggere e scrivere» (l’alfabetizzazione divenendo, in tal modo, un requisito alternati-

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vo a quello censuale) e per alcune categorie ulteriori rispetto a quelle per le quali già era

escluso, mentre, per la generalità degli individui, venne soltanto dimezzato (l’imposta an-

nua da corrispondere venne fissata a poco meno di venti lire). Con questa riforma (c.d.

Zanardelli, dal nome del proponente), la consistenza del corpo elettorale risultava triplica-

ta; l’allargamento non era comunque tale da poter evocare, neppure da lontano, il suffra-

gio universale (maschile), se è vero che gli aventi diritto al voto si aggirarono, dal 1882 in

poi, attorno al 7% del totale della popolazione.

La crescita di una classe operaia ed il ruolo politico assunto dai partiti espressione dei

ceti subalterni rese improrogabile la necessità di dare una adeguata rappresentanza a

questi nuovi soggetti. Fu il quarto Governo Giolitti a far approvare la legge 30 giugno 1912,

n. 665, con cui agli aventi diritto ai termini della legge del 1882 si aggiunsero tutti coloro

che – anche analfabeti ed anche privi dei requisiti censuali – avessero già prestato servi-

zio militare e tutti coloro che avessero superato il trentesimo anno di età (prescindendo da

ulteriori condizioni). Da allargato, il suffragio divenne quasi universale (pur se ancora uni-

camente maschile), andando a coprire quasi un quarto dell’intera popolazione.

Il testo unico 2 settembre 1919, n. 1495, sancì la definitiva affermazione del diritto di vo-

to a tutti i maschi maggiorenni, allargando così ulteriormente le basi di legittimazione delle

istituzioni (per il suffragio femminile si dovrà, tuttavia, attendere sino alle elezioni ammini-

strative del 1945).

All’estensione del diritto di elettorato attivo non corrisposero evoluzioni di particolare ri-

lievo relativamente al diritto di elettorato passivo. L’art. 40 dello Statuto albertino stabiliva

che «nessun Deputato [poteva] essere ammesso alla Camera se non [era] suddito del Re,

non [aveva] compiuta l’età di trent’anni, non gode[va] i diritti civili e politici, e non riuni[va]

in sé gli altri requisiti voluti dalla legge». Oltre all’abbassamento della soglia anagrafica a

venticinque anni, l’innovazione più importante, quanto meno sul piano politico, si ebbe con

la citata legge n. 665 del 1912, la quale, insieme con l’estensione dell’elettorato attivo, in-

trodusse una indennità a titolo di rimborso spese (e la franchigia ferroviaria) a beneficio

degli eletti, garantendo in tal modo, attraverso un aggiramento sul piano formale

dell’espresso divieto di corrispondere una retribuzione ai parlamentari (art. 50 dello Statu-

to), l’ingresso in Parlamento anche a deputati che non fossero benestanti.

2) Parallelamente all’estensione dei diritti politici, le istituzioni andarono strutturandosi

secondo moduli tali da attribuire un ruolo vieppiù influente a quegli organi che, per il loro

essere elettivi, si ponevano come interpreti della volontà popolare: la Camera dei deputati,

ovviamente, ma anche, in qualche misura, il Governo, che traeva (recte, poteva trarre) la

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propria legittimazione dal sostegno della maggioranza dei deputati.

Rinviando a quanto verrà più diffusamente argomentato in relazione alla forma di go-

verno, ciò che in questa sede rileva è come, se per lo Statuto albertino pochi dubbi pote-

vano nutrirsi in merito alla titolarità formale della sovranità in capo al monarca, già con al-

cuni atti (e, più ancora, con la prassi instauratasi) la teoria legittimista (e trascendente) ab-

bia subito contaminazioni non trascurabili, non solo ad opera dell’idea elitaria della riserva

di esercizio del pubblico potere a beneficio della sanior pars (in tal senso, valga quanto

detto con riguardo alle resistenze opposte all’estensione del suffragio), ma anche – e più

incisivamente, sul piano teorico – ad opera del principio della sovranità popolare (o, se-

condo la definizione allora corrente, della «sovranità della Nazione»).

Di tutte le manifestazioni di questa contaminazione, può assurgere a paradigma quella

contenuta nell’articolo unico della legge 21 aprile 1861, n. 1, che stabilì la formula con cui

dovevano essere intestati tutti gli atti in nome del Re d’Italia, prevedendo che al nome del

Re seguisse la definizione seguente: «per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re

d’Italia».

Il contemporaneo riferimento a due diversi titoli di legittimazione del sovrano, che sino a

quel momento si era sempre basata sulla trascendenza (l’intestazione dello Statuto del

1848 così recitava: «Carlo Alberto, per la Grazia di Dio Re di Sardegna, di Cipro e di Ge-

rusalemme, […]»), dimostra che una qualche attenzione al volere dei sudditi venne tributa-

ta sin dall’inizio del Regno d’Italia. Un’attenzione che, nel 1861, non era altro che formale,

ma che, in seguito, acquisì tutt’altro rilievo, man mano che la posizione del Re si faceva

più defilata nel quadro istituzionale, lasciando il campo alla preminenza del circuito Gover-

no – camera elettiva.

L’elasticità dello Statuto non fece ostacolo ad una sua lettura in chiave progressiva, alla

stregua cioè di un diaframma verso il passato ma non verso il futuro: con obiettivi e con

toni anche molto diversi, da Cavour a Zanardelli, da Giolitti a Turati, numerosi furono gli

statisti che lessero le disposizioni costituzionali come aperte ad una evoluzione in senso

liberale (i primi tre) o anche democratico (il quarto e, forse, anche in parte il terzo), rigido

essendo soltanto l’impedimento a tornare ad una struttura istituzionale di Ancien régime.

Non mancarono, è vero, interpretazioni conservatrici, che tesero a propugnare una rigo-

rosa attinenza alla lettera delle disposizioni, magari anche attraverso un «ritorno allo Sta-

tuto» che avesse ragione delle interpretazioni «devianti» sedimentatesi (emblematico è

l’articolo di Sonnino, datato 1897, dal titolo Torniamo allo Statuto). E le interpretazioni con-

servatrici e finanche reazionarie ebbero anche momenti di successo (si pensi all’età cri-

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spina o alla c.d. «crisi di fine secolo»). Ad una visione generale del periodo, tuttavia, non

può sfuggire una tendenziale progressiva accentuazione delle tesi di segno opposto.

[B] Uno Stato liberale. – La definizione della forma di Stato del Regno d’Italia nei de-

cenni successivi all’unità appare pressoché scontata, allorquando si ponga mente alla de-

nominazione di «fase monarchico-liberale» che del periodo è propria per convenzione dot-

trinale.

Ad una osservazione più approfondita, tuttavia, la natura di Stato liberale del Regno non

manca di creare qualche difficoltà, e rende comunque necessaria qualche precisazione,

concernente principalmente l’accezione nella quale l’aggettivo «liberale» venga impiegata.

Se, infatti, esso fa riferimento alla filosofia cui si rifacevano le élites politiche, poche sono

le obiezioni che all’impiego del termine possono opporsi, se non forse quella – ai presenti

fini, di scarso rilievo – di una non costante coincidenza fra la teoria e la prassi. Meno paci-

fica è l’attribuzione al liberalismo di una accezione prettamente giuridica: ciò, innanzi tutto,

per (1) il non compiuto recepimento di questa ideologia nell’articolato statutario, ma anche

per (2) il forte dinamismo che ha caratterizzato la storia costituzionale e che ha visto un

prevalere tendenziale delle idee liberali rispetto ad altre (senza però che queste ultime ve-

nissero – specie in taluni momenti – neglette), nonché per (3) il problematico rapportarsi

dello Stato italiano alla Chiesa cattolica ed al fenomeno religioso in generale.

1) Lo Statuto albertino presentava un catalogo di diritti e di doveri che segnava, in linea

generale, un indubbio avvicinamento ai postulati dello Stato liberale. Vi si riconoscevano,

infatti, i principali diritti civili (la garanzia della libertà individuale, art. 26; l’inviolabilità del

domicilio, art. 27; la libertà di stampa, art. 28; l’inviolabilità della proprietà, art. 29; la legali-

tà dei tributi, art. 30; la garanzia del debito pubblico, art. 31; il diritto di riunione, art. 32), ol-

tre ai diritti politici basilari (il diritto di voto, art. 39; il diritto di elettorato passivo, art. 40; il

diritto di petizione, art. 58). Si sanciva il principio di eguaglianza formale (art. 24) e, paral-

lelamente, il principio di proporzionalità delle imposte (art. 25). Tra i doveri costituzionali, al

fianco della soggezione alla tassazione, si poneva l’obbligo di leva, la cui disciplina era pe-

raltro integralmente rimessa alla legge (art. 75).

Nell’elenco appena fornito spicca l’assenza di alcuni tipici diritti di libertà, come, ad e-

sempio, la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto di associazione (quest’ultimo

in ossequio, presumibilmente, alla diffidenza, tipicamente liberale, nei confronti dei «corpi

intermedi» tra il cittadino e lo Stato). Al di là di queste lacune, peraltro generalmente col-

mabili, e colmate, in via interpretativa (entrambi i diritti indicati vennero ritenuti implicita-

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mente garantiti, rispettivamente, dall’art. 28, concernente la libertà di stampa, e dall’art. 32,

sulla libertà di riunione), da evidenziare era l’assenza di ogni riferimento a diritti sociali, a

dimostrazione della rigorosa aderenza ai paradigmi politico-costituzionali dell’Ottocento.

Anche in ordine ai diritti riconosciuti, tuttavia, deve riconoscersi come le affermazioni

statutarie presentassero un alto grado di laconicità, associata a generici rinvii alla discipli-

na legislativa e, talora, alla previsione di limiti potenzialmente assai estesi. Con ciò si ri-

proponeva la tematica dell’elasticità propria delle disposizioni statutarie, giustificando ex

ante il dinamismo che, in tema di diritti, sarà proprio di tutto il periodo monarchico. Così,

ad esempio, il principio di eguaglianza era costruito in modo tale da legittimare il legislato-

re a porre le più ampie deroghe («tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono

ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi»: art. 24,

secondo comma), come testimoniava, solo per citare un caso, la condizione femminile.

Del pari, l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio rischiava di essere vanificata

dai limiti che la legge era abilitata a prescrivere (articoli 26, secondo comma, e 27). Anco-

ra, la libertà di riunione era riconosciuta solo per le adunanze «pacifiche e senz’armi» (art.

32, primo comma) ed era radicalmente esclusa per «le adunanze in luoghi pubblici od a-

perti al pubblico, i quali riman[evano] intieramente soggetti alle leggi di polizia» (art. 32,

secondo comma).

2) Sulla scorta di previsioni costituzionali di tal fatta, non mancarono provvedimenti legi-

slativi (od anche, contra statutum, amministrativi) volti a limitare considerevolmente il rag-

gio di operatività dei diritti riconosciuti. Ciò si verificò soprattutto durante i periodi «ecce-

zionali», nei quali vennero sovente attribuiti al Governo i c.d. «pieni poteri» (v. infra) al fine

di fronteggiare crisi interne (dal brigantaggio ad ondate di protesta popolare) o guerre.

Considerando che, almeno fino al 1870, il Regno di Sardegna e, poi, d’Italia dovette af-

frontare le guerre di indipendenza, e, negli intervalli tra l’una e l’altra, varie crisi internazio-

nali (si pensi alla guerra di Crimea, ma soprattutto agli attriti con la Francia di Napoleone

III derivanti dalle spedizioni garibaldine contro lo Stato pontificio), si ha la misura del mar-

gine di compressione che i diritti individuali potessero subire su tutto il territorio nazionale

o su una parte di esso. Analogamente, forti limitazioni saranno imposte, più tardi, dalla

partecipazione alla Prima guerra mondiale.

A periodi segnati da una certa vena «progressista» si sono dunque alternati periodi di

ripiegamento, tali da revocare in dubbio le acquisizioni raggiunte; in taluni casi, nel volgere

di qualche tempo, si assistette all’approvazione di provvedimenti di significato politico op-

posto: ad esempio, ad una conquista di civiltà come il codice penale Zanardelli (1889), che

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eliminò dall’ordinamento la pena di morte, fece seguito un testo unico delle leggi di pubbli-

ca sicurezza fortemente repressivo della libertà di stampa e di quella di riunione.

Senza diffondersi su questi aspetti, onde dimostrare la caducità delle conquiste liberali

può essere sufficiente porre mente alla dinamica legislativa della seconda metà degli anni

novanta dell’Ottocento: dalla repressione dei Fasci siciliani, ordinata dal Governo Crispi ed

agevolata dalla proclamazione dello stato di assedio, fino alla «crisi di fine secolo», in cui

le repressioni ordinate dal Governo di Rudinì, prima (a Milano, nel maggio 1898, le truppe

comandate dal generale Bava Beccaris fecero ottanta morti e più di quattrocento feriti tra i

manifestanti), e dal Governo Pelloux, poi. Sul piano parlamentare, di particolare rilievo fu-

rono i disegni di legge che il Governo di Rudinì presentò contemporaneamente alla re-

pressione dei moti di piazza: in essi si prevedevano, tra l’altro, lo scioglimento di associa-

zioni ed il divieto di ricostituire associazioni disciolte, la militarizzazione dei ferrovieri e dei

postelegrafonici, la possibilità di censurare preventivamente i giornali e di sospenderne la

pubblicazione sino a sei mesi. Di fronte all’opposizione della Camera dei deputati, il Go-

verno non riuscì a far approvare questi provvedimenti, rassegnando pertanto le dimissioni.

Il successivo Governo Pelloux, ripresentò – modificati in senso maggiormente repressivo –

i medesimi disegni di legge; all’ostruzionismo opposto, per la prima volta nel Parlamento

italiano, dai banchi della Sinistra e dell’Estrema (sinistra), il Governo reagì trasfondendo il

contenuto di parte dei disegni di legge nel regio decreto 22 giugno 1899, n. 227. La batta-

glia parlamentare si concentrò allora sulla conversione di questi decreti, che non venne da

Pelloux ottenuta neppure attraverso la modifica del regolamento della Camera dei deputa-

ti. La crisi che ne derivò portò, nel giugno 1900, a nuove elezioni, dalle quali la compagine

governativa uscì sconfitta.

Le elezioni chiusero simbolicamente la «crisi di fine secolo», aprendo una fase affatto

diversa, corrispondente alla c.d. «età giolittiana», in cui, per un verso, si ripristinarono le

libertà «statutarie» (può constatarsi, per incidens, come l’insistito richiamo allo Statuto, da

parte dell’opposizione al Governo Pelloux, dimostrasse l’autorità meta-giuridica che la car-

ta albertina ancora conservava) e, per l’altro, si diede luogo ad una serie di innovazioni le-

gislative tese ad introdurre regimi giuridici di protezione per i lavoratori e, in generale, per

le classi meno abbienti, approfittando della felice congiuntura economica.

La legislazione sociale del Governo Zanardelli-Giolitti (1901-1902) disegnò un quadro

che, lungi dal poter essere accostato a quello di un moderno Stato sociale, mostrava una

spiccata attenzione per il miglioramento delle condizioni di lavoro operaie e contadine, per

la tutela in caso di infortuni sul lavoro, per l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia,

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per il lavoro femminile e minorile, per l’edilizia popolare. A questa prima fase riformistica

fecero seguito, nel corso dei successivi dieci anni, il miglioramento del trattamento salaria-

le e pensionistico per gli impiegati, per i maestri elementari, per i pescatori. Contempora-

neamente, venne impostata una politica di industrializzazione, diretta a favorire lo sviluppo

delle aree economicamente depresse (il Mezzogiorno, in primis) e si procedette alla na-

zionalizzazione delle ferrovie.

Alle venature «sociali» dei governi Giolitti si associò una impostazione autenticamente

liberale relativamente all’attitudine di fronte alle proteste popolari: contrariamente a quanto

accaduto in precedenza, il Governo mantenne una tendenziale neutralità nei conflitti tra

lavoratori e proprietari industriali ed agricoli; lo sciopero venne «tollerato», così come il di-

ritto di associazione e quello di riunione non furono più oggetto di limitazioni legislative né,

per solito, di repressioni fattuali. I frequenti scioglimenti dei nascenti partiti e sindacati, che

avevano caratterizzato la fine del XIX secolo, vennero sostituiti da un riconoscimento de

facto del rilievo politico del Partito socialista (oltre che di altri partiti, di matrice non classi-

sta, come il Partito repubblicano) e delle organizzazioni di tipo sindacale, alla cui azione i

lavoratori affidavano la propria tutela.

Alle soglie della Prima guerra mondiale, il Regno d’Italia pareva dunque giunto, dopo vi-

stose oscillazioni, a potersi definire a pieno titolo come uno Stato liberale. La guerra, con i

sacrifici imposti su questo piano, interromperà questa esperienza, la quale, maturata tardi-

vamente, non aveva ancora avuto modo di consolidarsi sul piano culturale. Gli eventi suc-

cedutisi negli anni immediatamente seguenti al conflitto lo dimostreranno drammaticamen-

te.

3) Il dinamismo della prassi (quanto meno di quella inveratasi sino alla Grande guerra)

consentì di superare finanche le disposizioni dello Statuto dettate in stridente contrasto

con i principi di uno Stato liberale. L’esempio più lampante è certamente quello dell’art. 1,

ai sensi del quale, come accennato, il Regno di Sardegna si configurava come uno Stato

confessionale («la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Sta-

to»: primo comma), tale da discriminare i culti diversi dalla religione cattolica, meramente

«tollerati conformemente alle Leggi» (secondo comma). A suffragare questa scelta, si po-

nevano anche l’art. 28, secondo comma, che subordinava la stampa di bibbie, catechismi,

libri liturgici e di preghiere al preventivo permesso del vescovo, e l’art. 33, n. 1, che poneva

gli arcivescovi ed i vescovi tra le categorie di designabili al laticlavio.

Ancor prima dell’unità d’Italia, l’insieme di queste disposizioni venne profondamente ri-

visitato, alla luce di tutta una serie di atti normativi, volti, da un lato, a parificare i non-

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cattolici ai cattolici, relativamente al godimento dei diritti civili e politici e, dall’altro, a sepa-

rare la dimensione religiosa da quella pubblica, attraverso le c.d. leggi Siccardi (la legge 9

aprile 1850, n. 1013, che eliminava il diritto di asilo religioso ed il privilegio del foro per gli

ecclesiastici; la legge 5 giugno 1850, n. 1037, che imponeva una autorizzazione ammini-

strativa per tutti gli atti di acquisto dei corpi morali, civili o ecclesiastici) ed altre leggi suc-

cessive (la legge 23 maggio 1851, n. 1184, che aboliva ogni immunità fiscale dei beni ec-

clesiastici; la legge 29 maggio 1855, n. 878, che sopprimeva le corporazioni religiose prive

di utilità sociale).

Questi provvedimenti culminarono con la legge 13 maggio 1871, n. 214, c.d. «delle gua-

rentigie», che, dopo la conquista di Roma, consolidò la situazione di fatto, riconoscendo al

Pontefice una serie di prerogative connesse alla sua qualità di capo di uno Stato estero e

improntando – sia pure in modo non sempre efficace – i rapporti tra lo Stato italiano e la

Chiesa cattolica al modello separatista (si noti che la legge pareva aver abrogato tacita-

mente anche l’art. 28, secondo comma, dello Statuto albertino).

Più ancora delle discipline legislative, a favorire una scissione tra la sfera pubblica (rec-

tius, politica) e quella religiosa fu però l’atteggiamento tenuto dalla curia romana in conse-

guenza, dapprima, dell’unità d’Italia e del ridimensionamento entro i confini del Lazio del

potere temporale del Pontefice e, poi, del suo tendenziale annichilimento (eccezion fatta

per l’esiguo territorio dello Stato del Vaticano) dopo il 1870.

Era del 1864 la condanna di Papa Pio IX del liberalismo, stigmatizzato attraverso

l’elenco di «errori» enucleato nel Sillabo (in appendice all’enciclica Quarta Cura) ed era di

dieci anni successivo il non expedit, cioè la bolla papale con cui si faceva divieto per i cat-

tolici sudditi del Regno d’Italia di partecipare alle elezioni del Parlamento.

Nei primi decenni post-unitari, lo Stato dovrà dunque affrontare l’elemento doppiamente

destabilizzante di una Chiesa chiusa ad ogni dialogo e di una componente politica clerico-

reazionaria – minoritaria ma non trascurabile quanto a forza e seguito – volta a rimettere in

gioco le scelte a suo tempo operate per uno Stato laico ed una politica che non fosse as-

servita alle gerarchie ecclesiastiche.

Sarà soltanto sul finire dell’Ottocento che la Chiesa ammorbidirà la propria posizione

(anche allo scopo di arginare il seguito del nascente Partito socialista), fino a revocare,

con Papa Pio X, in occasione delle elezioni politiche del 1904, il non expedit, passando

così da un atteggiamento di pregiudiziale rifiuto («né eletti né elettori») ad uno di cauta ac-

cettazione delle istituzioni italiane («cattolici deputati sì, deputati cattolici no»).

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Si dovrà attendere, tuttavia, il c.d. «patto Gentiloni» (1913) per constatare l’assunzione,

da parte dei cattolici, di un esplicito ruolo nel circuito parlamentare: impegnandosi a far

convergere i voti degli elettori cattolici sui candidati liberali, la Chiesa (ché il patto venne

con ogni probabilità autorizzato dal Pontefice) riceveva in contropartita l’impegno degli e-

letti a perseguire una politica che si conformasse al volere della curia (ad esempio, attra-

verso la garanzia dell’insegnamento religioso nelle scuole, la tutela delle congregazioni re-

ligiose, etc.).

Parallelamente, i cattolici rafforzavano la propria presenza in Parlamento, prima che

questa, dopo la Prima guerra mondiale, venisse ad essere massiccia e, soprattutto, incar-

dinata nell’appartenenza al Partito popolare, nel frattempo fondato.

La «questione romana» si avviava in tal modo all’epilogo, sancito definitivamente con i

Patti Lateranensi del 1929.

[C] Uno Stato unitario. – Una caratteristica incontestabile della forma di Stato nel perio-

do monarchico-liberale è quella relativa alla tendenziale concentrazione nella capitale (To-

rino; dal 1864, Firenze; dal 1871, Roma) del potere politico: sebbene esistessero istituzioni

«periferiche», quali province e comuni, queste venivano configurate non tanto come enti

autonomi, quanto semmai come gangli dell’amministrazione statale a livello locale, vale a

dire come apparati di semplice decentramento amministrativo.

Nello stabilire, all’art. 74, che «le istituzioni Comunali e Provinciali, e la circoscrizione

dei Comuni e delle Province [erano] regolate dalla legge», lo Statuto albertino apprestava

la duplice garanzia del riconoscimento costituzionale dell’esistenza degli enti locali e della

riserva di legge per la disciplina della loro struttura, del loro funzionamento e dei loro pote-

ri. Al di là del rispetto di queste garanzie, tuttavia, il legislatore godeva di un amplissimo

margine di manovra nel disegnare l’articolazione territoriale del potere.

Nel periodo intercorrente tra l’unità e la fine dell’Ottocento, il tema del decentramento fu

oggetto di frequenti dibattiti ed anche di un buon numero di interventi normativi, tutti frutto

di un confronto tra l’anima «centralista» e quella «autonomista» che convivevano nella

classe politica italiana. Sin da subito, a prevalere fu la prima, corroborata com’era dalla

tradizione giuridica, ma anche da preoccupazioni di ordine politico.

Sul piano giuridico, non era da trascurare la circostanza che la «colonizzazione ammi-

nistrativa» veicolata dalle truppe napoleoniche all’inizio del secolo avesse prodotto una

tendenziale aderenza di gran parte degli Stati preunitari al modello francese, basato su un

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marcato accentramento del potere decisionale, associato ad una capillarizzazione delle

strutture locali in chiave rappresentativa delle singole comunità (municipali, in primis), ma

soprattutto in chiave esecutiva delle decisioni provenienti «dall’alto». Il Regno di Sarde-

gna, in particolare, si strutturava in larga misura sulla base di questi canoni: la sopra ricor-

data continuità in termini di «costituzione materiale» tra Stato subalpino e Regno d’Italia

può dunque dar conto anche dell’estensione a tutta la penisola del modello napoleonico.

A ciò non si addivenne, però, in virtù di una pura inerzia progettuale. La scelta del mo-

dello di Stato accentrato rispose, infatti, alle preoccupazioni politiche di alimentare

l’autorità dello Stato appena formatosi, potenzialmente minata, o comunque limata,

dall’attribuzione di ampi poteri ad enti periferici. Parimenti rilevante fu poi l’idea che soltan-

to attraverso un processo guidato «dal centro» (rectius, «dall’alto») potesse effettivamente

prodursi lo sviluppo di una società che, per larghi strati ed in vasti territori, appariva ancora

profondamente arretrata.

Alla luce di queste considerazioni non stupisce che tutti i progetti volti a ridisegnare

l’amministrazione pubblica mediante una regionalizzazione (funzionale, tra l’altro, a con-

servare uno status privilegiato per quelle città che erano state le capitali degli Stati preuni-

tari), presentati negli anni immediatamente successivi all’unificazione, siano decaduti (tra

questi devono ricordarsi, quanto meno, i due disegni di legge presentati da Cavour e da

Minghetti, nel marzo 1861, e fatti ritirare, dopo la morte del primo, dal suo successore, Ri-

casoli). L’allegato A della legge 20 marzo 1865, n. 2248, sull’unificazione amministrativa

del Regno, giunse poi a sanzionare definitivamente l’opzione centralistica, attraverso

l’estensione del modello piemontese di ordinamento comunale e provinciale.

La tematica del decentramento tornò ad essere oggetto di dibattiti soprattutto a partire

dalla seconda metà degli anni ottanta dell’Ottocento. Si vennero a confrontare, allora, due

concezioni del decentramento che, accomunate dall’idea di avvicinare gli individui alle isti-

tuzioni, rafforzando l’elemento rappresentativo, divergevano radicalmente sul piano dei

raccordi da introdurre tra il centro e la periferia.

Nella visione della Sinistra storica, allo sviluppo delle istanze partecipative e rappresen-

tative in sede locale, doveva coniugarsi un efficace regime dei controlli, onde assicurare la

perdurante tutela governativa sugli enti locali. Ne era testimonianza la legge crispina di ri-

forma dell’ordinamento comunale e provinciale (legge 30 dicembre 1888, n. 5865), la qua-

le, da un lato, attribuiva a nuove categorie di individui il diritto di voto alle elezioni ammini-

strative e stabiliva l’elettività dei sindaci dei comuni maggiori e dei presidenti delle provin-

ce, ma, dall’altro, potenziava i meccanismi di controllo, principalmente grazie all’istituzione

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delle giunte provinciali amministrative, presiedute dai prefetti, competenti a conoscere dei

ricorsi promossi dai privati avverso qualunque atto degli enti locali (legge 1° maggio 1890).

Un diverso orientamento era manifestato in seno alla Destra: il recupero di poteri per gli

enti locali che veniva propugnato mirava, infatti, ad una traslazione dell’esercizio di parte

delle funzioni di interesse generale dalle istituzioni politiche alla società civile, nella pro-

spettiva di un consolidamento degli assetti sociali tradizionali, minacciati dalla crescita del-

le forze popolari. A questo disegno di fondo rispondeva, ad esempio, la legge 29 luglio

1896, fatta approvare dal Governo di Rudinì, la quale introduceva il principio dell’elettività

dei sindaci di tutti i comuni: la sostituzione di funzionari amministrativi provenienti dal pote-

re centrale con persone espressione della comunità locale, se nei comuni più grandi aveva

l’effetto di valorizzare l’elemento partecipativo, nei comuni di più modeste dimensioni (e

soprattutto nei comuni rurali) garantiva alle élites alto-borghesi ed ai proprietari terrieri di

coagulare intorno a sé le istanze più conservatrici e, al contempo, di veder assai meglio

garantito lo status quo.

Questo intervento legislativo, come del resto i precedenti, non produsse, comunque, al-

tro che un assestamento della forma di Stato, che rimase ben ancorata, anche nel prosie-

guo, al modello centralista.

[D] Uno Stato di diritto. – Per quanto attiene al grado ed alle forme di tutela delle situa-

zioni giuridiche soggettive, lo Stato italiano, durante il periodo monarchico-liberale, può

essere definito come uno Stato di diritto, con tale nozione facendosi riferimento ad una or-

ganizzazione statuale in cui l’azione dei pubblici poteri è soggetta (non più all’arbitrio del

monarca, ma) alle norme giuridiche, ricavate principalmente dal diritto positivo, e dalla

legge in particolare (principio di legalità).

L’affermazione del principio di legalità, testimoniata in primis dal cospicuo numero di ri-

serve di legge contenute nello Statuto albertino ed enfatizzata dalla natura flessibile della

carta costituzionale, ebbe profonde ripercussioni, non solo su (1) la struttura del sistema

delle fonti del diritto, ma anche su (2) la concreta applicazione del principio di separazione

dei poteri, ponendosi, ad un tempo, come (3) il fondamento ed il limite intrinseco delle ga-

ranzie apprestate ai diritti individuali.

1) In ossequio alle teorie giuspositivistiche largamente prevalenti nell’Ottocento, la fun-

zione normativa venne ad essere quasi integralmente riconducibile all’opera degli organi

politici, residuando uno spazio assai circoscritto per altre forme di produzione, la consue-

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tudine in special modo. Pressoché nullo fu poi il ruolo del diritto giurisprudenziale, già «tra-

volto» dalla polemica dei révolutionnaires francesi del 1789 contro gli organi giudiziari tuto-

ri dell’Ancien régime (i Parlements).

La tendenziale omogeneità delle fonti di produzioni rese il sistema delle fonti piuttosto

semplice: nella struttura gerarchica del sistema potevano individuarsi essenzialmente tre

livelli, corrispondenti, rispettivamente, alle fonti primarie, secondarie e terziarie (si noti che

questa terminologia è rimasta in uso ed ha continuato a connotare le medesime fonti an-

che al mutare del sistema).

La fonte primaria per antonomasia era la legge parlamentare, la quale, in un regime di

costituzione flessibile (v. supra), veniva ad essere priva di limiti materiali, potendo disporre

in deroga anche rispetto alle disposizioni statutarie.

Il potere, astrattamente illimitato, del Parlamento era, peraltro, grandemente circoscritto,

di fatto, in conseguenza dell’interpretazione invalsa del principio di legalità, inteso non in

senso sostanziale, bensì in senso puramente formale: il legislatore non era dunque chia-

mato a disciplinare l’integralità di una determinata materia (con la conseguente esclusione

di altri poteri normativi e/o di ampi margini di discrezionalità per l’amministrazione), ma

semplicemente ad attribuire un potere da esercitare in capo ad un organo o ad un sogget-

to, ogni altra previsione restando nella piena disponibilità del conditor juris (che, in concre-

to, sul punto rimase spesso inerte).

D’altro canto, il Parlamento non poteva neppure dirsi titolare del monopolio della nor-

mazione di rango primario. Ciò in ragione del concorrere di alcune previsioni statutarie, da

un lato, e di una prassi radicatasi praeter statutum, dall’altro.

La natura dualista della forma di governo disegnata dallo Statuto (su cui, v. infra) trova-

va un preciso riscontro nell’attribuzione in via esclusiva al Re dei poteri, anche normativi,

in talune materie, c.d. – appunto – di «prerogativa regia». Salvo tornare più diffusamente

sull’argomento, è qui da sottolinearsi come, ai termini degli articoli 78 e 79 dello Statuto, il

Re era l’unico titolare dei poteri normativi in tema di creazione di «Ordini Cavallereschi» e

di conferimento di nuovi «titoli di Nobiltà». Altre materie – e di ben più ampio respiro – fu-

rono fatte rientrare, per il tramite dell’art. 5 dello Statuto, nella sfera di prerogativa regia,

ma, nella prassi, ad esercitare i poteri normativi non fu il Re (o, almeno, non fu soltanto il

Re), quanto (semmai) il Governo, a tal fine essendosi attribuito alla previsione della con-

trofirma ministeriale (ex art. 67 dello Statuto) il valore non solo di assunzione della respon-

sabilità in capo al ministro, ma anche di una sua partecipazione alla determinazione del

contenuto dell’atto (tra gli esempi di materie di prerogativa regia di quest’ultimo tipo, le

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principali sono senz’altro quella militare e, forse, quella coloniale).

Da tutte queste materie, per previsione statutaria (o a seguito dell’interpretazione inval-

sa dello Statuto), il Parlamento restava escluso, ciò che aveva, evidentemente, l’effetto di

porre dei limiti competenziali alla legge.

L’altra categoria di fonti primarie – quella individuabile praeter statutum – non produce-

va limiti analoghi, ricadendo essa nello stesso ambito di competenza della legge parla-

mentare: il riferimento è all’insieme degli atti normativi dell’esecutivo cui si riconosceva

forza legislativa.

Siffatti poteri traevano la propria origine da una delega da parte del Parlamento ovvero

da una autonoma iniziativa da parte del Governo, motivata dalla necessità di affrontare si-

tuazioni di urgenza.

La delegazione legislativa, nata in funzione dell’attribuzione al Governo dei c.d. «pieni

poteri», quindi anche dei poteri normativi consoni a fronteggiare situazioni eccezionali qua-

li quelle belliche, si trasformò progressivamente – anche in ragione della frequenza di pe-

riodi di «emergenza» nei primi lustri di vigenza dello Statuto – in una pratica mediante cui

il Parlamento affidò pro tempore al Governo potestà tendenzialmente illimitate, come fu

dimostrato, ad esempio, dalla grande produzione normativa di matrice extra-parlamentare

contemporanea alla Seconda guerra di indipendenza ed al processo di unificazione, non-

ché da quella avutasi durante la Prima guerra mondiale.

Una prassi analogamente rivolta a potenziare il ruolo del Governo fu riscontrabile a pro-

posito della decretazione d’urgenza, di cui non vennero mai – almeno sino alla legge 31

gennaio 1926, n. 100 – definitivamente chiariti i fondamenti (la dottrina, in particolare, o-

scillò tra la configurazione – propugnata da Santi ROMANO – della necessità come fonte

autonoma del diritto ed il riconoscimento del venire in essere di una consuetudine legitti-

mante l’intervento d’urgenza del Governo), ma che, specie in taluni frangenti (si pensi, ad

esempio, alla già ricordata vicenda del decreto fatto emanare da Pelloux), ebbe un impatto

notevole sul diritto vigente e, in ultima analisi, sulla struttura stessa del sistema delle fonti.

A completare un quadro nel quale il Governo, astrattamente ai margini del sistema delle

fonti di produzione, esercitava un ruolo sovente preponderante, si poneva la potestà rego-

lamentare, intesa come potestà normativa subordinata a quella primaria (indi, «seconda-

ria»), per taluni (ZANOBINI) vincolata dall’indefettibilità di un esplicito conferimento di poteri

da parte del legislatore, per altri (CAMMEO), invece, addirittura connaturata alla titolarità del

potere esecutivo.

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Sul terzo gradino del sistema, le consuetudini ebbero un ruolo puramente integrativo

(eccezion fatta, probabilmente, per alcuni settori, come ad esempio quello commerciale, in

cui agli usi fu riconosciuto uno spazio non trascurabile): la loro vigenza dipendeva

dall’esistenza o meno di un rinvio ad esse operato dalla legge (consuetudini c.d. secun-

dum legem); tendenzialmente esclusa fu, infatti, la vigenza (oltre che delle consuetudini

contrarie al diritto scritto) delle consuetudini non richiamate da disposizioni legislative,

quand’anche non sussistesse tra le due fonti un contrasto (consuetudini c.d. praeter le-

gem).

2) Quanto detto in ordine al sistema delle fonti è di per sé indicativo della non compiuta

affermazione del principio di separazione dei poteri, quanto meno se inteso nell’accezione

rigida propugnata da Montesquieu. A suffragare questa conclusione possono addursi an-

che ulteriori argomenti.

Innanzi tutto, una commistione tra potere legislativo e potere amministrativo era chia-

ramente avvertibile nella figura del monarca, nella cui persona si associavano la qualità di

legislatore (art. 3 dello Statuto) e quella di capo dell’esecutivo (art. 5).

Tralasciando, per il momento, questi profili, che rappresentano una delle chiavi di lettura

fondamentali nella ricostruzione della forma di governo nel periodo statutario, è qui oppor-

tuno soffermarsi, sia pur brevemente, sul terzo potere, quello giudiziario.

L’idea di una separazione dei poteri era riscontrabile in nuce nella carta costituzionale,

là dove si affermava che «i giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento,

[erano] inamovibili dopo tre anni di esercizio» (art. 69). Certo, trattavasi di una affermazio-

ne che, di per sé, non era sufficiente a dar conto di un potere giudiziario realmente indi-

pendente: una lettura sistematica del testo, d’altra parte, lasciava adito a ben pochi dubbi.

In primo luogo, lo Statuto non impiegava mai il termine «potere» per connotare la funzione

giurisdizionale, suggerendo semmai l’esistenza di un corpo di funzionari circondato da ga-

ranzie particolari. Era significativo, in tal senso, che rimanesse nell’impianto statutario

l’idea che «la giustizia emana[va] dal Re ed [era] amministrata in suo nome dai giudici

ch’egli istitui[va]» (art. 68). A chiudere il cerchio giungeva poi l’art. 73, il quale, nel precisa-

re che «l’interpretazione delle legge, in modo per tutti obbligatorio, spetta[va] esclusiva-

mente al potere legislativo», sanciva la superiorità dell’«interpretazione autentica» su ogni

interpretazione giudiziale che aspirasse ad avere effetti erga omnes.

Le scarne disposizioni statutarie vennero attuate, in conformità alla riserva di legge di

cui all’art. 70, secondo periodo, dalle leggi sull’ordinamento giudiziario che si succedettero

nel corso degli anni e che videro, nel lungo periodo, una progressiva attenuazione

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dell’influenza – peraltro sempre chiaramente avvertibile – del potere politico, e del Ministro

guardasigilli in primis, nei confronti dei giudici (la funzione dei pubblici ministeri, organi

dell’amministrazione, rimase sempre pianamente dipendente dal potere esecutivo).

Tale influenza si fondava, per un verso, su una interpretazione restrittiva del principio

dell’inamovibilità e, per l’altro, sulla regolamentazione del potere disciplinare.

Nei primi anni di vigenza dello Statuto, l’inamovibilità conobbe una disciplina doppia-

mente restrittiva rispetto all’art. 69, in quanto l’eccezione in esso prevista per i giudici di

mandamento venne applicata ad un numero crescente di soggetti, una volta inseriti in tale

categoria anche i pretori; d’altra parte, per coloro cui la garanzia si applicava, se la legge

19 maggio 1851, n. 1186, aveva previsto che il mancato accordo tra Governo e destinata-

rio del provvedimento di trasferimento venisse deferito alla decisione della Cassazione,

con il decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3781, l’intervento della Cassazione fu limi-

tato al caso di trasferimento-sanzione, in ogni altro caso potendo il Governo autonoma-

mente provvedere «per necessità di servizio». Sarà solo con il decreto legislativo 6 dicem-

bre 1865, n. 2215, che la lettura della inamovibilità proposta nel 1851 verrà ripristinata.

Ad interinare il rapporto di dipendenza della giurisdizione dal potere esecutivo fu allora

soprattutto la disciplina del procedimento disciplinare, la cui iniziativa spettava al pubblico

ministero e la cui decisione spettava direttamente al Ministro della giustizia. Il medesimo

esercitava poi l’alta sorveglianza su tutti i giudici ed era titolare del potere di promozione e

di trasferimento d’ufficio.

Temperamenti significativi alla subalternità dell’ordine giudiziario furono introdotti soltan-

to nel primo decennio del XX secolo. Ciò non tanto con la legge 14 luglio 1907, n. 511, che

istituiva il Consiglio superiore della magistratura (organo composto in modo pressoché e-

sclusivo da membri designati dal Guardasigilli e titolare di funzioni serventi rispetto a

quest’ultimo), quanto semmai con la legge 24 luglio 1908, n. 438, che estendeva a tutti i

giudici la garanzia dell’inamovibilità e che poneva al vertice degli organi disciplinari la c.d.

Corte suprema disciplinare: il Ministro della giustizia perdeva, così, il potere di infliggere

sanzioni disciplinari, conservando solo quello di iniziativa (attraverso il pubblico ministero).

Queste riforme, che pure non consentono di affermare l’avvenuta creazione di un ordine

giudiziario autonomo ed indipendente, sono comunque testimonianza evidente

dell’allontanamento della funzione giurisdizionale da quella politica, indicando un progres-

sivo radicarsi, sotto questo punto di vista, del principio di separazione dei poteri.

3) Il constatato rapporto di dipendenza dell’ordine giudiziario rispetto al potere esecutivo

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può contribuire a spiegare i limiti entro i quali la garanzia dei diritti venne assicurata ed il

modello di Stato di diritto che si sviluppò nel corso degli anni.

All’indomani dell’unità, la classe politica fu chiamata a delineare un sistema di tutela del

singolo nei confronti della pubblica amministrazione che superasse la molteplicità di regimi

riscontrabili nei vari ordinamenti preunitari.

Con l’allegato E della precitata legge 20 marzo 1865, n. 2248, la scelta compiuta fu

quella dell’attribuzione al giudice ordinario della quasi totalità delle controversie nelle quali

venisse in gioco un «diritto» individuale. Per taluni, limitati casi, si previde la giurisdizione

di giudici amministrativi speciali (segnatamente, il Consiglio di Stato, oltre alla Corte dei

conti), mentre, per la tutela di tutte le altre situazioni giuridiche soggettive che non assur-

gessero al rango di diritto, si ritenne sufficiente la predisposizione di procedimenti interni

agli organi di amministrazione attiva.

L’opzione per una applicazione tendenzialmente generale del principio di unità della

giurisdizione avrebbe potuto condurre il giudice ordinario a porsi quale vero e proprio

«controllore» dell’attività dei pubblici poteri, in funzione di protezione dei privati. Nei fatti,

ciò non avvenne se non molto parzialmente, in quanto i giudici ordinari intesero sovente in

senso restrittivo il ruolo che una normativa di non agevole interpretazione riservava loro;

ne derivarono ampie «zone franche» dal sindacato giurisdizionale, che minarono la piena

esplicazione dei principi propri dello Stato di diritto.

Alla luce di questa constatazione, assume dunque una importanza non trascurabile la

legge 31 marzo 1889, n. 5992, che istituì la IV sezione del Consiglio di Stato, attribuendole

la cognizione di tutte le controversie che coinvolgessero interessi legittimi (e non diritti

soggettivi) dei privati nei loro rapporti con l’amministrazione. Tale innovazione segnò, in ef-

fetti, una tappa fondamentale nel radicarsi di uno Stato di diritto, proprio nella misura in cui

sostituì, nella tutela in vasti settori di attività, agli organi dell’amministrazione attiva un or-

gano giurisdizionale, in posizione pressoché paritaria rispetto al giudice ordinario.

La giustizia nell’amministrazione rappresenta il punto di tutela più avanzato raggiunto

dal Regno d’Italia per le situazioni giuridiche soggettive. Il passaggio ulteriore, quello cioè

del radicamento di uno Stato costituzionale di diritto, non venne mai compiuto, a ciò oppo-

nendosi, sul piano teorico, la struttura del sistema delle fonti (ed in particolare la natura

flessibile della carta costituzionale) e, in concreto, il mancato sviluppo di un consistente in-

dirizzo giurisprudenziale che ritenesse possibile operare un controllo della validità (recte,

dell’esistenza) delle fonti normative primarie, sul modello del sistema statunitense di con-

trollo diffuso: ciò non fosse altro perché il ricavare per implicito la configurabilità di un judi-

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cial review of legislation presupponeva una collocazione istituzionale del potere giudiziario

ben diversa da quella propria del periodo monarchico-liberale, pregiudicata, come detto,

dall’assenza della necessaria indipendenza e, a monte, da quella di un radicato prestigio

in seno alla società civile (PIZZORUSSO).

Certo, ci furono alcune prese di posizione nel senso di un sindacato, specie in ordine ai

requisiti formali che integravano la perfezione (ergo, l’esistenza) dell’atto legislativo, tutta-

via esse vennero in definitiva soverchiate da pronunzie di segno opposto. Qualche mag-

giore spazio lo si ebbe in ordine al controllo degli atti normativi di rango primario che pro-

venissero dall’esecutivo (si ricordano, in particolare, la declaratoria di inesistenza del de-

creto «liberticida» Pelloux da parte della Corte di cassazione, oltre ad alcune prese di po-

sizione in ordine al vizio di eccesso di delega dei decreti legislativi), ma, anche a tal pro-

posito, l’evoluzione giurisprudenziale fu così lenta da condurre ad alcuni frutti significativi

soltanto nei primissimi anni venti, all’alba, cioè, di un mutamento di regime che avrebbe,

anche su questo profilo, imposto una profonda rivisitazione (id est, un definitivo ripiega-

mento dell’opera delle giurisdizioni).

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Terza lezione – La forma di governo nel periodo monarchico-liberale

La caratteristica principale della forma di governo dello Stato italiano durante il periodo

monarchico-liberale è probabilmente quella del «dinamismo», riscontrabile in tutto l’arco

temporale che va dal 1848 al 1922. Ciò in ragione, da un lato, de [A] l’estrema elasticità

(constatata con riferimento a molti aspetti della vita istituzionale, ma particolarmente pro-

nunciata per quello che qui interessa) delle disposizioni dello Statuto albertino e, dall’altro,

de [B] l’evoluzione sociale, economica, ma anche politica ed istituzionale che ha connotato

i decenni post-statutari.

[A] Ad una prima lettura degli articoli più caratterizzanti dello Statuto, la conclusione che

pare scontata è quella in base alla quale la forma di governo ivi disegnata fosse quella di

una monarchia costituzionale pura. A tal proposito pareva inequivocabile il disposto

dell’art. 5, primo periodo, ai sensi del quale «al Re solo [apparteneva] il potere esecutivo»,

e dell’art. 65, secondo cui «il Re nomina[va] e revoca[va] i suoi ministri».

Da queste proposizioni sembrava sostanzialmente necessitato (specie allorché si po-

nesse l’accento sui termini che si sono sopra posti in corsivo) un assetto istituzionale ca-

ratterizzato dall’esercizio da parte del monarca del potere esecutivo, sul presupposto di

una sua indipendenza dal Parlamento, titolare del potere legislativo, e dagli organi cui

spettava il potere giurisdizionale. A sancire l’accoglimento di questo modello poteva ad-

dursi ulteriormente l’assenza di una qualunque previsione concernente il Governo in quan-

to organo costituzionale, fatta eccezione per un fugace – ed incidentale – accenno agli

«atti del Governo» contenuto nel secondo periodo dell’art. 67: finanche le disposizioni rela-

tive al vertice della struttura amministrativa erano raggruppate in un titolo – peraltro molto

esiguo, essendo composto di soli tre articoli – dedicato a «i Ministri», ciò che non risolveva

il dubbio se i ministri fossero «ministri del Re» oppure membri di un organo complesso,

autonomo rispetto al monarca.

Per quanto improntata al modello costituzionale puro, la forma di governo statutaria

presentava, comunque, alcune peculiarità difficilmente riconducibili al genus di importazio-

ne britannica.

Era, in primo luogo, avvertibile una certa quale enfatizzazione del ruolo della Corona,

che poteva porsi come vero architrave del sistema, con pregiudizio del principio di separa-

zione dei poteri che connotava la (ideale) forma di governo cui Montesquieu si era ispirato

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nell’elaborare la propria teoria istituzionale. In tal senso, assumeva un particolare rilievo

l’art. 5, il quale, nell’individuare la difesa e la politica estera come materie di «prerogativa

regia», introduceva un significativo sbilanciamento dei poteri a beneficio dell’esecutivo ed

a scapito del legislativo, tendenzialmente escluso dal circuito decisionale in ambiti di parti-

colare importanza (esclusione che conosceva una sola significativa eccezione in quanto

previsto dal terzo periodo dell’art. 5, ai sensi del quale «i trattati che importassero un onere

alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non [avrebbero avuto] effetto se non dopo

ottenuto l’assenso delle Camere»).

A suffragare la primazia dell’istituto monarchico nelle istituzioni si ponevano, poi, alcune

previsioni che consentivano al Re di condizionare pesantemente il funzionamento del po-

tere legislativo. Il condizionamento era avvertibile già in ragione della struttura del potere

legislativo, essendo il Parlamento composto di due camere, l’una – la Camera dei deputati

– elettiva e l’altra – il Senato – composta «di membri nominati a vita dal Re, in numero non

limitato», ed appartenenti ad una delle ventuno categorie di persone contemplate dall’art.

33 dello Statuto (ai termini dell’art. 35, spettava al Re anche il potere di nomina del Presi-

dente e dei vicepresidenti del Senato).

Anche sul piano funzionale, peraltro, l’incidenza del Re non appariva – quanto meno in

astratto – irrilevante: era il Re a convocare le Camere, a scioglierle ed a prorogarne le

sessioni (art. 9); al Re spettava, alla stessa stregua di ciascuna camera, presentare pro-

getti di legge (art. 10); ancora, il Re aveva il potere di sanzionare e di promulgare le leggi

(art. 7), potendosi configurare la sanzione come una vera e propria terza approvazione del

testo e, conseguentemente, l’approvazione regia come quella di una «terza camera».

Oltre alle disposizioni dalle quali emergeva una certa quale preponderanza del Re ri-

spetto agli altri organi, non potevano trascurarsi gli elementi di obiettiva ambiguità nella

costruzione della forma di governo, concentrati essenzialmente nel primo periodo dell’art.

67 dello Statuto, il quale, nell’affermare che «i ministri [erano] risponsabili», non specifica-

va nei confronti di chi lo fossero né indicava le modalità attraverso cui la responsabilità po-

tesse essere messa in gioco, con ciò non essendo da escludere né una responsabilità nei

confronti del Re (il che ben si coniugava con l’aggettivo possessivo presente nel precitato

art. 65) né una responsabilità nei confronti del Parlamento.

Tale ultima lettura veniva rafforzata dal secondo periodo dell’art. 67 medesimo, il quale,

nel porre l’obbligo di controfirma degli atti del Re, sembrava addirittura avvicinare la forma

di governo ad un sistema tipicamente parlamentare, in cui il monarca, irresponsabile (l’art.

4 recitava: «la persona del Re è sacra ed inviolabile»), «regna ma non governa».

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Ora, ponendo a sistema tutte le sopra menzionate previsioni contenute nello Statuto al-

bertino, sarebbe stato assai arduo individuare con assoluta certezza una forma di governo

«pura», tale da mantenere costanti nel tempo i propri attributi fondamentali. Da questa

constatazione, è stata talvolta dedotta l’impossibilità di formulare una qualunque definizio-

ne che, per il suo essere astratta, prescindesse dalla prassi istituzionale instauratasi an-

che solo qualche mese dopo l’entrata in vigore dello Statuto.

A ben vedere, tuttavia, l’importanza che hanno avuto i comportamenti degli attori politici

in chiave conformativa della forma di governo non impedisce di cogliere almeno alcuni ca-

ratteri che, in linea teorica, possono evincersi dal testo costituzionale. Tra questi,

l’elemento di maggior significato è il dualismo intrinseco che dall’insieme delle previsioni

emerge e che, non a caso, si è costantemente mantenuto nel corso dei decenni.

Tale dualismo discende, come è chiaro, dalla duplicità delle fonti di legittimazione degli

organi costituzionali: da un lato, la fonte «dinastica», dall’altro quella «elettiva» (siffatta de-

finizione risultando assai più appropriata – per quanto visto sopra – rispetto ad altra che

faccia riferimento alla «democrazia»), la prima impersonata dal Re (e, sia pure in minor

misura, dal Senato) e la seconda espressa dalla Camera dei deputati.

Teoricamente ben definiti, i contorni del dualismo sono venuti ben presto a sfumarsi in

conseguenza della non compiuta definizione della posizione istituzionale del Governo (rec-

tius, del collegio dei ministri), tanto che la causa prima del «dinamismo» della forma di go-

verno può forse essere individuata nella variabilità della collocazione di questo organo, ta-

lora «appiattito» sul versante dinastico talaltra più propenso ad un collegamento con la

camera elettiva (e, conseguentemente, ad una certa autonomia dal monarca).

Se quanto sin qui detto è vero, la ricerca di una definizione della forma di governo statu-

taria che possa dirsi valida anche per tutto il periodo monarchico-liberale conduce ad evi-

denziare come il sistema si sia configurato (praticamente ab initio) come «dualista» (nel

senso detto prima), «ad esecutivo bicefalo» (in ragione dell’autonomizzarsi – effettuale o

potenziale – del Governo dal Re) ed «a geometria variabile» (in rapporto alle contingenze

politiche e storiche).

Così ricostruita la forma di governo, si ritiene che non possa essere condivisa, quanto

meno nella sua versione più radicale, la tesi – peraltro assai diffusa, specie nella dottrina

più risalente – secondo cui il regime si sarebbe trasformato assai rapidamente, già nei

primi tempi del regno di Vittorio Emanuele II, in un regime parlamentare, e che tale tra-

sformazione sarebbe stata «definitiva». In realtà, per quanto non siano mancati periodi in

cui il sistema ha funzionato come se fosse parlamentare, essi sono sempre stati segnati

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dal tacito accordo dei principali attori istituzionali a far funzionare il sistema in quel modo

anziché in un altro (id est, secondo quanto previsto dallo Statuto), accordo sempre nego-

ziabile, tendenzialmente revocabile (da parte del Re, in primo luogo) e, comunque, mai de-

finitivo.

A rendere ulteriormente problematica l’adesione alla tesi della «immediata parlamenta-

rizzazione» del sistema, deve poi sottolinearsi come la «variabilità» della forma di governo

possa essere constatata non solo in relazione ai mutevoli equilibri politico-istituzionali, ma

anche in rapporto al contesto storico-sociale. In particolare, sono da distinguere nettamen-

te i periodi di «emergenza» (derivanti da guerra interna o da disordini sociali generalizzati)

da quelli di relativa «normalità». Nei periodi di emergenza, infatti, le considerazioni svolte

in ordine alla non ben definita collocazione istituzionale del Governo perdono gran parte

del loro valore, nella misura in cui l’intero assetto del sistema era fortemente permeato dal-

le previsioni del secondo periodo dell’art. 5 dello Statuto, secondo le quali il Re «[era] il

Capo Supremo dello Stato: comanda[va] tutte le forze di terra e di mare; dichiara[va] la

guerra; fa[ceva] i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle

Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permett[ev]ano, ed unendovi le

comunicazioni opportune».

La prerogativa regia in tema di difesa e forze armate, e dunque di conduzione della

guerra (quanto meno allorché essa avesse come teatro la penisola), restò incontestata du-

rante tutto il periodo monarchico-liberale, così come restò incontestato il potere del Re, in

quanto Capo dello Stato, di assumere i poteri decisionali supremi ogni qual volta si verifi-

cassero situazioni tali da porre a repentaglio la sopravvivenza dello Stato stesso (e quindi,

non necessariamente in caso di guerra, ma anche, ad esempio, in caso di disordini interni

che avessero una diffusione tale da cagionare un potenziale sovvertimento dell’ordine co-

stituito).

Questo «potere di riserva» garantiva al Re ampia possibilità di scelta relativamente alle

modalità attraverso cui affrontare la situazione: egli poteva così decidere di condurre le

operazioni belliche in prima persona, recandosi presso il fronte e lasciando nella capitale

un suo luogotenente (è ciò che avvenne nella maggior parte dei casi: si pensi, in particola-

re, alle guerre d’indipendenza o alla Prima guerra mondiale), oppure delegare (come nel

caso delle guerre coloniali) ad altri la gestione delle operazioni di guerra o di ordine pub-

blico.

D’altra parte, l’eccezionalità di queste situazioni faceva sì che l’intera dinamica istituzio-

nale fosse da queste profondamente condizionata (se non addirittura ad esse funzionaliz-

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zata): come logica conseguenza, sul piano fattuale veniva ad essere sterilizzato, in questi

periodi, il dualismo della forma di governo a beneficio esclusivo del pilastro dinastico della

stessa.

In definitiva, è soltanto nei periodi di «normalità» che le istituzioni funzionavano (pote-

vano funzionare) concretamente secondo i canoni dualistici che si sono descritti (e che, in

taluni frangenti, potevano effettivamente richiamare il regime parlamentare), per quanto il

disposto del secondo periodo dell’art. 5 dello Statuto fosse ben lungi dall’entrare in uno

stato di quiescenza (prova ne sia il fatto che, per quasi tutto il periodo monarchico-liberale,

il Re ebbe il potere di imporre propri fiduciari come titolari dei ministeri della guerra e della

marina, mentre i ministri degli esteri ebbero tutti almeno il suo gradimento).

[B] Le premesse di ordine generale che precedono dovrebbero a questo punto essere

corredate da una analisi più dettagliata dei profili più caratterizzanti della forma di governo.

Onde procedere in tal senso, è forse opportuno operare una periodizzazione (per quanto

essa non possa non rivelarsi almeno per certa parte criticabile, se non anche arbitraria),

alla luce della quale procedere ad una analisi di tipo eminentemente diacronico.

I periodi individuabili nell’arco di tempo compreso tra il 1848 ed il 1922 sono essenzial-

mente cinque: (1) la fase di prima applicazione dello Statuto; (2) la fase della «prima par-

lamentarizzazione»; (3) la fase della svolta autoritaria; (4) la fase della «seconda parla-

mentarizzazione»; (5) la fase della crisi dello Stato liberale.

(1) La fase di prima applicazione dello Statuto. – All’indomani dell’entrata in vigore dello

Statuto albertino, il sistema istituzionale parve concretamente strutturarsi secondo i moduli

teorizzati in sede di redazione della carta costituzionale. Il Re si collocò, infatti, al centro

della scena politica, ponendosi come il dominus incontrastato nella scelta dei ministri, ivi

inclusa quella del Presidente del Consiglio. Carlo Alberto fece largo uso dei poteri che lo

Statuto gli attribuiva, designando al Governo personalità a lui vicine, anche a prescindere

da (e talora persino contro) gli orientamenti maggioritari in seno all’assemblea elettiva. Ne

derivò una rapida successione di ministeri, ben sei nei dodici mesi successivi al marzo

1848. Ciò che più conta, si procedette, già nel gennaio 1849, ad uno scioglimento della

Camera dei deputati, finalizzato essenzialmente a rafforzare in seno ad essa la compagine

politicamente più affine a quella espressione del «Governo del Re», ormai in procinto di ri-

prendere le ostilità contro l’Austria, superando in tal modo l’armistizio di Vigevano del 9

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agosto 1848.

La sconfitta patita in questa seconda parte della Prima guerra di indipendenza indusse

Carlo Alberto all’abdicazione in favore del figlio, Vittorio Emanuele II. L’uscita di scena del

monarca che aveva promulgato lo Statuto non spostò comunque in modo significativo gli

equilibri istituzionali. Anzi, non appena salito al trono, il nuovo Re, chiamato a gestire la

difficile fase del secondo armistizio (poi concretizzatosi con il Trattato di Milano dell’agosto

1849), non esitò a sostituire il Presidente del Consiglio in carica (al de Launay subentrò

Massimo D’Azeglio) ed a sciogliere (solo poche settimane dopo lo scioglimento preceden-

te) la Camera dei deputati.

Ma più dell’atto di scioglimento in sé, ad assumere un particolare rilievo ai fini della con-

figurazione del sistema istituzionale è il proclama reale del 3 luglio 1849, nel quale si invi-

tavano i sudditi a «non rendere la libertà impossibile né impraticabile lo Statuto» (di cui, e-

videntemente, il monarca era il primo garante): all’uopo, si esortavano gli elettori a desi-

gnare deputati che – contrariamente alla maggioranza della Camera sciolta, ancora pro-

pensa alla prosecuzione delle ostilità – consentissero al Re di sottoscrivere un armistizio

con l’Austria, ritenuto indispensabile per garantire la sopravvivenza del Regno.

Lo scioglimento si configurava, dunque, come un appello al popolo rivolto direttamente

dal Sovrano, nella sua qualità di supremo reggitore dello Stato, che si ergeva al di sopra

delle «fazioni» politiche per il perseguimento degli interessi generali.

Lo scarso riscontro ottenuto nelle elezioni del 15 luglio (che videro, addirittura, un raf-

forzamento del gruppo «democratico», ostile all’armistizio), indussero ad un ulteriore scio-

glimento, corredato da un secondo appello al popolo, con il proclama di Moncalieri del 20

novembre 1849. In quest’ultimo, il Re ribadiva l’invito ai sudditi ad associarsi alla sua poli-

tica, onde salvare lo Statuto ed il paese dai pericoli che lo minacciavano; all’invito seguiva,

stavolta, un monito («ma se il Paese, se gli elettori Mi negano il loro consenso, non su Me

ricadrà ormai la responsabilità del futuro; e ne’ disordini che potessero avvenirne, non a-

vranno a dolersi di Me, ma avranno a dolersi di loro») dal quale si evinceva – in caso di

mancata rispondenza dell’esito elettorale alla politica regia – una possibile rottura della le-

galità statutaria, che sola avrebbe consentito di salvaguardare l’integrità dello Stato.

Il proclama di Moncalieri, che da molti commentatori contemporanei venne letto come

una grave intromissione del Re nella dinamica elettorale, in violazione dei canoni essen-

ziali del regime «rappresentativo» che lo Statuto aveva inteso sancire in modo definitivo, è

sintomatico del ruolo assunto dall’istituto monarchico nell’ambito della forma di governo,

un ruolo assolutamente incompatibile con quello di un Re che «regna ma non governa».

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D’altra parte, una volta che lo scopo, nella successiva consultazione elettorale, fu rag-

giunto, il Re prese a ritrarsi progressivamente dalla scena, in concomitanza – non a caso –

con la fine della situazione «eccezionale» provocata dagli avvenimenti bellici, facendo così

emergere sempre di più il Governo, allora guidato da un uomo di sua fiducia quale il

D’Azeglio, come soggetto (almeno parzialmente) autonomo, capace di instaurare una pro-

pria dialettica con la Camera dei deputati.

Si creavano, in tal modo, le basi per una parlamentarizzazione della forma di governo

che, fino a quel momento, era stata resa impossibile dalle circostanze storico-politiche,

che avevano reso episodici gli accadimenti che pure avrebbero suggerito l’inizio della

transizione: il riferimento va, in particolare, a quei casi (datati addirittura 1848) nei quali il

Governo si dimise a seguito della constatata ostilità della Camera elettiva (non rilevando,

invece, la posizione dell’altra assemblea, essendosi affermato sin da subito il principio se-

condo cui «il Senato non fa crisi»). Non erano ancora, evidentemente, manifestazioni

dell’instaurarsi di un vero e proprio rapporto di fiducia (le dimissioni rappresentavano, pro-

babilmente, nulla più che un invito al Re a determinarsi in ordine al modo attraverso cui

superare le difficoltà politiche inveratesi), ma le basi per un potenziamento dell’istanza

rappresentativa nel quadro delle istituzioni erano gettate. Con l’avvento di Cavour alla

Presidenza del Consiglio, nel 1852, se ne sarebbero avute ampie conferme.

(2) La fase della «prima parlamentarizzazione». – Questa fase può essere suddivisa in

tre segmenti temporali, corrispondenti (a) all’età cavouriana, (b) al periodo del governo

della Destra storica e (c) a quello del governo della Sinistra storica.

a) La designazione del Conte di Cavour alla guida del Governo segnò una svolta di non

trascurabile rilievo negli equilibri istituzionali del Regno di Sardegna.

In qualità di Ministro dell’agricoltura e delle finanze, Cavour aveva già avuto modo di

segnalarsi per le sue doti politiche, che lo avevano reso uno degli esponenti di spicco della

compagine governativa (a tratti anche in competizione con il Presidente D’Azeglio) e, so-

prattutto, uno dei punti di riferimento principali delle forze liberali, maggioritarie in seno alla

Camera dei deputati.

Una volta divenuto Presidente del Consiglio, l’innovazione principale che Cavour operò

rispetto ai predecessori fu quella di non rivolgersi al «pilastro dinastico» per alimentare la

legittimazione del suo Governo, prediligendo la ricerca di una maggiore saldatura tra il

Governo e la maggioranza parlamentare. Altrimenti detto, Cavour non si configurò come

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fiduciario del Sovrano, quanto piuttosto come esponente della maggioranza parlamentare,

che, nell’esprimere propri uomini alla guida del paese, rispondeva agli imperativi fondanti

di quel «sistema rappresentativo» che Carlo Alberto, già nel proclama dell’8 febbraio 1848,

aveva ritenuto essere il cardine del nuovo ordine costituzionale.

Alla visione della monarchia costituzionale come forma di governo espressa nello Statu-

to si sostituiva quella di una monarchia tendenzialmente parlamentare, in cui il rapporto fi-

duciario consentiva di collocare nel circuito Governo – camera elettiva il fulcro del sistema:

non a caso, il modello ripetutamente invocato fu quello britannico, in cui il Prime minister,

leader della maggioranza parlamentare, rappresentava la più efficace saldatura tra potere

esecutivo e potere legislativo.

Certo, profonde erano le differenze tra la forma di governo consolidatasi a Londra e

quella propria del Regno di Sardegna. Innanzi tutto, profondamente diversa era la colloca-

zione della Corona, la quale, confinata oltremanica ad un ruolo poco più che cerimoniale

(come ben avrebbe illustrato, di lì a poco, Bagehot nel suo saggio su The English Consti-

tution), giocava a Torino un ruolo politico attivo, specie nelle materie che rimasero indiscu-

tibilmente di prerogativa regia: non può trascurarsi, a tal riguardo, la sostituzione del Ca-

vour con il La Marmora nel secondo semestre del 1859, in seguito al dissenso manifestato

dal primo nei confronti della scelta di Vittorio Emanuele II di firmare con l’Austria

l’armistizio di Villafranca.

In secondo luogo, su un piano eminentemente giuridico il rapporto fiduciario che legava

il Cabinet londinese con la House of Commons poteva solo approssimativamente essere

paragonato a quello instauratosi tra il Governo sardo e la Camera dei deputati: tecnica-

mente, infatti, non era dato parlare di un rapporto di fiducia, bensì – al più – di una non-

sfiducia, prescindendosi dalla sussistenza di un appoggio parlamentare esplicito al mini-

stero e facendo comunque salva la possibilità per i deputati di manifestare un dissenso

che, vista l’opzione operata in termini di fonte di legittimazione del Governo, non poteva

che essere pregiudicante per il perdurare nella carica della compagine ministeriale (come

si ebbe a constatare in occasione della c.d. «crisi Calabiana» del 1855, allorché

l’opposizione al disegno di legge sulla soppressione degli ordini religiosi costrinse Cavour

alle dimissioni, dimissioni cui seguì, dopo una settimana, un nuovo incarico allo statista,

una volta riscontrata l’impossibilità di convogliare su altri esponenti politici il sostegno della

maggioranza dei deputati).

Del modello britannico non si recepiva, infine, neppure l’idea di un confronto tra forze

politiche alternativamente investite delle responsabilità di Governo. L’avvertita necessità di

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puntellare la legittimazione del Governo al di fuori di ogni tutela dinastica si tradusse, infat-

ti, nel tentativo, riuscito, di dar corpo, con il c.d. «connubio» tra la Destra moderata cavou-

riana e la Sinistra riformatrice guidata da Urbano Rattazzi, ad una vasta maggioranza poli-

tica che, nell’occupare il centro dello schieramento, si poneva come forza egemone in se-

de parlamentare (tagliando fuori le ali estreme di sinistra e di destra) e come base di rife-

rimento sicura per il Governo, al riparo dai rischi insiti in un appoggio numericamente esi-

guo da parte dei deputati.

Un possibile argine posto all’azione governativa avrebbe potuto essere quello costituito

dal Senato regio, il quale, per le sue modalità di composizione, pareva assai poco adattar-

si al mutato contesto istituzionale. Anche da questo punto di vista, tuttavia, l’età cavouria-

na segnò un momento di svolta, attraverso l’affermazione del principio secondo cui la no-

mina a senatore era solo formalmente riconducibile al Monarca, spettando però la decisio-

ne, sul piano sostanziale, al Governo (e, in primis, al Presidente del Consiglio). Ottenuta

questa prerogativa, il Presidente del Consiglio seppe farne un uso consono ai propri fini (in

ciò largamente imitato dai successori), procedendo alle c.d. «infornate», cioè a nomine di

esponenti vicini al ministero, in numero tale da neutralizzare l’eventuale opposizione della

camera alta. La mancata previsione di un numero massimo di senatori e la relativa libertà

nella scelta dei designabili (dovuta alla genericità dei requisiti richiesti) resero possibile

una prassi di questo tipo, che, nel rafforzare invariabilmente il Governo, non mancò, tutta-

via, di dimidiare il ruolo politico (e, in ultima analisi, la legittimazione) del Senato.

Proprio l’assenza di efficaci contropoteri di origine parlamentare disegnò un sistema in

cui il circuito Governo – Parlamento vedeva una preminenza del secondo che era esclusi-

vamente formale, il primo organo assumendo dunque una posizione di assoluta centralità.

D’altra parte, un contributo fondamentale al fine di rendere il rapporto fortemente sbilancia-

to fu giocato dal potere di scioglimento della Camera dei deputati, che il Governo sovente

impiegò (recte, riuscì a far impiegare da parte del Re) come minaccia al fine di rendere

«mansueta» una assemblea dei deputati che si mostrasse recalcitrante su alcuni provve-

dimenti.

Ciò detto sul piano dei rapporti tra esecutivo e legislativo, non stupisce che il Governo,

in quanto tale, assumesse connotati di autonomia sempre più marcati rispetto al Re, ben

rappresentati da quei casi in cui il Cavour sentì di potersi confrontare con Vittorio Emanue-

le II, propugnando visioni politiche anche profondamente divergenti (è emblematica, in tal

senso, ancora la «crisi Calabiana», in cui l’opposizione al disegno di legge governativo

trovò un convinto riscontro nel volere del Monarca). Le divergenze videro non di rado pre-

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valere il Presidente del Consiglio (che, non a caso, in nove anni restò escluso dal Governo

per soli sei mesi), tanto da far comprendere il lapsus in cui il Cavour incorse quando, du-

rante la Seconda guerra di indipendenza, ebbe ad esclamare: «il re? Il vero re sono io!»

(l’episodio è ricordato da MARTUCCI).

Questa esclamazione è di per sé significativa non solo ai fini della ricostruzione dei rap-

porti tra Corona e Governo, ma anche per chiarire quali fossero i rapporti interni alla com-

pagine ministeriale, nella quale la preminenza di Cavour appariva incontestata, in ragione

del carisma dell’uomo politico e del suo essere il vero leader della maggioranza parlamen-

tare, ma anche in conseguenza delle scelte operate in sede di formazione dei governi, tutti

caratterizzati dalla presenza di un buon numero di uomini direttamente collegati al Presi-

dente del Consiglio e dall’assunzione da parte di quest’ultimo dell’interim di alcuni ministe-

ri-chiave, onde corroborare con tali «portafogli» la primazia assicurata dalla presidenza del

collegio. Il concorrere di tutti questi elementi stenterà a riproporsi nelle esperienze di go-

verno successive alla prematura morte di Cavour, all’indomani dell’unità (6 giugno 1861).

b) Contrariamente a quanto avvenuto nel decennio precedente, gli anni sessanta del

XIX secolo si caratterizzarono per una forte instabilità ministeriale, derivante principalmen-

te dall’assenza di un capo riconosciuto della maggioranza dei deputati. La scelta dei pre-

sidenti del Consiglio da parte del Re cadde, per lo più, su esponenti della Destra, che rap-

presentava, non solo la forza politica numericamente più cospicua, ma anche la compagi-

ne che più adeguatamente garantiva il rispetto delle istituzioni monarchiche (alcuni settori

della Sinistra mostrando una certa contiguità con i repubblicani).

Nel rapido succedersi dei governi, tuttavia, non mancarono gli incarichi affidati a uomini

della Sinistra moderata (Urbano Rattazzi fu per due brevi periodi a capo del Governo), ma

– ciò che più conta – non mancarono i c.d. «governi del Re», governi, cioè, che – come

era avvenuto sovente in epoca pre-cavouriana, ed ancora nel 1859 – non poggiavano la

propria legittimazione su una salda maggioranza parlamentare, bensì sul pilastro dinastico

(o sul c.d. «partito di corte»): tali, ad esempio, furono il secondo Governo del generale La

Marmora ed il Governo del generale Menabrea, due dei gabinetti più longevi del periodo (il

primo durò in carica quasi due anni, tra l’autunno 1864 e l’estate 1866, ed il secondo supe-

rò il biennio, tra la fine del 1867 e tutto il 1869).

Questa tipologia di governi suggerisce una riacquisita centralità del Re nel quadro isti-

tuzionale, centralità ulteriormente testimoniata dai casi di «revoca» del Presidente del

Consiglio (si pensi al Governo Minghetti, nel 1864) e da una spiccata inclinazione alla no-

mina alla Presidenza di personalità vicine alla Corona (il riferimento va, in particolare, ai

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due governi presieduti da Rattazzi, nel 1862 e nel 1867), nonché da qualche intervento di-

retto nei lavori parlamentari (si noti che durante il periodo di governo di Menabrea si ebbe

l’unico caso di rifiuto della sanzione regia di una legge, nella fattispecie riguardante la con-

cessione della cittadinanza italiana agli italiani residenti nei territori peninsulari non ancora

posti sotto la sovranità del Regno d’Italia).

Al ritorno della compagine ministeriale sotto l’egida della monarchia si associò un depo-

tenziamento della figura del Presidente del Consiglio. Privi del carisma di Cavour, quei ca-

pi del Governo che cercarono di emanciparsi dalla tutela della Corona perseguirono il di-

segno di normativizzare la loro preminenza all’interno del Consiglio dei ministri, ispirando-

si, ancora una volta, al modello britannico. A riuscire nell’intento fu Ricasoli, il quale, nella

sua seconda esperienza governativa, fece approvare il regio decreto 27 marzo 1867, n.

3629, sulle attribuzioni del Presidente del Consiglio. Il decreto ebbe tuttavia vita breve:

emanato quasi al termine dell’esperienza governativa del barone toscano, il decreto venne

prontamente abrogato sotto il Governo successivo, quello di Rattazzi (sarà poi largamente

riesumato da Depretis nel 1876).

Sul finire degli anni sessanta, dopo la caduta del Governo Menabrea, il sistema tornò a

strutturarsi secondo forme più prossime a quelle di un governo parlamentare. Ciò avvenne

allorché il Re designò, nel 1869, alla guida del gabinetto Lanza, il leader parlamentare del-

la Destra dopo la morte di Cavour. Il nuovo Governo, nel quale si segnalò soprattutto il Mi-

nistro delle finanze, Quintino Sella, per la sua politica di risanamento dei conti pubblici, si

trovò a gestire con successo l’occupazione di Roma e, anche grazie ai buoni risultati ma-

croeconomici, ottenne un discreto successo elettorale, nel 1870, tanto da esser conferma-

to in carica fino all’estate 1873. In questo periodo, terminata la fase dell’emergenza dovuta

al succedersi degli episodi bellici finalizzati alla completa unificazione del territorio italiano,

fu più agevole procedere ad una certa rivitalizzazione dell’istituzione parlamentare, dalla

quale il gabinetto traeva la propria legittimazione, nell’ottica di una dialettica sempre più vi-

va tra la Destra al potere e la Sinistra all’opposizione, ma in costante crescita di consensi.

Un voto contrario al Governo su un disegno di legge in materia di oneri fiscali segnò la

caduta del ministero Lanza, al quale subentrò un altro esponente della Destra, Minghetti

(alla sua seconda esperienza come capo del Governo). Sarebbe stato l’ultimo Presidente

del Consiglio espresso dalla Destra storica prima del 1891.

c) Il voto del 18 marzo 1876, con cui la Camera respinse una proposta governativa, in-

nescò l’avvicendamento al potere tra la Destra e la Sinistra storica, guidata da Depretis.

Questo ribaltamento dei ruoli tra la maggioranza e l’opposizione è stato sovente definito

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dalla trattatistica come la manifestazione di una «rivoluzione parlamentare». L’utilizzo di

questa espressione non pare, tuttavia, condivisibile. Ciò per una molteplicità di argomenti:

in primo luogo, la Sinistra, sebbene episodicamente, già aveva rivestito, con alcuni suoi

esponenti, responsabilità ministeriali, ed il suo leader, Rattazzi, aveva addirittura ricoperto

la suprema carica governativa; in secondo luogo, l’idea di «rivoluzione» sarebbe forse sta-

ta idonea ad illustrare un ipotetico avvicendamento compiuto quando la Sinistra era anco-

ra maggioritariamente attestata su posizioni mazziniane (o comunque anti-monarchiche),

ma non lo era più nel 1876, quando cioè poteva dirsi compiuta ormai da tempo una piena

accettazione dei postulati statutari (paradigmatico, in tal senso, può essere l’abbandono

della pregiudiziale anti-monarchica del garibaldino Crispi, risalente al 1865).

Certo, sulla Sinistra erano state convogliate diffuse istanze di rinnovamento (ben corri-

sposte dal discorso di Depretis tenuto a Stradella nel 1875), le quali, però, si inquadravano

nell’ambito di una normale alternanza tra schieramenti politici, già ampiamente sperimen-

tata in altri ordinamenti (e segnatamente in quello britannico): a fugare ogni dubbio in tal

senso poteva essere addotta la sostanziale omogeneità della base sociale della Sinistra

rispetto a quella della Destra.

Da queste considerazioni non può, però, trarsi l’impressione di una piena continuità tra

il Governo Minghetti ed il Governo Depretis. A cambiare erano, innanzi tutto, gli uomini:

l’avvento al potere della Sinistra segnò da questo punto di vista una cesura, ché pose in

primo piano una classe politica che non era più fondamentalmente ancorata, come la De-

stra, al notabilato piemontese, ma che, viceversa, era maggiormente rappresentativa

dell’intero territorio nazionale e che proveniva da esperienze politiche assai eterogenee (vi

figuravano mazziniani e garibaldini, liberali e radicali, etc.). Ma a cambiare era, soprattutto,

il rapporto con la Corona: definitivamente accettato sul piano costituzionale, l’istituto mo-

narchico veniva osservato con un certo distacco e nella prospettiva di una chiara delimita-

zione di quali fossero le attribuzioni del Re rispetto a quelle del Governo, onde scongiurare

ogni ingerenza di quello negli affari di questo. Almeno per un decennio, Depretis e gli altri

esponenti della Sinistra non manifestarono esitazioni nel riconoscere nella (sola) Camera

dei deputati la fonte di legittimazione del proprio potere, superando in tal modo i tenten-

namenti che sul punto avevano caratterizzato la Destra nel periodo post-unitario.

Proprio al fine di rendere evidente l’autonomia del Governo dalla tutela dinastica, De-

pretis pose sin da subito il problema della preminenza del Presidente del Consiglio sugli

altri ministri, nell’ottica del mantenimento di un indirizzo politico unitario. Il problema non

appariva di agevole soluzione, per quanto fosse indiscutibilmente in Depretis che la nuova

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maggioranza riconosceva il leader: la Sinistra si presentava, infatti, non come un partito

nel senso moderno del termine, e neppure come un gruppo politico dotato di una certa co-

esione, bensì come un insieme di «circoli» di deputati, più o meno ampi, ciascuno facente

capo ad uno degli esponenti più eminenti (Depretis, Cairoli, Zanardelli, Crispi, Nicotera,

etc.).

Alla luce di ciò, il Presidente del Consiglio era chiamato a mediare tra le diverse com-

ponenti della sua maggioranza, cercando un equilibrio che gli garantisse l’appoggio del più

ampio numero di parlamentari. In quest’opera di mediazione rientravano, ovviamente, an-

che le designazioni ministeriali, le quali vennero indirizzate ai vari leaders, onde compatta-

re la maggioranza della Camera dei deputati (per il Senato lo strumento impiegato fu quel-

lo, ormai consueto, delle «infornate»). Ne derivò una accentuata «ministerializzazione» del

Governo, particolarmente difficile da gestire allorché uno dei titolari di dicastero propu-

gnasse una politica di forte autonomia dal Consiglio dei ministri (il caso forse più noto – e

più significativo – fu quello di Nicotera al Ministero degli interni).

In un contesto siffatto, neppure l’emanazione del regio decreto 25 agosto 1876, n. 3289,

che recuperava, peraltro edulcorandolo, quello fatto emanare da Ricasoli sulle attribuzioni

del Presidente del Consiglio, poteva garantire una reale unitarietà dell’indirizzo politico go-

vernativo, e ciò nonostante il chiaro disposto dell’art. 5, ai termini del quale «il Presidente

del Consiglio rappresenta[va] il Gabinetto, [manteneva] la uniformità nell’indirizzo politico e

amministrativo di tutti i ministri, e cura[va] l’adempimento degli impegni presi dal Governo

nel discorso della Corona, nelle sue relazioni col Parlamento e nelle manifestazioni fatte al

paese»: il capo del Governo restò sempre un primus inter pares, legato ai ministri, non so-

lo (e non tanto) dalla contiguità politica, ma anche (e, almeno in certi casi, soprattutto) da

rapporti che potremmo definire «di scambio» (da un lato l’attribuzione del dicastero,

dall’altro l’appoggio parlamentare dei deputati fedeli al beneficiario).

La logica aggregativa non risparmiò neppure l’opposizione. Lo stesso Depretis non esi-

tò ad accettare i voti dei deputati della Destra, rilevando come non potesse escludersi che

questo comportamento derivasse da una loro «intima trasformazione». Nasceva, così, il

c.d. «trasformismo», cioè la pratica di coinvolgere nella politica governativa – secondo

moduli in certa parte riecheggianti il «connubio» cavouriano – quei deputati

dell’opposizione che accettassero di condividere le sorti del ministero in carica.

La pratica trasformistica, che ben presto si generalizzò, comportò come conseguenza la

formazione di un vasto schieramento che, da posizione mediana, garantiva al Governo un

appoggio molto ampio, disinnescando le istanze più radicali provenienti dalla destra cleri-

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co-reazionaria e dalla sinistra anti-sistema.

Questo modo di concepire la dialettica politica pervase a tal punto le istituzioni che di-

venne arduo discernere tra maggioranza ed opposizione finanche nel momento elettorale.

Sin dal 1848, il sistema elettorale adottato era stato quello del collegio uninominale a dop-

pio turno, che si riteneva che avesse il pregio di selezionare le personalità migliori, nel

quadro di una competizione nella quale i gruppi politici si confrontavano per il tramite dei

notabili locali. Con la riforma del 1882, che estendeva sensibilmente il diritto di elettorato

attivo (v. supra), si modificò anche il sistema elettorale, abbandonando il collegio uninomi-

nale a beneficio di uno scrutinio di lista nell’ambito di collegi plurinominali. L’innovazione,

che nelle intenzioni avrebbe dovuto intaccare il potere del notabilato locale, venne in molti

casi utilizzata, in assenza di strutture partitiche stabili, per proporre in sede elettorale quel-

le combinazioni tra esponenti politici di orientamenti diversi, accomunati sotto un’unica li-

sta, potenzialmente in grado di marginalizzare ulteriormente le minoranze esistenti nel

Parlamento. Il controllo governativo sull’andamento delle consultazioni, già sperimentato

nel periodo precedente, ma divenuto particolarmente accentuato dopo le elezioni del

1876, contribuì, non senza violenze e brogli, ad assicurare alla compagine trasformistica

un notevole successo.

La perdurante egemonia sul piano parlamentare assicurò al Governo un costante mar-

gine di autonomia dalla Corona. La frammentarietà della maggioranza, tuttavia, non con-

sentì una stabilizzazione ministeriale; anzi, la crisi di governo finì per essere essa stessa

utilizzata in chiave tattica: così, se i primi governi Depretis, con i due intermezzi dei gover-

ni formati da Cairoli (nel 1878 e tra la metà del 1879 e la metà del 1881), caddero tutti a

seguito di voti contrari da parte della Camera dei deputati, i cinque governi ininterrotta-

mente guidati da Depretis tra il 1881 ed il 1887 (al momento della sua morte) caddero tutti

per crisi c.d. «extraparlamentari», derivanti principalmente dalla decisione del Presidente

del Consiglio di innescare la crisi per sostituire ministri scomodi o per far fronte – eluden-

dole – a difficoltà riscontrate in Parlamento.

Questa prassi, che assicurò a Depretis una longevità politica inusitata, avrebbe, a lungo

andare, contribuito a delegittimare non solo la classe politica, ma finanche l’istituto parla-

mentare. La fase che si aprì nel 1887 lo dimostrò ampiamente.

(3) La fase della svolta autoritaria. – Alla morte di Depretis, il Re Umberto I (succeduto,

nel 1878, al padre Vittorio Emanuele II) designò alla Presidenza del Consiglio, nel segno

della più compiuta continuità, Francesco Crispi, Ministro dell’interno in carica.

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L’ascesa di Crispi segnò tuttavia una svolta nell’evoluzione della forma di governo. Il

nuovo Presidente del Consiglio, infatti, sebbene provenisse dall’area politica depretisiana

ed avesse sovente assunto nel decennio precedente responsabilità ministeriali, mostrò o-

rientamenti istituzionali profondamente diversi dal suo predecessore.

Scarsa era la propensione di Crispi per la mediazione politica di cui Depretis era stato

maestro e non maggiore era la sua considerazione per quel circuito rappresentativo che,

nella ricerca defatigante di equilibri tra le varie fazioni, aveva condannato il sistema ad un

certo quale immobilismo, tradottosi, a sua volta, in una almeno parziale delegittimazione

del Parlamento agli occhi dell’opinione pubblica e, soprattutto, in una ritenuta inefficienza

nel difendere le conquiste risorgimentali contro l’incipiente eversione «rossa» (socialista) e

«nera» (anarchica).

Il contesto generale, unitamente alle convinzioni personali, condussero dunque Crispi a

perseguire una politica che, lungi dall’appiattirsi su una gestione degli affari concentrata

sulla «ordinaria amministrazione», si connotasse per i suoi tratti fortemente «decisionisti»,

prospettando una serie di riforme che contribuissero a rendere lo Stato più forte.

Per far ciò, egli non si esitò a ricercare un esplicito appoggio da parte della Corona, re-

legata a partire dal 1876 ai margini del quadro istituzionale: accreditandosi come «uomo

forte», Crispi fece così leva sul Re, ridimensionando il ruolo della Camera dei deputati e

cercando direttamente nell’opinione pubblica un avallo per la propria politica.

Ne derivò un ritorno a moduli istituzionali ormai un po’ desueti, che riecheggiavano gli

equilibri disegnati dalla lettera dello Statuto, attraverso una netta separazione tra il potere

legislativo ed il potere esecutivo, nel quale ultimo il Presidente del Consiglio assumeva

(recte, conservava e rafforzava) la centralità operativa, ma nel quale, al contempo, il Re

veniva reintegrato a pieno titolo. Il discorso che Crispi pronunciò l’8 dicembre 1887, pochi

mesi dopo la sua investitura, alla Camera dei deputati può essere considerato, a tal ri-

guardo, un chiaro manifesto della sua politica istituzionale: «secondo lo Statuto vi è un

Parlamento ed un potere esecutivo. Capo del potere esecutivo come Capo dello Stato è il

Re il quale nomina e revoca i Ministri, sanziona le leggi ed i decreti per l’esecuzione delle

medesime. Il potere esecutivo è quindi una istituzione statutaria. E come i due rami del

Parlamento, il Senato e la Camera, hanno il diritto di riordinarsi e di determinare le loro at-

tribuzioni come meglio credono, il Re Capo del potere esecutivo, Capo dello Stato, ha il di-

ritto di ordinare il potere esecutivo e di fissare le attribuzioni dei Ministri».

Nei fatti, l’idea della tendenziale separazione tra i poteri giocò tutta a favore

dell’esecutivo, che condusse una politica spesso indipendente dalla volontà parlamentare,

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contribuendo a menomare ulteriormente il prestigio della Camera dei deputati. Così,

quando un voto contrario su taluni provvedimenti finanziari condusse alla caduta del se-

condo Governo Crispi (il primo era caduto per ragioni analoghe), l’iniziativa nella scelta del

nuovo Presidente del Consiglio ricadde essenzialmente sul Re, il quale designò, all’inizio

del 1891, il marchese di Rudinì, un esponente della Destra.

Il nuovo Governo sembrò formalmente restaurare l’autorità del Parlamento, attraverso

un più aperto dialogo tra la maggioranza dei deputati ed il Gabinetto. Ne è una dimostra-

zione, probabilmente, l’abbandono (con la legge 5 maggio 1891) del sistema elettorale a

scrutinio di lista (molto criticato per le degenerazioni cui aveva dato luogo) ed un ritorno al

collegio uninominale.

Sul piano politico, tuttavia, l’azione dell’esecutivo si caratterizzò in senso marcatamente

conservatore, concentrata in modo pressoché esclusivo sul risanamento dei dissestati

conti pubblici. A tal fine, di Rudinì propugnò una riduzione delle spese militari, ponendosi

in aperto con gli ambienti vicini alla Corona: l’avvenuto recupero da parte di quest’ultima di

un ruolo centrale nella forma di governo fu testimoniato dalla circostanza che il contrasto

insorto costrinse il Presidente del Consiglio alle dimissioni a poco più di un anno dalla sua

designazione.

Gli successe Giovanni Giolitti, un uomo «nuovo» (nel senso che la sua esperienza poli-

tica non affondava le proprie radici nel Risorgimento). Esponente della Sinistra liberale,

Giolitti formò un Governo connotato, sul piano sociale, in senso riformatore e progressista,

e, sul piano politico, teso a circoscrivere le inframmettenze della Corona. Un grave scan-

dalo bancario travolse, però, dopo solo un anno, questa esperienza ministeriale, riaprendo

la strada della Presidenza del Consiglio a Crispi.

Nella sua nuova esperienza, lo statista siciliano, chiamato a confrontarsi con i crescenti

disordini sociali (il riferimento è, in primo luogo, ai c.d. Fasci siciliani ed ai moti in Lunigia-

na), radicalizzò gli orientamenti politici che erano stati tipici del suo primo periodo di go-

verno. In particolare, quella che era stata una scarsa attenzione nei confronti del Parla-

mento divenne una politica tesa a tacitarlo: approfittando del funzionamento (non continuo,

ma) per sessioni, Crispi indusse il Re a chiudere o a prorogare (id est, aggiornare ad altra

data) le sessioni parlamentari nelle quali l’oggetto di discussione potesse mettere in diffi-

coltà l’esecutivo, riconvocando le Camere anche dopo alcuni mesi, o magari sciogliendole

e ricorrendo così a nuove elezioni. La combinazione di tutti questi strumenti raggiunse, in

certi frangenti, un effetto di blocco pressoché totale dell’attività parlamentare. Ad esempio,

il 23 luglio 1894 venne chiusa la prima sessione della XVIII legislatura; la seconda sessio-

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ne, convocata per il 3 dicembre, venne prorogata al 15; dopo undici sedute della Camera

dei deputati e cinque del Senato, la sessione venne chiusa, il 13 gennaio 1895; l’8 maggio

successivo intervenne il decreto di scioglimento della Camera, che consentì una ripresa

dei lavori parlamentari solo il 10 giugno, dopo le elezioni: in oltre dieci mesi, l’assemblea

elettiva aveva tenuto solo undici sedute!

Sostanzialmente costretto il Parlamento al silenzio, Crispi si mosse esclusivamente con

l’appoggio del Re, propugnando una politica che – per la netta avversione ad ogni istanza

sociale «progressiva», per l’espansionismo coloniale, per la ricerca di un consenso

dell’opinione pubblica direttamente sulla sua persona –, da «decisionista» che era stata tra

i 1887 ed il 1891, andò avvicinandosi sempre più ad una larvata dittatura personale.

La disfatta di Adua, nella guerra contro l’Impero etiope, obbligò un Crispi ormai delegit-

timato socialmente e politicamente a rassegnare le sue dimissioni (5 marzo 1896).

A subentrargli fu, nuovamente, il marchese di Rudinì, che ripropose, almeno inizialmen-

te, un programma largamente analogo a quello presentato cinque anni prima.

Sebbene anche il Governo di Rudinì fosse stato emanazione principalmente del Re, il

Parlamento venne reintegrato nelle sue prerogative: il primo atto del nuovo gabinetto fu in-

fatti quello di presentarsi di fronte alle Camere per discutere circa la strategia da seguire

nel negoziato con il Negus etiope per la pace, da condurre «con prudenza e con fierezza,

ma soprattutto con la ferma risoluzione di respingere qualsiasi proposta non confacente al

nostro decoro».

Per marcare ulteriormente il distacco rispetto al Governo Crispi, di Rudinì giunse persi-

no a provocare un voto di condanna contro il suo operato da parte della Camera dei depu-

tati.

Sul piano politico generale, peraltro, il nuovo esecutivo non si differenziava in modo

sensibile dal precedente, accentuandone anzi gli aspetti conservatori. La deflagrazione di

una vasta ondata di insurrezioni traghettarono il Governo dalla conservazione alla più a-

spra reazione, innescando una ondata di repressioni di violenza inusitata.

In questo contesto, la debolezza del Parlamento, ancora fortemente segnato dalle me-

nomazioni subite negli anni precedenti, non consentì una gestione equilibrata della crisi,

lasciandone al Governo (ed al Re) l’intera responsabilità. Non stupisce, allora, che proprio

in questi anni venisse proposta con forza, da uno dei leaders della Destra, Sonnino

(1897), l’idea di «tornare indietro», di tornare, cioè, ad una forma di governo aderente alla

lettera dello Statuto albertino: le degenerazioni del sistema, imputate al parlamentarismo

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inveratosi nella prassi, si riteneva che potessero essere arginate attraverso un recupero

del ruolo della Corona nell’ambito di un regime monarchico-costituzionale.

L’invito a «tornare allo Statuto» fu raccolto da di Rudinì quando, superando le resistente

del Parlamento, proseguì nell’azione repressiva, appoggiandosi integralmente sull’esercito

e proponendo al Re lo scioglimento della Camera dei deputati, alla ricerca di una vittoria

elettorale che corroborasse la propria politica.

Resosi probabilmente conto della sua impraticabilità, Umberto I si ritrasse da questa

operazione, che avrebbe segnato una rottura definitiva degli schemi invalsi nella costru-

zione della forma di governo. Di Rudinì, sfiduciato dalla Corona, non poté allora che dimet-

tersi.

Nella ricerca di una pacificazione politica, il Re chiamò al Governo il generale Pelloux,

gradito sia agli ambienti di corte sia, per le simpatie di Sinistra che gli sia attribuivano, ad

una parte consistente dei deputati.

Durante il primo anno di governo, Pelloux condusse, in effetti, una politica tesa a mitiga-

re gli eccessi reazionari del ministero precedente, rinunciando, tra l’altro, a quei disegni di

legge «liberticidi» che erano stati presentati da di Rudinì.

Tornato un clima di pace sociale, Pelloux ritenne però giunto il momento di dotare il Go-

verno di una serie di poteri che gli avrebbero consentito di reagire efficacemente contro

eventuali nuovi moti di protesta. Fu così che nel maggio 1899 varò un nuovo Governo, for-

temente orientato a destra, e riprese quei disegni di legge «liberticidi» lasciati languire in

Parlamento per oltre un anno. Lo scontro parlamentare che su di essi si accese, con

l’ostruzionismo dell’Estrema via via propagatosi a buona parte della Sinistra, non poté es-

sere domato neppure attraverso riforme del regolamento della Camera (ché, anzi,

l’ostruzionismo si spostò su di esse). L’estremo tentativo di forzare la mano con

l’emanazione degli atti nella forma del decreto soggetto a mera conversione da parte delle

Camere convinse definitivamente dell’esistenza di un tentativo di «colpo di stato» in senso

autoritario.

Nell’impossibilità di ricondurre il Parlamento ad una linea di obbedienza nei confronti

dell’esecutivo, Pelloux giocò l’ultima carta, quella elettorale. La sconfitta patita dal Governo

in carica rese sostanzialmente obbligate le sue dimissioni. Poco più di un mese dopo, il 29

luglio 1900, il regicidio simboleggiava la chiusura definitiva della c.d. «crisi di fine secolo»

e l’apertura di una fase nuova, nella quale il Parlamento, rinvigorito dalla battaglia condotta

contro i governi reazionari, sarebbe tornato a giocare un ruolo di primo piano.

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(4) La fase della «seconda parlamentarizzazione». – All’indomani delle elezioni del

1990, venne incaricato della formazione del Governo il senatore Saracco, che coalizzò in-

torno a sé una maggioranza piuttosto eterogenea, legata principalmente dalla necessità di

intraprendere un’azione politica volta a segnare una cesura netta rispetto alle più recenti

esperienze.

Privo di un sostegno convinto da parte di molti deputati pure formalmente ascrivibili alla

maggioranza, il Governo Saracco venne ben presto sfiduciato, nel febbraio 1901, dalla

Camera dei deputati, in ragione della politica, ritenuta troppo conservatrice, seguita in oc-

casione di alcune agitazioni promosse dalle organizzazioni operaie e sindacali.

Il Re Vittorio Emanuele III chiamò allora alla Presidenza del Consiglio uno dei più auto-

revoli leaders della Sinistra liberale, Zanardelli, considerato – per il suo passato e per le

posizioni espresse nel corso della crisi di fine secolo – un efficace garante della reale a-

pertura delle istituzioni in senso progressista. Al Governo partecipava, come Ministro

dell’interno, Giolitti, destinato ad ispirare molte delle scelte più caratterizzanti del nuovo

gabinetto.

Oltre all’impostazione di alcune delle riforme sociali che caratterizzeranno anche gli an-

ni successivi (e sulle quali già ci si è soffermati in sede di analisi della forma di Stato), il

ministero Zanardelli-Giolitti si segnalò per il perseguimento di un’azione volta, da un lato, a

riproporre il Parlamento quale base della legittimazione del Governo e, dall’altro, a poten-

ziare (grazie, in particolare, al regio decreto 14 novembre 1901, n. 466), il ruolo, all’interno

dell’esecutivo, del Presidente del Consiglio, circoscrivendo le possibilità di intervento della

Corona, cui venne almeno in parte sottratta finanche la tradizionale prerogativa concer-

nente le designazioni dei ministri della guerra, della marina e degli esteri.

Il Governo, dopo alcuni momenti di difficoltà in Parlamento, dovuti alla presentazione di

un disegno di legge che introduceva il divorzio, ebbe una vita relativamente lunga, sino a

quando, nell’ottobre 1903, la malattia dell’anziano Presidente del Consiglio condusse alle

dimissioni dell’intero gabinetto, favorendo in tal modo la nomina di Giolitti.

Prendeva così avvio il periodo comunemente definito come l’«età giolittiana», a testi-

monianza della preminenza dello statista piemontese nel panorama politico italiano.

Confermando gli orientamenti di fondo, sul piano sociale e su quello istituzionale, del

ministero Zanardelli, Giolitti manifestò una chiara propensione a fare della Camera dei de-

putati il centro del proprio potere, all’uopo giovandosi della sua posizione di leader ricono-

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sciuto da parte della maggioranza e, per altro verso, dell’atteggiamento scarsamente incli-

ne all’intervento diretto sulla scena politica con il quale il giovane Re Vittorio Emanuele III

evidenziò una netta differenziazione rispetto alle velleità paterne.

La politica giolittiana non rappresentò, peraltro, la semplice riproposizione dei moduli i-

stituzionali propri di una nuova «parlamentarizzazione». Furono, infatti, almeno due i profili

di novità significativi rispetto alle esperienze del passato.

Innanzi tutto, il primo decennio del Novecento vide una forte crescita della presenza

pubblica nell’ambito delle attività economiche e nella società civile. Ciò comportò, da un

lato, la necessità di una maggiore «tecnicizzazione» del dibattito politico e, dall’altro, uno

strutturarsi del sistema in modo tale da garantire alla politica un primato

sull’amministrazione. Entrambi questi fattori condussero ad uno spostamento del baricen-

tro del potere decisionale dalla Camera dei deputati al Governo, unico organo capace di

gestire concretamente l’interventismo statale. Questo spostamento, inizialmente agevolato

dalla posizione di preminenza di Giolitti nell’ambito dello schieramento politico liberale, finì

per essere, a sua volta, uno dei fattori che più incisivamente contribuirono a concentrare

sul Presidente del Consiglio un coefficiente di potere difficilmente riscontrabile in epoche

passate.

Un secondo fattore di novità – probabilmente il principale – fu costituito dall’apertura

programmatica che Giolitti perseguì a più riprese verso le forze politiche espressione delle

classi popolari. Il riconosciuto fallimento delle precedenti politiche di chiusura nei confronti

del Partito socialista (e delle altre forze dell’Estrema) indusse Giolitti, sin dal suo primo in-

carico, a cercare di far entrare nella compagine governativa gli esponenti socialisti e radi-

cali più lontani dalle posizioni massimaliste. Il tentativo non riuscì, o meglio non riuscì del

tutto, dal momento che l’inserimento nel Governo fu possibile solo per alcuni politici di ma-

trice radicale e, comunque, in modo sovente transitorio. Ciò nondimeno, si manifestarono,

nel corso degli undici anni in cui Giolitti fu al potere, frequenti aperture da sinistra a pro-

grammi di governo che si presentassero come particolarmente avanzati. In quest’ottica, un

ruolo certo non secondario sarebbe stato giocato dall’allargamento del suffragio del quale

Giolitti fu decisivo propugnatore, constatata la sua ineluttabilità al fine di far corrispondere

le istituzioni ad una società civile che, anche grazie al periodo di notevole sviluppo eco-

nomico, troppo era cambiata per continuare ad essere rappresentata nelle forme ristrette

disegnate dal legislatore del 1882.

Altra caratteristica dell’età giolittiana, che contribuì a renderla profondamente diversa da

tutte le altre, fu la relativa stabilità di governo. Giolitti guidò, infatti, il gabinetto per periodi

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piuttosto lunghi: dal novembre 1903 al marzo 1905, dal maggio 1906 al dicembre 1909 (il

c.d. «lungo ministero», secondo solo – tra quelli post-unitari – a quello guidato da Lanza) e

dal marzo 1911 al marzo 1914. Ma anche nei periodi in cui lo statista di Dronero non fu a

capo del Governo, fu in lui che la maggioranza parlamentare riconobbe il proprio leader

indiscusso, e ciò non solo quando il gabinetto fu guidato da uomini di sua fiducia (come

Fortis, tra il 1905 ed il 1906, e come Luzzatti, tra il 1910 ed il 1911), ma anche, per certi

versi, durante le due effimere esperienze (entrambe di circa cento giorni) del suo più fiero

avversario, Sonnino (nel 1906 e tra il 1909 ed il 1910).

Nella prassi istituzionale, non mancarono, peraltro, alcuni elementi tali da avvicinare

l’età giolittiana ad altri periodi della storia costituzionale del Regno d’Italia. Si riproposero,

in particolare, alcune caratteristiche che erano state proprie della prima fase dei governi

della Sinistra storica.

Tra queste, può segnalarsi il ritorno su un tema invero piuttosto ricorrente, vale a dire

quello della opportunità o meno di procedere alla riforma del Senato regio, onde restituirgli

un peso che la inveterata consuetudine alle «infornate» aveva grandemente limitato.

L’argomento, caro a buona parte dei maggiori esponenti della Sinistra, venne ripreso sul

finire del primo decennio del Novecento, in non casuale connessione con la prospettata in-

troduzione del suffragio (quasi-)universale maschile: l’idea di rendere elettiva anche la

camera alta era infatti concepita in funzione di precostituire un potenziale argine contro le

temute derive che la camera bassa avrebbe potuto conoscere dopo l’estensione del diritto

di elettorato attivo. Come gli altri progetti che erano stati presentati nel passato, anche

quello elaborato dal costituzionalista Arcoleo conobbe però una sorte assai poco gloriosa,

a ciò contribuendo in maniera decisiva l’atteggiamento del Governo Luzzatti, connotato da

una certa resistenza ad ogni innovazione nella struttura del Senato che avesse possibili

ripercussioni negative sul controllo esercitato dall’esecutivo nei confronti dell’assemblea.

Altro aspetto dell’età giolittiana che può essere validamente comparato con alcuni pe-

riodi precedenti (e segnatamente con quello nel quale Depretis aveva guidato il Governo)

fu il sistematico ricorso a crisi di governo extra-parlamentari. Tra il 1901 ed il 1914, soltan-

to un gabinetto (il primo Governo Sonnino) cadde in seguito ad una esplicita votazione

parlamentare: in tutti gli altri casi (facendo salvo quello, peculiare, del Governo Zanardelli),

si preferì rassegnare le dimissioni con anticipo rispetto ad un voto che avrebbe potuto le-

dere il prestigio politico del destinatario. Giolitti, in particolare, fu sempre particolarmente

attento ad evitare questo tipo di censure, lasciando ad altri un ruolo di primo piano ogni

qual volta la situazione politica lasciasse emergere difficoltà non immediatamente sormon-

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tabili, e giungendo finanche a consigliare al Re la designazione del suo principale avversa-

rio allorché intravedeva l’impossibilità di formare un governo stabile (non a caso, dunque,

Sonnino fu chiamato il ministro «dei cento giorni»).

Gli elementi che, sopra ricordati, possono essere considerati come costanti riscontrabili

in tutto il corso dell’età giolittiana non debbono far pensare ad una tendenziale immobilità

sul piano delle dinamiche insite nella forma di governo. Specie nell’ultimo scorcio di questa

esperienza, infatti, non mancarono avvenimenti destinati ad incidere assai profondamente

sul sistema, nell’immediato ma anche nel periodo successivo. Il riferimento va, per un ver-

so, alla guerra di Libia e, per l’altro, alla prima sperimentazione del suffragio (quasi-

)universale.

Nell’autunno 1911, approfittando della favorevole contingenza internazionale, l’Italia si

impegnò in una guerra contro l’Impero ottomano volta a strappare ad esso la sovranità sul-

la Libia. Le vicende belliche arrisero alle forze italiane, le quali costrinsero l’Impero otto-

mano a sottoscrivere, nell’ottobre 1912, il trattato di pace con il quale si riconosceva la

conquista della colonia nordafricana da parte del Regno.

L’esito della guerra (così come la decisione di scatenarla) rafforzarono notevolmente la

popolarità di Giolitti agli occhi di un’opinione pubblica che vedeva il diffondersi di sentimen-

ti nazionalistici. Questo nuovo successo politico venne ottenuto, tuttavia, seguendo un

modus procedendi considerevolmente diverso rispetto a quello che aveva fino a quel mo-

mento connotato la carriera politica dello statista piemontese. La necessità di dichiarare

guerra «all’improvviso», dopo una serie di preparativi compiuti nella massima riservatezza,

rese indispensabile una azione che non fosse concordata (ma neppure esplicitata) in sede

parlamentare: il Governo (ma, in realtà, il Presidente del Consiglio) doveva agire al di là di

ogni mandato in tal senso proveniente dalla Camera dei deputati, appoggiandosi, dunque,

esclusivamente sulla Corona (peraltro titolare di una prerogativa in materia di politica este-

ra e politica militare che le veniva in tal modo integralmente confermata). Il Parlamento in-

tervenne ex post, essenzialmente per ratificare decisioni già assunte: nell’immediato, le

obiezioni di ordine costituzionale vennero tacitate dal positivo esito del conflitto; nel giro di

qualche tempo, però, il precedente creato si sarebbe dimostrato carico di conseguenze.

L’anno successivo alla fine della guerra di Libia, la Camera dei deputati venne sciolta.

Le elezioni che seguirono furono le prime a svolgersi dopo l’approvazione della legge

sull’allargamento del suffragio maschile. L’estensione del diritto di voto oltre i confini della

classe borghese impose un ripensamento della strategia da condurre in sede di presenta-

zione delle candidature e di campagna elettorale. Fino a quel momento, la ristrettezza del

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circolo degli elettori aveva favorito una identificazione di essi con uno o più notabili locali,

chiara risultando la preponderanza del fattore personale nella scelta dei deputati; con il

mutamento intervenuto a livello giuridico, queste dinamiche erano avvertite come non più

attuali: in particolare, si paventava, da parte dei liberali, l’impatto che avrebbe avuto

sull’elettorato la propaganda condotta da quelle formazioni politiche organizzate e capil-

larmente diffuse sul territorio, prima tra tutte il Partito socialista. I liberali, sotto questo pro-

filo, erano rimasti ancorati alla vecchia logica, vedendosi privi di una organizzazione che

consentisse loro di presentarsi preparati all’allargamento del suffragio. Giolitti, forse più di

altri, se ne rese conto, sebbene ritenesse di poter ovviare alle difficoltà attraverso il suo

prestigio personale, il controllo delle elezioni da parte dell’apparato governativo (secondo

una tradizione non propriamente edificante) e, last but not least, il mantenimento (da lui

tenacemente perorato) del sistema elettorale basato sul collegio uninominale, che più si

confaceva ad una rappresentanza fondata sulle persone piuttosto che ad una scelta veico-

lata dall’adesione ad un partito. Nella strategia giolittiana, doveva poi assumere un ruolo

non secondario il c.d. «patto Gentiloni», contratto tra i liberali e l’Unione cattolica al fine di

far confluire il voto dei cattolici su candidati liberali che si impegnassero in una politica

gradita alle gerarchie ecclesiastiche.

I risultati elettorali dimostrarono quanto il quadro politico fosse cambiato in conseguen-

za dell’allargamento del suffragio: i socialisti passarono da 25 a 50 deputati, i radicali da

50 a 70, i cattolici da 20 a 30; i liberali subirono una sconfitta tutto sommato preventivabile,

e comunque non tale da porre a rischio il perdurare della loro maggioranza, scendendo da

372 a 310 seggi nella Camera dei deputati. Il dato politico più rilevante non fu però quello

dei seggi ottenuti dalle singole formazioni, bensì la rivelazione del «patto Gentiloni», ini-

zialmente destinato a restare segreto, e la stima in base alla quale dei 310 seggi ottenuti

dai liberali, ben 228 erano stati conquistati grazie all’appoggio determinante dei cattolici.

La notizia, che dette la misura reale della crisi della classe politica liberale, ebbe subito

una vasta eco, ponendo in chiara difficoltà il Governo Giolitti, cui venne meno, tra l’altro,

l’appoggio dei radicali. In una situazione che appariva difficile da gestire, il Presidente del

Consiglio rassegnò le sue dimissioni, suggerendo al Re il nome di Sonnino come suo suc-

cessore. Sonnino rifiutò l’incarico, che venne allora conferito a Salandra.

Quella che poteva apparire come una nuova parentesi governativa, dopo le due che

avevano intervallato i ministeri Giolitti, si rivelò, invece, una cesura profonda nella storia

costituzionale. Si chiudeva, infatti, l’età giolittiana.

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(5) La fase della crisi dello Stato liberale. – L’avvicendamento al Governo tra Giolitti e

Salandra precedette di soli pochi mesi l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco

Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria (28 giugno 1914).

Nell’ambito della crisi internazionale che sfociò nella Prima guerra mondale, il Governo

italiano oscillò lungamente tra neutralismo ed interventismo e, se del caso, tra l’entrata in

guerra a fianco degli Imperi centrali (con i quali era stata rinnovata, ancora nel 1912, la

Triplice alleanza sottoscritta nel 1882) ovvero con l’Intesa anglo-franco-russa.

Inizialmente orientato, almeno nelle prese di posizione ufficiali, per il non intervento, il

Regno d’Italia stipulò, il 26 aprile 1915, il c.d. Patto di Londra, nel quale, all’impegno a di-

chiarare guerra all’Austria entro un mese dalla sottoscrizione, corrispondeva

l’assicurazione di compensi territoriali – scil., in caso di vittoria – per mezzo dei quali l’Italia

avrebbe finalmente acquisito le c.d. «terre irredente» (Trento e Trieste, su tutte), oltre ad

altri territori da tempo rivendicati (Bolzano e la costa della Dalmazia).

Tralasciando una disamina delle motivazioni che spinsero all’entrata in guerra (tra le

quali certo un ruolo decisivo ebbe la prospettiva di completare il processo risorgimentale di

unificazione sotto un’unica sovranità della nazione italiana), ciò che devesi qui evidenziare

è che il Patto di Londra venne sottoscritto in gran segreto, essendone a conoscenza sol-

tanto il Re, il Presidente del Consiglio, il Ministro degli affari esteri (Sonnino) e, ovviamen-

te, le alte gerarchie militari e l’ambasciatore italiano a Londra. Il Parlamento non fu, dun-

que, minimamente informato, alla stessa stregua, peraltro, della grande maggioranza dei

componenti del Consiglio dei ministri.

L’atteggiamento tenuto dai vertici dell’esecutivo, che dimostrava senza infingimenti

quanto poco pesasse il potere legislativo nella condotta della politica estera, apparve di

particolare gravità anche in ragione del fatto che la maggioranza parlamentare – ed il suo

leader, Giolitti, in testa – si era ripetutamente professata neutralista.

Posto di fronte al fatto compiuto, il Parlamento non opposte, tuttavia, che una iniziale

resistenza, ben presto fiaccata anche dalla pressione di una piazza che, nelle «radiose

giornate» di maggio, si mostrò particolarmente sensibile alla propaganda interventista, ab-

bandonandosi anche ad atti inqualificabili, come il tentato assalto all’abitazione di Giolitti o

la «caccia al deputato dissenziente», sovente fomentati dagli accesi comizi di Gabriele

D’Annunzio.

Avvalendosi di questo clima, il Governo ebbe buon gioco nell’imporre al Parlamento

l’approvazione di una legge che gli attribuiva i pieni poteri al fine di dichiarare, preparare e

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gestire l’imminente conflitto. La legge, che si ricollegava ad altre approvate, in passato, in

vista di periodi di guerra, si distingueva dagli esempi precedenti per l’entità dei poteri tra-

sferiti: le disposizioni legislative furono, infatti, formulate in modo tanto ampio e generico

da conferire, in sostanza, all’esecutivo l’esercizio pressoché monopolistico della gran parte

dei poteri pubblici, ivi inclusa la funzione legislativa (donde un utilizzo abnorme, riscontra-

bile negli oltre quaranta mesi di guerra, della decretazione d’urgenza).

Al Parlamento restò solo la possibilità di controllare il Governo, ed anche di sfiduciarlo,

ciò che avvenne in due occasioni: nel giugno 1916, al gabinetto Salandra subentrò quello

– che vedeva la partecipazione di tutte le forze politiche tranne i socialisti ufficiali – guidato

da Boselli; nell’ottobre 1917, in concomitanza con la rotta di Caporetto, al Governo Boselli

successe il Governo Orlando (anch’esso di «unità nazionale»).

Al di là di questi avvicendamenti, il Parlamento ebbe, però, un ruolo assolutamente

marginale, anche in conseguenza della prassi invalsa di tenere le riunioni in comitato se-

greto, recidendo, così, i più efficaci canali di comunicazione con un’opinione pubblica pe-

raltro distratta dalle pressanti esigenze belliche.

Al termine del conflitto, la vittoria non poteva nascondere le pesanti ripercussioni eco-

nomiche e sociali che la durata e l’intensità della guerra avevano avuto e che erano desti-

nate ad avere. Il problematico reinserimento degli ex-combattenti nella società civile, le dif-

ficoltà della riconversione dell’industria alla produzione di pace, nonché le ristrettezze im-

poste dalle contingenze economiche, gli scioperi, le agitazioni popolari (affrontate con cre-

scente preoccupazione alla luce della conquista del potere da parte dei bolscevichi a se-

guito della Rivoluzione d’ottobre in Russia) ed i frequenti scontri con le forze dell’ordine

che costellarono quello che fu definito come il «biennio rosso» (1919-1920) contribuirono,

con tutta evidenza, a mantenere il paese in una situazione di tensione e di eccezionalità

sempre meno gestibile, anche in conseguenza della nascita di movimenti eversivi di e-

strema destra, i c.d. Fasci di combattimento, che, guidati dall’ex-socialista Mussolini, an-

davano riscuotendo una crescente simpatia tra i reduci e tra una borghesia vieppiù intimo-

rita dai disordini.

Sul piano internazionale, poi, le difficoltà da subito insorte nelle trattative di pace resero

evidente l’impossibilità per l’Italia di ottenere tutte le annessioni territoriali richieste con il

Patto di Londra, alimentando il mito demagogico della «vittoria mutilata», acuendo il risen-

timento degli ex-combattenti ed ispirando i peggiori avventurismi, tra i quali, in particolare,

l’occupazione della città di Fiume da parte di milizie agli ordini di D’Annunzio.

A governare l’insieme di questi fattori di crisi si trovarono istituzioni uscite fortemente

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segnate dall’emergenza bellica: un Parlamento delegittimato dalla scollatura rispetto alla

società civile, non ancora ricucita dopo le «radiose giornate» del 1915, e dall’implosione,

in seguito alla spaccatura tra interventisti e neutralisti, della maggioranza uscita dalle ele-

zioni del 1913; un Governo scarsamente coeso al proprio interno, e delegittimato dalla

condotta delle trattative per la sistemazione dell’Europa dopo la guerra. Se la pace aveva

intaccato il prestigio finanche del Presidente «della vittoria» (Vittorio Emanuele Orlando),

ad uscire rafforzati dalla Prima guerra mondiale erano dunque solo l’esercito e, soprattut-

to, il Re, il primus miles cui la situazione di emergenza aveva consentito, in aderenza

all’art. 5 dello Statuto albertino, di recuperare un ruolo centrale in seno alla forma di go-

verno.

In questo contesto, la crisi di governo che seguì alla sfiducia pronunciata nei confronti

del Governo Orlando nel giugno 1919 (e motivata proprio dall’andamento delle trattative di

pace di Parigi) apparve di assai ardua soluzione. Su suggerimento di Giolittti, la scelta del

Re cadde su Nitti, già Ministro del tesoro nel Governo Orlando, ma dimessosi nel gennaio

1919.

Il nuovo Presidente del Consiglio riuscì a coagulare intorno a sé una maggioranza ini-

ziale, ma ben presto si evidenziarono le spaccature nel fronte governativo, agevolate dalle

tensioni sociali, dall’entrata di D’Annunzio in Fiume (12 settembre 1919) e da alcuni prov-

vedimenti adottati per far fronte alla situazione drammatica del bilancio statale (venne

congedato un milione di soldati) e per porre le basi di un ritorno alla normalità (particolar-

mente contestata fu l’amnistia concessa per il reato di diserzione semplice, con la quale fu

drasticamente ridotta l’entità del contenzioso ancora pendente).

Per ovviare alla sostanziale impossibilità di contare su una reale maggioranza parla-

mentare, Nitti ricorse agli strumenti offerti dalla tradizione, quali la proroga e la chiusura

delle sessioni, che resero lungamente inerti le Camere e che consentirono di interinare la

prassi invalsa nel periodo bellico della legislazione per decreto. A dimostrazione della per-

durante centralità della monarchia come sostegno di un Governo privo di canali di legitti-

mazione alternativa, in occasione della crisi di Fiume, si giunse addirittura a convocare il

Consiglio della Corona, un organo consultivo che era diretto discendente del Consiglio di

conferenza, ma che mai, dopo la promulgazione dello Statuto albertino, era stato convoca-

to.

Tutto ciò contribuì a marginalizzare ulteriormente il ruolo del Parlamento (con conse-

guenze che non avrebbero tardato a manifestarsi), sebbene la condotta del Governo Nitti

fosse stata ispirata dalla necessità di fronteggiare un periodo di transizione, in vista di un

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rilancio del sistema. A tal fine, il Presidente del Consiglio ritenne di poter consolidare le

basi popolari del regime, favorendo quell’incontro tra classe media progressista e proleta-

riato riformista lungamente ricercato da Giolitti, attraverso la riforma del sistema elettorale.

Il collegio uninominale venne così sostituito dal sistema proporzionale a liste concorrenti.

La riforma non sortì gli effetti sperati. Il sistema proporzionale, infatti, favorì grandemen-

te i partiti che avevano una struttura organizzativa stabile, cioè principalmente il Partito so-

cialista ed il Partito popolare, collegato alle strutture cattoliche; i liberali erano rimasti privi

di una organizzazione, ancorati ad una visione personalistica della lotta politica: in buona

sostanza, le ragioni che avevano indotto, nel 1912, Giolitti ad opporsi all’introduzione di

uno scrutinio di lista erano ancora integralmente valide nel 1919. In ragione di ciò, ben può

dirsi che la scelta del sistema proporzionale contribuì in modo decisivo ad accelerare la

crisi in atto dello Stato liberale, senza che, però, si fossero creare le condizioni sufficienti

per il passaggio ad una forma di Stato avanzata (in tal senso, ad esempio, militavano il ri-

tardo e le incompiutezze nella predisposizione di un adeguato sistema di istruzione pubbli-

ca).

A differenza di tutti i predecessori, poi, Nitti ebbe il merito, sul piano morale, di rifuggire

da ogni inframmettenza dell’apparato governativo sull’andamento delle elezioni, contri-

buendo a rendere ulteriormente precaria la posizione dei candidati dello schieramento li-

berale. I risultati delle elezioni del novembre 1919 furono, così, lo specchio delle previsio-

ni: i liberali (frastagliati sotto un gran numero di sigle) scesero a 252 deputati, i socialisti

salirono a 150 ed i cattolici del Partito popolare a 100; facevano la loro comparsa anche 6

deputati esponenti di partiti eversivi di estrema destra. Per la prima volta, i liberali non de-

tenevano più la maggioranza assoluta della Camera dei deputati, e ciò senza che fosse

emersa una forza in grado di sostituirli. D’altra parte, l’auspicato incontro tra liberali e parti-

ti di estrazione popolare si dimostrò da subito assai difficile, non solo per la scarsa unione

in seno allo schieramento liberale, ma anche per le incertezze del Partito popolare e per il

massimalismo della maggior parte della rappresentanza socialista.

Rimasto al Governo, ma ormai privo anche formalmente di una vera maggioranza, Nitti,

dopo una prima crisi nel marzo 1920, dovette rassegnare le proprie dimissioni nel giugno

dello stesso anno.

La designazione di Giolitti alla Presidenza del Consiglio ebbe il significato di un estremo

tentativo di rivitalizzare il sistema, ormai in una crisi conclamata. Giolitti elaborò un pro-

gramma molto ambizioso, diretto a reintegrare il Parlamento nelle proprie prerogative ed a

ridimensionare quelle della Corona. Nel primo senso, venne escluso il ricorso alla legisla-

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zione per decreto, a beneficio di un ripristino della centralità delle Camere nell’esercizio

della funzione legislativa, e si propose l’eliminazione del potere governativo – che a troppi

abusi aveva dato luogo – di decidere in ordine alla proroga ed alla chiusura delle sessioni.

Nel secondo senso, si progettò l’abrogazione dell’art. 5 dello Statuto albertino, che costi-

tuiva il fulcro delle prerogative regie in seno alla forma di governo. Su entrambi i piani, Gio-

litti dovette constatare l’impossibilità di ottenere risultati significativi: per un verso,

l’assenza di una maggioranza parlamentare rendeva impossibile una proficua traslazione

di poteri dall’esecutivo al legislativo; per l’altro, la monarchia, tornata ad avere un ruolo

centrale nelle istituzioni, non pareva intenzionata ad accettare una nuova marginalizzazio-

ne.

L’ultima carta giocata dall’anziano statista fu quella delle elezioni. Nel 1921 la Camera

dei deputati venne, infatti, prematuramente sciolta, con il pretesto di dare una rappresen-

tanza ai territori entrati solo di recente a far parte del Regno. La scelta dei tempi era detta-

ta, in realtà, dalla avvenuta scissione all’interno del Partito socialista (nel gennaio 1921, il

congresso di Livorno aveva visto nascere il Partito comunista), che si riteneva che potesse

tradursi in un calo di consensi, e dunque in una maggiore disponibilità al dialogo in Parla-

mento con le forze liberali. Al contempo, Giolitti avallò la formazione dei c.d. «blocchi na-

zionali», cioè di liste unitarie di liberali, nazionalisti e fascisti, nella prospettiva di metabo-

lizzare all’interno del sistema liberale le forze eversive di estrema destra in forte crescita di

consensi.

I calcoli si rivelarono errati: il Partito socialista scese a 123 seggi, in parte compensati

dai 15 ottenuti dal Partito comunista; il Partito popolare incrementò la propria rappresen-

tanza, attestandosi sui 108 seggi; i liberali mantennero pressoché inalterato il numero di

seggi soltanto grazie ai 35 deputati fascisti eletti nei «blocchi nazionali». Questo numero

permise, però, la costituzione di un gruppo parlamentare autonomo, con il risultato di in-

debolire il gruppo liberale rispetto alla legislatura precedente.

L’operazione elettorale si era dunque rivelata un fallimento, reso ancor più grave

dall’avvenuta «legalizzazione», da parte del ceto dirigente liberale, delle violenze fasciste.

La assoluta ingovernabilità che ne seguì condusse, nel luglio 1921, Giolitti alle dimis-

sioni. I governi che seguirono, guidati da Bonomi e, dal febbraio 1922, da Facta, ormai in-

capaci di una azione propositiva in chiave di rilancio del sistema, non poterono fare altro

che registrare l’agonia dello Stato liberale.

La «marcia su Roma» del 28 ottobre 1922, resa possibile dal rifiuto del Re di firmare il

decreto sullo stato di assedio, giunse allora a sanzionare la fine di un’epoca storica: il 31

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ottobre Benito Mussolini diventava Presidente del Consiglio.