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Sistemi elettorali a confronto: Regno Unito e Nuova Zelanda Comparazione e aggiornamento dei risultati esposti da A. Lijphart in “Le democrazie contemporanee” di Alessandro Tocci Regno Unito e Nuova Zelanda sono due paesi collegati tra loro molto strettamente; essendo infatti stata quest'ultima una parte dell'Impero Britannico, essa ha da sempre una spiccata affinità culturale con la ex madrepatria, e come la gran parte dei membri del Commonwealth britannico ha una forte somiglianza anche politica ed istituzionale con la Gran Bretagna, al punto che molti osservatori politici ne hanno parlato a lungo come del modello più pertinente di democrazia maggioritaria o Westminster. Questo, prima che un referendum ne cambiasse il sistema elettorale in senso proporzionale, avvicinando decisamente la Nuova Zelanda al gruppo dei paesi con ordinamento democratico di tipo consensuale. Scopo della presente ricerca è raccogliere dati che completino lo studio esposto da A. Lijphart in “Le democrazie contemporanee” (1999), ed elaborarli per aggiornare le conclusioni ivi raggiunte, per confermare o meno se esse siano valide ancora oggi. Ricordiamo che l'orizzonte temporale del libro va dal 1945 al 1996. Il modello maggioritario ed il modello consensuale Come ricordato da Lijphart, le democrazie possono essere studiate analiticamente tenendo conto di una serie di 10 variabili, ognuna delle quali si muove in un continuum che ha ad un estremo la concezione maggioritaria della democrazia, e all'altro quella consensuale. Per democrazia a carattere maggioritario si intende convenzionalmente una forma di governo che tende ad accentrare il potere nelle mani della maggioranza, allo scopo di ottenere una maggiore governabilità e responsabilizzazione dei governanti tramite il voto popolare. In una democrazia di tipo consensuale, invece, il potere tende a distribuirsi tra le varie forze politiche e sociali, in modo tale che nessuna abbia il monopolio delle decisioni di governo, che devono essere invece prese in costante dialogo tra le parti, privilegiando quindi il consenso sulle scelte e la tutela delle minoranze. Le dieci variabili utilizzate sono: 1. composizione partitica dei governi; 2. rapporti di potere tra governo e parlamento; 3. sistema partitico; 4. sistema elettorale; 5. sistema di rappresentanza degli interessi; 6. forma di stato; 7. struttura del parlamento; 8. livello di rigidità costituzionale; 9. controllo di costituzionalità degli atti; 10. livello di indipendenza della banca centrale. Ognuna di queste variabili può assumere valori che sono tipici di una democrazia maggioritaria oppure valori caratteristici di un sistema maggiormente consensuale. In questa sede ci occuperemo di osservare l'evoluzione della quarta variabile, il sistema elettoralerispettivamente nel Regno Unito e in Nuova Zelanda dal 1996 (ultimo anno considerato da Lijphart) 1

Sistemi elettorali a confronto: Regno Unito e Nuova Zelanda

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Confronto analitico tra il sistema elettorale neozelandese e quello britannico, con particolare attenzione al radicale cambiamento subito dal primo con la riforma del 1993.

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Sistemi elettorali a confronto: Regno Unito e Nuova ZelandaComparazione e aggiornamento dei risultati esposti da A. Lijphart in “Le democrazie contemporanee”

di Alessandro Tocci

Regno Unito e Nuova Zelanda sono due paesi collegati tra loro molto strettamente; essendo infatti stata quest'ultima una parte dell'Impero Britannico, essa ha da sempre una spiccata affinità culturale con la ex madrepatria, e come la gran parte dei membri del Commonwealth britannico ha una forte somiglianza anche politica ed istituzionale con la Gran Bretagna, al punto che molti osservatori politici ne hanno parlato a lungo come del modello più pertinente di  democrazia maggioritaria o Westminster.   Questo,   prima   che   un   referendum   ne   cambiasse   il   sistema   elettorale   in   senso proporzionale,  avvicinando decisamente  la Nuova Zelanda al  gruppo dei paesi con ordinamento democratico di tipo consensuale.Scopo della presente ricerca è raccogliere dati che completino lo studio esposto da A. Lijphart in “Le democrazie contemporanee” (1999), ed elaborarli per aggiornare le conclusioni ivi raggiunte, per confermare o meno se esse siano valide ancora oggi. Ricordiamo che l'orizzonte temporale del libro va dal 1945 al 1996.

Il modello maggioritario ed il modello consensuale

Come ricordato da Lijphart, le democrazie possono essere studiate analiticamente tenendo conto di una serie di 10 variabili, ognuna delle quali si muove in un continuum che ha ad un estremo la concezione  maggioritaria  della   democrazia,   e   all'altro   quella  consensuale.   Per   democrazia   a carattere maggioritario si intende convenzionalmente una forma di governo che tende ad accentrare il   potere   nelle   mani   della   maggioranza,   allo   scopo   di   ottenere   una   maggiore   governabilità   e responsabilizzazione dei governanti tramite il voto popolare. In una democrazia di tipo consensuale, invece, il potere tende a distribuirsi tra le varie forze politiche e sociali, in modo tale che nessuna abbia il monopolio delle decisioni di governo, che devono essere invece prese in costante dialogo tra le parti, privilegiando quindi il consenso sulle scelte e la tutela delle minoranze.

Le dieci variabili utilizzate sono:1. composizione partitica dei governi;2. rapporti di potere tra governo e parlamento;3. sistema partitico;4. sistema elettorale;5. sistema di rappresentanza degli interessi;6. forma di stato;7. struttura del parlamento;8. livello di rigidità costituzionale;9. controllo di costituzionalità degli atti;10. livello di indipendenza della banca centrale.

Ognuna di queste variabili può assumere valori che sono tipici di una democrazia maggioritaria oppure valori caratteristici di un sistema maggiormente consensuale.In questa sede ci occuperemo di osservare l'evoluzione della quarta variabile, il  sistema elettorale, rispettivamente nel Regno Unito e in Nuova Zelanda dal 1996 (ultimo anno considerato da Lijphart) 

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ad oggi.

Il  sistema elettorale  tipico della democrazia maggioritaria  è  quello  uninominale,  a  maggioranza assoluta   (majority)   o   relativa   (plurality)   con   turno   unico;   la   democrazia   consensuale   è   invece caratterizzata da sistemi proporzionali.La  differenza   tra   sistemi  diversi  è  grande:  essa   infatti  non  riguarda  solo  il  modo  in  cui   i  voti vengono conteggiati,  ma addirittura il  fine stesso  per cui si  tengono elezioni (J.  Curtice,  1992). Infatti,   le due diverse concezioni prevedono interpretazioni diverse,  a cominciare da  cosa viene eletto:  nel  sistema britannico,  sebbene formalmente con le elezioni  si  nominino i  membri  della Camera, di fatto si sceglie un governo perché il potere è automaticamente in mano al leader del partito vincitore (che infatti solitamente entra in carica entro 24 ore dalla chiusura dei seggi), in virtù della netta maggioranza parlamentare di cui egli si trova a disporre; nel sistema consensuale si vota   per   eleggere   una   assemblea   che   rappresenti   il   popolo,   ed   il   mandato   governativo   è   una conseguenza di questo fatto. D'altro canto, questa capacità del sistema (maggioritario) di garantire una vittoria netta e solida viene scontata sul fronte della rappresentatività; nel Regno Unito, dal dopoguerra   in   poi,   nessun   partito   ha   mai   avuto   la   maggioranza   dei  voti  espressi.   La   salda maggioranza di cui il vincitore ha (quasi) sempre potuto godere è frutto della tendenza del sistema ad amplificare il divario tra primo e secondo partito, penalizzando ancora più pesantemente i partiti più piccoli. I difensori del sistema maggioritario affermano che esso è l'unico sistema per dare all'elettorato il potere  di  decidere  effettivamente   il  governo del  paese,  evitando che  dei  piccoli  partiti   abbiano troppo   potere;   dall'altra   parte,   chi   sostiene   il   modello   consensuale   afferma   che   le   elezioni dovrebbero soltanto produrre una rappresentanza che, in quanto tale, dovrebbe essere equamente ripartita tra le varie componenti della società in un parlamento che, proprio in quanto verrebbe ad essere una sorta di “modello in scala” della società stessa, avrebbe il diritto e la capacità di scegliere l'esecutivo più appropriato. Inoltre, nel modello maggioritario si tende a scegliere la  persona  che dovrà detenere il potere e quindi si confrontano le competenze dei candidati, mentre nel modello consensuale si vota per un certo tipo di politica piuttosto che un'altra; l'individuo passa quindi in secondo piano per fare spazio alle idee portate avanti dalla formazione cui egli appartiene.Infine, la concezione “maggioritaria” vede la chiamata alle urne come uno strumento per rendere il governo responsabile di fronte ai cittadini; se il governo ha lavorato bene verrà premiato, altrimenti sarà punito con la sconfitta elettorale. Tipicamente, nel sistema proporzionale la valutazione del governo è “prospettica”, piuttosto che retrospettiva; si vota per il partito (o la coalizione) dal quale ci si aspetta il meglio, e di questo risentirebbe secondo i suoi detrattori la responsabilizzazione dei governanti.

Il sistema plurality

Come abbiamo già ricordato, questi due paesi hanno una lunga tradizione democratica comune, ed hanno a lungo condiviso un analogo apparato istituzionale così come il sistema elettorale; il  sistema tradizionalmente usato in Inghilterra è il maggioritario di tipo plurality (o a maggioranza relativa) a collegio uninominale;   in  inglese,  Single Member Plurality (SMP).  Questo significa che il  paese viene diviso in tanti collegi elettorali quanti sono i seggi parlamentari; ogni collegio elegge un suo rappresentante,   che   diventa   quindi   “portavoce”   di   una   certa   comunità   territoriale   presso   il parlamento nazionale che, è appena il caso di ricordarlo, è monocamerale in entrambi i paesi (in realtà il Regno Unito ha due camere, ma quella dei Lords è ormai ridotta ad avere un ruolo di mera 

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rappresentanza). È   da   notare   come   i   collegi   vengano  disegnati   in  modo  da  distribuire   nel  modo  più   uniforme possibile   la  popolazione   tra   i  vari  distretti:   le  zone  meno densamente  popolate  avranno  quindi collegi geograficamente molto estesi, mentre quelle ad alta densità abitativa (come ad esempio la zona di Londra e le città in genere) saranno ripartite in collegi molto più piccoli.Nel caso britannico i seggi oscillano intorno al numero di 640, mentre nel sistema neozelandese antecedente al 1996 essi hanno raggiunto al loro massimo le 99 unità. Nei sistemi di tipo plurality per essere eletti all'interno del collegio i candidati hanno bisogno di ottenere la maggioranza relativa dei voti validi espressi; ciò significa che, in sostanza, vince il candidato che prende più voti di ogni altro. Questo sistema produce una forte non proporzionalità rappresentativa, ed è per questo motivo che solitamente viene abbinato a collegi uninominali; come sappiamo, la dimensione del collegio in un sistema maggioritario è inversamente proporzionale alla proporzionalità finale del sistema.

Il sistema maggioritario presenta quindi, per sua stessa natura, un forte sbarramento all'ingresso in parlamento   dei   partiti   minori,   laddove   invece   i   più   grandi   vengono   sistematicamente sovrarappresentati. Per questo nei sistemi che andremo ad osservare mancano del tutto delle soglie elettorali   esplicite:   esse   sarebbero   inutili,   in   quanto   ampiamente   scavalcate   da   altissime   soglie implicite, sia pure a livello di singolo collegio. È infatti evidente come, essendo necessario per un partito raggiungere la maggioranza relativa per essere ammesso in parlamento, qualora esso non raggiunga una percentuale molto consistente di consensi (sull'ordine del 35/40%) esso verrà privato della   rappresentanza.   La   soglia   elettorale   implicita   del   sistema   è   in   sostanza   equivalente   alla percentuale di voti necessaria per ottenere il seggio; Lijphart propone un metodo per calcolare tale soglia basato sulla grandezza del collegio, tramite la seguente formula:

T = 0,75

M 1

in cui  T  indica la soglia e  M  la grandezza media del collegio espressa tramite il numero di seggi assegnati. Secondo tale formula, la soglia di sbarramento implicita posta in essere da un sistema uninominale è  pari a circa il 37,5%.Questo sistema rappresenta una “rete” nella quale si impigliano molti piccoli partiti, i quali non riescono a raggiungere quote consistenti a livello di singolo collegio; gli unici tra i partiti minori che riescono   ad   ottenere   seggi   sono   i   partiti  territoriali,   ovvero   quelli   che   esprimono   interessi nazionalisti   locali  o  comunque propri  di  una comunità  geograficamente definita,  e  che godono quindi di un sostegno distribuito disomogeneamente all'interno dello stato. Nelle zone di maggiore radicamento, questi possono facilmente riuscire a vincere alcuni seggi; non è un caso che, nel Regno Unito, gli unici partiti presenti in parlamento oltre ai tre maggiori (Labour, Conservative e Liberal Democrats) sono quelli che rappresentano comunità locali: Scottish National Party, Ulster Unionist, Plaid Cymru (il partito gallese), Sinn Fein (indipendentista irlandese), Democratic Unionist sono tutti  partiti   che  portano   in  parlamento   interessi   spiccatamente   localistici   (anche  se  non  sempre indipendentisti) e per questo godono di larghi consensi, sia pure a livello di singoli collegi (la loro rappresentanza parlamentare è sempre rimasta assai ristretta). Possiamo quindi affermare che se il sistema inglese non riesce a impedire l'acceso ai partiti minori, è perché il Regno Unito è uno stato multinazionale, nel quale è sempre presente la possibilità che emergano movimenti nazionalisti (J. Curtice, 1992).

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Le differenze tra i due paesi

Pur essendo i due sistemi molto simili tra loro, dall'analisi dei due casi emergono alcune differenze significative nell'applicazione dello stesso modello. Tra queste spiccano due:

1. la dimensione relativa del corpo degli eletti;2. la presenza di collegi dedicati alla minoranza Maori  in Nuova Zelanda.

Come   ricordato   da   Lijphart,   la   proporzionalità   di   un   sistema   democratico,   specialmente   se maggioritario,   è   fortemente   influenzata   dal   numero   dei   parlamentari   eletti:   poiché   un   sistema elettorale ha il compito di tradurre i voti in seggi, il numero di questi ultimi sarà parte integrante del meccanismo e la proporzionalità del sistema aumenterà tendenzialmente con l'aumento dei seggi in palio. Nel caso di un parlamento di grandi dimensioni non sorgono problemi di sorta, ma qualora si scenda sotto i 100 membri, un cambiamento anche piccolo del loro numero può riflettersi in una diversa ripartizione percentuale dei seggi (A. Lijphart, 1999).L'evidenza empirica mostra come i paesi grandi abbiano di norma parlamenti numericamente assai più   cospicui   di   quelli   poco   popolati,   e   che   la   loro   dimensione   minima   ottimale   possa   essere approssimata   con   la  radice   cubica  della   popolazione.   Nei   paesi   che   utilizzano   il   plurality   la deviazione (in senso diminutivo) da questa “regola empirica” porta sempre un sensibile incremento della non proporzionalità elettorale.Nel caso dei due paesi qui analizzati,   la differenza tra i due è  notevole:  la  Camera dei Comuni britannica  risulta infatti “ridondante” rispetto a questo criterio, con un numero di 646 seggi (nel 2005) a fronte di una popolazione la cui radice cubica ammonta a circa 450; essa ha quindi una composizione   che,   nei   limiti   del   sistema   maggioritario,   permette   una   buona   proporzionalità elettorale grazie ad un oculato dimensionamento dei seggi.Il   caso   neozelandese   è   radicalmente   differente:   la   pur   esigua   popolazione   del   paese   è   stata rappresentata fino al  1996 da 99 parlamentari,  numero poi aumentato a 120 con la riforma del sistema   elettorale   decisa   nel   1993.   Tuttavia,   già   nei   primi   anni   Novanta   la   popolazione   era abbastanza  numerosa  da   richiedere  una   rappresentanza  molto  più   cospicua,  visto   che   la   radice cubica degli allora circa tre milioni e mezzo di abitanti si attestava intorno a 150. Questo significa che la popolazione era fortemente sottorappresentata, essendo il parlamento inferiore di circa il 30% rispetto alla dimensione minima ottimale. Questo potrebbe avere contribuito a creare il clima di sfiducia verso la classe politica che, come vedremo più avanti, si è instaurato a partire dagli anni Settanta, ed ha condotto dopo alterne vicende ad un radicale cambiamento del sistema elettorale.Con la riforma il numero dei seggi è stato portato a 120, numero che è ancora fortemente inferiore alla radice cubica di una popolazione che nel frattempo è  cresciuta di circa  il  20%; tuttavia,   il passaggio ad un sistema elettorale proporzionale ha senz'altro minimizzato l'importanza di questo scarto, senza contare che la popolazione guarda da tempo con diffidenza ai tentativi di allargamento della camera.

Passando al   secondo punto  di  divergenza   tra   il   sistema del  Regno Unito  e  quello  della  sua  ex colonia,  è   rilevante   come   in  quest'ultima   siano   tradizionalmente  presenti   dei   seggi   riservati   ai Maori.Oltre che uno scostamento dal modello inglese, il quale non prevede collegi riservati (sebbene il Regno Unito sia a pieno titolo uno stato multinazionale), la presenza di tali seggi è una deroga al principio  maggioritario  secondo cui  “chi  vince  piglia   tutto”,  ovvero  solo   la  maggioranza  viene rappresentata.   Scopo   esplicito   di   tali   seggi   è,   al   contrario,   garantire   rappresentanza   ad   una minoranza etnica che altrimenti rischierebbe di venire sistematicamente esclusa dalle dinamiche del potere; in nome della non discriminazione tra cittadini, tuttavia, tali seggi sono  riservati  ma non 

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obbligatori: i Maori  sono cioè liberi di scegliere se votare nei seggi riservati, previa iscrizione in un apposito registro,  oppure nei collegi normali.  Fino al  1993 il  numero dei seggi riservati  è  stato fissato a quattro, dopo la riforma può invece variare in proporzione al numero di persone che vi si iscrivono; alle elezioni che si terranno a fine 2008, i collegi Maori  saranno sette1.

Il sistema sotto accusa

Prima di vedere cosa è successo in Nuova Zelanda negli anni Novanta e come sia cambiato il suo sistema   elettorale,   occorre   aprire   una   breve   parentesi   storica;   infatti,   il   percorso   della   riforma elettorale neozelandese è stato tortuoso ed è durato alcuni decenni.Fin dagli  anni  Settanta  si  è  parlato di  riforma elettorale   in  molti  paesi  del  Commonwealth  che utilizzano  il   sistema  Westminster;   tuttavia,  solo  in  pochi  casi   i  governi hanno raccolto  la  sfida, incaricando apposite commissioni di studiare le possibili modifiche. Il caso più notevole di percorso di riforma giunto a compimento è   il  caso neozelandese,  ma nello stesso Regno Unito  il  partito laburista ha parlato, durante la campagna elettorale del 1997, di sottoporre al vaglio della volontà popolare un metodo alternativo di votazione. La promessa non è stata in seguito mantenuta, sebbene il governo avesse incaricato una commissione di valutare le possibili alternative.Le vicende di UK e Nuova Zelanda sono state in parte simili tra loro: entrambi i paesi sono stati percorsi da malcontento per il funzionamento del sistema elettorale; inoltre, in entrambi i casi un grande partito politico si è visto fortemente penalizzato dalla non proporzionalità tipica del SMP: in Nuova Zelanda il Labour ha perso due elezioni consecutive (nel 1978 e nel 1981) nonostante una quantità di voti superiore al suo avversario; nel Regno Unito i laburisti sono rimasti tagliati fuori dal governo per ben 18 anni (dal 1979 al 1997), iniziando a temere che non sarebbero mai tornati al potere con il sistema vigente. Come ha affermato Josep Colomer, lo spostamento verso un sistema proporzionale avviene quando l'elettorato   supporta   un   numero   maggiore   di   partiti   rispetto   a   quelli   dominanti,   anche   se   tale supporto  non si   traduce   immediatamente   in  un   sostanziale  cambiamento  dei   rapporti  di  potere interni al parlamento (Colomer, 2005). Questo è esattamente quanto è avvenuto a partire dagli anni Settanta in alcuni paesi del Commonwealth, compreso il Regno Unito e, naturalmente, la Nuova Zelanda, in cui il supporto ai due partiti maggiori è scivolato dal 90% degli anni '50 al 70% negli anni Settanta, in modo lento ma costante.Questo ha evidentemente messo in discussione il consenso attorno al sistema tradizionale inglese: nel 1976 la Commissione della Hansard Society per la riforma elettorale raccomandava l'adozione da parte del Regno Unito di un sistema elettorale proporzionale simile a quello tedesco, e più tardi il partito   laburista   avrebbe  studiato   la  questione   senza   risultati   concreti,   data   anche  la   sua   lunga assenza dal potere, nel pressoché totale disinteresse da parte dei conservatori.

Anche se i partiti minori sono fisiologicamente quelli più penalizzati da un sistema come quello britannico, oltre a essere coloro che più si sono battuti per modificare le regole, è vero che anche i partiti grandi, veri protagonisti della competizione politica, si sono spesso trovati in difficoltà per sua  causa,   e   proprio   in  nome  di   queste   “ingiustizie”   subite   hanno   sposato   la   causa   riformista (Lundberg,   2007).   Le   promesse   sono   sempre   state   fatte   stando   all'opposizione,   ma   nel   caso neozelandese il meccanismo che si è innescato ha permesso che gli stessi partiti dominanti, ovvero quelli a cui tornava utile la non proporzionalità elettorale, cambiassero le regole del gioco, come spiegheremo più avanti.

1(http://www.elections.org.nz/enrolment/enrol­faqs/Maori ­option­faq.html, 02/06/08)

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Nel Regno Unito il dibattito sull'opportunità di una riforma del sistema elettorale ha raggiunto la sua massima diffusione negli anni Novanta: il partito Laburista, tra mille incertezze e divisioni interne, ha fatto sua questa causa e, una volta arrivato al governo nel 1997, ha mantenuto il suo proposito istituendo una commissione per studiare la questione. Il tentativo dei laburisti è stato però ambiguo e poco deciso, lo dimostra la natura stessa del gruppo di esperti. La “Commissione Indipendente sul Sistema Elettorale” (detta anche “Commissione Jenkins”) era infatti composta esclusivamente da Lord, membri della Camera e comunque persone che avevano avuto un ruolo nella politica: questo fa sì che essa non fosse così “indipendente” come il nome suggeriva, ma cercasse di conciliare le esigenze   delle   forze   politiche   dominanti,   piuttosto   che   effettuare   una   analisi   imparziale   delle necessità del paese. Questo suscitò in effetti molte critiche, e qualcuno ha commentato i lavori della commissione affermando che essa si prefiggeva di trovare una soluzione che fosse “abbastanza per soddisfare i riformisti, e abbastanza poco da non spaventare i conservatori” (Iain McLean, 1999); sfortunatamente, le conclusioni raggiunte dalla commissione (presentate nel 1998) hanno poi finito per non piacere a nessuno dei due. La proposta era quella di adottare un sistema misto, in cui la grande maggioranza dei seggi era attribuita in collegi uninominali utilizzando il voto alternativo, mentre un 15/20% sarebbe stato assegnato in modo proporzionale tramite liste di partito. La piccola quantità dei seggi da assegnare tramite il voto di lista e la scarsa proporzionalità del sistema hanno scontentato i riformisti prima ancora che i conservatori, cosicché il progetto di riforma è rimasto finora lettera morta.

La tortuosa strada della riforma in Nuova Zelanda

Nel  1993  gli   elettori  hanno  votato,   insieme  al  governo,  per  un   referendum che  ha   stabilito  di cambiare  il  sistema elettorale  in senso nettamente proporzionale.  Agli elettori  è  stato chiesto di scegliere tra il sistema  plurality  in vigore (mantenendo una camera di 99 membri) ed un sistema proporzionale misto modellato su quello tedesco, adottando un parlamento di 120 membri.La   questione   delle   dimensioni   della   camera   ha   suscitato   polemiche,   dato   che   si   temeva   che l'impopolarità della classe politica avrebbe fatto spostare le preferenze verso il mantenimento del sistema in vigore, effetto che quasi certamente ha ridotto il sostegno alla riforma proporzionale (J. Vowles, 1994).La   campagna   referendaria   è   stata   dominata   dallo   scontro   fra   due   organizzazioni:   la  Electoral  Reform Coalition (ERC), una compagine eterogenea di riformisti che ha portato avanti le istanze riformatrici fin dal 1986, e la  Campaign  for Better Government (CBG), che si è invece spesa per difendere   il   sistema plurality.  Da notare   come  la  CBG abbia   condotto  una  possente  campagna mediatica volta ad alienare il consenso degli elettori per il nuovo sistema, disponendo di un budget enorme se paragonato a quello degli avversari perché finanziata dal mondo imprenditoriale. Dopo mesi di intenso dibattito, gli elettori hanno deciso di cambiare il sistema, anche se con uno scarto limitato  (53,9% contro   il  46,1%),   tanto  che  l'esito  del   referendum non è   stato  evidente   fino  al momento dello spoglio.Il nuovo sistema elettorale è di tipo proporzionale misto (in inglese, Mixed Member Proportional o MMP), ovvero integra elementi maggioritari con altri tipici di un sistema proporzionale (v. pag. 11): prevede 60 circoscrizioni elettorali (che in Nuova Zelanda si chiamano “elettorati generali”), più alcuni collegi riservati ai Maori; il loro numero esatto dipende dal numero di Maori  che scelgono di votare   in   essi   invece   che   nei   collegi   normali.   Questo   è   un   cambiamento   notevole   per   la rappresentanza dei Maori (che costituiscono circa il 15% della popolazione), i quali finora avevano avuto 4 seggi indipendentemente dalla popolazione in essi compresa; un numero maggiore di seggi Maori  ridurrebbe leggermente il numero dei collegi generali a North Island, dove è concentrata tale 

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minoranza etnica.Il  numero dei  seggi  è   stato  portato a  120;   il   sistema  li   ripartisce   in  modo da massimizzare  la proporzionalità rappresentativa in parlamento in base alle preferenze espresse con il voto di lista. Un partito che guadagnasse 30 seggi tramite il voto nominale ed il 25% delle preferenze tramite il voto di lista, ad esempio, non riceverebbe seggi aggiuntivi perché la sua quota è rappresentativa delle preferenze   ricevute  dall'elettorato  (30  seggi   sono  in  effetti   il  25% del   totale);   se   invece  questo ottenesse solo 15 seggi ed il 25% tramite la lista, gli verrebbero attribuiti altri 15 seggi per rendere la sua presenza in parlamento proporzionale ai voti ricevuti.

Per capire cosa ha portato ad un tale cambiamento, occorre andare un po' indietro nel tempo.Da decenni,  come abbiamo già   ricordato,   la validità  del  sistema plurality cominciava ad essere messa in discussione un po' dappertutto, con intensità differenti in ogni paese; in Nuova Zelanda, tuttavia, a soffiare sul fuoco del malcontento è stato il risentimento verso la classe politica, e in particolare verso i partiti dominanti. Questo è emerso chiaramente con le elezioni del 1993, che hanno portato in parlamento due partiti minori: “New Zealand First” e “Alliance” hanno ottenuto soltanto due seggi ciascuno, ma questo è comunque il caso di maggiore rappresentazione di partiti “terzi” dal 1935. Inoltre, i due partiti hanno ottenuto ben il 26,6% dei voti espressi; la disparità tra preferenze elettorali e rappresentazione politica di tali preferenze è un indicatore eloquente della scarsa rappresentatività del parlamento eletto, con i problemi di legittimazione che ne conseguono. Inoltre,  questi  due  partiti   sono  divenuti   l'ago  della  bilancia  della  maggioranza  parlamentare;   il National  Party ha avuto una maggioranza di appena un seggio, portato a due dall'elezione di un membro del Labour a speaker della Camera.Questo fallimento del sistema plurality nel rappresentare il voto popolare e contemporaneamente nel consegnare   una   solida   maggioranza   al   vincitore   è   tuttavia   solo   l'epilogo   di   un   trend   almeno ventennale di progressivo disallineamento degli elettori nei confronti dei due partiti dominanti.

I primi a portare avanti,   tra mille resistenze interne, idee di riforma elettorale furono i laburisti all'inizio degli anni Ottanta, reduci da due tornate elettorali (1978 e 1981) perdute nettamente quanto a numero di seggi, nonostante in entrambe il favore popolare avesse preferito il loro partito. Allora le ipotesi di cambiamento ebbero una certa risonanza grazie al libro “Unbridled power?” (“potere incontrollato?”)   di   Geoffrey   Palmer,   che   affermava   la   necessità   di   eleggere   con   un   metodo proporzionale una parte della Camera pari a circa un terzo. La  popolarità  della  classe politica  e  dei  due partiti  dominanti  ha  avuto  negli  anni   seguenti  un costante declino, dovuto in gran parte alle scelte fatte sia dai governi di destra che da quelli di sinistra per arginare i danni della crisi petrolifera degli anni Settanta; scelte impopolari sia presso la classe dirigente e imprenditoriale, sia presso il popolo in generale. Di questa stagione si ricordano i continui   cambi   di   rotta,   ma   soprattutto   la   mole   di   contraddizioni   e   incoerenze   che   hanno caratterizzato   le   principali   decisioni   dei   partiti:   ad   esempio,   il   governo   del   National   Party, conservatore, ha attuato politiche economiche di forte interventismo statale; il Labour, una volta arrivato al potere, ha invece deciso di spostarsi verso un forte disimpegno dello stato in materia economica,   che   il   successivo   governo   conservatore   non   ha   modificato   (come   tutti   invece   si aspettavano): questo ha deluso nel  lungo periodo fasce sempre più  estese dell'elettorato, che ha iniziato a spostare le sue preferenze verso altri partiti.Il sistema elettorale ha creato in questo contesto una serie di maggioranze forti, che avevano però una base elettorale effettiva sempre più ristretta: possiamo quindi affermare che il sistema plurality ha fallito nel garantire il controllo sull'operato del governo (J. Vowles, 1995) ed ha sclerotizzato la dialettica politica riducendola al dialogo tra due partiti sempre meno legittimati.

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Due motivi per cui la responsabilità è venuta meno:1. grande   coesione   partitica   in   un   piccolo   parlamento,   che   ha   indebolito   quest'ultimo   nei 

confronti del governo ed ha allentato il legame esistente tra elettori e parlamentari;2. il  crescente disallineamento degli  elettori  ha reso difficoltoso “richiamare” i governi che 

adottassero   misure   sgradite,   perché   il   voto   contrario   è   stato   sistematicamente sottorappresentato e spesso perfino lasciato senza alcuna rappresentanza parlamentare. 

Come vediamo nel grafico, il disallineamento si manifesta come una diminuzione della percentuale di  coloro che votano per   i  due partiti  maggiori,   trend costante nel   lungo periodo che ha avuto un'accelerazione negli anni Novanta.Un altro aspetto da non trascurare del  tessuto politico neozelandese è  che i  cittadini  tendono a pensare alla politica in modo “populista”, e ad identificare quindi la buona politica con quella che segue fedelmente la volontà della maggioranza; dai primi anni Novanta un numero sempre maggiore di persone era convinto che il governo non tenesse conto delle proprie richieste (Lamare, 1991); in conseguenza di ciò, nel 1993 avevano piena fiducia nel Parlamento solo il 4% degli elettori, come mostra il grafico sottostante.I dati del grafico seguente sono basati su un'indagine condotta dallo Heylen Research Centre, in cui si chiedeva agli intervistati se essi avessero piena fiducia nel parlamento; è evidente il trend di costante discesa, che culmina nel 1993 con un minimo storico eccezionalmente basso.

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Numero di elettori dei due partiti maggiori

Fonte: "The Politics of electoral reform in New Zealand", J. Vowles 1995

Tuttavia, ciò che davvero ha portato al cambiamento è stata la competizione tra i partiti, più che un dissenso che comunque aveva scarsa voce in capitolo; nel 1984 il governo Labour istituì un gruppo di   studio   che   si   pronunciò   in   favore   dell'adozione   di   un   sistema   Proporzionale   Misto   (Royal  Commission on the Electoral System,  1986); tuttavia  il  governo era diviso sul  tema e poiché   la maggioranza era contraria, la proposta fu lasciata cadere. Tuttavia, durante la campagna elettorale il candidato del Labour disse in televisione che il suo governo avrebbe indetto un referendum sulla legge elettorale; questo risultò essere stato un errore grossolano perché in realtà il partito non ne aveva alcuna intenzione (Jackson, 1993: 18).  Nel 1988 la commissione parlamentare sulla legge elettorale presentò un rapporto in cui si difendeva il sistema vigente, proponendo solo un piccolo correttivo   proporzionale   che   non   cambiava   la   sostanza   del   sistema;   proposta   immediatamente bocciata dai riformisti. Il governo Labour, in imbarazzo per la rapida liquidazione della proposta e incapace di proporre una vera alternativa, si ritrovò nel 1989 a dover difendere il sistema in vigore affermando che non c'erano i margini consensuali necessari per procedere ad una riforma radicale.Nel   frattempo   iniziò   una   crescente   richiesta   di   un   referendum;   i   conservatori   all'opposizione cavalcarono questo malcontento, proclamando che il loro governo avrebbe riformato il sistema. Il National   Party   non   voleva   un   sistema   proporzionale,   ma   tra   le   sue   file   vi   era   una   radicata convinzione che un referendum popolare avrebbe mantenuto le cose come stavano; tuttavia, la loro presa   di   posizione   spinse   anche   alcuni   membri   dello   schieramento   opposto   a   schierarsi   più decisamente a favore del referendum.Anche nell'opinione pubblica il favore verso un cambiamento in senso proporzionale si accresceva: nel   1990   ben   il   65%  degli   elettori   era   favorevole   a   cambiare   (Vowles   and   Aimer,   1993:220). Arrivato al governo, il National Party indisse il referendum come promesso, ma scelse una strada 

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Fiducia nel parlamento neozelandese

Fonte: "The Politics of electoral reform in New Zealand", J. Vowles 1995

tortuosa: in una prima chiamata alle urne nel 1992 venne chiesto ai cittadini se volevano cambiare o meno   il   sistema attuale;   l'86% disse  di   si.  L'elettore  doveva anche parallelamente  scegliere   tra quattro  diversi   sistemi  elettorali,   e  anche qui   la   schiacciante  maggioranza  della  popolazione,   il 70,5%, scelse il proporzionale misto. Un secondo referendum, tenutosi nel 1993, ha chiesto alla volontà   popolare   di     ratificare   la   nuova   legge   elettorale   elaborata   secondo   i   risultati   del   voto referendario dell'anno precedente, ed intorno ad esso si è giocata un'aspra battaglia propagandistica.

L'organizzazione che si è fatta promotrice del cambiamento è stata la  Electoral Reform Coalition, formatasi   dopo   la   pubblicazione  del   rapporto  della   commissione   reale   del   1986,   del   quale   ha proposto la messa in pratica tramite un referendum popolare. I partiti minori  sono divenuti ben presto suoi grandi alleati, mentre tra i maggiori solo alcuni membri hanno aderito a titolo personale; un'altra preziosa risorsa organizzativa e propagandistica è venuta dall'appoggio dei sindacati.La risposta ai circoli pro­riforma ha tardato molto ad apparire; convinti fino all'ultimo dell'inutilità del referendum, gli oppositori in parlamento hanno formato un corpo unico solo nel 1992, quando è stato deciso il referendum; anche il mondo imprenditoriale si è schierato contro la riforma, e mentre saliva   il   consenso   intorno  al   referendum  le  40  maggiori   aziende  del   paese  hanno  costituito   il Business  Roundtable  (BRT),  nel  quale   sedevano  i   rispettivi  amministratori  delegati,   il  quale  ha commissionato uno studio che difendesse il sistema esistente.Dopo un  tentativo finito  ingloriosamente (una organizzazione fondata e  subito abbandonata per l'impopolarità  suscitata) l'opposizione al MMP ha trovato una sponda nella Campaign for Better Government (CBG), creata nel 1993 a ridosso del referendum da un uomo d'affari che (appoggiato da un folto gruppo di politici) ha raccolto in breve tempo una grande quantità di fondi per finanziare una campagna tanto pressante da divenire nella settimana precedente il referendum il principale inserzionista televisivo (Armstrong, 1993).

I punti chiave della riforma

Le principali questioni che la commissione elettorale incaricata di redigere la nuova legge ha dovuto affrontare sono:

1. la questione della rappresentanza Maori ­ Fin dal 1867 sono esistiti 4 collegi riservati ai Maori, indipendentemente dalla popolazione in essi compresa o, dal 1975, dal numero dei Maori  che avessero scelto di votare nei collegi riservati. Da decenni ormai quei seggi erano un feudo del Labour, e la rigida disciplina di partito impediva agli eletti dai Maori  di farsi portavoce  delle   loro  istanze.  Nell'intento di   tutelare  e  migliorare   la   loro  rappresentanza, passando al MMP era stato proposto di abolire i collegi riservati, esentando i partiti Maori dall'obbligo  di   superare   la   soglia   di   sbarramento   elettorale;   tuttavia   ciò  è   sembrato  un eccesso di favoritismo. È  stato  inoltre deciso che il  numero dei collegi riservati  dovesse essere proporzionale alla popolazione in essi iscritta;

2. il numero dei parlamentari ­ Conformemente alla visione dei riformatori, è stato seguito il consiglio della commissione reale di aumentare il loro numero, a prescindere dal sistema che sarebbe   stato   scelto:   il   numero   di   120   sembrava   particolarmente   adatto   alla   stessa commissione in caso di adozione del sistema MMP. L'allargamento è sembrato opportuno per  dare   forza  ai  parlamentari   senza   incarichi  di  governo  (i   cosiddetti  backbenchers),   e ridimensionare   quindi   il   peso   dell'esecutivo   nell'equilibrio   dei   poteri   tra   questo   ed   il Parlamento, oltre ad aumentare la grandezza (e quindi la democraticità) delle commissioni 

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parlamentari; considerato che l'allargamento del parlamento era un argomento poco gradito all'opinione pubblica, questo dettaglio ha certo posto un'ipoteca sulla popolarità del quesito referendario;

3. l'opportunità  o meno di utilizzare liste aperte  ­  la commissione, seguendo di nuovo il parere della Commissione Reale, decise per le liste chiuse per dare ai partiti la libertà di mandare in parlamento rappresentanti di certe categorie o minoranze, considerando anche la preferenza degli elettori per i partiti coesi, e l'alto grado di disciplina presente all'interno dei partiti stessi. D'altro canto, le liste aperte erano considerate più coerenti con la filosofia del MMP e più  democratiche, in grado di spezzare il  ferreo vincolo di lealtà  dei membri al partito;   su  questa  questione   i   riformisti   si   sono   spaccati  ma   alla   fine  è   stato  deciso  di utilizzare liste chiuse. Su questo aspetto si è concentrata la polemica degli anti­riformisti, che ne hanno evidenziato la scarsa democraticità.

Il sistema MMP

Come abbiamo già detto, la riforma elettorale ha portato a 120 il numero dei parlamentari, che sono eletti direttamente dal popolo a suffragio universale per un mandato di tre anni.

Il sistema elettorale utilizzato dal 1996 è del tipo  proporzionale misto  (in inglese  Mixed Member Proportional  o   MMP),   ed   elegge   una   parte   dei   parlamentari   su   base   nazionale   in   modo proporzionale ed una parte su base territoriale, all'interno di apposite circoscrizioni concepite in modo da dare voce alle diverse regioni ed alle minoranze (esistono ancora i seggi speciali per i Maori). Il paese è diviso in un certo numero di collegi uninominali (65 nel 1996, 67 nel 1999 e 69 nel 2002 e 2005), che determinano ognuno un vincitore utilizzando la formula plurality; oltre ad un candidato  per  ogni  collegio,   i  partiti   presentano   liste  nazionali:  ogni  elettore  assegna  così   due preferenze, una alla lista ed una al candidato prescelto. Le liste sono bloccate, l'elettore non può quindi assegnare preferenze nominali al loro interno o modificare l'ordine delle preferenze; il voto di lista è il più importante perché è quello che in sede ultima determina la composizione della Camera dei Rappresentanti.

Con l'adozione di una formula proporzionale è sembrato opportuno introdurre una soglia elettorale esplicita: per essere ammesso alla ripartizione dei seggi, un partito deve raggiungere almeno il 5% dei voti validi espressi, oppure vincere almeno un seggio uninominale (quindi per un piccolo partito guadagnare almeno un seggio è prezioso). I seggi sono ripartiti utilizzando il metodo di  Sainte­Laguë; se un candidato viene eletto sia nominalmente che tramite la lista di partito, viene escluso da quest'ultima e il suo posto viene preso da quello che lo segue sulla lista.Questo   sistema   porta   lievi   distorsioni   perché   spesso   il   numero   di   seggi   guadagnati   tramite   le preferenze di partito è differente da quello derivante dalle preferenze nominali: un partito potrebbe vincere più seggi tramite l'elezione nominale che con la ripartizione proporzionale. In questo caso, il partito mantiene il surplus di seggi, ed il  totale dei posti alla Camera viene aumentato, come è avvenuto nel 2005 quando il partito dei Maori, con il 2,1% dei voti,  ha ottenuto direttamente quattro seggi, ma solo tre tramite la ripartizione. Il partito ha mantenuto il seggio in più, e la Camera è risultata composta da 121 membri, anziché 120.Come in tutti i sistemi che usano una soglia elettorale, è piuttosto comune il voto tattico: in Nuova Zelanda questo è stato usato da chi preferiva i partiti maggiori, votando il candidato locale di un partito più piccolo: questo stratagemma aumenta la proporzionalità del sistema, perché bypassando la soglia elettorale fa entrare in parlamento anche partiti minori.

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La formula di Sainte­Laguë

La formula  di  Sainte­Laguë  è  un metodo simile  alla   formula D'Hondt,  ma utilizza un divisore diverso: dopo che tutti i voti sono stati registrati, si calcola una serie di  quozienti  per ogni lista, dividendo il numero dei voti ottenuti da ciascuna per una serie di numeri dispari consecutivi: prima per  1,  poi  per  3,  per  5,7,9  e  così  via.  Si  otterrà  una serie  di  numeri,   i  quozienti  appunto,  che determinano l'ordine di assegnazione dei seggi, i quali andranno ai partiti cui appartengono i 120 quozienti più elevati: questi vengono ordinati dal più grande al più piccolo e il primo seggio viene assegnato alla lista cui appartiene il  primo quoziente, il  secondo alla successiva e così  via fino all'esaurimento dei seggi disponibili.Tale   formula   restituisce   risultati   simili   a  quelli   della   formula  di  Webster,   sebbene  quest'ultima utilizzi un sistema di calcolo differente.

La procedura seguita per l'assegnazione dei seggi è la seguente:

1. si sommano tutti i voti nazionali (di lista) e si costruisce una tabella che mostra il numero di voti   raccolti   da   ogni   partito,   la   percentuale   sul   totale   dei   voti   ed   il   numero   dei   seggi aggiudicati;

2. si determina quali partiti vanno eliminati perché non hanno raggiunto la soglia richiesta (5% o un collegio), e si eliminano dal conteggio i loro voti;

3. si   applica   la   formula  di  Sainte­Laguë   ai  voti   dei   partiti   che   sono   rimasti,   calcolando   i quozienti relativi ad ogni partito;

4. si   determina   il   numero   dei   seggi   conquistati   da   ogni   partito,   contando   il   numero   dei quozienti che il partito ha tra i 120 più alti;

5. si confronta il numero di collegi uninominali vinti da ogni partito con il numero dei seggi attribuitigli tramite il conteggio di cui al punto 4, e si assegna ad ogni partito il numero di seggi conquistati prendendo il numero più grande fra i due;

6. si cancellano dalle liste di partito i candidati che sono stati eletti con il voto singolo in un collegio;

7. si ripartiscono i seggi di ogni partito ai candidati presenti nelle liste, partendo dall'alto;8. i candidati cui è stato assegnato un seggio vengono dichiarati eletti al Parlamento con   la 

pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei loro nomi.

Conclusioni

Il caso britannico è uno degli esempi più consolidati di sistema maggioritario di tipo plurality: ben poco si può dire su di esso che non sia già stato detto o scritto da altri. Lo scopo ultimo di questa breve  trattazione  è   tuttavia  quello  di  aggiornare  in  qualche  modo  i   risultati  e   i  dati  esposti  da Lijphart, per capire se e come il sistema sia cambiato negli ultimi anni; per meglio formalizzare i concetti   e   individuare   tendenze   e   cambiamenti   ci   affideremo   adesso   a   qualche   semplice elaborazione grafica.

Il diagramma sottostante mostra l'andamento del numero effettivo di partiti, calcolato utilizzando la formula di Laakso/Taagepera, nel periodo che va dal 1945 alle elezioni del 2005.Possiamo osservare come tale valore, pur muovendosi sempre attorno a valori molto prossimi a 2 (come è tipico dei sistemi maggioritari), stia leggermente spostandosi verso l'alto: infatti, la retta di regressione mostra una chiara inclinazione positiva. Sebbene esso sia piuttosto contenuto, l'aumento del numero effettivo di partiti può essere interpretato come un leggero declino del sostegno ai partiti 

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maggiori,   che   sembra   essere   confermato   da   un   marcato   incremento   della   non   proporzionalità elettorale, calcolata utilizzando la formula di Gallagher.

Il grafico, che mostra l'andamento della proporzionalità della rappresentanza dal 1945 al 2005, ci mostra un trend di crescita evidente: sia pure in modo contraddittorio e discontinuo, il valore medio di tale indice è salito notevolmente nel corso dei decenni. Questo appare del tutto coerente con le statistiche elaborate da Lijphart, le quali mostravano già nel 1996 una tendenza all'aumento della non proporzionalità.   Infatti,   la  media dell'indice di  Gallagher   indicata  nel  libro “Le democrazie contemporanee” corrisponde a 10.33% per il periodo 1945/1996, ma l'autore mostra anche come lo 

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Fonte: elaborazione propria

1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 20100%2%4%6%8%

10%12%14%16%18%20%22%24%

Non proporzionalità elettorale ­ U.K.

Fonte: elaborazione propria

1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 20100,0

0,5

1,0

1,5

2,0

2,5

3,0

3,5

4,0

Numero effettivo di partiti ­ U.K.

stesso valore nel periodo 1971/1996 sia sensibilmente aumentato a 14,66%. Sembra dunque in atto un   lento  ma   costante  processo  di   cambiamento  delle  dinamiche  elettorali   britanniche   il   quale, qualora non venisse riassorbito coagulando maggiori consensi intorno ai partiti principali, potrebbe arrivare a mettere in difficoltà il sistema inglese; tuttavia è troppo presto per fare previsioni.

Se  andiamo  invece  a  vedere   il   caso  neozelandese,   ci   troviamo  di   fronte   a   statistiche  del   tutto sovvertite rispetto al secolo scorso: il palese motivo dei grandi cambiamenti occorsi è la radicale riforma del sistema elettorale. Con le prime elezioni tenute utilizzando il nuovo sistema, nel 1996, il panorama politico è risultato del tutto cambiato:

come si vede chiaramente, il numero effettivo di partiti si discosta leggermente dalla media con le elezioni  del   1993,   in   cui  ben  due  dei  partiti  minori  hanno  ottenuto   seggi,   per  poi   subire  una impennata dopo le elezioni del 1996, tenute con il nuovo sistema proporzionale. Il NEP fino al 1993 si era attestato su valori tipici dei sistemi maggioritari (e dello stesso Regno Unito), tutti molto vicini a 2; nel 1996 ben sei partiti hanno varcato la soglia del Parlamento, e con una ripartizione dei seggi molto meno sbilanciata a favore dei partiti grandi: questo ha portato il NEP ad un valore record per questo paese: 3,76.

Fin dalle prime elezioni tenute con il nuovo sistema, il numero di partiti in parlamento è dunque notevolmente salito e la proporzionalità è vistosamente aumentata; inoltre, nessun partito ha più la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento.

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Fonte: elaborazione propria

1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 20100,0

0,5

1,0

1,5

2,0

2,5

3,0

3,5

4,0

Numero effettivo di partiti ­ N.Z.

Anche la non proporzionalità rappresentativa mostra una sostanziale variazione sia nel valore che nella tendenza in corrispondenza dell'adozione del nuovo sistema: dopo essersi attestata su valori piuttosto alti (seppure coerenti con la media dei sistemi maggioritari), essa è crollata nel 1996 da un valore  del  18% a  un  modesto  3%.  A questo   sembra   seguire  un  processo  di   assestamento   che potrebbe non essersi ancora esaurito, sebbene alle ultime elezioni (tenutesi nel 2005) l'indice di Gallagher abbia raggiunto il valore estremamente basso dell' 1% circa.Dopo la riforma la non proporzionalità ha quindi avuto un trend discendente, mentre nella seconda metà del Novecento essa era cresciuta senza sosta: Lijphart parla di un valore medio tra il 1945 ed il 1996 di 11,11%, che tra il 1971 ed il 1996 era salito fino a 14,63%.Il caso neozelandese è dunque ricco di implicazioni, e merita il grande interesse mostrato da molti studiosi che  lo hanno eretto a  caso paradigmatico di  come  il  sistema elettorale  sia   in  grado di modificare sostanzialmente il panorama partitico e le dinamiche parlamentari. Sebbene la cosiddetta “Legge di Duverger”, la quale afferma che il sistema elettorale influisce modificandolo sul sistema partitico di una nazione, sia tuttora oggetto di dibattito e non sia ancora universalmente accettata come valida, è indubbio che l'osservazione delle vicende neozelandesi suggerisce conclusioni del tutto coerenti con questo enunciato.Duverger   ha   infatti   affermato   che   i   sistemi   plurality   favorirebbero   la   formazione   di   sistemi bipartitici,  mentre sistemi proporzionali o maggioritari a due turni porterebbero tendenzialmente verso il multipartitismo (Duverger, 1964). Questo è sicuramente accaduto in Nuova Zelanda, come mostrano chiaramente i dati ed i grafici: tuttavia, non possiamo considerare questo cambiamento come una “distorsione”  o come un “arbitrio”  compiuto  dal   sistema elettorale  nei  confronti  del sistema partitico. Come abbiamo già ripetuto, infatti, negli anni precedenti la riforma neozelandese il   paese   aveva   assistito   ad   un   progressivo   e   consistente   aumento   della   non   proporzionalità rappresentativa, che aveva portato vistose distorsioni. L'adozione del nuovo sistema non ha certo alterato, ma piuttosto riequilibrato una situazione che il semplice plurality non era più in grado di gestire, e che si era sclerotizzata in un circolo vizioso di delegittimazione e sfiducia verso i vari governi   il   quale  non aveva  altra  possibilità   di   risolversi   autonomamente,  pena   la   solidità   delle istituzioni democratiche. È d'altronde certo che questo unico caso non basta a dare le necessarie 

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Fonte: elaborazione propria

1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 20100%

4%

8%

12%

16%

20%

24%

Non proporzionalità elettorale ­ N.Z.

fondamenta ad una legge che si pretende universale, come è vero che ogni caso specifico ha una sua storia unica e irripetibile; tuttavia, esso deve essere un ulteriore passo avanti nella comprensione di certe dinamiche,  e forse verso l'accettazione e  l'approfondimento di una affermazione,  quella di Duverger, che ci sembra carica di senso e punto di partenza per nuove ricerche.Concludendo, negli ultimi 8 anni la Gran Bretagna non si è spostata in maniera percettibile nel continuum   che   separa   maggioritarismo   e   consensualismo   puro,   almeno  per   quanto   riguarda   il sistema elettorale, sebbene l'andamento di alcune tendenze di lungo periodo (come l'aumento della non proporzionalità)  potrebbe sollevare  alcuni  dubbi   sulla   resistenza  del   sistema nei  decenni  a venire. La Nuova Zelanda ha invece compiuto uno spostamento notevole, avvicinandosi decisamente al modello consensuale.Si  può   dire   infine  che   il   confronto   tra   il   sistema britannico  e  quello  neozelandese  è   certo  un esercizio fruttuoso: esso induce a molte riflessioni circa le diverse qualità e difetti di due sistemi concettualmente   molto   distanti,   ognuno   dei   quali   ha   però   dei   punti   di   forza   riconosciuti.   In particolare, il “grande salto” compiuto dalla piccola Nuova Zelanda allontanandosi da un modello talmente  consolidato  da  essere  dato   spesso  per   scontato  ci  mostra  ancora  una  volta  come non esistano soluzioni buone o cattive in assoluto, ma solo soluzioni migliori o peggiori per singoli casi specifici.

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