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Sempre più in grande! - writersezine.files.wordpress.com · natura necessità e bisogni primari dell'essere umano, cercando di adattare i temi delle proprie rubriche al concetto

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Sempre più in grande!Di Elena Brilli

A distanza di un paio di mesi dall'ultimo numero che avete accolto con molto favore, ecco a voi la nuova uscita della rivista WRITERS!

Sono stati due mesi di grande lavoro, ma quello che vi accingete a leggere è un numero arricchito da due nuove rubriche, da un'intervista ad un poeta toscano, in occasione dell'uscita della sua prima raccolta di poesie, dalla recensione di un libro di liriche gotiche, un insolito e riuscito mix di poesia, letteratura e cinema e da un'ampia sezione con racconti, di fattura davvero notevole, arrivati in redazione anche da parte di nostri appassionati lettori.

Già questo dovrebbe bastare a farvi divorare con entusiasmo questo nuovo numero di WRITERS, durante i vostri pomeriggi all'aria aperta o nella vostra estate vacanziera che si avvicina a grandi passi.

Ma avete bisogno di un altro buon motivo per esser catturati da WRITERS?

Ecco qua il più gustoso allora...

La rivista che state iniziando a sfogliare ha come tema portante il 'cibo', ovvia eredità di questi mesi di EXPO a Milano, di cui si è fatto un gran parlare prima, di cui si discute adesso e di cui si continuerà a parlare dopo...

I nostri redattori si sono confrontati con questo tema, semplice, banale forse, che investe per sua natura necessità e bisogni primari dell'essere umano, cercando di adattare i temi delle proprie rubriche al concetto di 'cibo', inteso come nutrimento per il corpo, ma inteso soprattutto come nutrimento per lo spirito, per la mente, per i pensieri...e allora ecco che il 'cibo' metaforicamente diventa poesia,

diventa capacità di scelta, diventa analisi delle sue implicazioni psicologiche, diventa valutazione delle risorse e visione del futuro, diventa sogno.

Il filosofo Feuerbach asseriva :”Noi siamo quello che mangiamo”, intendendo con questo che il cibo influenza non solo il fisico ma anche la coscienza e il nostro modo di pensare e che se poniamo l'attenzione al nostro organo più potente, quello che accoglie gli embrioni di ogni nostro pensiero cosciente e che ci rende esseri pensanti, allora quello che mangiamo diventa cultura, letteratura, poesia, arte, scultura, scrittura, lettura, creatività, curiosità, meraviglia, e ci rende uomini!

La redazione tutta ha fatto un ottimo lavoro nel rapportarsi con una delle questioni fondamentali della vita, a voi il giudizio se con i loro articoli i redattori ci siano riusciti.

Saremo curiosi di leggere le vostre osservazioni, le vostre critiche, i vostri suggerimenti e per farlo vi aspettiamo:

sulla pagina Facebook https://www.facebook.com/writers.magazine

sul nostro sito https://writersezine.wordpress.com/

in mail all'indirizzo [email protected]

Aspettiamo le vostre idee e se volete condividere con noi i vostri racconti, le vostre poesie, i vostri pezzi di creatività, noi saremo pronti ad accoglierli e dar loro spazio nelle nostre future pubblicazioni!

Ricordate che WRITERS può essere anche vostro!

Buona lettura allora, e che sia una splendida estate per tutti voi! La direttrice Elena Brilli

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Indice:4......L'invito: intervista a Samuele Liscio

9......La Girastoria Di Silvia Boscolo

12......Le stagioni in Giappone Di Eufemia Griffo

14......Inseguendo il Bianconiglio Di Elena Brilli

17......Basta un poco di zucchero.. Di Imma Gaglione

19.....Funambolo fanciullo Di Samuele Liscio

23.....La recensione Eufemia Griffo presenta “L'eredità di Dracula- liriche gotiche sull'amore oltre il tempo”

RACCONTI:

27......Ri-nascita Di Elena Brilli

29......Storia di Diana, l'elefantessa che predicava l'amore per la solitudine Di Roberta Cotticelli

30......Piero alla fine del cielo Di Francesco Lollerini

31......Palpitazione di cuore Di Antonella Fortuna

34.....Crediti

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L'invitoIntervista a Samuele Liscio, autoredella raccolta di poesie “Convalescenza”

a cura di Elena Brilli

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Samuele Liscio è nato il 9 luglio 1980 a Prato, dove attualmente vive e lavora. Diplomatosi come Tecnico della gestione aziendale ha conseguito una laurea in Storia dell’arte nel luglio del 2005.Una sua pubblicazione è presente in Badia a Pacciana. Chiesa di S. Maria Assunta. Storia e arte, Pacini editore, a cura di O. Melani e R. Ciabattini, Ospedaletto. Convalescenza è la sua prima raccolta di poesie.Samuele Liscio lo incontro a circa un mese dalla pubblicazione, per la casa editrice Europa Edizioni, della sua raccolta di poesie dal titolo “Convalescenza”. Il volumetto è reso prezioso da un'opera pittorica di Nino Senfett in copertina e dall'articolata prefazione di Giuseppe Panella, che prepara il lettore al percorso introspettivo che sarà invitato a fare con le poesie di Samuele, attraverso l'analisi dei tre 'capitoli' in cui questo viaggio interiore si suddivide.

Samuele, ci racconti il tuo incontro con la poesia e il rapporto che con essa hai stabilito nella tua esistenza?

Il mio rapporto con la poesia affonda le proprie radici nella mia infanzia. Devo molto alla mia maestra delle scuole elementari, Renata Mannocci, che recitava in classe le poesie di Gianni Rodari. Fu per me una scoperta importante, che ha segnato tutta la mia vita. A mia madre che mi chiedeva cosa desiderassi per il mio compleanno (settimo o ottavo non ricordo bene)risposi senza esitare che mi avrebbe accontentato se mi avesse regalato una macchina da scrivere tutta per me. Lei assecondò la bizzarra richiesta, e da allora ho cominciato a ricopiare a macchina le poesie più belle che ho incontrato lungo la mia strada.

Conservo gelosamente ancora non solo la macchina da scrivere, ma anche i fogli oramai ingialliti sui quali ricopiai le prime poesie.

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Che rapporto ha il tuo processo creativo con le 'colonne portanti' della poesia italiana, con il lavoro poetico degli illustri rappresentanti di questa immensa arte della parola?

Citare Dante, Leopardi, Montale è per me innanzitutto un dovere morale. Impossibile eludere questi nomi. Ma fermarsi a loro è comunque riduttivo. Rimanendo ancorato a quelle che sono le mie convinzioni letterarie e filosofiche non posso che sentirmi debitore anche di una grande figura della poesia del Novecento italiano come Camillo Sbarbaro. Sbarbaro, è per me il poeta italiano del Novecento che meglio ha espresso l’angoscia esistenziale e il sentimento di inadeguatezza rispetto alla realtà che lo circondava. Senza scadere mai nella retorica tipica del suo tempo si è confrontato con la sua solitudine sempre con grande coraggio e coerenza regalando alla nostra tradizione poetica pagine di grande spessore letterario e umano. Carlo Bo, grande estimatore del nostro poeta, in un saggio del 1938 intitolato “il debito con Sbarbaro” afferma che molti poeti del Novecento hanno “imparato a scrivere” studiando l’opera del poeta

ligure.

Veniamo alla tua raccolta di poesie dal titolo “Convalescenza”. Qual è il significato di 'convalescenza' all'interno del tuo lavoro poetico?

La convalescenza come momento di transizione fra il dolore e la salute mi affranca progressivamente dalla tirannide della malattia e nel farlo mi orienta verso una possibilità di rigenerazione (crisi, distacco, riorientamento). E' la bonaccia improvvisa che mi costringe a quella che Platone chiama la seconda navigazione, una metafora desunta dal mondo marinaresco che indica l'uscita dalla situazione di stasi prodotta dalla caduta dei venti mediante l'utilizzo dei remi. Riconosco nella paralisi della crisi esistenziale quindi una rinnovata ebbrezza sperimentale. Passo da una dimensione inerziale dalla quale emergeva la mia natura meno autentica, quella basata sulla speranza, all’emersione di una più autentica, basata sulla forza, attraverso la quale giungo alla possibilità di sopportare la dilaniante contraddizione rappresentata dalla sofferenza senza farmi distrarre da consolatorie conciliazioni.

La prima parte del tuo libro porta il titolo “Spazi Sterili”. La sensazione è quella di uno spaesamento senza punti di riferimento, un perdersi in un non luogo dell'anima arido, riarso, faticoso.

Lo spazio sterile deve essere interpretato come un luogo di passaggio obbligato verso la possibilità di consapevolezza. E' lo spazio inospitale, incontaminato, che costringe ad una sospensione dell’esistenza ordinaria, nel quale è possibile riflettersi nella propria coscienza di aridità e nullità. Sterile perché divide dal mondo e dalle relazioni sociali per far emergere le pulsioni più recondite, gli interrogativi più profondi e lancinanti. E’ l'esperienza purgatoriale, per scomodare Dante, che conduce per quanto mi concerne, ad una autentica possibilità realizzativa.

non cercarmi: non sono che un’inezia eternata in un gomitolo d’ambra;il mio fremere fermo è di fantasma lungo questo amaro filo di lama:

la salina luccica nel silenziodilatato del primo pomeriggio

(BADWATER, pag. 30)

Un elemento metaforico che ricorre nella prima parte della raccolta sono le 'cicale' come simbolo dell'inconsistenza umana, nel suo agitarsi quotidiano tra le miserie del mondo, rispetto allo scorrere indifferente del tempo e dello spazio. Un senso irreparabile di immensa solitudine, pur circondato da stormi di 'cicale'.

Ritornano spesso nelle mie poesie il canto delle cicale e il suono delle campane. Sono da sempre per me le immagini di un silenzio veramente cosciente, quasi mantrico. Un silenzio quindi che cambia pelle e si fa abissale, si fa voce di una profondità finalmente percepita. Così mi sciolgo e torno musica anch’io liberandomi della mia storia e della mia illusoria identità.

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La seconda parte del volume si intitola “Il Sacro e l'Esilio”, dove l'esilio sembra essere un'amara medicina di allontanamento dal mondo e da se stessi, necessaria per prendere le distanze dalla 'malattia', mentre il sacro assume la valenza di ancora di salvezza, di appiglio su cui concentrare gli sforzi per ritrovare un senso e tornare alla 'salute'. Sono interpretazioni valide del punto di 'mezzo', del percorso purgatoriale, del tuo percorso poetico?

Il sacro, come tensione inarrestabile verso l’alterità, consiste nell’evocazione di quel limite negativo che ci rimbalza inesorabilmente nella dimensione del reale e della relazione, consegnandoci alla naturalità di una esistenza soggettiva che non è mai veramente altra da quella che è. L’esperienza del sacro si manifesta quindi in una discrasia lacerante e traccia in maniera assai brutale quello che può essere considerato il perimetro del nostro destino, un destino di separazione e nostalgia. Prendere coscienza dell’esistenza significa allora essere pienamente consapevoli di avere per essenza l’esatto contrario dell’esistenza stessa (tema dell’inessenziale); risulta quindi corretta sul piano strettamente ontologico la convergenza tra Essere e Nulla. Il sacro si configura allora da una parte come delusione di una aspettativa umana, come il sentimento di un esilio insanabile, dall’altra come il motore di una risemantizzazione possibile del senso dell’esistere. Nel riportare poeticamente questa percorso formativo ho deciso di non conferire retrospettivamente una coerenza ai miei sentimenti, alle mie esperienze. Ne consegue una ricostruzione assai spigolosa e non priva di contraddizioni caratterizzata da sentimenti aspri come la misantropia, da desideri di fuga e annientamento, da una visione della poesia e della meditazione come strumenti di conoscenza interiore, dall'esaltazione dell’esperienza amorosa.

questo fiume mi supera:l’oblio mi traduce in semeil cuore ha un sussulto di fugafilo d’erba o pietrisco non importami spengo in altri battiti altra desolazione

(L’INESSENZIALE, pag. 43)

Quello che domina la sezione de “Il Sacro e l'Esilio” è una sensazione di sospensione del proprio dolore, in cui si riesce a vedere se stessi da fuori con un punto di vista diverso da sé. E' questo il senso dell''esilio'? Farsi altro da sé per vedere da fuori il proprio dolore e riuscire a comprendere il dolore dell'altro? Il dolore, guardato finalmente da fuori, assume quindi la valenza di una medicina, attraverso la quale rendersi partecipi di altri dolori e attraverso essi comprendere i percorsi di altre persone, fino a trovare in essi l'amore e la cura. Il dolore è quindi “Condicio sine qua non” si riesca ad arrivare all'amore e alla guarigione?

Rigenerarsi significa perdersi e allo stesso tempo cercare le forze per ritrovarsi. E ritrovarsi non significa tornare al punto di partenza, ma prendere coscienza del percorso che si è fatto senza tralasciare niente, neppure le lezioni più aspre. Affrontare il dolore, contenerlo con forza e pazienza, e finalmente dominarlo (dominare non vuol dire annientarlo ma saperci saggiamente convivere) è l’unica esperienza che dà sale all’esistenza. Il resto è rincorrere il vento, è vanità, è distrazione. Il termine guarigione è pericoloso. Preferisco concetti come liberazione e forza. L’amore che canto nelle mie poesie, per concludere, non guarisce quindi, sarebbe una illusione, bensì libera e rafforza.

La poesia che chiude la seconda parte della raccolta è “Qasida”, termine arabo che indica una forma poetica i cui temi fondamentali sono l'amore, il viaggio e l'encomio, sintesi perfetta del percorso intrapreso dal poeta che suggella la 'guarigione'. Il poeta definisce se stesso un 'reduce', un sopravvissuto. La malattia è dunque finita? E l'amore che ne è stata la cura più efficace assume quindi valenze salvifiche che lo avvicinano alla sacralità spirituale di una divinità?

Qasida è la poesia che meglio traduce l’esaltazione dell’amore che caratterizza gran parte della mia raccolta. L’amore è sempre un ritorno, per questo si è reduci, un ritorno faticoso all’innocenza perduta. L’amata del poeta, ritrovata dopo un lungo e rischioso viaggio si confonde con la coscienza risvegliata del poeta stesso.

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Rimanendo ancorati a questo tema, la tradizione poetica occidentale secondo me deve molto a quella araba, della qasida appunto. Basti pensare alla poesia provenzale, a Dante e agli stilnovisti e a tutta la tradizione successiva che ha messo al centro della propria ricerca letteraria la figura della donna – angelo. ho camminatolungo il filo d’aria che separa la sabbia dal cielo inseguendo la tua ombra. ora ti vedo: non è miraggio non può essere sogno questo vento di lameche strazia i miei occhistremati da notti stellate d’attesa.sei tu: eccomi, sono tornato a cogliereamore mio, il fiore dei reduci.

(QASIDA, pag. 44)

Il tempo della guarigione si trova nella terza parte del volume, dal titolo “Ritorno all'infanzia”. L'infanzia è dunque vista come punto di partenza e punto di arrivo di un percorso di vita che chiude il cerchio di una nuova consapevolezza?

Ritornare all’infanzia significa per me ritornare al tempo mitico in cui la forza dell’immaginazione era ancora nitida e non sporcata da tutte quelle convenzioni sociali che hanno appesantito inesorabilmente la mia evoluzione. Tale esperienza si traduce in un viaggio assai ripido e doloroso verso l’origine del sentire poetico, disturbato da quelle scorie emotive, espressioni tipiche della stagione della maturità, che non permettono di rivivere al meglio e con sereno distacco questi stimoli della memoria.

è un inverno rude: ridatemi alle infinite estati trascorse nella corte in mezzo al saliscendi dei palazzoni sanpaolesi, al dilagare abbacinante dei solleoni che mangiavanole saracinesche usurate, al battere lontano dei telai, alle bestemmie urlate dai giocatori di ramino, ai palloni finiti per errore oltre il tetto del capannone lasciati appassire nel nulla mai più recuperati,al frinire azzurro delle ventate gonfie di stelle

ridatemi all’estraneoche dispensava caramelle

(LA CORTE, pag. 47)

L'ultima parte della raccolta porta il titolo “Congedo”. Ci si congeda dalla vita o il congedo da quello che è stato, da quello che siamo stati, è solo l'anticamera di nuovi passi nella ricerca del nostro senso?

Il ritiro nella selva è un concetto estrapolato dalla filosofia orientale e rappresenta l’ultimo stadio dell’esistenza induista chiamato divanaprastha, caratterizzato dal completo distacco nell'attesa della morte. Una fuga dal mondo e dalla storia quindi, nella mia silenziosa inti mità alle porte della dissoluzione.

oltre la lucebrandelli di torri straziatee cenere.neanche un filo di vento

(IL RITIRO NELLA SELVA, pag. 55)

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Qui sotto sono illustrati tutti i riferimenti per trovare la raccolta di poesie di Samuele Liscio.Un invito personale a tutti voi è quello di prenderne visione, scaricarla, acquistarla, nei modi e tempi che ritenete più adatti alla consultazione, perché attraverso il personalissimo percorso di Samuele avrete l'occasione per riflettere sul vostro viaggio, sul dolore, sulla ricerca, sulla poesia, sull'amore, sulla vostra “Convalescenza”.

Elena Brilli

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La girastoriaNon c'è amore più sincero

di quello per il cibo Di Silvia Boscolo

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In questo nuovo numero di Writers si tratta di un argomento molto attuale e largamente discusso nonché molto, anzi parecchio amato dalla vostra Silvia!!

Ammetto di essere una buona forchetta e se mi invitate a cena di certo non mi tiro indietro! L’idea di un classico e sempre squisito piatto di pasta al ragù, per esempio, mi fa sorridere, questo perché il gusto e anche il profumo mi fa tornare indietro nel tempo, ricordo eventi dell’infanzia che pensavo fossero solo un sogno ma che in realtà ho vissuto davvero.

Solo pensarci già mi brontola lo stomaco! Oltre a nutrire il corpo c’è anche il fatto di provare un piacere impagabile nel mangiare quei cibi considerati poco salutari ma a cui non possiamo mai fare a meno. La sottoscritta per esempio di recente ha gustato i “salutari” fiori di zucca in pastella fritti, oppure lasagne, oppure cotolette, oppure…altre cose che, al solo pensiero, mi fanno salire il colesterolo e aumentare di peso, decisamente questa settimana ho esagerato!

Ma la mia filosofia è…godersi la vita senza esagerare e questo mantra vale per tutto, in modo particolare per il cibo!

L’argomento di questa rubrica è la storia come molto spesso ricordato dalla sottoscritta ma penso che per questa volta invece di parlare solo di personaggi famosi e dei loro gusti, possiamo anche parlare del cibo che fa la nostra storia personale.

Quante volte abbiamo sentito raccontare di persone che hanno imparato a cucinare o a gustare il buon cibo dalla propria nonna o dalla propria mamma? Purtroppo ammetto di non essere una brava alunna ma faccio l’autodidatta e quando posso mi cimento; sapete si dice che seguire passo passo una ricetta faccia bene all’attività cerebrale come se steste facendo un cruciverba! Per quanto mi riguarda preferisco di gran lunga cucinare perché è un modo come un altro per scaricare la tensione.

Qual è il cibo/piatto che vi piace e che vi ricorda l’infanzia? Ancora oggi ricordo con molto affetto la torta di mimosa all’ananas che faceva mia madre e che preparava in occasione del mio compleanno. Fa un effetto strano ricordare qualcosa che sembrava dimenticato, infatti grazie a questa torta, dopo molti anni, sorrido perché mi sembra di rivivere quei momenti spensierati di quando ero una bambina.

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Mio padre mi diceva sempre da piccola che se non mangiavo tutti i chicchi di riso che rimanevano nel piatto Gesù bambino si sarebbe messo a piangere e sarebbe stato male, un ricatto in piena regola ma che in fondo ha funzionato visto che oggi lascio il piatto completamente pulito.

Ho chiesto a delle mie amiche i loro ricordi sul cibo e questo è quello che è venuto fuori: “Mi ricordo solo un episodio…Le zucchine perché riusciva a farmele mangiare solo la mia balia che mi ha tenuta da piccolissima fino ai 10 anni. Ora le mangio anche a casa!” Cinzia. “Le caramelle Mou perché quando ero piccola a casa mia non giravano molte caramelle ma, quando andavamo a trovare mia zia, lei mi dava sempre le caramelle Mou e appena ne rimangio una mi viene sempre in mente lei” Elisa.

“Mangiavo volentieri il risotto con la salsiccia perché mi ricorda la mia nonna! Siccome non abitiamo vicinissime, quando ero piccola e andavo da lei glielo chiedevo spesso e quando me lo faceva ero la bambina più felice del mondo” Chiara.

Riflettendo su quanto hanno detto possiamo affermare che il cibo ci ricorda non solo eventi ma anche le persone, un modo davvero dolce per ricordare chi ci vuole bene e che ci è stato accanto.

Un altro piatto che forse a me personalmente non verrebbe mai in mente di mangiare (pur apprezzando molto le verdure) è il minestrone “…con molti, molti crostini” (come sottolinea Ilaria) e spulciando vari siti scopro che il grande genio Leonardo da Vinci era, anche lui, ghiottissimo di minestrone di verdure, lo sapevate che era vegetariano? Il famoso pittore Cézanne, invece, andava matto per l’anatra alle olive, molto più consistente, senza dubbio, di un minestrone di verdure e sicuramente più invitante!

Il famoso Napoleone Bonaparte pare non dedicasse molto tempo a mangiare ma le volte che si sedeva a tavola preferiva consumare piatti semplici e a volte si concedeva uno strappo alla regola mangiando un succulento pollo alla Marengo (pollo, gamberi di fiume, funghi e uova).

Navigando senza sosta su Internet possiamo trovare delle autentiche “chicche” per esempio sapete come sono nate le tagliatelle all’uovo? Sono state create da Cristoforo da Messinburgo ispirandosi ai lunghi capelli biondi di Lucrezia Borgia (figlia illegittima di Papa Alessandro VI).

Andando molto avanti nel tempo e più precisamente ai tempi della guerra civile americana, si diceva che tra i numerosi attentati alla vita del presidente Lincoln ce ne fu uno davvero molto particolare, si pensava, a quel tempo, che il pomodoro fosse velenoso quindi venne utilizzato per farne una zuppa che fu poi servita al presidente, ovviamente il piano non funzionò ma pare sia molto piaciuta!

Adesso però non si può non parlare del piatto principe della cucina italiana e conosciuto in tutto il mondo ovvero la pizza! La più famosa e forse quella più “gettonata” è senza dubbio la pizza Margherita chiamata in questo modo in onore di Margherita di Savoia prima regina d’Italia e moglie di Umberto I. C’è da dire che

la pizza pomodoro, mozzarella e basilico esisteva già da molti anni quindi più che altro quella alla regina fu solo una dedica.

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Silvia Boscolo:“Mi chiamo Silvia e sono una modesta e “recidiva” studentessa universitaria, amante di libri, di film, di viaggi e della natura.Mi definisco molte cose ma piu'di tutto in questo sono amica e blogger. Mi piace molto anche cucinare ma e'meglio dire che mi piace la sensazione che mi da il momento in cui mi mettoai fornelli e seguire una ricetta, mi fa passare lo stress e mi mette di buonumore” .

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Rimanendo in Italia…d’Annunzio come Napoleone non era un grande mangiatore ma non rinunciava completamente ai piaceri della tavola soprattutto alle specialità della sua terra, era un’amante dei dolci e fu il primo ad assaggiare il “Parrozzo” dolce abruzzese creato da Luigi D’Amico nel 1919.Si potrebbe continuare all’infinito e parlando di cibo si potrebbero riempire libri e libri, quest’anno abbiamo l’occasione unica di fare un viaggio in questo fantastico mondo senza attraversare il confine…quale occasione è più “ghiotta” quella di visitare l’Expo che quest’anno si svolge in Italia? Quello che l’Esposizione Mondiale ci offre (come troviamo scritto sul sito dell’Expo, sezione Cos’è l’Expo): “E’ una vetrina mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri” Ma non solo …“offrirà a tutti la possibilità di conoscere e assaggiare i migliori piatti del mondo e scoprire le eccellenze della tradizione agroalimentare e gastronomica di ogni Paese”. Quindi…forchette alla mano e mente aperta!

Silvia

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Le stagioni in Giappone

La cucina giapponese Di Eufemia Griffo

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Dal dicembre 2013 la cucina giapponese è inserita

fra i patrimoni orali ed immateriali dell'umanità e

dell'Unesco.

In essa uno degli ingredienti principali è il riso, ma

sono diffusi anche i noodles, la pasta, il pesce, le

verdure e legumi.

La carne è generalmente assente ma presente in

alcuni piatti di origine straniera come ad esempio il

tonkatsu. Tra i piatti maggiormente conosciuti

annoveriamo il sushi, un piatto a base di riso

insieme ad altri ingredienti come pesce, alghe

vegetali o uova.

Il ripieno può essere crudo, cotto o marinato e può

essere servito appoggiato sul riso, arrotolato in una striscia di alga, disposto in rotoli di riso o inserito

in una piccola tasca di tofu.

Il sashimi che consiste principalmente in pesce o

molluschi freschi, ma anche carne, tagliati in

fettine sottilissime. Sono di solito mangiati crudi e

serviti solo con una salsa in cui intingerli (per

esempio la salsa di soia con wasabi) e con un

semplice abbellimento come per esempio le radici

di daikon tagliate in filamenti.

Oltre al sushi ed al sashimi, ricordiamo anche il

ramen, il soba, oltre ai piatti a base di tofu e di

natto.

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Eufemia Griffo: “Mi chiamo Eufemia e scrivo per passione, e le parole sono dei sogni che su carta prendono forma ed anima. Le parole creano magia, legami, suscitano emozioni finanche conducono all'Amore. Mi piace la poesia, il Giappone, mi piace la creativita', masoprattutto mi piace vivere! Non amo le mezze misure, sono o bianco o nero.”

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Tra le bevande sono diffuse il sake (di cui abbiamo parlato in un apposito articolo del Segnalibro) ed il

tè verde. I giapponesi fanno anche largo uso di dolci chiamati wagashi.

Nella cucina giapponese, non esistono i concetti di primo piatto, secondo, contorno e frutta: in tavola

solitamente vengono portati contemporaneamente tutti i cibi che vengono consumati senza ordine

prestabilito.

Si fa un largo uso di pietanze fritte in diversi modi, la cui pesantezza viene bilanciata da una grande

quantità di verdure.

Infatti la cucina giapponese è nota per essere una delle cucine più bilanciate e salutari del mondo e

questo spiega come mai i giapponesi siano tanto longevi.

Un largo utilizzo di pesce fresco, verdure, radici e tè verde la rende anche ideale per combattere varie

forme di tumore.

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Inseguendo il bianconiglioBianconiglio corri!!! C'è il pane in forno!!! Di Elena Brilli

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Inseguire il Bianconiglio è una metafora esistenziale che implica la continua ricerca e rincorsa dei propri sogni, dei propri desideri, del soddisfacimento delle proprie necessità.Il cibo, in quanto nutrimento necessario al corpo per quel meraviglioso laboratorio chimico che è il nostro organismo nel trasformare tutto quello che mettiamo in bocca in proteine, zuccheri, grassi, etc..., incarna in sé la quintessenza della ricerca del soddisfacimento di un bisogno primario, istintivo, imprescindibile.Un bambino appena nato, nell'istante in cui riconosce l'odore della donna che lo ha messo al mondo e custodito dentro di sé, muove la testolina alla ricerca spasmodica del capezzolo. Sa, anche se tutto il suo corpicino si racchiude indifeso all'interno di due mani, che vivrà solo se trova la fonte del suo nutrimento. E quando lo trova è vorace, famelico, egoista, determinato al limite della cattiveria, e se la madre ha la fortuna di avere il suo bimbo attaccato al seno (che a volte succede che non si attacchino, che non riconoscano la fonte da cui avrebbero il loro cibo)ne diventerà schiava per le successive settimane, e nulla potranno dolore, pudore, ragadi, sonno, stanchezza, necessità personali, fame, contro la volontà primigenia di vivere e di 'usare' la donna che ti ha messo al mondo come fonte di approvvigionamento primario della più essenziale delle necessità.Se ci si pensa bene, tutto ruota intorno al cibo, dal soddisfacimento personale di un bisogno primordiale alla caratteristica sociale di noi animali umani.

Ci si ritrova spesso intorno ad una tavola apparecchiata, e il cibo diventa una delle occasioni privilegiate di socializzazione, di interazione, di dialogo, di nutrimento e per una forma evoluta di osmosi mentale, cibo è anche anche tutto ciò che costituisce nutrimento per il pensiero, l'arte tutta dunque, e poi la lettura, la scrittura, la dialettica, la cultura.Pensate per un attimo, se qualcuno da un giorno all'altro, vestito di un camice bianco che gli conferisce l'autorità di imporre nuove regole in virtù del fatto di aver trovato il motivo del vostro malessere e di conoscerne la soluzione, vi dicesse che non potete più mangiare una sostanza. Non un alimento definito in sé nella sua interezza, ma un elemento, una proteina specifica, contenuta in una miriade di alimenti che sono alla base della nostra dieta mediterranea, patrimonio dell'umanità, e di tutta l'alimentazione pressocchè mondiale, con le dovute variabili del caso.Quando ci si riferisce a condizioni di emergenza, la frase iconica della privazione, che comunque deve fare i conti con la necessità di sopravvivenza, consiste nell'esser messi a 'pane e acqua'... bene...levate il pane.E levate il pane perché altrimenti sapete che passereste notti e giorni interi, infiniti, doloranti, devastanti a vomitare senza sosta e contemporaneamente una dissenteria feroce vi sconquasserebbe le viscere...per ore...per giorni...

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Credetemi...anche se lo avete mangiato fino a quel momento il pane, iconicamente preso come punto di riferimento per tutto quello che esso significa e che contiene quella maledetta proteina che si chiama gliadina, ecco, anche se lo avete mangiato fino a quel momento il pane, da un momento all'altro lo cacciate a calci il pane dalla vostra vita...'mors tua...vita mea'.I tempi immediatamente successivi alla diagnosi sono devastanti, faticosissimi...si sperimenta la fame...quella vera...buona parte di quello su cui si basava la tua alimentazione fino al giorno prima non esiste più...ma sei fuori casa...e hai fame...e non hai ancora pensato a portarti dietro il pacchettino di una qualsiasi cosa da mangiare senza glutine imbustata nella plastica...e senti l'odore del cornetto caldo al bar...ma non lo puoi mangiare...passi davanti al forno che ha appena sfornato la pizza o la schiacciata, o il pane...ma non puoi mangiarlo...e hai fame...e nonostante le privazioni, continui a sentirti male per i successivi due anni, come se tu quella maledetta proteina continuassi a mangiarla ogni volta...Le abitudini, formalizzate fin dai lontani anni dell'infanzia in modi, tempi, ritmi atavici, della tua alimentazione vengono talmente tanto scardinati dalle fondamenta che per mesi ti rifiuti di uscire a cena con gli amici...perchè da un giorno all'altro sei diventata 'quella diversa', quella che deve andare a parlare con il cuoco, quella che quando portano i piatti il cameriere urla come se fosse una messa alla gogna “chi è quella celiaca?”...quella che rompe le palle alla cucina...quella che deve avere tutto cucinato a parte, acqua separata, pentole diverse, stoviglie diverse...e sei servita per prima o per ultima, mai insieme, e tutti che ti chiedono, “ma che succede se assaggi solo un morso di pizza? Non ti farà mica male, in fondo è solo un morso...” e te che spieghi e spieghi e spieghi...e quel morso glielo vorresti dare alla pizza, molto più di loro...ma non puoi...Poi passano i mesi...e l'uomo è un animale con un'infinita capacità di adattamento, quindi ti abitui...stabilisci nuove regole, ti imponi nuovi comportamenti, pretendi il soddisfacimento dei tuoi bisogni...

Poi passano i mesi...e l'uomo è un animale con un'infinita capacità di adattamento, quindi ti abitui...stabilisci nuove regole, ti imponi nuovi comportamenti, pretendi il soddisfacimento dei tuoi bisogni...Passano gli anni, e ti abitui alle cose da mangiare che escono sempre dalla plastica...arrivi ad odiarla la plastica...arrivi ad odiare il mangiare in sé...ne perdi il piacere...non mangi più...semplicemente ti nutri...Capita anche che scegli di iniziare a fare un mestiere bistrattato dai più, considerato alla stregua di un riempitivo, e che è strettamente collegato alla fruizione del cibo. Così molli un lavoro sicuro in ufficio e fai la cameriera professionista in un ristorante di alto livello, e, quasi per autoimposta legge del contrappasso, non puoi assaggiare i piatti che servi e consigli, ma il tuo giudizio passa dai sensi che rimangono escluso il gusto, e di un piatto ne osservi l'aspetto, valuti l'armonia dei colori, la geometria della disposizione, ne annusi l'odore e arrivi esattamente a sapere che quel piatto sia meglio di un altro, che soddisfi meglio le richieste del ricercato cliente che hai di fronte. E alla fine della cena le facce gioiose che ringraziano e si alzano dopo aver goduto dell'ottimo piatto che hai consigliato, fanno in modo che tu ti senta contenta, felice di aver soddisfatto un loro bisogno primario nel migliore dei modi possibile...mangiandolo tu attraverso di loro, attraverso le loro bocche, attraverso le loro mandibole che affondano i denti nei bocconi, attraverso i loro sguardi soddisfatti, i loro sorrisi, i loro apprezzamenti.Mangi con il corpo di un altro...ti nutri con il tuo...di quello che resta...Una cosa rimane viva nei ricordi...e rimane collegata al pane...L'odore del pane è la quintessenza di un sogno, di un desiderio...lo tieni in mano il pane...lo guardi, nella perfezione striata della cottura, ne senti con le dita la consistenza croccante della crosta, la farina resta sulle dita...lo annusi, lo sniffi quasi come un tossico in crisi di astinenza...lo ascolti mentre scrocchia sotto la pressione e si divide...il quinto senso non può essere soddisfatto...ma ecco che interviene il sesto senso, la mente...il ricordo...

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Elena Brilli:“Mamma, blogger, sognatrice... In ordine sparso...”

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E così riassaggiare il pane, quello vero, a distanza di molti anni diventa il tuo Bianconiglio, il tuo desiderio recondito, il tuo peccato di gola, la tua lussuria estatica nei confronti del cibo...diventa un'idea, pari all'amore, e come esso procura gioie e sofferenze.Ogni tanto si affacciano ipotesi di nuove frontiere della ricerca scientifica che annunciano la sintetizzazione di una pillola che, assunta prima dei pasti, inibirebbe la reazione autoimmune di rifiuto della gliadina all'interno del primo tratto dell'intestino...Appena l'avranno inventata, fosse l'ultima cosa che faccio nella mia vita, voglio risentire il sapore del pane appena sfornato...il calore sulle papille gustative, lo scrocchiare della crosta sotto i denti, l'amalgamarsi della saliva con la mollica...Morire per indigestione di pane...Chissà se questo Bianconiglio diventerà mai reale...chissà se il mio Bianconiglio fumante appena sfornato si farà mai prendere...mi piace pensare di sì...Lo immaginate passarmi davanti con una bella pagnotta di pane in una mano e nell'altra il suo orologio da taschino? “E' tardi, cara mia...è tardi...”Mi sfamerò dei ricordi...Non metto su il tè stavolta...ma sforno il pane...venite a farmi compagnia?Vi aspetto su [email protected] già che ci siete, portate voi il burro e la marmellata?

Elena Brilli

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Basta un poco di zucchero..

Cibo: punti di vista Di Imma Gaglione

Un qualsiasi libro di scienze delle elementari, quando si comincia a parlare del corpo umano, utilizza la comune espressione: “noi siamo quello che mangiamo”. Per alcuni il cibo è semplicemente qualcosa per sfamarsi, questo perché, ormai, non si analizzano più le cose sotto altri punti di vista, perciò per avere una definizione dovremmo sempre chiedere prima ai bambini.Alla domanda: “cos’è per te il cibo?”, Francesco di 7 anni ha risposto: “tanti colori diversi”, Anita di 5 anni: “quando io, mamma e papà stiamo insieme la sera”, Miriam di 4 anni: “le stelline in brodo della nonna”.

Cosa possiamo aggiungere? Il cibo è immaginazione, fantasia, disciplina, è stare insieme, è un mezzo che permette alla vita di fare il suo corso.E’ un bene avere l’Expo in Italia quest’anno, è un bene parlare di cibo, è un bene comunicare sulla giusta alimentazione, perché purtroppo, al giorno d’oggi, il cibo ha anche un’altra faccia, assolutamente negativa, incredibilmente sbagliata, ampliamente diffusa. Questa faccia riguarda i disturbi alimentari, di chi non ha un buon rapporto con il cibo, perché sostanzialmente non ha un buon rapporto con se stesso.

Anoressia, obesità, bulimia, termini che sentiamo in continuazione, disturbi che nascono nella testa di anime fragili, malattie vere e proprie, nascoste da continue bugie. Ebbene si, è scientificamente provato che i bugiardi seriali sono i diabetici, i sovrappeso e tutti coloro i quali sono sempre a dieta.Stare vicino a queste persone è assolutamente difficile, perché sono quelli che fanno di tutto per farsi terra bruciata attorno, per allontanare anche chi amano, perché sono proprio quelli che amano ad avere quegli occhi, occhi che sono peggio degli specchi, perché ci si guarda e ci si rivede, perché mostrano la pena, la tristezza, la preoccupazione.Questa rubrica cerca di dare consigli per superare l’ostacolo, o meglio per trovare il coraggio di saltarlo, in questo caso il tema è incredibilmente delicato, non c’è un percorso definito, nessuna uscita d’emergenza. Chi è affetto da questo male non è più in grado di ragionare, non riconosce la realtà. L’unica loro salvezza sta negli affetti, nella famiglia, negli amici, nell’amore. Il vero consiglio va a loro, a chi sta intorno, a chi intuisce il problema ma si sente impotente, la realtà è che hanno un potere smisurato, sono nella posizione di essere duri, severi, convincenti, anche invadenti, perché quando si ama, l’invadenza, le regole, le buone maniere se le porta via il vento.

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Imma Gaglione"C'e' chi mi definisce una persona che anche da ferma e' in continuo movimento, chi dice che sono la felicita' in carne ed ossa. Io semplicemente preferisco: innamorata della vita”

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Chi dev’essere salvato non lo chiederà mai, sostanzialmente perché non sa nemmeno di dover essere salvato ed in questo caso non si domanda permesso, quando il cuore ti dice di correre, tu corri.Tutti dovrebbero mettersi in testa che la volontà siamo noi, che abbiamo il grande privilegio di tenere tra le mani la matita che disegna la nostra vita. E’ una cosa così profonda, così affascinante, così carica di speranza che fa quasi tremare le gambe. Il fine dovrebbe essere quello di stare bene, di essere sereni, prima che felici, di godere di tutto, del poco e del troppo e saper apprezzarlo, prendersi sul serio quel tanto che basta per non finire a diventare schiavi del pensiero, che ci siamo fatti di noi stessi, stare bene con gli altri, perché implica stare bene da soli ed essere ogni giorno fieri del riflesso che vediamo allo specchio, cercare di trovare sempre una qualità e se qualcosa non ci piace, cancelliamola, o modifichiamola, o conviviamoci, essendone consapevoli. Abbiamo tutto il potere ed è questo che rende il gioco maledettamente eccitante.Il cibo, come tutte le cose che la vita ci offre, può essere molto divertente. Ricordate che quando qualcosa ci appare negativa, non è detto che lo sia davvero, a volte ciò che serve è solo cambiare prospettiva.

Imma Gaglione

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Interiora,sulla violenza non percepita Di Samuele Liscio

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Funambolo fanciullo

Il cibarsi di carne è un residuo della massima primitività; il passaggio al vegeratarismo è la prima e più naturale conseguenza della cultura.

Lev Tolstoj

CARO DIARIO,

devo la conoscenza dell’opera poetica Macello di Ivano Ferrari all’amico poeta Francesco Azzirri che in occasione di una nostra “colazione letteraria” sfociata in una accesa discussione sopra la violenza sugli animali me ne consigliò caldamente la lettura. Così presi la palla al balzo e nel giro di qualche giorno riuscii ad ottenere in prestito dalla biblioteca comunale di Prato una copia dell’opera. Se permetti farei un passo indietro.

Ti ho parlato di un’ accesa discussione sopra la violenza sugli animali, ma non ti ho detto che non fu la prima, e che soprattutto non fu la più lacerante. Infatti, tornando con la memoria indietro negli anni, e precisamente ai tempi dell’università, ricordo con grande trasporto le discussioni sopra questo tema sviluppate all’interno della nostra comunità amicale che costrinsero un poco tutti a prendere posizione su un fenomeno che cominciava a solleticare la coscienza di qualche mio compagno: la scelta vegetariana. Molti si mostrarono indifferenti alla questione, altri si dichiararono pronti al dibattito e possibilisti, solo in pochi però decisero di convertirsi davvero. Io e pochissimi altri decidemmo di sospendere il giudizio, che non era mostrarsi indifferenti, ma era semplicemente riconoscere la propria mancanza di preparazione rispetto ad un tema al quale probabilmente

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nessuno di noi aveva mai pensato e che in quella fase della nostra vita risultava eccessivamente spiazzante. Per la cronaca, è una parentesi che apro e chiudo subito, molti dei quali si convertirono nel giro di qualche mese tornarono ben presto alle proprie abitudini ben consolidate in passato. Dopo molti anni da quella esperienza mi ritrovai, all’indomani di un viaggio negli Stati Uniti d’America, a fare delle riflessioni sulla violenza, arrivando così a rivalutare tra le altre cose anche il mio rapporto con le abitudini alimentari. Così dovetti fare i conti anche proprio con quelle dinamiche etiche scaturite da quelle vecchie discussioni di qualche anno prima che sembravano oramai rimosse, ed anche con la scelta vegetariana, che mi appariva finalmente come una strada possibile da imboccare. Cominciavo a confrontarmi con la realtà, ed in particolare con la realtà mossa dalle mie scelte quotidiane, da una visuale completamente diversa e colma di prospettive nuove. Fu un momento topico della mia esistenza. Questa volta non potevo nascondermi dietro nessun alibi, non potevo e non volevo sottrarmi agli stimoli rigenerativi di una coscienza che mi spingeva a prendere una posizione netta. Dopo un brevissimo periodo passato ad informarmi sui pregi e sui difetti di tale scelta optai con grande risolutezza per la conversione al vegetarianesimo: correva l’autunno del duemilanove.

MACELLO, LA PENNA INSANGUINATA DI IVANO FERRARI

Qualche parole sull’autore. Ivano Ferrari nasce a Mantova nel 1948 e lavora per un breve periodo di tempo nel mattatoio cittadino. Il suo esordio poetico risale al 1995 nell’antologia Nuovi poeti italiani 4 (Einaudi). Con lo stesso editore pubblicherà le raccolte La franca sostanza del degrado (1999), Macello (2004) del quale come già accennato mi occuperò, e La morte moglie (2013). Con l’editore Effigie pubblicherà invece nel 2008 la raccolta di poesie Rosso epistassi.

Macello è un opera risalente alla metà degli anni settanta malgrado sia stata pubblicata da Einaudi soltanto nel 2004. E’ una raccolta di numerose poesie molto brevi e intense incentrata sulla esperienza diretta consumata come lavoratore presso il mattatoio di Mantova. Una lettura superficiale potrebbe condurre alla convinzione che l’opera di Ferrari rappresenti soltanto il tentativo di inscenare in una forma poetica molto decisa e diretta una denuncia sopra il maltrattamento degli animali operato dagli uomini in strutture come quelle nella quale il nostro poeta ha lavorato per un breve periodo della sua vita. L’autore trasferisce nelle atmosfere ricostruite della propria esperienza lavorativa il desiderio di inchiodare il lettore di fronte a quella che lui evidentemente considera una manifestazione di violenza non percepita da molti, forse da troppi; e non solo da coloro che non conoscono la realtà degli allevamenti intensivi e dei mattatoi, ma anche e mi permetto di dire soprattutto, dalle persone che operano quotidianamente presso quelle strutture e che mantengono con disarmante cinismo le distanze da quello che succede davanti ai loro occhi. Ma non solo. Si avverte infatti nelle intenzioni del poeta anche il tentativo di ricreare all’interno dello spazio del macello una sorta di luogo viscerale dell’umano, dove riemergono continuamente le esperienze limite della violenza, della sessualità, della morte e del piacere.

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Lo stanzino in fondo allo spogliatoio è detto delle seghe affisse a tre pareti foto di donnedalla vagina glabranell’altra il manifesto di una vaccache svela con differenti colorii suoi tagli prelibati.

…….

Tutti in fila nudiappena sporchi di letame attendono la perfezionebalbettando protesteil più intraprendente sodomizza il compagno davantil’urlo che si alza è solo un anticipola rivoltella a pressione frena lo scandaloci sono vacche olandesitorellie qualche cavallo

Si capisce bene come il poeta intenda il mattatoio del quale ci vuole parlare: una zona nera d’orrore dove tra vita e sofferenza, dove tra umano e animale si fatica a percepire una seppur sottile linea di separazione. La parola poetica del Ferrari così carnale e convulsa entra con estremo vigore in quello spazio rovente dell’animo umano dove la violenza e la morte si trovano connesse con una sfera sessuale tendente all’assurdo e priva di punti di riferimento. Le foto raffiguranti nudi femminili (ricordano vagamente i calendari dei meccanici) si accavallano senza soluzione di continuità ai cartelloni che mostrano i diversi tagli della carne. E ancora la corsa all’orgasmo, che suona quasi come una fuga funesta ma concreta dalla situazione di non senso vissuta con angoscia tutta animale si traduce inevitabilmente nell’orgasmo della dissoluzione improvvisa. E’ la narrazione questa, di un caos assolutamente delirante in grado di cortocircuitare ogni possibilità di esistenza dignitosa.

E’ fuggito un toro neroErra sul cavalcavia Impaurendo il traffico,lo rincorriamoimpugnando coltellibastoni elettrici e birre

corre si ferma tornaarrivano i carabinieri coi mitra,ora è steso su un velo d’erbae sussurra qualcosa alle mosche.……..

Una vitella stupita d’esser vivaguarda noi che la ignoriamo,decine di sorelle appese si pavoneggiano,si sente sola e brutta a respirare ma non ci sono più paranchie le celle frigorifere sono colme,rotea intorno lo sguardo suo più dolcese è pausa o tregua nessuno raccogliesi gonfia lancia un grido e scivola sul sanguepiove plasma per un poco e finalmentesi libera un paranco.

…….

Sventrate intere famiglieoggilunedì di intensa macellazione.Una vacca ha partorito un vitelloNegli occhi la paura di nascere il foro in mezzo il nostro contributoa tranquillizzarlo.

Vita e morte appaiono come un grumo di solido orrore. Si leggono in queste due poesie, forse le più incisive della raccolta, lo stupore di essere (ancora) vivi delle “bestie”, un essere ancora vivi esperito come sventura in una logica di condanna a morte perpetua che acquista i caratteri di struttura destinale. E poi il tema della nascita, così apparentemente lontano dal suo rovescio dialettico, trattato non come l’emersione di un battito nuovo e imprevedibile, bensì come la visione nitida di una “cosa” sommersa e ferma, violentemente inserita in un cammino statico di sofferenza gratuita.

La mimica facciale di chi sgozzanon ha un’origine definitaè un processo ossessivo di tipo umano,inevitabile che mi tremino le maniquando gli accendo una sigaretta.

……..

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Macellatori contro facchinipalla il cuore sodo del toroterreno scivolosopali due paranchi vuotiarbitra un vigile sanitario.

……..

E’ anche maliziosamente la ricostruzione di vicende professionali vissute navigando il terreno viscido dell’alienazione, dell’indifferenza più ripugnante. Come se in chi lavora l’azione rimbalzasse fuori dal campo etico personale rimanendo così immune da sensi di colpa e da riflessioni non superficiali. Per il nostro poeta, lo spazio lavorativo del “macello” (non solo, il discorso si può sicuramente allargare) rivela il carattere assolutamente amorale di ogni esperienza lavorativa “moderna”. E’ quindi vivo nelle intenzioni dell’autore il desiderio d’indagare quell’interesse meramente soggettivo di chi, identificandosi con facilità mostruosa nel comune senso del dovere finisce per sopportarne senza sofferenza gli esiti catastrofici.

Qualcuno si chiede se io amiSe durante il giorno cercoO risolvo, se almeno vedo.Quando guardano le mie labbraO le mie maniO più maliziosamente giù, fra le cosceSento sul corpo le domande

Che mi attraversanoCome una forca farebbe con la paglia.Se faccio sanguinare il ventoSe trasformo le foglie freddeIn involtini di carne,se i cavalli bianchi del mio rinascimentosono esposti sul bancone di una macellerianon rinuncio alla mia umanità come voidel resto.

Macello è un’opera nella quale l’autore prova a sciogliere la consistenza delle proprie palpebre, cioè di quel velo di carne che ha la funzione di proteggerlo dalla luce eccessiva. La parola poetica è allora magnetizzata proprio da quella luce violenta che chiede di essere indagata senza filtri e riportata. Ivano Ferrari lotta a mani nude, con l’ausilio soltanto della sua penna insanguinata, contro la minaccia che avverte come la più terribile: l’abitudine. Abitudine a considerare il lavoro come un porto franco dell’esistenza, abitudine a diventare impermeabile di fronte ad una sofferenza evidentemente inutile, e quindi evitabile. Macello è l’esaltazione di quella luce nauseabonda che affrontata con disinvoltura restituisce la vista, una vista da aquila. Sicuramente un libro fuori dal coro e sul quale meditare.

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Samuele Liscio:

Mi relaziono con la poesia e i poeti di ogni tempo e spazio.

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La recensione

Eufemia Griffo presenta

“L'eredità di Dracula- liriche gotiche

sull'amore oltre il tempo”

Cari lettori di Writers,sono ben lieta di raccontarvi del libro che io a Davide Benincasa abbiamo scritto insieme per tre lunghi anni, un testo che partendo dal celebre vampiro che tutti conosciamo, ossia il Conte Dracula, si palesa come un‘opera di Poesia e soprattutto sull’Amore. Mi auguro che abbiate la bontà di seguirmi fino alla fine, sperando di non annoiarvi.Il libro “L’eredità di Dracula. Liriche gotiche sull’Amore oltre il Tempo” è in primis un’opera poetica, nonché un lavoro unico nel suo genere, incernierato sul fenomeno Dracula. Lo storico rappresentante del vampirismo, viene rivisitato sotto nuove prospettive attraverso una meticolosa ricerca poetica, e non solo, che sonda la psicologia di vari personaggi per metterne a nudo l’anima. Questo libro è stato paragonato ad una scatola di poesie dalla spiccata ambientazione gotica, fatta di paesaggi in cui si odono ululati e grida di terrore, con giardini senza fiori, campi innevati arsi di pioggia rossa. Tramonti macchiati di sangue, che precedono notti senza fine. Battaglie senza vincitori, croci calpestate. Un immaginario palcoscenico, fortemente evocativo, dove lacrime nere sbocciano in tredici rose e dove pulviscoli di ricordi sono lampi di vita. Un percorso tortuoso tra le fredde nebbie del dolore. In questo lungo viaggio, il lettore sarà interprete; egli non

potrà astenersi dal compiere e dal completare il

proprio itinerario, perché le strade dell’amore conducono distanti, accogliendo il viandante.

Si tratta dunque di una visione innovativa, un’interpretazione originale, che si prefigge, nell’eleganza e nella spregiudicatezza dei suoi versi, di dar voce ai protagonisti del “Dracula” di Bram Stoker. Un Dracula come non si è mai visto, che confessa, fino allo sfinimento estremo, il suo eterno amore.L’originalità di questo libro risiede soprattutto nel fatto che è un’opera scritta a quattro mani, dalla sottoscritta e dal bravissimo scrittore Davide Benincasa . Lavorando insieme per tre anni, abbiamo offerto un inedito e originale punto di vista sulla figura del vampiro più famoso della storia. Attraverso liriche ispirate al romanzo di Bram Stoker e al film di Francis Ford Coppola, ripercorriamo l’ascesa e la caduta di un personaggio che ha influenzato l’immaginario di intere generazioni.

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Perché abbiamo scelto un’opera poetica anziché una di prosa? La risposta risiede nel fatto che questo libro è il primo che in Italia affronta e scandaglia il romanzo di Stoker, attraverso i versi. Il tema dell’Amore è il filo conduttore, poiché da sempre, la poesia è espressione dei sentimenti umani, qualunque essi siano. Possiamo definirla “musica dell’anima”, una sorta di scala musicale su cui il cuore cuce le note che scandiscono l’esistenza e la vita, siano esse lievi o malinconiche. L’amore non fa eccezione, e nel lavoro che abbiamo fatto io e Davide Benincasa, abbiamo pensato che Poesia ed Amore non potessero che viaggiare insieme, come una mescolanza di pennellate date su un quadro prezioso o tornando alla metafora della musica, come ad un insieme di note su un unico spartito. D’altra parte, l’aspetto nascosto nel “Dracula” di Bram Stoker, quello che nessuno finora ha osato sondare, è la poesia, una preziosa eredità che è disseminata tra le pagine del libro o nelle scene del film di Coppola e che, nel nostro caso, ci ha dato la giusta ispirazione e suggestione per comporre il “nostro” Dracula.Il vampiro appare sempre come il simbolo del male e del malvagio ed ovviamente anche nel celebre romanzo di Stoker, Vlad Tepes di Valachia, non sfugge a questa tradizionale visione. Egli infatti appare come un personaggio dai contorni macabri ed oscuri. Tuttavia nel nostro libro, quel che io e Davide abbiamo tentato di fare è di dare un’anima, un connotato più che umano al celebre vampiro, prendendo spunto dalla figura di Vlad così come è apparsa nel famoso film di Francis Ford Coppola del 1992 dal titolo” Bram Stoker's Dracula”, ossia un vampiro dall’animo romantico interpretato dal bravissimo attore inglese Gary Oldman.Come è stato possibile fare convivere le due figure, quella del vampiro di Stoker e quella pensata dal regista americano? Su questo punto è nato con Davide un confronto assai avvincente che ci ha portato a scrivere fiumi d’inchiostro, dedicando a Dracula, le nostre liriche nell’arco di quasi tre anni di lavoro. Se da una parte il vampiro di Davide prende spunto quasi

completamente dal libro, il mio invece si rifà moltissimo alla pellicola di Coppola, benché in alcune liriche, io e Davide, prendiamo spunto da entrambe le situazioni.Mi permetto di aggiungere che nelle note che seguono ogni testo, si palesa bene questo aspetto che rende il nostro libro unico nel suo genere e che spiega in maniera esaustiva la scelta da noi intrapresa. L’arcano si svela sempre nell’uso della parola poetica che, se sapientemente utilizzata, può superare la dicotomia che si crea immaginando il vampiro come un essere malevolo; nel film di Coppola, ma altresì nel libro, ci sono pagine intrise di altissima poesia e scene di una bellezza che non possono non colpire chi, come noi, si diletta a scriverne per comunicare sensazioni, vissuti, percezioni. Un’opera di narrativa è indubbiamente un veicolo più facile da utilizzare a tal proposito; la sfida invece è stata proprio quella di avvalersi del testo poetico per giungere al compimento di un progetto che nel tempo ha visto la luce.

Ne risulta un’opera dal testo romantico (nel senso “letterario” del termine), elegante e innovativa, all’interno della quale le liriche, concatenate fra loro, affrontano il tema immortale del binomio Vita/Morte e la Poesia ben esprime con efficacia sia la violenza e l’orrore del romanzo di Stoker, sia la potenza visiva e visionaria del film di Coppola. Ogni poesia si lega a quella successiva, come in un incastro o come tanti pezzi di un mosaico che man mano si cercano ed infine si trovano a mescolarsi tra loro fino a divenire un’opera corale che analizza a poco a poco la psicologia dei personaggi, la loro tormentata e tragica vicenda, l’ambientazione fatta di immagini evocative e che si imprimono nella mente e nel cuore di chi legge.Ciascuna lirica è inoltre compendiata, come già annunciato sopra, da una nota esplicativa a vantaggio del pubblico poiché la poesia non è un terreno facile e dunque il compendio ad ogni lirica appare necessario per condurre per mano anche un pubblico profano.

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L’altra novità del libro è che tutte le liriche sono scritte in metrica, seguendo la versificazione delle poesie di ispirazione giapponese; la metrica tuttavia non “disturba” il verso, anzi lo rende musicale ed ordinato e si fa fatica ad immaginare che ciascuna lirica segua un computo sillabico ben preciso. Numerose sono state le recensioni relative a questo libro, sia su siti e blog, sia su testate giornalistiche come la celebre rivista Panorama e altri quotidiani. Il libro è stato pubblicato dalla casa editrice Eduzioni della Sera e curata dallo scrittore Fabrizio Corselli. Il libro è presente nella maggior parte delle librerie Feltrinelli in Italia (o si può prenotare), sui circuiti Amazon, IBS etc oppure è possibile richiederlo alla casa editrice Edizioni della Sera di Roma al link http://www.edizionidellasera.com/dd product/leredita di dracula/

Per terminare, offriamo ai lettori dei passi tratti dal libro

Vedo illusioni sul riflesso di spade – io principe e uomo

Io sono il nulla senza anima nè carne – la morte e l’odio

Eufemia Griffo

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Racconti

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Ri-nascita

E' buio qua dentro,accidenti quanto è buio.Quant'è che sono qui?Non lo so...ore? Giorni?Ma dove sono?Ricordo di esser stato vivo, mi muovevo lentamente, su e giù con le mie zampette pelose, mangiavo le foglie verdi della piantina su cui sono venuto al mondo.Tutto era lento, molto lento, cosa ero? Chi ero?Poi il buio.Ho costruito io la mia prigione, ma perché? Cosa c'era che non andava nella mia vita di prima?Scappavo? Mi nascondevo? Da cosa? Da chi?Ora ci sto stretto qua, non respiro, mi sento soffocare...Mi muovo, spingo avanti e indietro con tutto il mio corpo, devo uscire di qui...Dondolo, devo essere appeso da qualche parte...Dio quanto è stretto qui!Tutte le volte che spingo tutto si muove, finisce che cado...sempre meglio che rimanere qui...Aiuto... non ce la faccio più... devo uscire da qui!Ci sono quasi, la pellicola che mi separa da fuori si è fatta sottile, comincio a vedere la luce...VOGLIO USCIRE DA QUI!Ancora una spinta...ancora una spinta... ancora una spinta...Si è rotta! Finalmente!La mia prigione si è rotta! E' solo una fessura, ma aria, luce...devo spingere ancora...Ce la faccio ad uscire da qui, devo spingere ancora...ancora...ancora...Mi muovo su e giù, concentrando la mia forza su quella fessura, ad ogni spinta la fessura si allarga...Ci sono quasi... ci sono quasi!Ecco, la testa è fuori!Ah, è meraviglioso! Aria! Ah... quanto è bella l'aria! Ma guarda! E' mattina, è ancora fresco... ma che bella che è l'aria!E i colori? I colori! Dio che meraviglia i colori! Quanta luce c'è!Cos'ho sulla testa? Antenne? Due? A cosa serviranno mai?E le mie zampe, come sono diventate lunghe e sottili! Ma sono solo sei, tre di qua, tre di là...mamma che belle! Continuo a spingere e sulle mie lunghissime zampe faccio forza per tirarmi fuori da questo guscio viscidoGuardo indietro, ma quant'era stretto?Perchè ero finito lì dentro? Cosa ero? Cosa sono adesso?Ricordo che mi ero stancato di strisciare, mi sono fermato...Ma sono fuori, ora sono fuori, manca poco, un ultimo sforzoADESSO SONO FUORI!Come facevo a stare lì dentro? Ehi! Ma come sono cresciuto!Cos'ho al posto della bocca? Una lingua arrotolata, una proboscide... Fai vedere un po'! Quanto è lunga! E si srotola e si riarrotola, sembra uno yoyo... Che strana sensazione! Chissà dove potrò arrivare a prendere il mio cibo con una lingua così lunga!Aspetta! Ma cos'è che pesa così tanto sui fianchi?Cosa sono? Accidenti...pesano...sono bagnate...Sembrano arrotolate, sono due...una a destra, una a sinistra...Che bello il sole che mi asciuga...

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Ehi...si stendono, queste due cose si distendono lentamente col calore, sono grandi...E c'è del giallo...Si aprono ancora, il giallo si fonde all'arancio...E ancora, e arriva il rosso...Che bei disegni, Dio che meraviglia!Ogni sfumatura di colore è contornata di nero! Ho un arcobaleno addosso!Laggiù, in basso sembrano due occhi splendenti di luce e colore!Ma cosa sono diventato?E a cosa servono due cose così grandi, aperte, colorate?Si muovono...riesco a muoverle, sembrano ali...su, giù...su, giù...Sempre più veloce...Ricordo che ogni tanto guardavo in alto quegli arcobaleni in volo, le chiamavano farfalle, le vedevo andar leggere e veloci da un fiore all'altro, gli altri dicevano che avevano vita breve, ma meglio che strisciare all'infinito quante volte anch'io ho desiderato un solo attimo di quel volo leggero immerso nella luce, qualche spanna più vicino al sole!Ho le ali adesso, le sbatto veloci...e le mie nuove zampe lunghissime si staccano dal ramo...E' stato faticoso...strisciare, fermarsi, poi il buio, la lotta per uscire...ma ora io volo!IO VOLO!VOLO!Son diventata farfalla anch'io, vivo di nuova vita adesso, in volo, leggera...Guardo giù...Rimane in basso un ramo e un bozzolo rotto e secco ormai...Sono libera...Io volo...In alto solo aria, e luce, e colori, e sole...

Elena Brilli

No' semo quella razzache non sta troppo beneche di giorno salta fossie la sera le cene.Lo posso grida' fortefino a diventa' fiocono' semo quella razzache tromba tanto poco.Noi semo quella razzache al cinema s'intasape' vede' donne 'gnudee farsi seghe a casa.Eppure, la natura ci insegnasia su' i monti, sia a valleche si po' nascer bruchipe' diventa' farfalle.Noi semo quella razzache l'è tra le più straneche bruchi semo natie bruchi si rimane.Quella razza semo noil'è inutile far finta:c'ha trombato la miseriae semo rimasti incinta.

(la poesia di Bozzone, dal film “Berlinguer ti voglio bene”, 1977

Regia Giuseppe Bertolucci Sceneggiatura Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci

Produttore Gianni Minervini, Antonio Avati )

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Storia di Diana, l'elefantessa che predicava l'amore per la solitudine Diana aveva appena dieci anni. Gli elefanti si sa, si muovono in branco,ma lei amava lo spazio che intercorre tra un corpo e l'altro, abbastanza per farci scivolare il vento, non troppo da volerci del tempo per raggiungere gli altri. Un elefante a dieci anni non ne sa molto della vita ma nemmeno poco. Quando Diana fece richiesta alla Grande Matriarca di voler aumentare quella distanza, ne aveva appena dodici di anni, uno in più rispetto all'ultima volta che ebbe assaggiato la vegetazione più prelibata e proibita dell'Africa. La Grande Matriarca, che tutto conosce e tutto guarda ma che sa poco e vede non oltre la sua lunga proboscide, le aveva imposto di non cibarsi di quel tenero fiore prelibato. L'avrebbe resa schiava del gusto, avvezza solo al suo tiepido succo, dipendente per tutto il corso della sua lunga vita da elefantessa e le avrebbe causato non pochi danni alsuo elisir di grazia e giovinezza, lo strumento che le

avrebbe garantito gli anni migliori, la certezza di una discendenza, le zanne piccole e forti contro quelle grandi e possenti di un maschio: la sua dentatura.Ora, purché si sappia, "i denti potrebbero essere l'organo più importante degli elefanti. Il motivo? L'appetito. Un elefante della savana africana consuma tra 180 e 270 chili di vegetali al giorno. Per assimilare una simile quantità di cibo, gli elefanti devono masticare in continuazione; ogni dente viene consumato finché non è più utilizzabile, dopodiché cade. La maggior parte dei mammiferi ha due dentizioni in una vita, ma l'elefante arriva a sei. Ogni dentizione (composta di due denti, uno sopra e uno sotto) dura circa tre anni in un elefante africano giovane, ma può durare fino a dieci in un adulto. Al contrario dei denti umani, che spuntano dalle gengive, quelli degli elefanti nascono dal fondo della bocca e si spostano in avanti come su un nastro trasportatore. Il sistema è efficace finché i denti durano, ma gli elefanti più anziani muoiono spesso di fame perché non riescono più a masticare." (Grazie National Geographic!)Ebbene da allora, proprio come non avrebbe mai immaginato, ma proprio come la Grande Matriarca disse, la dipendenza nacque e crebbe, divenne insostenibile, vorace, ansimante, assillante. Diana dimenticò di esser giovane, la prospettiva degl'anni migliori, la certezza di una discendenza, le zanne piccole e forti contro quelle grandi e possenti di un maschio. Sì, le zanne. Nessun maschio del piccolo branco attiguo le avrebbe mai rivolto le zanne, nemmeno in seconda unione. E del resto la altre del branco, troppo vicine all'età adulta da ascoltare con i grossi padiglioni il richiamo di un'amica d'infanzia, fecero quel che andava fatto, girarono la proboscide altrove, tra le foglie.Diana chiese e non le fu concesso. La Grande Matriarca sapeva ed era l'unica cosa che realmente sapeva. Che a quella vegetazione, così prelibata e proibita Diana non si sarebbe mai avvicinata. Lo fece non perché a richiamarla fu l'odore del tiepido succo, o la tentazione verso l'ignoto. Lo fece perché fu la Grande Matriarca a chiederglielo. Lei, l'elefantessa delle elefantesse (ma non tra le elefantesse ),dispensatrice di antichi proverbi e leggende, schiava del gusto, avvezza al suo tiepido succo, dipendente per tutto il corso della sua lunga vita da elefantessa da quell'unico frutto di nostra Madre Terra, spinse la più solitaria tra le elefantesse a spacciarlo per lei, a nasconderlo per lei, così che la distanza tra Diana e gli altri corpi si ridusse, quella tra Diana e la vita nel branco aumentò. Diana, la bocca appena unta di succo, i denti ancora serrati, divenne la "mangiatrice di bacche", l'elefantessa avvelenata, la tossica. Nessuno avrebbe rischiato le sue zanne per lei.E quando un cervo giovane un giorno la incontrò mentre si abbeverava in una pozzanghera lasciata dalla pioggia, Diana era una fuggitiva amante della solitudine.

Roberta Cotticelli

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Piero alla fine del cielo.

E poi ci sono quelli come Piero, quelli che sognano ancora.Quelli che vivono fra cielo e mare, cercando di capire se tutto quello spazio possa avere una fine. Se tutto quel cielo possa avere una fine. Perché il mare, è sicuro, che una fine non ce l’ha.Piero parla di cose che ha visto, di persone che ha conosciuto, poco importa se siano esistite davvero o siano frutto della sua fantasia, la cosa importante, quella che conta veramente è che Piero, mentre parla, sogna. E cerca la fine del cielo.E allora, come fai a disilluderli, quelli come lui, come fai a mandare in frantumi tutte le loro speranze, sarebbe un reato, qualcuno direbbe perfino, un peccato mortale.E allora li lasci parlare. Quelli come Piero non puoi fare a meno di starli a sentire. E alla fine glielo dici che hanno ragione loro, anche se non sei convinto del tutto, glielo dici lo stesso.Quelli che sognano ancora non si trovano, in tutto questo mondo, non si trovano. E’ tutto “troppo”. Troppo grande, troppo dispersivo, troppo uguale a sé stesso. Troppo diverso, indubbiamente, troppo diverso dal loro mondo interiore. Hanno bisogno di confini definiti, quelli come Piero, perché vivono con il bisogno disperato di riuscire a superarli, di andare oltre. Hanno bisogno di muri da scavalcare, sono alla ricerca ossessiva della fine delle cose, per voglia, ossessiva, di smentirne il perimetro. Cercano un limite, orribile e attraente, terrificante e sublime, loro cercano l’orlo del burrone, per oltrepassarlo in volo. Loro sono un passo oltre l’orizzonte. E cercano la fine del cielo.Piero, a guardarlo, neanche lo diresti che sta cercando qualcosa, dice parole senza leggere, muove le mani come fossero nuvole che attraversano i pensieri, sorride, di un sorriso sincero e discreto. E quando cammina lo fa senza fretta, come se stesse contando ogni passo, come se stesse misurando la distanza da un traguardo nebbioso. Come se il metro successivo lo portasse alla fine del cielo.E te ne rendi conto pian piano, che di quelli come Piero ce ne sono abbastanza. E’ un pensiero che ti rassicura, perché realizzi che sono loro a sostenere questo granello di universo, sono loro che danno ossigeno al mondo. Che se c’e ancora vita su questo pianeta è solo merito loro. Che se li guardi passare non lo diresti neanche, non vanno in giro a fare gli eroi. Ma se il mondo ancora respira è solo perché ci sono loro, quelli come Piero, che continuano a soffiare ossigeno nell’aria.Perché Piero ti guarda negli occhi ed è capace di dirti “Io una volta le viste davvero le stelle a mezzogiorno”. E te lo dice in un giorno qualunque, uno di quei giorni che non promettono niente di buono, che non promettono nuove sorprese. Uno di quei giorni che sei obbligato a vivere perché è così che si fa, ma se anche potessi saltarlo di netto la tua vita non cambierebbe di una virgola. E invece, lui si siede di fronte, quasi ti sfiora le mani, quasi ti sfiora i sogni, ti guarda negli occhi. E te lo dice “Le ho viste davvero le stelle a mezzogiorno”. Come se lo sapesse che quello era uno dei tuoi giorni inutili, come se lo sapesse che avevi bisogno di sentirtelo dire. Come se lo sapesse che volevi sognare davvero. Perché quel giorno avevi un bisogno smisurato di andare oltre la fine del cielo.Quelli come Piero si rifugiano lì, fra cielo e mare, in quel punto preciso. Dove tutto si confonde, dove le tonalità di azzurro si toccano davvero. E allora non c’è più cielo e non c’è più mare. Respirano un vento che aria non è, si bagnano le mani in un’onda che acqua non è. Si rifugiano lì e per un tempo che sa d’infinito smettono di cercare. Per tutto quel tempo che li protegge come un ventre di madre, smettono di cercare. E finalmente, con le illusioni stremate e lo stupore nel cuore la trovano davvero. La loro fine del cielo.Piero era così e da quando se ne è andato l’aria è un po’ più pesante, il respiro un po’ più affannato. Perché quelli come lui te lo dicono che hanno visto le stelle a mezzogiorno e tu non puoi far altro che amarle le persone così. Quelle che cercano la fine del cielo.

Francesco Lollerini

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PALPITAZIONE… DI CUORE

Vi voglio raccontare un fatto… una storia che avvenne di notte, con la luna che in quel tempo brillava… sperando di possedere… “l’arte della penna”! Tralasciando i discorsi superflui, prima di ogni cosa vi dico che scriverò di una giornata identica a tante altre, né bella e neppure brutta. “Ieri sera la luna aveva l’alone…”, diceva Anna a sua madre, Pina. “Ma… io ho la pelle d’oca… se la guardi bene, anche oggi c’è un presagio d’acqua, nella luna, e, per quanto ricordi, quando è così promette cattivo tempo”, le rispose l’altra. Infatti, mentre si erano sistemate, calme calme, di fronte alla televisione, nella quale un contadino insegnava all’amico “… se un anno ci sono state le fave, l’anno dopo ci si semina il frumento; se ci sono state le lattughe poi ci si piantano le cipolle…”, d’improvviso mancò la luce elettrica. “Mammmamia, ci voleva questo… a quest’ora piuttosto tarda non la rimetteranno più…”, imprecò Pina. Anna però, senza farsi vincere dal panico, disse: “Preghiamo per alleviare le anime del Purgatorio: ce la riattaccano… ce la riattaccano, cosa scommetti?” ed alzò la testa, mostrando un nasino all’insù. Allora le due donne si alzarono pazientemente, apparecchiarono la tavola e mangiarono un po’ di pane e formaggio con olive nero verdi e una pera “butirri” per ognuno. Poi, dopo avere ripulito tutto e sistemato sulla tovaglia tazzine e tazzone per la colazione dell’indomani mattina, si coricarono perché la madre dormiva all’impiedi e la figlia aveva gli occhi mezzi aperti e mezzi chiusi. Sapete… essendo rimaste sole, Annina volle andare a dormire con Pina nel lettone… ma la madre si rannicchiava sempre in un angolino… per non sfiorarla… Dunque, stavo dicendo… loro giocarono un poco a tirarsi una graziosa tartaruga di pelo rosso, scena di ogni sera, fino a che Anna sentenziò: “Mamma, ora in questa casa si dorme!” e spense la candela. Così si girarono ognuna da un lato e si addormantarono. Erano immerse in un sonno ristoratore ed il “drin…drin…drin…” del telefono le fece sobbalzare: dato che il loro era un nome “onorato”… pensarono subito ad una disgrazia… “Pronto?” E Pina udendo una voce conosciuta: “Pronto?”, cercò di rispondere e raggelò dentro. “Maria, sei tu?!… Che cosa ti è successo?” e cominciò ad avere l’affanno. Dall’altro lato, un filo di voce parlò flebilmente: “Sono tua sorella… sono all’ospedale…”. Che cosa hai detto?!…ospedale…e come mai?…” E il “filo”, che sembrava stesse per spezzarsi, continuò: “Mio marito… Franco… gli si è fermato… il cuore…” e cominciò a piangere. “Il cuore?”, le domandò allora Pina.

II

Maria, che si era un tantino calmata, rispose: “L’hanno operato… l’hanno aperto, l’hanno richiuso e… non si vuole muovere… non vuole ricominciare a muove…!” e non ce la fece a finire la parola. Pina, nonostante fosse confusa, raccolse le forze e, mentre con la mano cercava di svegliare la figlia, ebbe la forza d’incoraggiare Maria: “Non ti preoccupare, cara sorella, aspettaci… stiamo arrivando!”. D’allora seppero solo di essersi vestite in dieci minuti e, in men che non si dica, posteggiarono e si trovarono davanti all’ospedale. Anna provò ad aprire ogni entrata… suonò alcuni campanelli… andando da ogni parte…, ma intorno era tutto scuro e sconosciuto.

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Accanto ad un albero di pinoli c’era un lampione. Sotto di esso si riparava un “Papaverino azzurro” che si era salvato dall’essere schiacciato da un ammasso di cenci, trascinato da un “poveraccio”. Questo sfortunato, con un dito, mostrò loro l’esatta direzione, dicendo, sillabando, perché balbettava: “Bus…sa…te da…lì…” e, sentendo un rumore, spaventato, si eclissò. Fu in quel momento che Pina si osservò e si vide vestita esattamente come “Mary Poppins”: gonnella e giacchettina, scarpette vecchiotte e largheggianti, borsone ed una mantella al braccio, nel caso di una diminuzione di temperatura… Nonostante la tragedia, madre e figlia si guardarono intendendosela e scoppiarono a ridere cercando di non farsene accorgere. Perciò, quando, come Dio volle, poterono entrare, Pina se ne scusò con le persone che la videro: “…Io sono abituata ai pericoli e… li prevengo… Madonna benedetta!”, spiegò, nascondendo in un anfratto pure il sacchettino con acqua, dei biscotti “della monaca”, appena comprati, per fortuna, la mattina, bicchieri di plastica e fazzolettini di carta che servono immancabilmente e non bastano mai. Maria, a braccia conserte ed a testa in giù, era appoggiata ad una scala a chiocciola e non piangeva, ma i suoi occhi somigliavano al nero delle seppie. Camminava piano piano per tutto il corridoio; con le spalle sembrava sostenesse, da sola, tutto il palazzo, perché chissà… da lassù… fosse crollato! Il figlio, l’esatta copia della madre, invece era aggrottato, con l’espressione e le movenze da grande, al fianco di lei, abbracciandola completamente… benchè, quell’amore di ragazzetto, si vedesse che ancora andava alla scuola inferiore… ma lui intanto si sentiva un padre, un marito, un uomo importante… capace di tenere a bada il mondo e tutti i suoi abitanti. Non proferì parola, non gli scese una lacrima, solamente dalle sue spalle curve gli si notava un tale peso… A chi non lo conosceva dovette sembrare certamente una stranezza, ma a quelli che gli erano stati accanto sin da piccolo ed a Maria mancò il fiato a sentirgli chiedere: “Mamma, quando dovrò partire per fare il soldato?”. E Maria: “Ma… da dove ti è venuto questo pensiero?! Tu partirai un anno più tardi perché, nascendo nel mese di dicembre, ti rivelammo l’anno dopo. Sai… tuo padre ha

III

conservato per te il suo berretto, perché… te lo vuole mettere… lui…” e si asciugò il viso con il fazzoletto. Intanto le persone… sedute in cerchio… dicevano la loro: “L’hanno tagliato di nuovo…”, insisteva qualcuno. “A scanso d’equivoci è meglio parlare chiaro… perché parlare chiaro è segno d’amicizia…”, farfugliava uno, facendo comunella con il vicino. E costui aggiungeva: “Questo giovane… da quest’anno, nell’aspetto non mi piaceva…”. “Già… dato che alcuni fanno stravizi…!”, gli si unì un tizio, fingendo d’avvitare il dado nella vite di una panca. E tutti in coro: “Non fare tali osservazioni, perché il destino può chiamare…” e lo zittirono. Non so quante volte Pina andò avanti e indietro per la stanzona… e Annina, ora appiccicata, le ripeteva, come fosse una novena:“Stai calma, io sento che non morrà… non morrà…”. Ogni amico, parente stretto, anche i medici e… pure le sedie, quella sera pregarono e si santificarono…: si misero di fronte ad un presepio… che, sicuramente, si erano dimenticati di disfare, tanto lo sparagio si era inselvatichito, e chiesero misericordia! Nientemeno si seppe da un infermiere, indaffarato e grondante dalla testa fino ai piedi, che uno dei dottori che l’operavano… a Cristo… promise un cero… se Franco si fosse salvato… “Signori”, raccontava l’infermiere, ripetendo le parole del chirurgo, “sono un suo amico… insegnagli a resuscitare… non lo voglio perdere… dalle mie mani deve nascere la vita… ti accendo un cero, per la tua gloria e per la mia preghiera…”.

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Dopo, seguitando, precisò: “…Ed in silenzio, bagnò quel cuore che batteva e le sue lacrime, mischiandosi al sangue, diventavano coralli”. Il portone a vetri, con le ante che si aprivano con una spallata, rigirando senza maniglie, come una culla al vento, sembrava piantato con i chiodi… era fisso, scuro e pietrificato… All’improvviso, da lì spuntarono tre medici. “Mamma, sono qui!” ed a Pina gelò il sangue, le gambe diventarono di piombo e le scarpe si appiccicarono al pavimento che si era affossato, da quanti vi erano passati sopra. Il dottore più magro, con gli zoccoli bianchi, il camice verde, un piccolo cappello dello stesso colore sopra l’apice della testa e la mascherina scesa attorno al collo, girò lo sguardo negli occhi di Maria, i quali non si vedevano affatto: erano diventati buchi, riempiti di pianto. Poi le prese le mani tra le sue, l’abbracciò e disse con un nodo in gola: “ L’hanno legato come Cristo e… come Lui… è risuscitato! È salvo! Mi si è ripreso… tra le dita… io gli soffiavo… e quello si gonfiava e si sgonfiava… di seguito…”.

IV

Maria: “E… continui… mi dica…”. “Tranquilla! Il cuore glielo stanno rimettendo al suo posto e lo stanno ricucendo… alla perfezione”. Tutti gli si fecero accanto, fino ad opprimerlo, chedendogli e questo e quello… La gente non lo voleva far andar via perché, solo con la sua presenza, si confortavano moltissimo. Ma, quando i chirurghi ritornarono al loro lavoro e li lasciarono in quel lungo corridoio, pieno di silenzio e d’odore di medicinali…, e… che cosa non accadde…! Bacioni a non finire d’amici, parenti… anche se tra di loro… c’erano… serpenti! Credo che se in un ospedale si fosse potuto gridare, l’avrebbero fatto. Dopo questo primo momento di allegria, tutti si rasserenarono. Fuori si cominciava a scorgere il chiarore dell’alba ed ormai lampeggiava da molto lontano. Pina allora iniziò a cercare nella sua famosa valigetta da “Mary Poppins”… e uscì, per augurio, una bottiglietta di spumante dolce e disse: “Signori miei, mi sembra giusto fare un brindisi.”. Preparò i bicchieri, sturò la bottiglia, aggiungendo: “Per Franco, e sempre con speranza, libiamo!”. Ed il cielo, dall’altro lato del mondo, fece rimbombare l’ultimo tuono.

Antonella Fortuna

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Crediti Elena Brilli Redattrice di “Inseguendo il Bianconiglio...” - DirettriceE mail: [email protected] Blog: Crazy Alice in Wonderland Facebook: Elena Brilli

Imma Gaglione Redattrice di “Basta un poco di zucchero...” - GraficaE mail: [email protected] Blog: im1dreamer Facebook: Imma Gaglione

Samuele Liscio Redattore di “Funambolo Fanciullo” E mail: [email protected] Facebook: Samuele Liscio

Silvia Boscolo Redattrice di “La Girastoria” E mail: [email protected] Blog: L'Isola oltre le Stelle

Eufemia Griffo Redattrice di “Le stagioni in Giappone”E mail: [email protected] Blog Personale: Il fiume scorre ancora MultiBlog : Memorie di una Geisha

Roberta CotticelliAutrice del racconto “Storia di Diana, l'elefantessa che predicava l'amore per la solitudine”E mail: [email protected]: Roberta Cotticelli

Francesco LolleriniAutore del racconto “Piero alla fine del cielo”Blog personale: Pinocchio non c'è più

Antonella Fortuna

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