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SACERDOTI NELLA CITTÀ ESPERIENZE DI UMANESIMO CRISTIANO A cura di Salvatore Vento e Luca Rolandi Antonio Balletto e Piero Tubino Sacerdoti nella città DIABASIS Balletto Tubino Il volume è dedicato a due figure di sacerdoti che hanno profondamente segnato la società e la storia di Genova, rendendosi protagonisti di straordinarie esperienze di solidarietà (non da ultimo con la Caritas), di impegno civile, di insegnamento e di fede vissuta sempre “sul campo” e in un’ottica di condivisione, di dialogo interculturale e di apertura verso il prossimo. Le testimonianze di queste due splendide “avventure” di umanesimo cristiano – le vite di Antonio Balletto e di Piero Tubino, entrambi celebrati dalla loro città con il conferimento del Grifo d’Oro – sono qui rivissute attraverso i testi suggestivi e commoventi della loro vita: interviste, articoli su periodici, discorsi, singoli ricordi, saggi, omelie. I MURI BIANCHI 18,00 DIABASIS Antonio Balletto (1930-2008), sacerdote genovese, docente di teologia e filosofia, editore e uomo di cultura impegnato nella società, figura di spicco della vita pubblica ligure, è stato direttore del Collegio Teologico Internazionale Brignole-Sale a Genova (Fassolo), poi docente di Teologia fondamentale al Seminario di Albenga, successivamente al Collegio Alberoni di Piacenza e infine di nuovo a Genova, allo Studio Teologico di Fassolo. Dal 1980 al 1993 ha diretto e rinnovato la Casa Editrice Marietti, facendone un punto di riferimento per tutta la cultura italiana, lanciando fra l’altro nuove collane di ebraismo, di cultura islamica, di dialogo interreligioso. In seguito si è dedicato soprattutto ad un’opera sociale sul territorio ligure, dirigendo la Federazione Solidarietà e Lavoro, animando il Terzo Settore e aiutando la parrocchia di San Siro, nel centro storico più disagiato. Nel 2005 il Comune di Genova gli ha conferito il Grifo d’Oro. Tra i suoi scritti vanno ricordati i saggi pubblicati per decenni con cadenza mensile sulla rivista genovese «Il Gallo», oltre ai volumi Una dimora nella verità (1985) e Fare teologia (1999). Piero Tubino nasce a Genova nel 1924. Proveniente da una famiglia della media borghesia genovese, in seguito alla crisi del ’29 subisce ingenti perdite, aggravate durante la guerra. La crisi costituisce per lui un atto provvidenziale che gli fa toccare con mano le difficoltà della vita della gente comune. Ordinato sacerdote, nel 1948 viene mandato nella parrocchia del quartiere operaio di Borzoli. Ma soprattutto in città don Tubino è conosciuto come l’uomo della Caritas diocesana. In questa veste contribuisce all’apertura di diversi centri di servizio sociale nei quartieri di Cornigliano, Centro storico, Marassi e Molassana. Per la sua lunga attività di impegno sociale è stato insignito del Grifo d’Oro dal Comune di Genova. «Il punto fondamentale resta questo: il credere assorbe tutta la dimensione più nobile dell’attività umana: cuore, sentimenti, fantasia, intelligenza. Il vero teologo è quello che pensa tanto in profondità da anticipare il futuro». Antonio Balletto «Troppo spesso l’essere cristiani si riduce alla frequentazione della messa festiva e alla “rincorsa”, a volte inconsapevole, dei Sacramenti. Mentre cresce un livello esteso di povertà, resistono le scelte indotte dal mercato. Sopravvive la “beneficenza” per mettersi la coscienza a posto e che non risponde ai criteri fondamentali cristiani della giustizia». Piero Tubino balletto_stampa19mm.indd 1 balletto_stampa19mm.indd 1 22-02-2010 17:07:52 22-02-2010 17:07:52

Sacerdoti nella città. Antonio Balletto e Piero Tubino

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Il volume è dedicato a due fi gure di sacerdoti che hanno profondamente segnato la società e la storia di Genova, rendendosi protagonisti di straordinarie esperienze di solidarietà (non da ultimo con la Caritas), di impegno civile, di insegnamento e di fede vissuta sempre "sul campo" e in un'ottica di condivisione, di dialogo interculturale e di apertura verso il prossimo. Le testimonianze di queste due splendide "avventure" di umanesimo cristiano – le vite di Antonio Balletto e di Piero Tubino, entrambi celebrati dalla loro città con il conferimento del Grifo d'Oro – sono qui rivissute attraverso i testi suggestivi e commoventi della loro vita: interviste, articoli su periodici, discorsi, singoli ricordi, saggi, omelie.

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SACERDOTI NELLA CITTÀESPERIENZE DI UMANESIMO CRISTIANO

A cura di

Salvatore Vento e Luca Rolandi

Antonio Balletto e Piero Tubino

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Il volume è dedicato a due fi gure di sacerdoti che hanno profondamente segnato la società e la storia di Genova, rendendosi protagonisti di straordinarie esperienze di solidarietà (non da ultimo con la Caritas), di impegno civile, di insegnamento e di fede vissuta sempre “sul campo” e in un’ottica di condivisione, di dialogo interculturale e di apertura verso il prossimo. Le testimonianze di queste due splendide “avventure” di umanesimo cristiano – le vite di Antonio Balletto e di Piero Tubino, entrambi celebrati dalla loro città con il conferimento del Grifo d’Oro – sono qui rivissute attraverso i testi suggestivi e commoventi della loro vita: interviste, articoli su periodici, discorsi, singoli ricordi, saggi, omelie.

I MURI BIANCHI

€ 18,00 DIABASIS

Antonio Balletto (1930-2008), sacerdote genovese, docente di teologia e fi losofi a, editore e uomo di cultura impegnato nella società, fi gura di spicco della vita pubblica ligure, è stato direttore del Collegio Teologico Internazionale Brignole-Sale a Genova (Fassolo), poi docente di Teologia fondamentale al Seminario di Albenga, successivamente al Collegio Alberoni di Piacenza e infi ne di nuovo a Genova, allo Studio Teologico di Fassolo. Dal 1980 al 1993 ha diretto e rinnovato la Casa Editrice Marietti, facendone un punto di riferimento per tutta la cultura italiana, lanciando fra l’altro nuove collane di ebraismo, di cultura islamica, di dialogo interreligioso. In seguito si è dedicato soprattutto ad un’opera sociale sul territorio ligure, dirigendo la Federazione Solidarietà e Lavoro, animando il Terzo Settore e aiutando la parrocchia di San Siro, nel centro storico più disagiato. Nel 2005 il Comune di Genova gli ha conferito il Grifo d’Oro. Tra i suoi scritti vanno ricordati i saggi pubblicati per decenni con cadenza mensile sulla rivista genovese «Il Gallo», oltre ai volumi Una dimora nella verità (1985) e Fare teologia (1999).

Piero Tubino nasce a Genova nel 1924. Proveniente da una famiglia della media borghesia genovese, in seguito alla crisi del ’29 subisce ingenti perdite, aggravate durante la guerra. La crisi costituisce per lui un atto provvidenziale che gli fa toccare con mano le diffi coltà della vita della gente comune. Ordinato sacerdote, nel 1948 viene mandato nella parrocchia del quartiere operaio di Borzoli. Ma soprattutto in città don Tubino è conosciuto come l’uomo della Caritas diocesana. In questa veste contribuisce all’apertura di diversi centri di servizio sociale nei quartieri di Cornigliano, Centro storico, Marassi e Molassana. Per la sua lunga attività di impegno sociale è stato insignito del Grifo d’Oro dal Comune di Genova.

«Il punto fondamentale resta questo: il credere assorbe tutta la dimensione più nobile dell’attività umana: cuore, sentimenti, fantasia, intelligenza. Il vero teologo è quello che pensa tanto in profondità da anticipare il futuro».

Antonio Balletto

«Troppo spesso l’essere cristiani si riduce alla frequentazione della messa festiva e alla “rincorsa”, a volte inconsapevole, dei Sacramenti. Mentre cresce un livello esteso di povertà, resistono le scelte indotte dal mercato. Sopravvive la “benefi cenza” per mettersi la coscienza a posto e che non risponde ai criteri fondamentali cristiani della giustizia».

Piero Tubino

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Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-662-2

© 2010 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it [email protected]

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Antonio Balletto Piero Tubino

Sacerdoti nella cittàEsperienze di umanesimo cristiano

A cura di Salvatore Vento e Luca Rolandi

D I A B A S I S

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Antonio Balletto Piero Tubino

Sacerdoti nella cittàEsperienze di umanesimo cristiano

A cura di Salvatore Vento e Luca Rolandi

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ANTONIO BALLETTOA cura di Salvatore Vento

Diabasis per Antonio Balletto

Frammenti di sentieri comuni. Un’esperienza editorialeprofetica, una sconfitta dolorosa, Salvatore Vento

Antonio Balletto. Grifo d’Oro della Città di GenovaGerardo Cunico

Capitolo primoInterviste e interventi

L’ultima intervista, Salvatore VentoFede e ragione: il percorso comune verso la verità.Un dialogo con Antonio Balletto sull’enciclica diGiovanni Paolo IIChiesa e laicità della politica Intervista a don Antonio Balletto sul tema dei rapportitra memoria e teologia in “Genova 2004 in viaggiocon le associazioni”Sponde da riavvicinare. Confronto e dialogo tra culture e religioniAntonio Balletto. Essere responsabili dell’amore: la giustizia e la conversione In morte di un fratello. Omelia al funerale di Fabrizio De AndréMaternità assistita. Problemi – Prospettive

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Capitolo secondoInterventi di don Balletto su «Il gallo» (2000-2006)

Offendere alcune fonti della VitaProteggere il corpo è amare DioOspitare i pellegriniIl mio servizio della parolaLa libertà dei figli di DioCredere aiuta a vivere? Senso e implicazioni della sequelaLa presenza nella ChiesaRinnovare la Chiesa

PIERO TUBINOA cura di Luca Rolandi

Don Piero Tubino. La carità di un sacerdote e le radicidell’amicizia con don Antonio Balletto, Luca Rolandi

Piero Tubino. Grifo d’Oro della Città di GenovaGiovanni Nervo

Capitolo terzoConversazioni, colloqui e testimonianze

Don Piero Tubino: il racconto di una vitaCome educarci, come educare alla giustiziae alla solidarietàManifestazione in memoria di Carlo Giuliania sei mesi dall’uccisione al G8 di Genova, Piero TubinoLettera agli amici, Piero TubinoA proposito di laureati cattolici, Franca GuelfiCamminando nella storia, Francesco FigariCompagno, fratello, prete, Don Andrea PieriniNel cuore dei Balcani. La Caritas diocesana di Genova in Croazia e Bosnia, Francesco Ferrari

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Fratello friulano, Remo CacittiI bambini di Kavaje, Anna CossettaLe strade di Aleksinac, Anna GaggeroLa Caritas come stile di vita, Egidio CancianiLa pace è progetto educativo. L’esperienza del LaborPacedella Caritas di Genova, Fabrizio LertoraUn anno diverso, Daniela NapoliUna scelta coraggiosa, Paolo BruzzoSolidarietà e lavoro, Andrea Ranieri

Capitolo quartoL’esperienza di solidarietà(Dal periodico «Caritas Notizie. Genova»)

Debitori di speranzaRischio e speranza dei giustiQualcuno dovrà chiedere perdono per noi? Un pugno nello stomacoBianca, il servizio, la Caritas

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ANTONIO BALLETTOA cura di Salvatore Vento

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Diabasis per Antonio Balletto

Con le vesti rimboccate per la traversata della notte e del de-serto, e pane azzimo, partecipi del suo dolore, luminosi della suagioia nel cammino a terra nuova – questa nostra, sempre con-divisa – ci piace ricordare don Antonio Balletto, che ha appenacessato la sua vita fisica, e il suo calvario. Gli dobbiamo molto.

Diabasis è anche sua eredità. Ha ricevuto da lui lo spirito del-la Marietti genovese: quella che ideò, che guidò, che ispirò, pri-ma che, sottrattagli e mutata, approdasse altrove.

Porteremo il vuoto di don Antonio, ma anche la sicura amici-zia. Come i poveri di Genova e come i ricchi che ha aiutato a riag-guantare la propria anima, come i lettori e collaboratori che han-no amato la sua casa editrice, anche noi gli siamo debitori. I dia-loghi, l’aiuto, le colazioni nel suo studio condividendo le mense,le diversità partecipate, i conflitti fraterni, i consigli, i libri rea-lizzati, le collane, i progetti, le inquietudini diverse e fedeli.

Abbiamo conosciuto in lui la misura dell’intellettuale, del cri-stiano, del pastore. Le sue parole di pastore dolce, attento ai biso-gni degli uomini, lontanissimo da una chiesa trionfale e politica.

Oppressi da una cultura che sembra occupare più spazio fisicoe sonoro che pensiero, il tomismo dal baricentro solidissimo ecoraggioso di Antonio Balletto ci è sembrato anche la leggerezzadelle cose che, dentro la materia viva e terrosa dell’umano, at-tengono al divino, lontano da ogni violenza metafisica, lontanoda ogni abuso della religione, laico o clericale che sia.

[da eRoads n. 63, Pasqua 2008]

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Sponde da riavvicinare. Confronto e dialogo tra culture e religioni*

Il titolo che mi è stato dato parla di confronti tra culture.Io ero bimbo quando abbiamo iniziato a bagnarci in questomare; subito nell’istituzione scolastica di quei tempi ci inse-gnarono a chiamarlo “Mare nostrum”, e le sponde che questomare baciava le sentivamo un po’ come terre diverse, miste-riose ma ancora abbastanza familiari.

Penso che proprio regioni come la Sicilia e città come Ge-nova dovrebbe ro immergersi in questa realtà nella quale si vive.

Sento nella congenialità del mio cuore e del mio spirito, piùvicino que sto mare che il Baltico o il Pacifico.

Per noi bimbi certamente erano terre misteriose − poi, do-po la guerra, con i romanzi di Camus, quando egli parla di“bagnarsi nel mediterraneo come qualcosa che fa entrare den-tro un tipo di luce” le sentimmo ancora più familiari.

A noi bambini si diceva che eravamo i discendenti di queiRomani che avevano costruito quelle grandi e nobili città do-ve la gente ci aspettava perché la liberassimo dalle potenzeplutocratiche, parole di cui non capi vamo il significato masuonavano solenni.

Si parlava di agili navi che solcavano il Mare Nostrum sindai tempi più remoti creando incontri, scontri, partecipazio-ne a valori comuni.

Là vi erano i nostri fratelli nella fede; ci insegnavano che ilCristianesimo si diffuse proprio in quelle regioni, partendo

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* Genova, 23 ottobre-13 dicembre 1994. Corso di aggiornamento docenti.

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dalla Siria sino all’Africa; ricordiamo la vivacità dell’Africaquando, ai tempi di San Cipriano, si celebravano sinodi con270 vescovi.

Le nostre ragazze brune, che un giorno sarebbero state lenostre innamo rate e le nostre spose assomigliavano alle ra-gazze di quelle terre.

Più ad Oriente esistevano popolazioni che erano, succes-sivamente, giun te da più lontano e avevano portato una falsareligione che aveva vinto Bisanzio; ci dicevano allora, che dalLibano, e, a sud, dall’Arabia erano arrivate queste invasioni.

Ci dicevano ancora che queste potenze plutocratiche ave-vano aperto un canale che avrebbe dovuto essere nostro; miricordo che in quinta ele mentare, quando stava per scoppia-re la guerra, ci ripetevano e ci faceva no ripetere “VogliamoTunisi, Gibuti e il canale di Suez”. Ecco, il crogiuolo in cuisiamo cresciuti nel Mediterraneo. Questo quadro voluta-mente impreciso e, direi, infantile, perché ho voluto dare unpo’ il clima di come stava maturando un certo modo di senti-re le cose, e anche un po’ patetico, dicevo, questo quadro miserve per dire quello che mi pare essenziale cioè gli intrecci,gli incontri, le simpatie, le antipatie, gli odii, le esigenze di in-contri a sfondo economico e grande capacità, in certi momenti,di fondere le grandi culture.

Ho detto, gli incontri e scontri, le navi che giravano, i pre-datori che facevano paura ma anche gola; questo ha lasciatouna sedimentazione nell’immaginario, nell’inconscio dellenostre popolazioni, specialmen te quelle costiere, sino ad ar-rivare ai tempi del Musulmanesimo ottomano, con il tentati-vo di invadere l’Europa dopo aver preso la Spagna e quindicon quel, “mamma li Turchi” che a Roma si ripeteva sempre.Queste cose le annoto perché bisogna rendersi conto che c’ètutto un substrato che deve essere superato, che non ha deifondamenti reali − ha indubbiamente dei fatti che sono statimitizzati ed interpretati in un certo modo − ma quel che è si-curo è che il conflitto di interessi in questo mare, inevitabil-

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mente c’è stato e ci può essere ancora, quando poi i conflitti diinteresse voglio no essere nobilitati, mobilitano gli intellettua-li perché diano il loro sup porto.

Questo è stato per le Crociate; se voi notate, c’è stata qual-che forte puntata nel Settecento sino alle mura di Vienna, masostanzialmente, quando si è aperta una altra via per il com-mercio, quando l’Europa ha avuto un altro sbocco, sono fini-te le diatribe con l’intensità che avevano in precedenza.

Nel guardare bisogna sempre essere consapevoli che unmondo dentro di noi condiziona, in qualche modo “colora”,modifica sia le sponde che abitiamo che le sponde degli altri.

Quindi il primo punto del mio discorso, detto in modo unpo’ superficia le ma con fondamenti reali, è proprio questo: onoi facciamo un esame critico nel valutare la nostra sponda e lealtre sponde oppure non si potranno fare molti passi avanti.

Siamo in una situazione in cui, tutti, ci dobbiamo porre inuna posizione critica.

Le sponde degli altri dove c’è un brulichio di genti, di idee,di interessi, di azioni e di reazioni: questo brulichio com’è?

Il secondo punto è importante: finirla con gli schemi precostituiti nel giudicare la donna, la

famiglia, i comportamenti dell’uomo verso la donna; non si puòcontinuare con stereotipi di reazione interiore.

Si vada un po’ in quelle terre, si veda; tutta questa storia dipersecuzioni, di maltrattamenti; non si può giudicare una ci-viltà in base a qualche pezzo giornalistico; una civiltà è fatta diradici, di riflessioni, di pensiero, di religiosità, è fatta di costume.

Quali valori, quale dignità, come vive questa gente, questobrulichio che sta su queste sponde? È lecito incontrarsi, fon-dersi, collaborare?

Qui ci sono tre atteggiamenti fondamentali in cui la gentesi schiera.

Ci sono gli ottimisti, coloro che ad ogni alba un po’ più ro-sa giurano che l’opera è ormai compiuta. Io li chiamerei per-sone che parlano di amate sponde; essi attenuano di proposi-

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to tutte le difficoltà; nascon dono più o meno consciamente ledifficoltà, le sedimentazioni che pur troppo si sono verificatenei secoli e ricorrono costantemente.

Ci sono, poi, i pessimisti: prima parlavo di amate sponde,questi invece sostengono le armate sponde, cioè la necessitàdi essere sempre arma ti contro un nemico.

Scriveva Kipling: “L’Oriente è oriente, l’Occidente è occi-dente e mai i due si incontreranno”.

Bisogna che si stia molto attenti a fare queste profezie, poi-ché si condizio nano gli atteggiamenti delle persone.

Questa è una visione pessimistica, di una radicale incomu-nicabilità e diver sità reciproca; quante volte io sento, soprat-tutto operatori marittimi, dire che “quelli” hanno un dirittotutto loro; certo che lo hanno, dovrebbero avere il nostro?

Non è un male avere un diritto proprio: bisogna semmaivedere se è giusto od ingiusto. E noi possiamo proclamare chesolo il nostro è giu sto? Bisognerebbe avere tanta forza ed in-telligenza da esaminare prima i nostri codici attuali e quellidel passato. Io cito sempre un esempio di un egiziano che, aitempi della guerra del Golfo, diceva: “Certo, il diritto inter-nazionale ve lo siete fatto voi e poi dite che è internazionale.Lo avete fatto in tre o quattro nazioni e lo avete chiamato in-ternazionale”. E aggiungeva: “Mi rifiuto, mentre accetto di -versi valori occidentali, che vengono dalla rivoluzione fran-cese, di iden tificarmi con il diritto della VI flotta”. I pessimi-sti vedono nel passato solo tutto il negativo; solo guerre econ flitti; da loro vengono rimossi tutti i contatti, i momentipositivi. Il presente viene visto come conferma di questa sto-ria ed il futuro non potrà essere diverso. C’è poi una terza ca-tegoria − dopo gli ottimisti e i pessimisti − quelli che si chia-mano realisti. Questi per me, sono i peggiori di tutti; io ho unapaura terribile dei realisti, poiché in nome della realpolitik sisono ammazzati milioni di persone. Se prima abbiamo parla-to di amate sponde e di armate sponde, qui le chiamerei bra-mate sponde, perché c’è proprio la bramosia del pos sesso.Sappiamo bene che la denominazione “realista” può avere an-

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che un si gnificato positivo, ma troppo spesso, sotto questaespressione si nascon dono persone ignoranti, ciniche e capa-ci di creare un clima e condotte senza sbocchi. Importante,per loro, è avere un potere, economico o politico, supportatodalle ortodossie di cui non tengono conto nella loro coscien-za ma che servono alla protervia e al cinismo. Noi dobbiamostare molto attenti a non lasciarci attrarre da questo ordi ne,perché è abbastanza facile farsi attrarre dal cosiddetto reali-smo. Chi ha la capacità di pensare, si serve dei realisti. Ed al-lora si sanno trovare i supporti intellettuali e anche religiosi; ilfanatismo, da una par te, il clericalismo esasperato dall’altrafanno da supporti a queste visioni. Bisogna solo far cambiaregli stolti − dicono i realisti; i fanatici, i fannul loni, che abitanol’altra sponda non riusciranno mai a realizzare una civiltà. Inquesta situazione così variegata, tra culture diverse e stratifi-cate, quel la Araba, Maghrebina, Musulmana, c’è sicuramen-te qualche difficoltà ad entrare nella modernità; modernitàche è stata traumatica. Noi europei abbiamo inventato belleparole, come “protettorato”. Inglesi, francesi, tedeschi hanno“protetto” per più di un secolo queste popolazioni e la mo-dernità è entrata tramite queste protezioni non richieste.

Questi popoli si trovano oggi in una situazione che richie-de, da parte nostra, un sentire da onesti ricercatori. Perché usola parola sentire? Tutta la cultura, per conto mio, nasce da unsentire fondamentale. Se io parto da una certa simpatia − chenon deve essere arrendevolezza − posso costruire qualcosa,ma quando già vivo, dentro di me, una specie di opposizione,tutte le costruzioni che verranno successivamente saranno co-struzioni di contrapposizione e di denigrazione, non di lettu-ra seria; poiché una lettura seria esige che io segnali anche lenegatività che ci sono in una civiltà, in una sponda, se no nonè schiettezza; ma se non si parte da questo sentire, che com-porta di vedere le cose come stanno, la cultura nostra (lo dicoa voi che insegnate) tradisce se stessa.

Diceva Ranke, il grande storico: “Tutta la vita di analisi perun’ora di sintesi”, mentre è molto più facile fare la grande sin-

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tesi, di tre quarti d’ora, come fanno oggi molti opinion leader.Si toccano temi fondamentali, etici e religiosi, con una di-

sinvoltura da fare paura, se si pensa che per secoli e secoli so-no stati studiati attenta mente.

Bisogna cercare di vedere le cose come stanno, sapendoche le cose non si danno mai direttamente a noi, ma, quandoci vengono, passano attraver so strati di formazione.

Bisogna guidare la possibilità di uno scambio, di un incon-tro nel rispetto delle diversità e degli interessi per un futuro dipace. Nessuno può toglie re le diversità: il confronto tra lesponde, l’intesa, esige, per prima cosa, che si salvino le carat-teristiche autonome che ciascun popolo ha portato avanti.

Per esempio, la denominazione di extracomunitario, cosìgenerica, che raccoglie sotto un cappello persone che porta-no teste molto diverse, impone a queste persone un unico de-nominatore.

Noi europei veniamo considerati italiani, tedeschi, ecc.,ciascuno nel ri spetto delle proprie appartenenze.

Io non ho gocce di sangue tedesco, forse ne ho qualcunaaraba. Ci si deve incontrare, costruire insieme un tessuto discambi, di co-co struzioni, tessuto che è fatto da conoscenzereciproche, da impegni e da legislazioni.

La pazienza del conoscere. Platone diceva che per cono-scere una realtà bisogna starvi vicino per molto tempo; e allo-ra non si può sentenziare sulle persone che girano nei vicoli, senon mangiamo più e più volte assieme, se non sappiamo sta-re con loro.

Ricordo la commozione, una sera, in un paesino della Si-ria, dove due famiglie a momenti litigavano perché ambeduevolevano ospitarmi. La loro realtà dell’ospitalità, benché iofossi un “funzionario” cristiano e loro fossero musulmani, eraqualcosa di sedimentato e profondo. Allora, per proseguire,diciamo due parole su come stanno le due sponde. Da unaparte e dall’altra, sono abitate da persone umane, con i loropro blemi, con la loro storia, la loro cultura, la loro religione,che bisogna conoscere nei vari aspetti. L’oggi − come si vive in

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Egitto, in Siria − potrà essere conosciuto se sullo sfondo saràsempre tenuta presente la vicenda della storia.

La vicenda della storia, anch’essa, complessa, una vicendadove si sono combattute molte battaglie, che anche i vostri ra-gazzi conoscono, dalla battaglia di Poitiers in poi. Però pocosi parla dell’esperienza spagnola o della Sicilia: della Spagnache ha avuto momenti − perché non si deve fare del facile ot-timismo − bellissimi; a Toledo convivevano, attorno al capomusulmano, cristiani, studiosi cristiani, studiosi ebrei che tan-to fermen to hanno portato nella vicenda del Mediterraneo.

Si sente spesso dire che la cultura greca ce l’hanno tra-smessa gli Arabi; anche questo è uno slogan un po’ esagerato:è verissimo che gli Arabi hanno avuto bisogno di recepire lacultura greca e quindi di tradurla, perché volevano conosce-re le antiche civiltà, soprattutto quella greca che tanto avevadato, però, siccome il greco lo sapevano poco, chiamavano icristiani, come traduttori dal greco.

E i cristiani traducevano con la loro particolare inflessio-ne; abbiamo avuto, quindi, un crogiolo di diverse culture do-ve si accoglievano le cul ture antiche, si fondevano assieme l’a-rabismo, la cultura cristiana e quel la ebraica. Abbiamo anco-ra dei testi, specie in Spagna, per metà in arabo e metà inebraico, perché i testi si dovevano ritradurre ancora.

E molto bella è l’esperienza della mistica; i musulmani rece-piscono dap prima la mistica dei grandi anacoreti cristiani, Si-mone stilita e tutti gli altri monaci, poi, in un secondo momen-to, il sufismo ha donato molto alla mistica cattolica, special-mente alla mistica spagnola del XVI secolo. Si stanno facendodegli studi molto attenti sull’influsso della cultura araba sullamistica di San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila.Perché oggi non possiamo rifare questo cammino insieme, vi-sto che si è percorsa molta strada assieme? È stato tradotto dapoco in Italia un libro che parla dell’influsso dell’escatologiamusulmana sulla Divina Commedia. Dante ha preso certa-mente, nella sua visione delle tre cantiche, dalla visione araba.

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Ecco come c’è stato un momento in cui la storia ha vistounite queste tre realtà. Certo con dei sobbalzi. Poi, quando iCattolicissimi Reali di Spa gna hanno cacciato gli Ebrei nel1492, si è avuto l’inizio di una frattura sempre più profonda.Ha cominciato a manifestarsi in Occidente una lettura che ve-de questa gente rozza, sporca, senza voglia di lavorare e di rea-lizzare quel progres so che noi abbiamo raggiunto. Si è diffu-sa una specie di insopportabilità per gli Ebrei e poi per i Mu-sulmani, per gli Arabi… Il Medioevo ha sviluppato sino adun certo punto una profonda attenzio ne per la cultura ebrai-ca e musulmana. Poi sono iniziate le difficoltà, con le Crocia-te. Le relazioni arabe sulle Crociate sono interessanti per ca-pire come, nell’altra sponda, si sia evoluta l’ostilità verso i Cri-stiani. Bisogna cominciare a cambiare, senza polemiche esenza esasperazioni, con maggiore informazione sull’oggi esulla storia. E molte di quelle cose che i nostri ragazzi non im-parano a scuola, forse, le impareranno sulla strada, cono-scendo altre culture in presa diretta.

Bisogna avviare un altro tipo di cultura storica e mentale perpoter inter pretare il “diverso”. Noi non abbiamo categorie at-te ad interpretare il diverso. Quando abbiamo queste catego-rie e le mettiamo accanto alle nostre, queste ultime vinconosempre. Si tratta di incrociare queste visio ni, i cambiamentiepocali sono avvenuti quando si sono fatti questi incro ci.

Non è tanto importante lo scoprire che la terra gira, come fat-to in se, quanto il cambiamento di paradigma che questo com-porta nella propria visione dell’universo. A mio avviso, oggi, sitratta di unire categorie men tali diverse. Noi abbiamo delle fi-nestre attraverso le quali vediamo la realtà, Calvino lo dicevacon una frase molto bella: “Noi siamo come una finestra, il mon-do che guarda un altro mondo”. Se tale finestra è fatta a qua-dratini piccoli come quelle degli antichi palazzi si vede in un cer-to modo, se si vede da una finestra ampia, la visione cambia.

Per arrivare ad una nuova visione io devo prendere anche al-tre visioni. Questa è la conoscenza, il fatto di assumere lo sguar-do con cui un Marocchino o un Tunisino interpretano la realtà.

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I due punti sui quali voglio ancora fermarmi per poco sono:confronto e dialogo sulla cultura; e qui dobbiamo comincia-re a capire cos’è cultura per loro e per noi. Questi popoli vi-vono ancora in una cultura che io chiamerei una cultura benpiantata per terra. Noi non viviamo più in questo modo, conuna cultura imperniata sulla corporeità, sulla materialità; lamaterialità per noi non conta niente. Nelle case di una voltal’acqua un po’ entrava, un po’ veniva fatta filtrare, era un ele-mento della terra, proprio personalmente sperimentato. Og-gi nella nostra civiltà, gli ingegneri, ma anche gli ecologisti,non han no mai toccato una zolla di terra.

Qui ci troviamo davanti a due modi di partenza su che cosasia un fatto culturale: per noi un fatto culturale, oggi, è − pre-valentemente − accumu lare nozioni; abbiamo il computer, sia-mo bombardati dall’informazione. Per integrarsi, per costrui-re un mondo, bisogna integrare i mondi cultu rali diversi.

La cultura, per l’altra sponda del Mediterraneo, la chiame-rei umore della terra, del cielo, del mare, umori che entrano den-tro e che danno un certo modo di vedere. Albert Camus hascritto delle pagine stupende, a riguardo. Ecco perché questiromanzieri del Nove cento debbono essere più letti dai ragaz-zi. Non perché io voglia che leggano Camus o Dostojevski diper sè, ma perché assumerebbero qual cosa che li renderebbepronti, non a giudicare “gli altri” perché non sanno usare ilcomputer ma a integrare i due modi della conoscenza.

E poi c’è un secondo momento, che è la cultura come sco-perta, ponte verso la realtà, verso la ricchezza dei giorni, ver-so ciò che è vero e profondo; la pazienza della cultura che cer-ca di tracciare dei sentieri non per dominare ma per incon-trare. Noi, dal XVII secolo in poi siamo spinti a dominarequesta terra, perché la civiltà nostra, costretta dalla moder-nità ha tentato di scoprire tutte le leggi.

Ma questo non può essere l’unico metro; le scienze e le tec-niche sono molto importanti per l’uomo, ma quando si asso-lutizzano e si toglie identica importanza ad un sentiero poeti-

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co che porta verso la compren sione della realtà, che in que-sto momento c’è ancora su altre sponde, assolutizziamo unaparte dell’uomo e lo inaridiamo terribilmente.

Noi oggi consideriamo che uno scienziato abbia ragionesolo perché studia una determinata cosa; non si va più a ve-dere le ragioni che egli porta. Non ha ragione perché è ungrande fisico, non può bastare nemme no se porta la docu-mentazione, perché questa bisogna interpretarla.

Bisogna che l’uomo entri in sintonia con la natura, altri-menti, nella sua sete di dominare, si rende schiavo delle cose edi se stesso. L’importanza, poi, della cultura come lievito inte-riore che suscita modi di essere, modi di riposarsi. Diceva giàNietzsche, nel secolo scorso, che la nostra mentalità ci inducea giustificarci se andiamo a fare una passeggiata in montagna.Perché giustificarci se facciamo una delle cose più intelligentiche ci siano? Ma, siccome sullo sfondo c’è il ragionamen to cheuna passeggiata non frutta, allora dobbiamo scusarci.

Non sarà forse utile che le culture diverse, dove cultura nonè “funzione di” ma è promozione di umanità, ci facciano tro-vare noi stessi? Io intravvedo in questo modo la possibilità diincontro, di dialogo, come noi ritroviamo la fecondità dellanostra cultura, le radici dantesche e leopardiane, loro posso-no trovare molto da noi. Qui bisogna rimboccarsi le manichee aiutarsi a vicenda. Ancora, la cultura come luce per la con-dotta pratica. Una cultura che si faccia ethos profondo, co-struttrice di quelle grandi leggi che edifi cano le civiltà. Guar-date un po’ se la nostra cultura può diventare guida per la no-stra condotta quotidiana.

Per lo più ha spaccato la nostra testa, le nostre coscienze.Le culture delle altre sponde sono luce per la condotta quoti-diana. Di conseguenza anche i mezzi per la trasmissione diqueste culture sono diversi; non è tanto il libro quanto la sag-gezza dei vecchi, la tradizione orale.

Non a caso esiste un proverbio di quelle terre che dice:“quando muore un vecchio si chiude una biblioteca”. Ed èproprio così. Nessuno può negare che questi tratti che ho de-

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lineato velocemente, non siano un po’ di tutte le sponde, peròho accentuato alcune cose a scapito di altre.

La casa, per esempio, per loro, non è tanto la separazioneda un cielo che minaccia quanto lo spazio per la tranquillità,per riposarsi ma anche per comunicare. La tenda, per il Me-diterraneo nomade, ripara dai rigori della notte, è come il ve-lo, che dona quel minimo di privacy, custodisce affetti, scam-bi, miserie, tenerezze, di cui si ha bisogno, però è anche mo-mento di incontro.

Nella nostra civiltà, che ancora io ho conosciuto, la casa eraun po’ il ricettacolo di tutti; nei nostri rioni le case del palaz-zo erano un po’ di tutti, la casa non separava.

La visione di una cultura tocca tutte queste realtà, la mensa,la casa, ed è qui dove possiamo avere tanti arricchimenti. Pos-sono dar fastidio, queste persone, perché c’è poco lavoro, maguar dando un po’ più in là, le ricchezze interiori potrebberofare un uomo diverso. Io non ho dato un taglio religioso al miointervento ma per me il Cristianesimo ha molto da ricavare,nello sviluppo delle sue potenzialità, da questi incontri. Comeè stato del resto per il passato. C’è un poeta che amo molto,ogni anno spero sempre che gli diano il Nobel; nato ad Alep-po, in Siria, scrive le sue poesie in arabo ma vive a Parigi datanti anni, Adonis, di cui ho fatto tradurre un libro, “La poe-tica del Corano”. Un giorno eravamo a tavola a Parigi e mi dis-se: “Bisogna che voi cristiani la smettiate di considerare Cri-sto come vostro, semmai voi siete di Cristo, ma Cristo è di tut-to il bacino mediterraneo”. Mi ha fatto pensare molto questafrase, da un punto di vista culturale e da un punto di vista re-ligioso. Cosa abbiamo fatto di questo Cristo noi cristiani, mol-te volte, se non un ometto occidentale? Ma questo è un altrodiscorso. Oggi si dice che le religioni sono quelle che fomen-tano il fondamentalismo. Ma pensate che su un miliardo dimusulmani, il fondamentalismo ne annovera mezzo milione,se arriva a questa cifra! Sono persone che hanno in mano deifiammiferi, quindi possono dar fuoco alla paglia, però non esa-speriamo questo punto, perché il Musulmanesimo in se stesso

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non è fanatismo e non è radicalismo. C’è la scuola d’Egitto,con i Fratelli Musulmani, ci sono alcuni gruppi, Hamas ed al-tri gruppi, ma sono minoritari. Se noi, in questa popolazione,buttiamo della benzina e accendiamo un fiammifero, provo-chiamo il finimondo. Mi ha fatto molta impressione vicino al-le grandi moschee, del Cairo o di Damasco, vedere l’uscita do-po la preghiera; è una moltitudine, spesso infervorata dalla vi-gorosa eloquenza dei capi religiosi, se lì si butta un fiammiferoè la fine. Allora bisogna lavorare perché loro ritrovino quellache è l’essenza della loro religiosità. E la sostanza della reli-giosità è, per esempio, la donazione di una parola del Corano,che non va solo letta, ma meditata, assimilata.

Mi sono trovato con uno dei maggiori studiosi di questoaspetto dell’Islamismo, un berbero che vive a Parigi, Arkoun,con il quale, mentre facevamo questi discorsi, cioè che cosa in-tendessi io per parola di Dio e cosa intendesse lui, musulmano,alla fine ci dicevamo che avremmo po tuto scrivere un libro in-sieme, tale era la sintonia della nostra visione. Così loro possonoarricchire noi, e noi loro, perché il Cristianesimo se rio, l’Ebrai-smo e l’Islam seri nella storia della spiritualità sono stati mol to at-tenti all’intelligenza della gente, non all’emotività della gente.Quando Gesù, nel Vangelo, dice di non adoperare una infinitàdi parole come fanno i pagani, ma di dire “Padre nostro”, dàuna linea che è per il cuore intellettuale, il cuore aperto dove stala possibilità della decisione dell’uomo. E come noi abbiamo dadare ricchezza a loro così loro a noi; per esempio, con quella lo-ro attenzione ad Allah, dio sempre misericordioso. È gran -dissima la prima sura del Corano, fondamentale per la loro pre-ghiera. Il senso del mio discorso è sostanzialmente questo: dob-biamo conoscere, dobbiamo conoscere con intelligenza, superandoquesta specie di inconscio collettivo dei giudizi precostituiti.

Conoscere significa non solo assumere delle nozioni, mapartecipare ad un cammino, vedendo come nella storia ci sia-no stati momenti di incon tro bellissimi e anche di scontri.

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Questo concetto l’ho applicato velocemente alla cultura e al-l’aspetto reli gioso. Concluderò il mio discorso dicendo cheper me è finito il tempo del confronto e del dialogo, deve co-minciare il tempo della condivisione, della co-costruzione; lagente che abita queste sponde credo che sia chiamata a stringer-si la mano, innanzitutto, ma poi a produrre pane da scambiarsi,pane materiale e pane della cultura. A scambiarsi segni di li-bertà, di dignità, di rispetto, costruendo un grande tessuto in-sieme, il tessuto dell’umanità di domani. Ho la speranza chequesto verrà, sono certo che può venire, sono certo anche che senon ci si muove, non verrà.

Questa nostra città poteva essere − potrebbe ancora esse-re, ma la situazio ne non è incoraggiante − la prua di questoincontro tra le civiltà di queste sponde.

Me l’hanno ripetuto spesso, invocando un lavoro partico-lare, i responsa bili dell’Istitute du Monde Arabe di Parigi,uno degli istituti più prestigiosi al mondo, in questo campo. Ione ho parlato a quelli che credevo essere i responsabili di que-sta città, sia per censo che per livello istituzionale. Mi hannosorriso in faccia. È triste, alla mia età, aver visto queste rea-zioni, per cui ho smesso di proporre a loro queste cose; non leproporrò mai più perché non mi pare giusto essere derisoquando si propongono cose di questa importanza. Le pro-porrò a chi non ha censo e posizioni istituzionali particolari:speriamo che un po’ di più mi ascoltino.

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In morte di un fratello.Omelia al funerale di Fabrizio De André*

Qui è il luogo ed è il tempo del cuore ferito ancora una vol-ta che diviene valle grande dove il risuonare del silenzio alto edelle povere nostre parole, si fa invocazione struggente.

E invochiamo per lui cieli sereni, acque limpide, sconfina-ti e liberi paesaggi. Invochiamo un Padre che sa, che vuolestringere a sé questo suo figlio. Questo suo figlio, cavaliere er-rante, in cerca di respiro, di amore, di libertà.

In cerca dell’oro che il suo cuore nobile coglieva anche trale fanghiglie delle nostre terre, nei vicoli umidi, sporchi e bui;in cerca di quell’oro ch’era reliquia nobile di splendore diumanità.

Sì, tu Fabrizio, meglio di noi scoprivi oro e amore da verorabdomante e quest’oro di umanità offrivi cantando come unantico aèdo dal gran cuore e il tuo canto ci ha toccato, ha toc-cato l’esistenza di tanti giovani: tutti hanno sentito il timbrosincero che vede i fiori anche nella disperazione e sferza comesi conviene gli stolti che credono d’essere semidei e disprez-zano tutto e tutti.

Invochiamo per te, Fabrizio, cavalcate serene nei “pascolidel cielo” e pace e gioia infinita da quel Dio che è Padre alQuale ti affidiamo.

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* Basilica Santa Maria Assunta di Carignano, 13 gennaio 1999.

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Invochiamo per la tua sposa, per i tuoi figli, per i parentitutti e invochiamo anche per tutti noi che siamo qui perchépossiamo avere cuore, testa e coscienza umana.

Grazie, Fabrizio, per l’oro scoperto che ci lasci in eredità eperché hai aperto un sentiero per me.

Vi fu un Uomo Dio, un tempo, che vide regali stupendi làdove noi vediamo solo fango e ignominia.

Io prego che ora tu possa sederti con Lui alla mensa dellaVera Vita, mentre noi dobbiamo arrancare e faticare.

La tua città, la tua Genova è qui per dirti che ti vuol bene,per dirti grazie e molti di noi pregano per te.

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Capitolo secondo

Interventi di don Balletto su «Il gallo» (2000-2006)*

* La selezione degli articoli è stata realizzata da Luciana D’Angelo, princi-pale animatrice della redazione.

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Ospitare i pellegrini*

Straniero, chi è fuori dalla protezione della città

Sono tornato a leggermi un buon vocabolario per ritro varequanto di più originario porta il termine “pellegri no”. Dal la-tino “peregrinum” che significa “straniero”, deriva da “pére-gre” che vuol dire “fuori città”.

Già in questa ricognizione un po’ grossolana ci si ac corgeche il termine oltre a designare una condizione che ha a chefare con coordinate geografiche, compor ta anche una “estra-neità”, una mancanza di luoghi d’appoggio, di luoghi di pro-tezione.

La persona è in balia di sé, separata da quel mondo di cuiognuno di noi ha bisogno. Non sa dove posare le membra edove depositare la propria memoria, le ric che affettività, ilproprio retaggio.

Tutto diviene sempre più in balia del caso, dell’im pon de ra -bi le, del fato. L’insicurezza cresce e con essa il timore, la pau-ra, sino, in certi casi, al parossismo. La personalità può scom-porsi in maniera anche gra ve.

Pensate: non poter entrare in un luogo dove si hanno al -cune protezioni, dove i figli non hanno la possibilità di rap-portarsi ai genitori in quel rispetto della privatezza che il no-stro cuore ricerca; dove gli sposi possono es sere esposti asguardi irriguardosi e irriverenti; dove una madre non puòdedicarsi a sposo e figli e, magari, a genitori anziani senza am-basce create da indiscrezio ni e pettegolezzi.

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* Febbraio 2001.

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Non si tratta dunque del puro riparo del corpo dalle in -temperie (già gran cosa questa!), ma anche della prote zione ecustodia della persona nelle sue espressioni e manifestazionipiù personali, più discrete e più private. Si tratta, in sintesi, dinon abbandonare una persona alla mercé dell’indiscrezione edel ludibrio.

Ospitare, espressione della Divina Misericordia

Detto in positivo, si tratta di quella terrena attenzione ecustodia che potrebbe anche esser detta pietas in senso cri-stiano e virgiliano. È forse la beatitudine della mi tezza che do-vremmo tenere in più grande considerazio ne e che dovrem-mo far crescere.

Mitezza e liberante protezione conducono a quell’ac -coglienza in casa, in qualche asilo che riscaldi il cuore e l’ani-ma. Così è la vera ospitalità a cui il discepolo di Gesú è solle-citato a dedicarsi.

Quanta ricchezza di umanità si ritrova ripercorrendo la sto-ria tracciata dalle Scritture Sante. Indicazioni sulla natura esui modi dell’ospitalità; prescrizioni etiche che inducono alcompimento di questo dovere, alla realizzazione di questo fat-to così umano; e quanti esempi la tradizione biblica ci rac-conta.

In queste radici bibliche nasce e cresce l’ospitalità comeopera di quella Misericordia che governa il mon do e tutta la sto-ria. Quell’ospitalità, che è ancora parte di civiltà antiche spe-cie nelle terre d’Oriente, nella Bibbia diviene segno ben tra-sparente dell’infinita Misericordia, l’anima vi vificatrice chealimenta tutta la storia.

Perché ospitare secondo la Bibbia

Nel “Dizionario di teologia biblica” di Xavier Leon Dufoured edito da Marietti si legge:

“L’ospite che passa e che chiede il tetto che gli manca ri-corda, innanzitutto, a Israele la sua antica condizione di stra-

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niero fatto schiavo, poi la sua presente condizio ne di vian-dante sulla terra.

Questo ospite ha quindi bisogno di essere accolto e tratta-to con amore, in nome di Dio che lo ama. Non si indietreggeràdi fronte ai più gravi sacrifici per difen derlo; non si esiterà aimportunare amici se personal mente non si ha la possibilitàdi sovvenire alle neces sità di un ospite inatteso.

Tale accoglienza premurosa e religiosa, di cui Giobbe sigloria, e di cui Cristo approva la delicatezza (Lc 7,44) mani-festa la carità fraterna che il cristiano deve esercitare nei con-fronti di tutti (Rom 12,13 e 13,8).

Un uso scandaloso della genuina tradizione cristiana

Non posso fare a meno a questo punto di esprimere il “mioscandalo” dinanzi all’opinione di tanti cristiani che sprizzanoavversione verso gli ospiti che chiedono asilo.

Per questi cristiani “perfetti” un rispettoso richiamo allaserietà della vita di cui magari si fanno vanto mi pare necessa-rio e doveroso. Non avevo mai visto, nella mia ormai lungaesistenza, tanta spudoratezza e tanta improntitudine.

Sentir l’onorevole Bossi che invoca espulsioni di stra nieriper difendere la genuinità delle tradizioni cristia ne sarebbe ri-dicolo, se non fosse tragico e delittuoso. I cristiani che si rico-noscono in questa predicazione di odio con il pretesto di di-fesa della purezza della “tradi zione” cristiana, abbiano alme-no un po’ di memoria criti ca per ricordare come nel secoloappena finito ci siano stati annunci che volevano varie “purez-ze” e la memo ria critica e umana sappia riconoscere quantone è se guito.

Si aprirebbe ora un discorso sulla nostra civiltà e sulle ani-me che la rendono viva, operante e costruttrice. È un discor-so lungo e complesso che affronterò in seguito.

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PIERO TUBINOa cura di Luca Rolandi

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Lettera agli amiciPiero Tubino

Miei cari amici l’estate è passata e, forse, anche le vostre va-canze; un anno di lavoro ci aspetta tutti. In questo tempo conalcuni di voi ci siamo anche incontrati.

Avrei sperato di fare un viaggio nei Balcani e… invitarvi,ma almeno per ora ho dovuto rinunciare; i miei anni, ormaisono tanti e io ci devo fare i conti.

Inutile dirvi che vi ho pensato più volte; ci sono sempre oc-casioni che mi richiamano i vostri volti, le vostre persone; mo-menti vissuti intensamente, anche fugaci o prolungati nel tem-po. Voi state camminando per la vita; …e anch’io, ma per mei più tanti sono ricordi e quando succede che ci incrociamorivivo il rapporto e le esperienze avuti insieme.

Con molti ci si conosce ormai da tanto tempo. Con alcuni ècontinuato un rapporto, anche se saltuario; con altri, non po-chi, bisogna andare un po’ indietro negli anni per ritrovarlo.

Per tutti, a ripensarci, non si è spento dentro di me il lega-me vissuto, talvolta intenso e sempre vero, nonostante i di-versi modi di pensare, qualche volta… con difficoltà.

A fronte degli avvenimenti di questo tempo che sono…“storia”, mi son chiesto più volte di che cosa vivete, che cosavi sostiene, che cosa “conta” per voi nelle vicende, nel lavoro,nello studio, di tutti i giorni, nella famiglia e nelle amicizie. Dache parte state e con quale consapevolezza? Negli anni ormailontani – Sessantotto, Settanta, Ottanta – si lottava per le“scelte di campo” e per un comportamento conseguente; og-gi, mi pare, si è tentati di vivere alla giornata. Erano gli annidel conflitto est-ovest che si rifletteva nella vita; aveva senso

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lottare per la pace (vedi gli “obiettori di coscienza”, la mostranavale bellica a Genova e relative contestazioni), per le con-quiste sociali e per l’ottenimento di una legislazione a tuteladegli Immigrati.

Si era costituito un fronte assolutamente nuovo di …al-leanze fra gli Enti cittadini più diversi: Caritas, Sindacati, As-sociazione Industriali, Acli, Croce Rossa, Conferenza SanVincenzo, ottenendo leggi adeguate in Regione e in Comune.A quel tempo, il sottoscritto e altri erano etichettati come “co-munisti”, anche all’interno della comunità diocesana. Oggi sistenta a cogliere i motivi veri per una “ sinistra” e per una “de-stra” nella competizione politica che annulla i “valori”.

Troppo spesso l’esser cristiani si riduce alla frequentazionedella messa festiva e alla “prima comunione” dei figli. Mentrecresce un livello esteso di “povertà”, resistono le scelte indot-te dal “mercato”. Sopravvive la “beneficenza” per mettersi lacoscienza a posto e che non risponde ai criteri fondamentalicristiani della giustizia.

Pensando a voi, so bene che queste considerazioni trova-no pure corrispondenza nelle vostre coscienze. Quello chemi ha spinto a scrivere è il desiderio di richiamarvi a queste“convinzioni” e a chiedervi quanto sono vive dentro di voinella vita di tutti i giorni; come si riflettono nelle scelte, ancheminute, che facciamo: dalla vita di Fede vissuta con coeren-za nel lavoro, nelle relazioni di famiglia, dalle “spese” cha fac-ciamo, alla “presenza” nella vita sociale, senza richiudersi nelpiccolo mondo privato e, non ultima, alla “parte” delle no-stre sostanze che in modi diversi diamo ai poveri, quei pove-ri che spesso sono vicini a noi e nella nostra stessa parentela.Se cerchiamo una spinta e una sollecitazione, basta che leg-giamo i titoli dei giornali di questi giorni.

“Guadagnavo milioni; ora non ho più nulla” – “Il grandecrac; finanza senza regole, mercati fuori controllo. Una crisiinfinita. Inchiesta sui padroni del mondo” – “il buco nerodelle assicurazioni” – “500mila lavoratori inglesi tremano” –“Draghi: ‘una delle crisi più gravi della storia’ – “…Alitalia

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nel dramma” – “Perchè in Italia sarà l’anno nero della reces-sione” – “Italia meno occupati, perfino all’Istat” – Così le fa-miglie svuotano il carrello della spesa”. Quali convinzioni,dunque, e come sostenerle, da quali ragioni e come alimen-tate; per tutti, per chi ha una Fede e… per chi non ce l’ha ocrede di non averla. Vi auguro grande pace e molta speranza.Arrivederci!

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Una scelta coraggiosaPaolo Bruzzo

“Molto reverendo Don Tubino, desidero scriverle, anche anome di moltissimi genovesi, e complimentarmi con Lei per laserietà, la intelligente, precisa puntualizzazione, per il coraggiodimostrato nel “rimandare” a quel paese il nutrito branco di co-dardi, di imboscati, di vigliacchi che puntavano, impunemente,di trascorrere… il periodo di “leva” nel più aberrante parassiti-smo, nella vigliaccheria legittimata da così dette autorità di go-verno e (peggio) militari, fidando nella “protezione” di un “En-te” che rappresenta, per Genova, la più grande, “onesta”, im-portante ed articolata, la più antica, amata, efficiente “Opera diBene”, libera e indipendente della città.

Inizia così una lettera inviata a don Piero (e per conoscen-za alla Curia Arcivescovile) nel giugno del 1996 quando la Ca-ritas di Genova con altre Caritas ricusò l’ennesimo gruppo di“precettati” (cioè obiettori non richiesti ed inviati in serviziodal Ministero della Difesa senza rispettare le eventuali richie-ste d’impiego dei giovani e degli enti) iniziando una forte cam-pagna di protesta e “disobbedendo” a quanto previsto dallaConvenzione. La “ammiratrice” di don Piero, una professo-ressa, scrisse la missiva travisando completamente i titoli deigiornali e finalmente poté dire la sua su quegli “imboscati”degli obiettori. In realtà quello era ovviamente un atto noncontro gli obiettori ma contro il sistema militare che conti-nuava a osteggiare il mondo del servizio civile. A partire daquell’episodio ci fu un confronto con l’allora ministro An-dreatta che portò alla cessazione nel giro di pochi mesi della

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pratica delle “precettazioni d’ufficio”. Gli obiettori hannosempre “creato problema” e solo degli “incoscienti” comedon Giovanni Nervo, don Piero e gli altri apripista della Ca-ritas in Italia potevano cogliere la sfida e dare gambe a quellache fu una grande storia. Forse qualcuno un giorno si deci-derà a scrivere questa storia per farne memoria nel senso bi-blico del termine. Per ora pare dimenticata. Una storia chedovrebbe essere raccontata senza stereotipi, da tutte le ango-lazioni, a tutti i livelli per scoprire come questo fiume di spi-rito – improntato alla pace, al rifiuto di ogni violenza, al ser-vizio, alla volontà di costruire un mondo più giusto e solidale– abbia irrigato campi che hanno dato o stanno dando fruttiinsperati e campi dove la messe deve essere ancora raccolta. Aquesto fiume hanno portato acqua giovani che sono arrivatiall’obiezione con le motivazioni più disparate e con predi-sposizioni diverse. Hanno portato acqua anche i tanti forma-tori, responsabili, direttori, parroci che ci hanno creduto. Re-centemente ho sentito uno dei nostri parroci, che fu uno deiresponsabili di “centro operativo” più attivo, dire che la so-spensione della leva è stata, per quanto segno dei tempi e frut-to di un cammino, la più grande disgrazia per il mondo gio-vanile e per la nostra comunità. L’obiezione ha costretto i gio-vani e la Caritas ad approfondire tematiche, a relazionarsi conle istituzioni, a parlare di diritti e di doveri, a studiare, a farepolitica, a praticare la formazione, a inventare, a creare, a ser-vire, a confrontarsi con le associazioni, a muoversi nella cri-stalleria della nostra Chiesa su un tema scottante come quel-lo della guerra, dell’esercito, di cosa un cristiano deve e nondeve accettare. Il fenomeno obiezione in Caritas ha cambiatoprofondamente la Caritas stessa, la Chiesa, le istituzioni, il ter-ritorio, i servizi sociali, la comunità. Chi conosce e ha vissutoquesta storia sa che ovunque si guardi nel nostro territorio fi-sicamente, socialmente, storicamente, culturalmente si trovamotivo di citare un collegamento con il fenomeno Obiezio-ne. È assolutamente importante “guardare” però non con ununico obiettivo, ma cambiare le focali, mettere dei filtri e al-

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lora quei campi irrigati vengono fuori e quei semi ancora sot-toterra si scoprono in vita e pronti a “fruttare” chissà tra quan-to tempo e chissà dove. Dice Nervo “…il problema della pa-ce è certamente posto con forza dalla guerra, ma obbliga difatto ad una riflessione che va molto più a monte e che noi,come Caritas, ci siamo trovati a fare sotto lo stimolo degliobiettori di coscienza, che ci hanno spinto a trattare il pro-blema della nonviolenza e della difesa popolare nonviolen-ta…”. Non leggete questa storia monoliticamente. Obietto-re evoca o “imboscato” o “impallato”… ebbene questi gio-vani, a migliaia, erano eterogenei per provenienza, peresperienze, per ceto, per titolo di studio, per sogni, per reli-gioni, per credo politico… eppure tutti hanno dato qualcosaa modo loro nell’ambito delle varie sfaccettature dell’espe-rienza. Molti hanno cambiato la vita, tutti ricordano questaesperienza come una pietra miliare della loro vita. Nel 2008don Luigi Ciotti, durante il 30° anniversario dell’obiezione inCaritas a Genova, disse: “Solo nell’insieme l’azione del singo-lo trova coraggio, senso, speranza. Per cambiare, seminando so-lidarietà, diritti, giustizia, la società ha bisogno di riconsiderarela centralità del ‘noi’”. Ho avuto la fortuna di partecipare allastoria dell’Obiezione di Coscienza come attore non protago-nista immediatamente prima della storica sentenza della Cor-te Costituzionale che decretò la pari durata del servizio civiledegli obiettori rispetto al servizio militare mettendo così finead una delle più eclatanti discriminazioni dettate dalla legge772 del 1972. Era la fine degli anni Ottanta carichi di fermentiin tutti gli ambiti, a tutti i livelli e in tutto il mondo. Tiananmendoveva ancora arrivare, il muro di Berlino doveva ancora ca-dere e l’Afghanistan, oggi occupato dalla NATO, era inveceoccupato dall’Unione Sovietica. In Italia governava il penta-partito. A Genova con il contributo degli obiettori terminavapositivamente la lotta contro la Mostra Navale Bellica esem-pio “dimenticato” di lotta nonviolenta. Nel mio lavoro in Ca-ritas ho conosciuto più di mille tra obiettori e ragazze del-l’anno di volontariato sociale e più di un centinaio di persone

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che se ne occupavano sotto diverse forme. C’era la netta sen-sazione di partecipare attivamente alla comunità, di cambia-re lentamente ma inesorabilmente le cose, di costruire la sto-ria… ma non eravamo degli invasati visionari perché vedeva-mo in diretta i risultati: alcuni nell’immediato altri dopo annidi fatiche. Ventisette anni di lotta, confronto e sentenze dellaCorte Costituzionale hanno portato all’abolizione della legge772. Nel giro di due anni gli obiettori che, contro le direttivedel Ministero della Difesa, si recavano in missione nei Balca-ni durante la guerra autodenunciandosi, ottennero il cambia-mento radicale di rotta ministeriale. Ma l’obiezione non è sta-ta solo autodenuncia, disobbedienza, auto distacchi, auto tra-sferimenti, digiuni, ecc. È stata anche innovazione nei servizidella nostra città, servizi di frontiera, sperimentazioni, nuoveassociazioni, nuove cooperative, nuove politiche. È stata ani-mazione ai diritti, alla solidarietà, alla giustizia, alla mondialitàcon approcci e competenze diversificate. È stata la prima vol-ta che la nonviolenza è stata approcciata in maniera scientifi-ca. È stata l’intervento massiccio e determinante nelle emer-genze nazionali dal Friuli all’Irpinia, dalla Sicilia all’Umbriapassando per Alessandria. È stata testimonianza ad esempiocon le comunità … ma quanti anche al giorno d’oggi andreb-bero a vivere per un anno insieme ad altri emeriti sconosciu-ti? Dice Roberto: “Durante il servizio civile (1983-1984)aprimmo il dormitorio al Monastero per l’emergenza freddo.C’erano dodici ‘barboni’ ospitati a dormire. Io e un altroobiettore dormivamo in una stanza a parte. Don Piero il gior-no dopo ci disse “Se volete condividere davvero, dovete dor-mire insieme a loro”. Non l’ho mai dimenticato”. Roberto èuno dei tanti obiettori che ho conosciuto… che bello essercistato! …che bello aver conosciuto tanti compagni di strada…oggi sono sparpagliati nella nostra società: operai, assessori,deputati, sindaci, operatori sociali, medici, architetti, maestri,commessi, artigiani, professori, politici, sacerdoti, assistentisociali, avvocati, notai, spazzini, magistrati, funzionari ONU,ristoratori, ecc. ecc. …stanno seminando.

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Torniamo alla nostra professoressa… non ho dubbi che an-che oggi, se ci fosse la leva obbligatoria, lettere di questo ge-nere verrebbero scritte e che anche nella nostra Chiesa si ria-prirebbe un dibattito sopito più dalla mancanza di un obbli-go che non dal termine di un percorso completo di crescitaculturale, politica e religiosa. L’obiettore (non solo al serviziomilitare) crea sempre “complicazioni” perché spezza delleroutine e fa interrogare le persone. Sarà forse per questo di-sagio che l’obiettore viene messo costantemente in discussio-ne, analizzato, interrogato e messo nelle condizioni di “paga-re” per la scelta.

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Predilettinella solidarietà

nel servizio della culturae nel pensiero

che rendono gli uomini liberiprima ancora che fratelli

Antonio Balletto e Piero Tubinosacerdoti nella città

per voce direttaci parlano

in questo librostampato

nel carattere Simoncini Garamondsu carta Arcoprint

delle cartiere Fedrigonidalla tipografia Sagi

di Reggio Emiliaper conto di Diabasis

nel febbraio dell’annoduemila

dieci

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