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Riassunti EGI col prof Ferretti alla Luiss
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CAPITOLO 1 “Il sistema impresa e l’ambente competitivo”
Sistema impresa:
Patrimonio genetico:
La spinta imprenditoriale
Le risorse disponibili
Le relazioni
Progetto strategico
Visione e missione
Strategia competitiva
Sviluppo e utilizzo risorse
Impresa Autopoietica (chiusa e aperta)
Obiettivi impresa= obiettivi singoli stakeholder. Equilibrio (Economico, Incremento Patrimonio, Miglior uso
risorse)
L’ambiente è un insieme si attori e di condizioni. Esteso, competitivo e specifico del business. L’impresa ha
una percezione soggettiva dell’ambiente rilevante per essa, maggiore è la compatibilità dell’impresa con
l’ambiente migliore sarà la percezione. Un’ambiente complesso favorisce l’innovazione dell’impresa per
rimanere competitive
Esteso
Attori con interazione solamente passiva (situazione macroeconomica non influenzabile)
Ambiente Competitivo e comp. del business
Attivi e passivi. Possono esserci interazioni sia competitive che cooperative
Porter:
Intensità della concorrenza. Dipende dal grado di concentrazione (l’indice di concentrazione assoluta o
relativa). Livello della domanda rispetto all’offerta e barriere all’uscita. Leva operativa, struttura rigida,
permette di agire sul prezzo, o flessibile dell’impresa, permette di agire sulla quantità (BEP, CF/CV).
Modalità di manifestazione della concorrenza, come frequenti cambi di prezzo, lancio di nuovi
prodotti/innovazioni o comunicazioni.
Minaccia di nuovi entranti. Le aziende già presenti (incumbent) modificano la loro strategia a causa della
pressione competitiva. Modificano i prezzi o acquisiscono altre imprese nel settore. I nuovi entranti
possono fare una nuova unità produttiva o acquisire aziende già operanti nel settore. VI sono però barriere
all’entrata: istituzionali, monopoli statali, diminuite con le liberalizzazioni; strutturali con economie di scala,
di esperienza, di diversificazione, alti investimenti; strategiche, l’incumbent deve sostenere delle strategie
conveniente economicamente e strategicamente e sostenibili finanziariamente.
Concorrenza prodotti o servizi sostituti. Bisogna vedere l’elastcità incrociata dei proidotti per capire se
all’aumentare del prezzo di uno aumenta anche la domanda dell’altro e viceversa.
Potere contrattuale dei fornitori e degli acquirenti. Dipende dalla forza contrattuale relativa che si ha nei
confronti di clienti o fornitori, ossia dalla maggiore facilità di sostituire il cliente/fornitore che si ha nei
confronti della controparte.
Intensità e segno dell’azione degli stakeholders esterni. Autorità politiche e amministrative, autorità
pubbliche di regolamentazione del settore, associazioni di rappresentanza delle categorie di attori, gli
organismi della società civile.
Integrazione con imprese complementare alla domanda. Modalità di integrazione tra la propria attività e
quella di attori che svolgono attività complementari.
Tutte le forza competitive influiscono sulla redditività potenziale del settore.
Raggruppamenti strategici, gruppo di imprese di un settore che adottano strategie simili e che fanno parte
di un segmento di mercato. L’impresa tenderà a prendere in considerazione principalmente gli attori
facenti parte il raggruppamento.
L’ambiente competitivo riguarda in generale tutti i business dell’impresa, quelo specifico riguarda i singoli
business. Nel caso di mono-business i due coincidono
CAPITOLO 2 “Le risorse e le competenze distintive nel sistema impresa”
Capacità auto-generativa delle risorse (impresa autopoietica), modello di accumulazione. Risorse tangibili o
intangibili. Le tangibili hanno un riscontro quantitativo, mentre le intangibili sono meno oggettivamente
valutabili.
Intangibili. Possono agire verso il mercato o verso il sistema aziendale. Sono importanti la conoscenza e la
fiducai che possono favorire l’incremento di valore. L’ineme delle risorse intanbili sono il capitale
intellettuale, fomato dal capitale umano, ossia le competenza detenute dalle persone, e dal capitale
strutturale, ossia l’insieme di clienti ed il capitale organizzativo. Il capitale sociale è l’insieme delle relazione
esterne. Le risorse intangibili sono sedimentabili, ossia firm specific, non trasferibili, deperibili, nel senso
che possono perdere di consistenza per motivi esterni (scadenza brevetto) o di carenza di “manutenzione”,
e sono trasferibili all’interno del contesto aziendale. Le risorse intangibili sono anche la conoscenza, lo
know-how, e la fiducia, proveniente dalla reputazione esterna che ha l’impresa con i cliente e gli attori
esterni in generale.
Le singole risorse non determinano la competitività dell’impresa, ma questa è data dalla capacità
organizzativa di integrazione e coordinamento delle risorse. L’insieme di risorse tangibili, intangibili In
questo modo si modulano le competenze dell’impresa. Le competenze e le risorse fanno sì che l’impresa
possa garantire attributi soglia, caratterizzazione e distinzione della propria offerta. Per garantire
vantaggio competitivo le risorse e le competenza devono essere scarse, ossia poco diffuse nell’ambiente o
uniche; rilevanti, ossia deve far raggiungere un fattore critico di successo; appropriabile, ossia difendibile
dall’imitazione di terzi.
Competenze distintive strategic assets, insieme di risorse e competenze specifiche dell’impresa e core
competences, ossia le competenze distintive su cui l’impresa basa la propria posizione di vantaggio. Per
poter durare nel tempo devono essere poco trasferibili e replicabili, come la conoscenza tacita. Si possono
adottare strategie per allungare la vita e difendere le risorse distintive dai concorrenti. Importanti sono
anche le competenza dinamiche, che permettono di innovare la propria offerta e attuare cambiamenti
strategici e organizzativi per rispondere all’evoluzione dell’ambiente competitivo. Le comp. dinamiche sono
fondamentali in ambienti complessi con condizioni di ipercompetizione. La path dependence ed
investimenti in risorse complementarii sono ostacoli al cambiamento ed alle competenze dinamiche.
CAPITOLO 3 “Gestione Strategica”
Strategia influenzata da: Ambiente, Condizioni interne (risorse, assetto strutturale), Vision e Mission e
obiettivi, Sistemi di Valore creano la Strategia che si sviluppa in core activities e core business. È necessario
anche avere un cambiamento strategico. Fattori critici di successo. Creazione di valore (costo fornitori,
costo totale, prezzo, beneficio netto e percepito) nella quale si deve tener conto anche delle forze
competitive. Diversità dell’impresa è dovuta all’efficienza operativa ed al posizionamento strategico
(diversificandosi dai concorrenti ma restando). Sostenibilità del vantaggio competitivo, minata dai
cambiamenti dell’ambiente e dall’azione dei concorrenti, e favorita dalla dimensione dell’impresa,
dall’accesso alle risorse critiche o mercato e dai miti di opzioni per i concorrenti. La catena del valore di
Porter è composta da attività di supporto e da attività primarie. L’insieme delle catene del valore di una
filiera produttiva forma un sistema del valore. L’insieme dei rapporti che l’impresa stabilisce con i soggetti
esterni rappresenta la catena delle relazioni.
Business model. Rappresenta l’insieme di elementi attraverso cui l’impresa crea,trasferisce ad altri soggetti
e cattura il valore. Esso è basato su value proposition, key conditions e profit proposition. La proposta di
valore individua il target rilevante per il business, il valore rilevante per il target e le modalità di erogazione
del valore. I fattori critici sono l’insieme di condizioini fondamentali necessarie per attuare la proposta di
valore e per raggiungere vantaggio competitivo. Sono le risorse chiave (distintive), attività chiave e modello
organizzativo (per valorizzare le risorse e le competenze). La proposta di profittabilità esplicita il modo in
cui l’impresa pensa di estrarre valore economico dalla proposta di valore avanzata al mercato analizzando
anche costi e prezzi ed efficienza.
Il Vantaggio competitivo come capacità dell’impresa di realizzare profitto superiore ai concorrenti deriva
da: vantaggio di costo, differenziazione o focalizzazione. Queste strategie possono anche coesistere, non
sono necessariamente in contrapposizione.
Leadership di costo consiste nella capacità di un’impresa di operare ad un livello di costi unitare inferiori a
quello dei rivali mantenendo comunque il prezzo superiore al proprio costo medio ma inferiore al costo
medio dei concorrenti. I minori costi possono derivare da economie di scala o estensioni, di
apprendimento, dal grado di utilizzazione della capacità produttiva, dalle tecnologie di processo, dalla
localizzazione delle attività produttive.
Differenziazione. Affinché la differenziazione determini una posizione di vantaggio vi devono essere
quattro condizioni: unicità della propria offerta o per caratteristiche materiali, o immateriali o per servizi
aggiuntivi; valore, per cui gli elementi dell’unicitò devono creare valore per il cliente; percezione del valore
per il cliente; sostenibilità della differenziazione da parte dell’impresa. La differenziazione aumenta la
disponibilità a pagare dei clienti e la fidelizzazione.
Focalizzazione. Si ricerca una posizione di vantaggio assoluto nei costi o nella differenziazione in un’area
circoscritta, di nicchia, del mercato. Il mercato non deve essere aggredibile, ossia deve essere proteggibile,
e deve esserci sostenibilità del mercato nel lungo termine.
Strategie di collaborazione. Vi può essere cooperazione in linea orizzontale, tra imprese nella stessa area di
business, in linea verticale, tra soggetti operanti in fasi diverse della stessa filiera, o in linea laterale, tra
aziende o attori (università, istituzioni) di settori diversi. Gli obiettivi sono lo sviluppo del patrimonio di
competenza, il miglioramento dell’efficienza, l’espansione sia in nuove aree di business che in nuove aree
geografiche, o la gestione della posizione competitiva. La possibilità di collaborazione dipende da condizioni
materiali (disponibilità di risorse finanziarie per l’attuazione e la gestione dell’accordo, di risorse distintive)
e immateriali (atteggiamento verso la cooperazione e capacità di valutarne costi e benefici). Le alleanze
possono essere tattiche, più di breve termini alla ricerca di un risultato immediato con accordi anche
contrattuali o strategiche, di più lungo termine con impatto di breve limitato ma con grosso impegno
organizzativo e operativo nel medio e realizzate con consorzi/joint venture. Le alleanze hanno un ciclo di
vita che passa dalla fase di preparazione, in cui si stabilisce l’assetto organizzativo, la fase di gestione, sulle
attività previste nel progetto strategico, la fase di transizione, in cui l’alleanza ha esaurito la sua ragion
d’essere e che si manifesta con la chiusura dell’intesa tramite liquidazione o con la restituzione degli asseti
ai titolari o con il rilancio dell’alleanza. Tra i fattori determinanti il successo di un alleanza vi sono condizioni
soggettive ed oggettive.
CAPITOLO 4 “Le strategie di crescita”
La strategia verticale consiste nell’integrazione verticale, completa se tutte le fasi sia a monte che a valle
della produzione sono interni, parziale se in alcune fasi sono coinvolti soggetti esterni. Si deve quindi
scegliere se produrre internamente o in outsourcing. Bisogna tener conto dei costi di transazione, di
agenzia e benefici/svantaggi. L’integrazione verticale dipende anche dalla fase del ciclo di vita dell’impresa
e del settore. Una maggiore integrazione verticale ha diversi vantaggi. Essa consente una riduzione dei costi
e di gestire meglio quei processi in cui è necessario un processo di combinazione delicato. Gestendo
internamente si evita di dover sostenere anche costi di transazione ed opportunismo che caratterizzano
invece l’outsourcing. È importante sottolineare l’importanza dell’integrazione verticale nelle fasi a maggior
valore aggiunto come la distribuzione, affinché le imprese possano inoltre avere un doppio mark-up, o con
relazioni verticali imponendo ai distributori una lump-sum per la concessione del diritto di vendita. Nella
non integrazione verticale nella distribuzione vi è’ inoltre il problema del free riding che può avvenire tra i
distributori stessi. L’integrazione verticale comporta anche degli svantaggi come i costi amministrativi, con
la burocrazia, i costi di influenza, tipici costi di coordinamento interno per cui ogni unità organizzativa cerca
di raggiungere obiettivi che riguardano solo il proprio vantaggio e non quello aziendale, o un aumento del
livello degli investimenti fissi. Per cercare di ridurre i costi dell’opportunismo dei terzi è possibile fare un
contratto di medio-lungo termine che imponga anche dei vincoli o delle tutele particolari per l’impresa.
Questo tipo di contratti si dice di quasi integrazione e sono generalmente vantaggiosi, ma comportano dei
costi di controllo del rispetto di controllo delle condizioni. Sono configurabili due modelli di pricing: quello
con il fixed price in cui il fornitore si accolla il rischio che i prezzi della fornitura aumentino o diminuiscano;
quello del cost plus in cui il prezzo pagato dall’acquirente varia al variare delle condizioni.
Le strategie di diversificazione sono utili per sviluppare l’impresa in molteplici business anche non correlati.
Si verifica tramite crescita interna, accordi, o fusioni/acquisizioni. Essa può essere conglomerale, se il
settore in cui si espande non è collegato al business attuale, o correlata. Per stabilire la correlazione vi è
l’intensità di correlazione, determinata dalla connessione strategica ed economica tra i settori; la direzione
della diversificazione, verticale se nella stessa filiera o orizzontale se nello stesso settore o macro-mercato;
il fattore di correlazione di mercato, nel caso di diversificazione su prodotti nello stesso mercato o che
soddisfano lo stesso macro-bisogno (frigo-lavatrice), o fattore tecnologico-produttivo, se diversifico usando
gli stessi impianti che già si avevano (esempio azienda plastica che fa sia giochi che scocca macchina). I
motivi per i quali si può diversificare sono: mancanza di opportunità di crescita nel settore di origine, per
sfuttare risorse o know-how posseduti; per usare capacità in eccesso; per ridurre il rischio; per ampliare il
potere di mercato anche all’estero (dumping, prezzi predatori); per sfruttare impianti riconvertiti.
Le strategie di investimento internazionali possono ricercare: market seeking, per espandersi in mercati in
crescita o sui quali si ha vantaggio competitivo, natural resource seeking, per assicurarsi accesso privilegiato
agli input produttivi acquisibili solo in particolari aree o low cost seeking, delocalizzando per minor costo di
manodopera. Si possono anche cercare benefici di natura transazionale o riduzioni nell’imposizione fiscale
complessiva. A volte le imprese possono effettuare l’internazionalizzazione imitando quanto fatto da altri
concorrenti per timore di subire un peggioramento della propria posizione di mercato anche nel mercato
originario (effetto trascinamento, o band-wagon effect
CAPITOLO 5 “La pianificazione strategica”
La pianificazione strategica è la procedura atta a esprimere in maniera formale l’orientamento strategico
dell’impresa (cfr. cap 3) ed è caratterizzata da sei elementi: formalismo, sistematicità, prospettiva di medio-
lungo termine, connessione organizzativa, piattaforma per le decisioni operative.
Lo scopo è quello di: analizzare e comprendere razionalmente questioni di valenza strategica con un quadro
d’insieme utile a prendere decisioni; determinare un metodo di azione per la gestione di problemi aziendali
complessi; facilitare un’integrazione interna che colga le connessioni tra le varie aree e funzioni
organizzative; rappresentare uno strumento di comunicazione tra l’alta dirigenza aziendale e coloro che
operano in essa; attivare appropriate procedure di controllo strategico. La pianificazione è un processo
iterativo, ossia le cui decisioni si modificano col passare del tempo in base ai risultati ottenuti con le azioni
attuate. La pianificazione avviene a livello di direzione: centrale, di divisione, e di funzione. La pianificazione
strategica avviene in una fase di preparazione, a monte della decisione strategica, ponendo le condizione
per la sua formazione, in una fase di esplicitazione in schemi formali della decisione strategica per
comunicare la strategia, e in una fase di accompagnamento all’attuazione, connettendo la decisione
strategica all’azione operativa. Tramite la pianificazione si individuano anche le flessibilità dell’impresa
(strategica, finanziaria, organizzativa e tecnologica).
Sulla pianificazione pesano negativamente: l’approccio top-down per cui vi è eccessivo distacco dalla realtà
operativa dell’azienda e scarso coinvolgimento di coloro che devono attuare il piano strategico; il fatto che
il piano strategico sia basato su previsioni sull’andamento del mercato che sono complesse e insicure.
La pianificazione si può dividere in quattro fasi: budgeting, in cui si fa la previsione ad un anno e con lo
scopo di controllo dell’andamento gestionale di breve termine; pianificazione di lungo termine in cui si
amplia l’orizzonte temporale oltre l’anno e si considerano variabili quantitative interne all’impresa prese
invece per date nel budgeting; con la pianificazione strategica si amplia il discorso fatto precedentemente
per variabili interne alle variabili esterne, ambientali (essa presenta sempre problemi di implementazione,
di rigidità delle decisioni, di difficoltà di tradurre gli obiettivi di lungo periodo in obiettivi di breve-medio
termine); l’ultima fase di management strategico è necessaria per superare i problemi già evidenziati della
pianificazione strategica di rigidità e di lontananza dall’implementazione vera e propria e serve a riunire la
spinta razionale, politica e burocratica e tramite esso si sposta il focus sulla struttura organizzativa e sui
meccanismi con i quali la pianificazione si integra con le altre componenti del sistema aziendale. Finita la
fase pianificatoria si giunge ad un piano, che ha contenuti tipici (scenari, vision, mission, obiettivi, target
attesi, strategie, azioni, risorsi) e generali relativi alla pianificazione (orizzonte temporale, di solito tra i 3 e 5
anni ma comunque pari al periodo di recupero; grado di complessità in base al numero di scenari
immaginati, ciclicità e flessibilità, capacità di rapido adeguamento degli orientamenti strategici.
Contenuti della pianificazione. A livello di direzione centrale si pianificano elementi come vision, mission,
modello di crescita, costruzione di scenari, confronto con valori economici dei concorrenti e sistema dei
valori. La vision esprime ciò che l’impresa si propone di divenire in un determinato tempo futuro,
rappresenta un’intenzione fondamentale alla base della strategia aziendale. Per attuare la vision si
determina una mission che esprime cosa l’impresa deve compiere per diventare ciò che ha stabilito nella
visione. A livello di direzione di divisione si deve determinare l’Area Strategica di Affari (ASA) o area di
business, ossia un’unità operativa che gestisce uno o più prodotti, rivolti ad una domanda determinata e in
concorrenza con operatori la cui identità è individuata. Si possono individuare anche vision e mission delle
singole ASA, che però devono essere coerenti con quelle dell’impresa. Accanto alla pianificazione strategica
vi è l’orientamento strategico, tramite il quale si effettuano le decisioni strategiche in base alla
pianificazione. A livello di direzione centrale si analizzano i confini dell’impresa, l’estensione geografica delle
attività, il livello di integrazione strategica e organizzativa tra le varie ASA. Per fare ciò ricorrono: al metodo
di Abell (gruppo di clienti, funzioni d’uso del prodotto); all’analisi delle potenzialità economiche del business
ed agli effetti strategici ed economici che derivano dall’inserimento del business nel portafoglio
dell’impresa; alla S.W.O.T. analysis (strenghts, weaknesses, opportunities, threatens); alla ADL matrix che
considera la fase del ciclo di vita e la posizione competitiva dell’impresa individuando business ad alto
potenziale, consolidati, incerti o deboli; alla BCG matrix che considera il tasso di crescita della domanda e la
quota di mercato relativa a quella del principale concorrente per individuare le imprese dog, question mark,
star o cash cow. In base a queste analisi la direzione centrale deciderà quindi su quali ASA investire e quali
mantenere anche considerando le strategie orizzontali, le quali sono studiate da Porter che individua
interrelazioni tangibili, intangibili e con i concorrenti, e le strategie verticali, riguardanti le integrazioni
verticali del cap.4. L’orientamento strategico può essere individuato anche a livello di direzione di divisione.
Infine si deve sottolineare la pianificazione strategica a livello di direzioni di funzione, riguardanti funzioni
come Finanza, Risorse Umane, Logistica etc. Questa pianificazione riguarda le funzioni sia a livello di
direzione centrale (corporate nell’insieme) sia a livello di divisione (di ASA). Ciascuna direzione funzionale
condivide l’obiettivo di garantire le migliori condizioni nel proprio ambito funzionale per supportare le
funzioni di direzione centrale, l’attuazione della strategia competitiva dell’impresa e la gestione delle varie
aree di business. La strategia di una direzione funzionale è orientata ad attuare le finalità che le sono
attribuite a livello centrale e a soddisfare le esigenza manifestate dalle unità di business.
CAPITOLO 7 “Marketing”
Il Marketing non è solo una funzione aziendale, è anche un metodo di gestione che caratterizza
l’orientamento strategico dell’impresa. Il marketing si occupa di massimizzare il valore per il cliente, ossia la
differenza tra costo sostenuto e benefici ottenuto dall’uso del prodotto/servizio. La funzione del marketing
è composta dal marketing strategico, che da un strategia di sviluppo, e dal marketing operativo, che si
occupa del programma di marketing e della comunicazione. Il marketing può essere visto secondo diverse
strategie di approccio al mercato: si può avere un orientamento alla produzione, che privilegia la gestione
ottimale del processo produttivo con l’obiettivo dell’efficienza nell’uso delle risorse rispetto ai risultati
ottenuti (mkting passivo). Questo approccio ha però il limite di concentrarsi sui sistemi di produzione a
scapito dell’attenzione ai clienti presupponendo una domanda maggiore all’offerta. L’orientamento al
prodotto, nuovamente con marketing passivo, presuppone che il focus sia sull’innovazione di prodotto,
andando a creare nuove versioni di un prodotto che già è commercializzato e apprezzato dai clienti. Il limite
di questo orientamento è che si rischia che i clienti si rivolgano a prodotti sostituti per soddisfare i loro
bisogni. L’orientamento alla vendita è tipico delle fasi avanzate del ciclo di vita del prodotto e consiste
nell’adottare aggressive azioni promozione e vendita (mkting operativo attivo). Con questo orientamento,
focalizzandosi più ad ottenere profitti tramite elevati volumi di vendita del prodotto che concentrandosi sul
cliente, si rischia di trascurare i servizi post-vendita con il risultato di fidelizzare così il cliente. L’ultimo
approccio è l’orientamento al mercato, per cui il focus è sui bisogni dei consumatori e si cerca di
massimizzare il loro valore e quindi la loro soddisfazione ottenendo maggiori profitti grazie alla
fidelizzazione ed ai servizi post-vendita.
Il marketing strategico si sviluppa in quattro fasi susseguenti: la macro-segmentazione, in cui si definisce
l’A.S.A. in cui operare, la micro-segmentazione, con cui si individuano i vari segmenti di domanda per cui
sono necessarie politiche di marketing diverse, il targeting, necessario ad individuare i segmenti di mercato
a cui dirigere la propria offerta, ed il posizionamento, con cui si dfinisce l’offerta nei confronti dei target
scelti. L’area strategica di affari (ASA) viene individuata con la macrosegmentazione utilizzando il modello
di Abell, con il quale ci si interroga sui segmenti di consumatori ai quali è indirizzata l’offerta (chi?),
sull’individuazione dei bisogni che l’impresa vuole soddisfare (cosa?) e sulle modalità attraverso cui
soddisfare i bisogni (come?). La micro-segmentazione consiste nella disaggregazione in gruppi di
consumatori omogenei tra loro in base a diversi parametri (area geografica, sesso, età, istruzione,
occupazione, benefici ricercati, abitudini di consumo, reddito) in modo da poter effettuare politiche di
marketing mirate. La segmentazione si discosta dalla differenziazione, che parte dalla necessità di
differenziare il proprio prodotto dai sostituti, in quanto al contrario di essa analizza la domanda, i bisogni
dei clienti, e si focalizza sulla diversità di essa. Grazie alla segmentazione l’azienda può: recepire meglio i
mutamenti della domanda adattando l’offerta in modo tempestivo; monitorare le imprese concorrenti per
una migliore strategia competitiva; definire i bisogni dei consumatori ed agire proattivamente. Per poter
sfruttare la segmentazione, i singoli segmenti devono essere: misurabili, nel senso che si deve poter
misurare dimensione e potere d’acquisto del segmento; accessibili, ossia l’impresa deve poter accedere al
segmento con un’adeguata offerta competitiva che generi valore; devono avere significatività
dimensionale, ossia devono avere una dimensione tale da giustificare l’adozione di politiche di marketing ad
hoc; profittabili. Il targeting consiste nell’individuare i segmenti di mercato che l’azienda vuole coprire con
la propria offerta (copertura totale; specializzazione del prodotto, 1 solo prodotto su tutti i mercati;
specializzazione di mercato, 1 solo mercato con diversi prodotti; concentrazione su un segmento, 1 M, ed 1
P). È possibile configurare una strategia di marketing indifferenziato per cui l’azienda non si preoccupi della
segmentazione del mercato ma presenti una sola offerta che si concentri sulle caratteristiche comuni tra
tutti i consumatori. Alternativamente si può adottare un marketing differenziato, per cui l’azienda realizza
un’offerta differente per ogni segmento di mercato, sostenendo costi di marketing maggiori ma riuscendo a
fare maggiori vendite. Infine esiste la strategia di marketing concentrato, per cui l’impresa si rivolge ad una
nicchia di mercato con l’obiettivo di ottenere una consistente quota del mercato (monopolio/oligopolio).
L’ultima fase del marketing strategico è quella del posizionamento, che riguarda principalmente la
percezione che i consumatori hanno del prodotto ed è quindi determinante nelle decisioni di acquisto, e
che fa leva sui vantaggi competitivi che l’impresa può avere rispetto ai concorrenti facendoli risaltare nella
comunicazione al mercato. Per valutare il posizionamento si ricorre a “mappe percettive”.
Fondamentale nelle scelte di marketing è il
ciclo di vita del prodotto, che si divide in 4
fasi: l’introduzione, in cui il prodotto è in
perdita ma inizia affermarsi con un lenta
crescita delle vendite; lo sviluppo, in cui si ha
un elevato aumento delle vendite e
diminuiscono i costi per maggiore efficienza;
la maturità, in cui le vendite prima
continuano a crescere e poi dopo un
massimo iniziano a diminuire; il declino,
quando le vendite diminuiscono per obsolescenza, concorrenza di nuovi prodotti o saturazione della
domanda e si procede all’eliminazione o al riposizionamento del prodotto. Correlata al ciclo di vita del
prodotto è la matrice Boston Consulting Group (BCG) in cui si mettono in relazione la quota di mercato
relativa ed il tasso di sviluppo del mercato per individuare dove posizionare il prodotto.
Il question mark è associabile alla fase di introduzione del prodotto, la stella a quella di sviluppo, la cash
cow alla maturità ed il dog al declino (o ad un fallimento nell’introduzione).
Il marketing operativo riguarda invece il prodotto, il prezzo, la distribuzione e la comunicazione. L’elemento
più importante su cui si basano poi tutti gli altri è il prodotto, che può essere osservato come un paniere di
attrivuti che insieme vanno a soddisfare i bisogni degli acquirenti. Si può quindi distinguere tra prodotto
essenziale o core, che deve andare a soddisfare il bisogno “base” del cliente, prodotto di facilitazione, che è
necessario affinchè il cliente possa usufruire del prodotto base (check-in/out ad es.), prodotto di supporto,
che è aggiunto al core per differenziarlo dai concorrenti, e prodotto allargato, che riguarda anche
l’atmosfera e l’interazione tra cliente e impresa. Riguardo al prodotto sono fondamentali anche le strategia
di branding e marca, necessarie per identificare il prodotto distinguendolo da quello dei concorrenti, per
fidelizzare il consumatore e per garantire il consumatore in termini di qualità o determiante caratteristiche
che si associano al brand.
CAPITOLO 9 “La gestione delle operations”
Le operations hanno come obiettivo la produzione di beni e servizi e riguardano tutte le aziende. I processi
di operations possono essere classificate in base al grado di varietà ed al volume di produzione. Partendo
da quelli con grado di varietà più alto e con minore volume si hanno processi su: Progetto, con grande
personalizzazione ed unicità del prodotto/servizio (ingegneria civile, film etc.); job shop, o processo a
piccoli lotti con differenziazione elevata (ristorante self-service); batch, o processo a grandi lotti, in cui vi è
sempre una divisione per reparti come per il job shop ma si lavora non prodotto per prodotto ma lotto per
lotto (mobili, calzature ad es.); Group Technology, o processo per celle, a metà strada tra batch e flow
shop, in cui il singolo pezzo subisce la lavorazione senza aspettare il completamento del lotto; flow shop, o
processi per linea di flusso teso in cui il prodotto viene ottenuto da una sequenza fissa di lavorazioni che
vengono svolte da stazioni di lavoro disposte lungo la sequenza del ciclo (automobili o elettrodomestici ad
es.); processi continui, tipici dell’industria di base come l’industria chimica o delle utilities come energia,
acqua o gas e per cui cliente può raramente chiedere personalizzazioni o diversificazione.
L’operations management si concentra su pianificazione e controllo del processo di trasformazione, non
cambiando tra produzione di beni o servizi, affronta una grande varietà di problemi all’interno dell’impresa
secondo un approccio sistematico dovendo interagire con tutte le funzioni aziendali (ognuna delle quali
spinge in una direzione diversa). Le fasi dell’operations management sono: Strategia, Configurazione,
Pianificazione ed Operations improvement (Miglioramento).
La strategia dell’operations management è l’insieme di decisioni di lungo termine che definiscono come
l’organizzazione decide di rispondere alle richieste del mercato con la produzione di beni e servizi. Questa
ha un rapporto di interdipendenza con la strategia di business, supportandola in modo da raggiungere gli
obiettivi strategici, implementandola in modo da renderla concreta con le operations, guidandola. La
strategia di operations riguarda cinque determinanti del prodotto/servizio: la qualità, da intendersi come
rispetto delle specifiche; la velocità di risposta, ossia il tempo che passa tra richiesta e ottenimento del
bene per il cliente; affidabilità nel rispettare i tempi promessi; flessibilità, ossia essere reattivi a quanto
richiesto dal mercato in modo da soddisfare il cliente; costo, che non riguarda solo i costi delle operations,
ma anche i quattro altri obiettivi che possono concorrere all’abbattimento dei costi. Ogni azienda dovrà
inquadrare il proprio business secondo il diagramma composto da queste cinque caratteristiche.
La configurazione delle operations riguarda le decisioni strutturali, ossia di lungo termine con maggiori
investimenti e che servono a dimensionare la capacità produttiva, il grado di integrazione verticale, e quelle
infrastrutturali, di medio-lungo termine e riguardano forza lavoro, politica per la qualità, la pianificazione
della produzione. Per le strutturali la localizzazione delle facilities riguarda le risorse operative e sono
importanti ne m omento di creazione di un nuovo business (green field), qualora mutino i fattori ambientali
(cambio costo ff.pp., spostamento dei clienti etc.) o in risposta ad una politica di espansione dell’azienda.
Per scegliere la localizzazione si può fare una scelta supply-side, legati a fattori di costo di: trasporto e
distribuzione (vicinanza fornitore o cliente o ad infrastrutture); del lavoro, operando delocalizzazione
tenendo conto anche delle skill; di acquisto del sito/ intangibili (aspetti qualità di vita). In alternativa vi sono
criteri demand-side, legati all’abilità della manodopera, immagine dell’azienda (aziende posizionate in
luoghi centrali ad es.) o alla convenienza del cliente (ad es. localizzazione ospedali fondamentale per i
clienti). Altra decisione strutturale riguarda il dimensionamento della capacità produttiva che riguarda il
livello di risorse necessarie all’azienda per avere garantita una determinata capacità di rispondere alla
domanda di mercato. Vi è il discorso di economie di scala e apprendimento per ridurre il costo unitario di
prodotto, essendo però attenti ad evitare il sovradimensionamento, che porterebbe ad un eccessivo
aumento dei costi fissi. Vi sono due strategie di dimensionamento: la strategia chase, che si adotta quando
la domanda è difficile da prevedere o è facile e poco costoso cariare il livello di risorse a disposizione. Il più
grande vantaggio della chase è l’abbattimento delle scorte, ma si rischia di avere una scarsa utilizzazione
della capacità produttiva e elevati costi di gestione della manodopera. La strategia level prevede che la cap.
prod rimanga costante indipendentemente dalla domanda ed è conveniente nel caso di domanda stabile o
qualora sia difficile o costoso variare il livello di risorse a disposizione. È positiva per un miglior
sfruttamento delle risorse e della manodopera, ma si rischia di avere eccessive scorte nei momenti di calo
di domanda (si può però agire con advertising, promozioni etc.). Vi è poi una strategia mixed, per cui si
adotta la level in alcuni periodi ma consentendo l’adeguamento della capacità alla domanda come la chase.
È necessario distinguere tra capacità produttiva teorica o di targa, data dal produttore, che rappresenta il
massimo livello di domanda a cui può idealmente rispondere l’azienda, e capacità produttiva effettiva, che
rappresenta l’effettiva capacità dell’azienda di rispondere alla domanda di mercato (corrisponde alla
teorica sottratti i tempi di settaggio macchina e di manutenzione). Altra strutturale è la decisione del grado
di integrazione verticale, andando a decidere anche cosa produrre in outsourcing. Ultima decisione
strutturale è quella del processo tecnologico, che riguarda il grado e la tipologia di tecnologia utilizzata nel
processo produttivo. Vi sono due diversi tipi di tecnologia. Il primo riguarda direttamente il processo
produttivo (materiali, IT, rapporti col cliente); il secondo riguarda le tecnologie indirette e supporta i
manager nel pianificare e controllare le proprie attività (sistemi informativi).
Terza fase dell’operations management è quella della pianificazione delle operations, con cui si intende la
funzione della gestione cui compete il compito di selezionare gli obiettivi di un’organizzazione e stabilire le
strategie, le politiche, le procedure, i programmi e i progetti necessari al loro raggiungimento. La
pianificazione si opera nel lungo periodo (3-5 anni) fornendo un’indicazione di massima sulle risorse che
verranno usate, nel medio periodo (in riferimento al mese, con orizzonte 6-12mesi) in cui in cui si stabilisce
il carico di lavoro che si vuole realizzare per i prodotti e nel breve periodo (dal singolo turno a due settimane
di previsione) con cui si allocano le risorse ad ogni singola attività. Importanti sono le politiche di gestione
del flusso produttivo rispetto alle richieste di mercato. Si può attuare una politica di tipo Pull, nel caso in cui
si stabilisca un livello di produzione dettato dalla domanda ed in base a questo stabilisco le materie prime
da ordinare (si ha un delivery time maggiore del production time), o di tipo Push, nel caso in cui si abbia un
production time molto elevato rispetto al delivery time, per cui è necessario produrre per le scorte per
poter soddisfare la domanda. In ordine dalle produzioni di tipo puramente Push a quelle di tipo Pull con
diverse gradazioni intermedie, vi sono le produzioni di tipo Make to stock (push), assemble to order
(prevalentemente push), make to order (push/pull), purchase to order (principalmente pull) e engineer to
order (Pull). Un importante fattore nella pianificazione è anche la previsione dei volumi produttivi,
importante per decidere riguardo il fabbisogno di cap. prod., il livello di scorte o lo sviluppo di un pian odi
produzione. Il piano strategico delle operations deriva direttamente dal piano strategico del business ed ha
lo scopo di valutare le risorse necessarie a conseguire gli obiettivi del piano di business tenendo conto
anche del piano finanziario. Il piano aggregato di produzione ha l’obiettivo di tradurre gli ordini dei clienti e
le previsioni di vendita di un piano di ciò che si intende realmente produrre, con un anticipo sufficiente a
gestire tutte le risorse (1 anno). Disaggregando il piano aggregato in base ai diversi prodotti e su periodi di
tempo inferiori, il piano principale di produzione (MPS) individua le esigenze delle diverse funzioni aziendali
e cerca di dividere le risorse dell’azienda tra i singoli prodotti in modo da soddisfare la domanda e saturare
la capacità produttiva. L’ MRP (Materials Requirement Planning) è un piano con lo scopo di ricavare,
tramite l’esplosione del piano principale di produzione e l’analisi della distinta base (BOM, bill of materials,
indica ogni materia prima e componente necessario per produrre ogni singolo prodotto), le quantità e le
date di emissione al più tardi degli ordini di approvvigionamento o di lavorazione interna. Per gestire il
magazzino si può utilizzare anche la metodologia Just in Time, per il quale non è necessario accumulare le
scorte, ma ogni cosa deve arrivare “nel momento giusto, nelle quantità giuste, al posto giusto”. In questo
modo si supera la politica “Push” delle scorte di magazzino tipica fordista e si passa ad una produzione di
tipo Pull in cui gli ordini sono tirati dalle richieste dei clienti. Si adottano politiche di magazzino a forte rigiro
(magazz a 2 ore ad es.) che consentono anche di portare alla luce problemi nella produzione intermedia che
non sono più sostenibili in quanto bloccherebbero la catena di produzione. Accanto al JIT per ottenere una
produzione tendente a “zero difetti” si usa il PDCA (Plan, Do,Check,Act). I sistemi MRP e JIT appena visti,
sono sistemi di inventory management che hanno la logica del look ahead, ossia si concentrano sulle
previsioni dei flussi di scorta nei vari stadi della supply chain. È però possibile adottare anche sistemi che
utilizzino la logica del look back per il reintegro delle scorte: ROL (Re Order Level), per cui si stabilisce un
livello sotto il quale riordinare le scorte ordinando sempre la stessa quantità di prodotti ma con intervalli di
tempo variabili in base al consumo (adatto con domanda prevedibile o stabile); ROC (Re Order Cycle), per
cui viene effettuato controllo delle scorte periodicamente in un intervallo di riordino fisso e si effettua il
riordino se il livello è al di sotto di un determinato livello di riordino variando la quantità ordinata; sistemi a
scorta minima e massima, con ordine variabile pari alla differenza tra giacenza massima e disponibilità se al
di sotto della scorta minima; sistemi di reintegro della scorta (con livello obiettivo) per cui si prevede di
riordinare scorte tali da riportare il livello all’obiettivo. Per scegliere il modello da adottare si deve tener
conto di criticità del fattore, cost del monitoraggio, del mantenimento e la variabilità della domanda.
Per l’ultima fase dell’operations management, l’Operation imprevement, vi sono diversi metodi come il
PDCA usato anche col JIT, il metodo di Lean production, di Six Sigma e Lean Six Sigma che puntano alla
riduzione degli sprechi e dei difetti ed il Total Quality management.
CAPITOLO 11
INNOVAZIONE= Invenzione + sfruttamento commerciale (Schumpeter). L’invenzione può essere sia interna
(R&S) che esterna (clienti, governo, imprese di altri ambiti, utenti stessi), da sola non genera innovazione,
serve anche lo sfruttamento commerciale. L’innovazione può essere di processo (informatizzazione,
riorganizzazione logistica o cambio macchinario nel processo) o di prodotto (allargamento gamma offerta,
introduzione di una nuova versione del prodotto, arricchimento di un prodotto esistente con nuovo
servizio). L’innovazione può derivare da innovazione interna o da imitazione.
Nel caso si faccia la prima mossa bisogna assicurarsi che vi sia un regime di appropriabilità adeguato, ossia
che l’innovazione non sia replicabile grazie a protezione tramite segreto industriale (efficace per inn. di
processo) o brevetti (di prodotto). Il vantaggio di essere first mover si può sfruttare se il primato
tecnologico è sostenibile, ossia se i concorrenti non possono replicare la tecnologia o se la propria rapidità
di innovazione è >= a quella dei concorrenti (ciò permette di essere sempre un passo avanti leap-frogging).
Qualora l’innovatore possa sfruttare in via esclusiva i ritorni economici derivanti dal nuovo
prodotto/processo sia ha un regime di appropriabilità forte. I mezzi per proteggere la propria innovazione
possono essere legali (brevetto o diritto d’autore) o di natura della tecnologia. Il brevetto è utile per le
innovazioni di prodotto che siano codificabili (meno per le combinazioni di prodotti o di processo, che sono
più difficilmente controllabili). Il brevetto deve essere relativo ad un invenzione che abbia novità, originalità
e applicabilità industriale, ha una durata massima di 20 anni e garantisce l’esclusivo sfruttamento
commerciale dell’innovazione. Punto debole del brevetto è che deve essere il copiato ad agire per
difendersi in caso di imitazione e ciò presuppone che si scopra il fatto. Per le innovazioni di processo o per
quelle di prodotto poco difendibili è utile il segreto commerciale, per cui l’azienda obbliga i propri
dipendenti o licenziatari dell’innovazione ad un accordo di non divulgazione per preservare l’innovazione
(coca cola ad es.).
Fondamentale per poter sfruttare in modo completo l’innovazione è avere accesso alle risorse
complementari (Produzione, Distribuzione, Servizi, Tecnologie Complementari, Fornitori etc.).
Nelle prime fasi di vita di un prodotto saranno preminenti le innovazioni di prodotto, mentre andando
avanti si cercherà di agire sui processi per ridurre i costi e migliorare l’efficienza. In relazione all’innovazione
di processo si può distinguere in tre stadi: quello non coordinato, in cui vi è particolare flessibilità della
tecnologia; quello segmentato, in cui si afferma un disegno dominante che definisce la combinazione di
tecnologia di prodotto e di processo migliori per supportare l’aumento dei volumi di produzione riducendo
le configurazioni richieste; l’ultimo è il sistemico, quando vi è un’estrema specializzazione delle singole parti
del processo, che diventa rigido ed automatizzato. Anche per l’innovazione di prodotto è possibile
individuare tre stadi: quello della massimizzazione delle prestazioni, in cui l’innovazione è focalizzata
all’obiettivo di ampliare la propria base di clienti aumentando la performance del prodotto e fornendo una
varietà di prodotti diversi; di massimizzazione delle vendite, in cui si inizia ad affermare uno standard di
prodotto e vi è una prima riduzione del mix di prodotti e delle versioni offerte; minimizzazione dei costi, in
cui la varietà di prodotto è ridotta al minimo e la standardizzazione porta i clienti ad avere sensibilità
soprattutto verso il costo del prodotto per cui si riducono i margini e vi è la spinta verso maggiore efficienza
produttiva. È possibile individuare una relazione tra le forze competitive di Porter e lo stadio
dell’innovazione: per la concorrenza, essa è inizialmente bassa nei primi stadi, per aumentare nello stadio
intermedio e stabilizzarsi nelle fasi finali grazie alla creazione di oligopoli; la minaccia di nuovi entranti è
elevata inizialmente per poi diminuire grazie alla standardizzazione della tecnologia rimanendo una
minaccia solo per l’introduzione di nuove tecnologie nella fase finale; la minaccia dei prodotti sostituti è
inizialmente molto elevata in quanto si lotta per la creazione dello standard, per poi diminuire mano a
mano che si afferma lo standard essendo poi nuovamente rilevante in relazione a segmenti specifici e a
caratteristiche particolari del prodotto; i clienti hanno un’elevata rilevanza in tutte le fasi, sia inizialmente
per determinare lo standard “vincente” sia in seguito per il fatto che vi è un elevata standardizzazione e
quindi un forte rischio di switch; i fornitori invece hanno inizialmente poco potere contrattuale in quanto si
usano macchinari e m.p. generici, successivamente con la specializzazione dei componenti e la
differenziazione tra i fornitori stessi, aumenta il loro potere contrattuale. Quanto detto finora sottolinea
l’importanza della definizione degli standard, o disegni dominanti (QWERTY, VHS etc.).
In relazione all’innovazione di un’impresa si può distinguere tra la risorse relative alla dimensione tecnica
(aspetti legati alla scoperta, allo sviluppo ed all’ingegnerizzazione della nuova idea) ossia relative
all’invenzione e quelle riguardanti la dimensione commerciale (aspetti legate alla possibilità di beneficiare
economicamente dell’introduzione della nuova idea) ossia le risorse complementari che consentono lo
sfruttamento economico.
Matrice di Abernathy e Clark
Per ottenere maggiore innovazione è possibile beneficiare delle collaborazione nella R&S. Ciò è utile per
ottenere economie di scala, di scopo, per ripartire costi/rischi, per aumentare le risorse e le competenze. In
base alla familiarità del mercato e del tipo di servizio /prodottto si può decidere che tipo di collaborazione
adottare secondo la matrice di Roberts e Berry :
Per fare innovazione è possibile ricorrere a dei progetti di R&S. è quindi possibile configurare un project
management leggero, nel caso in cui le risorse umane che partecipano al progetto rimangano
gerarchicamente dipendenti dai dipartimenti di provenienza, o un project management pesante nel caso in
cui si abbia un tiger team, ossia nel caso in cui le risorse vengano svincolate dai dipartimenti e siano
gerarchicamente sottostanti al project manager.