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1. Lo stato dell’arte: l’internazionalizzazione sistemica del cine- ma indiano Il cinema indiano oggi è una potente industria culturale multimediale (comprendente anche musica, coreutica, riviste specializzate, siti web, canali satellitari e via cavo) con forti prospettive di crescita sia nel mer- cato interno sia nei mercati esteri 1 . Il cinema indiano, infatti, evidenzia ormai una chiara vocazione sistemica (e non più episodica come accadeva in passato) all’internazionalizzazione, cioè all’esportazione di quella cre- scente parte dei propri prodotti, in particolare film e musica, che vengono concepiti e adattati, nei temi e nei linguaggi, per essere appetibili da una platea globale, spesso influenzata da codici valoriali e costumi di impronta occidentale, con inevitabili ricadute culturali anche sui fruitori interni alla società indiana. Scopo del presente lavoro è esaminare le caratteristiche essenziali di tale internazionalizzazione sistemica del cinema indiano, senza trascurare infine di interrogarsi sui rischi (oltre alle opportunità) che essa comporta per la cultura indiana di oggi e di domani. Si tratta di un fenomeno che si colloca all’interno del più generale processo di globalizzazione dell’e- conomia e della società indiane, e che contribuisce non poco all’attuale crescita del soft power (ovvero della capacità di attrazione e di influenza, culturale ma non solo) dell’India nel mondo, facendo del cinema un asset fondamentale del ‘brand India’ a livello globale 2 . L’inizio del processo di globalizzazione del cinema indiano - e in primis di Bollywood - viene unanimemente collocato, per motivi socioeconomi- ci, culturali e tecnologici che vedremo più oltre, verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso. L’internazionalizzazione sistemica del cinema 1 Secondo il portale Statista.com gli incassi dell’industria cinematografica in India (senza contare i mercati esteri) nel 2009 ammontarono a 65.8 miliardi di rupie, mentre per il 2018 si prevedono incassi per 160.2 miliardi di rupie. Cfr. http://www.statista.com/statistics/235837/value-of-the- film-industry-in-india/(accesso 19/05/2015). Gli incassi di Bollywood nei mercati internazionali vengono valutati essere, oggi, circa 1/3 degli incassi globali. Per i dati sui film indiani di maggior successo all’estero cfr. www.boxofficeindia.com. 2 Cfr. D.K. Thussu, Communicating India’s Soft Power. Buddha to Bollywood, New York, Pal- grave Macmillan, 2013. Marco Restelli GLOBALIZED BOLLYWOOD. ARTE E INDUSTRIA DEL CINEMA IN INDIA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

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1. Lo stato dell’arte: l’internazionalizzazione sistemica del cine-ma indiano

Il cinema indiano oggi è una potente industria culturale multimediale (comprendente anche musica, coreutica, riviste specializzate, siti web, canali satellitari e via cavo) con forti prospettive di crescita sia nel mer-cato interno sia nei mercati esteri1. Il cinema indiano, infatti, evidenzia ormai una chiara vocazione sistemica (e non più episodica come accadeva in passato) all’internazionalizzazione, cioè all’esportazione di quella cre-scente parte dei propri prodotti, in particolare film e musica, che vengono concepiti e adattati, nei temi e nei linguaggi, per essere appetibili da una platea globale, spesso influenzata da codici valoriali e costumi di impronta occidentale, con inevitabili ricadute culturali anche sui fruitori interni alla società indiana.

Scopo del presente lavoro è esaminare le caratteristiche essenziali di tale internazionalizzazione sistemica del cinema indiano, senza trascurare infine di interrogarsi sui rischi (oltre alle opportunità) che essa comporta per la cultura indiana di oggi e di domani. Si tratta di un fenomeno che si colloca all’interno del più generale processo di globalizzazione dell’e-conomia e della società indiane, e che contribuisce non poco all’attuale crescita del soft power (ovvero della capacità di attrazione e di influenza, culturale ma non solo) dell’India nel mondo, facendo del cinema un asset fondamentale del ‘brand India’ a livello globale2.

L’inizio del processo di globalizzazione del cinema indiano - e in primis di Bollywood - viene unanimemente collocato, per motivi socioeconomi-ci, culturali e tecnologici che vedremo più oltre, verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso. L’internazionalizzazione sistemica del cinema

1 Secondo il portale Statista.com gli incassi dell’industria cinematografica in India (senza contare i mercati esteri) nel 2009 ammontarono a 65.8 miliardi di rupie, mentre per il 2018 si prevedono incassi per 160.2 miliardi di rupie. Cfr. http://www.statista.com/statistics/235837/value-of-the-film-industry-in-india/(accesso 19/05/2015). Gli incassi di Bollywood nei mercati internazionali vengono valutati essere, oggi, circa 1/3 degli incassi globali. Per i dati sui film indiani di maggior successo all’estero cfr. www.boxofficeindia.com. 2 Cfr. D.K. Thussu, Communicating India’s Soft Power. Buddha to Bollywood, New York, Pal-grave Macmillan, 2013.

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indiano ha perciò suscitato, negli anni Duemila, una nuova serie di studi su questo fenomeno, definito talvolta come “Global Bollywood”3.

A tale riguardo risulta però necessario fare chiarezza sul piano seman-tico. In questi studi con il termine “Bollywood” si intende talvolta la prin-cipale film city indiana, cioè la Hollywood di Bombay (oggi Mumbai) che produce film in lingua hindi, ma talaltra si intende – pars pro toto – il cinema indiano nel suo complesso4, riconoscendo in ciò la crescente ege-monia culturale e produttiva di Bollywood rispetto ai centri di produzio-ne cinematografica in altre parti dell’India. Va ricordato infatti che oltre a Bollywood esistono numerosi altri toponomi relativi alla produzione ci-nematografica realizzata in vari Stati dell’India nelle rispettive lingue. È il caso di Mollywood, che indica i film di lingua malayalam del Kerala; Tollywood, utilizzato per la produzione cinematografica in lingua telugu dell’Andhra Pradesh e del Telangana, ma anche per quella del Bengala storicamente incentrata a Tollygunge, zona meridionale di Kolkata; Kol-lywood, che indica i film di lingua tamil prodotti a Kodanbakkam (nei pressi di Chennai) in Tamil Nadu5. Quest’ultima, in particolare, riveste una forte importanza fra le cinematografie dell’India meridionale ed è orientata anche verso i mercati internazionali. Nel presente lavoro si ritiene dunque opportuno mantenere la distinzione fra cinema bollywoodiano e cinema indiano nel suo complesso, senza per questo disconoscere la sopracitata egemonia di Bollywood.

Per comprendere il processo di globalizzazione in corso e come ciò influisca sull’arte cinematografica indiana, modificando tematiche e lin-guaggi dei suoi film, è necessario però fare un passo indietro e ricordare come e perché, per quasi tutto il XX secolo, siano stati problematici i rapporti fra l’Occidente e il cinema bollywoodiano. Ma anche come il ci-nema indiano, pur avendo sempre avuto una fortissima caratterizzazione

3 Fra gli studi più significativi ricordiamo: A.P. Kavoori – A. Punathambekar (edd.), Global Bollywood, New York/London, New York University Press, 2008; S. Gopal – S. Moorti (edd.), Global Bollywood. Travels of Hindi Song and Dance, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2008; C. Deprez, Bollywood:Cinéma et Mondialisation, Lille, Presses Universitaires du Septentrion, 2010; A. Gera Roy – C.B. Huat (edd.), Travels of Bollywood Cinema. From Bom-bay to L.A., New Delhi, Oxford University Press, 2012.4 Si veda come esempio la seguente affermazione dello storico del cinema indiano Ashish Rajad-hyaksha: «Globalization isn’t merely another word for Americanization – and the recent expan-sion of the Indian entertainment industry proves it. For hundreds of millions of fans around the world, it is Bollywood – India’s film industry – not Hollywood, that spins their screen fantasies». Cfr. A. Rajadhyaksha, The Bollywoodization of the Indian Cinema. Cultural Nationalism in a Global Arena, in Kavoori – Punanthambekar (edd.), Global Bollywood, p. 17.5 Per uno sguardo su queste cinematografie indiane si vedano: S. Velayutham (ed.), Tamil Ci-nema. The Cultural Politics of India’s Other Film Industry, London, Routledge, 2009; S.V. Sri-nivas, Politics as Performance. A Social History of Telugu Cinema, Ranikhet, Permanent Black/The New India Foundation, 2013; S. Gooptu, Bengali Cinema. An Other Nation, Abingdon, Routledge, 2010.

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nazionale, non abbia mancato di cogliere successi, in varie occasioni, in altre regioni del mondo.

2. L’Occidente e l’incomprensibile mistura di spezie dei MasĀlĀ Movie

In oltre cento anni di storia il cinema indiano è sempre stato uno specchio fedele di quel complesso universo che è l’India, rappresentandone le tra-dizioni culturali e i mutamenti sociali, i sogni e le frustrazioni, e contri-buendo non poco alla costruzione di una nuova identità nazionale dopo la conclusione del British Rāj6. Nel secolo scorso in India il cinema è stato il più importante fra i media, non potendo esserlo né la stampa – a causa dell’alto tasso di analfabetismo - né la televisione – dato il gran numero di case che fino a venticinque anni fa non erano allacciate alla rete elettrica. Il cinema indiano mainstream (e in particolare quello di Bollywood, i cui film erano parlati e cantati in una hindi semplificata e accessibile a un vasto pubblico) ha dunque avuto un ruolo di enorme influenza nella definizione della cultura del Paese nel XX secolo, ed è cresciuto sul piano industriale producendo film e musiche di grandissimo successo nel proprio mercato interno, fino a realizzare una mitologizzazione del proprio star system7.

Tuttavia, fino agli anni Novanta del secolo scorso, quasi nulla di tutto ciò giunse a conoscenza di quello che - usando un’espressione in voga ai tempi della Guerra Fredda - per semplicità definiamo ‘Occidente capitali-sta’, ovvero l’Europa dell’Ovest e gli Usa. Pochissimi furono i film indiani distribuiti in Occidente, anche perché le platee occidentali, compresi gli studiosi di cinema, non avevano gli strumenti culturali per decodificare (e quindi apprezzare) i masālā movie del mainstream bollywoodiano. D’altro canto i festival e la critica cinematografica europea si accorsero dell’esi-stenza di autori indiani solo negli anni Cinquanta grazie alla celeberrima e premiatissima Trilogia di Apu di Satyajit Ray8, mentre Hollywood rico-

6 Cfr. S. Casci (ed.), L’India nel cinema. Democrazia e cinema nell’India di Nehru, Novara, De Agostini/Utet Università, 2009; E. Aime, Storia del cinema indiano, Torino, Lindau, 2007. 7 Sui maggiori successi del cinema indiano nel XX secolo si veda anzitutto l’opera ormai classica di A. Rajadhyaksha – P. Willemen, Encyclopaedia of Indian Cinema. (Revised Edition), Lon-don/New Delhi, British Film Institute/Oxford University Press, 2009. In particolare sulla produ-zione bollywoodiana si vedano: R. Dwyer, 100 Bollywood Films, London, British Film Institute, 2005; S.K. Jha, The Essential Guide to Bollywood, New Delhi, Roli & Janssen, 2005; A. Monti – I. Piovano – A. Bianchi (edd.), Chalta hai: così va il mondo. Bollywood specchio dell’India, Alessan-dria, Edizioni dell’Orso/Dipartimento di Orientalistica dell’Università di Torino, 2010; N. Gruppi, Lo specchio danzante. Guida ragionata a Bollywood, Reggio Calabria, Città del Sole, 2011; C. Cossio, Cinema in India. Lo strano caso di Shashi Kapur, Venezia, Libreria editrice Cafoscarina, 2005.8 Ci riferiamo naturalmente a Pather Panchali (Il lamento sul sentiero, 1955, premiato in una dozzina di festival fra cui Cannes, New York e Tokyo), Aparajito (L’invitto, 1956, premiato con il Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia) e Apur Sansar (Il mondo di Apu, premiato in Gran Bretagna e Usa). Su questa celeberrima trilogia si veda S. Bahadur – S.

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nobbe molto tardivamente la grandezza di Ray attribuendogli l’Oscar alla Carriera solo alla vigilia della sua morte nel 1992. Dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, studiosi e festival cinematografici europei rivolsero la propria attenzione esclusivamente a qualche film autoriale di quella corrente cinematografica che all’epoca veniva chiamata Parallel Ci-nema o New Indian Cinema, alternativa a Bollywood in ogni campo (temi trattati, tecniche narrative, pratiche estetiche, possibilità produttive e di-stributive). L’atteggiamento europeo era dovuto al fatto che il New Indian Cinema, per linguaggi e tematiche, risultava più affine al gusto e agli in-dirizzi politico-culturali dell’Europa di quel tempo, essendo debitore – fra l’altro – della Nouvelle Vague francese e del Neorealismo italiano.

A tale proposito è necessario fare però due considerazioni. La prima riguarda l’opera di Ray e l’interpretazione che ne venne data (e tuttora perdura) in Europa. Dato che studiosi di cinema e critici occidentali uti-lizzavano, ovviamente, gli strumenti culturali che avevano a disposizione all’epoca della Trilogia di Apu (gli anni Cinquanta), per quella e per le opere successive di Ray sopravvalutarono l’innegabile influenza del Ne-orealismo italiano mentre ignorarono del tutto l’ancor maggiore influenza culturale esercitata su di Ray dal suo mentore, Rabindranath Tagore9. La seconda considerazione riguarda invece i registi del New Indian Cinema nel suo complesso (corrente cinematografica alla quale peraltro Ray negò sempre di appartenere, rivendicando per sé un’orgogliosa originalità in-dividuale). Quei registi (Mrinal Sen, Ritwik Ghatak, Mani Kaul, Adoor Gopalakrishnan, Kumar Shahani, per citare solo i maggiori)10 a differenza di Ray erano in gran parte di ispirazione marxista, realizzavano film im-pegnati sulle difficile condizione delle masse indiane - per esempio sui contadini immigrati a Calcutta - ma ‘le masse’ non accorsero mai a vedere i loro film, giudicandoli troppo intellettualistici e preferendo di gran lunga le commedie musicali di Bollywood. Mrinal Sen e gli altri registi del New Indian Cinema ci hanno così lasciato film di squisita fattura e di grande

Vanarase, A Textual Study of the Apu Trilogy, New Delhi, Vani Prakashan, 2011. Più in generale sull’opera di Ray si veda A. Robinson, Satyajit Ray. The Inner Eye, Calcutta, Rupa & Co., 1990.9 Su questo tema si veda M. Restelli, Influenze di Rabindranath Tagore nella cinematografia di Satyajit Ray, in M. Marchetto (ed.), Tagore, sommo poeta dell’India, Venezia, Venetian Aca-demy of Indian Studies/Il Cerchio, 2012, pp. 105 - 117. Più in generale sulle influenze esercitate dal Neorealismo italiano sulle cinematografie dell’India e della Cina si veda la brillante tesi di laurea di C.R. Cazzola, Il neorealismo cinematografico fra Italia, India e Cina, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche Lettere e Filosofia, Corso in Mediazione Linguisti-ca e Culturale, A.A. 2011/2012.10 Si vedano i lemmi dedicati a questi registi da M. Restelli in G. Canova (ed.), Cinema, Milano, Garzanti (Le Garzantine), 2009, e in particolare il lemma New Indian Cinema, ibid., pp. 989-990. Si veda anche: Id., A est di Hollywood, in C. Del Mare – M. Restelli, India in progress. Gli aspetti di una sfida, Torino, Ariete, 1992, pp.71-101; R. Ghatak, Cinema and I, Calcutta, Ritwik Memorial Trust, 1987; D. Ferrario (ed.), Mrinal Sen e il cinema indiano, Bergamo, Bergamo Film Meeting, 1983.

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intensità drammatica, premiatissimi sia in India sia all’estero, ma la loro platea rimase soprattutto quella di qualche cineclub indiano e dei festival cinematografici europei.

In sostanza, su un’ipotetica cartina cinematografica del mondo l’India del XX secolo (o più precisamente, l’India prima degli anni Novanta) a occhi europei e americani appariva quasi un hic sunt leones, con luci solo sporadiche sui maggiori esponenti del New Indian Cinema ma con una totale oscurità su Bollywood (e ovviamente sulla produzione ‘popolare’ dell’ancor meno noto cinema tamil). Al lungo disinteresse occidentale verso il mainstream del cinema indiano non furono estranei sia un certo pregiudizio culturale ‘orientalistico’11, sia le critiche rivolte dallo stesso Satyajit Ray a Bollywood, da lui considerato cinema di pura evasione, ‘inquinato’ da troppe musiche e danze, e comunque inferiore rispetto ai film d’arte prodotti nell’Europa occidentale. Nel 1948, interrogandosi sul-la qualità dei film bollywoodiani, il futuro Maestro del cinema indiano d’autore si chiedeva retoricamente: «Perché i nostri film non trovano uno sbocco sui mercati esteri? È solo perché l’India offre già un potenziale sufficiente al proprio prodotto? O forse perché il simbolismo impiegato è troppo oscuro per gli stranieri? O semplicemente perché ci vergogniamo dei nostri film?»12.

In realtà, il Maestro si sbagliava. Da autentico intellettuale bengale-se quale era – formatosi nelle suggestioni riformatrici della Bengali Re-naissance e soprattutto nella concezione tagoriana che trovò espressione nella scuola di Santiniketan – Ray era imbevuto di cultura britannica, e l’orizzonte culturale con cui si confrontava era quello dell’Europa occi-dentale. Non immaginava, Ray, che alcuni film di Bollywood potessero conquistare l’interesse di vastissime platee in un’altra Europa – quella dell’Est, il cosiddetto blocco sovietico – e addirittura in Asia, nella Cina maoista. Proprio ciò che accadde, invece, negli anni immediatamente successivi al suo scritto. In proposito ricordiamo qui i casi esemplari di alcuni celebri capolavori bollywoodiani (capolavori, sì, perché anche il mainstream bollywoodiano aveva grandi Autori): Awāra13 (Vagabond) di

11 Ci riferiamo qui all’accezione di Orientalismo secondo l’analisi di E. Said, Orientalism, New York, Pantheon Books, 1978.12 S. Ray, Che cosa non va nei film indiani?(tit. or. What is wrong with Indian films?), in M. Muller (ed.), Cinemasia 85/Pesaro. Le avventurose storie del cinema indiano, Venezia, Marsi-lio, 1985, 1, p. 210. Cfr. anche S. Ray, Our Films, Their Films, Calcutta, Orient Longmans, 1976.13 Prendiamo il caso di questo film per spiegare il criterio utilizzato per citare i titoli dei film indiani nel presente lavoro. Com’è noto la hindī, che si scrive in caratteri devanāgarī (देवनागरी), non è la lingua madre di tutti gli indiani, per cui a Bollywood i produttori di film in hindī scelsero di realizzare i cartelloni pubblicitari dei film scrivendo i titoli in caratteri latini secondo la traslit-terazione inglese utilizzata in India (ieri come oggi). Nel presente lavoro abbiamo dunque ritenu-to corretto citare i titoli dei film nel modo in cui vennero presentati al pubblico, sia nelle pubbli-cità sia nei cinema. Chiariamo tornando all’esempio citato. Il film आवारा si traslittera, secondo

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Raj Kapoor nel 1951, Do bigha zamin (Two bigha of Land) di Bimal Roy nel 1953, Shree 420 (Mr. 420) ancora di Raj Kapoor nel 1955, Mother India di Mehboob Khan nel 1957. Tutti film che trionfarono nel ‘mondo socialista’, ivi comprese le canzoni e le danze che tanto dispiacevano a Ray. La ragione di tale successo nei Paesi socialisti è nel messaggio vei-colato da questi film – melodrammatiche storie di contraddizioni sociali con una chiara distinzione morale fra personaggi poveri e buoni e perso-naggi ricchi e cattivi – ma anche nelle canzoni, che spesso diventarono famose in quei Paesi.

Vi furono anche casi di film bollywoodiani esportati in Asia sudorien-tale, in Africa o in Medio Oriente, il che non stupisce dato che l’India guardò oltre le proprie frontiere sin dall’epoca del cinema muto. Tuttavia non si può in nessun modo parlare di una globalizzazione ante litteram del cinema indiano. Si trattò sempre, infatti, di casi isolati, non di un’in-ternazionalizzazione sistemica, poiché dietro ai successi colti nei mercati esteri non vi era una strategia finalizzata all’esportazione – né produttiva, né commerciale, né di adattamento culturale del prodotto ai gusti delle platee internazionali. L’unica politica sistematica perseguita nel tempo dai produttori bollywoodiani fu, anzi, di segno opposto: potremmo definirla ‘importazione mascherata’, poiché per vari decenni Bollywood studiò e imitò trame e modelli narrativi del cinema anglosassone (soprattutto ame-ricano) replicandoli poi – indianizzati – nel proprio mercato interno. Tal-volta si trattò di un pedissequo copiare, tendenza che a lungo andare im-poverì le sceneggiature dei film bollywoodiani. Talaltra invece si ebbero esiti di grande interesse. È il caso dei due citati film di Raj Kapoor, il quale per creare il suo personaggio vagabondo – povero e sfortunato ma ingua-ribilmente ottimista - studiò approfonditamente sia il personaggio dello Charlot chapliniano sia il messaggio ottimistico dei film di Frank Capra (e a questo scopo Kapoor si recò anche negli Usa per incontrare personal-mente il grande regista americano). Andando più oltre nel tempo, un altro esito interessante fu quello del film Sholay (Embers) di Ramesh Shippy, un enorme successo del 1975 chiaramente ispirato sia dal genere action movie americano sia dagli spaghetti western di Sergio Leone, di cui – com’era tipico di Bollywood – si utilizzò la sintassi narrativa per esprimere tuttavia valori culturali indiani.

le regole utilizzate in Italia, in Āvārā, ma in India fu presentato in questa grafia ibrida:Awāra (e in seguito anche Awaara o Awara talvolta affiancato in piccolo dalle grafie in caratteri hindī e urdū). Essendo questa la grafia storicamente utilizzata per la presentazione al pubblico è a questa che ci rifacciamo nel nostro lavoro. Stesso criterio per i nomi di registi e attori: si seguono qui le traslitterazioni all’inglese utilizzate in India sia nelle pubblicazioni scientifiche sia sui media, per cui राजकपूर non viene qui traslitterato in Rāj Kapūr bensì mantenuto, secondo l’uso indiano corrente, nella grafia Raj Kapoor. Diverso naturalmente è il caso in cui si parli di opere sanscrite, per le quali si è utilizzata la traslitterazione scientifica stabilita nel X Congresso degli orientalisti.

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Ma chiudiamo questa parentesi sulle ‘importazioni mascherate’ per tor-nare a esaminare la problematica dell’esportabilità del cinema bollywo-odiano prima degli anni Novanta del XX secolo. Abbiamo visto come i masālā movie che venivano liquidati con disinteresse dalla critica cinema-tografica dell’Europa occidentale avessero avuto invece (pur in casi nu-mericamente limitati) ben altra accoglienza altrove. Com’è noto il termine masālā indica una mistura di spezie tipica della cucina indiana e l’espres-sione metaforicamente allude a quel ricco mix di sapori (di esperienze este-tiche ed emozionali, di rasa e di generi) che dev’essere presente in ogni buon film di Bollywood; con esattezza condìta (è il caso di dirlo) con un filo di ironia, un antropologo francese ha paragonato il masālā movie alla thālī, il tipico piatto indiano da pasto che comprende insieme numerosi cibi e salse diverse14.

Data la sua ricchezza di sapori differenti il masālā movie è dunque defi-nibile come un meta-genere cinematografico. Attraverso di esso Bollywo-od ha rappresentato l’India non come veramente era bensì come avrebbe voluto essere, offrendo così al proprio pubblico un territorio onirico comu-ne nel quale affrontare le proprie angosce e ritrovare le proprie speranze, personali e collettive. Come abbiamo sottolineato poc’anzi, però, tale auto-rappresentazione cinematografica dell’India (anzi, tale mistura di saporite spezie) è risultata a lungo indigesta ai raffinati palati dell’Europa occiden-tale. Cerchiamo dunque di elencare qui, sinteticamente, alcune ragioni di questa incomprensione.

A) Troppi e troppo evidenti i richiami a tradizioni religiose e culturali in-diane indecifrabili sia al pubblico sia alla critica occidentali (come pe-raltro aveva notato Satyajit Ray).

B) Troppo antinaturalistica la recitazione degli attori indiani, che nell’e-spressione delle emozioni appariva enfatica o eccessiva a occhi occi-dentali. Veniva rimproverata anche la mancanza di realismo nella de-finizione dei personaggi, estranei, questi ultimi, all’analisi psicologica propria della cultura europea, essendo spesso debitori delle figure ar-

14 «La grammaire du cinéma est comme un livre de cuisine. Ailleurs, vous pouvez avoir différents plats, des pâtes, un hamburger, une pizza, et vous êtes satisfaits. Ici (in India, ndr.) le concept de la nourriture c’est le plateau (thālī). Le thālī a des galettes, des lentilles, tout sorte de légumes, une grande variété de condiments, du yoghourt, des piments, etc. Un repas indian normal se com-pose de huit à dix saveurs différentes dans une seule assiette. C’est exactement ce que doit être un film hindi. Vous devez avoir tout dans de justes proportions. Si vous offrez au public indien une pizza, il ne sera pas complètement satisfait». E. Grimaud,, Bollywood Film Studio ou comment les films se font à Bombay, Paris, Éditions Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), 2003, p. 92. L’autore ha lavorato come assistente alla regia a Bollywood fra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, studiando da un punto di vista antropologico i processi produttivi dei film e le interazioni professionali e sociali sul set. Il risultato di questa analisi effettuata dall’interno dell’industria cinematografica indiana si caratterizza per originalità nel quadro degli studi sulla materia.

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chetipiche del teatro classico indiano (e più in generale di una tradizio-ne artistica improntata all’ipostatizzazione)15.

C) Troppi i cambi di registro stilistico e i mix di generi, dalla commedia al dramma al comico/farsesco e poi ancora al tragico, il tutto con inter-mezzi sentimentali, laddove invece il teatro e il cinema europei tendono – aristotelicamente – a produrre opere di un genere preciso, identificato da codici distintivi e peculiari.

D) Percepite come ripetitive le trame, i cui tòpoi narrativi, spesso derivanti dall’epica classica, erano ignoti in Occidente.

E) Mancanza di realismo nelle trame stesse, anche a causa dei salti logici percepiti come assurdi (per esempio in una canzone che inizia in un luo-go e finisce in un altro). Una perplessità comprensibile, ma Bollywood è anche sense of wonder e come accadeva nelle favole antiche (o come accade oggi nei film fantasy prodotti in Occidente) talvolta richiede una sospensione dell’incredulità.

F) Eccessiva la lunghezza dei film, mediamente di 180 minuti; un’eredità del teatro classico indiano, le cui rappresentazioni duravano (e talvolta durano ancora) uno o più giorni.

G) Troppi nonché poco compresi nel loro significato i numeri di musica/danza presenti nei film (oggi mediamente 6 per film, un tempo molti di più). Ignorando che nella tradizione indiana classica non vi è mai stata distinzione fra attore e danzatore, i fruitori occidentali dei masālā mo-vie percepirono i numeri di musica/danza come decorativi o esornativi, non cogliendone la centralità strutturale nella costruzione dello spetta-colo. Il film bollywoodiano è, strictu sensu, rappresentazione cantata e danzata, ma i suoi film vennero superficialmente liquidati, dalla critica occidentale, come semplici musical.

Si potrebbe continuare, ma conta qui sottolineare altro: ben lungi dall’es-sere banali musical, i masālā movie prodotti in India prima dell’interna-zionalizzazione sistemica del cinema indiano (ovvero prima della politica di globalizzazione del cinema avviata negli anni Novanta) rivelano una straordinaria ricchezza di fonti – teatrali, musicali, coreutiche, letterarie, pittoriche – le cui radici affondano nel patrimonio culturale dell’India anti-ca16. Un elenco sarebbe lunghissimo ma ricordiamo almeno i grandi poemi

15 «Lo spettatore (dell’opera d’arte, ndr.) deve vedere quel che il pittore doveva aver visto prima di prendere in mano il pennello o lo scalpello: deve vedere il Buddha nell’immagine, piuttosto che un’immagine del Buddha». A.K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Milano, Adelphi, 1987, p. 142.16 Al riguardo riteniamo giusto segnalare l’eccellente lavoro svolto da un giovane studioso ita-liano, Aelfric Bianchi, per la sua Tesi di Dottorato, che meriterebbe una pubblicazione. Cfr. A. Bianchi, Oltre il velo di Māyā. Le fonti occulte del cinema bollywoodiano, Dottorato di ricerca in discipline artistiche, musicali e dello spettacolo, Università degli studi di Torino, Anni Accade-

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epici come il Mahābhārata e il Rāmāyana, la drammaturgia classica e la teoria dei rasa codificate a partire dal Nātyaśāstra, l’indissolubile legame fra teatro musica e danza in tutte le scuole, le tradizioni teatrali folkloriche come la nautankī, le performance poetiche di ghazal (che ritroveremo poi nelle canzoni di Bollywood)17; fino ad arrivare al periodo cruciale fra la seconda metà del XIX secolo e i primi decenni del XX, quando a questi giacimenti culturali si aggiunsero nuovi contributi importanti per la defi-nizione del nascente cinema indiano. Uno di tali contributi fu il nuovo ca-none figurativo delle divinità hindu elaborato in dipinti e litografie da Rājā Ravi Varma18, canone che rivela chiare influenze europee ma che a propria volta influirà sulla rappresentazione delle divinità nel cinema indiano di tema religioso. E ancor più essenziale – anzi centrale – per la definizio-ne della sintassi cinematografica della nascente Bollywood fu il teatro dei parsi19, crogiolo di culture diverse capace di sintetizzare linguaggi teatrali e musicali indiani e occidentali, realismo e fantasia, dramma e commedia, rielaborando e indianizzando, in primis, il repertorio shakespeariano. Una forma teatrale cosmopolita capace di ardite ibridizzazioni, la cui‘lezione’ si ritrova, in vario modo, in tutta la storia del cinema indiano, compresa l’o-dierna Bollywood globalizzata. Sono esempi di quest’ultima produzione le riletture cinematografiche di opere shakespeariane realizzate in chiave bollywoodiana da Vishal Bhardwaj (regista, sceneggiatore e compositore delle musiche) fra il 2003 e il 2014, accolte con notevole favore dal pub-blico e/o dalla critica nel mondo anglosassone come in Brasile, in Egitto come in Italia20.

mici 2009-2011. In particolare sulle tradizioni teatrali, coreutiche e musicali dell’India si vedano: M. Angelillo, Le danze indiane, Milano, Xenia edizioni, 2009; P. Pacciolla – A.L. Spagna, La gioia e il potere. Musica e danza in India, Nardò (Lecce), Besa Editrice, 2008; P. Pacciolla, Il pensare musicale indiano, Nardò (Lecce), Besa Editrice, 2005; L. Piretti Santangelo, Il teatro indiano antico. Aspetti e problemi, Bologna, Cooperativa Libraria Universitaria, 1982.17 Cfr. G.D. Booth – B. Shope (edd.), Studies in Indian Popular Music, New York, Oxford University Press, 2014.18 Cfr. E. Castelli – G. Aprile, Divine Lithography, New Delhi, Documentation Centre and Ethnographic Museum/Il Tamburo Parlante, 2005. Non a caso la figura di Rājā Ravi Varmā è stata celebrata recentemente anche dal cinema, nel film in hindī Rang Rasiya (Colour Passion, regia di Ketan Mehta, 2008) e nel film in malayālamMakaramanju (The Mist of January, regia di Lenin Rajendran, 2010).19 Sorprende l’esiguo numero di studi sistematici in lingue occidentali sul teatro parsi che, ben-ché fenomeno elitario, ebbe un ruolo significativo nell’evoluzione del teatro moderno in India e in particolare nella genesi di Bollywood. Fra le poche opere autorevoli sulla materia si veda-no: M. Marfatia, Laughter in the House: 20th-Century Parsi Theatre, Mumbai, 49/50 Books, 2011; S. Gupta, The Parsi Theatre. Its Origins and Development, Kolkata, Seagull Books, 2005 (quest’ultima opera è una traduzione dall’hindi di un saggio apparso nel 1981: Id., Pārsī thiyetar: udbhav aur vikās, Allahabad, Lokbharati Prakashan, 1981).20 Ci riferiamo in particolare a tre film di Bhardwaj che costituiscono ottimi esempi della globa-lizzazione di Bollywood. Il primo è Maqbool (2003), adattamento del Macbeth ambientato nel mondo della mafia di Mumbai. Per un’analisi interculturale del film si veda: A. Mukherjee, Ma-qbool: Transcreating Shakespeare in Bollywood, «Apperception. Journal of the Department of English

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Questi e molti altri recenti successi del cinema indiano nei mercati in-ternazionali non autorizzano tuttavia a considerare priva di ombre la situa-zione dell’arte cinematografica in India. Il processo di globalizzazione in corso comporta infatti anche paradossi e rischi, il primo dei quali è quel-lo di un progressivo, inesorabile allontanamento del cinema indiano dalle proprie radici culturali, intendendo con “radici culturali” non solo l’insie-me dei saperi (teatrali, musicali, coreutici, eccetera) propriamente attinenti al mondo indiano dello spettacolo, ma anche il pattern valoriale ereditato dalle tradizioni religiose e popolari dell’India. Il rischio di questo allonta-namento – traducibile, non sempre ma spesso, in un impoverimento cultu-rale dei film - è particolarmente evidente nella produzione bollywoodiana, che è la punta di lancia della penetrazione della cinematografia indiana nel mondo; date le dimensioni del fenomeno, non è azzardato domandarsi se questo allontanamento potrà mettere in discussione, in futuro, la stessa indianità di Bollywood. Per prendere in esame tale problematica è neces-sario chiarire due questioni: 1) quali siano i principali elementi costitutivi –socioeconomici, produttivi, tecnologici – del processo di globalizzazione di Bollywood; 2) come tale processo influisca sui prodotti di Bollywood.

3. Gli elementi costitutivi della globalizzazione di bollywood e la mutazione genetica del cinema indiano

La globalizzazione di Bollywood, che ebbe inizio nei primi anni Novanta del secolo scorso, può essere compresa solo nel quadro dei grandi cambia-menti economici, tecnologici e sociali interni all’ampio processo (tuttora in corso) di globalizzazione dell’India stessa.

La prima spinta propulsiva di tale processo è individuabile nelle rifor-me economiche in senso liberista promulgate nel 1991 dall’allora ministro delle finanze Manmohan Singh. Tali riforme furono poi rafforzate dalla po-litica di liberalizzazione e internazionalizzazione dell’economia perseguita dai governi degli anni Novanta, all’origine del ben noto boom economico indiano di cui furono e permangono protagonisti l’industria dell’Informa-tion Technology, il comparto del terziario con i servizi in outsourcing e,

&Other Modern European Languages, Visva-Bharati University, Santiniketan», 2009, 4, pp. 111-123. Il secondo film di Bhardwaj è Omkara (2006), adattamento dell’Otello ambientato nell’odierno intreccio fra politica e crimine in Uttar Pradesh, vincitore del premio alla regia al Festival del Cinema del Cairo nel 2007. Nel 2009 una delle canzoni del film è diventata popolarissima in Brasile (benché cantata in hindi) perché è entrata stabilmente a far parte della colonna sonora di una famosa soap-opera prodotta da Rede Globo. Il terzo film di Bhardwaj è Haider (2014), adattamento dell’Amleto ambientato nel contesto del pluridecennale conflitto indo-pakistano in Kashmir, e vincitore del Premio del Pubblico al 9° Festival Internazionale del Film di Roma.

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non ultima, l’industria cinematografica indiana21. Questa in particolare ri-veste il doppio ruolo di specchio del cambiamento sociale e motore pro-pulsivo dello stesso, veicolando costumi e modelli culturali di derivazione occidentale mescolati ad altri peculiarmente indiani in una nuova tipologia di film che mette in scena sia l’inedita dimensione internazionale dell’i-dentità indiana sia i primi segni della sua ibridazione culturale. La neonata Global Bollywood si presenta al mondo nel 1995 con Dilwale Dulhania Le Jayenge (The Brave-Hearted Will Take Away the Bride, diretto da Aditya Chopra e prodotto da suo padre, il grandissimo cineasta Yash Chopra), una commedia romantica ambientata, non a caso, a Londra, che coglierà un enorme successo sia in India sia all’estero e sarà seguita da altre pellicole di ambientazione occidentale22.

Negli anni Novanta del secolo scorso la società indiana vive contempo-raneamente la tumultuosa crescita (anch’essa tuttora in corso) di Internet e dei canali televisivi satellitari e digitali, finalmente fruibili da ampi settori della società grazie al potenziamento della rete elettrica, che permette l’in-gresso di televisori e computer nelle case (in primis della nuova borghesia urbana). Viene così a crearsi un sistema mediatico integrato che tanta im-portanza rivestirà nella diffusione globale dei film (e della musica) di Bol-lywood. Un esempio assai noto è costituito dai canali televisivi di B4UTv, cioè Bollywood for You, i più importanti dei quali sono B4U Movies e B4U Music (quest’ultimo dedicato ai video dei numeri di musica/danza), nati nel 1999 e oggi diffusi via satellite in oltre 100 nazioni23. Anche internet, ovviamente, concorre alla circolazione planetaria del cinema indiano, fino alla creazione di un fenomeno ormai noto come “Bollyweb”, ove con que-sto termine si intende l’immensa comunità virtuale costituita da siti istitu-zionali, forum, chat, blog e pagine di fan-club sui social media, dedicati alle star, alla musica e ai più diversi aspetti della produzione di Bollywo-od24. Dato quanto sopra, potremmo oggi guardare al sistema mediatico in-diano come a una flotta navale la cui nave ammiraglia è rappresentata dal cinema e intorno a cui convergono le ‘difese’ delle altre navi, cioè gli sforzi

21 Sulle politiche produttive della nuova Bollywood globalizzata nel contesto del boom econo-mico indiano si vedano: T. Ganti, Producing Bollywood. Inside the Contemporary Hindi Film Industry, Durham, Duke University Press, 2012; D. Schaefer – K. Karan (edd.), Bollywood and Globalization. The Global Power of Popular Hindi Cinema, London, Routledge, 2013.22 Ci riferiamo a grandi successi quali Kuch Kuch Hota Hai di Karan Johar (Something Happens, 1998), Kabhi Kushi Kabhie Gham ancora di Johar (Sometimes Happiness, Sometimes Sadness, 2001) e Kal Ho Na Ho di Nikhil Advani (There May or May Not Be a Tomorrow, 2003).23 Per B4UTv si veda il sito http://b4utv.com/corporate/ (accesso 21/05/2015)24 Cfr. A Mitra, Bollyweb. Search for Bollywood on the Web and See What Happens!, in A.P. Kavoori – A. Punathambekar (edd.), Global Bollywood, pp. 268-281; A. Punathambekar, We’re Online, not on the Streets. Indian Cinema, New Media and Participatory Culture, Ibid., pp. 282-299.

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di tutti gli altri media per promuovere i film indiani25. Significativamente, vari indicatori concorrono nel prevedere che l’industria indiana dello spet-tacolo e dei mass media nel suo complesso – considerata come un sistema integrato - raggiungerà nel 2017 un valore di 25 miliardi di dollari, cioè il doppio di quanto era valutata appena cinque anni prima, nel 201226.

Nella fase nascente di tale sviluppo mediatico, la modernizzazio-ne dell’assetto economico-industriale di Bollywood viene agevolata da un’importante – seppur tardiva – iniziativa politica dello Stato indiano, che nel 1999 riconosce finalmente il cinema indiano come “industria naziona-le”. Con tre importanti conseguenze: A) esenzione dalle tasse degli introi-ti derivanti dall’esportazione di film (con un logico incremento dei film rivolti ai mercati esteri); B) concessione di finanziamenti alle produzio-ni cinematografiche da parte della Industrial Development Bank of India (statale); C) espulsione - o per meglio dire forte riduzione - del peso delle cosche criminali di Mumbai nella produzione dei film, spesso utilizzati in passato come strumenti per riciclare denaro ‘sporco’(con gli immaginabili condizionamenti sulla produzione, la scelta degli attori, la qualità tecnica dei film stessi, eccetera). La nuova politica di sovvenzioni controllate e trasparenti dell’industria cinematografica concorre così al miglioramento complessivo del suo prodotto.

Ma non è solo Bollywood ad avvalersi delle favorevoli condizioni eco-nomiche e tecnologiche sopra descritte. Gli anni Novanta del secolo scorso vedono lo sviluppo di ‘città del cinema’ dal respiro internazionale anche nell’India meridionale. L’esempio più importante è la Ramoji Film City nel Telangana, cuore della cinematografia di lingua telugu ma capace di attirare anche produzioni di film in altre lingue, inglese compreso. Aper-ta nel 1997, oggi la Ramoji Film City è probabilmente il più vasto cen-tro di produzione cinematografica del mondo avendo superato anche gli Universal Studios di Hollywood, può supportare la lavorazione di 40 film contemporaneamente e presenta costi inferiori a tanti centri in Occiden-te, caratteristiche tali da renderla attrattiva anche per cineasti non indiani. Ogni film lavorato nella Ramoji Film City viene poi supportato e rilanciato dall’imponente sistema multimediale del Ramoji Group di proprietà, ap-punto, di Mr. Ramoji Rao27.

25 Sulla convergenza del sistema mediatico indiano a sostegno dell’industria cinematografica si veda D. Bose, Brand Bollywood. A New Global Entertainment Order, New Delhi, Sage, 2006. Per un’analisi dei meccanismi e dell’influenza del sistema mediatico indiano nella globalizza-zione si veda A. Athique, Indian Media. Global Approaches, Cambridge, Polity Press, 2012.26 Cfr. D.K. Thussu, Communicating India’s Soft Power, pp. 133-134.27 Cfr. S. Kumar, The Transnational Economy of Film Production in Ramoji Film City, Hyder-abad, in S. Gopal – S. Moorti (edd.), Global Bollywood, pp. 132 – 152; Id., Hollywood Bolly-wood Tollywood. Redifinig the Global in Indian Cinema, in A.P. Kavoori – A. Punathambekar, Global Bollywood, pp. 79 – 96. Si veda anche il volume di S.V. Srinivas sul cinema telugu citato nella nota 5 del presente lavoro.

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La promozione dell’industria cinematografica è sempre stata una pri-orità per l’India ma lo è diventata ancora di più nell’era della globalizza-zione. L’India conta un gran numero di festival cinematografici internazio-nali alcuni dei quali di grande risonanza - come lo storico festival di Goa, nato nel 1952 – ma è attraverso le promozioni all’estero che Bollywood ha scelto di gettare il proprio guanto si sfida a Hollywood, in particolare con la creazione del ‘premio Oscar indiano’, l’International Indian Film Aca-demy Awards (IIFA). Istituito nell’anno Duemila, l’IIFA chiama a raccolta – seguendo il modello americano – tutte le star di ieri e di oggi, i registi e i produttori di Bollywood, ma a differenza degli Usa, che tengono sempre la cerimonia a Los Angeles, l’India ha deciso di creare un premio itinerante, per sottolineare la dimensione globale del proprio cinema e per aumentare l’impatto mediatico della cerimonia in aree sempre diverse del mondo. Per queste ragioni, dopo la prima edizione tenutasi a Londra, l’IIFA si è tra-sferito in Sudafrica, a Singapore, in Olanda, negli Emirati Arabi Uniti, di nuovo in Gran Bretagna, in Thailandia, in Cina, in Sri Lanka, in Canada e persino nella tana del lupo, gli Usa (a Tampa Bay in Florida), fino alla più recente edizione tenutasi nel giugno 2015 a Kuala Lumpur, in Malesia28.

E’ solo a questo punto - cioè con l’ingresso nel nuovo millennio, sim-bolicamente sancito dalla creazione dell’IIFA nel 2000 - che si può con-siderare definitivamente impostata l’internazionalizzazione sistemica del cinema indiano, seguita con occhio vigile dallo Stato. Bollywood infatti non è più solo un importante centro di produzione cinematografica, è di-ventata anche uno strumento del soft power indiano, una sorta di spot pub-blicitario/politico del brand India rivolto al mondo ma pure all’opinione pubblica nazionale.

Coerentemente con la mutazione sopra descritta si è verificato anche un cambio di pubblico dei film bollywoodiani, o meglio una segmentazione in pubblici diversi. Un tempo Bollywood si rivolgeva anzitutto ai conta-dini dei villaggi o ai poveri abitanti degli slum di Mumbai; questo target ovviamente esiste ancora nel mercato interno così come c’è ancora una Bollywood che continua a produrre masālā movie indirizzati a un pubbli-co popolare, legato a valori culturali e linguaggi estetici della tradizione indiana. Accanto ad essa però è cresciuta la nuova Global Bollywood che si rivolge anzitutto a quella parte significativa ma non maggioritaria della popolazione indiana (circa 250 milioni di persone) che costituisce la nuo-va borghesia dei centri urbani, convinta assertrice delle magnifiche sorti progressive della Shining India, un ceto sociale che ha studiato e viaggia all’estero, ha reti parentali transnazionali, vuole che i propri figli conosca-no l’inglese e sappiano muoversi in un mondo globalizzato.

28 Sugli International Indian Film Academy Awards si veda http://www.iifa.com/ (accesso 31/05/2015).

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Di tale ceto fa parte anche un soggetto sociale risultato essenziale per la nascita e lo sviluppo della Global Bollywood: i Non Resident Indians (NRI), oltre venti milioni di persone che vivono soprattutto in Gran Bre-tagna, Medio Oriente, Stati Uniti e Canada, hanno spesso una buona o ottima condizione socioeconomica ma un rapporto ambivalente con le tra-dizioni culturali di origine, in particolare nei soggetti di seconda o terza generazione29. Sono appunto questi ultimi – figli e nipoti di NRI cresciuti all’estero – ad avere esercitato la propria influenza culturale ed economica per spingere Bollywood a un rinnovamento tematico, sintattico ed estetico dei propri film, capace di riflettere la peculiare dicotomia della condizione migratoria, sospesa, da un lato, all’orgoglio per l’acquisizione di un benes-sere economico e di costumi occidentali vissuti a ragione o a torto come emancipatori, dall’altro lato alla nostalgia (magari non dichiarata ma pre-sente) per le proprie radici culturali sempre più lontane. Quest’ultimo dato va sottolineato: il rischio di perdita di un patrimonio culturale e valoriale, senza che ciò sia necessariamente compensato dalla (parziale) acquisizio-ne di elementi identitari altrui. Le nuove generazioni di NRI oggi con-servano il senso delle proprie radici sopratutto in quattro campi: i legami famigliari transnazionali, il cibo indiano, lo sport nazionale (il cricket) e i film di Bollywood. Ma agli occhi di un indiano nato negli Usa spesso signi-ficano poco le tradizioni religiose, teatrali, coreutiche e musicali dell’In-dia classica, per cui non richiede di trovarne i segni nei masālā movie se non in misura assai ridotta o episodica. Seguendo le logiche di mercato, Bollywood ha risposto a questa domanda producendo film culturalmente ibridi definiti anche ‘diasporici’30, film che trattano i temi propri della vita dei nuovi indiani globalizzati ma li rappresentano con linguaggi cinemato-grafici (tipo di regia, ritmo dato dal montaggio, stile di recitazione, tecnica di ripresa, rapporto fra ‘parlato’ e ‘cantato’, ecc.) essenzialmente mutuati dall’Occidente. Si tratta molto spesso di film realizzati meglio - sul piano propriamente tecnico - rispetto a tanti B-movies prodotti a Bollywood nel

29 Diverso è il caso dell’immigrazione indiana in Italia, che è più recente rispetto a quella dei Paesi citati, è costituita in gran parte da Sikh ancora molto legati alle proprie tradizioni religiose e culturali e con una condizione socioeconomica più bassa della media dei Non Resident Indians. Cfr. M. Restelli, I Sikh in Italia. Fra identità religiosa, nuova cittadinanza e riconfigurazioni familiari, in M. Angelillo (ed.), La famiglia nelle culture e nelle società dell’Asia. (Family in Asian Cultures and Societies), Milano/Roma, Biblioteca Ambrosiana/Bulzoni Editore, 2013, pp. 49-67.30 Cfr. R. Dudrah, Bollywood Travels. Culture, Diaspora and Border Crossings in Popular Hin-di Cinema, London, Routledge, 2012; A. Dubey (ed.), Indian Diaspora. Global Identity, Delhi, Kalinga Publications, 2003. Si vedano anche i testi citati nella nota 3 del presente lavoro. Oltre a questa produzione cinematografica si noti che esiste anche una produzione teatrale diasporica, ad opera di autori angloindiani che esplicitano un debito culturale con Bollywood. È il caso di Tani-ka Gupta con The Waiting Room, rappresentata con successo a Londra nel 2000 con la grandis-sima Shabana Azmi come protagonista. Cfr. M. Restelli, Bollywood, London. Ovvero l’impor-tanza di chiamarsi Gupta, in T. Gupta, La sala d’attesa, Roma, Edizioni Reading Theatre, 2006.

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lungo periodo intercorso fra l’epoca d’oro del cinema indiano (gli anni Cinquanta) e gli inizi della globalizzazione (gli anni Novanta), però sono anche film indubbiamente più poveri di riferimenti alla cultura indiana ri-spetto a quelli prodotti in precedenza.

Il mutamento di pratiche estetiche e di valori del cinema richiesto dagli NRI non implica affatto che questi film siano culturalmente insignificanti bensì che essi vogliono significare propriamente ‘altro’, in un tentativo di mediazione valoriale ed espressiva che ha avuto esiti interessanti a opera, non a caso, di registe anch’esse NRI, con film prodotti fra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila e che riscossero successo sia di pubblico sia di critica a livello internazionale. Titoli distribuiti anche in Italia come Monsoon Wedding (2001) e The Namesake/Il destino nel nome (2006) di Mira Nair, oppure la ‘trilogia degli elementi’ di Deepa Mehta (Fire/Fuoco del 1996, Earth/Terra del1998 e Water/Acquadel2005), o ancora Bend it Like Beckam/Sognando Beckam (2002) e Bride and Prejudice/Matrimoni e pregiudizi (2004) di Gurinder Chadha, quest’ultimo ispirato a Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Per individuare la singolarità di questo tipo di film, rispetto alla produzione indiana fino ad allora nota in Occidente, ven-ne coniata la definizione di Middle Cinema, che voleva esprimere la loro capacità di sintetizzare impegnative istanze tematiche proprie del cinema d’autore (quali la violenza sui bambini in Monsoon Wedding o la crude-le segregazione delle vedove in Water) e modalità espressive derivate dal mainstream cinematografico indiano, superando così definitivamente l’an-tica dicotomia fra Bollywood e Parallel Cinema31.In questi e in altri film successivi, peraltro, si nota un altro segno della globalizzazione in corso: i film cominciano a venire distribuiti con titoli inglesi anziché in hindi e in urdu (o in altre lingue indiane).

Un altro elemento indicativo della globalizzazione di Bollywood è co-stituito dal rinnovarsi dei suoi personaggi-testimonial. Nel ventennio pre-cedente la globalizzazione il personaggio-simbolo dei masālā movie era l’angry young man in lotta contro le ingiustizie interpretato da Amitabh Bachchan. Era l’eroe delle periferie, della gente degli slum, insomma de-gli ultimi della piramide sociale, dai quali era amatissimo per i suoi ruo-li di rabbioso e solitario difensore dei diseredati. Una figura non di rado portatrice di significativi messaggi di riscatto sociopolitico: per esempio

31 Su questa dicotomia, il suo superamento con il Middle Cinema e le fasi iniziali della globaliz-zazione di Bollywood si veda: M. Restelli, Se dici cinema dici India, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 2009, 6, pp. 131-139. Sul caso del film di Gurinder Chadha tratto da Jane Austen si veda: A. Bianchi, Jane Austin ad Amritsar: da Pride and Prejudice a Bride and Prejudice, in A. Monti (ed.), Eastern Perspectives: from Qumran to Bollywood, Alessandria, Edizioni dell’Orso/Department of Oriental Studies University of Turin, 2009, pp. 199-212. Più in generale sul rap-porto fra cinema indiano e modelli culturali inglesi si veda L. Curti – S. Poole (edd.), Schermi indiani, linguaggi planetari, Roma, Aracne, 2008.

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l’aspra denuncia dello sfruttamento dei minatori indiani nel drammatico Kaala Patthar (Black Stone), prodotto e diretto nel 1979 da Yash Chopra e interpretato appunto da Bachchan. Il culto del personaggio perdurò an-che quando il successo dell’attore declinò, tanto che nel 1999 (dunque a globalizzazione già avviata) un sondaggio internazionale condotto da BBC News lo dichiarò «l’attore più famoso del mondo». Tutt’oggi Bachchan rimane l’icona indiscussa della vecchia Bollywood e alla fine di maggio 2015 è stato il primo attore indiano a raggiungere i 15 milioni di follower su Twitter32.

Mentre guarda con ossequioso rispetto a Bachchan (che in vecchiaia è tornato al successo con altri ruoli) l’attuale Global Bollywood è impegnata però a promuovere un ben diverso tipo antropologico di eroe. Il suo inter-prete è il fascinoso ed elegante Shah Rukh Khan, avatar cinematografico di una borghesia indiana cosmopolita e benestante, operante anche all’e-stero e legata a reti parentali transnazionali. Mostrando nei suoi film il ricco – spesso lussuoso – stile di vita degli indiani in America e in Europa la Global Bollywood presenta agli indiani residenti in India un modello non solo appetibile ma anche raggiungibile: il traguardo della definitiva emancipazione dalla povertà (cioè la più profonda aspirazione della nuo-va borghesia indiana figlia del boom economico). Lasciatosi dunque alle spalle l’umiliante fardello del passato – la povertà – il personaggio di Shah Rukh Khan impersona la transizione da uno stile di vita indiano a uno stile di vita globalizzato, nonché dalla vecchia alla nuova India. È il simbolo di un nuovo indiano che, libero da preoccupazioni materiali, è alle prese più che altro con questioni amorose e con le contraddizioni fra tradizioni indiane e costumi occidentali pure in questo campo. A tale riguardo è in-teressante notare che Khan interpreta anche un nuovo tipo di mascolinità, più sensibile nelle relazioni interpersonali e lontana dal modello di macho che fu di Bachchan33.

Si deve purtroppo constatare però che a questo mutamento sociocultu-rale dell’eroe maschile non corrispondono, per ora, novità altrettanto si-gnificative a proposito delle eroine. Nella rappresentazione delle donne, infatti, la Global Bollywood appare spesso ancora dibattuta fra stereotipi tradizionali della società indiana e stereotipi di genere importati dall’Oc-cidente. Le nuove realtà sociali delle donne appaiono rappresentate ancora in modalità contraddittorie nei ruoli che vengono offerti alle attuali star

32 Cfr. questo articolo apparso sull’Indian Express lo 01/06/2015: http://indianexpress.com/ar-ticle/entertainment/bollywood/amitabh-bachchan-reaches-15-million-fan-following-on-twitter/ (accesso 01/06/2015).33 Per un’analisi di come la globalizzazione abbia modificato la rappresentazione di costumi e valori indiani nei film di Bollywood si veda R. Dwyer, Picture abhi baaki hai. Bollywood as a Guide to Modern India, Gurgaon, Hachette Book Publishing India, 2014. In particolare su Shah Rukh Khan come «diasporic hero» cfr. ibid. pp. 66-78.

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femminili come Deepika Padukone, Katrina Kaif o Priyanka Chopra. Da una parte permane (come polvere nascosta sotto il tappeto, ma pur sem-pre presente) il vecchio modello sacrificale di Mother India, certo riat-tualizzato alla realtà odierna: una donna che lavora, vive all’estero, veste all’occidentale, appare emancipata, però poi è sempre pronta a sacrificare tutto di sé per amore o per i figli (uguale disponibilità al sacrificio non si vede da parte maschile). Dall’altra parte le eroine risentono sempre più di un malinteso modello top model-bomba sexy, vissuto dal pubblico come intrigante, inquietante, magari pericoloso ma pur sempre molto attrattivo. La celebrazione di questo modello è nei cosiddetti item number, esibizioni di balletti pop volutamente sensuali, eseguiti da starlette. È vero che molti film di Bollywood oggi veicolano messaggi contro la piaga sociale della violenza sulle donne, ma a ben guardare si colgono anche messaggi più o meno allusivi di altro segno.

Passando alla rappresentazione del tema amoroso, è pure vero che il gioco del corteggiamento – destinato a concludersi invariabilmente con il matrimonio – è il cuore stesso delle commedie bollywoodiane. Ma mentre i personaggi maschili hanno spessore psicologico e campo d’a-zione anche al di fuori del gioco amoroso, i personaggi femminili sono sostanzialmente confinati a esso, anzi vivono in funzione di esso rappre-sentando il conflitto matrimonio combinato versus matrimonio d’amore, risolto spesso dal tentativo di far coincidere le due cose. Certo sarebbe sbagliato negare che qualcosa si muova oggi nella Global Bollywood: dopo le Maestre del Middle Cinema una nuova generazione di registe sta crescendo mentre alcune attrici richiedono per sé ruoli e spazi diversi; ma il cinema rispecchia come sempre la società indiana, dove il traguardo delle pari opportunità di genere è ancora lontano. Restando nell’ambito del sistema integrato media/spettacolo vale la pena citare un dato: persi-ste in India un grave digital divide fra uomini e donne, essendo i primi il 61% degli utilizzatori di internet e le seconde solo il 39%34. Tornando allo specifico cinematografico, comunque, l’ibridazione dei film indiani con modelli culturali occidentali non sembra essere stata, almeno per ora, di straordinario aiuto alle donne indiane nel superamento degli stereotipi di genere35.

34 Cfr. http://www.statista.com/statistics/272438/gender-distribution-of-internet-users-in-india/ (accesso 31/05/2015). 35 Sulle rappresentazioni delle donne e gli stereotipi di genere nel cinema indiano (in partico-lare in quello bollywoodiano) si vedano: B. Somaaya – J. Kothari – S. Madangarli, Mother, Maiden, Mistress. Women in Hindi Cinema 1950-2010, Noida, HarperCollins Publishers India, 2012; P. Govindam – B. Dutta, From Villain to Traditional Housewife! The Politics of Global-ization and Women’s Sexuality in the New Indian Media, in P. Kavoori – A. Punathambekar (edd.), Global Bollywood, pp. 180-202; R. Dwyer, Picture abhi baaki hai, pp. 184-222; K.M. Gokulsing – W. Dissanayake, Indian Popular Cinema. A Narrative of Cultural Change, Lon-don, Trentham Books, 1998, pp. 75 – 90.

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Tale ibridazione (tematica, valoriale) costituisce, come abbiamo visto, solo uno dei molti piani in cui si esprime l’internazionalizzazione sistemi-ca del cinema indiano negli anni Duemila: individuazione di nuovi target e di nuovi personaggi-simbolo (ancora contraddittori per quanto riguarda le donne), sapiente utilizzo di linguaggi cinematografici mutuati dall’Oc-cidente, strategie produttive, promozionali e distributive mirate ai mercati esteri (non a caso un gigante della produzione e della distribuzione come Eros International Group oggi ha il proprio quartier generale a Londra). Ma questa vera e propria mutazione genetica, caratterizzante in particolare Bollywood, si evidenzia con grande chiarezza anche in un altro campo peculiare: la filmī music. La musica rappresenta storicamente uno dei fat-tori determinanti per il successo di un film di Bollywood, perché spesso ne precede l’uscita, lo promuove quando è nelle sale e prosegue la pro-pria performance commerciale anche quando il film è stato ritirato36. Ma a parte ogni considerazione economica, si tratta di una caratteristica strut-turale: un masālā movie senza numeri di musica/danza non è un masālā movie, perché Bollywood, come già chiarito, è rappresentazione danzata e cantata37, con un enorme patrimonio culturale alle spalle in questo senso. La Global Bollywood non ha dimenticato questa lezione e include molto spesso questi numeri (anche se le eccezioni alla regola cominciano a essere significative: si pensi a un successo internazionale come My Name is Khan di Karan Johar con Shah Rukh Khan, distribuito anche in Italia nel 2010 come Il mio nome è Khan).

Ma che tipo di musica e che tipo di danza produce oggi la Global Bol-lywood? In questi campi il processo di ibridazione è ormai molto avan-zato, come dimostra il caso esemplare della musica bhangra: importata a Londra negli anni Novanta da indiani e pakistani emigrati dai due Panjab, diffusasi poi con aggiornamenti funky nelle discoteche di tutta Europa gra-zie a dj come Panjabi MC (esibitosi anche in Italia al Festival di Sanremo nel 2003), arrivata quindi negli Usa dove ha vissuto una contaminatio sia musicale sia coreutica con lo hip-hop afroamericano, e infine tornata in India nella sua nuova veste di world music da danzare nei film della Global Bollywood38. Tutto ciò per la gioia dei giovani spettatori cinematografici e

36 Cfr. A. Morcom, Tapping the Mass Market. The Commercial life of Hindi Film Songs, in S. Gopal - S. Moorti (edd.), Global Bollywood, pp. 63-84.37 Cfr. G. Anantharam, Bollywood Melodies. A History of Hindi Film Song, New Delhi, Penguin, 2008; A. Morcom, Hindi Film Songs and the Cinema, Aldershot, Ashgate, 2007; Id., Illicit Worlds of Indian Dance. Cultures of Exclusion, Oxford University Press, 2014. Si veda anche il testo a cura di Booth e Shope citato nella nota 17 del presente lavoro. Infine, sugli studi preparatori e la realizzazione pratica delle coreografie in un set bollywoodiano si veda Grimaud, Bollywood Film Studio, pp. 333-368.38 Cfr. A. Gera Roy, Bhangra Moves. From Ludhiana to London and Beyond, Farnham, Ashgate, 2010; R. Zumkhawala-Cook, Bollywood Gets Funky. American Hip-Hop, Basement Bhangra and the Racial Politics of Music, in S. Gopal – S. Moorti (edd.), Global Bollywood, pp. 308-330.

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frequentatori delle discoteche di tutto il mondo, serenamente ignari di bal-lare una musica contadina nata in antiche feste nelle campagne del Panjab.

Questo del bhangra diventato world music è comunque considerabile un esempio di globalizzazione ‘virtuosa’, perché il bhangra rivisitato come filmī music e le danze a esso connesse hanno pur sempre radici nella tradi-zione folklorica indiana. Radici che si ritrovano anche nelle musiche del celebre compositore indiano A. R. Rahman, giustamente premiato con l’O-scar nel 2009 per la colonna sonora del celeberrimo Slumdog Millionaire, film-simbolo della globalizzazione quant’altri mai: diretto da un britannico ma codiretto da un’indiana (Danny Boyle e Loveleen Tandan), coprodotto con capitali internazionali, ambientato in India e tratto da un romanzo di Vikas Swarup (Q & A, in italiano Le dodici domande), interpretato da in-diani ma girato con uno stile cinematografico schiettamente europeo non è un film “di” Bollywood ma è innegabilmente influenzato “da” Bollywood. Tuttavia la musica di Rahman è una felice eccezione. In molti altri casi invece la filmī music utilizzata dalla Global Bollywood degli anni Due-mila si rivela un semplice adattamento di melodie o ritmi provenienti dal pop americano, dal Maghreb, dal Sud America o dal Giappone. Nulla di male, ovviamente, in questo melting pot di culture musicali che può anche risultare gradevole; resta il fatto che nell’odierna filmī music spesso non si trova traccia della cultura musicale indiana. E ancor più seri interrogativi sulla indianità della Global Bollywood suscita l’ormai quasi totale assenza di riferimenti al grande patrimonio della danza classica indiana, anche in questo caso con poche felici eccezioni: ricordiamo per esempio il raffinato esercizio stilistico in chiave postmoderna realizzato nel 2002 da Sanjay Leela Bhansali con Devdas, e i suoi sontuosi numeri di musica/danza – ric-chi di echi della tradizione - interpretati da Aishwarya Rai e Madhuri Dixit. Ma si tratta appunto di eccezioni.

Più in generale, un osservatore attento non può non avere una percezio-ne di perdita delle radici culturali indiane di fronte a tanti odierni prodot-ti bollywoodiani. Basta pensare ai numerosi e dimenticabili action movie ‘fracassoni’ prodotti oggi in India, i cui modelli, più che nel cinema statu-nitense sono da rintracciare nell’industria americana dei videogame.

Il confronto-scontro (principalmente sul piano economico) fra Bol-lywood e Hollywood è diventato un fenomeno centrale nel processo di globalizzazione in corso nel nuovo millennio. Tale concorrenza planetaria fra le due maggiori industrie cinematografiche mondiali - leggibile anche come competizione fra il soft power indiano e quello statunitense - è sinte-tizzabile e misurabile tramite quattro parametri.

Prima di esaminarli è opportuno però fare un inciso riguardante il no-stro Paese. L’Italia è, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, un Paese fortemente influenzato da modelli culturali statunitensi; è anche uno fra i pochi Paesi al mondo a non distribuire mai, nelle sale cinematografiche,

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film bollywoodiani, e quasi mai film indiani tout-court, con pochissime ec-cezioni per pellicole autoriali eredi del Middle Cinema come il recente The Lunchbox (2013, diretto da Ritesh Batra e interpretato da Irrfan Khan)39. In anni recenti la Rai-Tv ha trasmesso alcune serie di film di Bollywood, ma ha ritenuto opportuno farlo tagliando un elemento strutturale: i film infatti sono stati trasmessi deprivati di tutte le scene di musica/danza (e spesso non solo di quelle) con il risultato di snaturarli40. In tale condizio-ne, l’incolpevole pubblico italiano continua a ignorare la cinematografia di Bollywood e più in generale dell’India, e a sopravvalutare la diffusione e l’influenza di Hollywood nel mondo. Ma i dati raccolti nei quattro parame-tri sottostanti41 smentiscono questa nostra percezione. Esaminiamoli.

1) Numero di film prodotti. Con oltre mille film all’anno, Bollywood in questo campo supera Hollywood da oltre quarant’anni, per la precisio-ne dal 1974.

2) Numero di spettatori. Attualmente il cinema indiano nel suo complesso vende quattro miliardi di biglietti all’anno in tutto il mondo, mentre il cinema americano vende “solo” tre miliardi di biglietti all’anno. Il ci-nema indiano ha dunque un maggior numero di spettatori globali.

3) Numero di Paesi importatori. Oggi sono circa 70 le nazioni che impor-tano regolarmente cinema indiano, e altrettante quelle che importano regolarmente film americani. La competizione in questo campo risulta dunque, per ora, alla pari. Ma è diversa la distribuzione geografica: gli Usa esportano soprattutto nei Paesi occidentali e nei più ricchi Paesi asiatici e latinoamericani, mentre l’India esporta soprattutto nei Paesi del cosiddetto ‘Sud del mondo’ (Asia meridionale e sudorientale, Afri-ca, Medio Oriente, parte dell’America Latina) senza dimenticare però una buona esportazione in Gran Bretagna, Europa Orientale, Canada e alcuni Stati degli Usa a significativa presenza di emigrazione india-na. La diffusione di Bollywood nel “Sud del mondo” ha ovviamente a che fare anche con i valori che essa veicola. Prendiamo l’esempio del

39 Irrfan Khan, fra i più versatili attori indiani del momento, è stato ospite nel 2014 della quat-tordicesima edizione del River to River Florence Indian Film Festival, primo festival del mondo occidentale a essere regolarmente e interamente dedicato al cinema indiano: cfr. http://www.rivertoriver.it/it/ (accesso 04/06/2015). Un primato italiano che purtroppo non ha sortito conse-guenze pratiche: l’ottimo festival fiorentino permane, da 14 anni, l’unico punto di osservazione italiano sulle novità del cinema indiano, che continua a non essere distribuito in Italia. 40 Cfr. M. Restelli, Una rassegna di Bollywood su Rai 1. Ma perché la Rai massacra i film india-ni?, www.milleorienti.com, 12/07/2009; Id., Digital Bollywood, ultime novità, ibid., 26/07/2009; Id., Bollywood su Rai 1: un trionfo di ascolti, ibid., 19/07/2010. (Accessi 04/06/2015).41 Per i dati contenuti nei quattro parametri qui discussi cfr. D.K. Thussu, Communicating India’s Soft Power, pp. 131-139 e pp. 146-153; Id., The Globalization of Bollywood. The Hype and the Hope, in P. Kavoori – A. Punathambekar (edd.), Global Bollywood, pp. 97-113; R. Dwyer, Picture abhi baaki hai, p. 28; M. Restelli, Se dici cinema dici India, p. 137.

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mondo arabo-islamico. Il cinema indiano ha tradizionalmente sottoline-ato l’importanza di valori quali l’unità della famiglia e della comunità, contrapponendoli spesso all’individualismo e alla disarticolazione della società occidentale: ciò ha contribuito al successo di molti film bol-lywoodiani in un mondo poco incline ad atteggiamenti filo-occidentali quale è quello arabo-islamico. Non a caso il Medio Oriente rappresenta il 30% degli introiti dei film di Bollywood all’estero.

4) Incassi e potere economico. Solo in questo campo gli Usa sono molto più avanti dell’India, anche perché il cinema americano si rivolge a mercati ben più ricchi – quelli del Nord del mondo – di quelli cui si rivolge il cinema indiano. Per dare un’idea dei punti di forza e di de-bolezza dell’influenza americana: in Europa i film di Hollywood costi-tuiscono il 70-90% del mercato, in India appena il 5-10%. Hollywood resta molto più ricca di Bollwyood, anche perché in India il costo del biglietto di ingresso a un cinema è il più basso del mondo, e in Africa (ampio mercato per Bollywood) la situazione è analoga. A latere, c’è poi il tema della crescente attrattività dell’India nelle coproduzioni in-ternazionali: sono casi in cui lo scontro Bollywood-Hollywood si tradu-ce in cooperazione economica e, talvolta, nella presenza sullo schermo di attori sia americani sia indiani. Le coproduzioni costituiscono un fe-nomeno molto in ascesa. L’India è infatti l’unico grande Paese oltre agli Usa in cui la maggioranza degli incassi cinematografici derivi da film di produzione nazionale (nel caso dell’India circa l’80%). E’ naturale che la vastità del mercato indiano abbia attirato giganti di Hollywood come Columbia Tristar (Sony Pictures), Disney Pictures, Warner Brothers, Fox Star Studios, Dreamworks, portandoli a concludere, dai primi anni del nuovo millennio, accordi di coproduzione e distribuzione con gi-ganti indiani quali la Yash Raj Film di Yash Chopra o la Reliance di Anil Ambani. In ciò agevolati dal riavvicinamento geopolitico fra India e Usa avvenuto in anni recenti.

Da quanto sopra esposto risultano evidenti non solo la performatività eco-nomica dell’industria cinematografica indiana (derivante dalla sua capa-cità, acquisita negli anni Duemila, di ‘fare sistema’) bensì anche la capa-cità di Bollywood di realizzare una vera e propria conquista dei territori dell’immaginario collettivo dei popoli del Sud del mondo. Semplificando, potremmo dire che oggi Bollywood sta al Sud del mondo come Hollywood sta al Nord del mondo, non in una posizione di esclusività, naturalmente, bensì di egemonia, anche rispetto ad altri importanti centri produttivi del Sud del mondo come l’industria cinematografica nigeriana.

A margine, va ricordato che la crescente delocalizzazione delle pro-duzioni cinematografiche indiane ha prodotto un importante fenomeno di cineturismo indiano in vari continenti compresa l’Europa, nella quale

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spiccano come mete d’elezione per i film (e poi dei turisti) indiani la Gran Bretagna e la Svizzera, quest’ultima apprezzata per le location alpine che rimandano alla catena himalayana. L’Italia, non avendo una politica turi-stica unitaria, non ha saputo “fare sistema”, demandando alle singole re-gioni l’autopromozione, volta ad attirare troupe cinematografiche indiane nel proprio territorio42. Nonostante ciò, sono ormai numerose le città ita-liane in cui sono stati girati film indiani43, con notevoli ricadute in campo turistico. È sperabile che il nostro Paese sappia promuovere questo aspetto non marginale dei rapporti economici con l’India e la sua industria cine-matografica.

4. Qualche breve conclusione sui paradossi della globalizzazione in india

Tramontato il “secolo americano”, con il termine ‘globalizzazione’ non si deve più intendere una semplice americanizzazione del mondo44. Il vec-chio modello di diffusione culturale e valoriale dal ‘centro’ alla ‘periferia del mondo’ – ovvero dagli Usa a quelli un tempo noti come Paesi in via di sviluppo – è da considerarsi superato, data l’internazionalizzazione delle industrie culturali di Paesi come l’India (si pensi al citato esempio della musica bhangra) o la Cina (che com’è noto sta ampliando le proprie zone di influenza economico-culturale in Asia e in Africa).

Quello a cui stiamo assistendo è dunque un doppio fenomeno: A) na-scita di una globalizzazione industriale policentrica della produzione ci-nematografica e mediatica; B) sviluppo di una ibridazione culturale dei prodotti cinematografici e mediatici, un’ibridazione multidirezionale che ha ricadute sulla mutazione di valori e costumi.

L’internazionalizzazione sistemica del cinema indiano si colloca in questo quadro di ibridazione culturale, un processo che coinvolge non cer-to solo l’India, tanto che in varie aree del mondo si parla ormai di Crosso-

42 Cfr. M. Cucco – M. Scaglioni, Shooting Bollywood abroad. The outsourcing of Indian films in Italy, «Journal of Italian Cinema and Media Studies», II, 3, 2014, pp. 417-432. Sul caso esem-plare delle Alpi svizzere come set cinematografico indiano si veda M. Ribetti – R.L. Sandhu, India. montagne di film. Appunti di cinema popolare. Torino, Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi, 1999.43 Qui di seguito un elenco (necessariamente incompleto, perché la situazione è in progress) delle città italiane in cui sono stati girati film indiani. In ordine alfabetico: Alberobello, Aosta, Bassano del Grappa, Bellagio, Canazei, Capri, Catania, Certaldo, Como, Cervinia, Cortina d’Ampez-zo, Courmayeur, Genova, Introbio, La Spezia, La Thuile, Livorno, Lucca, Milano, Monteca-tini, Monteriggioni, Monterosso, Napoli, Novara, Pisa, Riomaggiore, Roma, Siena, Taormina, Torino,Venezia, Verona, Vicenza, Viareggio, Vieste, Vigevano, Volterra.44 Si veda anche quanto scrive Ashish Rajadhyaksha nella nota 4 del presente lavoro.

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ver Cinema45. Un processo globale irreversibile, ma certo– come abbiamo già sottolineato - non esente da paradossi e rischi.

Un paradosso riguarda proprio l’attuale successo della Shining India nel suo complesso: più la società indiana corre a braccia aperte verso la globalizzazione, più questa apertura al mondo produce, in campo socio-politico, ondate di nazionalismo. Inoltre, più il Paese si allontana dalle proprie radici culturali e religiose più si richiama ad esse con stentorea formalità, ovviamente con particolare attenzione all’induismo.

Il cinema riflette sempre il contesto politico-culturale e il modello di indianità per Bollywood è da tempo il maschio hindu di alta casta dell’In-dia settentrionale. Non è certo questa la sede per addentrarsi nella politica indiana ma è cosa nota che l’affermarsi di formazioni politiche integraliste hindu e la reductio dell’induismo da dharma a hindutva46 stanno provocan-do persecuzioni sia di minoranze religiose sia di chi realizzi opere cultu-ralmente sgradite ai sostenitori dell’ideologia dell’hindutva. Si pensi agli attacchi – anche fisici –subìti dalla regista Deepa Mehta per i suoi film Fire e Water, accusati di vilipendere l’induismo e i valori morali della famiglia indiana; venendo all’oggi, si pensi alle minacce ricevute alla fine del 2014 da attori cristiani di Bollywood accusati di «propaganda del cristianesi-mo e delle conversioni»47, ma anche alle feroci polemiche sviluppatesi nel 2015 intorno al film PK di Rajkumar Hirani. Peraltro, il fatto che tale film abbia riscosso un enorme successo sia in India sia fra i NRI sia nei mercati esteri (esempio, per una volta, di globalizzazione dell’intelligenza) lascia comunque ben sperare sugli anticorpi circolanti nella società indiana con-tro il virus dell’intolleranza.

Un altro paradosso può essere racchiuso in questa domanda:il successo economico su scala planetaria di Bollywood sta avvenendo a spese del suo patrimonio culturale? Abbiamo visto come nel secolo scorso, prima

45 Cfr. S. Khorana (ed.): Crossover Cinema. Cross-Cultural Film from Production to Reception, New York, Routledge Advances in Film Studies, 2013, che prende in esame anche altri scenari produttivi, dall’Iran a Hong Kong. Si veda anche lo studio precursore di A. Appadurai, Modernity at Large. Cul-tural Dimensions of Globalization, Delhi, University of Minnesota Press, 1996.46 Una stimolante riflessione sul tema è il film Dharm di Bhavna Talwar che nel 2007 fu candi-dato dall’India all’Oscar come miglior film straniero. Essendo cambiato il clima politico in India è lecito chiedersi se oggi il film riceverebbe analogo plauso dal governo. Sulle rappresentazioni delle religioni nel mainstream bollywoodiano (esclusi dunque film come quello citato di Talwar) si veda R. Dwyer, Picture abhi baaki hai, pp. 116-150; Id., Filming the Gods. Religion and Indian Cinema, London, Routledge, 2006.47 Cfr. J. Malhotra, VHP Threatens Actors Nagma, Johnny Lever for Propagating Christianity, «Christian Today», 14/12/2014 (http://www.christiantoday.co.in/, accesso 05/05/2015). Due anni pri-ma, nel 2012, i vescovi indiani avevano protestato contro un film bollywoodiano che irrideva i cristiani e la figura stessa di Cristo, senza che nessuno a Bollywood esprimesse una condanna al riguardo. Va anche registrato però che nello stesso anno venne trasmesso in Tv per la prima volta uno sceneggiato a puntate in lingua hindi su Cristo ambientato in India, Christaayan, diretto da p. Geo George e accolto con molto favore dalle comunità cristiane indiane (cfr. N. Carvalho, India, presentato il primo film su Gesù in salsa Bollywood, «Asia News», http://www.asianews.it/, 12/12/2012. Accesso 30/05/2015).

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dell’inizio del processo di globalizzazione, sia stata proprio l’indianità dei film bollywoodiani – le loro radici nelle tradizioni indiane, il loro peculiare linguaggio cinematografico - a limitarne la penetrazione nei mercati occi-dentali. Oggi i prodotti della Global Bollywood sono ben diversi e come tali vengono accolti. Il che non implica, in questi film, un depauperamento in sè, ma rivela un profondo cambio di modelli culturali.

Volentieri registriamo che alcuni film della Global Bollywood veico-lano talvolta messaggi di alto valore sociale e civile – si pensi a un titolo come Taare Zameen Par (Stelle sulla terra, regia di Aamir Khan, 2007), dedicato alla lotta alla disgrafia infantile e ai disturbi dell’apprendimento in età scolastica; un ottimo film il cui messaggio ha, appunto, un valore che trascende ogni confine nazionale. Ma va pure registrato un altro fatto: nel coro trionfalistico che circonda Bollywood si alzano anche voci dissonan-ti, che si chiedono – a torto o a ragione - quanto rimarranno indiani i film indiani del futuro48.

Uno dei maggiori successi degli anni Cinquanta del secolo scorso – Golden Age del cinema indiano – fu il già citato film Shri 420 (Mr. 420), diretto e interpretato da Raj Kapoor. Il suo protagonista, l’allegro vaga-bondo Raju, cantava una canzone la cui fama ha oltrepassato il tempo, e il cui ritornello diceva così: «Le mie scarpe sono giapponesi/questi pantaloni sono inglesi/sulla mia testa c’è un rosso cappello russo/tuttavia il mio cuo-re è indiano»49.

Il nostro augurio è questo: che il suo cuore resti indiano.

48 «Seeing the trends and practices, the present era of Bollywood has become the era of glamour, sex, kiss and action. Glamour plays a huge parte in an heroines’s career. Sex is not a taboo now-adays. How long and far will this go in India no one can tell, but certainly a day will come when the entire Hollywood culture will prevail upon Indian culture (…). And what of Indian culture? Maybe, it will die a slow death giving way to Western culture, but where will the Western culture go then? Will it become more decadent or will it go back to its roots? Let the coming generation ponder over this question». D. Ramesh, Bollywood. Yesterday, Today, Tomorrow, New Delhi, Star Publications, 2007, p. 14.49 मेरा जूता है जापानी/ये पतलून इंगलिश्तानी/ सर पे लाल टोपी रूसी/फिर भी दिल है हिन्दुस्तानी.