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RASSEGNA STAMPA di martedì 11 luglio 2017 SOMMARIO «Mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore»: lo ha raccomandato il Papa all’Angelus di domenica scorsa. Ecco le sue parole: “Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Il Signore non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente, incertezze e preoccupazioni per il futuro. Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con sé stessi, rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili” e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” - “Chi?” - “Tu, tu, tu...”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero. Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto... È un gran bene fare questo, ma non dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate... Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”. Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero, perché Lui è il ristoro che cerchiamo. Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove, nelle sofferenze. Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, e personale; familiarizziamo con la sua Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui. È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me [...] e troverete ristoro per la vostra vita». E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore. Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci accompagna da Gesù” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per trovare il ristoro vero nel Signore

Rassegna stampa 11 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie

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RASSEGNA STAMPA di martedì 11 luglio 2017

SOMMARIO

«Mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore»: lo ha raccomandato il Papa

all’Angelus di domenica scorsa. Ecco le sue parole: “Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Il Signore

non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il

Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente,

incertezze e preoccupazioni per il futuro. Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con sé stessi,

rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta

esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili”

e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” - “Chi?” - “Tu, tu, tu...”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero.

Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno

divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso

della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto... È un gran bene fare questo, ma non

dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate... Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a

ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”. Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per

risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta

con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero, perché Lui è il ristoro che cerchiamo. Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove,

nelle sofferenze. Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, e personale; familiarizziamo con la sua

Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui. È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me [...] e

troverete ristoro per la vostra vita». E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non

dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore. Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci

accompagna da Gesù” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per trovare il ristoro vero nel Signore

All’Angelus il Pontefice parla del riposo estivo AVVENIRE Pag 18 Dal Cin: accogliere con semplicità e fede di Francesco Dal Mas A Vittorio Veneto la consacrazione episcopale dell’arcivescovo prelato di Loreto e delegato per Sant’Antonio a Padova Pag 19 “Summorum Pontificum”, i dieci anni del motu proprio di Andrea Galli IL GIORNALE Casa Bergoglio. Vita quotidiana del Papa di Serena Sartini Mangia quello che offre la mensa, si fa la barba da solo e acquista l'abito talare su internet. Ecco cosa accade dietro le mura vaticane IL FOGLIO Pag 1 “La crisi è gravissima, l’Occidente marcia verso l’eutanasia dei suoi valori fondanti”. Intervista al cardinale Robert Sarah di Matteo Matzuzzi Pag 4 Ecco perché Bergoglio non intende mettere piede nella sua Argentina di Loris Zanatta VATICAN INSIDER Le nomine a Roma e Milano, l’indicazione di un metodo di Andrea Tornielli In poco più di un mese Francesco ha ufficializzato due nomine destinate a pesare sul futuro della Chiesa italiana: il nuovo vicario della capitale e l’arcivescovo della metropoli lombarda. Pensando innanzitutto alle necessità delle diocesi 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Più donne al lavoro, in dieci anni casalinghe calate di mezzo milione di Alessandra Arachi Sono 7,3 milioni. Il 9% vive in povertà assoluta LA REPUBBLICA La fine dei centri commerciali di Federico Rampini e Filippo Santelli Il simbolo degli Stati Uniti sconfitto dall'e-commerce. E le città cambiano faccia. Chiese, medici e concerti: i "mall" italiani resistono andando oltre lo shopping AVVENIRE Pag 3 Casalinghe addio (ma il nuovo stenta) di Luciano Moia Dati che fanno riflettere e una doppia sfida Pag 5 “Svalutato il ruolo di padre e madre” di Silvia Guzzetti Nei Paesi anglosassoni lo Stato è sempre più “invasivo” di fronte a scelte vitali Pag 21 Il declino delle casalinghe di Cinzia Arena Diminuite di mezzo milione in dieci anni. Cresce l’età media. E aumenta il rischio povertà soprattutto tra quelle più giovani IL GAZZETTINO Pag 20 Le ragioni della scomparsa delle casalinghe di Maria Latella 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Pianeta Venezia di Elena Tebano Negozi, visitatori, crocieristi, stanze in affitto. Tutti i numeri di una città che sta cambiando (per ogni residente ci sono 4 turisti al giorno)

LA NUOVA Pag 19 E’ nato Marco, potrà chiamarsi Angela di Roberta De Rossi La Corte d’Appello ha concesso il cambio del nome anche se non si è ancora sottoposto all’intervento per il cambio di sesso Pag 31 La chimica della gloria e della decadenza di Gianfranco Bettin L’abbattimento delle torri della Vinyls. Immaginare di salire un’ultima volta sulle torce significa contemplare il vuoto ma anche interrogarsi sul futuro dell’area Pag 37 Porto Santa Margherita pronta alla “secessione” da Caorle di Giovanni Cagnassi I residenti e i proprietari di seconde case vogliono un referendum per passare con Torre di Mosto 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Smartphone indispensabile: “Non potrei più vivere senza” di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Veneto, Friuli e Trentino: in tre anni la diffusione è cresciuta del 22%. Ne possiede uno il 64% degli over 14. Legrenzi: “Ma ci tolgono la noia che abitua a pensare” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Uno scatto per battere le lobby di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Le liberalizzazioni Pag 1 Il casting di Berlusconi di Francesco Verderami Marina: non credo a dinastie politiche Pag 10 I genitori di Charlie e il grido in tribunale: se fosse vostro figlio non fareste di tutto? di Luigi Ippolito Il giudice: “Avete 48 ore per convincermi che la terapia alternativa può aiutare il piccolo” Pag 26 Il conformismo di sinistra su Islam, immigrati e reati di Giovanni Belardelli AVVENIRE Pag 1 Tre anni dopo di Leonardo Becchetti Sfida sulle regole economiche Ue Pag 2 La spiaggia “nera” e altre smemoratezze di Davide Parozzi Conoscere e far conoscere la tragedia del fascismo Pag 3 La battaglia finale di Mosul: una liberazione a caro prezzo di Laura Silvia Battaglia Tra i combattenti che hanno sconfitto il Daesh. Vittime civili, vendette, distruzione in una città fantasma IL GAZZETTINO Pag 1 Quel trattato che ha strangolato l’economia di Giulio Sapelli LA NUOVA Pag 1 M5S, Lega e voglia di fascismo di Massimiliano Panarari

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3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per trovare il ristoro vero nel Signore All’Angelus il Pontefice parla del riposo estivo «Mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore»: lo ha raccomandato il Papa all’Angelus del 9 luglio. Commentando come di consueto il vangelo domenicale, Francesco si è soffermato sull’invito di Gesù a non familiarizzare con la tristezza. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11, 28). Il Signore non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente, incertezze e preoccupazioni per il futuro. Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con sé stessi, rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili” e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” - “Chi?” - “Tu, tu, tu...”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero. Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto... È un gran bene fare questo, ma non dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate... Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”. Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero (cfr. v. 30), perché Lui è il ristoro che cerchiamo. Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove, nelle sofferenze. Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, e personale; familiarizziamo con la sua Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui. È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me [...] e troverete ristoro per la vostra vita» (v. 29). E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore. Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci accompagna da Gesù. Al termine della preghiera mariana il Papa ha salutato i vari gruppi di pellegrini presenti numerosi in piazza San Pietro nonostante il gran caldo.

Cari fratelli e sorelle, saluto cordialmente tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di vari Paesi. Siete coraggiosi voi, con questo sole, con questo caldo, in piazza. Bravi! In particolare, saluto i fedeli polacchi venuti in bicicletta da Chełm, arcidiocesi di Lublino (Polonia), con un ricordo anche per il grande pellegrinaggio che oggi la Famiglia polacca di Radio Maria compie al Santuario di Częstochowa. Accompagniamo questo pellegrinaggio del popolo polacco tutti insieme con un’Ave Maria. [Ave Maria...] Accolgo con gioia le Suore Ancelle della Beata Vergine Immacolata e benedico i lavori del loro Capitolo Generale, che inizia oggi; come pure i sacerdoti di diversi Paesi partecipanti al corso per formatori di seminario organizzato dall’Istituto Sacerdos di Roma. Un saluto speciale ai ragazzi del Coro “Puzangalan” - che significa “speranza” - di Taiwan. Grazie per il vostro canto! E anche al Coro Alpino di Palazzolo sull’Oglio; e ai fedeli di Conversano. Auguro a tutti voi una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! AVVENIRE Pag 18 Dal Cin: accogliere con semplicità e fede di Francesco Dal Mas A Vittorio Veneto la consacrazione episcopale dell’arcivescovo prelato di Loreto e delegato per Sant’Antonio a Padova «Vengo a voi in debolezza e trepidazione ma fiducioso nella potenza dello Spirito. Vi chiedo il favore di pregare per me e di accogliermi in semplicità, con fede e con il cuore. Voi lo siete già nel mio». Così Fabio Dal Cin, arcivescovo prelato di Loreto e delegato pontificio per il Santuario di Loreto e la basilica di Sant’Antonio a Padova, si è rivolto ai numerosi pellegrini di Loreto e di Sant’Antonio da Padova che domenica pomeriggio hanno partecipato alla consacrazione episcopale del loro nuovo vescovo, in Cattedrale a Vittorio Veneto. Cinquantadue anni, nato a Sarmede in provincia di Treviso, “don Fabio”, come ama farsi chiamare, ha svolto servizio negli ultimi 10 anni come officiale presso la Congregazione per vescovi in Vaticano. A consacrarlo è stato il cardinale prefetto Marc Ouellet con il vescovo di Vittorio Veneto, Corrado Pizziolo, e Giovanni Tonucci, arcivescovo emerito di Loreto. Concelebranti i cardinali Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero, ed Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo, con una ventina di vescovi e un centinaio di sacerdoti. Nei primi banchi, di un Duomo affollato, anche i genitori di Dal Cin, le sorelle, i numerosi amici, a testimonianza di una comunità, quella vittoriese, dalle radici di fede profonde ed espressione di una Chiesa di popolo. Il vescovo – ha subito chiarito Ouellet – è colui che vede lontano e che veglia sul popolo del Signore: «Dico che veglia – ha tenuto a precisare – e non solo che sorveglia l’ordine e la disciplina, ma che veglia sulla vita e la felicità del popolo di Dio, intuendo e partecipando intimamente alle sue difficoltà e sofferenze». Un vescovo – ha ancora Ouellet – deve vegliare come un padre premuroso e come una madre amorevole, che ascolta il suo bambino e indovina i suoi problemi. Preti e vescovi restano poveri peccatori, come tutti, ma nell’esercizio del loro ministero – ha sottolineato il cardinale – sono anche i primi ad essere consapevoli della immeritata misericordia divina nei loro confronti. Umiltà, semplicità, misericordia: è stato questo il vocabolario più sfogliato nella solenne celebrazione di domenica, con precisi riferimenti ad alcuni modelli come papa Luciani e sant’Antonio di Padova. Papa Francesco ha voluto l’arcivescovo Dal Cin alla guida di due tra i più popolari santuari italiani. «In questi luoghi privilegiati dalla grazia, tutti quanti abbisognano di essere ascoltati e soccorsi, con bontà e misericordia – ha specificato Ouellet –, con la saggezza del giusto discernimento spirituale e pastorale, per essere assolti e riempiti della vita nuova nello Spirito del Signore. Che la sua testimonianza – così il cardinale si è rivolto all’arcivescovo – sia discreta ed autentica, sulla scia di Albino Luciani, di sant’Antonio da Padova e soprattutto in intima comunione con la Vergine Madre, Maria di Nazareth». Dal Cin ha annunciato che sarà a Loreto il 2 settembre e a Padova il 22 ottobre. Ha ammesso, ancora una volta, la sua sorpresa per la responsabilità ricevuta. «Perché proprio me? Risponderebbe papa Luciani: perché è l’antico sistema di Dio che non disdegna di operare con strumenti difettosi e così ci fa capire che se qualche cosa mai di buono salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro che è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore». Insomma, ha evidenziato, «niente di tutto ciò che ho ricevuto e sto vivendo è merito mio, ma puro dono di Dio e a Dio va tutta la mia riconoscenza per la sua infinita misericordia».

Pag 19 “Summorum Pontificum”, i dieci anni del motu proprio di Andrea Galli «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». È uno dei passaggi più noti della lettera con cui Benedetto XVI spiegò all’episcopato mondiale il motu proprio Summorum Pontificum, che "liberalizzava" la celebrazione della Messa secondo il messale promulgato da san Pio V e riedito da san Giovanni XXIII nel 1962. Ovvero la Messa in “rito antico”, a cui Benedetto XVI dava il nome di «forma straordinaria» del rito romano. Fu uno degli atti più significativi e discussi del pontificato di Ratzinger, che, tra le altre cose, si poneva come sigillo su un aspetto del suo magistero, la lettura del Concilio Vaticano II secondo una «ermeneutica della riforma», del «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato», contrapposta a una «ermeneutica della rottura o della discontinuità». Motu proprio e lettera ai vescovi uscivano il 7 luglio del 2007. Dieci anni dopo, cosa si può dire dell’applicazione di Summorum pontificum? «Il bilancio è positivo», spiega l’arcivescovo Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, «molte difficoltà e resistenze degli inizi sono con il tempo venute meno, anche se non del tutto. I timori che la forma straordinaria avrebbe soppiantato la forma ordinaria si sono rivelati infondati. Là dove Summorum pontificum è stato affrontato senza ideologie, da una parte e dall’altra, si sono visti piuttosto quei frutti di rinnovamento liturgico, del senso e dello splendore della liturgia, a cui pensava Benedetto XVI». Sulla diffusione della forma straordinaria, secondo Pozzo, vanno segnalate due aree in particolare. «Negli Stati Uniti e in Francia c’è stata la crescita maggiore. In Francia praticamente ogni diocesi ha oggi un luogo in cui viene celebrata regolarmente la Messa nella forma straordinaria. Ma si registra una domanda crescente anche nell’Europa dell’Est e nell’estremo Oriente». E in Italia? «L’accoglienza è stata discreta, sicuramente più al Nord che al Sud. Anche se è significativo che a Napoli da alcuni mesi il cardinale Crescenzio Sepe abbia affidato all’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote una rettoria dove si celebra in forma stabile nella forma straordinaria. Un problema che spesso si riscontra in Italia, soprattutto in diocesi piccole, è la difficoltà a trovare un sacerdote formato che sia in grado di celebrare nella forma straordinaria. Spesso c’è una richiesta da parte di un gruppo di fedeli ma manca il sacerdote». Tra i frutti non sono mancati anche quelli ecumenici. Monsignor Francesco Braschi, 50 anni, sacerdote dell’arcidiocesi di Milano, direttore della classe di slavistica della Biblioteca ambrosiana e presidente dell’associazione “Russia Cristiana”, è fra gli incaricati a celebrare in rito ambrosiano “antico” per la comunità milanese che si ritrova la domenica mattina presso la chiesa di Santa Maria della Consolazione. «Prima del marzo dell’anno scorso non avevo mai celebrato nella forma straordinaria – racconta – mentre già dal 2012 avevo la facoltà di celebrare in rito bizantino. Questo incarico è stato un dono: da un lato mi ha permesso di conoscere meglio le radici del rito ambrosiano in cui sono diventato sacerdote. Nello stesso tempo la forma straordinaria mi ha aiutato a riconoscere vicinanze e consonanze con il rito bizantino. Anche un fedele “bizantino” che entrasse in una chiesa in cui si celebra il rito ambrosiano nella forma straordinaria si sentirebbe molto a suo agio nel riconoscere non solo alcuni elementi rituali, ma anche una modalità di accostarsi alla celebrazione che è “sua”, modalità che coniuga il rispetto per la maestà divina con lo stupore per il fatto che essa si è fatta vicina alla nostra umanità attraverso l’Incarnazione». «Nel caso del rito ambrosiano – aggiunge monsignor Braschi – siamo di fronte a una ricchezza e un’antichità in un certo senso uniche nella capacità di coniugare elementi orientali ed occidentali. Celebrare nella forma straordinaria è mantenere vivo un patrimonio senza il quale alla Chiesa mancherebbe un pezzo di storia, fatto anche di relazioni positive tra Oriente e Occidente di cui oggi abbiamo assoluto bisogno, anche per il dialogo ecumenico». IL GIORNALE Casa Bergoglio. Vita quotidiana del Papa di Serena Sartini Mangia quello che offre la mensa, si fa la barba da solo e acquista l'abito talare su

internet. Ecco cosa accade dietro le mura vaticane

Non ama guardare la televisione, l'ultimo film visto è stato «La vita è bella»; non ha un pane preferito («Mangia quello che c'è», dice il suo fornaio); la sua bevanda è il mate argentino, mentre non ama troppo i dolci. I suoi abiti? Semplici, senza troppi fronzoli e bianchi («Ha eliminato tutte le componenti rosse», racconta il sarto). Semplici come i suoi occhiali, una montatura color canna di fucile, asticelle nere. La semplicità, la riservatezza, la sobrietà: Papa Francesco è così come lo vediamo pubblicamente anche nella sua vita privata, quella di tutti i giorni, quella tra le mura scarne di un monolocale di 50 metri quadrati che utilizza come appartamento papale, quella di un pranzo nel refettorio a casa Santa Marta in mezzo alla gente, senza un posto predefinito. Il Bergoglio style è raccontato dalle persone che tutti i giorni lavorano con lui, con il suo staff, con il suo panetterie, o il gelatiere (non gelataio ci tiene a precisare) di sua fiducia; o il suo sarto, fino al suo angelo custode, il capo scorta. Tutti ne esaltano (...) (...) l'umiltà e l'affetto di un Papa «venuto dalla fine del mondo». Le giornate di Bergoglio sono scandite dalla lettura, dalla preghiera e dall'adorazione, dal lavoro fatto di udienze, incontri, colloqui. Senza troppi aiuti. Francesco, infatti, non ha una perpetua: si veste da solo, si fa la barba personalmente, porta da solo le valigie quando viaggia, va a comprarsi le scarpe o a rifarsi gli occhiali da solo. Non delega, non invia nessuno al suo posto. Gestisce la sua vita proprio come fosse ancora padre Jorge, come ama farsi chiamare dai suoi amici. La sveglia La giornata tipo di Papa Bergoglio è lunga e intensa e inizia all'alba. La sveglia è puntata alle 4.45. Si fa la barba da solo perché «è una cosa personale», come racconta il suo ex barbiere, Luigi Sasso (che ha una bottega in via dei Coronari e tra i suoi clienti annovera Alessandro Gassmann). «I capelli invece glieli tagliavo semplici, corti, con la sfumatura dietro e sulle orecchie. E poi, i capelli corti ringiovaniscono e il Papa deve essere sempre giovane! Quando lo vedo in tv capisco subito se è il momento di andare dal barbiere». Da quando è diventato Papa, ne ha uno a casa Santa Marta, di cui nessuno conosce l' identità. «Io posso dire di aver tagliato i capelli al Papa - dice scherzando Luigi Sasso - il barbiere di ora non può nemmeno dirlo». La messa Dopo la preghiera e la meditazione di un'ora e mezza, alle 7 c'è la messa nella cappella di Santa Marta che presiede ogni giorno alla presenza di un gruppo ristretto di fedeli, circa un centinaio, che poi Bergoglio saluta uno ad uno al termine della celebrazione, soffermandosi con ciascuno alcuni minuti. La liturgia, ovvero tutto ciò che riguarda la preparazione della messa, dall' altare alle letture, è affidata a mons. Piero Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche, persona di fiducia per il Pontefice, presenza discreta, riservata e schiva, che difficilmente conversa con i giornalisti. Gli suggerisce alcuni momenti della liturgia, spesso gli offre il braccio o l'aiuta ad alzarsi dopo essersi inginocchiato. Gli abiti E come è l'abito liturgico di Bergoglio? Ce lo racconta il sarto, Lorenzo Gammarelli, della storica sartoria che veste i Pontefici da Pio XI. «Una volta avevamo il titolo ufficiale di sarto del Papa, abolito poi con la riforma della Curia del Concilio Vaticano II. Siamo estremamente orgogliosi e contenti di poter servire il Santo Padre. Nel momento in cui viene convocato il Conclave - dice - riceviamo l'ordine di preparare tre set di vesti perché non si sa quale taglia indosserà il futuro Papa. E dal momento dell'elezione, realizziamo quasi tutto ciò che indossa il Papa da quel momento in poi». L'atelier Gammarelli realizza gli abiti che indossa anche Benedetto XVI. Ma con Francesco, raccontano, c' è stata una semplificazione nelle vesti, in linea con il suo stile. «Papa Francesco ha rinunciato a tutte quelle che sono le componenti rosse dell'abito tradizionale del Santo Padre, ovvero la mozzetta, le scarpe, la stola pastorale. Preferisce vestire tutto di bianco. È un abito semplice e senza troppi fronzoli». Addirittura, per abbattere i costi, sembrerebbe perfino che Bergoglio abbia fatto acquistare recentemente una talare su Internet. Lo shopping Il Pontefice, come detto, ama organizzare la vita quotidiana come una persona qualunque. Accade anche con gli acquisti. Ha lasciato sorpresi, ad esempio, il suo blitz a Roma per sistemare gli occhiali che indossa tutti i giorni (sobri come il resto). «Dovevamo andare noi in Vaticano, invece è voluto venire lui, personalmente, nel nostro negozio racconta Alessandro Spiezia, diventato ormai famoso e conosciuto come l'ottico del Papa. Bergoglio ha tirato fuori dalla tasca un paio di occhiali sgangherati, gli stessi che indossa da tanti anni, utilizzati anche la sera dell'elezione in Conclave. Gli ho detto: Santità, posso sostituirle le lenti e aggiustare le asticelle, così risparmiamo un po'. Lui ha sorriso e ogni volta che lo vedo in

televisione riconosco quella montatura: occhiali a giorno, semplici, in acciaio color canna di fucile senza tanti orpelli, asticelle nere. Ci tiene a quell'occhiale». Tra i suoi clienti, oltre a Bergoglio, Spiezia annovera personaggi del calibro di Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica e persino Bill Clinton. «Quando mi chiamarono per dirmi che il Papa sarebbe venuto in negozio racconta ancora con un pizzico di emozione mi sono meravigliato, ma mi hanno spiegato che aveva risposto: Non deve venire lui, gli occhiali si vanno a fare dall'ottico. Oggi tantissimi turisti argentini arrivano nel negozio di Spiezia, in via del Babuino, una bottega di otto metri quadrati, per farsi una foto nella sedia dove il loro Papa si è fatto misurare la vista». Le udienze Al termine della messa, inizia la giornata di lavoro di Papa Francesco segnata da udienze, incontri e visite. In mattinata si alternano infatti i gruppi che partecipano a convegni e che si recano in Vaticano per incontrare il Pontefice; ci sono poi le visite dei capi di Stato, primi ministri e politici, e le udienze a vescovi e cardinali di tutto il mondo. Il martedì, generalmente, è la giornata di riposo per Bergoglio, che prepara i discorsi e le catechesi per l'udienza del mercoledì che si svolge in piazza San Pietro durante la primavera e il periodo estivo, e nell'Aula Nervi durante il periodo invernale. Il sabato, in genere, ci sono le udienze ai capi dicastero o al presidente della conferenza episcopale italiana alla vigilia dell'assemblea generale e del consiglio permanente. La domenica, come è tradizione, c'è la recita dell'Angelus dalla finestra che affaccia su San Pietro (Regina Caeli durante il periodo pasquale, cioè dalla domenica di Pasqua fino al giorno di Pentecoste). La mattina è anche il momento in cui il Papa firma le nomine dei nuovi vescovi, prepara i discorsi per le udienze e i viaggi. Il pranzo Si arriva poi al momento del pranzo, un tempo che piace molto al Papa perché ha l'occasione di stare in compagnia e di ascoltare e chiacchierare con gli ospiti di casa Santa Marta, vescovi e cardinali, dipendenti e spesso con i suoi amici speciali, ovvero i clochard che vengono invitati alla mensa in Vaticano. Mangia nel refettorio, insieme a tutti gli altri, non ha un tavolo suo e se il servizio è self-service fa la fila per riempirsi il piatto personalmente. Il pane preferito da Bergoglio? «Per restare nel suo stile di semplicità, il Papa non ha una preferenza racconta il fornaio Angelo Arrigoni mangia quello che c'è, un pane comune, come rosette e ciriole romane. Eravamo pronti a fare il pane che fanno in Argentina prosegue Arrigoni - ma lui non vuole niente per sé, mangia quello che c'è». Quella di Angelo è una delle botteghe storiche di Borgo Pio, a pochi passi da Porta Sant' Anna. Prepara il pane per i Pontefici fin da quando sul soglio petrino c'era Pio XI. Sulla tavola del Papa, a casa Santa Marta, finiscono anche i dolci e i gelati della gelateria «Hedera», a Borgo Pio, gestita da Francesco Ceravola, che si definisce «gelatiere e non gelataio, perché prendo una sostanza e la trasformo in gelato». In questo locale, aperto quattro anni fa, sono state realizzate le torte di compleanno regalate al Papa da quando è stato eletto. «L'ultima, quella per gli 80 anni, è stata decorata con la raffigurazione delle mani dei bambini di Aleppo a circondare l'otto e lo zero racconta Ceravola con il mate, la bevanda preferita da Bergoglio. Ma ci rende particolarmente orgogliosi anche la torta ufficiale del Giubileo o quella dell'elezione al soglio, con lo stemma pontificio. Lavoriamo con i migliori prodotti al mondo, con zucchero di canna bio, utilizzando meno di 4 ingredienti per le frutte e 6 per le creme, togliamo additivi, coloranti e conservanti. La nostra specialità? È il gusto Edhera dice ovvero un gelato top secret, che contiene 11 elementi, con una ricetta segreta». Il lavoro Dopo essersi riposato un'oretta dopo pranzo, il Papa riprende il suo normale lavoro fatto di udienze, incontri, studio di dossier e preparazione di discorsi e messaggi. Non mancano le telefonate a parenti, tra i quali la sorella Maria Elena, e i nipoti, uno dei quali è sacerdote, oltre che agli amici. Ad aiutarlo nel lavoro di routine sono i due segretari personali, l'argentino Fabián Pedacchio Leániz, e Yoannis Lahzi Gaid, sacerdote egiziano, di rito copto, appartenente al servizio diplomatico vaticano, oltre ai due maggiordomi, l'aiutante di camera Sandro Mariotti (detto Sandrone per la sua statura di un metro e novanta) e Piergiorgio Zanetti. Sono i due angeli custodi di Papa Francesco, le persone più vicine a Bergoglio, che lo aiutano in tutte le necessità quotidiane. Un lavoro discreto ma prezioso. E Sandrone, che è arrivato dopo Paolo Gabriele, il «corvo» vaticano, il maggiordomo di Benedetto XVI accusato di aver trafugato i documenti personali del Papa, non ha avuto di certo un'eredità facile. Il secondo aiutante di camera, Piergiorgio Zanetti, è un ex gendarme del Corpo della gendarmeria vaticana. Fattore non secondario: l'imprevedibilità del Papa, i suoi spostamenti continui e il

desiderio di essere sempre in mezzo alla gente, fanno sì che la sicurezza sia sempre chiamata a un occhio vigile. L'avere come maggiordomo un ex gendarme fa dormire a tutti sonni più tranquilli. A capo della gendarmeria, il numero uno della scorta del Papa, c'è l'aretino Domenico Giani, 54 anni, attento e discreto, non ama i riflettori mediatici. È lui che veglia giorno e notte sulla sicurezza del Papa. È lui che scorta la papamobile ogni mercoledì per l'udienza, è lui che organizza la sicurezza durante i viaggi in Italia e all'estero. La cena La cena alle 20, sempre a casa Santa Marta. E poi a letto presto. Il Papa non ama guardare la televisione (l'ultimo film visto è stato «La vita è bella» di Roberto Benigni) mentre tra le sue passioni c'è il calcio. Tifosissimo del San Lorenzo, la sua squadra del cuore in Argentina, di cui possiede la tessera, la numero 88.235. È per questo che ad ogni partita si informa sul risultato da una guardia svizzera, la stessa da quando è stato eletto. Cosa guadagnano i sacerdoti? Un semplice prete prende circa mille euro netti al mese, poi vengono i parroci (che non possono guadagnare più di 1.200 euro). I mensili dei sacerdoti e dei vescovi sono basati su una specie di punteggio che dipende dall'anzianità. I parroci con più esperienza arrivano fino a 1.200 euro al mese, mentre per i vescovi si arriva fino a 3.000 euro circa. Se un prete è anche insegnante di religione, l' istituto versa solo la quota che manca per raggiungere il tetto dall'anzianità. Più in alto si collocano gli arcivescovi capi di dicastero o di pontifici consigli con stipendi che variano dai 3.000 ai 5.000 euro. Più in alto ancora i cardinali, che in media guadagnano circa 5.000 euro. IL FOGLIO Pag 1 “La crisi è gravissima, l’Occidente marcia verso l’eutanasia dei suoi valori fondanti”. Intervista al cardinale Robert Sarah di Matteo Matzuzzi Roma. Parlare della necessità di riscoprire il silenzio, nel chiasso contemporaneo dominato dalla "dittatura del rumore", è impresa ostica. Ci ha provato, nel suo ultimo libro, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, uscito il 6 luglio presso Cantagalli, il cardinale Robert Sarah, prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. "Il nostro mondo non comprende più Dio perché parla continuamente", scrive il porporato guineano, che collega in più d'un passaggio la mancanza di silenzio alla crisi che sta sferzando come un vento impetuoso l'occidente. Una crisi che, dice Sarah al Foglio, "non si era mai verificata nella storia dell' umanità. Si è escluso Dio dalla vita dell'uomo e della società, l'uomo è diventato centro e fine di tutto. Si è perso di vista ciò che è evidente, la legge naturale che è profondamente legata alla morale e alla vita di fede. Queste negazioni della vita stessa si concretizzano nelle leggi approvate da diversi stati occidentali che negano il rispetto sacro della vita, della famiglia naturale, affermando di fatto un relativismo etico e imponendo in modo totalitario una morale completamente contraria alla realizzazione della persona umana. Con le leggi che non rispettano la sacralità della vita - prosegue Sarah -, della famiglia, del matrimonio, delle persone con un handicap, così come con la legalizzazione dell'aborto, dell'eutanasia, delle unioni omosessuali, l'occidente europeo (e non solo) sta marciando verso una generale eutanasia dei suoi valori fondanti che hanno per secoli illuminato il cammino dei popoli". Sono crollate tutte le evidenze, del senso religioso proprio dell'Europa d'un tempo è rimasto un ricordo sbiadito. Insomma, dice il cardinale nominato a soli 34 anni arcivescovo della capi tale del suo paese, Conakry, nel 1979, "non è esagerato affermare che l'occidente sta perpetrando un genocidio della sua popolazione". Ed è forse l'incapacità dell'uomo occidentale di ascoltare il Dio silenzioso che ha originato la crisi antropologica che sta caratterizzando la nostra società. Crisi che per Sarah "è gravissima; l'occidente non percepisce più né la dimensione contingente, pneumatologica, né la dimensione metafisica: la dimensione essenziale dell' essere umano che precede la componente percettibile ai sensi. L'uomo - prosegue - rimane oggi molto ancorato alle sue più basse aspettative di realizzazione, incapace di salire verso Dio, verso il trascendente, scambiando per emancipazione lo scollamento da ogni realtà spirituale. Staccato da ogni visione divina della vita, l'uomo occidentale sta morendo lentamente, perché non alimentato dal divino". Ed ecco che si torna al tema

centrale del libro, il silenzio come rifugio, àncora di salvezza ultima: "Se l'uomo è il tempio di Dio, la dimora più sacra di Dio è dunque vero che Dio è dentro di noi. Parlare continuamente impedisce all'uomo di entrare in se stesso e rimanendo in superficie è impossibilitato ad ascoltare le istanze più profonde del suo intimo e non entrando in comunicazione con se stesso si preclude la possibilità di capire e ascoltare l'altro e di percepire dentro di sé la presenza di Dio che parla il linguaggio silenzioso dello Spirito". Ma cosa significa ascoltare? "Vuol dire considerare attentamente il mio passato, il mio presente per intravedere il mio futuro. Una persona che nega la propria storia rimane senza punti di riferimento" dice Sarah: "E' come un albero senza radici che non ha dove attingere acqua per nutrirsi e perciò rimane secco, senza vita, senza un divenire perché staccato dalla sorgente della vita, staccato da Dio". Dopotutto, prosegue Robert Sarah conversando con il Foglio, "il lamento di Dio contro il popolo d' Israele è sempre attuale: 'Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l'acqua'. L'uomo - osserva il cardinale - oggi vive proprio così, senza un futuro, pieno di angoscia, di paura e sempre inquieto senza conoscere ciò che dice sant' Agostino, tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te". E però è difficile, anche per l'uomo di fede, a volte, dare una risposta al silenzio di Dio. Elie Wiesel, ad esempio, si tormentò per tutta la vita sul silenzio di Dio ad Auschwitz. Forse, però, proprio ascoltando quel silenzio si comprende che Dio era presente lì, accompagnando coloro che venivano mandati a morire. Su questo, Sarah dice che "il silenzio di Dio è una parola misteriosa ma chiara. Anche nella sofferenza dell' uomo, il primo che soffre il male è Dio stesso, perché attraverso l'incarnazione del figlio egli si è fatto vulnerabile. Lui per primo ci ha amati e ha sofferto sulla croce per riempire di senso ciò che non ne aveva: la morte (1 Gv 3, 9-10.19). Il primo che subisce il dolore, anche nelle sofferenze umane più crudeli, è Dio stesso. Colpire l'uomo è colpire Dio stesso: in verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me (Mt 25, 40)". Silenzio che spesso non si trova più neppure nei luoghi di culto, nelle chiese trasformate in pregiate mete per folle di turisti. Nel libro, il prefetto del Culto divino scrive che il silenzio e il sacro vanno di pari passo, sono un qualcosa di indivisibile. Se cade l'uno, cade anche l'altro. "Sì. Purtroppo in molte occasioni non si rispettano i silenzi durante le celebrazioni liturgiche. I sacerdoti e i fedeli corrono il pericolo di credere che ciò che è importante nella celebrazione sia il darsi da fare. Rischiamo di ridurre le nostre liturgie a un palcoscenico nel quale i sacerdoti diventano protagonisti e attori principali e Dio viene sempre più messo da parte. Si riduce tutto a un' autocelebrazione, a una convivenza fraterna, a un radunarsi insieme, un atto di solidarietà. Per questo motivo - dice Sarah - abbiamo il compito di promuovere nella liturgia la lode, l'adorazione, la sacralità, il silenzio, la centralità della Parola di Dio, la relazione con il Signore in modo tale che splenda il mistero pasquale e che in Cristo tutta la chiesa possa sperimentare sempre più la potenza della Risurrezione". Ecco, "il fatto che il sacerdote parla e parla dall'inizio alla fine della santa messa fa dimenticare che il centro della liturgia non è lui ma Dio. Dobbiamo insistere sul primato di Dio nella liturgia. E' Dio che siamo venuti ad ascoltare, ad adorare, a contemplare. E questo nostro incontro con lui trasforma la nostra vita e illumina il nostro volto: come quello di Mosè. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia come si parla con un amico: una volta uscito, riferiva agli israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore (Es 34, 34-35)". Un'ultima battuta sui rapporti con il Papa, che molti osservatori di questioni vaticane vorrebbero tesi, soprattutto per quale differenza di vedute in materia liturgica. "Il Santo Padre mi manifesta tanta fiducia e tanto rispetto e cerco di seguire pienamente la sua volontà: rendere la liturgia più sacra, più bella, più silenziosa. Basterebbe vedere il raccoglimento e la pietà con cui il Papa Francesco celebra la santa messa per comprendere la sua vera intenzione". Pag 4 Ecco perché Bergoglio non intende mettere piede nella sua Argentina di Loris Zanatta

Perché Papa Francesco non va in Argentina? Perché è andato in Africa centrale e in Asia orientale, in Svezia e in Turchia, perché va un po' ovunque in America Latina, ma non nel suo paese? In Argentina, va da sé, fioccano le ipotesi e infuriano le polemiche. Nell'entourage del Papa fanno spallucce: il solito provincialismo; figuriamoci se Francesco ha tempo per simili quisquilie. Più passa il tempo, però, e più quella del Papa appare una scelta deliberata, un calcolo cosciente. Come spiegarlo, altrimenti? Nel dubbio, parlano e straparlano i suoi amici, i devoti, gli innumerevoli portavoce: chi l'ha appena incontrato, chi vanta antiche credenziali, chi allude a canali preferenziali; la cacofonia è tremenda e tale è il circo da non giovare all'immagine del Papa: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Tutti pretendono di sapere perché il Papa non va in Argentina. Io non ne ho idea: osservo stupito e un po' divertito. C'è una giornalista che si dice amica di Bergoglio da 17 anni. Le foto di lei e il Papa mani nelle mani parrebbero confermarlo. Già che c'era ha scritto un libro sul Papa "intimo" e ne ha profetizzato la beatificazione. Lei sa perché il Papa non va in Argentina. Ma non ce lo dice. E noi qui, morti di curiosità. Spulciando negli archivi, intanto, si scopre che la signora ha qualche scheletro nell'armadio, una condanna per truffa. Che sarà mai? Sarà gelosia, ma a farle saltare i nervi sono gli altri amici di Bergoglio. Specie Gustavo Vera: tanti trovano incongruente che quell'ex militante trotzkista candidato nelle liste dell'ex presidente Cristina Kirchner, indagata per corruzione a man bassa, si atteggi a portavoce del Papa; e che il Papa lo accrediti. E' un santo, dicono gli estimatori, che toglie le schiave sessuali dalle strade. E' violento e senza scrupoli, di pochi lumi e nessun rispetto della legalità, dicono i detrattori. Si presenta per di più con la lista "Peronismo per il Bene Comune", dov'è affiancato da Guillermo Moreno, uomo di simpatie bergogliane ma dai metodi spicci, diciamo pure violenti. Quand'era ministro kirchnerista del commercio aveva un potere immenso, che usò contro chi non si piegava, ed era famoso per truccare i dati economici del paese. Governava il commercio ma odiava il mercato: da buon peronista, da buon bergogliano. L'economia argentina l'ha sofferto un bel po'. Ciò che in questi giorni si imputa loro e al Papa, è l'invito in Vaticano, a un vertice sulle nuove schiavitù, della procuratrice generale della nazione: la signora Gils Carbó. A rigore, non si capisce lo scandalo. Ma non sempre le cose sono come appaiono. La procuratrice, infatti, è figura molto discussa: perché è indagata in un grave caso di corruzione e ancor più perché è noto che in quella carica la piazzò Cristina Kirchner per occupare il potere giudiziario. Chiamarla a Roma non è mossa che unisca gli argentini. Su tutti si erge poi un vecchio dirigente peronista che con Bergoglio vanta, dice, un'antica amicizia, da quando bazzicavano Guardia de Hierro: peronista, cattolica, nazionalista, antiliberale, anti marxista. Nomen omen, si chiama Bárbaro e imperversa su tutte le tv. Il Papa, dice estatico, "è troppo grande per noi argentini". Tutti, nessuno escluso! E guai a chi non è d'accordo, come quello storico italiano "contrattato" dai "ricchi cattolici" per "parlare male del Papa e del peronismo": un "imbecille". Bando allo straniero e alle critiche, cui risponde con la violenza dell'epiteto. Col rischio di far apparire intollerante colui in nome della cui amicizia parla: il Papa. Dagli amici ci guardi Iddio. Ciò vale ancor più per Hebe de Bonafini, l'eroica madre di Piazza di Maggio, ormai nota più per l'incontinenza verbale, la volgarità intellettuale, la doppia morale del "chiagni e fotti". Reduce da un lungo incontro col Pontefice, gli scrisse una lettera delle sue: "So - scrisse con la consueta familiarità usata col Papa - che pensi che la tua visita in Argentina sarebbe un piacere al Pastore Mauricio", ossia al presidente Macri. Davvero il Papa glielo avrà detto? Sul serio intende castigare gli argentini per avere eletto un ricco liberale e non un rappresentante del "popolo", ossia un peronista? Forse no o forse sì. Ma per quanto patetico suoni tale vociare, chi supera tutti è un austero, colto e maturo prelato: monsignor Sánchez Sorondo, uomo di scienza, di curia vaticana e di famiglia ipernazionalista. Intervistato, non ha mostrato dubbi: il Papa non va in Argentina per non aggravare la grieta, per non gettare sale sulla spaccatura che da tempo immemore fende il paese; unitari e federali, liberali e cattolici, antiperonisti e peronisti. Possibile? L'autorità che più nel mondo si suppone riconcili, pacifichi, rassereni, è fonte di viscerali discordie nel suo stesso paese? Ebbene sì. I suoi amici non hanno dubbi: colpa degli argentini. Gli umani sono così, si sa, deboli e peccatori. Ma non sarà che anche il Papa ha qualche responsabilità se la sua figura divide tanto? Se divide l'Argentina e sempre più divide altrove nel mondo? Se anche la coesione della chiesa non gode di buona salute? Se tali sono i suoi amici, se il suo cuore batte a senso unico, se pontifica su

tutto, dal clima al fisco, dal lavoro alle migrazioni, dalla povertà allo sviluppo, se benedice gli uni e condanna gli altri, ovvio che divida. Intanto, la ragione per cui non va in Argentina rimane un segreto: di Fatima, o di Pulcinella. VATICAN INSIDER Le nomine a Roma e Milano, l’indicazione di un metodo di Andrea Tornielli In poco più di un mese Francesco ha ufficializzato due nomine destinate a pesare sul futuro della Chiesa italiana: il nuovo vicario della capitale e l’arcivescovo della metropoli lombarda. Pensando innanzitutto alle necessità delle diocesi Il 26 maggio e il 7 luglio scorsi sono state rese pubbliche le nomine di due nuovi pastori diocesani, destinate a pesare non poco sul futuro della Chiesa italiana. Con la designazione di Angelo De Donatis quale nuovo Vicario di Roma Francesco ha scelto un ex parroco da lui nominato vescovo ausiliare, che per i ruoli ricoperti è stata figura centrale nel rapporto con i sacerdoti della diocesi. Il 7 luglio, accelerando i tempi della successione al cardinale Angelo Scola su richiesta esplicita di quest’ultimo, Papa Bergoglio ha nominato suo successore alla guida della diocesi più grande e importante d’Europa e tra le più importanti del mondo, monsignor Mario Delpini, fino a quel giorno vicario generale, già stretto collaboratore degli ultimi tre arcivescovi ambrosiani. C’è chi ha visto in queste scelte, interne e dai profili meno roboanti, un cambio di passo rispetto a quanto avvenuto negli anni precedenti, ad esempio con le significative nomine dei vescovi di Padova, Bologna e Palermo, caratterizzate da scelte più profilate di outsider. Secondo tale interpretazione, nei casi di Roma e Milano il Pontefice avrebbe optato per soluzioni più ordinarie: quasi un ripiegamento. In particolare proprio la scelta di Milano è sembrata deludere qualche sedicente «bergogliano» che auspicava una nomina di rottura con il passato per meglio marcare la sintonia con «la Chiesa di Francesco», come se davvero potesse esistere una «Chiesa di Francesco» invece dell’unica Chiesa di Cristo. E ha deluso anche qualche piccolo gruppo interno al clero milanese, che desiderava un «papa straniero», cioè qualcuno che venisse da fuori per immergersi ex novo nella complessa realtà di una diocesi gigantesca. Ancora, sono rimasti spiazzati anche coloro i quali hanno segnalato nomi improbabili nella recondita speranza di vedere nominati loro amici. Venerdì 7 luglio, nel momento dell’ufficializzazione della sua nomina quale successore di Scola, il nuovo arcivescovo di Milano Mario Delpini ha presentato sé stesso come un «brav’uomo» ma «mediocre», non il «santo», il «genio» né il «carismatico trascinatore» che sarebbe servito per un ruolo così importante. Eppure proprio questo atteggiamento umile e semplice, non privo di punte di ironia, ha segnato un significativo cambio di passo e indicato una peculiarità del nuovo pastore. Uomo ascetico, povero (è stato proprio Scola presentandolo a indicare la caratteristica della sua «grande povertà»), di preghiera, capace di dialogo. Esperto in patrologia ma autore di libri di fiabe per bambini, avvezzo a predicare con piccoli esempi tratti dalla vita quotidiana e dalla sua esperienza familiare. Conscio lui stesso di essere in qualche modo «schiacciato» dalla caratura e dalla bibliografia dei suoi immediati predecessori. Eppure proprio questo sincero senso di inadeguatezza potrebbe fare emergere ancora di più e ancor meglio che in passato un dato fondamentale: è Gesù Cristo la roccia, è Lui a guidare la sua Chiesa («Ecclesiam Suam», non di questo o di quell’altro Papa e nemmeno di questo o di quell’altro arcivescovo). Allo stesso modo anche a Roma, con la scelta di De Donatis, questa pure interna, Francesco ha mostrato di preferire una leadership più pastorale e legata all’ordinarietà della vita ecclesiale. Con la caratteristica comune, sia nel caso di Roma che di Milano, di una particolare attenzione al rapporto con i preti. Che cosa dunque è mutato rispetto alle nomine degli ultimi due anni? C’è stato davvero un cambiamento, magari in una direzione più prudente? In realtà questo modo di argomentare rischia di trascurare un elemento cruciale. Non esiste uno specifico identikit di vescovo adatto per ogni diocesi. Fondamentale nella scelta del pastore – e questo vale anche per la scelta del Vescovo di Roma, come dimostrano le discussioni pre-conclave – è comprendere quali siano le priorità e le maggiori necessità della diocesi. Priorità e necessità specifiche, che non sono le stesse in ogni tempo e in ogni luogo. È persino ovvio osservare che, in generale e in ogni latitudine, ci si aspetta da un vescovo che creda in Gesù Cristo, sia un uomo di preghiera, non sia un carrierista, sappia predicare facendosi capire dal suo popolo, sia vicino alla sua gente e non viva

come un principe isolandosi nel suo palazzo. Ma, detto questo, nel processo che contribuisce alla scelta è fondamentale soprattutto comprendere ciò che è più urgente per la Chiesa locale da affidare alla guida del nuovo vescovo. In questa prospettiva, invece di focalizzarsi sulla percentuale di straordinarietà della scelta, è più utile chiedersi a quali priorità rispondono nomine come quelle di De Donatis e di Delpini. Nel caso di Milano, ad esempio, è evidente da una parte la scelta non di rottura – il nuovo arcivescovo è stato nominato rettor maggiore di Venegono da Carlo Maria Martini, ausiliare da Dionigi Tettamanzi, vicario generale incaricato della formazione del clero da Scola – ma al tempo stesso anche l’originalità: Delpini non è ascrivibile a cordate o partiti ecclesiastici, ha vissuto in povertà e semplicità da prete e da vescovo prima dell’arrivo di Francesco e dunque è pastore «con l’odore delle pecore» che non ha bisogno di cambiare il curriculum con qualche sbianchettata adeguandosi a nuove parole d’ordine «bergogliane». Con la sua scelta, il Papa sembra voler indicare alla grande diocesi ambrosiana la strada di una minore preoccupazione per le strutture, per l’organizzazione perfetta e in qualche caso non aliena dall’autocompiacimento, per i rapporti istituzionali. E, al contempo, la strada di una maggiore sottolineatura dell’importanza della vita ordinaria della Chiesa, fatta di preghiera, liturgia, carità. Quella Chiesa di popolo che ancora esiste nella diocesi ambrosiana, come ha ben sottolineato il cardinale Scola al termine della visita pastorale raccogliendo le indicazioni emerse dalla visita del Papa a Milano. Una Chiesa meno ripiegata su sé stessa, sul lamento per ciò che non va nella società. Una Chiesa più capace di essere portatrice di gioia andando incontro a tutti, senza mai rinunciare all’unico vero motivo per cui sta al mondo: «Vorrei dire che io sono un prete, quindi il messaggio che posso dare alla città – ha detto Delpini – è quello di ricordarsi di Dio». Non è infine da sottovalutare l’elemento della vicinanza e della conoscenza del clero, che accomuna il nuovo vicario di Roma e il nuovo arcivescovo ambrosiano. La cura del rapporto con i preti è la cartina di tornasole, la sfida su cui si gioca ogni episcopato, perché se è vero che il vescovo deve essere accessibile a tutti, capace di mostrare vicinanza alla gente, è altrettanto vero che il primo passo di questa vicinanza si concretizza con la sua paternità nei confronti dei suoi preti. E paternità significa pazienza, disponibilità all’ascolto, farsi carico dei problemi sapendo essere prossimo a chi è più in difficoltà. Anche in questa prospettiva, le nomine di Roma e Milano non segnano affatto un cambio di direzione rispetto al recente passato, ma rappresentano invece un’indicazione per il futuro delle due diocesi. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 22 Più donne al lavoro, in dieci anni casalinghe calate di mezzo milione di Alessandra Arachi Sono 7,3 milioni. Il 9% vive in povertà assoluta Roma. È una fotografia che ci riporta indietro ai tempi dei nostri nonni, dei film di Pietro Germi, di una rotonda sul mare. Sembra un dagherrotipo quello che l’Istat ha scattato alle casalinghe italiane, ancora oggi veri e propri angeli del focolare domestico che hanno attraversato indenni decenni e decenni della nostra storia. Eccolo, lo scatto. Nel 2017 succede ancora che tre casalinghe su quattro abbiano come titolo di studio al più la licenza di scuola media inferiore. Ma ancora meglio: nell’era dell’iperconnessione oltre otto casalinghe su dieci (l’82%) non si collegano al web, quando addirittura non sanno nemmeno che cosa sia la Rete e soprattutto non sanno proprio cosa farsene di un computer che in casa potrebbe portare tante meraviglie. È diminuito in Italia il numero delle casalinghe, in dieci anni sono diventate 518 mila di meno, sono cioè 7 milioni 338 mila. «Ovvero il 7% in meno», precisa Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, prima di analizzare in controluce questa cifra che ancora una volta ci fa diventare fanalino di coda dell’Europa. Dice Alleva: «Il 7% in dieci anni non è certo molto. Il trend di diminuzione della figura della casalinga ha decisamente ritmi lenti qui in Italia. Ci sono meno casalinghe perché, in Italia, negli ultimi dieci anni è aumentato il tasso di attività femminile. Siamo passati dal 50,8 al 55,2% (contro una media europea del 67,4) e

questo giustifica quasi tutta la cifra scomparsa delle casalinghe negli ultimi dieci anni. Un altro punto sono i decessi: alle casalinghe anziane non si sostituiscono lo stesso numero di casalinghe giovani». C’è un terzo punto che è forse quello che fa meno tornare i conti con i tempi che non dovrebbero assomigliare a quelli dei nostri nonni. «La simmetria nei carichi di lavoro che fa sì che non ci sia più bisogno di una persona che in casa si dedichi solamente a questo», spiega ancora il presidente dell’Istat. Tuttavia, a fare i conti, si può notare che questa spartizione dei carichi di lavoro domestico fra uomo e donna in tema di parità di passi ne deve ancora fare, e anche parecchi. È vero che l’età media delle casalinghe oggi è di 60 anni e che quelle con più di 65 anni sono il 40,9 % (ovvero oltre 3 milioni). Ma c’è anche una buona fetta di casalinghe che non supera i 34 anni e sono quasi una su dieci (8,5% per amore di precisione). Non a caso anche questo scatto dell’Istat ci mostra un’Italia che viaggia a due velocità: il 63,8% delle casalinghe vive prevalentemente al Centro sud. E, ovviamente al contrario, il 76,8% delle donne occupate vive al Centro nord. C’è un dato molto triste fra quelli dell’Istat: oltre 700 mila casalinghe vivono in uno stato di povertà assoluta, ovvero il 9,3% del totale. «Le casalinghe sono un segmento particolarmente fragile della nostra società», dice il presidente Giorgio Alleva, constatando come, a fronte di questa povertà, le donne che lavorano in casa lavorano addirittura di più degli occupati. Per capire: l’Istat ha calcolato che le casalinghe lavorano - in media - 49 ore alla settimana per un totale di 2 mila 539 ore all’anno, mentre poco più della metà di loro non ha mai lavorato fuori casa. Ma se il 10,8% (ovvero 600 mila donne tra i 15 e i 64 anni) è scoraggiato perché ha cercato lavoro senza trovarlo, ancora una volta è il comportamento delle più giovani che ci riporta indietro ai tempi dei nonni: a indagare il motivo principale per cui le giovani tra i 15 e i 23 anni non cercano lavoro, si scopre che è di natura familiare nel 73% dei casi perché - risposta testuale delle giovani casalinghe - «il carico di lavoro domestico è elevato». Difficilmente una casalinga potrà trovare lavoro fuori, visto che soltanto l’8,8% ha frequentato corsi di formazione che potrebbero elevare i titoli di studio. Una quota che sale di poco tra le giovani fra i 18 e i 34 anni (12,9%). Eppure, secondo l’Istat, il grado di soddisfazione della vita delle casalinghe non è niente male: più di un terzo di loro dichiara - addirittura - un valore alto di soddisfazione della propria vita. Non solo: poco meno di una casalinga su due riferisce di stare «bene» o «molto bene» in condizioni di salute. LA REPUBBLICA La fine dei centri commerciali di Federico Rampini e Filippo Santelli Il simbolo degli Stati Uniti sconfitto dall'e-commerce. E le città cambiano faccia. Chiese, medici e concerti: i "mall" italiani resistono andando oltre lo shopping New York. Dalla Quinta Strada di Manhattan fino alla provincia profonda del Minnesota, il paesaggio urbano degli Stati Uniti è sconvolto da una nuova rivoluzione. Un'ecatombe di negozi, grandi magazzini, centri commerciali, decimati dall'avanzata inesorabile del commercio online. La crisi è profonda e non ha solo una dimensione economica: investe un business che è anche un simbolo dell'American Way of Life, uno stile di vita, perfino un luogo di aggregazione sociale. Dai tempi del film retrò American Graffiti un rito iniziatico dell'adolescente americano era l'uso dell' automobile per andare a incontrare i suoi coetanei nei piccoli centri commerciali di provincia, le prime concentrazioni dove si univano supermercati, fast food, cinema all'aperto. Negli anni Cinquanta nacquero i primi shopping mall, cattedrali nel deserto dell'America profonda, che attorno al consumismo costruivano occasioni d'incontro, un modo per riempire il tempo libero, una caricatura ipermoderna delle piazze medievali del Vecchio Continente. Nel 1962 Sam Walton cominciò l'avventura di Walmart, gli ipermercati che a loro volta hanno incarnato per decenni un American Dream fatto di carrelli della spesa extra large e strapieni, Suv caricati a buon mercato, grazie allo "sconto cinese". Ora tutto questo sta tramontando a una velocità impressionante. Fotografi e artisti amanti del macabro percorrono l'America in cerca di shopping mall in bancarotta, le nuove "ghost town" del nostro tempo, città fantasma, colossi abbandonati per mancanza di clienti. La middle class di "Suburbia", come vengono definiti i quartieri residenziali delle periferie, con le loro villette monofamiliari, i giardini e il garage, sta perdendo il gusto di quelle spedizioni familiari che nel weekend avevano una destinazione favorita, lo scintillante shopping mall dove

ciascuno ne trovava per i suoi gusti. Ora nella villetta monofamiliare ciascuno se ne sta chiuso in camera sua, a dialogare sui social media, o a ordinare su Amazon. Un camioncino dell' Ups fa tappa davanti all'uscio di casa per lasciare una pila di pacchi delle consegne a domicilio. E gli shopping mall, deserti, falliscono uno dopo l'altro. Non solo loro. Tutta la grande distribuzione, dalle boutique di lusso ai supermercati ai grandi magazzini, vive la stessa angosciante decadenza proprio nel Paese che l'aveva inventata. È anche il paesaggio dei centri cittadini che rischia di essere irriconoscibile entro breve, se i consumatori rimangono a casa per fare la spesa chi andrà ancora in giro a guardare le vetrine? Si salvano ancora quei magneti del turismo globale che possono compensare la scomparsa del consumatore locale con le frotte di cinesi e russi, italiani e francesi: per adesso questo sta salvando luoghi come la Quinta Strada e Soho a Manhattan, o Beverly Hills a Los Angeles. Che però assomigliano sempre di più al duty free dell'aeroporto di Dubai, stesse griffe, stessi marchi, la scomparsa di qualunque riconoscibilità locale. L'ultimo bollettino di guerra (per ora) narra dei 170 negozi chiusi da Bebe, un marchio di moda che sembrava lanciatissimo ancora pochi anni fa ed ora si riconverte per vendite solo online. La catena di moda per adolescenti Rue21 chiude 400 negozi su 1.100. Sono due esempi fra tanti in un settore delle vendite al dettaglio che qui in America ha visto 8.600 chiusure solo nel primo trimestre di quest'anno: peggio che durante la grande crisi del 2008. Eppure stavolta non siamo in recessione, tutt'altro. Quel che accade è dovuto a un cambiamento repentino di abitudini e comportamenti tra i consumatori. L'intero mondo della distribuzione "fisica", con punti vendita su strada, dagli shopping mall alle boutique di nicchia, ha eliminato 50 mila posti di lavoro dall'inizio di quest'anno e siamo solo ai prodromi del disastro. Secondo uno studio di un'azienda immobiliare specializzata negli shopping mall, la Ggp, i centri commerciali per ri-dimensionarsi su misura della spesa attuale dovrebbero chiudere il 30% dei loro spazi e licenziare quasi cinque milioni di persone. È un atto di morte, nella nazione che aveva inventato il modello e lo aveva esportato nel resto del mondo. E ancora c'è spazio di crescita per il commercio online. Le vendite su Internet sono ancora sotto il 10% del totale e già hanno provocato cotanto sconquasso. Figurarsi cosa può accadere in futuro. Il modello di partenza lo hanno offerto libri, Cd e video, dove l'avanzata di Amazon e dei suoi emuli fu formidabile, al punto che oggi in quei settori oltre il 60% delle vendite sono online. Seguono la stessa curva di apprendimento il settore dell'elettronica e delle forniture per uffici, già vicini al 40% di vendite su Internet. Stanno facendo la stessa fine i giocattoli per bambini, forse perché la rinuncia a visitare di persona i negozi ha sollevato i genitori da uno stress? Ogni luogo comune ha vita effimera, si diceva che mai ci saremmo rassegnati a comprare vestiti e scarpe senza provarli fisicamente, e invece è questo uno dei settori di maggior crescita delle vendite online. Anche qui Amazon ha fatto da pioniere ma molti applicano la ricetta: velocità delle consegne, facilità nel restituire la merce di cui non si è soddisfatti e ottenere l'immediato rimborso. Amazon è arrivata in ritardo nell'ultima frontiera che è la spesa per alimenti freschi, ma ora cerca di recuperare il terreno con l'acquisizione dei supermercati salutisti Whole Foods. Nomi gloriosi come Macy's e Penney, icone del consumismo americano, attraversano crisi esistenziali dagli sbocchi incerti. E la nuova geografia delle città salpa verso destinazioni sconosciute. Roma. «La Messa è finita. Andate in pace». E comprate in pace. Cappella della Trasfigurazione, centro commerciale Euroma2, Sud della Capitale. Come ogni domenica Don Marco benedice la manciata di clienti e lavoratori arrivati alla funzione e li consegna al rito terreno dello shopping. Nel giorno del Signore giovani e anziani, single e coppie, gente del quartiere e gente di fuori è qui che si ritrovano. «I centri commerciali sono le odierne piazze mercato dove le famiglie trascorrono intere giornate», ha detto monsignor Liberio Andreatta spiegando il perché di questa chiesa. Nel cuore del consumismo tentatore, irrispettoso di orari di apertura e feste comandate, che tante volte prelati e piccoli commercianti hanno condannato. Ma il centro commerciale, da tempo, non è più questo, non solo. Ci si va per mangiare, per il cinema, per un concerto, per tagliarsi i capelli, per l'aria condizionata. Per riconoscersi e trovare i propri parametri, come scriveva già dodici anni fa Edmondo Berselli su Repubblica. Comprare anche, ma tra le altre cose. E così mentre negli Stati Uniti, dove li hanno inventati, i mall sembrano avviati ad un inesorabile declino, qui in Italia, il paese delle piazze, paiono

reggere. La crisi ha colpito duro, certo: tra il 2012 e il 2015 nessun nuovo progetto, mentre sempre più vetrine rimanevano sfitte. Da un paio di annetti però la tendenza si è invertita, con fatturato e visitatori, circa 5 milioni al giorno, finalmente stabili. Solo dodici centri su quasi 1.200 censiti in Italia hanno chiuso: «Hanno mostrato una buona resilienza», riconoscono da Reno, società di consulenza che ogni anno fa il checkup al settore. Negli ultimi mesi poi sono pure ripartiti i cantieri. Ampliamenti, visto che a tenere meglio sono i grossi shopping center regionali o quelli più piccoli e di nicchia, moda o design di qualità. Quelli medi faticano. Poi nuove aperture come Arese, Brescia e Verona. Più qualche bestione da record all'orizzonte: il Westfield di Segrate, Milano, dovrebbe superare i 200 mila metri quadrati, un primato europeo, così come il polo di Pescaccio a Roma. Taglio dei nastri verso il 2020, politica e burocrazia permettendo. Ce la fa chi cambia pelle, ecco il segreto. In principio erano solo ipermercati, per la spesa grande della domenica. Poi grandi scatoloni attorno a un parcheggio, dominati da elettronica e abbigliamento. Ma prima dell'e-commerce, che ha affossato entrambi i settori. Le ultime generazioni di mall assomigliano invece a città, dice Davide Padoa, a capo dello studio Design International che ne disegna in tutto il mondo, «con una logica da urbanista». Non più isolati, ma integrati al tessuto cittadino. Al centro la piazza, luogo di ritrovo e aggregazione. Di pausa, dove prima era corsa all'acquisto. Aree verdi e giochi dove lasciare i bambini in sicurezza. Parrucchiere, dentista e perfino clinica ospedaliera, come ad Arese. «Il dato a cui si guarda non è più il numero di persone che arrivano, ma quanto tempo restano», spiega Padoa. E per trattenerli il clima è da industria dell'ospitalità, più che della vendita. Il punto informazioni diventa un concierge, il personal shopper. I bistrot sostituiscono i fast food nelle aree ristorazione, sempre più estese, Farinetti insegna. Per la sera c'è il cinema o un concerto, da Mario Biondi a Fiorella Mannoia le stelle vanno in tour negli outlet. L'unico modo per scacciare gli spettri che incombono sul settore: l'e-commerce e la consegna a domicilio. Rispetto agli Stati Uniti, dove il digitale ha distrutto i negozi mattoni e cemento, il ritardo tecnologico dell'Italia è stato un vantaggio. Ma il destino, come Amazon o in qualche altra veste, arriverà inesorabile anche qui. «Ne soffriranno i centri meno specializzati, quelli che rispondono a un puro bisogno di acquisto», dice Maddalena Panu, che per l'associazione di settore Cncc è responsabile della ricerca. Anche se la tecnologia si può sempre combattere con la tecnologia, prosegue, con strategie che combinino l'acquisto online con il ritiro nel punto fisico, o viceversa la prova in negozio e lo shopping in Rete. Resta da capire se con 1.178 tra centri commerciali, outlet e simili, uno ogni 64 mila abitanti, e oltre 18 milioni e 800 mila metri quadri di spazi commerciali, pari a 2.600 campi di calcio, lo Stivale non sia saturo. Le grandi città ormai circondate. Un po' come la Francia, a sentire l'allarme del patron di Lafayette Philippe Houzé. «In alcune parti d' Italia il limite è vicino, in altre ci sono ancora margini», replica Panu. Di piazze dove sedersi la gente avrà sempre bisogno. Sperando che tra una passeggiata e un concerto si ricordi pure di comprare. AVVENIRE Pag 3 Casalinghe addio (ma il nuovo stenta) di Luciano Moia Dati che fanno riflettere e una doppia sfida Casalinghe, sempre di meno, sempre più anziane, sempre più povere e sempre più scontente. Solo il nome non cambia mai. Forse è arrivato il momento di trovare una parola non solo più efficace, ma anche più autentica per definire una condizione la cui complessità ha superato l’efficacia della sintesi lessicale. Esiste ancora la casalinga secondo il modello della tradizione, o forse è rimasta soltanto una donna che è stata espulsa dal mercato del lavoro o che non è mai riuscita a trovarvi uno spazio? La fotografia che l’Istat ha diffuso ieri sulla condizione delle 'Casalinghe in Italia' contribuisce a chiarire tanti aspetti ma, come la maggior parte delle statistiche, non fornisce chiavi di lettura utili per inquadrare quei numeri in un processo sociale che è faticoso e anche drammatico. La domanda potrebbe essere questa: in che modo le resistenze al cambiamento che emergono dal dossier Istat possono risultare importanti per incoraggiare i più giovani a 'essere' e 'fare' famiglia? Oppure, rovesciando di fatto i termini: quanto pesa la persistente asimmetria del lavoro di cura tra donne e uomini – che non vuol dire solo attività domestiche, ma anche attenzioni verso bambini e anziani,

coordinamento degli impegni, degli acquisti e degli spostamenti, relazioni informali – nella meno frequentata scelta del 'metter su famiglia'? È bene dire subito che i numeri non appaiono incoraggianti. Nella totalità del lavoro domestico non retribuito, quello cioè che si realizza all’interno della famiglia – complessivamente 71 miliardi e 353 milioni di ore – le donne sono state costrette a sobbarcarsi il 71% del totale. E cioè l’enorme e quasi inimmaginabile cifra di 50 miliardi e 994 milioni di ore di lavoro. Ancora più impietosamente l’istat spiega che, sempre per quanto riguarda il lavoro di casa, circa 7 milioni delle cosiddette 'casalinghe' hanno portato a termine un monte ore di lavoro non retribuito pari a quello prodotto da 25 milioni di uomini. Roba da far impallidire il presunto 'sesso forte'. E non serve invocare il fatto che gli uomini sono più impegnati fuori casa. Anche quando entrambi hanno un lavoro retribuito, le variazioni sono quasi impercettibili. Per quanto riguarda la percentuale di asimmetria siamo passati dall’89,6% del 1989 all’80,3% del 2014. Certo, nelle coppie più giovani, quelle fino ai 34 anni, e poi nello scaglione 35-44 anni, le differenze appaiono un po’ meno significative ma, quando si entra nel dettaglio delle varie attività, le conferme (negative) si sprecano. Se parliamo per esempio di lavare e stirare, i salti generazionali si annullano. Nel 100% dei casi questi mestieri – sostiene l’istat – rimangono a carico delle donne, senza differenze tra giovani e anziane. Su altri fronti il miglioramento c’è, ma davvero irrisorio, ed evidentemente non serve ad annullare i livelli di insoddisfazione delle donne. Se tra il 2003 e il 2014 l’asimmetria è passata dal 94,2% all’80% nel cucinare, dal 93,5% al 78% nelle pulizie e dal 66,5% al 59,7% nel fare la spesa, non vuol dire che il baratro è stato colmato, ma solo che noi uomini siamo forse diventati un po’ meno insensibili nei confronti delle nostre partner. Piccoli passi verso una condivisione che rimane ancora lontana e, al di là dell’ingiustizia di fondo, pone almeno due questione. La prima di carattere sociopolitico. Permangono gravissimi problemi di conciliazione famiglia-lavoro che devono essere risolti sia con interventi legislativi, sia con scelte aziendali più originali e più favorevoli che, diversificando il carico degli impegni, contribuiscano all’aumento del tasso di serenità a vantaggio sia dei lavoratori sia delle stesse imprese. Il secondo problema è di carattere educativo. I dati Istat ci dimostrano che, almeno in alcune aree del Paese, sono ancora maggioritarie dinamiche familiari legate a un vetero-maschilismo inossidabile a qualsiasi istanza di reciprocità e di pari dignità. Tutto ciò può essere 'spezzato' solo da una svolta educativa coraggiosa e consapevole. Che tocca alle famiglie stesse, ma anche alla scuola e alla pastorale. Altrimenti continueremo a pensare che tra il lamento delle casalinghe costrette a essere tali e la violenza domestica in tutte le sue forme non possa esserci alcun collegamento. Ed è vero il contrario. Pag 5 “Svalutato il ruolo di padre e madre” di Silvia Guzzetti Nei Paesi anglosassoni lo Stato è sempre più “invasivo” di fronte a scelte vitali Londra. «Colpisce la presa di posizione dei giudici e dei medici. Sembrano essersi staccati da quello che è un principio fondamentale della civiltà umana: mantenere in vita le persone, a cominciare dai bambini. Non solo. Li vedo incapaci di provare empatia per i genitori, il cui primo istinto è proprio quello di difendere la loro prole». Fiorella Nash è esperta di bioetica e ricercatrice presso la “Società per la protezione dei bambini non nati”, una delle associazioni legate al movimento della vita britannico. Il problema di fondo nel caso di Charlie Gard, secondo la dottoressa Nash, è stabilire chi debba prendere la decisione finale sulla vita del bambino, se i genitori o lo Stato. L’esperta è convinta che tocchi ai genitori e trova sbagliato che si stia affermando il contrario. «I giudici, in questo momento, stanno prendendo il posto di mamma e papà – spiega la dottoressa Nash –. Sul sito del Great Ormond Street Hospital c’è un’affermazione preoccupante: si dice che “la volontà dei genitori è importante ma, in ultima istanza, tocca ai giudici decidere”. Come madre e come cittadina britannica mi sento di dire che non è giusto, e che i nostri figli non appartengono a allo Stato». Secondo Fiorella Nash questo atteggiamento è tipico dei Paesi del Nord, forse anche perché il tasso di divorzi è molto alto e spesso tocca a tribunali e servizi sociali decidere la sorte dei bambini. «In Scozia si sta pensando di avviare il named person scheme: si attribuisce cioè a una persona esterna alla famiglia – una preside o un assistente sociale – la responsabilità finale per un bambino», spiega la dottoressa Nash. «Si tratta di un’iniziativa molto controversa nella quale si vede il tentativo di usurpare i diritti dei genitori da parte dello

Stato». «Anche in una situazione positiva come la scuola – continua l’esperta – c’è una completa perdita di fiducia nella capacità dei genitori di prendersi cura dei figli. I miei bambini tornano a casa dicendo: “Oggi ci hanno insegnato che cosa dobbiamo mangiare per mantenerci sani, non va bene quello che stai cucinando'. E se sollevo la questione con gli insegnanti, le maestre rispondono che è il curriculum a prevedere lezioni di questo tipo». La “burocrazia”, insomma, prende un sistema funzionante come quello del servizio sanitario britannico e lo porta agli estremi, dimenticando la dimensione umana. «Mio padre – racconta Nash – soffre di Parkinson, e ha un ottimo pacchetto di terapie e aiuti a casa sua, ma non può rinunciare ad alcune prestazioni benché non ne abbia bisogno perché sono previste, e gli assistenti sociali devono seguire quella particolare procedura». L’esperta ricorda anche il caso delle due gemelle siamesi Mary and Jodie Attard. «La mamma, maltese, quando scoprì che era incinta venne in Gran Bretagna alla ricerca di cure mediche. I medici dissero che potevano separare le gemelle ma una delle due sarebbe morta, e i giudici obbligarono i genitori a seguire questa strada contro la loro volontà. Mi colpì, allora, che i genitori non fossero neppure cittadini britannici, e che erano venuti in questo Paese soltanto per ragioni mediche. Eppure venne tolta loro la possibilità di decidere della vita delle figlie». Concorda Roger Kiska, avvocato cattolico, esperto di diritti umani, portavoce di «Christian Concern», un’altra espressione del movimento pro life britannico. «I tribunali della famiglia e gli ospedali non dovrebbero prendere decisioni che spettano ai genitori – spiega –. Purtroppo invece capita sempre più spesso, soprattutto nei Paesi scandinavi e nel Regno Unito. Si tratta di un trend diffuso che va combattuto perché non diventi la norma». Una norma disumanizzante. Pag 21 Il declino delle casalinghe di Cinzia Arena Diminuite di mezzo milione in dieci anni. Cresce l’età media. E aumenta il rischio povertà soprattutto tra quelle più giovani L’Italia non è più un paese di casalinghe: oggi sono mezzo milione in meno rispetto a dieci anni fa, hanno un’età media di 60 anni, una mole di lavoro domestico meno ingombrante ma sono anche più povere e scoraggiate. L’Istat ha fotografato lo stato di salute (economico e culturale) delle donne che non lavorano per dedicarsi alla casa e alla famiglia. Scoprendo che vivono peggio delle colleghe che si recano un ufficio. Nel 2016 sono solo 7 milioni e 338 mila: 518mila in meno rispetto al 2006. Sono soprattutto donne anziane (le over 65 rappresentano il 41% del totale, solo l’8% ha meno di 34 anni) e vivono prevalentemente nel Centro- Sud (il 64%). Hanno un livello di istruzione basso, al massimo licenza di scuola media. Al contrario se si guarda alle occupate due su tre sono diplomate o laureate. Le casalinghe italiane vivono in famiglie con figli (42%) in coppia (25%) o da sole (20%). Una discreta fetta delle donne che non lavorano sono straniere (il 7,6%) in particolare marocchine o albanesi. La loro settimana lavorativa è più pesante di quella di un operaio: lavorano in media 49 ore, senza considerare le ferie. Rispetto al passato però la mole di impegni si è un po’ ristretta: in media svolgono l’80% del lavoro familiare (contro il 67% delle donne che lavorano). Venticinque anni fa questa percentuale sfiorava il 90%. Merito anche di un incremento sia pur modesto (e stimato in 35 minuti giornalieri) dell’aiuto che ricevono dai mariti. Ma è la condizione economica a preoccupare maggiormente, soprattutto le giovani. Nella fascia d’età tra i 15 e i 34 anni il 20% vive in condizioni di povertà assoluta: vale a dire non possiede un reddito familiare sufficiente per acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Complessivamente si tratta di 700mila casalinghe, il 9,3% del totale, che vivono prevalentemente nel Sud Italia. Quasi la metà delle casalinghe avverte però che le risorse della famiglia sono scarse o insufficienti. Un dato su tutti: solo il 37% possiede il bancomat o la carta di credito. Se si considerano i motivi per cui le casalinghe scelgono di non lavorare in cima alla lista c’è un carico di lavoro domestico elevato. Poco più della metà non ha mai lavorato, un 10% pur avendo cercato lavoro non l’ha mai trovato, le altre invece hanno lasciato il lavoro dopo il matrimonio. Anche sul fronte culturale c’è una grande distanza tra le donne che lavorano e quelle casalinghe: otto su dieci non sono connesse al web. Quelle che dichiarano di usarlo sono il 17,8%, a fronte di una quota che tra le occupate raggiunge il 65,3%. E anche tra le casalinghe più giovani la rete è poco utilizzata, da meno della metà (41,4%) contro il 78,8% delle lavoratrici. In generale, le casalinghe sono meno coinvolte nelle attività culturali, a parità di età e di

livello di istruzione. Solo il 27,3% è andata al cinema almeno una volta nell’anno, il 30% ha letto almeno un libro e il 15% ha visitato musei e mostre. Il grado di soddisfazione della propria vita è elevato solo per un terzo delle casalinghe (e per il 45% delle occupate) e anche la percezione del proprio stato di salute: solo il 48% riferisce di stare bene o molto bene. IL GAZZETTINO Pag 20 Le ragioni della scomparsa delle casalinghe di Maria Latella Negli ultimi dieci anni, annuncia l'Istat, sono sparite 518mila casalinghe. Come se, in dieci anni, si fosse azzerata una città grande come Genova. La casalinga, mitica responsabile acquisti, target di riferimento dei pubblicitari occidentali che per primi ne avevano occhiutamente individuato il potere, è un'altra voce di un lessico familiare che lentamente si archivia. Un po' come le ricamatrici, gli artigiani che sanno intagliare il legno, i vetrai di Murano. Chi resiste, soprattutto se è giovane e vive al sud, quasi sempre fa la casalinga non per scelta ma per mancanza di alternative. I dati Istat fotografano due Italie, due geografie, e un prima e dopo generazionale. La casalinga prospera soprattutto nel centro sud, (63,8 per cento della categoria) ha un'età media di 60 anni e nel 74 per cento dei casi ha al massimo la licenza di scuola media inferiore. Questa parte della casalinghitudine è la più felice. Soddisfatta di essersi dedicata alla cura della famiglia e anche in discreta salute. Ma qui finisce l'allegria. Per il resto, scorrendo, il rapporto Istat, si capisce bene che, se non sei Melania Trump, fare la casalinga è oggi scelta ad alto rischio. Quasi meglio fare la stunt-woman. Una casalinga su cinque tra i 15 e i 34 anni è a rischio povertà. Il 63 per cento delle casalinghe ultracinquantenni e meridionali non possiede un bancomat né una carta di credito. E via deprimendosi. Come stupirsi che gli angeli del focolare prendano il volo? In più, anno dopo anno, è andato erodendosi il riconoscimento sociale del ruolo. Se sei sposata a un miliardario, se sei Melania Trump, insomma, puoi non essere intimidita e anzi rivendicare il tuo essere old fashion: «Il mio lavoro e' mio figlio Barron e la mia famiglia». Tie'. Ma già se ti chiami Ivanka sulla tua identity card vuoi scrivere imprenditrice e, se papà va alla Casa Bianca, sarai ben lieta di accrescere le tue competenze aggiungendo al Cv consigliere del presidente degli Stati Uniti. In un mondo nel quale tutti debbono essere interessanti anche la casalinga privilegiata vorrebbe avere un biglietto da visita. Chi può si inventa un'identità professionale, dall'insegnante di yoga alla decorazione di interni. Perché quando ti chiedono «cosa fai» e tu rispondi spavalda «la casalinga» può anche darsi che dietro la risata si intravveda la paura che il tuo vicino/a di tavolo o di cocktail ti consideri poco interessante, e sposti la sedia verso altri invitati. Nella logica spietata del riconoscimento sociale una casalinga «non ha niente da dire» anche se invece legge, o ha letto, molto più di te e potrebbe condividere pensieri molto più interessanti dei tuoi. In Germania, dove se hai due o tre figli e un lavoro non particolarmente ben pagato, ti conviene fare la mamma e non cercare una baby sitter. A maggior gloria della demografia e dello stato tedesco che, grato, ti pagherà per questo. In Italia, per decenni, abbiamo tirato a campare: più che incentivare la casalinghitudine si è scoraggiata la ricerca di un lavoro. Risultato: le italiane hanno semplicemente ridotto, e di molto, il numero dei figli. E le figlie e le nipoti di due generazioni di donne che ce l'hanno fatta a tenere in piedi tutto, lavoro e famiglia, a casa non tornano. Anche volendo, non potrebbero permetterselo. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Pianeta Venezia di Elena Tebano Negozi, visitatori, crocieristi, stanze in affitto. Tutti i numeri di una città che sta cambiando (per ogni residente ci sono 4 turisti al giorno) Nel centro storico di Venezia sono sempre meno i negozi a uso dei residenti: solo 437 sui 2.968 ancora in funzione. Molti di più sono quelli che servono i turisti, 1.278 , a cui

se ne aggiungono 956 che hanno un’utenza mista, come rileva una ricerca del Laboratorio di analisi urbana e territoriale dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. D’altronde se ne sono andati anche i residenti: nei sei sestieri della città nel 1961 abitavano 137.150 persone, a dicembre scorso solo 54.705 . I turisti, si stima, nei giorni di punta arrivano invece a essere tre-quattro volte tanti. Giocoforza che cambino anche i negozi della zona. «Abbiamo visto che gli esercizi commerciali cambiano velocemente destinazione - spiega Laura Fregolent, professoressa dell’Iuav che ha diretto lo studio - e quindi succede spesso per esempio che un panificio tradizionale chiuda e riapra come posto di ristorazione veloce» (i forni infatti sono rimasti in tutto 31 , dopo che tra il 2011 e il 2015 dieci hanno chiuso). È una tendenza comune ad altre città turistiche: «A Venezia però è accelerata - spiega il presidente di Confcommercio Veneto Massimo Zanon -. Gli affitti commerciali ormai non sono più compatibili con quelli del negozietto sotto casa». A Campo San Bartolomeo si spendono 5.100 euro al metro quadro all’anno, secondo quanto ha rilevato la Federazione Moda Italia di Confcommercio. Ma c’è anche chi, come la soprintendente Renata Codello, fa notare che prima era peggio: «Quindici anni fa non si trovava un supermercato, adesso sì». Dalla ricerca Iuav emerge che i piccoli supermercati in città sono 29. Sono le tensioni entro cui si muove questa città unica al mondo - anche se ne esistono almeno 100 repliche, di cui 32 negli Usa (lo calcolano Barbara Colli e Giuseppe Saccà in Conosci Venezia?, uscito l’anno scorso per le edizioni Clichy). Apparentemente immutabile da secoli eppure in costante evoluzione: fosse solo che vive del rapporto con il mare che la circonda. «Ogni giorno 400 dei 600 milioni di metri cubi d’acqua contenuti nella Laguna - ricorda Giuseppe Saccà - vengono scambiati con il Mare Adriatico». Di acqua è fatto anche il 61,97% del «territorio» comunale, mentre la città si estende su 124 isole e conta 438 ponti, di cui 90 privati («che diventano 455 - puntualizza sempre Saccà - se si includono i nove di Murano e gli otto di Burano»). I turisti si concentrano soprattutto nella sua unica piazza (San Marco, gli altri sono campi o campielli) o ammirano i 180 palazzi o edifici monumentali del Canal Grande, il più recente dei quali, un ampliamento di un monastero cinquecentesco, è stato ultimato due anni fa. Spesso si concedono un giro sulle sue 433 gondole da nolo, spinte da 600 gondolieri che si alternano al remo. Più di rado si spingono fino alla Calle Varisco, nel sestiere Nord di Cannaregio, che con i suoi 53 centimetri è la più stretta di Venezia. Ma con la loro pressione enorme cambiano continuamente il tessuto della città. Oggi le case svuotate di residenti diventano sempre più spesso strutture ricettive: sono 7.150 in città solo quelle prenotabili su Airbnb. In totale fanno 27.648 posti letto, affittati in media a 190,5 euro al giorno per gli appartamenti, 90 euro per le stanze private, 47 per quelle condivise, secondo i calcoli del professore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia Jan Van Der Borg. Lo stesso che ha cercato di valutare, per conto del Comune, quanti sono davvero i turisti che visitano la città. Gli ultimi dati ufficiali (relativi al 2015), contano 4.495.857 arrivi all’anno e 10.182.829 presenze, di cui rispettivamente 2.776.668 e 6.814.317 nella città storica. Solo i crocieristi sono stati 1.582.481 . Ma sono dati che rilevano solo chi ha passato almeno una notte nel Comune. Van Der Borg stima che con quelli mordi e fuggi si arrivi a 28 milioni l’anno, mentre la città può sostenerne solo 14 milioni. «Gestire bene il turismo è essenziale per la sopravvivenza della città - dice Van Der Borg -. Non con il numero chiuso, sbagliato e irrealistico. Ma con un sistema di incentivi che distribuisca i flussi di visitatori e li renda compatibili con le esigenze della collettività». Con l’aumento del turismo globale è una questione decisiva: «Non si può pensare di moltiplicare all’infinito i numeri - concorda Marco Michielli, presidente di Confturismo Veneto -. La prima cosa da fare è capire precisamente qual è il carico di persone che la città può sopportare, quanta gente entra e come. Poi dobbiamo metterci a tavolino e trovare un modo per contingentarla. E per far rientrare i veneziani, con le loro attività, a Venezia: la città dovrebbe avere almeno 80 mila abitanti». LA NUOVA Pag 19 E’ nato Marco, potrà chiamarsi Angela di Roberta De Rossi La Corte d’Appello ha concesso il cambio del nome anche se non si è ancora sottoposto all’intervento per il cambio di sesso

È nato Marco, ma da ora si chiamerà legalmente Angela (i nomi sono di fantasia, ndr), anche se non si è ancora sottoposta all'intervento chirurgico per il cambio di sesso.La prima sezione civile della Corte d'Appello di Venezia - con una sentenza senza precedenti in Veneto e tra le prime in Italia - ha ordinato all'ufficio anagrafe del Comune di cambiare nome e generalità di Angela, cancellando per sempre dai suoi documenti quel "Marco di sesso maschile" che lei ha sempre sentito come estraneo da sé. «La Corte d'Appello ha preso una decisione molto importante in Italia, rovesciando una sentenza oscurantista del Tribunale di Venezia e ponendo fine alla castrazione chirurgica obbligatoria preventiva, che per alcune persone è una vera e propria tortura di Stato», commenta con soddisfazione l'avvocata Alessandra Gracis, «qui parliamo di una persona con un'accertata disforia di genere, ossia in una condizione esistenziale per la quale non si riconosce nel sesso biologico maschile, percependo sé stessa e vivendo da anni come donna».«Quel che è particolarmente grave», prosegue la legale, «è che il Tribunale civile di Venezia non aveva tenuto conto di sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale, che a fronte di un'accertata disforia di genere, ha riconosciuto il diritto al cambio anagrafico di generalità anche senza l'obbligo di sottoporsi prima all'intervento».Sin da quando ha preso coscienza di sé, Marco si è vestito e comportato da Angela, ha vissuto da donna, si è sottoposto a cure ormonali e a una mastoplastica al seno. Sul posto di lavoro è donna. Al Tribunale aveva chiesto sia l'iscrizione anagrafica come donna, sia l'autorizzazione al cambio di sesso, ma i giudici avevano subordinato il cambio di documenti all'accertamento dell'operazione. Nel rovesciare il giudizio di primo grado e ordinare all'Anagrafe di riconoscere Angela come donna, la Corte d'Appello cita le sentenze 15138/2015 della Cassazione e 221/2015 della Corte costituzionale, riconoscendo come l'affermazione del diritto all'identità personale «non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico fisica con l'obbligo dell'intervento chirurgico», ma «l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che ne postula la necessità, purché la serietà e univocità del percorso scelto sia accertata da rigorosi accertamenti tecnici». Ora Angela potrà decidere liberamente se sottoporsi o no all'intervento chirurgico. Mai semplice, in Italia.«Dal 1993 la Regione Veneto ha una legge al riguardo, ma non ha mai creato i percorsi giuridico-amministrativi e sanitari per sostenere queste persone transessuali nel loro cambiamento di genere», prosegue l'avvocato Gracis, «così chi vuole operarsi, deve andare in altre città sottoponendosi a lunghe attese e a risultati che possono essere drammatici, perché purtroppo in Italia si fanno troppo pochi interventi e il risultato può essere una schiavitù umiliante. Così chi ha i soldi va all'estero: in Thailandia costa 15 mila euro, in Usa, 30 mila». «In ogni caso, ci sono transessuali che non vogliono in alcun modo sottoporsi a un intervento», conclude Gracis, «sentenze come questa della Corte d'Appello ridanno dignità alle persone. Parliamo di esseri umani e la chirurgia dev'essere una libera scelta, mentre va garantito il diritto al cambio anagrafico comunque, a fronte - naturalmente - di un'accertata disforia di genere: non parliamo di uomini e donne che si svegliano la mattina e vogliono cambiare sesso. Ora la Regione dia i servizi che non garantisce da 20 anni». Pag 31 La chimica della gloria e della decadenza di Gianfranco Bettin L’abbattimento delle torri della Vinyls. Immaginare di salire un’ultima volta sulle torce significa contemplare il vuoto ma anche interrogarsi sul futuro dell’area Sono gli ultimi giorni, le ultime ore, delle due torri altissime che da decenni, con le fiaccole di sicurezza, dominano il panorama industriale e portuale di Marghera e l'intera città. Sono le ciminiere della Vinyls, la fabbrica del cvm e del pvc, il cuore del vecchio petrolchimico. Ospitava buona parte della produzione più strategica, con il vicino cracking, del ciclo del cloro. Una produzione pagata in vite, salute e guasti ambientali, a causa di una programmata elusione di regole e norme. Infine si è chiamata Vinyls, ma non era che un tassello del grande petrolchimico. Il suo declino, in laguna e in tutto il paese, non si deve solo agli alti costi energetici e ambientali e al venir meno di condizioni globali di competitività. Lo si deve alla rinuncia dell'Italia a una politica industriale moderna e lungimirante. In diversi settori, già all'avanguardia: la farmaceutica, l'elettromeccanica, l'informatica, e appunto la chimica. Se l'Italia avesse avuto verso la chimica un'attenzione pari a un decimo di quella avuta per l'automobile,

non staremmo ad attendere la demolizione di queste ciminiere, la cui fine è il segno di quel più generale fallimento industriale nazionale. Una demolizione, peraltro, che non porterà a niente, in quello spazio tra via della Chimica e il canale industriale ovest, uno dei luoghi più suggestivi di un paesaggio che resta di singolare fascino, in cui si mescolano i segni del lavoro umano, dell'avventura tecnico-scientifica di una ricerca che ha conquistato un premio Nobel (Natta, 1963), le architetture e le ingegnerie industriali, la gloria difficile di un'epoca e la sua cruda decadenza, i segni che spingono indietro nel tempo e quelli che invitano a guardare avanti, mentre l'acqua e il cielo riflettono tutto questo in colori che a volte sono il trionfo della natura ritrovata e in altre appaiono invece totalmente artificiali, incongrui, pura fantascienza, visioni lisergico-oniriche, fiammeggianti o nottilucenti. Un verso di Smoke on the Water, dei Deep Purple, descrive bene lo skyline storico di Porto Marghera: "Ci creammo un posto da spavento / Non importa cosa ci abbiamo ricavato / So che non lo dimenticheremo mai / Fumo sull'acqua, fuoco nel cielo." Salire un'ultima volta sulle ciminiere della Vinyls significa certo contemplare un fallimento, Il vuoto che resta là sotto. Ma significa anche provare a guardare oltre. Perché il punto non è che vengano demolite, dopo tante altre. E' che al loro posto non ci sia niente, dopo. E per la Vinyls in effetti sarà così, amaramente.Già luogo di una produzione fondamentale, già luogo e simbolo di lotte operaie strenue, creative, disperate: scioperi, blocchi, cortei, assemblee in fabbrica e fuori, arrampicarsi sulla cima, sul ponte del cracking, notti a vegliare al vento, al freddo, al buio, ad aspettare albe livide in tutti i sensi, accamparsi in un'isoletta della laguna per gridare di essere all'ultima spiaggia, incontrare il papa a Venezia, e subito dopo incontrare Vasco, il papa del rock, a San Giuliano, fondare un gruppo rock, i Garbato-Vinyls 176, che racconta questa storia in musica, e tanto altro ancora). Già simbolo di tutto ciò, queste ciminiere sono diventate infine il marchio di un fallimento politico e istituzionale, non meno che imprenditoriale. Tutti i tentativi di rilancio si sono infranti su avventurieri inaffidabili e sulla latitanza della politica soprattutto nazionale. Le dichiarazioni tristi di questi giorni, dei pur fieri ex lavoratori, quelle disilluse del pur tenace curatore fallimentare Pizzigati, lo confermano. Così come il silenzio stolido di tanta politica, anche locale. Ma la lezione che la Vinyls ci lascia, nel momento in cui cadono i suoi simboli giganteschi, può e deve essere messa a frutto. Da lassù prima che cadano le torri, si può appunto provare a guardare oltre. La gran parte della chimica di base a Marghera è finita. Lascia un vuoto di lavoro, di tecnologia e di sistema. Lascia anche l'onere impervio di bonificare i terreni. Su questo punto, nei giorni scorsi, è venuto almeno un segno incoraggiante. E' la bonifica in corso (altre ci sono già state, ancora poche tuttavia) di un'area attigua a Malcontenta, discussa pochi giorni fa con la popolazione, insieme ai tecnici di Syndial (Eni). Un segno positivo che, se ci fosse una spinta in termini di risorse e di norme più adeguate, potrebbe allargarsi, restituendo spazi preziosi alle attività produttive e alla città.Un altro segno positivo riguarda il cuore stesso della chimica rimasta a Marghera, il cracking, gli impianti oggi di Versalis, ed è il piano che può sancire il passaggio alla "chimica verde", sostenibile e competitiva (che fa il paio con la riconversione "bio" della vecchia raffineria lagunare). Per la prima volta, non un rattoppo o la spremitura estrema di un sistema obsoleto, bensì un investimento che guarda al futuro, l'ingresso della chimica di Marghera nel ventunesimo secolo. Da sopra le ciminiere della Vinyls, dunque, si può vedere anche questo, oltre a tutto il resto, il bene e il male che segnano una delle più grandi aree portuali e industriali del paese. Si vede la storia, che cambia insieme al paesaggio, la fatica, l'intelligenza, la forza di chi ci ha lavorato e progettato. Si vede la latitanza istituzionale che è soprattutto nazionale, di governo e parlamento. Porto Marghera ha contribuito a fare l'Italia più ricca e potente, fornendo materie prime e seconde, semilavorati, prodotti finiti, salari e stipendi, valore aggiunto, Pil. Non manca, oggi, chi vorrebbe dimenticarsene e abbandonarla. Non deve mancare chi invece metta energie, idee e progetti all'altezza di una storia così grande. Porto Marghera, fondata nel 1917, non deve compiere i propri cent'anni in solitudine. Pag 37 Porto Santa Margherita pronta alla “secessione” da Caorle di Giovanni Cagnassi I residenti e i proprietari di seconde case vogliono un referendum per passare con Torre di Mosto

Porto Santa Margherita. «Non siamo più solo una vacca da mungere». Da Porto Santa Margherita si leva il grido di residenti e proprietari di seconde case che invocano la "secessione" da Caorle e chiedono di staccarsi per diventare lo sbocco sul mare della vicina Torre di Mosto. La misura è colma e dopo anni di poca attenzione da parte della "madrepatria" Caorle adesso la frazione che ebbe anni gloriosi soprattutto tra i '70 e gli '80, vuole riavere la sua dignità, strade, marciapiedi, interventi seri da parte del Comune cui appartiene e che regolarmente la trascura. Si parla già addirittura di un referendum e Danilo Galante, responsabile dell'associazione dei proprietari di seconde abitazioni a Porto Santa Margherita, ha già affrontato diverse riunioni in merito. La sorpresa è stata che tanti a Porto Santa Margherita lascerebbero volentieri le luci e i colori di Caorle per il paesino sulle rive del Livenza, famoso per la cucina dell'anguilla e la pesca sul fiume in genere. Ma anche subito disposto a stanziare investimenti e risorse. Porto Santa Margherita è dal punto di vista amministrativo una frazione di Caorle, anche se è di fatto una località balneare vera e propria con la sua famosa darsena e una identità consolidata. Sono lontani i tempi dei grandi panfili che veleggiavano al porto, la nuova località esclusiva dell'Adriatico. Erano gli anni '80 e abbondavano le frequentazioni dei socialisti, i locali alla moda come il Tortuga di Armando Vallese. Oggi ci sono circa 800 residenti, quindi non molti voti, a fronte di oltre 50 mila presenze se consideriamo anche Duna Verde e Altanea. Ci sono 6 mila appartamenti e pare che un buon 50 per cento della tassa di soggiorno, da 1 milione e mezzo di euro, derivi da qui. «Con il precedente sindaco di Torre di Mosto Camillo Paludetto», dice Galante, «eravamo a buon punto e adesso con il nuovo sindaco Geretto stiamo già discutendo di questa possibilità. Iniziamo a raccogliere le firme, poi ci sarà un referendum consultivo e la Regione dovrà decidere se sarà limitato a Porto Santa Margherita o a tutta Caorle, perché questo è il problema. Partiamo dal fatto che nel piano triennale delle opere pubbliche Caorle ha destinato a noi solo un palco, da mettere in piazza, per 20 mila euro. Non molto direi. Praticamente siamo dimenticati», continua Galante, «eppure garantiamo l'Imu per 4 milioni di euro l'anno. Torre di Mosto è il Comune che ci accoglierebbe a braccia aperte e garantirebbe gli investimenti necessari. Non avremmo più il brand di Caorle, ma in fondo preferiamo un Comune che ci tenga in considerazione e garantisca i lavori di cui abbiamo bisogno, per verde pubblico, marciapiedi, strade dissestate». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Smartphone indispensabile: “Non potrei più vivere senza” di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Veneto, Friuli e Trentino: in tre anni la diffusione è cresciuta del 22%. Ne possiede uno il 64% degli over 14. Legrenzi: “Ma ci tolgono la noia che abitua a pensare” L'ascesa di smartphone e tablet non si arresta. Secondo i dati raccolti da Demos per Il Gazzettino e pubblicati oggi all'interno dell'Osservatorio sul Nord Est, il 64% dei nordestini con più di 14 anni ne possiede uno e la crescita rispetto al 2014 è di 22 punti percentuali. Per chi lo possiede, è difficile immaginare di tornare indietro. Ho bisogno dal mio smartphone o tablet: oggi non potrei più vivere senza o con un telefono normale: con questa opinione si dichiara moltissimo o molto d'accordo il 37% dei possessori (+ 8 punti percentuali rispetto al 2014). Tablet e soprattutto - smartphone si sono insinuati nella vita di ogni giorno cambiandola radicalmente. Avere a disposizione uno strumento come questo, infatti, ha abbattuto confini e tempi. Si può controllare la posta elettronica in ogni momento. Si possono fare videochiamate in tempo reale con persone in tutto il mondo. Si possono reperire informazioni prima difficilmente raggiungibili. Si possono fare acquisti in ogni momento. Appare comprensibile, dunque, il loro rapido diffondersi e il fatto che questi vengano vissuti come oggetti necessari alla vita odierna. Esaminando la serie storica di Demos, infatti, possiamo osservare la forte crescita che hanno conosciuto smartphone e tablet. Nel 2014 era il 42% a possederli, l'anno successivo la quota era salita al 53%, si era poi assestata al 56% nel 2016 per arrivare oggi al 64%. Guardando ai settori sociali, però, emergono delle fratture che dividono la popolazione in

modo piuttosto netto. Anagraficamente, vediamo che la diffusione di smartphone e tablet è sostanzialmente universale tra i più giovani (97%); la loro presenza è molto ampia anche tra le persone tra i 25 e i 44 anni (79-83%); scende poi al 66% tra quanti hanno tra i 45 e i 54 anni e si riduce ulteriormente al 52% tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni. Ma è tra gli over-65 che il possesso crolla drasticamente, scendendo al 25%. Guardando al genere, invece, vediamo che sono soprattutto gli uomini (69%) più che donne (60%) a disporre di questi strumenti. Se consideriamo il fattore istruzione, poi, osserviamo che l'utilizzo di smartphone e tablet raggiunge il 90% tra coloro che sono in possesso di un diploma o una laurea. La quota si ferma intorno alla media dell'area tra quanti hanno conseguito la licenza media (65%), ma crolla al 21% tra quanti hanno quella elementare. Guardando alle categorie socio-professionali, inoltre, vediamo che sono soprattutto studenti (98%), impiegati (92%), liberi professionisti (89%) e operai (75%) a possedere smartphone e tablet. Sostanzialmente in linea con la media dell'area invece è la presenza tra imprenditori (62%) e disoccupati (63%). Tra casalinghe (48%) e pensionati (30%), invece, è meno frequente incontrare possessori di smartphone e tablet. Tornare indietro è possibile? Si possono abbandonare smartphone e tablet o sono indispensabili? Con l'aumento della presenza nella vita di tutti i giorni, nei possessori è cresciuta anche l'idea che tornare indietro sia impossibile. Nel 2014, il 29% ammetteva di non poter vivere senza: oggi la percentuale arriva al 37%. A sostenerlo sono soprattutto gli under 44 (con valori compresi tra il 42 e il 54%), le donne (43%) e quanti hanno conseguito un livello di istruzione alto (43%). Professionalmente, invece, sono i liberi professionisti (48%) e le casalinghe (43%), gli impiegati (42%) e gli studenti (41%) a ritenere smartphone e tablet irrinunciabili al giorno d'oggi. «È uno di quei pochi temi per i quali si annullano i confini regionali, nazionali e persino quelli internazionali, con la geografia del pianeta che diventa un unico territorio popolato dalla stessa passione e dallo stesso crescente desiderio di possedere la tecnologia. Un’uniformità di tendenze che fa di questo argomento anche l’unico per il quale sia possibile tracciare con certezza, alla stregua di una magica sfera di cristallo, le proiezioni per il futuro». Paolo Legrenzi, Professore emerito di Psicologia Cognitiva all’Università Ca’ Foscari di Venezia, parte dalla visione di un villaggio globale tecnologico per analizzare quelli che definisce «preziosi dati che rivelano la diffusione a Nordest di tablet e smartphone, ma che non raccontano purtroppo, perché sarebbe davvero molto complicato, il loro utilizzo. Anche se, ad indovinare una possibile narrazione – sostiene Legrenzi - ci sono i risultati di questo osservatorio per classi d’età». Le nuove generazioni tirano le fila del nuovo quotidiano virtuale. «Proprio così. E non sempre sono capitani di una ricerca virtuosa di informazioni. Purtroppo, infatti, tablet e smartphone per giovani ed adolescenti sono sostitutivi dei loro comportamenti». E la tecnologia da preziosa fonte di nutrimento per l’intelletto diventa una spinta ad impigliarsi in una Rete fatta, talvolta, di disinformazioni e di finti dialoghi. «Esattamente. Il problema è che in uno smartphone e in un tablet non c’è solo il vecchio telefono o il computer per scrivere o fare ricerche, ma bensì un mondo che spesso compromette l’iter di un’educazione e di uno sviluppo equilibrati per i ragazzi. Parlo anche della possibilità di annoiarsi che abitua a pensare. Ebbene, ormai, difficilmente si osserva un giovane, ma anche un bambino, che al mare stia fermo sdraiato accanto ai suoi genitori guardandosi intorno. Ora vedi sempre bimbi ed adolescenti impegnati, chini, sui loro smartphone o su quelli di mamma e papà a “tappare”. Giochi, app, chat, impediscono il normale fluire delle loro vite. Che, ripeto, dovrebbero anche passare attraverso la noia, che porta con sé il pensiero e la capacità di ragionare. Ed è questo che farà la differenza nel loro futuro. La loro formazione e non le possibilità economiche delle loro famiglie. Conta e conterà sempre più l’educazione dell’intelletto e della sensibilità». I destini di alcuni sembrano, dunque, essere già segnati. «Purtroppo questa è la realtà. Lo sviluppo di certe capacità, per entrare attrezzati nel mondo degli adulti, deve passare attraverso alcune prove di forza. E, certamente, molte di queste non passano attraverso i dialoghi virtuali oppure attraverso le sfide in un campo da gioco chiuso in un monitor di una smart tv o di un palmare». Serve una guida per far fronte alle subdole trappole che la Rete tende ai giovani ed inesperti navigatori della Rete. «Le famiglie, infatti, devono essere onnipresenti. Non possono delegare la crescita dei propri figli alla comunicazione o ai giochi virtuali. Perché le conseguenze più sconfortanti sono già sotto i loro occhi. E basta

osservare un ragazzo nella propria stanza dopo appena dieci minuti senza tecnologia: manifesta un evidente disagio. Un’insoddisfazione anomala per un giovane che dovrebbe inventare giochi, correre, leggere, costruire, parlare e pensare”. L’insostenibile ‘pesantezza’ della tecnologia. «Invadente e, in alcuni casi, anche compromettente per il presente e per il futuro quando ad esempio i ragazzi, ma anche gli adulti, accettano che le loro immagini o loro parole - più o meno imbarazzanti – possano circolare in questo mondo virtuale tramite le chat o le app. Inutile, poi, lamentarsi del loro inesorabile ed inarrestabile fluire. Perché queste conseguenze sono i più eclatanti fallimenti della razionalità nell’uso di questi strumenti». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Uno scatto per battere le lobby di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Le liberalizzazioni La legge sulle liberalizzazioni, dopo due anni e mezzo di rimbalzi fra Camera e Senato, pare vicina all’approvazione. Già il testo varato dal governo era poco ambizioso: il Parlamento lo ha ulteriormente annacquato. In alcuni casi peggiorato, ad esempio introducendo una norma che produrrà l’effetto di far scomparire dall’Italia servizi online per prenotare un albergo, come booking.com, trivago, tripadvisor, così come già è scomparso Uber.Un bel risultato per un Paese in cui il turismo è così importante! Per non parlare dei notai la cui difesa dello status quo è più difficile da infrangere di una parete di acciaio. O le aziende pubbliche locali che rimangono perlo più proprietà intoccabile della politica. Un inciso:a fine anno scade la concessione all’Atac per il trasporto pubblico a Roma, ci sarà una gara, e si vedrà se il legame con i potentati si reciderà. Comunque è bene che la legge sulla concorrenza venga approvata, anche solo per non darla completamente vinta alle mille lobby che l’hanno neutralizzata. Sono leggi come queste che cambiano la vita di tutti i giorni dei cittadini. Il problema è che le liberalizzazioni politicamente non pagano, quindi nei programmi dei partiti non entrano. Il motivo è che si tratta di un perfetto esempio di benefici generalizzati e costi concentrati, «il» problema fondamentale di politica economica. Tutti i cittadini beneficerebbero di mercati più liberi: ci ricordiamo quando volare a Londra costava un milione o più di vecchie lire? Oggi ci si può andare con poche decine di euro. Ma se tutti ne beneficiano, e siamo in democrazia, perché è tanto difficile liberalizzare certi servizi? La risposta è ovvia: perché qualcuno perderebbe la propria rendita di monopolio, accumulata da decenni e protetta da varie associazioni la cui ragione d’essere è bloccare il cambiamento. Come? Facendo pressione sui politici mediante finanziamenti più o meno leciti, tramite scioperi selvaggi, blocchi degli aeroporti e disinformazione all’opinione pubblica tipo: i voli low cost sono pericolosi, per vendere una aspirina ci vuole una laurea in farmacia, senza i notai sarebbe impossibile tenere aggiornato il catasto. Tutti noi, invece, semplici cittadini contribuenti non siamo organizzati: certo, votiamo, ma se nessun partito è libero dalle pressioni delle lobby – attente a influenzare tutti, non solo un parte politica – il nostro voto, almeno su questi temi, non varrà granché. Così si crea un circolo vizioso. Meno si liberalizza, più crescono le rendite di posizione e le risorse per difenderle, con il risultato di bloccare cambiamenti dei quali invece beneficerebbero tutti. Come si spezza questo circolo vizioso? Lo spiegava già decenni orsono Mancur Olson: ci vuole un leader che scardini questo equilibrio, rivolgendosi con coraggio ai cittadini e così scavalcando le lobby. Ci vorrebbe uno scatto che rompa lo status quo, perché meno si cambia, più chi si oppone al cambiamento si rafforza e di conseguenza più difficile diventa cambiare. Quindi nel caso delle liberalizzazioni ci vorrebbe una rottura. L’unica strada è una sorta di «rivoluzione». In Europa lo fecero, da destra, Margaret Thatcher nel Regno Unito e da sinistra Gerhard Schröder in Germania. Forse lo farà Emmanuel Macron in Francia. Negli Stati Uniti lo fecero Ronald Reagan e Bill Clinton. Abbiamo noi un leader «rivoluzionario» di questo tipo? Matteo Renzi di liberalizzazioni ne ha capite e attuate due (importanti): il mercato del lavoro e le banche popolari. Avrebbe dovuto insistere, non spaventandosi di fronte alle urla delle lobby. Quando il tuo bambino ha la febbre, è domenica sera e sei in

autostrada, capisci quanto è importante poter acquistare l’aspirina all’autogrill, anziché vagare per la città alla ricerca della farmacia di turno. Renzi avrebbe dovuto scavalcare le lobby e rivolgersi a questi genitori. Pag 1 Il casting di Berlusconi di Francesco Verderami Marina: non credo a dinastie politiche Berlusconi ha cambiato settore merceologico: è passato dalla pasta (Barilla) e dai gelati (Grom), alle auto (Marchionne) e alla siderurgia (Marcegaglia). Negli anni il Cavaliere, a furia di lanciare candidati premier, è rimasto uguale a se stesso. Perché è a se stesso che continua a pensare come leader. E non si cura delle smentite, che mette in preventivo: ha smentito infatti l’ad della Fiat, che non pensa a scendere in campo «neanche di notte»; smentisce la presidente di Eni, che parla di «bufala estiva provocata dalla temperatura molto alta»; ed è costretta a smentire persino Marina Berlusconi, che ribadisce di non volersi candidare e di non credere alle dinastie in politica. La presidente di Mondadori ha perso il conto delle precisazioni fatte dal 2011 ma teme che quella di ieri non sarà l’ultima. Se il gioco di Palazzo non si ferma, è perché ad alimentarlo è lo stesso Berlusconi (Silvio). L’unica e sostanziale differenza rispetto al passato è che non c’è più il vecchio centrodestra. Il primo a evidenziarlo in ogni occasione è proprio il leader di Forza Italia, sponsor di una riforma elettorale proporzionale che farebbe piazza pulita delle coalizioni e sgombrerebbe il campo dalla necessità di proporre un candidato premier, restituendo alla mediazione tra partiti in Parlamento la ricerca di una maggioranza di governo e di un presidente del Consiglio. Ecco. A quell’appuntamento il Cavaliere vorrebbe arrivarci con un gruppo di fedelissimi e le mani libere da alleanze precostituite. Il casting sul successore gli serve oggi per dimostrare che sarebbe disposto a passare il testimone, semmai ci fosse qualcuno in grado di raccoglierlo, e per evitare di assumersi la responsabilità della rottura con Salvini. Il divorzio per certi versi sarebbe consensuale, visto che lo stesso capo leghista è contrario a una lista unica con Berlusconi. E non solo per ragioni politiche. Un recente sondaggio conferma i dati di uno studio di qualche mese fa, dal quale è emersa per la prima volta la difficoltà a mettere insieme le basi di Forza Italia e del Carroccio. Il nuovo test ribadisce che un listone, comprendente anche Fratelli d’Italia, lascerebbe sul campo otto dei trentatrè punti di cui è accreditata al momento la coalizione. L’insistenza con cui il Cavaliere si mostra intento allo scouting è legata a un duplice motivo. Da un lato, se non potesse candidarsi, avrebbe bisogno di un testimonial per la sua lista, così da implementare il suo personale patrimonio elettorale che nel tempo si è assai ridotto. Ha ragione quindi l’ad di Pirelli Tronchetti Provera a definire «una fantastica idea di marketing» l’uso del nome di Marchionne: «È uno di quei colpi creativi che Berlusconi ogni tanto ha». Dall’altro lato il Cavaliere deve prepararsi a fronteggiare un delicato problema politico: se rimanesse l’attuale sistema di voto con premio di maggioranza alla lista, e decidesse comunque di separarsi nelle urne da Salvini, il volto nuovo gli servirebbe per ridurre l’impatto mediatico (e i danni elettorali) di una scissione in Forza Italia, a quel punto molto probabile. Non a caso ieri il più caustico commento su un «dibattito da spiaggia per la migliore silhouette» è giunto dall’azzurro Toti, teorico di una lista unitaria con il Carroccio. «Tutti sono utili, di indispensabili sono piene invece le fosse», ha detto il governatore ligure, alludendo ai «candidati da spiaggia» ma anche a Berlusconi: «Continuare a proporsi o a proporre qualcun altro per la leadership, non mi pare sia lo sport adatto a stare insieme e vincere». Con un testimonial di prestigio al suo fianco il Cavaliere immagina di poter contrastare il «polo dei quarantenni» che punterebbe al rinnovamento, cioè alla sua rottamazione. Per ora non c’è nulla di deciso. Non c’è nemmeno la legge elettorale. Pag 10 I genitori di Charlie e il grido in tribunale: se fosse vostro figlio non fareste di tutto? di Luigi Ippolito Il giudice: “Avete 48 ore per convincermi che la terapia alternativa può aiutare il piccolo” Londra. «È dura per noi stare seduti in questa stanza! Si tratta di nostro figlio, tutto questo non è giusto!». La voce di Connie Yates taglia l’aula del tribunale. Per un attimo il silenzio cala nella Corte di Giustizia di Londra. Suo marito stringe nervosamente tra le

mani un piccolo orsacchiotto di peluche. Poi la discussione sulla vita e la morte del piccolo Charlie Gard riprende. Staccare la spina - «Non c’è nessuno qui che non voglia salvare il bambino», puntualizza il giudice Francis, che sarebbe «felice» di cambiare opinione rispetto alla sentenza che lui stesso pronunciò lo scorso aprile, quando autorizzò i medici del Great Ormond Street Hospital a staccare la spina al bimbo malato. «Ma dovrete convincermi che qualcosa di drammaticamente nuovo è cambiato», aggiunge, perché «la considerazione primaria è il benessere di Charlie». E dà 48 ore di tempo ai legali della famiglia per presentare le prove che una terapia alternativa può avere successo nel trattare il piccolo, affetto da una gravissima malattia genetica. Giovedì mattina ci sarà la nuova decisione, anche se il magistrato non esclude un ulteriore slittamento. Il caso è tornato ieri di fronte all’Alta Corte dopo che i pediatri londinesi hanno ricevuto una lettera da parte dei medici vaticani in cui si affermava che era disponibile una terapia in grado di funzionare col piccolo Charlie. Ma anche perché i legali del bambino li hanno minacciati di portarli in giudizio se non avessero tenuto conto della cosa. La prima sentenza del giudice Francis era stata convalidata da una Corte d’appello, dalla Corte suprema e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma l’ospedale ha deciso di rimettersi di nuovo nelle mani della magistratura. Anche se l’avvocatessa che ieri rappresentava il Great Ormond Street Hospital è stata chiara: per i medici inglesi non c’è niente di nuovo nelle evidenze presentate, si tratta di studi già noti da anni che non forniscono nessuna garanzia di efficacia. Danni irreversibili - «Quando comincerai a dire la verità?» le ha allora urlato il padre di Charlie. «Ti stanno mentendo», ha lanciato all’indirizzo del giudice, mentre la moglie scuoteva la testa ripetendo «non è vero, non è vero». Ma il magistrato ha letto una dichiarazione dell’ospedale in cui si afferma che «è terribilmente ingiusto verso Charlie continuare il trattamento settimana dopo settimana sapendo che è contro il suo benessere». Il giudice ha ripetuto più volte che il bambino ha subito danni cerebrali strutturali irreversibili e che soltanto la prova che ci possa essere un miglioramento di questa condizione potrebbe convincerlo a cambiare idea: «È solo il suo corpo che cresce, il suo cervello non sta crescendo», ha affermato. Ma anche qui Connie lo ha interrotto: «Non è vero, gli infermieri hanno misurato la circonferenza della testa, è cresciuta di due centimetri solo nelle ultime settimane!». La madre di Charlie è convinta che il bambino risponda alle sollecitazioni. E il suo avvocato ha spiegato alla Corte che secondo un medico americano la terapia sperimentale ha il 10 per cento di possibilità di successo. «Il 10 per cento - è intervenuta di nuovo Connie rivolta al giudice - se fosse tuo figlio non lo faresti?». I genitori del bambino, tramite i legali, hanno tentato anche di ricusare il magistrato durante l’udienza, argomentando che la sua precedente sentenza non gli consente di deliberare in modo imparziale. Ma il giudice Francis ha rifiutato di fare un passo indietro: «Ho fatto il mio lavoro e continuerò a farlo - ha detto - se lasciassi questo caso verrei meno al mio dovere. Sarei felice di cambiare idea, ma devo applicare la legge». Enorme pressione - Il magistrato ha riconosciuto l’enorme pressione che si è creata attorno al caso. L’aula del tribunale ieri era zeppa di giornalisti, mentre fuori dalla Corte gruppi di manifestanti innalzavano cartelli, scandivano slogan in favore di Charlie e intonavano preghiere. «Ma io dovrò decidere non sulla base dei tweet - ha puntualizzato il giudice Francis - non sulla base di cosa potrebbe essere detto sui giornali o ai giornali». «Sono grata al Vaticano per quanto ha fatto per noi», ci ha ripetuto la madre del bambino uscendo dall’aula, prima che il marito la afferrasse per mano e la trascinasse via, infilandosi in un ascensore. Il sostegno del Papa e di Trump «hanno finora salvato la vita» di loro figlio, aveva detto poco prima. «Viviamo sul filo del rasoio ma andiamo avanti - aveva concluso -. I genitori sanno quando i loro bambini sono pronti ad andarsene e Charlie sta ancora combattendo». Pag 26 Il conformismo di sinistra su Islam, immigrati e reati di Giovanni Belardelli Le divisioni e le polemiche sviluppatesi a sinistra tra il Pd e la composita galassia che punta ad aggregarsi (forse) attorno a Pisapia hanno spinto il partito di Renzi ad archiviare rapidamente ogni riflessione sulla sconfitta subita alle amministrative. Eppure proprio quella sconfitta, soprattutto in Comuni come Genova, Pistoia o Sesto San

Giovanni, dovrebbe rappresentare un campanello d’allarme: segnala infatti uno scollamento - culturale ed emotivo prima ancora che politico - tra la sinistra e una parte importante del Paese. Il caso di Sesto San Giovanni è da questo punto di vista emblematico. Il candidato di centrodestra ha lì vinto grazie anche alla sua battaglia contro la costruzione di una grande moschea promessa dalla sindaca uscente. È evidente che i musulmani presenti in Italia debbano avere luoghi appropriati dove pregare. Ma lasciare che la costruzione di una moschea (per di più con i finanziamenti del Qatar, accusato di sostenere il terrorismo) diventi un punto centrale del proprio programma significa non tenere in alcun conto le paure nutrite da un’ampia parte dell’opinione pubblica. Sono paure, quelle legate all’immigrazione, che si impadroniscono soprattutto dei ceti più umili e meno istruiti, di quanti vivono in condizioni di disagio economico, di emarginazione sociale, e sono i più soggetti a interpretare l’immigrazione unicamente come una pericolosa invasione, se non addirittura come la causa prima dei loro problemi. Le élite del Pd e più in generale della sinistra italiana - i suoi esponenti politici, molti suoi intellettuali e giornalisti di riferimento - reagiscono spesso a questo grumo di sentimenti assumendo un atteggiamento da primi della classe, limitandosi cioè a sostenere che se una cosa è giusta è giusta, non c’è altro da aggiungere. Questo in fondo è successo anche di fronte alla legge sul cosiddetto ius soli: benché la maggioranza degli italiani sembri ormai contraria (come mostrava un sondaggio sul Corriere del 25 giugno) sia il premier Gentiloni sia il segretario del Pd Renzi hanno promesso che andranno avanti egualmente. Quasi che addebitassero le perplessità, i dubbi, le paure di milioni di italiani a un loro più o meno consapevole razzismo invece che considerarli come il prodotto di paure magari sbagliate, ma di cui bisogna comprendere almeno le ragioni. La sinistra, insomma, rischia di essere vittima (vittima, perché alla fine questo conformismo intellettuale che impedisce la riflessione fa perdere voti) del proprio stesso successo nell’ambito del discorso pubblico, del fatto cioè di aver saputo accreditare certe opinioni e valutazioni come le uniche consentite alle persone dabbene (quel che usualmente si chiama il «politicamente corretto»). Ad esempio, si può sostenere che vi sia una correlazione tra immigrazione e delinquenza? Naturalmente no, dal punto di vista del discorso pubblico consentito. Sì, se invece si guarda ai dati empirici, come quelli sulla criminalità degli immigrati resi noti un anno fa dalla Fondazione David Hume: secondo questi dati il tasso di criminalità relativa degli immigrati è in Italia sei volte superiore a quello dei nativi (il dato medio europeo è quattro). Sono dati di cui varrebbe la pena discutere, ma a farlo si rischia subito un’accusa di razzismo o islamofobia. Così come la stessa accusa si rischia se ci si interroga, come ha di recente fatto Maria Latella (Messaggero del 23 giugno), sul fatto che gli episodi di aggressione in strada da parte di sconosciuti, di cui purtroppo le cronache riferiscono continuamente, sono da addebitare spesso a uomini provenienti «da culture nelle quali una violenza sessuale non è un reato». Non so se è una valutazione del tutto esatta; è però un’opinione che meriterebbe d’essere discussa, anzitutto per le evidenti implicazioni sul tema dell’integrazione; ed è anche un’opinione coraggiosa perché sfida il conformismo politico-culturale, dominante non solo in Italia. Lo stesso conformismo che per quindici anni - come riferì un’inchiesta indipendente del 2014 - aveva indotto poliziotti e assistenti sociali di una cittadina inglese, per loro stessa ammissione, a non intervenire di fronte agli abusi su centinaia di bambini compiuti da membri della comunità pachistana, per il timore di essere accusati altrimenti di razzismo. Ecco, se di moschee, immigrazione e di tante altre cose imparasse a discutere apertamente, forse il Pd riuscirebbe a recuperare l’attenzione e il voto di tanti ex elettori. AVVENIRE Pag 1 Tre anni dopo di Leonardo Becchetti Sfida sulle regole economiche Ue La battaglia sulla riscrittura delle regole dell’Unione Europea che non aspettavamo prima del prossimo autunno – e che avremmo voluto nell’autunno di tre anni fa – è cominciata quest’estate. L’Italia ha sparato il suo colpo con la proposta contenuta nell’ultimo libro dell’ex premier Renzi e nelle manovre già avviate dal presidente del Consiglio Gentiloni, volte ad abolire il Fiscal Compact per cinque anni e portare il deficit immediatamente

sotto la simbolica soglia del 3% (al 2,9) al fine di liberare risorse da usare per la riduzione delle tasse e far ripartire il Paese. In economia come nella vita reale i problemi sono complessi, i dati necessari per risolverli sono incompleti, ma esistono più vie per arrivare a una soluzione. Che quella del Fiscal Compact fosse particolarmente tortuosa e poco efficace è ormai di dominio pubblico. Il Fiscal Compact nasce già non come la via più breve e logica per la ripresa europea in un quadro di sostenibilità del debito, ma piuttosto come una di quelle prove di fedeltà chieste a un partner con scarsa reputazione che deve dimostrare a proprie spese di meritarsi la fiducia degli altri. Che contenere il rapporto deficit/ Pil sia importante soprattutto per noi non è in discussione. Ciò che è altamente opinabile è che la via migliore sia quella di ridurre di un ventesimo all’anno il rapporto debito/Pil e di muovere rapidamente verso il pareggio strutturale del bilancio pubblico, pareggio che non coincide con quello effettivo e dove i margini d’indulgenza sono fondati su un parametro quanto mai aleatorio e opinabile come quello dell’output gap, ovvero il divario tra il Pil reale e la crescita potenziale, perché fondato su modelli teorici e stime econometriche tutt’altro che scolpite nella pietra. Abbiamo scritto più volte come la Ue stesse vivendo negli ultimi anni la situazione paradossale di un sistema di regole di fatto disatteso da quasi tutti, che però non si ha il coraggio di mettere in discussione. Il tema ripreso da Renzi era l’incipit del manifesto per la riforma della Ue pubblicato su 'Avvenire' nell’ottobre 2014 e firmato da più di 350 economisti, italiani e no. Manifesto che iniziava proprio citando la sfida al Fiscal Compact della Francia che dichiarò allora di non voler restare sotto il 3% nel rapporto deficit/Pil. Dopo quell’episodio Francia e la Spagna hanno continuato ad avere rapporti deficit/Pil lontani dalla via verso il pareggio, la Germania non ha rispettato la regola sui limiti del surplus commerciale e l’Italia stessa (sotto la spada di Damocle di minacce di procedure d’infrazione poi non avviate) ha derogato dal sentiero del Fiscal Compact come e quando ha voluto. Godendo di fatto di un contesto assai più morbido del previsto soprattutto dopo la Brexit. Mentre tra istituzioni comunitarie e Paesi membri si giocava questo balletto pirandelliano il dibattito tra gli economisti ha fatto presente che il pareggio di bilancio (seppure mitigato dai bizantinismi sull’output gap) non appariva affatto la via maestra per perseguire crescita economica e aggiustamento della finanza pubblica nel campo di gioco macroeconomico di questi anni. E che la camicia di forza del Fiscal Compact ci impediva di avvantaggiarci di una grande opportunità dei nostri giorni: la possibilità di indirizzare, in un’era di tassi bassi, risorse pubbliche su investimenti infrastrutturali ad alto moltiplicatore, ovvero in grado di generare crescita e risorse fiscali tali da coprire l’iniziale aumento di spesa pubblica. Opportunità suggerita persino da economisti che in passato avevano sostenuto che la riduzione della spesa pubblica avrebbe avuto effetti espansivi e non recessivi e in seguito hanno invece ammesso e sottolineato che questa era un’opportunità da cogliere. Opportunità indicata dallo stesso governatore Draghi nel famoso discorso di Jackson Hole, nel quale affermava che la via maestra non era quella di ridurre, ma di riqualificare la spesa pubblica muovendo da utilizzi a basso moltiplicatore a utilizzi ad alto moltiplicatore. La strategia di Renzi e di Gentiloni per la battaglia di autunno appare dunque giusta in termini di principio e anche opportuna in una prospettiva di strategia politica. In termini di principio deve servire come grimaldello per arrivare alla definizione di un’Europa diversa che includa anche un percorso per l’armonizzazione fiscale, la mutualizzazione del debito e una misura integrata europea di reddito d’inserimento per aiutare i disoccupati e gli scoraggiati a tornare sul mercato del lavoro. In termini di strategia politica appare fondamentale per rompere l’assedio di una narrativa che si è impadronita di una parte del Paese e che racchiude azione di governo, euro e migranti un unico 'blocco' responsabile di tutti i mali d’Italia. Inutile pensare che bastino argomenti robusti (che pure abbiamo esposto più volte su queste colonne e con il sopra citato manifesto per la riforma dell’Eurozona) per affermare che i problemi e le soluzioni sono altre. Per questo è opportuno che si sparigli il campo, rompendo l’asse immaginario governo italiano-iper-rigorismo europeo. E il lato naturale, e migliore, da cui farlo è quello della lotta a una per nulla edificante austerità. Pag 2 La spiaggia “nera” e altre smemoratezze di Davide Parozzi Conoscere e far conoscere la tragedia del fascismo

La spiaggia 'fascista' con le foto e le frasi di Mussolini sparse tra le cabine e la battigia veneta è solo l’ultimo tassello. Il puzzle comprende la sfilata a braccio teso di CasaPound al campo 10 del cimitero di Musocco a Milano dove sono sepolti i capi repubblichini, l’incursione della stessa CasaPound al Consiglio Comunale milanese per protestare contro il sindaco Giuseppe Sala e, ultima iniziativa in ordine di tempo, il 'pattugliamento' degli orgogliosi «fascisti del terzo millennio» dell’arenile di Ostia a caccia di venditori abusivi. Un revival 'nero' su cui si innesta la polemica politica sul disegno di legge che prevede di sanzionare penalmente, oltre all’apologia, anche la propaganda fascista e nazifascista. La proposta, del deputato dem Emanuele Fiano, ha suscitato le ire di esponenti di destra e, a sorpresa, del M5S, contrario a una «legge liberticida». Un commento che ha provocato la risposta di Matteo Renzi, il quale ha ricordato che di liberticida c’era solo il regime del duce. Scontro politico a parte, quello che colpisce è la totale indifferenza in cui cadono certe intemerate. Il gestore della spiaggia di Chioggia ha risposto con il classico «Me ne frego» alle proteste dell’Anpi e delle Comunità ebraiche dopo che le immagini hanno mostrato, tra le altre cose, uno sgabuzzino con la scritta «Camera a gas» sulla porta. Quasi che tutto si riduca a una goliardata un po’ eccessiva e non ci si renda conto di toccare argomenti seri e tragici, di quelli che hanno segnato la storia anche e soprattutto per il carico di lutti che si sono portati appresso. Per tacere della Shoah. La Repubblica di Salò, alla quale alcuni movimenti dell’ultra-destra dicono di richiamarsi per lo sbandierato – ma mai attuato – programma sociale, è stata la protagonista di 18 mesi di durissima guerra civile nella quale i suoi militi si sono resi protagonisti di una serie infinita di abusi e spesso di vere stragi contro la popolazione civile italiana. E anche i venti anni precedenti, al di là delle orchestrate manifestazioni di consenso, sono stati segnati da una ferrea dittatura nella quale per chi non si adeguava c’erano il confino (non la villeggiatura) o la galera. Troppo è dimenticato, troppo è annegato in un mix di ignoranza, indifferenza e, talora, colpevole giustificazionismo: un calderone in cui torti e ragioni storiche si confondono e si perdono. Una linea grigia che potrebbe diventare pericolosa in una contingenza storica come la nostra, se aprisse spazi di manovra politica anche a gruppi e movimenti che proprio richiamandosi a questo passato potrebbero cercare di intercettare il bisogno di sicurezza sentito da molti. L’attenzione quindi va tenuta alta, soprattutto rivolta alle giovani generazioni. Magari con un robusto programma di storia e di civica educazione, così da non lasciare a siti internet di dubbia scientificità (e caratura morale) la possibilità di 'insegnare' che cosa è davvero stato il fascismo... Pag 3 La battaglia finale di Mosul: una liberazione a caro prezzo di Laura Silvia Battaglia Tra i combattenti che hanno sconfitto il Daesh. Vittime civili, vendette, distruzione in una città fantasma Barak Razaq al Maliki si contende con il più giovane collega Suleiman un accendino di acciaio di buona fattura e un coltello a scomparsa dalla lama lunga e affilata. Con quest’ultimo si accende una sigaretta, tra un turno e l’altro del servizio sulla prima linea. «L’abbiamo trovato addosso a un miliziano di Isis. Magari lo usava per tagliare le gole. Me lo porterò a casa come gadget di guerra». Qui – una casa con una coorte centrale aperta e cinque stanze intorno, su due piani –, avamposto scelto dalle forze irachene speciali sugli ultimi 200 metri che li separano dalla vittoria, la brigata va e viene dai vicoli stretti dove la battaglia continua. I colpi di mortaio del Daesh intervallano il via vai intenso delle unità, mentre alcuni soldati meno stanchi rispetto a chi è appena rientrato dalla linea del fronte, trasportano munizioni per Rpg, per contrastare il fuoco nemico. «I miliziani sono asserragliati dentro: è ancora pieno di cecchini. Riteniamo siano tra i 100 e i 150 circa», specifica Barak. Perché qui a Mosul, nella città vecchia, contro il Daesh si combatte ancora, casa per casa, metro per metro, nel quartiere alle spalle della moschea di al-Nouri. Benché, nella zona Sud-Ovest, centinaia di iracheni abbiano fatto capannello tra ristoranti e negozietti, armati di telefonini, per immortalare il premier Haider Abadi in visita istituzionale, durante la quale ha dichiarato ufficialmente che «Mosul è libera». Gli ha fatto eco il comando americano ieri: la città è stata tolta al Daesh. E anche Trump si è congratulato. Di fatto, il lavoro, sia per la Golden Division sia per le forze Isof, non è ancora finito. «Per tutto il tempo della battaglia ci gridavano di

andare via, apostrofandoci come infedeli. Se non sono cecchini, hanno cinture esplosive. Liberare Mosul è difficile perché se entri in una casa hai un potenziale attentatore suicida per ogni stanza», spiega un soldato. A quel punto, alle unità dell’esercito iracheno non è rimasto altro da fare che gettare granate contro gli attentatori e incoraggiare il bombardamento. Il tenente-colonnello Ali al Hussein, che comanda la seconda brigata del sedicesimo battaglione della Golden Division, si rilassa su un canapè della città vecchia, nonostante il giubotto antiproiettile sia enorme, imbottito com’è di granate. Ha stampata sul volto la soddisfazione di chi ha portato a casa il risultato e ha salvato i suoi uomini: «I miei hanno già finito il lavoro per la zona assegnata: abbiamo piantato la bandiera irachena sul Tigri, ma è stato un inferno. Abbiamo circondato i miliziani del Daesh su tre lati e, ad un certo punto, è stato un corpo a corpo. Non hanno potuto fare altro che difendersi, non avevano modo di scappare. Chi ha voluto, tra loro, si è suicidato». Il tenente colonnello lo ammette chiaramente: «Abbiamo ucciso 26 civili, catturato solo una donna con i suoi 4 figli'. La donna, francese, sarebbe moglie di un miliziano di alto grado, francese anch’esso. «Al momento è sotto interrogatorio», fa sapere al-Hussein. A Mosul quelli che contavano e comandavano erano tutti stranieri, occidentali. Gli operativi, soprattutto russi. «Abbiamo trovato moltissimi passaporti di combattenti provenienti dal Caucaso, dalla Georgia, dall’Abkazia». Un soldato della seconda brigata ci mostra una serie di taccuini trovati in un’abitazione. Il proprietario, tale Abu Dhaar, teneva l’agenda telefonica in ordine: tra un elenco di un altro centinaio di 'abu' come lui, trovano posto alcune hadith del Corano ricopiate a mano, forse per darsi coraggio in battaglia. Nella città vecchia, il Daesh teneva anche un autentico arsenale. «Sono stati trovati 1.500 kalashnikov con numero di serie che li fa risalire all’esercito iracheno; 200 Rpg; 50 kalashnikov automatici modello Pulemyot; migliaia di munizioni di diversa grandezza e Ied», dice il primo colonnello Mohammad Sahab, in piedi su una pila di detriti accanto al corpo senza vita di un miliziano islamista. «Abbiamo usato quattro soldati del genio per ogni battaglione per identificare gli ordigni non convenzionali, sparsi dovunque, per farli brillare prima che uccidessero qualcuno». Nella città vecchia di Mosul, ridotta a un ammasso di macerie in un’atmosfera spettrale, l’odore dei cadaveri lasciati sepoltura è insopportabile. I pochi civili rimasti, fuggiti qualche giorno fa ed identificati, sono rientrati in casa senza elettricità e senz’acqua, ma preferiscono comunque restare qui, piuttosto che recarsi nei campi profughi. «Siamo convinti che il governo non ci aiuterà», dice Bashar Mousa, mentre apre il portone di casa crivellato dai colpi di mortaio. La sorte di questi civili rappresenta la punta dell’iceberg di un conflitto molto più cruento di quanto previsto e che lascia un prezzo molto alto da pagare: 900mila persone, secondo le Nazioni Unite, sono disperse. Senza contare che il costo per ricostruire tutte le infrastrutture di base nel governatorato di Mosul si aggira intorno a un miliardo di dollari. Nemmeno i cristiani, lo si sa, dormono sonni tranquilli, anche a battaglia finita. Padre Benoka, sacerdote siro-cattolico, attivo tra le famiglie di Mosul e della piana di Ninive, dice: «Questa è una vittoria per tutti gli iracheni. Tuttavia abbiamo timore per possibili sacche di resistenza jihaddista. Noi restiamo prudenti». Il problema principale per la convivenza pacifica adesso sono gli abitanti della città vecchia: chi di loro era vittima e chi di loro era connivente con lo Stato islamico? Mashan Ahmad è uno di quelli su cui pende questa domanda. Mashan è accovacciato con la testa contro il muro, le mani legate molto strette dietro la schiena, come altri due prigionieri, nella stessa stanza che funge da prigione temporanea nell’avamposto che le forze speciali irachene hanno creato sulla linea del fronte. «Questi sono del Daesh, anche se continuano a negare», racconta un soldato iracheno che li tiene in custodia, con tutto il disprezzo di cui sembra capace. Uno dei prigionieri si urina addosso. L’altro accenna un tentativo di preghiera nella posizione accovacciata. Mashan, che indossa una maglietta da calciatore bianca e rossa, con la scritta 'France' sulla schiena, sgrana gli occhi terrorizzato. Ci dice: «Non sono uno di loro. Sono di Mosul. Avevo paura per la mia famiglia, per questo mi son lasciato arruolare dal Daesh». Gli uomini delle forze speciali irachene non si fanno intenerire. «I nostri cecchini li hanno visti puntare verso di noi – spiega un soldato –. Cercano di spacciarsi per sfollati, ma moriranno». Intanto, il soldato che li ha in custodia si pone alle loro spalle e gira le testa a comando, mettendoli in favore di telecamera per i giornalisti radunati qui. E mentre esegue il movimento, come fosse un burattinaio, esclama: «Adesso potete guardare in faccia il Daesh».

IL GAZZETTINO Pag 1 Quel trattato che ha strangolato l’economia di Giulio Sapelli Cambia il vento in Europa. La tragedia dei migranti e delle divisioni Ue su questo terreno sta srotolando il gomitolo della verità. L’occasione è del resto propizia. Si sta addensando la nube del necessario rinnovo dei trattati ossia per dirla da consumatici diplomatici, del Patto di bilancio europeo, detto fiscal compact. Si tratta, appunto, di un trattato internazionale del 2 marzo 2012 sottoscritto da 25 dei 28 stati membri dell'Unione europea. Il patto contiene una serie di regole, vincolanti nella Ue per il principio dell'equilibrio di bilancio. Lo scopo era quello di coordinare le politiche di bilancio degli stati membri. La credenza era quella che tale patto, unitamente all'Unione economica e monetaria avrebbe dato vita a una maggiore integrazione del Paesi firmatari. È da notare che il patto non è mai passato al voto del Parlamento europeo, né è divenuto direttiva dalla Commissione. Inoltre il Parlamento europeo, con una mozione a larga maggioranza, si è peraltro espresso autonomamente contro il fiscal compact, senza che peraltro tale pronunciamento abbia avuto valore cogente, in quanto il Parlamento europeo non gode di iniziativa legislativa, ma può solo ad approvare o respingere direttive della Commissione. L'accordo, senza nessuna base scientifica, ma solo secondo medie ponderali sui dati degli Stati economicamente più forti, poneva limiti al deficit annuale entro un massimale del 3% e alla percentuale di indebitamento storico sul Pil nel limite del 60%. L'Italia ha ratificato il Trattato, pressoché all'unanimità, il 12 e il 19 luglio 2012 prima al Senato poi alla Camera. Le conseguenze per le economie europee più deboli sono state devastanti così come del resto avevano previsto una ristretta minoranza di economisti italiani (tra i quali chi scrive) e una folta rappresentanza di economisti mondiali e nord americani che paventano l'avvento di una depressione da deflazione. Cosa che infatti si è puntualmente verificata colpendo soprattutto le nazioni dell'Europa del Sud, meno deboli e più vincolate alla necessità delle svalutazioni competitive, nonché all'intervento pubblico in economia. Del resto, assai pochi economisti di valore concordano sui vincoli imposti dal patto di bilancio. Inserire, poi, nella costituzione il vincolo di pareggio del bilancio ha rappresentato una scelta estremamente improvvida eppure così ha fatto, incredibilmente e irresponsabilmente l'Italia sotto il protettorato ordoliberista tedesco durante il governo di Mario Monti. Aggiungere ulteriori restrizioni, come un tetto rigido della spesa pubblica e un aumento del carico fiscale, come accadde, non ha fatto e non fa che peggiorare lo stato dell'economia, con effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà dovrebbe invece diminuire il gettito fiscale (per concomitante diminuzione del Pil) e aumentare le spese pubbliche che surriscaldano inevitabilmente il deficit pubblico, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e quindi del potere di acquisto (che influiscono sul consumo o domanda di beni o servizi). È sempre pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e gli incrementi della pressione fiscale danneggiano sempre la ripresa economica. Inoltre è ormai comprovato che l'inserimento in costituzione del vincolo di pareggio del bilancio porta alla dissoluzione dello stato sociale. Ora il nostro primo ministro e il segretario del Pd iniziano a contestare il fiscal compact e ne negano l'utilità, chiedendo meno lacci e lacciuoli a un vertice europeo che si sta disvelando per quello che è: un grumo di potere tecnocratico e oligarchico che fa gli interessi delle nazioni più potenti, in economia e in politica internazionale. La stessa unità dell' Europa è in pericolo, secondo la legge della storia per cui troppo accesi dislivelli di potenza, portano alla catastrofe. Nel caso migranti ciò è evidente. Può esserlo presto anche per quel che riguarda la tenuta sociale di molte nazioni europee. Molti si preoccupano per ragioni diverse da queste. Dicono che è impossibile uscire da questa situazione. Ebbene Giuseppe Guarino ha già dimostrato da quel gran Maestro di diritto che è che tali accordi non hanno nessuna base giuridica essendo stai approvati in sede regolamentare e scritti da funzionari irresponsabili e solo ossequienti. Certo il Parlamento ha dato a essi corso. Altre volte nella storia sono avvenuti eventi simili. Se si vuole tornare indietro vi è la via maestra della vecchia cara diplomazia consegnataci dai grandi maestri della trattatistica italiana: non ratificare i trattati. Si possono anche richiamare gli ambasciatori e farlo come singola nazione oppure con una entente cordiale con altre nazioni anch'esse danneggiate. La storia è

maestra. E io credo che il nostro Paese si troverebbe finalmente unito riconoscendo gli errori compiuti. Si rimane in Europa ma si elimina dal suo ordito tecnocratico una complesso di regole assurde, incredibili. Che sia giunto il tempo dell' unione e della ragione? LA NUOVA Pag 1 M5S, Lega e voglia di fascismo di Massimiliano Panarari Non ci sono state le "maschie bracciate" della traversata a nuoto dello Stretto di Messina dell'ottobre 2012 (preludio della vittoria elettorale). Ma la dimensione comunicativa e di spettacolo - sempre in cima alla lista delle priorità di una formazione communication-oriented come il Movimento 5 Stelle - è stata comunque assicurata. Perché la designazione di Giancarlo Cancelleri a campione pentastellato per la disfida delle prossime elezioni regionali è avvenuta all'interno di una scenografia studiatissima e da convention di partito all'americana, con i vertici schierati praticamente al gran completo. Per la precisione, si è trattato del nuovo gruppo dirigente costituitosi nel tempo all'indomani della rottamazione del vecchio "direttorio" sciolto dopo gli scontri intorno alla "battaglia per il Campidoglio". Una nuova pattuglia al comando stretta, non per caso, attorno al vicepresidente della Camera Luigi Di Maio (e che annovera l'incoronato candidato alla presidenza della Regione), perché proprio dal palco di Castello a Mare di Palermo è partita una nuova fase del M5S reduce dai deludenti risultati delle ultime amministrative. Inizia così, e con largo anticipo (d'altronde, siamo nell'epoca del permanent campaigning), la campagna pentastellata per le regionali e, al medesimo tempo, quella per le politiche. Insieme a Roma, infatti, la Sicilia si è trasformata in uno dei fronti più avanzati del Movimento in virtù dei molti consensi lievitati nel tempo. E in uno dei territori da conquistare - tanto più alla luce della contestata, anche all'interno del M5S, performance amministrativa di Virginia Raggi - e rivendicare come "vetrine" per tentare la scalata al governo nazionale; il che spiega per l'appunto la presenza di Di Maio, capo dell'ala governista del grillismo e candidato in pectore per Palazzo Chigi, quale vero mattatore della kermesse siciliana. Isola dei veleni e dei corvi - come ha mostrato la corsa piena di sospetti e sabotaggi interni nelle amministrative di Palermo - ma anche possibile granaio di voti (ne sono convinti Beppe Grillo e Davide Casaleggio) per il M5S. Un esperimento di forma simbolica quello di domenica, ma anche di sostanza politica, dal quale è emerso con evidenza come l'immigrazione - anche a costo dei mal di pancia (che dovranno rientrare) dell'ala più "di sinistra" - identificherà una delle issue fondamentali su cui i grillini si spenderanno con la finalità di riacchiappare almeno in parte quell'elettorato di destra che è ritornato all'ovile (tra Forza Italia e Lega Nord) nella scorsa tornata elettorale locale. Inoltre, le "regionarie" siciliane, benedette dal vivo dal garante e dal figlio del cofondatore, hanno indicato la formula di legittimazione dei candidati: primarie blindatissime (al punto che la coreografia per Cancelleri si stava già dispiegando prima della fine della consultazione) e gli oppositori nazionali di Di Maio come poco più che comprimari utili alla messa in scena della democrazia orizzontalizzata e "diretta". Il vicepresidente della Camera si presenta pertanto come l'asso pigliatutto del movimento che vuole ardentemente tornare a essere un partito pigliatutto; e a cui ha aperto ufficialmente ieri per la prima volta - ipotizzando un accordo post-voto - Matteo Salvini. E un primo terreno di intesa è già emerso prepotentemente in queste ore: dopo l'intervento della Digos presso l'inqualificabile bagno "mussoliniano" di Chioggia, il leader leghista si è scagliato contro la legge Mancino, mentre i deputati pentastellati hanno bocciato in commissione Affari costituzionali la proposta di legge di Emanuele Fiano che vuole introdurre il reato di propaganda del nazifascismo. Il tornaconto elettorale si conferma così la bussola del grillismo "postideologico" in un Paese in cui malauguratamente, come scriveva ieri su Repubblica il politologo Piero Ignazi, cresce per una molteplicità di fattori una lugubre «voglia di fascismo». Torna al sommario