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RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 novembre 2016 SOMMARIO “È nata una nuova destra, e si è presa la Casa Bianca - commenta Antonio Polito sul Corriere della Sera di oggi -. Campane a festa hanno accolto la buona novella da Folkestone a Calais, da Amsterdam a Dresda, dovunque in Europa partiti xenofobi e nazionalisti preparano l’assalto al potere: da oggi hanno un paese-guida, come si diceva un tempo, un faro cui rivolgersi, un esempio da imitare. Marine Le Pen ha esultato prima ancora che la notizia diventasse ufficiale: «Congratulazioni al popolo americano, libero», dove si intende che fino a ieri era in catene. Nigel Farage ha salutato la «seconda rivoluzione» del 2016, e questa volta «più grande della Brexit». Il capo dell’estrema destra olandese Geert Wilders ha detto di aspettarsi ora una «primavera patriottica» in tutto l’Occidente (lui va alle urne in aprile) e ha adattato alla sua decisamente piccola patria lo slogan trumpiano: «Rendiamo grande di nuovo l’Olanda». Mentre Frauke Petry, l’anti-Merkel di Alternativa per la Germania, si propone di «restituire la voce al popolo tedesco» come Trump l’ha ridata a quello americano. Per non dire di Orbán, quasi incredulo di poter affratellare il suo muro anti immigrati a quello che il nuovo presidente vuole costruire sulla frontiera del Messico. È giustificata tanta esultanza? Sì. Ci sono ovviamente molte differenze tra la politica americana e quella europea: per esempio la vittoria di Trump smentisce la vulgata nostrana secondo la quale i populisti sono rafforzati dall’austerità dei governi, perché l’America di Obama e della Fed ha seguito in questi 8 anni la politica opposta. Eppure la rivoluzione di Trump può davvero produrre in Occidente ciò che la rivoluzione di Reagan e Thatcher provocò negli anni 80: un vero e proprio riallineamento dell’intera politica mondiale. Allora la destra si risvegliò liberista, liberale e libero-scambista, stavolta all’opposto si presenta protezionista e sciovinista. Ma quella di Trump, che per vincere le elezioni ha dovuto prima di tutto battere la vecchia destra conservatrice del Partito Repubblicano, ha tre tratti genetici che la rendono molto compatibile con lo spirito del tempo e con i contenuti dello scontro ideologico in corso in Europa. Il primo è che si tratta di una destra che si appella agli impoveriti, ai «dimenticati», come li ha definiti ieri Trump nel discorso della vittoria, non ai ricchi, ai petrolieri e ai banchieri, o all’establishment come in passato. Si rivolge cioè allo stesso materiale umano cui parlano nelle periferie delle città europee le Le Pen e i Salvini di casa nostra. In secondo luogo la nuova destra di Trump forse non è xenofoba ma è certamente «nativista», e cioè mette al primo posto quelli che già c’erano rispetto a quelli che sono arrivati dopo, miele per le orecchie di chi in Europa ha fatto della guerra all’invasione degli immigrati il contenuto del proprio messaggio politico. E infine la nuova destra è nazionalista, nel senso che pone l’interesse americano davanti a ogni obbligo o accordo internazionale, accada quel che accada, «e se la Nato si spacca, che si spacchi». E quest’ultimo punto è forse il più complicato per i rapporti con la destra europea, perché per definizione i nazionalismi si possono sommare ma non integrarsi. Potranno verificarsi cioè numerose occasioni in cui nazionalismo e protezionismo americani collidano con l’interesse, per esempio commerciale, dei Paesi europei. L’Italia, che di originalità politica è maestra, non foss’altro perché ha anticipato di più di venti anni con Berlusconi molte delle caratteristiche del fenomeno Trump, ha una variabile in più: il movimento grillino. Ieri il fondatore dei Cinque Stelle è saltato in corsa sul carro del vincitore, ma il suo partito non è poi così assimilabile a questa nuova destra europea, a differenza della Lega. Certamente non xenofobi, i grillini non hanno usato l’argomento stop agli immigrati neanche nella campagna per le amministrative, quando hanno vinto a Torino e a Roma. E nemmeno possono essere definiti nazionalisti: sono anzi attratti, soprattutto nel pensiero di Casaleggio, dall’utopia di nuovo ordine mondiale stavolta retto sulla Rete. Ciò non toglie che la ribellione interpretata da Trump in America possa essere usata da tutti i ribelli italiani contro il

Rassegna stampa 10 novembre 2016 · RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 novembre 2016 SOMMARIO “È nata una nuova destra, e si è presa la Casa Bianca - commenta Antonio Polito sul Corriere

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 10 novembre 2016

SOMMARIO

“È nata una nuova destra, e si è presa la Casa Bianca - commenta Antonio Polito sul Corriere della Sera di oggi -. Campane a festa hanno accolto la buona novella da

Folkestone a Calais, da Amsterdam a Dresda, dovunque in Europa partiti xenofobi e nazionalisti preparano l’assalto al potere: da oggi hanno un paese-guida, come si diceva un tempo, un faro cui rivolgersi, un esempio da imitare. Marine Le Pen ha

esultato prima ancora che la notizia diventasse ufficiale: «Congratulazioni al popolo americano, libero», dove si intende che fino a ieri era in catene. Nigel Farage ha

salutato la «seconda rivoluzione» del 2016, e questa volta «più grande della Brexit». Il capo dell’estrema destra olandese Geert Wilders ha detto di aspettarsi ora una

«primavera patriottica» in tutto l’Occidente (lui va alle urne in aprile) e ha adattato alla sua decisamente piccola patria lo slogan trumpiano: «Rendiamo grande di nuovo

l’Olanda». Mentre Frauke Petry, l’anti-Merkel di Alternativa per la Germania, si propone di «restituire la voce al popolo tedesco» come Trump l’ha ridata a quello americano. Per non dire di Orbán, quasi incredulo di poter affratellare il suo muro anti immigrati a quello che il nuovo presidente vuole costruire sulla frontiera del

Messico. È giustificata tanta esultanza? Sì. Ci sono ovviamente molte differenze tra la politica americana e quella europea: per esempio la vittoria di Trump smentisce la

vulgata nostrana secondo la quale i populisti sono rafforzati dall’austerità dei governi, perché l’America di Obama e della Fed ha seguito in questi 8 anni la politica opposta.

Eppure la rivoluzione di Trump può davvero produrre in Occidente ciò che la rivoluzione di Reagan e Thatcher provocò negli anni 80: un vero e proprio

riallineamento dell’intera politica mondiale. Allora la destra si risvegliò liberista, liberale e libero-scambista, stavolta all’opposto si presenta protezionista e sciovinista.

Ma quella di Trump, che per vincere le elezioni ha dovuto prima di tutto battere la vecchia destra conservatrice del Partito Repubblicano, ha tre tratti genetici che la rendono molto compatibile con lo spirito del tempo e con i contenuti dello scontro

ideologico in corso in Europa. Il primo è che si tratta di una destra che si appella agli impoveriti, ai «dimenticati», come li ha definiti ieri Trump nel discorso della vittoria,

non ai ricchi, ai petrolieri e ai banchieri, o all’establishment come in passato. Si rivolge cioè allo stesso materiale umano cui parlano nelle periferie delle città europee

le Le Pen e i Salvini di casa nostra. In secondo luogo la nuova destra di Trump forse non è xenofoba ma è certamente «nativista», e cioè mette al primo posto quelli che già c’erano rispetto a quelli che sono arrivati dopo, miele per le orecchie di chi in Europa ha fatto della guerra all’invasione degli immigrati il contenuto del proprio

messaggio politico. E infine la nuova destra è nazionalista, nel senso che pone l’interesse americano davanti a ogni obbligo o accordo internazionale, accada quel che accada, «e se la Nato si spacca, che si spacchi». E quest’ultimo punto è forse il

più complicato per i rapporti con la destra europea, perché per definizione i nazionalismi si possono sommare ma non integrarsi. Potranno verificarsi cioè

numerose occasioni in cui nazionalismo e protezionismo americani collidano con l’interesse, per esempio commerciale, dei Paesi europei. L’Italia, che di originalità

politica è maestra, non foss’altro perché ha anticipato di più di venti anni con Berlusconi molte delle caratteristiche del fenomeno Trump, ha una variabile in più: il movimento grillino. Ieri il fondatore dei Cinque Stelle è saltato in corsa sul carro del

vincitore, ma il suo partito non è poi così assimilabile a questa nuova destra europea, a differenza della Lega. Certamente non xenofobi, i grillini non hanno usato

l’argomento stop agli immigrati neanche nella campagna per le amministrative, quando hanno vinto a Torino e a Roma. E nemmeno possono essere definiti

nazionalisti: sono anzi attratti, soprattutto nel pensiero di Casaleggio, dall’utopia di nuovo ordine mondiale stavolta retto sulla Rete. Ciò non toglie che la ribellione

interpretata da Trump in America possa essere usata da tutti i ribelli italiani contro il

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governo e l’Europa. E siccome la prima occasione elettorale è il referendum del prossimo 4 dicembre, è fuor di dubbio che la sorpresa del novembre americano

galvanizzerà quelli che sperano nella spallata. Nuovi motivi di preoccupazione per Renzi, insomma. Ormai, quando si apre il vaso di Pandora delle urne, si deve dare per scontato che ne fuoriesca tutto il malcontento, la rabbia, la delusione della gente per

la stagnazione economica. Dopo la Brexit, l’elezione di Trump suona come una conferma; e anche come una legittimazione per chi volesse provarci con il No a Renzi. A meno che una eventuale turbolenza mondiale provocata da questi clamorosi eventi, nelle borse, nell’economia, nei rapporti internazionali, non faccia scattare una specie

di riflesso d’ordine, tale da consigliare alla maggioranza silenziosa degli italiani di frenare la corsa verso il No, quasi un «fermate il mondo voglio scendere». Dubito che

sia possibile, ma non dubito che i fautori del Sì tenteranno questa carta”. E il direttore di Repubblica Mario Calabresi scrive: "Il mondo è cambiato, titolavamo otto anni fa, quando Barack Obama conquistò la maggioranza degli americani con il suo messaggio di speranza e cambiamento. Il primo nero alla Casa Bianca e una mano aperta verso il resto del Pianeta. Quella promessa è stata realizzata solo in parte,

mentre il terrorismo e nuovi nazionalismi hanno continuato a prosperare, mentre la frustrazione di chi non riesce più a immaginare il futuro ha trasformato la speranza di

cambiamento in rabbia e volontà di rottura. Il mondo è cambiato nuovamente ieri mattina, in modo ancora più radicale e sconvolgente. Siamo di fronte all'elezione di

un uomo che aveva contro tutto, dalla biografia improbabile perché costellata di scandali e fallimenti all'inesperienza conclamata, ma che è riuscito a incarnare nella sua persona il gesto liberatorio, ritenuto capace di rovesciare il tavolo della vecchia politica e dello status quo. Sulla scena è apparso un pifferaio capace di chiamare a

raccolta gli uomini e le donne dimenticati d'America suonando la campana del riscatto. Se ciò è accaduto, è perché siamo di fronte a una mutazione antropologica che ha portato all'eliminazione delle mediazioni nei più diversi campi della nostra

vita, con la conseguenza di vedere le élite culturali come qualcosa di inutile da rifiutare. Abbiamo sottovalutato la ferita di chi vede tradito il patto tra generazioni, di chi somma la paura degli stranieri all'ansia per la globalizzazione, al rifiuto della società multietnica. La nausea per il politicamente corretto o la rivendicazione che

l'uomo bianco tornasse a sedersi a capotavola hanno fatto il resto. Ci resta da riflettere sul vizio dei giornali di confondere gli auspici con la realtà, ma ora ci tocca

provare a capire quale sarà il mondo che ci aspetta” (a.p.)

IN PRIMO PIANO – ELEZIONI PRESIDENZIALI USA, LA “SORPRESA” TRUMP CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’America che verrà di Massimo Gaggi Pag 1 Le quattro incognite di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Pag 18 Il coro stonato di previsioni e analisti-tifosi di Pierluigi Battista Pag 18 L’esultanza (giustificata) dei populisti di Antonio Polito Pag 32 Il mondo secondo Trump di Franco Venturini Pag 33 Perché l’America non è un Paese per donne di Gian Antonio Stella LA REPUBBLICA Pag I Il mondo è cambiato di Mario Calabresi Pag III Democrazia. Ha vinto la rabbia dei dimenticati di Ezio Mauro LA STAMPA La marcia della tribù bianca di Maurizio Molinari

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AVVENIRE Pag 1 Nuovi tuoni vecchi tuoni di Andrea Lavazza Emerge la radicale spaccatura Usa Pag 3 Ma “The Donald” era già tra noi di Vittorio E. Parsi Ha saputo intercettare le paure Pag 3 Ora tocca agli europei riprendersi la storia di Marco Olivetti Il salto di qualità possibile rilanciando il progetto federale IL SOLE 24 ORE Un messaggio per l’Europa di Roberto Napoletano IL FOGLIO Pag 1 Trump, castigo di Dio, figlio del politicamente corretto di Giuliano Ferrara Pag 1 In God We Trust di Matteo Matzuzzi Come cambia l’agenda dei vescovi americani dopo l’elezione di The Donald alla Casa Bianca ITALIA OGGI I cattolici americani pro Trump di Antonino D’Anna e Alessandra Ricciardi Incuranti del giudizio negativo espresso da Bergoglio. Magister: per la chiesa cattolica Trump è meglio della Clinton IL GAZZETTINO Pag 1 Una rivoluzione che ci riguarda molto da vicino di Roberto Papetti Pag 1 Brugnaro: “Come me, un uomo libero. Anche di sbagliare” di Davide Scalzotto Pag 20 Ispanici e afroamericani hanno punti i democratici di Mario Del Pero Pag 21 Hillary, l’insostenibile fragilità di una candidata alla sconfitta di Massimo Teodori LA NUOVA Pag 2 Ora è l’America di The Donald di Alberto Flores d’Arcais Pag 6 Una tempesta perfetta da Washington a Berlino di Gigi Riva Pag 7 L’isolazionismo di Trump lascia più spazio a Putin di Renzo Guolo Pag 8 Cacciari: sinistra perdente se abbandona i lavoratori di Filippo Tosatto 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 24 Giubileo dei senzatetto, pullman da Mestre di Massimo Tonizzo La Caritas porta 45 persone a conoscere il Papa: partenza stasera alla Cita, rientro domenica 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Per restituire dignità a chi ha sbagliato Il Papa ricorda il dovere di visitare malati e carcerati

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AVVENIRE Pag 20 “L’unzione arrivi alle periferie” Bergoglio: è per poveri, prigionieri, malati, chi è triste e solo CORRIERE DELLA SERA Pag 29 “Così scrivo le mie omelie ispirandomi a Dostoevskij” di Antonio Spadaro La scelta del brano e gli appunti, il Papa al lavoro a Santa Marta LA REPUBBLICA Pag 55 Così torna a parlare la Chiesa dei poveri, una profezia rinnegata di Alberto Melloni Nel libro-intervista del cardinale Luis Antonio Tagle la storia di un sacerdote dalla parte degli ultimi che interpreta appieno il messaggio di Francesco IL FOGLIO Buon viaggio cardinale, dove va adesso il duomo? di Maurizio Crippa 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Il “ben-vivere” fattore decisivo di Leonardo Becchetti Chi governa impari a guardare oltre il Pil 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 4 Venezia, i residenti sotto quota 55 mila. Corteo in piazza: togliamo il disturbo? di Elisa Lorenzini Esodo continuo, fioccano gli appelli IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXVII Meditazione e performance in un tour nelle chiese 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 43 di Gente Veneta in uscita venerdì 11 novembre 2016: Pagg 1, 10 - 11 Amore, cantiere sempre aperto di Giorgio Malavasi Alla Gazzera, domenica scorsa, l’evento corale che sottolinea la centralità dell’esperienza familiare. In trecento, a dirlo, alla Festa diocesana della Famiglia Pag 1 Un sogno realizzato: fare ridere con il Vangelo di Anna Marchiori Pag 1 Usa, pancia batte cervello: ora abbia buona digestione di Giorgio Malavasi Pagg 4 – 5 Carlo e Giorgio: Gesù è gioia, ridiamo di Giulia Busetto e Giorgio Malavasi «La felicità è l’essenza di Dio, che ci vuole così». Una misericordia a misura di ragazzo. Voce al “Vangelo social” e i teen se ne innamorano Pag 6 Il filosofo Mancini: «Il cristianesimo è meglio del liberismo» di Giorgio Malavasi Il docente, che lunedì 14 sarà a Mestre, invitato dal gruppo diocesano Stili di vita: «La logica del denaro è entrata nelle coscienze e nel sangue della gente. Il cristianesimo deve mostrare, vissuto nel concreto di ogni giorno, nelle famiglie e nelle comunità, che è un’alternativa migliore» Pag 13 Il Patriarca dona un quaderno ai detenuti: voltar pagina si può di

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Alessandro Polet Giubileo della Misericordia, Messa presieduta da mons. Moraglia e concelebrata con una decina di sacerdoti diocesani, nella cappella di Santa Maria Maggiore a Venezia: «Noi scommettiamo su di voi. Perché le cose si possono cambiare e le sbarre sono lì per essere superate. Una pagina nuova si può sempre scrivere» Pag 20 Lingua dei segni per la messa alla Cita, è successo domenica 23. Interprete è don Giorgio Del Vecchio, missionario per i non udenti di Gino Cintolo Il giovane sacerdote, direttore del servizio pastorale alle persone sorde nell’arcidiocesi di Trani, Barletta e Bisceglie, usa la Lis per tradurre la liturgia anche attraverso i social network … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il mio sillabario laico di Umberto Veronesi

Torna al sommario IN PRIMO PIANO – ELEZIONI PRESIDENZIALI USA, LA “SORPRESA” TRUMP CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’America che verrà di Massimo Gaggi Vinte a sorpresa le presidenziali nella notte di martedì, il candidato «anti establishment» è entrato già ieri mattina nel cuore del sistema istituzionale americano col primo «briefing senza rete» dei servizi segreti Usa. Nel periodo della transizione, infatti, il presidente eletto riceve le stesse informazioni, anche le più riservate, che vengono fornite alla Casa Bianca dai capi dell’«intelligence». Stiamo parlando del nucleo centrale dell’«establishment», quello che deve garantire la sicurezza dell’America. Nel pomeriggio, poi, prima riunione di Donald Trump col suo team sul futuro governo: sta pensando di nominare il capo del suo partito, Reince Priebus, capo di gabinetto, affidandogli i rapporti col Congresso a maggioranza repubblicana. Oggi, poi, sarà da Barack Obama alla Casa Bianca per avviare il processo di transizione. Che America sarà quella dell’immobiliarista populista arrivato alla presidenza? Sbagliate le previsioni elettorali, si aprono ampie praterie per sbagliare anche quelle su come si muoverà l’Amministrazione Trump. Andrà davvero fino in fondo sulle sue proposte radicali, dall’espulsione degli immigrati illegali a un mezzo smantellamento della Nato, alla cancellazione della riforma sanitaria di Obama? O, una volta eletto, passerà a un atteggiamento e a ricette più «presidenziali»? E se continuerà sul solco populista, troverà collaborazione o strade sbarrate da un Congresso che è, sì, a maggioranza repubblicana, ma nel quale ci sono molti conservatori critici nei confronti del tycoon, mentre i democratici avranno potere di veto al Senato col meccanismo del filibustering? E la macchina amministrativa e giudiziaria, che nel sistema Usa dei «check and balances» gode di una certa autonomia, sarà un argine al suo potere? La nomina di un personaggio fuori dagli schemi lascia spazio agli scenari più diversi: da quello, sarcastico, delle Casa Bianca trasformata in una pacchiana Trump House, a Donald che, entrato in un mondo che richiede competenze che lui non ha (e non ha voglia di acquisire) si affida ai professionals per la gestione della politica estera e di quella economica, tenendo per sé il rapporto coi cittadini e coi principali leader stranieri. Detto questo, si può provare a immaginare come sarà l’America di Trump. Dalla revisione più facile a quella più difficile. Global warming - In passato Trump non si era mostrato insensibile ai temi del «global warning» ma da candidato ha abbracciato la linea negazionista dei conservatori. L’accordo di Parigi per rallentare l’aumento delle temperature resta in vigore, ma viene meno il traino americano fornito da Obama: i suoi impegni per rendere meno inquinanti le centrali elettriche Usa resteranno probabilmente lettera morta. Potrebbero

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sopravvivere i parametri per la riduzione delle emissioni dei veicoli: le Case automobilistiche stanno già adattando i loro processi industriali ai nuovi standard. Diritti civili, aborto, gay - Il presidente non può modificare diritti maturati nei decenni per l’evoluzione dei costumi, delle leggi e della giurisprudenza. Ma può cambiare l’indirizzo del Paese su questioni essenziali e delicate attraverso la nomina dei giudici della Corte Suprema. Toccherà a lui scegliere il successore dell’arciconservatore Antonin Scalia scomparso sei mesi fa e che Obama non è riuscito a rimpiazzare per l’ostracismo del Senato. Obama e Hillary hanno promesso collaborazione a Trump, ma gli hanno anche chiesto di rispettare regole e istituzioni e di essere inclusivo. Se, come ha minacciato, il neopresidente sceglierà giudici di estrema destra, stavolta saranno i democratici a bloccarli con l’ostruzionismo. Muri, Cina e Messico - I trattati commerciali con l’Asia e l’Europa sono morti, difficile rinegoziarli. Ma è difficile anche cancellare il Nafta che lega gli Usa a Canada e Messico. Il muro è un non-problema: dove era possibile farlo c’è già. Trump se la caverà con qualche progetto avveniristico e qualche abbellimento dell’esistente. Chiederà concessioni commerciali. Otterrà qualcosa dal Messico che dipende dagli Usa per quasi tutto l’export, mentre con Pechino rischia uno scontro duro. Immigrazione - Espulsioni di massa per 11 milioni di clandestini? Ci sarebbero rivolte e gravi perdite del Pil, con effetti recessivi che il presidente-costruttore non ha interesse ad alimentare. Forse verranno studiate sanatorie che passano per un rientro temporaneo dei clandestini nei loro Paesi d’origine. Riforma fiscale - Può riuscire a farla perché il calo delle tasse piace a tutti mentre anche i democratici oggi riconoscono che l’imposta sulle imprese al 35%, tre le più alte del mondo, è eccessiva. Ma la sinistra non avallerà scelte che premiano ancora più i ricchi, mentre i repubblicani, dopo aver lanciato allarmi per anni sul deficit pubblico, non possono votare misure che lo faranno esplodere. Obamacare - Trump ha promesso di cancellare la riforma sanitaria di Obama, come chiede il partito repubblicano. Ma le sue idee sulle cure mediche non sono molto diverse da quelle di Obama e abrogare un meccanismo ormai radicato nei sistemi delle compagnie assicurative e ospedali non è facile. Siria, Libia, Isis - Mentre con Hillary avremmo avuto più interventismo, soprattutto in Siria, Trump continuerà sulla linea di un minor impegno militare diretto degli Usa già seguita da Obama, magari accentuando l’isolazionismo. Ma la lotta contro l’Isis e il terrorismo non verrà di certo abbandonata. Nato e Russia - È la partita più complessa e incerta: dipende da molti attori (Casa Bianca, Cremlino, militari, Congresso, Ue) alcuni dei quali imprevedibili (a partire da Putin e dallo stesso Trump sui cui rapporti con Mosca fioriscono misteri e leggende). Cosa succederà in caso di attacco a una repubblica baltica nel dispositivo Nato? Davvero Trump la difenderà solo dopo aver verificato se ha contribuito adeguatamente alle spese dell’Alleanza Atlantica? «Macché, non succederà» sdrammatizzano i trumpisti: «Chiederemo agli europei di pagare un po’ di più per l’ombrello difensivo Usa, ma comunque andremo d’accordo con Putin». A che prezzo? Pag 1 Le quattro incognite di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Quattro aspetti economici preoccupano della presidenza Trump. Il primo, e più generale, è che Trump non sarà «moderato» da un congresso a maggioranza democratica. Per almeno due anni, un solo partito, il repubblicano, controllerà la Casa Bianca, il Senato e la Camera. Il governo degli Stati Uniti funziona meglio quando un solo partito non controlla tutto: sono le checks and balances in azione. Ad esempio questa moderazione non ci sarà quando si dovranno scegliere i nuovi membri della Corte Suprema, giudici nominati a vita e la cui influenza quindi si esercita per decenni dopo la fine di una presidenza. In questo senso un ruolo essenziale lo giocheranno i deputati e i senatori repubblicani moderati. Fra questi il senatore McCain, che si era apertamente opposto alla candidatura di Trump. Per alcune decisioni importanti in Senato è necessaria una maggioranza di 60 voti, che il Partito Repubblicano non ha. Se il Senato riuscirà ad evitare che Trump assuma posizioni estreme, e quanto lui lo ascolterà, è fondamentale per il futuro del partito. La seconda preoccupazione è il protezionismo. Sul commercio internazionale il presidente degli Stati Uniti ha poteri esecutivi, ad esempio può decidere

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da solo di imporre un dazio su alcune importazioni. Il rischio di un’evoluzione protezionistica nel mondo è di una gravità senza precedenti. Un freno al commercio internazionale potrebbe segnare la fine della ripresa in atto dopo la crisi finanziaria. Su questo l’establishment repubblicano tradizionale, di tendenza liberista, deve assolutamente alzare la voce. La terza preoccupazione è il debito pubblico. Durante la crisi finanziaria il debito pubblico americano è salito dal 60 a quasi il 100 per cento del Pil. Trump ha ripetuto, anche nel suo primo discorso dopo la vittoria, di voler lanciare un grande programma di investimenti in infrastrutture: ha citato ponti, autostrade, scuole e ospedali. In questo, per la verità, il suo programma non è gran che diverso da quello di Hillary Clinton e dei suoi consiglieri economici keynesiani. La differenza sta nel fatto che, al contrario di Clinton, Trump vuole anche ridurre, e di molto, le imposte. Quindi il debito si impennerà ancor più di quanto avrebbe fatto se avesse vinto la sua rivale. Oggi il debito è a buon mercato, ma i tassi di interesse non rimarranno così bassi per sempre. Non solo, Trump non ha detto nulla sui programmi di Medicare (assistenza sanitaria gratuita per anziani) e pensioni, anzi ha detto che con la sua mirabolante conduzione dei conti pubblici non ci sarà bisogno di far nulla. Fra le tante promesse poco credibili di Trump questa è la più grave. Tutti sanno che senza una riforma di questi due programmi il debito pubblico americano è destinato ad esplodere. Insomma la sua politica fiscale esula dalle più ovvie leggi dell’aritmetica. Se Trump farà davvero ciò che promette, il suo successore sarà eletto nel bel mezzo di una crisi fiscale. Spesso però (per fortuna in questo caso) le promesse pre elettorali rimangono nel cassetto. E a proposito di altre promesse e di muri ai confini col Messico: gli Stati Uniti hanno una disoccupazione bassissima. È vero che la partecipazione alla forza lavoro è scesa, ma tutti questi faraonici investimenti pubblici probabilmente richiederanno più immigrati, soprattutto dal Messico, non meno come proclama Trump. Infine l’indipendenza della banca centrale. La Federal Reserve non è parte della Costituzione americana, è stata creata nel 1913 con una legge ordinaria. Il Congresso potrebbe cambiarla, eliminare l’indipendenza e sostituire i vertici ridefinendo la durata dei loro mandati. Ciò sarebbe molto grave. L’indipendenza della banca centrale dal via vai della politica è una delle istituzioni che storicamente hanno garantito politiche monetarie sagge e stabili. Nell’immediato è probabile che una nuova Fed non più indipendente, aumenterebbe i tassi più in fretta di quanto avrebbe fatto Janet Yellen, dato che da tempo i repubblicani (compreso Trump) criticano la Fed per una politica monetaria troppo espansiva. Quindi l’aumento dei tassi di interesse accelererebbe, e con questo il dollaro si rafforzerebbe, ma il peso del debito pubblico per i contribuenti salirebbe. Quali le conseguenze economiche per l’Europa e l’Italia? Pessima evidentemente la svolta protezionistica, ad esempio nel caso Trump imponesse dazi sui prodotti tessili e agricoli che esportiamo negli Usa. Peggio ancora se una svolta protezionistica in Usa scatenasse reazioni da altri Paesi come Cina e Giappone. Bene invece un eventuale rafforzamento del dollaro che ha l’effetto opposto delle tariffe. Gli effetti di un forte aumento del debito pubblico americano sono difficili da prevedere ma se i titoli pubblici degli Stati Uniti perdessero la loro assoluta affidabilità ci muoveremmo in acque finanziarie inesplorate nella storia recente. Infine un effetto indiretto e interessante è quello sulla costruzione di una politica militare europea. Trump dice di voler «smettere di sussidiare la Nato». Gli Stati Uniti spendono in difesa il 3,5% del Pil. Francia e Gran Bretagna intorno al 2 per cento, tutti gli altri Paesi europei pochissimo. Trump potrebbe essere lo choc che convince l’Ue a dotarsi di un proprio esercito, una decisione che le gelosie nazionali (e le lobby militari nazionali) hanno sempre bloccato. Un esercito Europeo sarebbe un grande passo avanti nella costruzione dell’Europa e, nel breve periodo, un progetto europeo molto più utile dei vari e fumosi «piani Juncker». Pag 18 Il coro stonato di previsioni e analisti-tifosi di Pierluigi Battista Risultato straordinario nelle elezioni presidenziali americane. Sicuro, anche perché non era prevedibile una tale concentrazione di sondaggi farlocchi, di previsioni fallaci, di analisi sballate, di certezze finite in frantumi, di ironie controproducenti, di teoremi infondati, di desideri scambiati per realtà. Risultato straordinario di strafalcioni e deduzioni semplicistiche. Si era detto. Meglio: avevano detto. Meglio ancora: avevamo detto, tutti noi dei giornali e dei media. C’era sempre l’inviato di punta che cominciava le

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sue riflessione: «gli analisti dicono», i più prudenti ammorbidivano, «tra gli analisti circola la sensazione». Gli «analisti». E cioè, chi sarebbero, che titoli hanno, dove si è formata la loro sicumera: nelle aule universitarie, o nelle cattedre del sentito dire, o in qualche bistrot con un bicchierino come ausilio per la dissertazione chic? E le fonti degli «analisti» dove si trovano? Difficile da dire. Però facile da immaginare che siano persone che frequentano gli stessi ambienti, hanno gli stessi tic, parlano lo stesso linguaggio. E che perciò sono incapaci di captare il linguaggio di chi sta fuori, di chi sta lontano e che dunque vota in modo bizzarro e imprevedibile. Per dire, sostenevano come se stessero rivelando una verità incontrovertibile che l’establishment repubblicano riottoso con Trump, spodestato da elezioni primarie che ne hanno messo in crisi la stessa identità, avrebbe fatto mancare il suo appoggio condannando Trump alla sconfitta sicura. Per dire, vedendo Obama ma anche Michelle (lei con magnifici discorsi, peraltro) mobilitati nel sostegno incondizionato a Hillary, dicevano che gli elettori afro-americani si sarebbero presentati in massa nei pressi dei seggi elettorali seppellendo con i loro voti l’odiato Trump. Non è vero, questa mobilitazione non è stata poi così massiccia, la previsione spacciata come una certezza si è rivelata molto fragile, Trump non è stato seppellito dal voto nero: un desiderio, non una conclusione da freddi «analisti». I quali, in Italia anche, fino a stanotte hanno continuato con lo stesso mantra, un po’ esagerato. Freddi «analisti», poi. Hanno calcolato che su un totale di 59 giornali americani grandi e piccoli, solo uno è stato filo-Trump, contro i 16 filo-Romney di quattro anni fa contro Obama. In Italia non è stato molto diverso, e le fonti sono rimbalzate da un continente all’altro, ma sempre all’interno di uno stesso mondo. Sempre gli stessi sondaggi, accolti come oracoli, anche sbagliando date, con la diffusione di dati per esempio che hanno preceduto l’affaire delle mail di Hillary e scambiati per dati successivi alla notizia dell’indagine Fbi. Dicevano: dopo le brutte, anzi orrende frasi sessiste di Trump, le donne avrebbero votato in massa per Hillary Clinton. Dicevano, anzi dicevamo, perché nessun giornale, nessuna tv, nessuna radio può dirsi immune da questa falsa coscienza spacciata per scientificità: certamente i latinos della Florida faranno pagare a Trump le sue frasi sul muro da alzare contro gli immigrati. E invece Trump ha vinto in Florida, e anche con un distacco che ha escluso l’incubo degli riconteggi. Dicevano, anzi dicevamo che gli stati del Michigan, del Wisconsin, della Pennsylvania erano sociologicamente e culturalmente una cassaforte elettorale nelle mani di Hillary, totalmente invulnerabili ai richiami trumpisti: si è proprio visto. E anche quando i risultati sorprendenti hanno cominciato a incrinare le certezze degli «analisti» e dei sondaggisti, tra i numerosi e non vinti rappresentanti delle due categorie ci si è detti certi che nel suo discorso di trionfo Donald Trump avrebbe spinto sull’acceleratore dello scontro, e invece Trump è stato molto «presidenziale», «inclusivo» come usa dire. Non ne hanno, non ne abbiamo azzeccata uno, sulle donne, sui neri, sui latinos, sui repubblicani dissidenti, eppure ci si stupisce, come se la realtà avesse fatto un dispetto agli «analisti» - non adeguandosi alle loro ingiunzioni e alle loro previsioni. Analisi. O meglio: tifo. Tifo accecante, almeno stavolta. Pag 18 L’esultanza (giustificata) dei populisti di Antonio Polito È nata una nuova destra, e si è presa la Casa Bianca. Campane a festa hanno accolto la buona novella da Folkestone a Calais, da Amsterdam a Dresda, dovunque in Europa partiti xenofobi e nazionalisti preparano l’assalto al potere: da oggi hanno un paese-guida, come si diceva un tempo, un faro cui rivolgersi, un esempio da imitare. Marine Le Pen ha esultato prima ancora che la notizia diventasse ufficiale: «Congratulazioni al popolo americano, libero», dove si intende che fino a ieri era in catene. Nigel Farage ha salutato la «seconda rivoluzione» del 2016, e questa volta «più grande della Brexit». Il capo dell’estrema destra olandese Geert Wilders ha detto di aspettarsi ora una «primavera patriottica» in tutto l’Occidente (lui va alle urne in aprile) e ha adattato alla sua decisamente piccola patria lo slogan trumpiano: «Rendiamo grande di nuovo l’Olanda». Mentre Frauke Petry, l’anti-Merkel di Alternativa per la Germania, si propone di «restituire la voce al popolo tedesco» come Trump l’ha ridata a quello americano. Per non dire di Orbán, quasi incredulo di poter affratellare il suo muro anti immigrati a quello che il nuovo presidente vuole costruire sulla frontiera del Messico. È giustificata tanta esultanza? Sì. Ci sono ovviamente molte differenze tra la politica americana e quella

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europea: per esempio la vittoria di Trump smentisce la vulgata nostrana secondo la quale i populisti sono rafforzati dall’austerità dei governi, perché l’America di Obama e della Fed ha seguito in questi 8 anni la politica opposta. Eppure la rivoluzione di Trump può davvero produrre in Occidente ciò che la rivoluzione di Reagan e Thatcher provocò negli anni 80: un vero e proprio riallineamento dell’intera politica mondiale. Allora la destra si risvegliò liberista, liberale e libero-scambista, stavolta all’opposto si presenta protezionista e sciovinista. Ma quella di Trump, che per vincere le elezioni ha dovuto prima di tutto battere la vecchia destra conservatrice del Partito Repubblicano, ha tre tratti genetici che la rendono molto compatibile con lo spirito del tempo e con i contenuti dello scontro ideologico in corso in Europa. Il primo è che si tratta di una destra che si appella agli impoveriti, ai «dimenticati», come li ha definiti ieri Trump nel discorso della vittoria, non ai ricchi, ai petrolieri e ai banchieri, o all’establishment come in passato. Si rivolge cioè allo stesso materiale umano cui parlano nelle periferie delle città europee le Le Pen e i Salvini di casa nostra. In secondo luogo la nuova destra di Trump forse non è xenofoba ma è certamente «nativista», e cioè mette al primo posto quelli che già c’erano rispetto a quelli che sono arrivati dopo, miele per le orecchie di chi in Europa ha fatto della guerra all’invasione degli immigrati il contenuto del proprio messaggio politico. E infine la nuova destra è nazionalista, nel senso che pone l’interesse americano davanti a ogni obbligo o accordo internazionale, accada quel che accada, «e se la Nato si spacca, che si spacchi». E quest’ultimo punto è forse il più complicato per i rapporti con la destra europea, perché per definizione i nazionalismi si possono sommare ma non integrarsi. Potranno verificarsi cioè numerose occasioni in cui nazionalismo e protezionismo americani collidano con l’interesse, per esempio commerciale, dei Paesi europei. L’Italia, che di originalità politica è maestra, non foss’altro perché ha anticipato di più di venti anni con Berlusconi molte delle caratteristiche del fenomeno Trump, ha una variabile in più: il movimento grillino. Ieri il fondatore dei Cinque Stelle è saltato in corsa sul carro del vincitore, ma il suo partito non è poi così assimilabile a questa nuova destra europea, a differenza della Lega. Certamente non xenofobi, i grillini non hanno usato l’argomento stop agli immigrati neanche nella campagna per le amministrative, quando hanno vinto a Torino e a Roma. E nemmeno possono essere definiti nazionalisti: sono anzi attratti, soprattutto nel pensiero di Casaleggio, dall’utopia di nuovo ordine mondiale stavolta retto sulla Rete. Ciò non toglie che la ribellione interpretata da Trump in America possa essere usata da tutti i ribelli italiani contro il governo e l’Europa. E siccome la prima occasione elettorale è il referendum del prossimo 4 dicembre, è fuor di dubbio che la sorpresa del novembre americano galvanizzerà quelli che sperano nella spallata. Nuovi motivi di preoccupazione per Renzi, insomma. Ormai, quando si apre il vaso di Pandora delle urne, si deve dare per scontato che ne fuoriesca tutto il malcontento, la rabbia, la delusione della gente per la stagnazione economica. Dopo la Brexit, l’elezione di Trump suona come una conferma; e anche come una legittimazione per chi volesse provarci con il No a Renzi. A meno che una eventuale turbolenza mondiale provocata da questi clamorosi eventi, nelle borse, nell’economia, nei rapporti internazionali, non faccia scattare una specie di riflesso d’ordine, tale da consigliare alla maggioranza silenziosa degli italiani di frenare la corsa verso il No, quasi un «fermate il mondo voglio scendere». Dubito che sia possibile, ma non dubito che i fautori del Sì tenteranno questa carta. Pag 32 Il mondo secondo Trump di Franco Venturini Quando l’America cambia, cambia il mondo intero. Se poi il cambiamento è radicale e inatteso, come nel caso di Donald Trump, ovunque nel mondo parte la contabilità dei pericoli e dei vantaggi, delle possibili convergenze nuove e delle sfide per le alleanze antiche. Di Trump conosciamo soltanto le indicazioni offerte durante una feroce campagna elettorale. Resta da vedere se il Trump presidente farà quel che ha promesso, e quanto lo influenzeranno i consiglieri di cui avrà bisogno. Ma nell’attesa è già possibile tracciare un identikit della politica estera dell’America prossima ventura. Sulla carta Trump appartiene al campo degli isolazionisti mentre Hillary Clinton si muoveva in quello degli interventisti. L’etichetta ideologica potrebbe perdere forza nel corso della presidenza, ma qualcosa di sicuro resterà, e renderà vana la promessa di una America di nuovo dominante. Piuttosto, l’America ripiegata su se stessa rafforzerà il nascente

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multipolarismo dominato da potenze regionali e possibile teatro di guerre regionali. Ammesso e non concesso che gli interessi dei poteri forti americani consentano a Trump uno sbocco di questo genere, e che il Congresso repubblicano approvi. EUROPA E NATO - Ieri due simboli potenti: l’esultanza dell’ungherese Orbán e l’estrema cautela di Angela Merkel. L’Europa sa di essere attesa da prove elettorali durissime nei prossimi dodici mesi. Sa che nelle urne l’ondata nazional-populista può spingerla verso la disgregazione. E ora deve affrontare l'incognita Trump. Il nuovo presidente ha dato l’impressione di non considerare la Ue se non per i «buoni affari». Quando ha parlato di Europa ha parlato soprattutto di Nato, avvertendo gli alleati che dovranno pagare parecchio di più per la loro sicurezza se vogliono che l’Alleanza abbia ancora un futuro. E prospettando anche le nuove priorità: la lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina, senza farsi ossessionare dal confronto con la Russia. Dunque problemi e divisioni in vista, ma in teoria anche una grande opportunità: se l’Europa non capisce di dover diventare adulta ora, non lo farà mai. RUSSIA - Putin ha vinto la sua vera battaglia, che era quella di non far vincere l’ostica Hillary Clinton. Ma sbaglierebbe a farsi troppe illusioni su Trump. Il nuovo presidente avrà un approccio pragmatico: se il nostro nemico numero uno è l’Isis e lo è anche della Russia, meglio trovare un accordo e batterlo insieme. C’è lo strappo della Crimea, certo, ma non può bloccare tutto, e le sanzioni vanno ripensate. Che la Russia si getti nelle braccia della Cina, poi, non è un buon risultato. Insomma, con il Cremlino bisognerà discutere di tutto e convergenze non sono escluse. Putin ha di che essere contento. Ma l’America non sarà cedevole o rinunciataria, come aveva gridato con scandalo la campagna di Hillary. E Putin dovrà fare la sua parte in un possibile nuovo reset. Partita tutta da giocare. MEDIO ORIENTE E IRAN - Appoggio sicuro agli attacchi contro Mosul in Iraq e Raqqa in Siria senza invio di forze americane, silenzio sul martirio di Aleppo, minore ostilità nei confronti di Assad. Putin è contento di nuovo, anche perché la creazione di una «zona di sicurezza» in Siria richiederà un previo accordo russo ora che il Cremlino ha giocato d’anticipo creando la sua no-fly zone garantita dai missili S-300. Poi, vinto l’Isis, l’America dovrebbe mediare per i nuovi assetti etnico-religiosi e forse per le nuove frontiere. Troppo complesso per un Trump oggi incompetente, ma è già ipotizzabile una intesa a tre con Putin e Erdogan se i curdi non riusciranno ad evitarla. Solidi i legami con Israele, grande attesa per quelli con l’Arabia Saudita mal vista dall’opinione pubblica Usa dopo l’11 Settembre. E probabile scontro con l’Iran. Trump ha annunciato che denuncerà l’intesa con Teheran raggiunta da Obama, creando un contrasto con gli alleati atlantici e lasciando in teoria l’Iran libero di perseguire le sue ambizioni nucleari. Anche il Congresso è di questa idea, e rinegoziare l’accordo non è realistico. CINA - Rapporti tutti da costruire dopo le incendiarie polemiche economiche e commerciali. Pechino cercherà una intesa strategica che comprenda anche gli scambi, ma sulle importazioni cinesi il presidente dovrà fare almeno una parte di quello che ha promesso. Barometro verso il brutto. EGITTO E LIBIA - Al Sisi è stato il primo a congratularsi, e di sicuro temeva l’approccio libertario della Clinton. Un rapporto forte con Trump potrebbe aiutare per la Libia che molto ci interessa, perché il generale Haftar padrone della Cirenaica è legatissimo agli interessi del Cairo. COMMERCIO INTERNAZIONALE - Trump suggerisce un ritorno al protezionismo, non vuole sentir parlare di Ttip con l’Europa, minaccia il Nafta nord-americano, non esclude di uscire dal Wto. CLIMA - Secondo Trump il riscaldamento dell’atmosfera è un «imbroglio». Ostilità verso l’accordo di Parigi e la conferenza in corso in Marocco. Questo è il Trump che conosciamo. Speriamo di vederlo evoluire. Pag 33 Perché l’America non è un Paese per donne di Gian Antonio Stella «Non scoraggiatevi», ha detto Hillary alle ragazze e alle bambine americane deluse per la disfatta. Giusto. Mai mollare. La batosta di martedì però, per quanto dovuta anche a mille altri motivi e non solo alla misoginia storica di larghe masse di elettori, conferma una volta di più che l’America profonda, per parafrasare il titolo dei fratelli Coen, «non è un Paese per donne». La slavina che ha sepolto la candidata democratica, peraltro rea

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agli occhi di tante elettrici d’essersi proposta come condottiera dell’altra metà del cielo tenendosi il cognome del marito, pare avere travolto non solo la sua carriera politica. Nel momento di massima pressione corale sul tema, le donne da ieri al Senato sono più o meno come l’altra volta. Totale: 22. Ci sono fra loro, è vero, figure di spicco come la prima senatrice ispanica (Catherine Cortez Masto), la prima rifugiata sudanese (Ilah Omar), la prima eroina militare mutilata in combattimento (Tammy Duckworth) e la seconda donna di colore (Kamala Harris) mai eletta. Sempre ventidue sono, però. Su cento. Ed è probabile che questi numeri, se confermati dal voto alla Camera dei Rappresentanti, non permetterà all’America di Trump di schiodarsi dalle posizioni occupate nel ranking dell’Inter-Parliamentary Union sulle presenze femminili nei Parlamenti. Un mese fa era al 97° posto: novantasettesimo su 193 Paesi. Dopo l’Arabia, la Grecia e il Kenya. Staccatissima non solo dall’Italia, quarantaduesima, ma anche da Paesi come la Tunisia, la Macedonia, il Burundi... Per non dire del Ruanda, che svetta su tutti con il triplo abbondante di presenze «rosa» americane. Una classifica umiliante. Il fatto è che se Trump è riuscito in una rimonta difficile sul Partito democratico, l’establishment, la grande finanza e tanti «poteri forti», Hillary era chiamata alla rimonta molto più difficoltosa su una storia secolare. Bastino due dati: su 50 stati solo sei hanno una donna come governatore. E su quei cinquanta chiamati al voto martedì, quelli che in due secoli di vita democratica non hanno mai avuto una donna ai vertici sono 23. Quasi la metà. E di questi, tredici (Arkansas, Florida, Georgia, Idaho, Indiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Pennsylvania, South Dakota, Tennessee, West Virginia e Wisconsin) sono stati il perno del trionfo di «The Donald», il maschio tra i maschi. Dovremmo aggiungere, anzi, il Wyoming dove l’unica «governatrice» Nellie Tayloe Ross «ereditò» nel 1925 la carica dal defunto marito e il Texas dove Miriam A. Ferguson fu imposta negli stessi anni dal marito James E. Ferguson, il governatore rimosso tempo prima perché messo sotto accusa. Dopo di lei, una sola parentesi: Ann Richards. Fine. Come una parentesi fu Kay Orr nel Nebraska: quattro anni su 162 di storia. Parevano vicende lontane, a molti, in campagna elettorale. Come immaginare che potessero pesare ancora? Le radici della diffidenza verso le capacità di governo delle donne, invece, si sono rivelate più profonde ancora di quanto temessero i più pessimisti. Del resto non solo la prima «governatrice» eletta senza esser moglie o vedova d’un governatore fu Ella T. Grasso nel Connecticut del 1974 (mezzo secolo dopo la concessione del voto alle donne!) ma l’ostilità misogina affonda in anni ancora più remoti. Dicono tutto, come qualche lettore ricorderà, le date: il XV Emendamento che almeno sulla carta concede il voto agli afroamericani (anche se poi l’esercizio del diritto si rivelerà assai complicato) è del 1870, il XIX che lo riconosce alle donne del 1920: cinquant’anni dopo. Il primo nero, Pinckney B. Stewart Pinchback, è eletto alla Camera dei rappresentanti nel 1874, la prima donna Jeannette Rankin nel 1916. Il primo senatore nero è Hiram Rhodes Revels nel 1870, la prima senatrice donna Rebecca Latimer Felton, nel 1922. E otto anni fa la stessa Hillary Clinton, più giovane, grintosa e meno ammaccata dalle polemiche, che si era candidata con la speranza di poter puntare già allora, prima donna, alla presidenza degli Stati Uniti, venne spazzata via alle primarie da Barack Obama. Affascinante. Ma afroamericano. Solo una dannata catena di coincidenze storiche senza valore reale, come sbuffa qualcuno, rispetto ai «veri temi» della politica? Difficile da sostenere. È la società americana stessa, come accusava una battuta della rivista economica Fortune («se guardi gli organigrammi delle grandi aziende hi-tech ti sembra di trovarti in Arabia Saudita»), a ruotare intorno alla figura maschile. «Il 43% delle aziende della Silicon Valley quotate in Borsa non ha una sola donna nel consiglio d’amministrazione», scriveva mesi fa Federico Rampini. E parliamo della frontiera più ricca, tecnologica, aperta, avveniristica, cosmopolita d’America. Immaginatevi quell’altra. Che mugugna sulla crisi davanti a una birra in un pub sul retro di un distributore di periferia... LA REPUBBLICA Pag I Il mondo è cambiato di Mario Calabresi "Il mondo è cambiato" titolavamo otto anni fa, quando Barack Obama conquistò la maggioranza degli americani con il suo messaggio di speranza e cambiamento. Il primo nero alla Casa Bianca e una mano aperta verso il resto del Pianeta. Quella promessa è

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stata realizzata solo in parte, mentre il terrorismo e nuovi nazionalismi hanno continuato a prosperare, mentre la frustrazione di chi non riesce più a immaginare il futuro ha trasformato la speranza di cambiamento in rabbia e volontà di rottura. "Il mondo è cambiato" nuovamente ieri mattina, in modo ancora più radicale e sconvolgente. Siamo di fronte all'elezione di un uomo che aveva contro tutto, dalla biografia improbabile perché costellata di scandali e fallimenti all'inesperienza conclamata, ma che è riuscito a incarnare nella sua persona il gesto liberatorio, ritenuto capace di rovesciare il tavolo della vecchia politica e dello status quo. Sulla scena - ci racconta Ezio Mauro interrogandosi sullo stato di salute della democrazia - è apparso un pifferaio capace di chiamare a raccolta gli uomini e le donne dimenticati d'America suonando la campana del riscatto. Se ciò è accaduto, ragiona Alessandro Baricco nell'ultima pagina del quartino che oggi avvolge il nostro giornale, è perché siamo di fronte a una mutazione antropologica che ha portato all'eliminazione delle mediazioni nei più diversi campi della nostra vita, con la conseguenza di vedere le élite culturali come qualcosa di inutile da rifiutare. Abbiamo sottovalutato la ferita di chi vede tradito il patto tra generazioni, di chi somma la paura degli stranieri all'ansia per la globalizzazione, al rifiuto della società multietnica. La nausea per il politicamente corretto o la rivendicazione che l'uomo bianco tornasse a sedersi a capotavola hanno fatto il resto. Ci resta da riflettere, come fa la scrittrice Elizabeth Strout, sul vizio dei giornali di confondere gli auspici con la realtà, ma ora ci tocca provare a capire quale sarà il mondo che ci aspetta. Pag III Democrazia. Ha vinto la rabbia dei dimenticati di Ezio Mauro "Forgotten men". Sono le prime parole che Donald Trump ha pronunciato da presidente eletto, per dire che uomini e donne "dimenticati" d'America non saranno dimenticati mai più. Istintivamente, scientificamente, Trump ha evocato davanti alle telecamere di tutto il mondo la sua costituency reale, quel soggetto politico anonimo e in gran parte sommerso, quindi sconosciuto perché senza voce e senza volto che lo ha preso dal ruolo di outsider e lo ha portato fin dentro la Casa Bianca. Non l'establishment, non il mondo, non il partito, non il Paese. Uomini e donne, singole persone "dimenticate". Il "forgotten man", potremmo dire, è il nuovo Dio sconosciuto d'America che Trump fa uscire dal buio del misconoscimento e porta alla ribalta, suonando la campana del riscatto. Ma quella campana, attenzione, suona per noi. Non c'è alcun dubbio che il pensiero democratico classico sta andando in minoranza nel mondo in cui viviamo. Credevamo che dopo aver suturato le ferite totalitarie del '900, la democrazia vincitrice si affacciasse al nuovo secolo come l'unica religione superstite, dunque egemone. Prima il rifiuto delle primavere arabe di compiersi secondo i nostri disegni desiderosi di stabilità e sicurezza, poi l'aggressione del jihadismo islamista assassino che attacca proprio il tempo e lo spazio della banalità democratica quotidiana nelle nostre vite, ci hanno fatto capire che ciò a cui attribuiamo un valore universale ha un perimetro e un limite che sono esclusivamente occidentali. Ma la vera sorpresa è dentro quel perimetro. Perché stiamo corrodendo la democrazia dall'interno, la stiamo consumando rendendola inabile, addirittura impotente, certamente estenuata. Come se fosse una creatura del Novecento, che non riesce ad attraversare la dogana del secolo con il bagaglio dei suoi valori intatti. L'uomo dimenticato è in mezzo a noi, lo conosciamo ogni giorno, ma non lo vediamo perché non è un soggetto politico. E qui c'è la grande questione che sta dietro il risultato americano, e riguarda tutti noi: perché quel "forgotten man" non è rappresentato. Non è necessariamente un povero, piuttosto si sente un espropriato. Gli hanno tolto qualcosa, non sa dove e quando, ma crede di sapere chi lo ha fatto: l'élite, quell'insieme di vip (la parola più orrenda degli ultimi decenni, che conteneva già tutto quel che ci sarebbe successo), di istituzioni, di politica, banche, affari, organismi internazionali, agenzie di rating, governi, media, mercati, esperti, professori e intellettuali. Un mondo della competenza e dell'esperienza - come Hillary Clinton - che sta oltre il ponte levatoio, oltre il fossato che divide chi ce l'ha fatta dagli altri. Un mondo che sa tutto, ma per sé, non per tutti. Non è un istinto di classe, quello dei "forgotten", perché non hanno sentimenti e interessi di classe, né politici o tantomeno ideologici: vivono dispersi, con frustrazioni individuali e paure personali che faticano a sommarsi e certo non riescono a raccogliersi in una forma visibile di rappresentanza. Hanno perso il lavoro, in America lo hanno in buona parte ritrovato (in Italia no) ma la loro vita ha fatto

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un giro, hanno sperimentato un precipizio sociale che ha invertito le aspettative di progresso, di crescita, di poter proiettare i figli in una condizione migliore della loro. In una parola qualcuno gli ha sottratto il futuro ed è qualcosa che non possono perdonare. Sono operai, impiegati, ex manager, contadini, professori, caduti in una condizione comune di spaesamento nella quale non si vogliono riconoscere e da cui vogliono uscire individualmente. Come si chiama questa nuova condizione? La politica tradizionale non lo sa. Ma mettiamo insieme la grande dimenticanza sociale in basso e l'impotenza delle élite in alto e vedremo che si scoperchiano due mondi separati, con un buco enorme tra di loro, un buco di rappresentanza, dunque di politica, infine - diciamo la parola - di democrazia. Quando il lavoro non funziona, e saltano il ruolo sociale che ne consegue e la coscienza di sé di fronte ai doveri verso la propria famiglia ci si sente abbandonati dalla politica, anzi qualcosa di più. Ci si sente fuori: respinti. Questa è la grande novità della fase, la trasformazione delle disuguaglianze (che una democrazia sconta al suo interno e compensa con gli ammortizzatori sociali e civili) in esclusione. Che genera solitudine, abbandono, risentimento, rabbia, e infine propensione al rifiuto. A che cosa serve, dicono i "forgotten", tutta quella competenza e quell'esperienza di cui abbiamo parlato prima, tutto quel sapere e quella scienza e tecnica di gestione di sistemi complessi, se poi la governance complessiva delle nostre società democratiche non riesce a vedermi, a occuparsi di me, a farmi sentire rappresentato? Prima scatta il disimpegno da ogni scelta civica, si resta sul divano il giorno del voto, si cambia canale, tanto come dice Bauman "la posta è così bassa" che votare o non votare è uguale, votare l'uno o l'altro è la stessa cosa, perché per le mie condizioni concrete di vita non cambia nulla. Poi viene il momento in cui passa un pifferaio che prende a calci il sistema, come vorrebbe fare il "forgotten", ma per lui la distanza è troppa, e non ha la forza. Quel tipo - tosto, nuovo, finalmente irrispettoso, capace di dire pane al pane, arrogante come e più di chi ha il potere - lo può fare al posto degli individui sconosciuti. Ma lui dice: facciamolo insieme, è giunta l'ora. Anzi, prendiamoci tutto, tocca a voi, i diseredati della rappresentanza, io vi apro la strada. Perché non provarci? Il calcio al sistema è il grado 1 della rappresentanza, dopo lo zero. Risponde a un istinto di sovversione e di antagonismo più che a una domanda di politica e tantomeno di governo. È il ribellismo degli ex, degli spossessati. Che ritengono di aver diritto a un ruolo sociale, a un lavoro che corrisponda agli studi, a un'occasione o almeno a una rivincita, al limite una rivalsa. Il voto è un rifugio di disagio, di rancore, di pretese più che di diritti, uno sfogo piuttosto che una scelta. Intanto diamo il calcio al tavolo del comando. Cosa ci sarà dopo il calcio? Nessuno lo chiede, le proposte del pifferaio non sono mantenibili, la rabbia fatica a trasformarsi in governo. Ma intanto rovesciamo il tavolo e godiamoci lo spettacolo, poi si vedrà. Trump nasce dunque dal vuoto che noi abbiamo creato, parlando di Paese - com'è giusto fare - ma non anche di lui, il dimenticato. Trump è andato a prenderlo sul divano, dove noi ci rassegnavamo a lasciarlo, scontando un calo di partecipazione ad ogni elezione, un calo di entusiasmo ad ogni comizio, un calo di autenticità ad ogni discorso in tv. In un'alchimia tragica, trasforma in destra reale - mai così realizzata - quelle solitudini sparse, quelle rabbie disperse, quel disincanto democratico che non siamo stati capaci di riunire e che dovevano interpellare la politica con la maiuscola, i grandi partiti storici proprio in nome delle loro tradizioni: la sinistra per prima, perché si tratta di fragilità alla deriva, e di deficit di rappresentanza. Adesso lo sappiamo. Abbiamo un dovere nei confronti di queste persone, oggi certamente rappresentate dal quarantacinquesimo presidente, e probabilmente ingannate. Abbiamo un dovere drammatico nei confronti della democrazia, dopo aver toccato con mano quant'è fragile, così esposta come non è mai stata. LA STAMPA La marcia della tribù bianca di Maurizio Molinari È la rivolta della tribù bianca d’America ad aver vinto le elezioni presidenziali che hanno portato Donald J. Trump alla Casa Bianca. Composta in gran parte da famiglie del ceto medio flagellato dagli effetti della globalizzazione, con le roccaforti negli Stati operai del Midwest e nella regione degli Appalachi, d’origine anglosassone ed angloceltica, diffidente nei confronti del governo federale e portatrice di un’idea di libertà basata sul diritto alla prosperità, la tribù bianca si è sentita aggredita durante gli otto anni di

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presidenza Obama. Ha vissuto l’orizzonte post-razziale, l’esaltazione dell’America multietnica, i successi delle battaglie sui diritti dei gay, le critiche all’operato della polizia e gli inchini del Presidente agli sceicchi come l’umiliazione dei discendenti dei pionieri che sfidarono indiani, banditi, animali feroci e intemperie per costruire la miriade di piccoli centri da cui è nata la nazione. La tribù bianca è composta da padri che insegnano ai figli a «non parlare con gli amici di sesso, politica e denaro», da famiglie che diffidano dei nuovi venuti, da donne che votano come suggeriscono i mariti e da un oceano di senza lavoro che attribuiscono l’impoverimento ad un modello economico basato su tecnologie e libero commercio, favorevole solo alle élite che hanno trasferito la ricchezza da Wichita, Kansas, a Shanghai, Cina. È una tribù per la quale i diritti economici contano più di quelli civili, che non si sconvolge per le volgarità di Trump e spera di «restaurare l’America delle origini» come spiega il sondaggio del «Public Religion Research Institute» parlando di una coalizione di uomini bianchi, senza laurea e operai. Hillary Clinton in uno degli errori della campagna li ha definiti «deplorables» (miserabili) ed è proprio questa maggioranza silenziosa che negli ultimi 11 mesi è andata a votare in massa - come mai aveva fatto - sconfiggendo in rapida successione le dinastie politiche che negli ultimi trent’anni hanno guidato Washington: i Bush e i Clinton. Tutto questo è avvenuto a dispetto di una demografia che premia la somma delle minoranze, respingendo la prima donna che poteva diventare presidente, umiliando l’establishment bipartisan, le star di Hollywood, l’esercito dei sondaggisti e quasi la totalità dei media. Poiché l’America è una nazione rivoluzionaria, dove il populismo si affermò con l’elezione di Andrew Jackson nel 1829, è un fenomeno che merita rispetto anche da parte di chi non lo condivide. Tanto più che ci riguarda da vicino essendo assai simile al disagio del ceto medio che in Europa ha generato la Brexit britannica ed alimenta una galassia eterogenea di movimenti di protesta, dalla Francia alla Germania fino al nostro Paese. Ciò che distingue i vincitori dell’Election Day è un’identità di gruppo che prevale su ogni altra forza di aggregazione politica. Per questo Trump li definisce «un movimento» - e non un partito - i repubblicani che oggi sommano il controllo di Casa Bianca e Congresso alla possibilità di ridisegnare la Corte Suprema, interprete dei valori della Costituzione. Come avviene dopo le vittorie rivoluzionarie, Trump arriva nella Washington domata praticamente da solo. Considerato un appestato da liberal e conservatori, allontanato da analisti e centri studi, avversato da minoranze, donne e gay, ha di fronte la temibile sfida di governare la nazione leader del mondo libero. In attesa di sapere come intende farlo, possono esserci pochi dubbi sul fatto che dovrà anzitutto rispondere a chi lo ha eletto, ovvero riconsegnare la prosperità al ceto disagiato. Se Trump vincerà questa sfida, potrà offrire all’Europa un inedito modello di crescita. In caso contrario, rischia di essere travolto dalla stessa rivolta che lo ha incoronato. Comunque vada, dovremo fare i conti con lui. AVVENIRE Pag 1 Nuovi tuoni vecchi tuoni di Andrea Lavazza Emerge la radicale spaccatura Usa Ringraziamenti a Hillary Clinton; sarò leader di tutti; ora è il momento di essere uniti; far rimarginare le ferite del Paese. Le prime parole di Donald Trump da presidente degli Stati Uniti sono state accolte da molti con un sollievo che è sconfinato nella sorpresa. Come se il saluto di prammatica, nemmeno un discorso, che ci si aspetta pronunci ogni eletto alla Casa Bianca – e a qualsiasi carica pubblica – fosse per il nuovo inquilino di Pennsylvania Avenue una straordinaria concessione e un cambio di rotta. La stessa Wall Street ha assorbito presto lo choc della notte, passando dai timori di un crollo a una giornata quasi positiva. Ma tutto questo non basta nemmeno per cominciare a inquadrare il fenomeno Trump, con la novità dirompente e le incognite che lo accompagnano. Il candidato anti-sistema, che fino a 18 mesi fa non aveva mai corso in una competizione pubblica – al massimo era stato organizzatore di concorsi di bellezza –, è arrivato a essere Comandante in capo, forse l’uomo più potente del mondo. Sarebbe però sbagliato considerarlo un presidente per caso, un outsider favorito da circostanze irripetibili. La sua trionfale cavalcata – dallo scetticismo circa la sua discesa in campo al successo nelle primarie, dal distacco dal partito che non lo amava all’apoteosi di martedì – è stata il frutto di un’abilissima condotta politica che ha sfruttato al meglio i sentimenti

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di un’America scontenta e ansiosa di trovare un proprio campione a Washington. Il Paese sta certamente cambiando sotto la pressione dell’era globale, ma nell’ultimo anno non vi è stata alcuna rivoluzione. Il ceto medio bianco meno istruito e prevalentemente evangelico che ha portato The Donald alla Casa Bianca era stato protagonista anche dell’era Bush. Si aggiunga che il Partito repubblicano non ha saputo esprimere personalità forti e convincenti durante la lunga presidenza di Obama ed ecco che si è aperta una strada per il Tycoon che ha studiato l’ascesa di Berlusconi e ne ha adattato tanti aspetti alla realtà Usa. Dall’altra parte ha trovato una candidata che è giunta all’ultimo atto per l’inerzia di un’investitura dinastica nel segno (auspicato, ma non realizzato) della prima donna al vertice degli Stati Uniti. Era solo l’espressione dell’establishment e dei ricchi, invisa al resto della nazione? Anche questa narrazione non coglie pienamente il bersaglio, perché Hillary ha raccolto una manciata di voti popolari più del suo rivale, avendo un elettorato più composito, soprattutto tra le minoranze, che però non l’hanno premiata come fecero con Obama. E poi ha coagulato intorno a sé quasi tutti coloro che temevano più l’avventurismo dello sfidante che il suo essere donna di potere e dei gruppi di potere. L’America è spaccata, polarizzata come poche volte nella sua storia, eppure non bisogna esagerare rispetto a un Paese che ha vissuto una vera guerra civile e, più recentemente, il maccartismo. Ha vinto un repubblicano dopo due mandati di un democratico; ha vinto un leader populista in un tempo che vede erodersi i meccanismi classici di rappresentanza dei sistemi liberal-democratici; ha vinto il campione di chi si sente 'dimenticato' dalle classi dirigenti e dalle scelte governative nell’ambiente liquido dei social media in cui la politica ha perso la 'serietà' (al di là della buona fede e della competenza) che qualificava in passato i suoi migliori esponenti e che ora viene denigrata come eccesso di 'correttezza' progressista. Forse Trump ha vinto proprio perché ha squarciato del tutto il velo della 'serietà' che caratterizzava il processo politico. Molti di coloro che l’hanno votato probabilmente ne colgono soprattutto questo aspetto procedurale, che viene prima dei contenuti programmatici: dire pane al pane, rovesciare il tavolo, andare al sodo. Quei modi che lo rendono personalmente insopportabile a gran parte degli europei gli sono serviti da passepartout in un tornante della storia che fa prevalere timori istintivi e reazioni viscerali in coloro che si sentono, a torto o a ragione, minacciati nel proprio status sociale e culturale. Ma questa è la storia di ieri. Oggi le vere domande sono ciò che l’Amministrazione Trump farà dal 20 gennaio. Saprà l’affarista assumere un profilo istituzionale, ora che non ha più bisogno di gridare? Rinfodererà lo spadone che agitava, adesso che non deve più assecondare le pulsioni battagliere degli elettori? Ha promesso che sarà al fianco dei 'forgotten', dei dimenticati. I suoi piani prevedono però di ridurre, se non smantellare, l’assistenza sanitaria per i poveri ottenuta dal suo predecessore, di indebolire le regolazioni finanziarie introdotte per tutelare le vittime della grande speculazione e di ridurre la tassazione, anche quella a carico dei maggiori percettori di reddito. Su questo come su altri versanti non è da sottovalutare la maggioranza che il Partito repubblicano ha mantenuto al Congresso - anche qui contro tutti i pronostici e tutti i sondaggi - e che potrà acquisire alla Corte suprema con le prossime nomine presidenziali. Quanto Trump sarà imbrigliato dall’apparato e quanto ne sarà guida? Ci si chiede poi se vorrà e riuscirà a riportare indietro l’orologio sul fronte di alcuni cosiddetti diritti civili, che comprendono anche l’aborto e i matrimoni gay. E se e come darà seguito alla minaccia di alzare muri verso l’altra America, quella latina, e di cacciare via milioni e milioni di immigrati negli Usa dal centro e dal sud del continente. Unendo le promesse svolte in politica estera, che preoccupano in particolare i Paesi della Ue, compattamente e improvvidamente schierati 'a prescindere' con la perdente Clinton, emerge un quadro di potenziale cambio di vastissima portata. L’inesperienza del presidente e la sua muscolare marcia di avvicinamento alla Casa Bianca fanno intravedere molte nubi sull’orizzonte di tali mutamenti. Ma la grande forza della democrazia americana potrebbe spazzarle via, se anche il neo-eletto è stato sincero nel suo saluto inaugurale. Ciò che unisce gli americani è la fedeltà al loro Paese, terra di libertà e pari opportunità. Trump ha sfruttato la percezione che le pari opportunità stiano declinando, ma non troverà appoggio né sanerà le fratture se dovesse anche solo dare l’impressione di limitare la libertà e di consolidare l’ingiustizia. Pag 3 Ma “The Donald” era già tra noi di Vittorio E. Parsi

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Ha saputo intercettare le paure Il più inatteso dei vincenti, la più scontata delle perdenti. È nelle traiettorie di questi destini incrociati la sintesi più cruda di quello che è avvenuto martedì negli Stati Uniti. Da un lato il candidato 'repubblicano' che ha saputo intercettare e rappresentare le paure e la rabbia dell’America bianca e lavoratrice, dei white e blue collars, ma anche dei red necks, dandole la forma di una speranza di riscatto. Dall’altro l’algida rappresentante di un establishment, non solo politico, sempre più distaccato dalla realtà del Paese, incapace di cogliere le angosce profonde di quello che storicamente aveva rappresentato, e ancora rappresenta, la spina dorsale della società americana. Per intercettare questi sentimenti, quella di Hillary Clinton era la peggiore delle candidature possibili. E lei stessa si è rivelata essere ancora la stessa che 8 anni fa perse sorprendentemente le primarie democratiche contro uno sconosciuto Barack Obama. Altrettanto ha fatto oggi, contro Donald Trump, il più improbabile degli avversari, confermando la sua triste nomea di irrimediabile perdente. La sorpresa suscitata dalla robusta vittoria di Trump è figlia di un establishment non più capace di ascoltare il corpo della nazione, che ha cercato di sostituire la sintonia rispetto alle emozioni, i desideri, le frustrazioni della società con il marketing politico, con gli spin doctors, con i 'guru' della comunicazione. La Clinton ha intessuto la tela di una coalizione arcobaleno di interessi, di minoranze, di istanze (gli ispanici, le donne, i neri, i gay…) tenuta insieme sostanzialmente dalla pioggia di dollari della sua campagna elettorale. Trump si è 'offerto', quasi fisicamente, al suo popolo: e più i suoi seguaci venivano umiliati dagli epiteti offensivi e dall’aperto disprezzo della rivale e del suo staff, più si legavano a lui in maniera pervicace. A questo popolo smarrito, massacrato dalla crisi finanziaria provocata da quei 'lupi di Wall Street' così generosi di finanziamenti verso Hillary, Trump ha offerto 'protezione'. Sono state proprio queste le parole utilizzate da una sua fan, in sovrappeso e sciattamente vestita, festante per la vittoria del 'suo' Donald: «Lui ci protegge». Non si tratta, evidentemente di una protezione fisica o concreta; ma di quell’idea di 'take care', di prendersi cura, che in America è il più semplice, sentito, classico dei viatici. Ecco, Hillary non è riuscita a essere di nessuno, mentre Trump è stato in grado di essere percepito come il 'proprio' The Donald da ogni singolo cittadino che lo ha votato. Il ceto medio impoverito, la working class ridotta a lavorare per salari sempre più bassi, a condizioni sempre peggiori, con tutele via via decrescenti, dalle prospettive tutt’altro che rosee, i farmers che rischiano di dover cedere le proprie fattorie alla banche hanno gridato, tramite Trump, il loro rifiuto del dogma dell’assoluta bontà dell’apertura dei mercati al commercio internazionale, della globalizzazione finanziaria, della crescente, insostenibile divaricazione nei redditi, nei patrimoni, nelle speranze e persino negli stili di vita rispetto a quelli degli happy few, i pochi fortunati. Agli economisti che ci ricordano come l’economia mondiale di oggi ricordi quella della fine del 1800, quando dopo una lunga deflazione prese improvvisamente corpo un repentino innalzamento dei tassi di interesse, occorre ricordare come l’America del 2016 ricordi quella del 1880 in un altro e ben diverso senso. Allora, per dirla con l’icastica frase di un grande storico americano, «il popolo era scomparso». Non contava più. I suoi diritti, a iniziare da quello della partecipazione a beneficiare della straordinaria ricchezza del 'grande Paese' (quella 'ricerca della felicità' scolpita nel Preambolo della Dichiarazione di Indipendenza), gli erano stati sottratti dai grandi 'baroni' della speculazione finanziaria dell’epoca, legati agli interessi delle corporations che stavano cambiando la struttura produttiva del Paese, attraverso lo sviluppo delle ferrovie e delle industrie siderurgiche e meccaniche. Questo popolo oggi non vuole, non sa, non può rassegnarsi a una nuova sparizione e non ha trovato di meglio, non gli è stato offerto niente di meglio, che affidarsi a un bizzarro tycoon, dalla reputazione non immacolata, nella speranza, magari illusoria ma pur sempre rispettabile, di non essere abbandonati e che la sua aspra polemica con l’establishment liberal-finanziario di Washington e Wall Street non sia solo uno strumento per raccogliere il consenso ma un sentimento condiviso, comune e profondo. Quale altra alternativa avevano? La risposta è nessuna. Beninteso, nessuna dopo che le manovre opache dei vertici del partito democratico – non certo all’insaputa della candidata Hillary – avevamo tolto di mezzo Bernie Sanders: il solo che, proprio per la sua analoga natura di uomo anti-establishment ma con connotazioni diverse da quelle di Trump – avrebbe potuto pescare almeno parzialmente

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nello stesso bacino elettorale di Donald e forse batterlo. Ma hanno preferito 'l’usato sicuro' rappresentato da Hillary e le cose sono andate come tutti ormai sappiamo. La vittoria di Trump segna anche il probabile tracollo del sistema di partito americano e dei due partiti che tradizionalmente lo incarnano. Lo straordinario successo del partito repubblicano al Congresso non deve trarre in inganno. Guai se gli eletti sull’onda del trionfo di Trump si illudessero di potergli imporre un’agenda semplicemente conservatrice e non anche autenticamente popolare. La miseria delle condizioni in cui versa il partito che fu di Abramo Lincoln la si è vista nelle patetiche figure, ben più bigotte e reazionarie di lui, che i vertici repubblicani hanno cercato di utilizzare per impedire a Trump di ottenere la nomination. Ora Trump dovrà governare e trasformare in politiche la straordinaria sintonia fin qui dimostrata con i suoi elettori e, su alcuni temi, con una fetta ancora più larga di opinione pubblica: come quella che a stragrande maggioranza ritiene che la politica estera degli ultimi 15 anni non abbia reso più sicura l’America. Come sempre tra i proclami elettorali e le politiche concretamente perseguibili e perseguite c’è un’enorme differenza: vale per lui quello che vale per qualunque leader, in qualunque sistema. È soprattutto sulla politica estera che si appuntano le preoccupazioni degli alleati, degli amici e degli avversari. Eppure, al di là dei toni, alcune delle misure che propone non sono poi così bizzarre. Non intende portare avanti il TTIP: ma perché forse la signora Merkel o Francois Hollande intendono farlo (se non dopo consistenti modifiche)? Chiede un approccio diverso, meno confrontational con la Russia: ma non è la stessa cosa chiesta da Renzi all’ultimo vertice europeo? Vuole erigere un 'muro' al confine del Messico: ma già c’è. Intende ridurre l’impegno militare americano in Medio Oriente, e ripartire in maniera diversa il fardello della difesa comune all’interno dell’Alleanza Atlantica: ma il primo non costituì un punto qualificante della piattaforma del primo mandato di Obama? E il secondo non è forse un tema ricorrente di qualunque presidente americano negli ultimi 25 anni? Tutto ciò non significa assolutamente che non si debba guardare con attenzione ai primi passi che Trump muoverà in una terra per lui incognita. Ma quantomeno offrirgli il beneficio del dubbio, quello sì. Pag 3 Ora tocca agli europei riprendersi la storia di Marco Olivetti Il salto di qualità possibile rilanciando il progetto federale L’impatto dell’elezione di Donald Trump sulla politica europea sarà verosimilmente forte e complesso, almeno se si prendono sul serio – come ora è necessario fare – i messaggi lanciati dal candidato repubblicano durante la campagna elettorale: relativizzazione delle sedi bilaterali e in particolare della Nato e 'abbandono' dell’Europa alle sue responsabilità, anzitutto per provvedere alla sua stessa difesa. L’impatto potrà avere almeno due dimensioni: l’elettorato da un lato, le élite politiche dall’altro. Dal primo punto di vista l’elezione di Trump potrebbe essere un capitolo dell’irresistibile ascesa dei linguaggi populisti e del rifiuto della globalizzazione (il trend che ormai molti definiscono deglobalizzazione), coagulando il consenso – o la rivolta verso l’establishment – dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. Ma qui interessa soprattutto chiedersi se le élite europee, pur composite e oggi sotto attacco, quindi deboli e inevitabilmente tentate di ripiegare sui rispettivi orticelli, saranno capaci di proporre una risposta politica alternativa. Quest’ultima, del resto, sembra imposta dai fatti: il disimpegno degli Stati Uniti dall’arena politica europea e medio-orientale (già notevole nel secondo mandato del presidente Obama e ora verosimilmente destinato ad accentuarsi con la prossima amministrazione) pone l’Europa davanti a una domanda radicale: può l’attuale «unione a lungo termine di Stati che continuano ad essere sovrani» trasformarsi in uno spazio in cui popoli dalla storia diversa diventano effettivamente una comunità di destino? Ciò comporta un radicale mutamento di prospettiva rispetto ad assunti ancora largamente prevalenti fino a ieri. La scommessa per l’Europa, di fronte alla fine del 'protettorato' americano su di essa, costruito all’indomani del secondo conflitto mondiale, è semplicemente quella di riprendere pienamente in mano la propria storia. Non, però, per pensarsi solo come un attore del processo di globalizzazione dell’economia, quanto, piuttosto, per configurarsi come una comunità politica a tutti gli effetti. Come qualcosa di simile a un vero Stato federale europeo, certo articolato in maniera da tenere conto della diversità delle sue componenti, ma costruito attorno a un centro unitario, che accetti la sfida di concepirsi come 'sovrano', pur con tutte le cautele che si impongono

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nell’utilizzazione del concetto di sovranità nel nostro tempo. In altre parole: se la Brexit e l’elezione di Trump (oltre a vari segni che vengono dall’esterno dell’Occidente) sono il segno che è in atto una sorta di deglobalizzazione, l’Europa è troppo pesante per gli Stati membri in quanto attore globalizzante ed è oggi troppo debole come comunità di destino. La sfida per le classi dirigenti europee (politiche e non solo) è gigantesca. I principali leader politici del Vecchio Continente (Merkel, Hollande, Rajoy) sembrano oggi avere la statura di buoni gestori dell’esistente e non quella di possibili progettisti di un salto di qualità verso una statualità europea. Ed il leader più vibrante che circola oggi in Europa – alludiamo a Matteo Renzi – opera sotto la spada di Damocle di una consultazione referendaria che potrebbe spazzarlo via o quantomeno trasformarlo in un’anatra zoppa. Saranno perciò decisive le elezioni francesi e tedesche del prossimo anno: in particolare le prime, nelle quali la candidatura di Alain Juppé potrebbe fornire un leader con la caratura ideologica (retroterra gollista, ma aperture liberali e consapevolezza europea) necessaria a 'pensare' un salto in avanti per l’Europa. Ogni discorso potrebbe essere vano se dalle elezioni francesi uscisse una presidenza di Marine Le Pen e se le elezioni tedesche partorissero alla fine una coalizione di sinistra-sinistra fra socialdemocratici, verdi e postcomunisti. Ma se l’esito di quelle consultazioni (e del referendum italiano) non vedesse prevalere sfumature diverse di populismi, lo spazio per un rilancio del progetto federale europeo potrebbe riaprirsi. Magari 'alleggerendo' l’attuale Europa a 28 (27 senza il Regno Unito), riconfigurata come un quadro consensuale attorno a cui i Paesi fondatori delle Comunità europee potrebbero lanciare l’avventura di una nuova statualità comune, aperta agli Stati disponibili a condividerla. Fino a oggi, tutto ciò fino – vale a dire una vera e propria riapertura del processo costituente europeo – rientrava nello spazio dell’utopia. Ma l’elezione di Trump potrebbe innescare le premesse per un salto di qualità. L’alternativa rischia di essere semplicemente il congedo puro e semplice dell’Europa dallo scenario della grande storia. IL SOLE 24 ORE Un messaggio per l’Europa di Roberto Napoletano La vittoria di Donald Trump e la conquista della Casa Bianca sono il sigillo ufficiale, inimmaginabile per i più, che siamo di fronte a un mondo diviso. Percorso da una specie di nuova rivoluzione francese, globale e diffusa, dove facciamo i conti ogni giorno con lo scontro tra i "sans-culottes" e le élite che cambiano di Paese in Paese. Facciamo i conti con una protesta diffusa contro tutto ciò che è diverso. Avviene anche in un Paese come gli Stati Uniti, segnati certo da una crescente diseguaglianza, ma con una disoccupazione al 4,9% e uno stato complessivo dell' economia buono. Il risultato elettorale di Trump è l'espressione di una protesta viscerale contro ciò che è percepito come élite, una protesta così forte che riesce ad avere buon gioco anche delle diffidenze iniziali dei repubblicani tradizionali, ovviamente tutti pronti ora a tornare a casa. È bene prendere atto, siamo già in colpevole ritardo, che il vento populista è globale, non è finito, può portare altri governi populisti. L'ordine, il mercato, la disciplina esprimono valori nobili, ma arrivano attutiti alle coscienze nazionali, le vecchie regole non funzionano più, e non si può chiedere a esse di tornare a dare quello che davano in scenari differenti. Bisogna prendere atto che gli Stati Uniti nell'era di Trump saranno meno aperti agli scambi (questo è un male, soprattutto per l'Europa e per noi) e difenderanno all'inverosimile una sbagliata percezione di sicurezza degli americani, ma è anche vero che porteranno meno tasse e più infrastrutture, investimenti nelle costruzioni e nel farmaceutico, un po' più di inflazione e un po' più di debito. Per questo, i mercati hanno voluto credere al Trump vincitore che vuole unire gli americani e rendere ancora più forte la sua economia che non all'impresentabile Trump che faceva orrore agli stessi maggiorenti del partito repubblicano. Insomma, i mercati sanno o vogliono credere di dovere fare i conti con un'America meno aperta con l'Europa, elemento negativo, ma pronta a rinsaldare le sue alleanze con la Russia e che, soprattutto, vuole tornare a crescere ancora di più e rispondere a quei bisogni insoddisfatti che si sono tradotti nella protesta elettorale dell' anima profonda del Paese. La vittoria di Trump consegna al Vecchio Continente un messaggio inequivoco: o troviamo in Europa l'accordo politico per cambiare la politica economica, e lo facciamo in fretta ignorando i vincoli e i calcoli legati alle troppe scadenze elettorali prossime future, o non ce ne sarà per nessuno. A ben

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pensarci, questo è il significato di lungo termine, per noi europei, del trionfo di Trump perché esprime il primato della politica allo stato puro, senza la mediazione dei partiti. Si va direttamente dal leader al popolo ed è lui, il leader, che conquista il guscio vuoto del partito. Un dato di fatto che non può non far riflettere. Da Putin a Erdogan, fino a Brexit, e ora con Trump, l'Europa è sempre zitta, potremmo dire non pervenuta. Non c'è, o per lo meno non è emerso, un capitale politico sufficiente per affrontare la delicatezza sociale e la persistenza degli effetti economici della più lunga crisi globale mai conosciuta. Fa paura, questo sì, il vuoto di leadership politica europea che ha un'agenda sempre fitta di troppe cose, spesso inutili, di cui occuparsi. Senza accorgersi che il costo in termini di welfare del populismo è altissimo e che rischia di pagarlo di più proprio chi ha votato sotto l'effetto di uno spirito nuovo contagioso che è quello della protesta. L'esperienza della rivoluzione francese e di come è finita, per i molti elementi di similitudine ancorché in contesti e epoche differenti, deve esserci di ammonimento per il suo epilogo e, forse, ancora di più per quello che è accaduto dopo. Soprattutto a noi italiani, perché come Brexit insegna, il "tail risk" ce lo becchiamo sempre in casa in quanto i mercati ci considerano, a torto o a ragione, un Paese ancora fragile, per lo meno più vulnerabile di altri. Né può esserci di consolazione il fatto che questo modello populista, nelle sue tante declinazioni, è diffuso in tutti i Paesi e, quindi, tutti stanno un po' peggio. Anche perché questa deriva rischia di essere lunga, oltre che diffusa, e non può che far male. Anzi, molto male. IL FOGLIO Pag 1 Trump, castigo di Dio, figlio del politicamente corretto di Giuliano Ferrara Ma chi se ne fotte dei Big data che sono così Small, dei sondaggi che sono pippe, degli stati in bilico, dei sociologi che spiegano la vendetta dei senza voce, degli operai dell’Ohio e del Michigan. Vladimir Nabokov nel ’51 (Speak, Memory) metteva nello stesso sacco dell’immondizia “festosi imperialisti, poliziotti francesi, innominabili prodotti tedeschi, progrom russi e polacchi e il grintoso linciatore americano, l’uomo con i denti guasti che, al bar o al cesso, spruzza fuori aneddoti contro le minoranze”. E’ stata la notte dell’homo trumpianus ante litteram. Quello che ha creduto nel ciarlatano dei social media. Qualificato per essere stato re dei tabloid (The Best Sex I’ve Ever Had), un Fabrizio Corona globale che faceva il tiranno da fumetto nel reality show “The Apprentice”, che attaccava il nero Obama come straniero (il movimento dei “birthers” falsificatori), che aveva lo stesso avvocato di Joe McCarthy (il quale peraltro era molto meno ipocrita di lui nella lotta contro il comunismo e l’establishment protettivo dei liberal). Il presidente dei linciatori, prodotto di quella ugly America che provoca nausea in tanta gente oggi umiliata e disfatta, è un tizio che comprò una pagina di giornale per chiedere l’esecuzione sommaria di cinque ragazzi afroamericani accusati di stupro in Central Park, e che dopo la loro assoluzione via Dna seguita a molti anni di prigione e a una condanna ingiusta, ha ribadito per piacionismo di serie B che erano colpevoli appena due settimane fa, uno che mette la colpa prima del giudizio ed è anche capace di cancellare il verdetto garantista, uno che usa la sua celebrity billionaire come elemento sufficiente per sforzare e offendere la dignità femminile nel più osceno dei linguaggi e comportamenti, uno che ho visto lodare in tv a New York, alle tre di notte, lo spirito di servizio di Hillary Clinton contro la quale aveva scatenato il grido “Lock Her Up!”, in galera, nel corso di tutta la campagna elettorale. Speravo che fosse la Caucus race, la corsa confusa immaginata per Alice da Lewis Carroll (capitolo III) in epoca vittoriana, tutti in circolo a fare girotondo e alla fine non vince nessuno ma a tutti tocca un premio. Ma avevo un sospetto e l’ho comunicato con ragionevole pessimismo ai lettori. Appunto. Non è stato un gioco nonsensical vittoriano, è stata una cosa serissima, urtante, un castigo di Dio che il paese della più antica democrazia costituzionale (scritta) del mondo si è inflitto per antiche frustrazioni, per una nuovissima rivolta contro la cultura del piagnisteo politicamente corretto, ma interpretata da un uomo cinico e fraudolento. Qui non si hanno pregiudizi contro gli oustider, è noto, a patto che abbiano una natura liberale e sorridente. Qui il pol. corr. non ha mai avuto sostenitori, anzi nemici agguerriti in nome della libertà di pensare, di dire, di sentire fuori dalla corrente dominante e dai comportamenti obbligati. Qui le storie libertine divertono, non indignano, anche negli uomini pubblici, e il rettorato di Harvard che esclude dal campionato ragazzi che parlano

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delle ragazze nello spogliatoio per noi meriterebbe il premio Ilda la Rossa. Ma essere scippati nel ruolo da un tipo che piace al Ku Klux Klan è troppo anche per dei realisti che non hanno mai avuto paura di sporcarsi le mani e la reputazione nel confronto con la realtà e le sue dure repliche. Per decenni università, gruppi intellettuali, case editrici, politici corrivi, star liberal e premi Nobel vari, hanno diffuso misofilia, omofilia, islamofilia, riluttanza in politica estera, tutta una “deferenza” verso le vittime della storia da riabilitare in una stupida e colossale affirmative action globale, mettendo in discussione la diversità di genere perfino nell’uso dei cessi pubblici in nome di una diversità come somma delle minoranze di tutti i generi, e si sono scordati di un pezzo della società che ora si è malamente vendicato con uno sfregio disperato. Hanno considerato criminali le guerre culturali e le guerre difensive e libertarie dei conservatori con la testa sulle spalle, di chi avvertiva che non si può trattare come una pezza da piede la vita umana nascente, che l’accoglienza ha dei normali limiti sociali e politici, che l’islam è politico, è radicale e guerresco, egemonista e sempre potenzialmente jihadista. Bene, anzi male. Ora Obama e Michelle con il suo orto lasceranno un’eredità privata e retorica, ma il lascito pubblico e politico di otto anni dell’èra post Bush, accoppiata alla scomparsa virtuale e adesso reale del Grand Old Party, si chiama The Donald. Ben scavato, vecchia talpa. Pag 1 In God We Trust di Matteo Matzuzzi Come cambia l’agenda dei vescovi americani dopo l’elezione di The Donald alla Casa Bianca Roma. Il primo commento è arrivato a metà mattina, poco dopo il discorso della vittoria di Donald Trump e con qualche stato ancora da assegnare. "Prima di tutto, prendiamo nota con rispetto della volontà espressa dal popolo americano, in questo esercizio di democrazia che mi dicono sia stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso", ha detto il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, a proposito dell'esito elettorale negli Stati Uniti. "E assicuriamo anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga a servizio della sua patria, naturalmente, ma anche a servizio del benessere e della pace nel mondo", ha aggiunto il prelato, dimostrando fin da subito la disponibilità a instaurare un normale e corretto rapporto diplomatico con Washington. Soprattutto, si tratta di parole che fermano sul nascere ogni possibile interpretazione dell' atteggiamento della Santa Sede riguardo il prossimo presidente americano, in particolare dopo le frasi dei mesi scorsi con cui il Papa - parlando in aereo con i giornalisti - definiva "non cristiano chi vuole solo muri", riferendosi implicitamente proprio a Trump e ai suoi propositi di innalzare barriere al confine con il Messico. The Donald non sorvolò e rispose al Pontefice, aprendo un "caso" che sarebbe stato risolto solo dall' intervento dell' allora direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. In mezzo, tra il Vaticano e la Casa Bianca, c'è la Conferenza episcopale statunitense, che la prossima settimana si ritroverà a Baltimora per definire i piani strategici per il triennio 2016-2019 e, cosa più rilevante, per eleggere i nuovi vertici, essendo venuto a scadenza il mandato di mons. Joseph Kurtz. E' un appuntamento che inevitabilmente si intreccia con la svolta politica del paese, che dopo otto anni di Amministrazione democratica tornerà ad avere in Pennsylvania Avenue un presidente repubblicano. La chiesa americana ha cercato di mantenere, almeno ufficialmente, una posizione equidistante rispetto ai candidati in lizza. Dietro le quinte, però, la preferenza era per Donald Trump. Non tanto per il profilo del candidato, quanto per la piattaforma che sta alle sue spalle, teoricamente capace di far dimenticare i complessi (eufemismo) rapporti con l'Amministrazione liberal di Barack Obama circa la bioetica. Una linea di condotta, quella della conferenza episcopale, non semplice da mantenere nei mesi della campagna elettorale. Solo qualche settimana fa, proprio mons. Kurtz aveva invitato (senza fare nomi) i candidati ad assumere un atteggiamento più disponibile e meno aggressivo nei confronti degli immigrati e delle donne: "Il Vangelo è offerto a tutti, per sempre. Esso ci invita ad amare i nostri vicini e a vivere in pace l'uno con l'altro. Per questa ragione - aggiungeva - la verità di Cristo non è mai inaccessibile. Il Vangelo serve il bene comune, non le agende politiche". Quanto alle donne, il capo dei vescovi americani aggiungeva che troppe cose "nel nostro discorso politico attuale hanno

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svilito le donne. Questo deve cambiare". Per il resto, poco altro, anche perché era ben presente nella mente dei presuli d'oltreoceano l'invito papale - pronunciato nel settembre del 2015 nella cattedrale di San Matteo a Washington - ad abbandonare il "recinto delle paure" e a smetterla di "leccarsi le ferite, rimpiangendo un tempo che non torna". Tradotto, meno battaglie a difesa di un fortino ormai sempre più sguarnito e più prossimità pastorale. Parole d'ordine che hanno trovato applicazione nella gran parte delle successive nomine episcopali effettuate a Roma, finalizzate a ridise gnare progressivamente la mappa della chiesa americana. Ne sono palese esempio le creazioni cardinalizie (appuntamento in San Pietro sabato 19 novembre) di mons. Blase Cupich, arcivescovo di Chicago, e di mons. Joseph Tobin, nuovo vescovo di Newark dopo il limbo a Indianapolis. Le votazioni della prossima settimana, dunque, serviranno anche a valutare quanto l'agenda di Francesco sia stata recepita dall'episcopato americano. La lista dei candidati alla presidenza e alla vicepresidenza della conferenza episcopale, però, è dominata da rappresentanti di quella che Robert Royal, direttore di The Catholic Thing, ha definito "la linea di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI". E anche quelli che non ne fanno parte (come mons. Thomas Wenski, vescovo di Miami e noto per la sua attenzione alla lotta contro il cambiamento climatico e il ciclo di catechesi sull'enciclica Laudato Si') ha aggiunto al National Catholic Register, "sono comunque personalità davvero solide che si situano a metà tra il vecchio e il nuovo corso". Nessuna fuga in avanti, dunque. Favorito, se non altro perché la prassi di eleggere il vicepresidente uscente è quasi sempre stata rispettata, è il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e tra i firmatari della celebre lettera inviata al Papa nelle giornate sinodali in cui si lamentavano preoccupazioni circa l'organizzazione dei lavori. Altri nomi forti sono quelli di mons. José Gomez, arcivescovo di Los Angeles (la più grande diocesi degli Stati Uniti) e mons. Charles Chaput (arcivescovo di Philadelphia e organizzatore dell'Incontro mondiale delle famiglie del 2015). Ben posizionati sono anche William Lori (arcivescovo di Baltimora) e Allen Vigneron (arcivescovo di Detroit). A segnare una svolta più in linea con l' orientamento di Francesco sarebbe invece mons. John Wester, arcivescovo di Santa Fe. ITALIA OGGI I cattolici americani pro Trump di Antonino D’Anna e Alessandra Ricciardi Incuranti del giudizio negativo espresso da Bergoglio. Magister: per la chiesa cattolica Trump è meglio della Clinton Così parlò Jorge Mario Bergoglio a proposito di Donald Trump, 45° presidente Usa: «Una persona che pensa soltanto a fare muri, sia dove sia, e non a fare ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Poi, quello che mi diceva, cosa consiglierei, votare o non votare: non mi immischio. Soltanto dico: se dice queste cose, quest'uomo non è cristiano. Bisogna vedere se lui ha detto queste cose. E per questo do il beneficio del dubbio». Era il 17 febbraio scorso e Papa Francesco fece questo scivolone mediatico con annessa veemente risposta trumpiana. Mai un Papa aveva fatto un'entrata a gamba tesa nelle elezioni americane. L'impressione che si registra stamattina Oltretevere è che la Chiesa americana non abbia seguito le parole del Papa e che sulle scelte elettorali abbiano pesato altri valori rispetto a quelli che il neocardinale Joseph Tobin, l'anno scorso, aveva indicato ai confratelli vescovi. Tobin, adesso promosso alla guida della prestigiosa diocesi di Newark (e che aveva avuto uno scontro sugli immigrati contro il neovicepresidente, Mike Pence, quando era a Indianapolis), aveva rimproverato i vescovi yankee di concentrarsi troppo su temi come aborto, nozze gay, famiglia e di non pensare alla Laudato si', l'enciclica sull'ambiente del Papa. Insomma, bisognava cambiare rotta: solo che, a ben vedere, il cambiamento di rotta non c'è stato. Del resto, la Chiesa cattolica americana (come ItaliaOggi vi ha riferito) ha avuto un rapporto non facile con il presidente uscente, Barack Obama, che col suo Obamacare stava costringendo le istituzioni come gli ospedali cattolici a pagare le spese sanitarie dei dipendenti, contraccezione e aborto inclusi. Impossibile per la dottrina cattolica, chiaramente: da qui la frizione con l'amministrazione Obama. E peggio ancora con Hillary Clinton, notoriamente pro aborto e vicina a Planned Parenthood, molto attiva nel campo della «salute riproduttiva». L'America più profonda, quella che nelle campagne mangia bistecche, crede in Dio e ha dietro di sé il pensiero puritano e un po' bigotto dei Padri

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Pellegrini, evidentemente, non ha apprezzato. E con essa anche i cattolici, par di capire. Del resto, i conservatori del primo Paese per offerte alla Chiesa (l' altro è la Germania) hanno fatto sentire la loro voce e adesso potranno riprendere quota anche in Vaticano. Vi segnaliamo la voce di un altro Tobin, Thomas J. Tobin vescovo di Providence. Una voce conservatrice che il 7 novembre, prima del voto, ha pregato sulla sua pagina Facebook citando la Bibbia (Cronache, 7:14): «Se il mio popolo, sul quale è invocato il mio nome, si umilia, prega, cerca la mia faccia e si converte dalle sue vie malvagie, io lo esaudirò dal cielo, gli perdonerò i suoi peccati, e guarirò il suo paese». Capito? Non solo: 20 giorni fa, commentando l'ultimo dibattito Trump-Clinton, ha postato: «Solo con dei forti valori cristiani potremo 'Rendere l'America di nuovo grande!'» (Make America great again, lo slogan di Trump). E ne ha avute anche per la Clinton, quando ha sottolineato le email di Wikileaks, che: «Rivelano l'esistenza di un pregiudizio anticattolico tossico all'interno della campagna elettorale di Hillary». Un messaggio che per lui: «Marginalizza i fedeli cattolici, ridicolizza il credo e promuove la divisione ideologica dentro la Chiesa». Perché, incalzava: «Loro chiedono 'la fine di una dittatura medioevale e l'inizio di un po' di democrazia e rispetto per l'uguaglianza di genere nella Chiesa'». Intervenuto all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Pontificia Università Lateranense, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato e capo della diplomazia vaticana, ha osservato che i diplomatici papali sono prima di tutto pastori, in difesa di tutti. A The Donald forse sarà ora di spiegarlo. Specie in tema di immigrazione o rapporti tra le fedi, per esempio. Ed anche all'America profonda che ha arrostito politicamente la Clinton. Per l'episcopato americano il vero rischio era la Clinton. E tutto sommato anche per Papa Francesco...». Così Sandro Magister, vaticanista per il gruppo l'Espresso, legge il risultato delle presidenziali Usa. Domanda. Il pontefice si è esposto molto contro Donald Trump, addirittura lo ha etichettato come non cristiano... Risposta. La linea di Francesco è stata sconfessata. E non è la prima volta. Anche le elezioni in Argentina sono andate contro i suoi auspici. Esattamente come sta succedendo con i declini dei regime autoritari e populisti dell' America latina, dal Brasile alla Bolivia al Venezuela. Il caso più clamoroso certamente è quello di Trump che è stato gratificato di un giudizio molto negativo. D. Che politica estera sta portando avanti la Santa Sede? R. I manifesti di Bergoglio sono stati resi noti in questi ultimi anni negli incontri con i movimenti. Per il Papa esiste un dominio mondiale del capitalismo e della finanza, dei tecnocrati, che è all'origine della guerra che insanguina il mondo, a partire dal terrorismo. Questo potere non è mai identificato, ne parla in termini generali. Salvo poi incontrare chi incarna questo potere, come accaduto quest'anno per esempio con i patron di Apple, Google, Instagram, Facebook e Vodafone. E tra poco, ai primi di dicembre, dovrebbe incontrare i magnati di Fortune... Tutti hanno portato donazioni cospicue che lui ha accettato. Intanto continua a scagliarsi contro la potenza del capitalismo e fa appello ai movimenti popolari, no global, alternativi, di ispirazione marxista... D. Non proprio lineare. R. È una visione che risente del suo background argentino e populista. È un Papa delle contraddizioni, il papa dei poveri che non disegna finanziatori capitalisti. D. Beppe Grillo legge il successo di Trump come il successo di un movimento popolare, alternativo rispetto ai poteri costituiti... R. È proprio così. Curiosamente Trump corrisponde a una visione che non è opposta a quella di Bergoglio. Ma è impersonata da una figura che al papa, dal punto di vista istintivo, suscita allergia. D. E sui temi sensibili? R. Su quelli che una volta erano indicati come i principi non negoziabili, a partire dall'aborto, Hillary Clinton era molto più temuta e temibile dall'episcopato americano. La candidata democratica rappresentava l'ondata secolarista che ha invaso gli Usa in questi ultimi anni e che non rappresentata la tradizione e lo spirito americano. D. Cambierà qualcosa nell'assetto delle gerarchie vaticane dopo il voto Usa? R. Sono convinto che la segreteria riuscirà a gestire questo cambiamento senza nessuno scossone.

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IL GAZZETTINO Pag 1 Una rivoluzione che ci riguarda molto da vicino di Roberto Papetti Ventitré giugno 2016 - Otto novembre 2016. Due date destinate a segnare profondamente la nostra storia, se non a cambiarla. C'è un legame evidente tra il voto che, cinque mesi fa, decretò l'addio della Gran Bretagna all'Europa unita e quello che ieri ha sancito l'indiscutibile trionfo di Donald Trump nelle elezioni americane. Certo, l'ingresso alla Casa Bianca dell'imprevedibile imprenditore dai rossi capelli, per il suo impatto globale e le sue conseguenze, è una Brexit all'ennesima potenza. Ma non è affatto casuale che oggi negli Usa come ieri Oltremanica, i sondaggi abbiano clamorosamente fallito. Che, oggi a Washington come ieri a Londra, gli osservatori più autorevoli (o considerati tali) siano stati spiazzati dall'esito elettorale. Che, oggi come ieri, molti leader politici, aldiquà della Manica e aldiquà dell'Atlantico, osservino increduli e stupiti gli eventi che hanno scosso le due più consolidate e antiche democrazie occidentali. L'analisi dei dati e dei flussi elettorali ci consentirà, nei prossimi giorni, di analizzare più nel dettaglio il voto americano e i suoi molti risvolti. Tuttavia il successo di Trump certifica in modo clamoroso la frattura profonda che, nel modo occidentale, si è aperta tra èlite e popolo, tra le classi dirigenti economiche, politiche e culturali e il corpo sociale dei cittadini. Chi ha (o si è attribuito) funzioni guida non appare più capace né di comprendere né tantomeno di dare risposte adeguate alle attese e alle preoccupazioni dei cittadini. Il no all'Europa e il sì a Trump nascono, innanzitutto, da qui. La più lunga crisi economica dell'ultimo secolo e l'impatto dirompente dei flussi migratori stanno incidendo, modificandoli a fondo, sugli equilibri economici, sociali ed etnici di molti paesi occidentali. Hanno distrutto certezze e alimentato paure anche in quei settori, la cosiddetta classe media, che consideravano il benessere raggiunto al riparo da rischi e da insidie. Non è solo un problema di scarsa o insufficiente crescita economica. Il prodotto interno lordo americano nel terzo trimestre di quest'anno è salito del 2,9% e la ripresa negli Stati Uniti sembra essere ormai una realtà. Questo però ha giovato poco o nulla alla democratica Clinton. Perché più che la quantità ha pesato la qualità del Pil, ossia il suo impatto sociale. In questi ultimi anni il sistema economico americano ha sofferto meno di quello europeo e non ha smesso di crescere, ma ad avvantaggiarsene è stata soprattutto una minoranza. Negli Usa il divario tra ricchi e poveri si è ampliato, schiacciando o cancellando la classe media operaia e impiegatizia. In America non è mai stata così forte come negli ultimi tempi la domanda di lavoro sicuro, non di sussidi, alimentata dagli oltre due milioni di recenti disoccupati, da una crescente immigrazione e dalle incertezze sul futuro. Trump, a differenza di Hillary Clinton, ha colto questo malessere e ha dato voce e rappresentanza politica ai tanti cittadini americani arrabbiati, sfiduciati, impauriti. Lo ha fatto attingendo a pieni mani alla retorica yankee e al politicamente scorretto, lanciando proposte provocatorie e difficilmente realizzabili come il muro anti-immigrati lungo i 3mila km che separano Usa dal Messico. Ma chi lo ha votato, voleva, innanzitutto, mandare un segnale di sfratto netto e senza appelli: sfiduciare una classe dirigente che Hillary Clinton impersonifica alla perfezione e di cui, al contrario Trump ha voluto apparire, anche nell'estetica e nei comportamenti, l'esatto opposto. Ci sarà tempo e modo per giudicare le qualità presidenziali del futuro inquilino della Casa Bianca. Alcune sue posizioni non sono tranquillizzanti né condivisibili. Ma per ora il segnale che giunge dagli Stati Uniti è un altro. E riguarda da vicino anche le classi dirigente di Europa e Italia. Pag 1 Brugnaro: “Come me, un uomo libero. Anche di sbagliare” di Davide Scalzotto Quel selfie con Michelle Obama a palazzo Ducale, nel giugno 2015, ormai appartiene alla storia. L'american dream, il sogno americano, di Luigi Brugnaro ora è un selfie con Putin e Trump, sempre a Venezia. Ovviamente. Donald l'americano e Luigi il veneziano. Fatte le debite proporzioni, modelli sovrapposti e sovrapponibili di politici che politici non sono, che hanno sconquassato un sistema, che arrivano dal mondo dell'impresa e che hanno conquistato il consenso popolare. Brugnaro è reduce dal Columbus Day di New York dove lo hanno fatto vigile del fuoco onorario.

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Trump Venezia la conosce di sguincio come cliente dell'Harry's Bar newyorkese di Arrigo Cipriani. Sindaco Brugnaro, ma quanto ci si rivede in Trump? «Beh molto. È un imprenditore, è uno che non appartiene a un sistema. È un uomo libero. Anche di sbagliare». Errori? «Ha detto cose che condivido, altre che non condivido, ma alla fine se andiamo a vedere il discorso con cui si è presentato al Paese da presidente, ha avuto toni diversi dalla campagna elettorale. Ha teso la mano. E questa è la grande lezione che ancora una volta ci arriva dagli Usa: il popolo ha scelto». Cosa non le è piaciuto della sua campagna elettorale? «Non l'ho seguita molto, ma diciamo il suo riferimento a come ha evitato di pagare le tasse. Per me le tasse vanno pagate e se va fatta una riduzione della pressione fiscale, questa deve essere per tutti». Entrambi siete stati eletti contro le previsioni, contro candidati espressione di un vecchio sistema di potere e, con opportuni distinguo, senza un partito di riferimento... «Vero. E in questi casi c'è sempre il tentativo di screditare, perfino di far passare per macchietta chi si presenta come una novità. È stata evidente la continua ricerca della pagliuzza nell'occhio dell'altro, c'è sempre diffidenza verso la buona volontà, questo l'ho provato anche io». Quali altri temi vi uniscono? «L'appello all'orgoglio sicuramente, di una nazione o di una città. E il fatto che anche Trump abbia teso la mano a Putin». E le uscite sopra le righe? «Ma quelle appartengono alla campagna elettorale, gli Stati Uniti sono una realtà complessa. Riascoltatevi il messaggio di ieri mattina. Io dico: aspettiamo che governi, poi vediamo. Lo ha scelto la sua gente. Non ci sarà la fine del mondo, Trump è uno che ha costruito, sa il valore del lavoro e del fare. Una lezione che dovremmo imparare anche noi. Qui ci si divide su tutto, chi vuole fare trova mille ostacoli. Siamo sempre uno contro l'altro, c'è sempre uno pronto a sminuire chi non la pensa come lui. Non c'è mai un momento in cui si dica: ok, abbiamo giocato la nostra partita, ora diamoci la mano e andiamo avanti per il bene del Paese. È ora di uscire da questa gabbia, di imparare a diventare una nazione, oltre le appartenenze. Dobbiamo pensare che le contrapposizioni tra destra e sinistra non hanno più senso. Posso fare un esempio?». Prego... «Tempo fa ho celebrato a Venezia le nozze di una coppia omosessuale...». Una notizia... «Poteva diventarlo se avessi scelto di sbandierarlo. Ho fatto tutto con discrezione, per rispetto di quelle due splendide persone di Bolzano che sono venute in Comune. Era giusto farlo, senza connotazioni ideologiche». Pag 20 Ispanici e afroamericani hanno punti i democratici di Mario Del Pero No, un anno fa non lo avrebbe immaginato davvero nessuno. E invece l'impensabile è accaduto. E gli exit poll ci consegnano un quadro che, seppur ancora incompleto, offre importanti indicazioni. Su scala nazionale il voto bianco non ispanico (corrispondente a circa il 70% di quello totale) è andato al 58% a Trump e al 37% a Clinton: uno scarto di 21 punti contro i 12 del 2008. Soprattutto, allora erano stati bilanciati dall'ampio sostegno delle minoranze nera e ispanica ai democratici. Che invece nel 2016 è calato, in particolare nel caso degli afroamericani. Dentro una situazione di grande equilibrio, si conferma e rafforza quindi la tendenza dei repubblicani ad aumentare i consensi tra l'elettorato bianco, ma non quella dei democratici a bilanciare ciò con un loro parallelo ampliamento negli altri segmenti della popolazione. A ciò va aggiunto un secondo fattore: la partecipazione elettorale: non solo la Clinton ottiene una percentuale minore del voto delle minoranze, ma fallisce anche nell'attivarle. Come si spiega tutto ciò e cosa ci dice dell'America oggi? Tre spiegazioni intrecciate e interdipendenti - possono essere avanzate. La prima è quella che per convenienza potremmo definire identitaria. Vi è un'America bianca che in questi anni ha assistito preoccupata alla trasfigurazione di quello che considera essere il suo paese. L'America liberal, multirazziale e cosmopolita

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che il suo primo Presidente nero incarnava e simboleggiava è un paese che quest'altra America trovava alieno e irriconoscibile. A contrapporsi erano (e sono) idee diverse di cosa gli Stati Uniti siano e debbano essere: un'America delle origini - essenziale e perenne e un'America del cambiamento costante, graduale ma inarrestabile. Donald Trump questa battaglia identitaria l'ha fatta propria e cavalcata con successo. Il fattore identitario s'intreccia con quello securitario. L'America cui Trump si rivolge è un paese incattivito, spaventato e preoccupato. Un messaggio centrato sulla necessità di ripristinare legge e ordine si è così rivelato una volta ancora vincente, offrendo una narrazione fatta di nemici precisi e soluzioni semplici, capaci di sedare ansie e paure. Ansie e paure, queste, cui ha contribuito anche un contesto economico complesso e, per una parte non marginale degli elettori di Trump, oggi assai difficile. Se usate come esclusiva spiegazione, come talora accade, le letture deterministiche che interpretano il fenomeno Trump come il portato della ribellione di un'America bianca, impoveritasi in conseguenza della globalizzazione, rischiano di essere mistificatorie. La Clinton ha in fondo vinto largamente (53 a 41) tra gli elettori con redditi più bassi (inferiore ai trentamila dollari annui). Tra chi vota Trump vi sono molti ricchi e super-ricchi, attratti dalla sua promessa di ridurre drasticamente il carico fiscale. E però i risultati delle primarie così come i primi dati di queste elezioni ci mostrano come il nuovo Presidente sia riuscito a ottenere l'appoggio, e i voti, di pezzi di elettorato bianco impoverito, particolarmente importanti in alcuni stati del Midwest post-industriale. Uomini e donne spesso culturalmente conservatori, che accusano i democratici di parlare oggi un linguaggio dei diritti selettivo ed elitario, e che invocano una qualche protezione contro gli effetti destabilizzanti dell'integrazione globale. A essi Trump ha offerto un messaggio anti-politico che fa leva su una diffusa ostilità verso un establishment delegittimato e auto-referenziale. È questo l'elemento aggiuntivo più specifico e contingente - che aiuta a comprendere l'esito del voto. Cosa seguirà è difficile dirlo, soprattutto per quanto concerne la politica estera. Sul piano interno con un Congresso a sua volta in pieno controllo repubblicano è probabile che parta subito l'assalto a smantellare la riforma sanitaria di Obama; così come lo è un'azione di tagli alle tasse sulla quale sembra esservi una chiara comunanza di vedute tra il neo-Presidente e i suoi stessi avversari nel partito L'impatto su conti pubblici già in sofferenza potrebbe essere devastante. Ma questa è solo una delle tante, preoccupanti incognite che ci attendono nei mesi a venire. Pag 21 Hillary, l’insostenibile fragilità di una candidata alla sconfitta di Massimo Teodori Vi sono stati molti segnali che la candidatura di Hillary Clinton alla Casa Bianca fosse debole e suscettibile di sconfitta. Il successo del socialista indipendente Bernie Sanders alle primarie democratiche a scapito della ex segretaria di Stato doveva far capire che molti registrati democratici non gradivano la ricandidatura della donna che aveva già fallito nel 2008 di fronte ad Obama. Anche un sondaggio del New York Times che indicava come la meta di coloro che erano disposti a votare democratico, lo avrebbero fatto solo contro Trump e non per Hillary, costituiva un indizio che la fragile base clintoniana era esposta all'erosione. Ci si deve dunque chiedere quali siano state le cause dell'impopolarità della Clinton e come mai una persona di così larga esperienza abbia percorso fino in fondo la strada della sconfitta elettorale. Si è trattato di un'illusione sulla propria persona? Di arroganza nei confronti del partito? Di prova di forza affidata alla potenza del denaro ? Oppure della perdita di contatto con la nuova realtà politica diversa dal passato? Questi diversi interrogativi possono avere una risposta positiva, in parte o in tutto. Nel 2016 è stata fortissima la contestazione all'establishment politico sia in casa democratica che repubblicana. Per età, storia personale e ruoli pubblici, Hillary è stata percepita come l'esponente di quella casta di privilegiati contro cui sono insorte le masse degli americani giovani e vecchi, pronti a sostenere di volta in volta il socialista Sanders e il populista Trump. L'immagine della Clinton è stata inoltre appesantita da comportamenti anche del passato, come nel caso delle email transitate in un server privato quando era segretario di Stato, che l'hanno bollata come persona ambigua e poco affidabile, pronta a coltivare la propria carriera anche a costo di ogni genere di concessioni alla moralità familiare. Che razza di orgoglio femminile ha una donna hanno scritto anche alcune donne - che ha accettato

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passivamente i peggiori tradimenti del marito per mantenere lo status? Un altro motivo che ha gettato ombra sulla candidata democratica è stato il suo rapporto con il denaro, avidamente accumulato nella fondazione di famiglia e proveniente da donazioni estere oltre che da Wall Stret. Pur considerando la provenienza legale dei contributi spesi per la campagna elettorale si parla di un miliardo e mezzo di dollari, quel fiume di denaro non è stato certo il migliore viatico per la candidata alla Casa Bianca. Questo insieme di comportamenti, vecchi e nuovi, hanno contribuito alla sconfitta finale. Oltre a ciò, la debacle democratica, tanto più grave in quanto ha coinvolto il Congresso oltre la Presidenza, può avere avuto una causa anche nella cosiddetta legge del pendolo che misteriosamente regola le elezioni presidenziali. La storia dell'ultimo secolo insegna che gli americani aspirano all'alternanza presidenziale tra democratici e repubblicani secondo un ritmo temporale, grosso modo corrispondente agli otto anni del doppio mandato presidenziale. Nel 2008 votarono in maggioranza per un candidato anomalo democratico ritenuto il più lontano dall'integralista repubblicano George W.Bush. Oggi si sono massicciamente orientati verso l'anomalo candidato repubblicano Trump per introdurre una discontinuità del potere con l'alternanza tra partiti contrapposti. Anche questa è la democrazia americana. LA NUOVA Pag 2 Ora è l’America di The Donald di Alberto Flores d’Arcais La prima lettura è la più semplice, a far vincere Donald Trump sono stati gli elettori maschi, bianchi, poco istruiti e incarogniti da una crisi economica in quelle aree dove un tempo la working class era un’aristocrazia operaia e la classe media stava molto meglio. Tutto vero, ma tutto ciò da solo non basta a spiegare a fondo il fenomeno The Donald e la sua corsa trionfale fin dentro la Casa Bianca. L’America è profondamente divisa. C’è una nuova forma di populismo - fenomeno che questo paese ha conosciuto, in modo marginale, solo negli anni Trenta - che attraversa i partiti (basti pensare in campo democratico al successo delle ricette di Bernie Sanders) di cui viene sottovalutato un aspetto importante: la presenza di decine di milioni di persone che ritengono di essere stati “lasciati indietro”; in un mondo sempre più globalizzato di cui fanno fatica a capire le dinamiche. Da una parte ci sono le élites e chi ha studiato nei college (sempre più costosi), garantendosi un futuro lavorativo (quasi) certo, tutti coloro che hanno ottenuto dalla fine della crisi solo vantaggi. Persone che vivono in maggioranza nelle grandi metropoli, che sono il cuore della nuova economia “digitale”, che mangiano cibo “organic” e vedono gli stessi serial tv. Dall’altra c’è una massa - spesso indistinta - di gente che ha perso il lavoro, che si sente tagliata fuori, che pensa che l’American Dream sia rimasto un sogno solo per gli immigrati che rubano i posti di lavoro. Questa seconda America - prevalentemente rurale - senza diplomi, che mangia ancora “junk food” e odia tutto quello che viene associato al “politicamente corretto”, è l’America che ha fatto vincere Trump. Maschile e bianca, ma non solo. Ci sono le donne (meno numerose di quelle che hanno votato Hillary, ma comunque in numero consistente), ci sono fasce di immigrati di seconda generazione che non ne vogliono di nuovi in una sorta di “guerra tra poveri”, ci sono, soprattutto, valori che accomunano giovani e pensionati, insegnanti e agricoltori. Il primo e più importante, è quello della rivolta contro il cosiddetto establishment. Con cui vengono identificati non solo gli odiati politici dei palazzi di Washington o i finanzieri di Wall Street, ma anche i media che, senza eccezioni, vengono denigrati come «falsi e corrotti». È quella che avremmo definito fino a ieri come “antipolitica” e che oggi diventa una nuova forma di politica; che può fare paura, ma con cui siamo chiamati a fare i conti senza isterismi. È la rivincita dell’America bianca dopo otto anni di un presidente nero che lascia (le sue colpe sono molto relative) un paese più diviso di come l’aveva trovato; la rivincita di chi ancora crede che l’essere bianco negli Stati Uniti debba per forza garantire “il comando”; la rivincita contro un “politicamente corretto” che ha trasformato alcune giuste intuizioni iniziali in un dogmatismo dannoso. In quella che i sociologi chiamano la Information Age America, l’era dell’informazione digitale, questi milioni di persone non trovano posto o forse pensano di non trovarlo. Il gap è essenzialmente culturale, anche se non va sottovalutata la questione economica: metà di coloro che hanno votato The Donald fanno parte di quella fascia di reddito medio-basso che sta sotto i 50mila dollari (lordi) annui. Mentre gli indicatori economici

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generali - quelli che hanno avuto larga eco su giornali e tv - erano più o meno tutti in positivo, per costoro gli indici di mortalità (e quindi aspettativa e qualità della vita) sono andati peggiorando di anno in anno. In Europa una delle prime domande che ci si rivolge riguarda la politica internazionale e il prossimo futuro della superpotenza planetaria. Ai trumpisti questa è una cosa che non interessa affatto, almeno fino a quando non ci saranno vite di soldati americani in pericolo. L’efficace slogan «faremo di nuovo l’America grande» per loro ha un’accezione tutta interna. Hanno mandato The Donald alla Casa Bianca per questo e adesso si aspettano che le promesse vengano mantenute. Pag 6 Una tempesta perfetta da Washington a Berlino di Gigi Riva Largamente annunciata e però, per paradosso, giunta inattesa, la tempesta perfetta di un anno da vivere pericolosamente ha investito gli Stati Uniti e minaccia di non perdere forza nell’avvicinarsi alle coste d’Europa. È sempre così con le rivoluzioni, di qualunque segno siano: colgono di sorpresa chi ne viene spazzato via perché si trastulla nella vana speranza dell’immutabilità del sistema e dei propri privilegi e non coglie, chiuso in una torre eburnea, i sinistri scricchiolii di un potere al capolinea. Hillary Clinton era la candidata sbagliata e non c’entra nulla il genere. C’entrano il suo essere percepita come espressione di quelle élite incapaci di portare benessere se non a se stesse, la lunga frequentazione delle stanze dei bottoni, la lontananza dai problemi reali, la benevolenza verso Wall Street. Un presenza talmente abituale e obsoleta, per l’immaginario collettivo, da far passare per nuovo un vecchio arnese della finanza spregiudicata come Donald Trump. Al quale avrebbe creato più grattacapi un Bernie Sanders, in tempi in cui la radicalità è l’unico elemento che rende accattivante l’offerta politica. Senno di poi. Trump, dunque. E l’origine della tempesta perfetta tanto temuta all’alba dei dodici mesi che possono sconvolgere il mondo. Con una catena di appuntamenti elettorali che si influenzano per simpatia, visto che nell’Occidente delle comuni crisi (economia, migranti, identità, terrorismo) i Paesi hanno finito per assomigliarsi assai più che in passato persino nei comportamenti alle urne. L’effetto domino che parte da Washington investe prima di tutto noi, alle prese con un referendum che riguarda, con evidenza, non lo specifico del contendere ma la figura del presidente del Consiglio, così giovane eppure già così indigesto per la pancia di un populismo ribollente e impaziente di spazzare con un colpo di vento tutto quanto suona classe dirigente. Lo stesso giorno, 4 dicembre, lo stesso vento può risalire la penisola, valicare il Brennero e spingere le vele dell’ultranazionalista Norbert Hofer nel ballottaggio delle presidenziali che sancirà se nel nostro estremo nord avremo un confine poroso o una frontiera blindata. Che darebbe un “alt” non solo ai migranti ma all’idea stessa dell’Europa così come abbiamo sperato di costruirla. A marzo lo xenofobo Geert Wilders avrà buone chance di prendersi l’Olanda e lanciare la volata all’alleata che ha già a Bruxelles, quella Marine Le Pen praticamente sicura di approdare al ballottaggio per la presidenza tra aprile e maggio. La pregiudiziale anti Front National, sinora sempre applicata, ha indotto i partiti francesi di sistema (socialisti, Républicains, cioè la destra tradizionale) a difendersi insieme con successo contro il pericolo nero. Serpeggia il sospetto che ora, quando l’incredibile sta diventando vero, lo stratagemma dell’argine comune al secondo turno non basti. Se è possibile Trump alla Casa Bianca perché non Marine all’Eliseo? La terra delle libertà e dei diritti dell’uomo ritroverebbe la sua minoritaria, antistorica ma non scomparsa radice vandeana. L’Europa si è sempre retta sull’altalenante equilibrio tra Parigi e Berlino e proprio in Germania il prossimo autunno finirà il tour del voto. Con i dubbi che ormai investono persino l’ex solidissima Angela Merkel. Sembrava immune, la cancelliera, dal virus populista e lo è stata almeno fino alla scelta di aprire le porte a un milione di profughi siriani. Da allora “Alternative fuer Deutschland”, movimento nato nelle università e cresciuto nelle piazze, ha raggiunto consensi a due cifre minando persino la proverbiale stabilità tedesca. E pensare che è, la Germania, un Paese che dalla crisi ha solo guadagnato e distribuisce benessere ai suoi cittadini. Allora, nel cercare i motivi profondi dell’insoddisfazione dilagante, bisogna chiamare in causa anche l’irrazionale. Le paure, finte o reali, comunque percepite, generate dalla globalizzazione che l’America ha avviato per poi ritrovarsela come un boomerang. Fino al punto di scegliere chi le ha promesso muri e confini sicuri. Cioè Donald Trump, l’uomo che può scatenare una tempesta da Washington fino a Berlino.

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Pag 7 L’isolazionismo di Trump lascia più spazio a Putin di Renzo Guolo Quali conseguenze avrà l’elezione di Donald Trump sul versante della lotta al terrorismo e della politica internazionale, in particolare nell’area mediorientale? Anche su questi temi l’avvento alla Casa Bianca dell’outsider dalle pulsioni neo-isolazioniste potrebbe produrre mutamenti rilevanti. Le sue posizioni in campagna elettorale sono state all’ordine della discontinuità con la politica non solo di Obama ma anche dei suoi predecessori. Anche se un conto sono le parole di un candidato, un conto il nocciolo duro degli interessi nazionali, e i vincoli sistemici che ne derivano, di cui un presidente deve tenere conto. Per vocazione e inesperienza, Trump ha un ovvia propensione alla politica interna. È prevedibile che lo stesso problema del terrorismo di matrice jihadista venga declinato in quest’ottica. Perseguendo una linea mirata a contrastare le minacce interne, più che a costruire una strategia che persegua i medesimi obiettivi anche sul versante internazionale. Un mutamento non da poco con la tradizionale linea del partito repubblicano fautore, al tempo dell’amministrazione Bush, della dottrina secondo cui la sicurezza degli Stati Uniti era il prodotto della capacità americana di costruire una cintura esterna di paesi alleati capaci di rendere inoffensivo lo jihadismo. Per Trump, teorico dell’isolazionismo securitario, quella linea, che forse avrebbe avuto maggiore continuità con la Clinton, è da abbandonare. Lo spostamento dello sguardo sul piano interno consente anche di saldare quel fronte a quello dell’immigrazione, presentando la lotta contro l’ingresso dei migranti, in particolare quelli provenienti dai paesi islamici, come una variante della medesima battaglia. Quanto all’Is, è possibile che quando il tycoon populista entrerà al numero 100 della Pensylvania Avenue, il califfato autoproclamato sia militarmente collassato. Anche se resterà il problema del dopo. E, in particolare, dell’assetto geopolitico che i due paesi della Mezzaluna fertile, Siria e Iraq, assumeranno dopo la sconfitta jihadista. E qui vi sono nodi così intricati che nemmeno Trump potrà tagliare gordianamente. In ogni caso, a salutare con soddisfazione l’arrivo alla Casa Bianca di Trump sono molti dei protagonisti mediorientali. A partire dalla Russia di Putin che, dall’annunciato disimpegno americano nella regione non potrà che trarre vantaggi. Difficile che Mosca non riempia quel vuoto. Allargando la sua già estesa sfera d’influenza nell’area. Anche la Turchia ha visto con favore la sconfitta della Clinton, temendo la simpatia dell’ex-segretario di Stato per i curdi e le sue critiche sul terreno della difesa dei diritti umani. Ad Ankara si spera ora che Washington cambi linea anche sulla richiesta di estradizione di Gulen, accusato di essere il grande burattinaio del tentato golpe contro Erdogan. Il presidente egiziano al-Sisi è uno dei leader che ha esultato per il trionfo del magnate americano. L’Egitto non ha mai gradito le scelte politiche dell’amministrazione Obama, accusata di essere all’origine delle “primavere arabe” con l’atteggiamento critico nei confronti degli autocrati che guidavano i regimi alleati. Il neoisolazionismo trumpiano consente ad al-Sisi un margine di manovra maggiore sia sul versante interno, dove l’attenzione al tema della difesa dei diritti umani sollevata da Obama generava stizzosa rabbia, sia sul versante estero, dove il Cairo persegue i propri obiettivi, come in Libia, anche in contrasto con quelli che, almeno sin qui, sono stati gli interessi americani. La presidenza Trump segna, probabilmente, anche il tramonto delle, residue, speranze di una soluzione del conflitto israelo-palestinese fondato sulla soluzione dei “due stati”. Non a caso il ministro, e leader del partito espressione del movimento dei coloni, Bennett ha affermato che l’era dello stato palestinese è finita e il premier Netanyahu ha visto nella vittoria di Trump la possibilità di un rafforzamento dell’alleanza tra Israele e Stati Uniti. Se il neoisolazionismo trumpiano diventerà realtà è chiaro che dovranno essere gli europei a riempire quel vuoto in un’area strategica così importante: saranno in grado di farlo? I dubbi sono fondati. Pag 8 Cacciari: sinistra perdente se abbandona i lavoratori di Filippo Tosatto Venezia. Nella notte dell’Election-day, Massimo Cacciari ha tifato tiepidamente per Hillary Clinton («la meno peggio»), salvo definirla «persona di potere, appartenente a dinastie economico-politiche, dentro al Palazzo fin da quando era piccola», a fronte di un Donald Trump «poco o nulla credibile ma dotato di un appeal popolare che dà voce alla

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crisi sociale di una classe media e operaia, tradizionale e bianca». Quasi una profezia involontaria, quella del filosofo, a fronte dell’exploit di “The Donald”, capace di smentire sia la totalità dei sondaggi che la visione immaginaria degli States cullata dalla borghesia salottiera. Professore Cacciari, la candidata progressista si afferma tra i ceti benestanti ma il rivale conservatore la sopravanza grazie al pieno di consensi nella “worker class” urbana e rurale. Grande è la confusione sotto il cielo d’America. «Queste elezioni, successive al semi-fallimento della presidenza Obama, hanno evidenziato un intreccio perverso tra affarismo e politica; un livello inaudito di manipolazione dell’opinione pubblica attraverso ogni mezzo, lecito e illecito; un casino istituzionale senza precedenti tra poteri dello Stato. Nella bagarre di insulti e scandali, la Clinton è apparsa l’espressione di un establishment tecnocratico e finanziario inviso alle masse, non è stata in grado di mobilitare le minoranze ispanica, afroamericana e asiatica che nelle ultime tornate presidenziali avevano favorito i democratici. Trump, viceversa, ha sfondato negli stati industriali aggrediti dalla recessione e tra la piccola borghesia di provincia che si scopre impoverita; bersagliato dai poteri forti, ha trasformato il dileggio dei media nella carta vincente del suo messaggio populista. Detto ciò, gli effetti del voto negli Stati Uniti saranno modesti». Cosa la induce a pensarlo? «La storia dimostra che in America, alla fine, non governano i democratici o i repubblicani, a governare è l’America stessa, una democrazia consolidata e capillare, dotata di forti anticorpi contro le derive autoritarie. Ben diversa la situazione dell’Europa e, ancor peggio, dell’Italia dove ciò che resta della sinistra è palesemente inadeguato a ricucire il rapporto con i ceti popolari». Allora Pierluigi Bersani non ha tutti i torti quando lamenta lo scollamento tra il Pd e il mondo del lavoro, addebitando al renzismo una “mutazione genetica” che emargina la tradizionale base sociale di riferimento... «Niente affatto, Bersani e D’Alema hanno tutti i torti del mondo perché restano ancorati ad una visione novecentesca e coltivano categorie antropologiche che non esistono più. Matteo Renzi, però, ha reciso le radici con il popolo di sinistra, ha scelto di attaccare il sindacato e di privilegiare il rapporto con Marchionne, Agnelli, De Benedetti. Il suo Governo non dà risposte ai giovani, sventola un +0,1% di occupati e finge di ignorare la precarizzazione crescente del lavoro, l’abuso incredibile dei voucher, l’assenza di prospettive e di speranze che angoscia un’intera generazione. La crisi italiana è drammatica e non consente scorciatoie, il premier dovrebbe dire la verità, non diffondere promesse illusorie e vezzeggiare i presunti poteri forti». Disprezzato dagli opinion-maker, abbandonato dai vertici del partito repubblicano nel pieno della campagna, additato come “un clown pericoloso”, Trump ha vinto contro tutti, o quasi. C’è una lezione per l’Europa? «Certo che c’è, ammesso che qualcuno voglia prestarvi ascolto. In America non hanno vinto i repubblicani, ha vinto Donald Trump, con la sua capacità di calamitare il disagio e la frustrazione sociale, traducendoli nel rifiuto del “politically correct” e nel voto di populista di protesta contro la classe dirigente, a cominciare dalla dinasty clintoniana». È immaginabile un’onda lunga populista da una costa all’altra dell’Atlantico? «È un rischio reale, aggravato, lo ribadisco, dalla maggiore fragilità dei circuiti istituzionali delle democrazie europee. È una dinamica già sperimentata che prevede tre tappe: dapprima frange sempre più ampie del mondo del lavoro abbandonano la sinistra, i sindacati, le socialdemocrazie, perché deluse dall’assenza di risposte ai loro problemi quotidiani e, ancor più, private di rappresentanza politica e sociale; il passo successivo è il sostegno di questi gruppi sociali a movimenti sconclusionati e protestatari: il M5S di Grillo, Podemos, la Lega di Salvini, il lepenismo francese, Alba dorata in Grecia; infine, l’approdo alla destra autoritaria, già maggioritaria in Ungheria e Polonia, e in evidente espansione in molti altri Paesi. Ecco cosa succede quando la sinistra, anziché rinnovarsi, abbandona tout court la vocazione a dare voce ai soggetti più deboli, che è la sua autentica ragione d’essere». La vittoria di Donald Trump, abbinata alla débâcle di Hillary Clinton, avrà qualche influenza sulle dinamiche elettorali italiane, a cominciare dal voto referendario del 4 dicembre sulle riforme costituzionali? «Sì, credo proprio di sì». Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA

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Pag 24 Giubileo dei senzatetto, pullman da Mestre di Massimo Tonizzo La Caritas porta 45 persone a conoscere il Papa: partenza stasera alla Cita, rientro domenica Per tre giorni un gruppo di senza dimora del Veneziano potrà sentirsi “a casa”, accompagnato dai rappresentanti della Caritas veneziana a conoscere a Roma Papa Francesco assieme a molti altri sfortunati provenienti da tutta Italia. Parte stasera dalla Cita, uno dei quartieri della città che, grazie anche all’opera di don Nandino Capovilla e dei volontari della parrocchia è in prima fila nell’aiuto a chi si trova in difficoltà, il pullman organizzato da Stefano Enzo, direttore della Caritas veneziana in collaborazione con Casa dell’ospitalità, mensa Ca’ Miani, mensa dei Cappuccini e le numerose realtà parrocchiali di accompagnamento alle persone senza fissa dimora, che porterà una quarantina di ospiti al Giubileo delle persone senza fissa dimora, organizzato in Vaticano da oggi a domenica, 13 novembre. «Voi per noi non siete un peso, siete la ricchezza senza la quale i nostri tentativi di scoprire il volto del Signore sono vani. E sapete che quando sto con voi mi sento proprio bene», sono le parole con le quali Papa Francesco si prepara ad accogliere gli ospiti domani, 11 novembre, nel giorno della memoria di San Martino. La Caritas Diocesana ha voluto organizzare al meglio la propria presenza. «La chiesa e la città di Venezia», spiegano dalla Caritas, «vogliono dimostrare ancora una volta la loro attenzione per i cittadini più svantaggiati, sostenendo questa particolarissima e inedita iniziativa, occasione unica di concreta carità verso i fratelli e le sorelle più sfortunati, di solito destinatari di iniziative, per lo più assistenziali, ma stavolta protagonisti di un incontro speciale». La Caritas e le strutture di accoglienza della città si occupano della parte relativa al viaggio, mentre l’organizzazione dell’accoglienza a Roma è internazionale per curare al meglio ogni aspetto logistico. All’iniziativa parteciperanno quarantacinque senzatetto di varie età e provenienze, accompagnati da cinque volontari che sosterranno personalmente la spesa del viaggio e del pernottamento. Il programma delle tre giornate sarà unico per tutte le realtà provenienti da ogni parte del mondo, con la logistica unificata; in particolare i pellegrini veneziani partiranno alle 23 di oggi, parteciperanno al Giubileo nella giornata di domani per poi avere due intense giornate di visita alla città e rientrare a Mestre domenica 13 novembre. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Per restituire dignità a chi ha sbagliato Il Papa ricorda il dovere di visitare malati e carcerati Malati e carcerati vivono in una condizione che ne limita la libertà. Per questo devono essere tra i destinatari privilegiati dell’impegno dei fedeli cristiani affinché venga loro restituita la dignità: lo ha detto Papa Francesco in piazza San Pietro proseguendo all’udienza generale di mercoledì 9 novembre le riflessioni sulle opere di misericordia corporali. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La vita di Gesù, soprattutto nei tre anni del suo ministero pubblico, è stata un incessante incontro con le persone. Tra queste, un posto speciale hanno avuto gli ammalati. Quante pagine dei Vangeli narrano questi incontri! Il paralitico, il cieco, il lebbroso, l’indemoniato, l’epilettico, e innumerevoli malati di ogni tipo... Gesù si è fatto vicino a ognuno di loro e li ha guariti con la sua presenza e la potenza della sua forza risanatrice. Pertanto, non può mancare, tra le opere di misericordia, quella di visitare e assistere le persone malate. Insieme a questa possiamo inserire anche quella di essere vicino alle persone che si trovano in prigione. Infatti, sia i malati che i carcerati vivono una condizione che limita la loro libertà. E proprio quando ci manca, ci rendiamo conto di quanto essa sia preziosa! Gesù ci ha donato la possibilità di essere liberi nonostante i limiti della malattia e delle restrizioni. Egli ci offre la libertà che proviene dall’incontro con Lui e dal senso nuovo che questo incontro porta alla nostra

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condizione personale. Con queste opere di misericordia il Signore ci invita a un gesto di grande umanità: la condivisione. Ricordiamo questa parola: la condivisione. Chi è malato, spesso si sente solo. Non possiamo nascondere che, soprattutto ai nostri giorni, proprio nella malattia si fa esperienza più profonda della solitudine che attraversa gran parte della vita. Una visita può far sentire la persona malata meno sola e un po’ di compagnia è un’ottima medicina! Un sorriso, una carezza, una stretta di mano sono gesti semplici, ma tanto importanti per chi sente di essere abbandonato a se stesso. Quante persone si dedicano a visitare gli ammalati negli ospedali o nelle loro case! È un’opera di volontariato impagabile. Quando viene fatta nel nome del Signore, allora diventa anche espressione eloquente ed efficace di misericordia. Non lasciamo sole le persone malate! Non impediamo loro di trovare sollievo, e a noi di essere arricchiti per la vicinanza a chi soffre. Gli ospedali sono vere “cattedrali del dolore”, dove però si rende evidente anche la forza della carità che sostiene e prova compassione. Alla stessa stregua, penso a quanti sono rinchiusi in carcere. Gesù non ha dimenticato neppure loro. Ponendo la visita ai carcerati tra le opere di misericordia, ha voluto invitarci, anzitutto, a non farci giudici di nessuno. Certo, se uno è in carcere è perché ha sbagliato, non ha rispettato la legge e la convivenza civile. Perciò in prigione, sta scontando la sua pena. Ma qualunque cosa un carcerato possa aver fatto, egli rimane pur sempre amato da Dio. Chi può entrare nell’intimo della sua coscienza per capire che cosa prova? Chi può comprenderne il dolore e il rimorso? È troppo facile lavarsi le mani affermando che ha sbagliato. Un cristiano è chiamato piuttosto a farsene carico, perché chi ha sbagliato comprenda il male compiuto e ritorni in sé stesso. La mancanza di libertà è senza dubbio una delle privazioni più grandi per l’essere umano. Se a questa si aggiunge il degrado per le condizioni spesso prive di umanità in cui queste persone si trovano a vivere, allora è davvero il caso in cui un cristiano si sente provocato a fare di tutto per restituire loro dignità. Visitare le persone in carcere è un’opera di misericordia che soprattutto oggi assume un valore particolare per le diverse forme di giustizialismo a cui siamo sottoposti. Nessuno dunque punti il dito contro qualcuno. Tutti invece rendiamoci strumenti di misericordia, con atteggiamenti di condivisione e di rispetto. Penso spesso ai carcerati... penso spesso, li porto nel cuore. Mi domando che cosa li ha portati a delinquere e come abbiano potuto cedere alle diverse forme di male. Eppure, insieme a questi pensieri sento che hanno tutti bisogno di vicinanza e di tenerezza, perché la misericordia di Dio compie prodigi. Quante lacrime ho visto scendere sulle guance di prigionieri che forse mai in vita loro avevano pianto; e questo solo perché si sono sentiti accolti e amati. E non dimentichiamo che anche Gesù e gli apostoli hanno fatto esperienza della prigione. Nei racconti della Passione conosciamo le sofferenze a cui il Signore è stato sottoposto: catturato, trascinato come un malfattore, deriso, flagellato, incoronato di spine... Lui, il solo Innocente! E anche san Pietro e san Paolo sono stati in carcere (cfr. At 12, 5; Fil 1, 12-17). Domenica scorsa - che è stata la domenica del Giubileo dei Carcerati - nel pomeriggio è venuto a trovarmi un gruppo di carcerati padovani. Ho domandato loro che cosa avrebbero fatto il giorno dopo, prima di tornare a Padova. Mi hanno detto: “Andremo al carcere Mamertino per condividere l’esperienza di san Paolo”. È bello, sentire questo mi ha fatto bene. Questi carcerati volevano trovare Paolo prigioniero. È una cosa bella, a me ha fatto bene. E anche lì, in prigione, hanno pregato ed evangelizzato. È commovente la pagina degli Atti degli Apostoli in cui viene raccontata la prigionia di Paolo: si sentiva solo e desiderava che qualcuno degli amici gli facesse visita (cfr. 2 Tm 4, 9-15). Si sentiva solo perché la grande maggioranza lo aveva lasciato solo... il grande Paolo. Queste opere di misericordia, come si vede, sono antiche, eppure sempre attuali. Gesù ha lasciato quello che stava facendo per andare a visitare la suocera di Pietro; un’opera antica di carità. Gesù l’ha fatta. Non cadiamo nell’indifferenza, ma diventiamo strumenti della misericordia di Dio. Tutti noi possiamo essere strumenti della misericordia di Dio e questo farà più bene a noi che agli altri perché la misericordia passa attraverso un gesto, una parola, una visita e questa misericordia è un atto per restituire gioia e dignità a chi l’ha perduta. AVVENIRE Pag 20 “L’unzione arrivi alle periferie” Bergoglio: è per poveri, prigionieri, malati, chi è triste e solo

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Pubblichiamo un estratto del volume 'Nei tuoi occhi è la mia parola' (Rizzoli) che raccoglie le omelie e i discorsi pronunciati dall’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio negli anni 1999-2013 quand’era pastore (creato cardinale nel 2001) dell’arcidiocesi argentina. In particolare, il testo che segue è l’omelia preparata per la Messa Crismale del 28 marzo 2013 scritta prima di andare a Roma per partecipare al Conclave che l’avrebbe eletto Papa. E quindi mai pronunciata. La riflessione del futuro Pontefice fa riferimento alle Letture del giorno: Isaia 61,1-3.6.8-9; Apocalisse 1,5-8; Luca 4,16-21

Le letture ci parlano degli Unti: il servo di Jahvè di Isaia, Davide e Gesù nostro Signore. Tutti e tre hanno in comune il fatto che l’unzione da loro ricevuta serve per ungere il popolo fedele di Dio di cui sono servitori; la loro unzione è per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi... Un’immagine molto bella di questo «essere per» del santo crisma ci viene dal Salmo133: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste» (Sal 133,2). L’immagine dell’olio che si sparge, che scende sulla barba di Aronne e cala sull’orlo della sua veste sacra è immagine dell’unzione sacerdotale che, attraverso l’unto, giunge fino ai confini dell’universo rappresentati dalla veste. La veste sacra del sommo sacerdote è ricca di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele incisi sulle pietre di o- nice che adornavano le spalline dell’efod, da cui proviene la nostra attuale casula: sei sulla pietra della spalla destra e sei su quella della spalla sinistra. I nomi delle dodici tribù d’Israele le erano incisi anche sul pettorale. Vale a dire: il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo fedele e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Mentre ci vestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sulle spalle e sul cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri. A partire dalla bellezza di ciò che è liturgico – che non è mero ornamento e gusto per i paramenti, ma presenza della gloria del nostro Dio rispendente nel suo popolo vivo e consolato –, guardiamone l’azione. L’olio prezioso che unge la barba di Aronne non resta a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge le periferie. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati, per chi è triste e solo. L’unzione non serve a profumare noi stessi, e tantomeno a conservarla imbottigliata, perché l’olio diventerebbe rancido... e amaro il cuore. Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia, lo si nota: quando esce dalla Messa, per esempio, con la faccia di chi ha avuto una buona notizia. La nostra gente apprezza il Vangelo predicato con unzione, apprezza quando il Vangelo che predichiamo tocca la sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, le periferie dove il popolo fedele è esposto all’invasione dei predatori assetati della sua fede. La gente ce ne è grata, perché sente che abbiamo pregato sulle sue cose: le sue pene e le sue gioie, i suoi dispiaceri e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto arriva attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci cose sue che vuole fare arrivare al Signore: «Preghi per me, padre, ho questo problema...». «Mi benedica» e «preghi per me» sono segni del fatto che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché ritorna trasformata in richiesta. Quando siamo in questa connessione e la grazia va e viene tramite noi, siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. Ciò che voglio sottolineare è che dobbiamo sempre ravvivare la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte meramente materiale (in apparenza), a volte banale (insisto ancora, in apparenza) il desiderio della nostra gente di essere unta con l’olio profumato che sa che noi abbiamo. Intuire e sentire come sentì il Signore l’afflizione speranzosa dell’emorroissa, quando toccò l’orlo del suo mantello. Quel momento di Gesù, immerso tra la gente che lo preme da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne vestito sacerdotalmente e con l’olio che gli scende sulle vesti. È una bellezza nascosta che risplende soltanto per gli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue (Mt 9,20-22). Gli stessi discepoli – futuri sacerdoti – ancora non vedono, non collegano: nella periferia esistenziale scorgono soltanto la superficialità della moltitudine che stringe Gesù da tutte le parti fino a soffocarlo (cfr. Mt8,42). Il Signore invece sente l’unzione sulla periferia del suo mantello. È là che bisogna andare a sperimentare la nostra unzione, la sua potenza e la sua efficacia redentrice: nelle periferie dove c’è sangue sparso, cecità desiderosa di vedere, prigionieri di tanti padroni cattivi. Non è affatto nelle auto-esperienze o nelle reiterate

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introspezioni che incontreremo il Signore: nella vita qualche corso di autoaiuto male non fa, ma passare di corso in corso, di metodo in metodo, ci porta a diventare pelagiani, a minimizzare la potenza della grazia che si attiva e cresce nella misura in cui usciamo a darci e a dare il Vangelo agli altri; a dare quel poco di unzione che abbiamo a chi non ha niente di niente. Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco (non dico «niente» perché la nostra gente ci ruba l’unzione, grazie a Dio), si perde il meglio del nostro popolo, ciò che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, anziché in mediatore si va a poco a poco trasformando in intermediario, in gestore. Conosciamo tutti la differenza: l’intermediario e il gestore «sono già pagati», guadagnano a spese delle parti e così come non «si giocano la pelle e il cuore», allo stesso modo non ricevono nemmeno un ringraziamento di cuore. Viene proprio da qui quell’insoddisfazione di alcuni, che finiscono tristi e trasformati in collezionisti di antichità o di novità, anziché essere pastori che odorano di pecora e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta «crisi di identità sacerdotale» minaccia tutti noi e si innesta su una crisi di civiltà; ma se sappiamo fendere la sua onda riusciremo a prendere il largo nel nome del Signore e a gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci conduca là dove si nota che ciò che siamo per grazia è pura grazia, in quel mare del mondo attuale dove vale soltanto l’unzione (e non la funzione) e si dimostrano feconde unicamente le reti che si gettano nel nome di Colui del quale ci siamo fidati: Gesù. Il Padre rinnovi in noi lo Spirito di santità con cui siamo stati unti: lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione arrivi alle periferie, là dove più ne ha bisogno e più lo apprezza il nostro popolo fedele. La nostra gente ci senta discepoli del Signore che indossano i suoi nomi, che non vogliono alcun’altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quell’olio di gioia che è venuto a portarle Gesù, l’Unto. In un unico volume, le omelie, i discorsi dell’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio scritti e pronunciati dal 1999 al 2013, anni in cui fu pastore di Buenos Aires, diocesi di cui fu prima 'ausiliare', poi 'coadiutore' e infine 'titolare' dal 28 febbraio 1998 venendo creato cardinale nel Concistoro del 2001. Il libro, che viene pubblicato oggi, si intitola Nei tuoi occhi è la mia parola (Rizzoli, pagine 1056, 26 euro, 9.99 euro nella versione ebook) riprendendo un’espressione dello stesso papa Francesco: «Tra il predicatore e il popolo di Dio non ci deve essere di mezzo niente. Se si legge non si può guardare la gente negli occhi». «Leggere queste pagine – scrive nell’introduzione il direttore de 'La Civiltà Cattolica', padre Antonio Spadaro – è come entrare nella 'camera oscura' di papa Francesco. E questo laboratorio fotografico serve a capire meglio, a comprendere la stagione ecclesiale che stiamo vivendo». Il testo si conclude con l’omelia (che riportiamo in questa stessa pagina) scritta dal cardinale Bergoglio per la Messa Crismale del 28 marzo 2013 e che avrebbe dovuto leggere di ritorno dal Conclave, se non fosse stato eletto Papa. Ad arricchire ulteriormente la pubblicazione un’intervista concessa da Francesco a padre Spadaro sui contenuti e lo stile delle sue omelie. Per il Papa scrive ancora Spadaro «l’omelia è una cartina di tornasole», «la pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la capacità di incontro di un pastore con il suo popolo». Nei tuoi occhi è la mia parola viene presentato oggi alle 12 presso la Curia generalizia della Compagnia di Gesù a Roma, dal cardinale Pietro Parolin segretario di Stato, dall’arcivescovo di Chicago, Blase Joseph Cupich, dal preposito generale dei Gesuiti, padre Arturo Sosa, dallo stesso Spadaro. Modera padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione Ratzinger. CORRIERE DELLA SERA Pag 29 “Così scrivo le mie omelie ispirandomi a Dostoevskij” di Antonio Spadaro La scelta del brano e gli appunti, il Papa al lavoro a Santa Marta Quindici anni di omelie, discorsi e messaggi. Per capire la «rivoluzione» del pontificato di Francesco è utile rileggere quei testi scritti quando Bergoglio era arcivescovo a Buenos Aires, ora raccolti nel volume Nei tuoi occhi è la mia parola . «Leggere queste pagine - scrive nell’introduzione padre Antonio Spadaro, direttore di La Civiltà cattolica e autore anche di una conversazione con il Papa pubblicata nello stesso volume di cui riportiamo dei brani qui sotto - è come entrare nella “camera oscura” di Francesco che permette di comprendere la stagione ecclesiale che stiamo vivendo».

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«Qual è la differenza tra un’omelia e una conferenza?» gli chiedo. «L’omelia è l’annuncio della Parola di Dio, la conferenza è la spiegazione della Parola di Dio. L’omelia è l’annuncio, è fare l’angelo. La conferenza è fare il dottore». Proseguo: «Che cosa è per lei l’omelia? Qual è l’atteggiamento giusto che deve avere il pastore?» gli chiedo. «È collegata all’essere pastore» mi risponde, «alla gente che è nella comunità e che sta ascoltando. Ed è anche legata alla preghiera del pastore e alla Parola di Dio. Se mancano queste cose l’omelia non è tale» risponde il Papa. I circolini sulle parole - «E allora - proseguo - come prepara le omelie di Santa Marta? Da dove vengono quelle parole?». «Comincio il giorno prima. A mezzogiorno del giorno precedente. Leggo i testi del giorno dopo e, in genere, scelgo una tra le due letture. Poi leggo a voce alta il brano che ho scelto. Ho bisogno di sentire il suono, di ascoltare le parole. E poi sottolineo nel libretto che uso quelle che mi colpiscono di più. Faccio dei circolini sulle parole che mi colpiscono. Poi durante il resto della giornata le parole e i pensieri vanno e vengono mentre faccio quel che devo fare: medito, rifletto, gusto le cose... Ci sono giorni, però, in cui arrivo alla sera e non mi viene in mente nulla, in cui non ho idea di che cosa dirò il giorno dopo. Allora faccio quel che dice sant’Ignazio: ci dormo su. E allora subito, quando mi sveglio, viene l’ispirazione. Vengono cose giuste, a volte forti, a volte più deboli. Ma è così: mi sento pronto». Il Papa mi fa capire che il parlare senza fogli davanti non significa non prepararsi. Tutt’altro. Anzi, per una breve omelia è richiesta una preparazione spirituale e di discernimento che può richiedere quasi un’intera giornata. Gli autori preferiti - «Leggere romanzi, poesie... può aiutare il predicatore? In che modo? Sembra quasi che lei abbia un linguaggio poetico e popolare... anzi poetico perché popolare...» chiedo. «Sì, aiuta tanto» risponde. «Dostoevskij mi ha aiutato tanto nella predicazione. Per esempio, quando nei Karamazov racconta di un bambino, di appena otto anni, figlio di una serva. Lui lancia una pietra e colpisce la zampetta di uno dei cani del padrone, per questa ragione il padrone aizza tutti i cani contro di lui. Il bambino scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco ma finisce per essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati della madre. E poi Memorie dal sottosuolo che è un gioiello. Ma anche la poesia mi ha aiutato molto come ispirazione. Nino Costa mi è tanto caro. Rassa nostrana, dedicata Ai piemontèis ch’a travajo fòra d’Italia e al padre scomparso in Argentina, dove era emigrato per il lavoro. E poi La Consolà . Lì il campanile diffonde il suono delle campane come una voce che prega per tutte le miserie umane. E poi ho citato alcune volte Dante. Certo, il suo amore a Maria: “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura”. Ma tanto anche Paolo e Francesca: “Amor ch’a nullo amato amar perdona...”. Vedi? Il romanzo, la letteratura legge il cuore dell’uomo, aiuta ad accogliere il desiderio, lo splendore e la miseria. Non è teoria. Aiuta a predicare, a conoscere il cuore...». E ancora aggiunge: «Dei Promessi sposi ho citato fra Cristoforo (...)». Davanti al popolo - Dice il Papa: «C’è una parola molto maltrattata: si parla tanto di populismo, di politica populista, di programma populista. Ma questo è un errore. Ma popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica, semmai. Ripeto: “mitica”. Popolo è una categoria storica e mitica. Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Ci vuole un mito per capire il popolo. Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica (...)». LA REPUBBLICA Pag 55 Così torna a parlare la Chiesa dei poveri, una profezia rinnegata di Alberto Melloni Nel libro-intervista del cardinale Luis Antonio Tagle la storia di un sacerdote dalla parte degli ultimi che interpreta appieno il messaggio di Francesco

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Nel libro-intervista del cardinale Luis Antonio Tagle la storia di un sacerdote dalla parte degli ultimi che interpreta appieno il messaggio di Francesco La profezia, nella tradizione biblica, non è applicare la vista al futuro, nel tentativo di indovinarne la cifra. La profezia è tutt'altro: è un gesto verbale o non verbale, che mostra il collocarsi di Dio nel dilemma della storia fra oppresso e oppressore. Era profetica in questo senso una frase pronunciata da papa Giovanni l'11 settembre 1962, a un mese dall' inizio del Vaticano II: diceva che la chiesa vuole essere «la chiesa di tutti, ma soprattutto la chiesa dei poveri». Non la chiesa povera, non la chiesa che si occupa di poveri: ma la chiesa «dei poveri», quella che viene adunata dal collocarsi di Dio nel mistero della storia. Quel gesto profetico appariva l'eco di una ricerca spirituale molto marginale: quella dei teologi francesi della "Chiesa serva e povera" o quella dell'immedesimazione con i "minimi" di don Milani. Non appariva come un programma ecclesiale. Tant'è che quando, in concilio, l'arcivescovo Giacomo Lercaro propose di dare come cardine ai lavori e alla riscrittura del Vaticano II il mistero del Cristo povero, la cosa cadde nel vuoto: quel discorso era un gesto profetico in una chiesa immatura. Poi il silenzio. L'episcopato latinoamericano e la teologia della liberazione posero la questione della chiesa nei poveri. Ma il tema sparì dal magistero, dalla teologia, dalla predicazione. Al posto della chiesa dei poveri ci fu una "mobilitazione" che, con una singolare torsione del linguaggio, anche la chiesa accettò di chiamare "volontariato": come se l'immedesimazione della chiesa nel destino del povero non fosse il solo modo per collocarsi sull'asse teologico della storia, ma una cosa che si può fare o no; un irritante "civismo religioso" analogo a quello di raccoglie le cartacce. Poi papa Francesco. E il prepotente ritorno della chiesa dei poveri e della povertà della chiesa dopo mezzo secolo di rimozione. Ritorno lessicale fatto con una (gesuitica) circospezione. Ritorno di governo fatto con la scelta di vescovi capaci di interpretare questa dimensione nelle chiese locali, quelle nelle quali e dalle quali origina la chiesa universale. Una decisione che non solo ha irritato e spaventato alcuni ambienti ecclesiastici, che vedevano frantumarsi strategie per insediare sodali e debitori di cordate "nelle quali e dalle quali" nasce quel nulla in formato spray che trasforma la vita cristiana in una inconsapevole ostentazione superba della propria mediocrità. La scelta di vescovi capaci di esprimere la chiesa come "chiesa dei poveri" ha spiazzato anche osservatori distanti: dai quali è venuta l'espressione sui "preti di strada". Dire che uno studioso provato come Corrado Lorefice a Palermo o che un uomo dell' esperienza internazionale di Matteo Zuppi a Bologna siano preti "di strada", è paradossale. In questo tentativo di ridurre le scelte di Francesco ad un casting spicca la figura del cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, definito anche lui come un "prete di strada", ignorandone il profilo e lo spessore. Che adesso sono più accessibili grazie al libro-intervista Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze curato da Lorenzo e Gerolamo Fazzini (Emi). Nel racconto della sua vita Tagle non fa particolari rivelazioni: l'esempio di un prete santo, un seminario reso fervoroso da un vescovo audace, che lo fa rettore a 25 anni; alcune esperienze impreviste come la partecipazione alla Storia del concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo e poi soprattutto la chiamata nella Commissione teologica internazionale presieduta da Ratzinger che gli apre le porte di una carriera apparentemente senza ostacoli (e da ecclesiastico di razza, Tagle non racconta di essere stato chiamato all' ex sant' Ufficio a discolparsi dall'accusa di aver collaborato con Alberigo, che qualche sitarello conservatore agitava come fosse una colpa). Ma la "rivelazione" è l'intero racconto: quello di un uomo che in un lavoro di studio e con responsabilità importanti non smette di avere un rapporto immediato e costante con la povera gente. Nella diocesi dove cresce e anche adesso da cardinale arcivescovo, in una semplicità di relazione che lo porta ad essere non un "volontario" che "si occupa" di povericristi, ma un discepolo che nel poverocristo incontra il Cristo povero. La profezia della chiesa dei poveri era questa: la "forma" di santa romana chiesa tutto questo se lo rimangerà. Ma la profezia non cessa, perché l'asse della storia rimane quella e qualcuno che lo dice o c'è o tornerà. IL FOGLIO Buon viaggio cardinale, dove va adesso il duomo? di Maurizio Crippa La canonica sul lago di Lecco, vicino a Malgrate dove è nato, è pronta da tempo. Buen retiro e buona uscita, così diversa dal viaggio a Gerusalemme di Carlo Maria Martini, ma

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anche dalla villa di Triuggio, in Brianza, proprietà diocesana, scelta da Dionigi Tettamanzi. Lo scorso 7 novembre ha compiuto 75 anni, dopo una vita ai vertici della chiesa. Ora di lasciare, secondo la regola. Tutto è pronto, ma c'è ancora un po' di tempo. Sarà lui, arcivescovo di Milano e cardinale, ad accogliere Papa Francesco il 25 marzo prossimo nella sua attesa visita apostolica a Milano. "Penso proprio di sì, questo credo di poterlo dire", ha detto in un'intervista per il compleanno. La prassi ha quasi sempre visto il Papa prorogare i vescovi per qualche mese, o un anno, "donec aliter provideatur". Ma con Bergoglio, non è accaduto sempre. Ma Angelo Scola è sereno, è un dono del tempo: "Invecchiando, una cosa si fa sempre più evidente: si vive al cenno di un Altro. Del futuro non so ancora nulla, qualsiasi cosa il Papa decida, sono pronto. Non mi mancherà il lavoro". Rimarrà probabilmente fino all'estate, in tempo per concludere il percorso della Visita pastorale intrapresa lo scorso anno. La scelta del Papa, che tutto sembra indicare, la diplomazia ecclesiale è felpata, non è soltanto cortesia istituzionale verso il pastore della principale diocesi italiana, e il cardinale che al conclave del 2013 molti avevano dato per favorito. Milano è la diocesi di maggior peso nella chiesa cattolica. Quella di Ambrogio e Carlo. Ha una centralità che supera il ruolo della città, del suo clero tradizionalmente ben preparato e guidato, delle sue opere di carità, delle sue istituzioni - dalla Caritas Ambrosiana all' Università Cattolica - le associazioni e i movimenti ecclesiali. Milano è anche oggi uno specchio per la chiesa in generale. E anche un punto d'interrogazione, una sfida del cattolicesimo d'occidente, un laboratorio di modelli futuri. Milano città cosmopolita più di altre, ormai al pari degli standard europei. Milano la città più secolarizzata, col maggior numero di single e di coppie non sposate. E un tasso di matrimoni religiosi tra i più bassi. Un anno fa, Scola ha voluto inaugurare un apposito Ufficio diocesano per l'accoglienza dei fedeli separati, con un intento non solo pastorale ma anche giuridico per le coppie in difficoltà. Un "esperimento" sul campo, fuori dalle dispute teologiche del Sinodo sulla famiglia. Perché Milano è una terra di missione nell'Europa della secolarizzazione. Nell'intervista alla Stampa, l'arcivescovo è stato esplicito: "Bisogna farla finita con la mistica depressiva sui 'lontani' e sulle strategie dei cristiani per raggiungerli. Gesù è venuto a condividere il quotidiano, nessuno è 'lontano' dall'esperienza umana del lavoro o degli affetti. Bisogna vivere la propria vita secondo i sentimenti e il pensiero di Gesù, e comunicarlo con semplicità, senza affidarsi a progetti astratti fatti a tavolino e senza pararsi dietro al 'si è sempre fatto così'". Un lascito per il futuro. I rumors, ampiamente inaffidabili, su chi arriverà dopo sono già cominciati. Spesso sono giochi giornalistici, a volte giochetti per bruciare un nome. Il teologo Bruno Forte che piace al Papa, l'ex custode di Terrasanta, Pierbattista Pizzaballa, giovane e francescano, era un nome suggestivo. Ma ora è a Gerusalemme, nominato dal Papa amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini. Non è difficile ipotizzare che il successore potrebbe essere invece una figura interna alla curia, con un profilo pastorale preciso, un pastore che "puzzi di pecore" come piace a Bergoglio. Ma prima e più dei nomi, è interessante chiedersi che diocesi lascia Angelo Scola, dopo cinque anni, un mandato non lungo. Quali siano i punti critici e le eccellenze. Quando arrivò, tutt'altro che un outsider, era patriarca di Venezia, teologo stimato da Joseph Ratzinger, molti pensarono a un episcopato che avrebbe puntato sul profilo culturale, sul "dialogo" con la città laica. Un cattolicesimo da conferenza. Non che abbia trascurato la sua vocazione di uomo di cultura, basterebbe pensare ai "Dialoghi di vita buona", i cicli di incontri a tema presentati spesso in persona dall'arcivescovo, in dialogo con personalità del mondo laico, da "La pace si raggiunge attraverso la reciproca conoscenza" a quello in corso, sulle "frontiere della vita", compresa la "vita digitale". Ma Scola si è rivelato soprattutto un arcivescovo molto "pastorale", che ha girato in lungo e in largo le parrocchie, ha incontrato le persone. Molto "ecumenico", se si vuole dare al termine il significato un po' polemico e interno della capacità di attenzione e valorizzazione di tutte le componenti ecclesiali (la sua antica radice ciellina destava sospetti che la pratica quotidiana ha sciolto). C'è un aspetto che, forse, Scola ha tenuto presente o persino incoraggiato. Riguarda la presa d'atto di un minor peso "politico" dell'istituzione a Milano,rispetto ad esempio ai tempi e al prestigio pubblico del cardinale Martini (la sua mediazione con i terroristi, o sugli anni duri delle vertenze sociali). Oggi la chiesa di Milano, che è e resta ovviamente uno dei suoi pilastri fondativi e vivi, è consapevole di dover esercitare un diverso ruolo di guida nella città. "Sono personalmente convinto che il cattolicesimo politico sia finito. I cattolici devono

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inventare altre modalità di partecipazione", ha detto l'arcivescovo. Non una "scelta religiosa", ma un cattolicesimo che si riscopre più "social", nella consapevolezza di un possibile contributo utile per una città cambiata e che guida un profondo cambiamento sociale. L' arcivescovo di alto profilo culturale lascia al suo successore un indirizzo di "uscita nel mondo" senza più i recinti e i paradute della "struttura". Che è la chiesa che avrà voglia di vedere Papa Francesco, quando arriverà in città. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Il “ben-vivere” fattore decisivo di Leonardo Becchetti Chi governa impari a guardare oltre il Pil Se c’è una lezione economica da trarre dall’elezione alla presidenza degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, repubblicano populista e fuori da ogni schema, è che dobbiamo mandare in soffitta il dibattito sui 'decimali' della crescita. Capendo una volta per tutte che la crescita del Pil, che tutti gli osservatori compulsano così ossessivamente, non è indicatore sintetico sufficiente per definire il successo di una classe politica e lo stato di salute una nazione. In Irlanda nella scorsa primavera il governo in carica ha perso pur presentandosi alle elezioni con uno stratosferico tasso di crescita del Pil superiore al 6%. E il Regno Unito è arrivato al referendum sulla Brexit con una performance economica tra le migliori tra i paesi dell’Ue. Così negli Stati Uniti i democratici hanno affrontato le elezioni con un percorso in termini di crescita del Pil tutt’altro che negativo e con un mercato del lavoro 'brillante' che li ha portati quasi alla piena occupazione. «It’s the economy stupid» (è l’economia stupido), si diceva fino ad oggi indicando che quando l’economia fila tutto il resto funziona. In realtà l’economia non è tutto e rischia di essere niente quando il benessere economico viene misurato con gli indicatori sbagliati. Sarebbe il caso di tener conto da questo punto di vista dei risultati degli ultimi decenni delle scienze sociali. Che sottolineano due cose fondamentali. La prima è che se restiamo al benessere economico e sociale, quello che conta non è il flusso di beni e servizi la cui produzione è contabilizzata in un determinato Paese (sottolineiamo contabilizzata perché nel caso dell’Irlanda l’elusione fiscale, che contabilizza valore creato in realtà altrove, ha giocato un ruolo fondamentale). Il benessere dei cittadini è piuttosto misurato dallo stock dei beni spirituali, relazionali, economici, ambientali di cui una comunità può godere in un determinato territorio. In concreto significa che i politici dovrebbero guardare altri indicatori come ad esempio il reddito disponibile delle famiglie dopo aver pagato beni e servizi pubblici essenziali, la quota di cittadini che hanno peggiorato/migliorato il loro accesso a sanità e istruzione, la qualità dell’ambiente in cui vivono, la sicurezza reale e percepita nelle loro città. Al di là di questa dimensione c’è, però, qualcosa di ancora più profondo e sfuggente. Come le aziende che vogliono capire la soddisfazione dei clienti o dei dipendenti misurano la customer satisfaction o la soddisfazione dei lavoratori, così anche la politica deve abituarsi a leggere e interpretare i dati sulla soddisfazione e la ricchezza di senso di vita dei propri cittadini. Il dato sulla ricchezza di senso è uno dei meno esplorati e dei più importanti. Ma gli esseri umani sono essenzialmente cercatori di senso e quando questo viene a mancare rabbia, protesta, ricerca disperata del nuovo pur di cambiare qualcosa finiscono per avere la meglio. Chi studia i dati sulla felicità sa che essi rivelano la presenza di una variabile invisibile che tutti gli indicatori 'oggettivi' non consentono di osservare: la variabile delle aspettative. La soddisfazione di vita è infatti un rapporto tra realizzazioni e aspettative. È pertanto paradossalmente possibile che le realizzazioni (ad esempio l’andamento oggettivo dell’economia) migliorino e si assista tuttavia a una riduzione della soddisfazione semplicemente perché le aspettative sono aumentate verso l’alto. L’importanza trascurata delle aspettative rappresenta un vantaggio per i candidati di opposizione, incluso i più improbabili. Infatti, mentre i governi uscenti fanno fatica a far sperare in qualcosa di più della continuazione di quanto fatto durante il precedente mandato, gli sfidanti, se abili imbonitori, possono promettere l’impossibile eccitando la fantasia e le speranze degli elettori. Il successo elettorale di Trump appare dunque una

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combinazione dei due grandi elementi trascurati dagli analisti. La crescita del Pil, e persino la riduzione del tasso di disoccupazione, hanno mascherato un declino di ben-vivere, prodotto da una miscela di declino economico, riduzione della qualità del lavoro, paura del diverso, impoverimento spirituale e relazionale. E l’abilità dello sfidante di giocare sulla frustrazione e le aspettative dei cittadini ha fatto il resto. In Italia abbiamo imparato la lezione. Forse sì, se abbiamo costruito gli indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes) per misurare il benvivere del Paese e se il Parlamento ha approvato qualche mese fa una legge che stabilisce che le 'finanziarie' dei governi debbano essere valutate anche con le lenti del Bes. Quanto al dopo voto risultato negli Stati Uniti, che si preannunciava comunque complicato, non resta che la speranza che la democrazia sia forte e che la politica di vertice conti meno di quello che sembra nei destini dell’umanità. Noi credenti amiamo dire che Dio scrive dritto nelle righe storte della storia. Stavolta dovrà impegnarsi veramente molto. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 4 Venezia, i residenti sotto quota 55 mila. Corteo in piazza: togliamo il disturbo? di Elisa Lorenzini Esodo continuo, fioccano gli appelli Venezia. Ci sono giorni, come a Carnevale, in cui per la ressa è impossibile imboccare le calli e i vigili devono istituire blocchi e sensi unici. In media ogni giorno a fotografare piazza San Marco o il ponte di Rialto arrivano decine di migliaia di turisti che in un anno fanno 30 milioni. Mangiano panini o si servono nella moltitudine di take away che nell’ultimo decennio hanno scalzato i negozi di vicinato, acquistano a pochi euro souvenir in vetro realizzati in Cina al posto delle pregiate manifatture di Murano, o maschere scadenti invece di quelle più costose frutto della tradizione artigiana. A servirli c’è una miriade di commessi, baristi, camerieri che ogni mattina arriva in autobus o in treno dalla terraferma. E i veneziani? Giorno dopo giorno spariscono. Hanno fatto le valigie in cerca di un lavoro migliore o di case a prezzi ragionevoli, dato che oggi chi può affitta su Air Bnb. Una questione, quella dell’esodo, che fa infuriare chi resta, al punto che il 21 marzo 2008 un gruppo di residenti riuniti con il nome di Venessia.com in segno di protesta ha piazzato un contatore nella vetrina della Farmacia Morelli di campo San Bartolomio, a due passi dal ponte di Rialto. Quel giorno segnava 60.699 residenti contro i 65.700 nel 2001, e 145.402 nel 1960. Oggi sul monitor risalta la cifra 54.976, ma l’ultimo dato fornito dall’anagrafe comunale segna 54.924. Abbattuto (col passo del gambero) un altro muro. Ecco il lato più oscuro di Venezia: la città più affollata di turisti al mondo è anche la più vuota, resta solo un grande museo. Perché una città svuotata dai suoi abitanti muore. Fu proprio inscenando un funerale, con tanto di corteo lungo il Canal Grande, cori e bara, che nel 2009 i Venessia.com protestarono contro l’esodo, chiedendo all’amministrazione comunale politiche e misure ad hoc. Sabato, alle 11.30 con ritrovo a San Bartolomio, tornano in piazza con altre 15 associazioni sposando l’hastag #venexodus e lo slogan «Togliamo il disturbo?». Stavolta la scena sarà tutta per il doge che, accompagnato dalla sua valigia, lascia la città su una gondola. In strada ci saranno, tra gli altri, i fotografi del collettivo «Awakening» che in un blitz notturno ieri notte hanno attaccato foto di denuncia per la città, i ragazzi dell’Assemblea Sociale per la Casa che in città hanno occupato 60 alloggi popolari sfitti, «Ambiente Venezia» e i «No Navi». Presenti per denunciare come il Mose si sia inghiottito i fondi della legge speciale per Venezia, prosciugando le risorse che permettevano di fare manutenzioni in città. E ancora i giovani di «Generazione 90», promotori a settembre di un’altra marcia di protesta con i carrelli della spesa, a denuncia della difficoltà di vivere in città. «Siamo a un punto di non ritorno, la città senza abitanti non è città - dice Matteo Secchi, portavoce di Venessia.com - da Disneyland, Venezia sta diventando Pompei. Le proposte per una svolta le avanziamo da anni ma quello che manca è la volontà politica. Ciò che serve sono le case, ce ne sono 700 sfitte di proprietà comunale e più del doppio dell’Ater. Chiediamo la costituzione di un unico soggetto che le gestisca in modo più

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funzionale, chiediamo di tassare chi affitta a turisti e di fermare le speculazioni sugli immobili». Richiesta, quest’ultima, di improbabile attuazione, secondo l’assessore alla Casa, Luciana Colle: «La tassazione è materia nazionale, non dipende da noi. L’amministrazione invece ha pubblicato il bando per l’assegnazione di 71 alloggi a prezzo agevolato, abbiamo sbloccato fondi e inizieremo a restaurare 300 alloggi pubblici comunali, in tutto servono 10 milioni di euro. Inoltre stiamo lavorando con la Regione a una legge più equa per l’assegnazione di alloggi Erp». Sul fronte dei flussi turistici il Comune finora ha avviato le audizioni di progetti di associazioni e privati. «Abbiamo creato gli ingressi prioritari per i residenti alle fermate dei vaporetti per agevolare i veneziani - spiega l’assessore al Turismo, Paola Mar - e istituito l’Organismo di Gestione della Destinazione, che lavora a un piano unitario di marketing e sviluppo della città». Per il già rettore dello Iuav Amerigo Restucci la ricetta per risollevare la città passa attraverso due ingredienti: contributi al restauro delle abitazioni e la creazione di posti di lavoro slegati dalla monocultura turistica. «Serve un piano straordinario per la città storica, una regia complessiva - nota Restucci - case in social housing, rilancio di commercio e cultura, stop a nuovi centri commerciali. Restaurare case è molto costoso: fondamentale offrire contributi al ceto medio». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXVII Meditazione e performance in un tour nelle chiese Venezia - Un concerto di uno dei compositori più noti al mondo per aiutare concretamente le popolazioni colpite dal terremoto. Si inquadra in questo contesto la performance di domenica 20 novembre, alle 21,30, del musicista inglese Michael Nyman, da sempre affascinato dal nostro paese. In questo caso il concerto, che di terrà al T Fondaco dei Tedeschi, è stato organizzato proprio per raccogliere contributi a favore delle popolazioni di Marche, Umbria e Lazio duramente segnate dal terremoto. E il 20 l'edificio da poco inaugurato si trasformerà per la prima volta in una sala da concerto. «Sono stato molto colpito dalle terribili conseguenze sulle persone e sul patrimonio artistico che hanno provocato le ultime scosse di terremoto in Italia - ha spiegato Nyman raccogliendo l'invito a suonare in città - Sono felice che il mio concerto a Venezia possa aiutare le vittime di questa fatalità e accendere l'attenzione che queste terre bellissime meritano». L'evento, gratuito al pubblico, sarà occasione di una raccolta fondi a offerta libera in favore dei comuni colpiti dalle tremende scosse. Le donazioni saranno devolute a #unaiutosubito (prenotazione obbligatoria chiamando il numero +39 041 313 7032 o scrivendo alla mail [email protected]). Si tratterà di un concerto di piano solo nel corso del quale l'artista spazierà attraverso le melodie più note della sua produzione, in particolare le colonne sonore di Lezioni di piano, Gattaca, Wonderland e Il diario di Anna Frank. Molti di questi pezzi sono raccolti nei due album The piano sings. Va poi ricordato che il brano Water dance sta accompagnando l'installazione di Fabrizio Plessi ospitata proprio al Fondaco. Il legame di Nyman con Venezia è davvero profondo, le sue performance sono state sempre molto applaudite. Tra le serate indimenticabili c'è sicuramente quella di due anni fa quando l'artista suonò alla Fenice durante la proiezione del film icona di Sergej Eisenstein La corazzata Potemkin relativo all'ammutinamento navale del 1905 quando l'equipaggio della corazzata si ribellò ai brutali funzionari zaristi. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Il mio sillabario laico di Umberto Veronesi In questa sorta di breviario laico, di sillabario ideale che vi trovate in mano, parlo naturalmente di me ma letteralmente di tutto, ed è la prova schiacciante di una colpa che spesso mi viene fatta e cioè di essere un «tuttologo»; però la colpa non è solo mia, è anche della «Domenica del Corriere». Mio padre la portava a casa, appunto, la domenica. Per me era una finestra sul mondo (...) Non ho fatto il giornalista, ho fatto il medico e il ricercatore, ma mi è rimasta la curiosità del mondo e delle persone, cui poi si

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è unita la voglia di ragionare sulle vicende che riguardano l’insieme di noi cittadini, e in genere la comunità umana nel mondo, con le sue differenze. Ho sempre creduto profondamente nella necessità di affermare i diritti fondamentali della persona, e di comprendere perché troppo spesso sono negati (...) Mi piacciono anche i confronti tra il mondo di ieri e quello di oggi (...) Credo però che sia compito dei vecchi passare alle nuove generazioni non solo le memorie degli anni passati, ma soprattutto gli ideali di giustizia, di libertà, di tolleranza e di cultura che sono stati la fede degli uomini migliori. Abbiamo fatto molta strada, sapete? ATEO Sono convinto che esista una morale laica valida quanto la fede in Dio. È un’etica della responsabilità, che ogni persona può e deve costruire dentro di sé, e che deve servire da timone. Ateo è un termine che non amo, perché vuol dire «senza Dio», e io non ho le prove per negare l’esistenza di Dio. BELLEZZA Nello spirito umano c’è una costante aspirazione a un’armonia che trascende il mondo fisico. Per questo si può parlare della bellezza della musica o della bellezza di una formula matematica (...) La nostra epoca ci propone la bellezza nella forma rassicurante delle case-vacanza. CARAMELLE Sono un medico, ma a volte vorrei essere la Befana. Per andare invisibile a casa degli anziani che sotto Natale vengono «beccati» a rubare le caramelle al supermercato (...) Se potessi essere la Befana, entrerei in casa di queste persone e nasconderei un po’ di caramelle qui e lì. DIGIUNO Sono convinto che sia un bene e che faccia bene. Ma prima di tutto digiunare ha un significato etico: astenersi intelligentemente e sistematicamente dal cibo è segno di consapevolezza, senso di responsabilità e rispetto per gli equilibri del pianeta. EMPATIA Siamo stati scelti per la nostra scienza e per la nostra competenza, ma a queste caratteristiche, guadagnate e costruite in anni di studio e di duro lavoro, dobbiamo avere la capacità di aggiungere l’empatia, una parola che deriva dal greco e che significa «condivisione della sofferenza». FUMO Io sono contro tutti i proibizionismi, perché amo la libertà. Ma non c’è alcuna libertà nel farsi del male. Ci si consegna a un destino di sofferenza e di morte precoce, e il mondo si rimpicciolisce: non ci sono più le praterie sconfinate, ma lo spazio triste della camera da letto di un malato. GIOVANI La depressione di chi non riesce a costruirsi un progetto di vita non è una patologia psichiatrica, non ha bisogno di modulatori del tono dell’umore. Ha bisogno di una società che prenda in serissima considerazione il problema dei giovani e si vergogni di averlo fatto diventare un problema. HOSPICE E DAY HOSPITAL Il mio amico Alberto Scanni (...) gettò il primo piccolo seme di un ospedale amico con l’idea di far trovare ai pazienti vassoietti di caramelle, libri interessanti, giornali illustrati. Di pensare a un arredamento comodo. E di tenere sempre in giro volontari o infermieri per rassicurare. INFERMIERE E INFERMIERI Oh quanto mi hanno aiutato gli infermieri! Quando alle prime armi del mestiere mi vedevano titubante, eccoli pronti a suggerirmi come comportarmi (...) Non solo sono indispensabili per l’assistenza, ma il loro rapporto con il paziente li rende gli osservatori più accurati. LONGEVITÀ Non vedo nulla di male nell’incentivare le ricerche volte a ottenere una vita più lunga, e a realizzare nel concreto uno slogan pieno di promesse. Come? Il primo segreto è l’accettazione. Il secondo è una vita attiva. Il terzo è continuare ad amare, con il cuore e con il corpo. L’ultimo è la curiosità. MORTE Scegliere per chi amiamo l’eutanasia può essere un gesto di coraggioso amore, una dimostrazione che il nostro amore per la sua vita, ora sofferente, va oltre il nostro bisogno della sua presenza. L’eutanasia, prima di essere eutanasia, è comprensione assoluta. NUCLEARE Ritengo che per l’Italia sia grave rinunciare alla possibilità di far fronte alla futura insufficienza energetica anche con il nucleare. I Paesi avanzati del mondo, anche dopo l’incidente alla centrale nucleare giapponese di Fukushima, stanno studiando metodi di produzione di energia atomica più efficienti. ONESTÀ Diffido dell’uso indiscriminato del concetto di onestà, e mi prendo la responsabilità di affermare che l’onestà non è né un valore in più, né un biglietto da visita per presentare i programmi politici o le persone. L’onestà non è una benemerenza, è un dovere. In una democrazia dovrebbe essere la normalità.

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PERDONO Non esistono individui geneticamente predisposti al delitto, ma esistono persone psicologicamente più fragili che vengono influenzate da fattori esterni (famiglia, cultura, disagio sociale o psichico) che le spingono al delitto. Compito della giustizia non è vendicarsi, ma è la rieducazione. QUALUNQUISMO Come cittadino, ho sempre creduto nella partecipazione alla vita politica, dalla semplice azione di esercitare il diritto di voto all’impegnare una parte del proprio tempo dove c’è l’opportunità di lavorare per qualche miglioramento: nei consigli di zona, comunali, regionali e nel lavoro di parlamentare. RIMEDI ALTERNATIVI Mi lasciò sconcertato la decisione che qualche anno fa prese l’Ordine dei medici, che in pratica «sdoganava» le medicine cosiddette non convenzionali. È una proposta che rientra in quell’ampio movimento antiscientista che sta serpeggiando da anni e che va sotto il nome ingannatore di New Age. SOLITUDINE Quante volte ci si trova, nell’isolamento della sala operatoria, a dover decidere se procedere con un intervento complesso e pericoloso pur di eliminare una massa tumorale. Non si sta sbagliando, si sa ciò che si fa, ma non è possibile prevedere sino in fondo ciò che avverrà. TASSE Ogni anno pagando le tasse penso che la mia quota possa servire a dotare un ospedale di un nuovo letto, o di un nuovo ambulatorio, o a garantire l’assistenza domiciliare a un disabile. E allargando l’orizzonte della solidarietà penso che con le nostre tasse ogni anno si possa aprire un nuovo asilo nido, una scuola. UMORISMO Meglio sorridere che ridere, anche perché una considerazione umoristica è contigua al mondo delle idee, ed è capace come poche altre cose di dare notizie sul mondo intellettuale della persona con cui si sta parlando. Un commento umoristico è come un piccolo contrappunto di violino. VIRILITÀ E FEMMINILITÀ Penso che la legge del 1982 che consente il cambiamento di sesso e prevede che l’intervento sia a carico del Servizio sanitario nazionale sia un atto civile e coraggioso e che fa capo al riconoscimento dei diritti. Quando fu approvata non mancarono polemiche e ostilità. ZODIACO Domandarsi a vicenda «Di che segno sei?» può essere un innocuo gioco di società, ma la fiducia nell’astrologia è preoccupante quando dimostra di essere la spia di tutto un mondo dell’irrazionale, che sconfina nelle credenze esoteriche. I segni dello zodiaco non hanno niente a che vedere con la nostra salute. Torna al sommario