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Quaderni del Dipartimento di Storia Università di Trieste

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I muri della storia. Storici e storiografia

dalle dittature alle democrazie 1945 - 1990

a cura di Gustavo Corni

F. Benvenuti, G. Corni, B. Faulenbach, H. Gies, P. Hanak, G.G. Iggers, W. Klittler, G. Miccoli, K. Patzold, D. Roksandic, G. Santomassimo, K. Stuhlpfarrer, J. Tusell, M. Waldenberg.

Prima edizione a stampa: Trieste, LINT, 1996

Edizione Digitale: Trieste, EUT 2017

ISBN 978-88-8303-879-2 (online)

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La pubblicazione di questo volume è stata resa possibile grazie al contributo dell'Università degli Studi di Trieste- Dipartimento di Storia

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Indice

Introduzione

I Le premesse metodologiche Giovanni Miccoli Sul ruolo civile dello studio della storia

George G. Iggers Storiografia e politica nel XX secolo

II La transizione dai regimi Gianpasquale Santomassimo Gli storici italiani tra fascismo e repubblica

Bernd Faulenbach

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La storiografia tedesca dopo la dittatura di Hitler 55

Karl Stuhlpfarrer L'Austria, prima vittima della Germania di Hitler. La storia di un mito e il suo significato 79

Javier Tusell Gli storici spagnoli e la transizione alla democrazia 91

III La nuova "questione tedesca" l 03 Gustavo Corni La storiografia della ex RDT fra dogmatismo e innovazione. Un tentativo di bilancio dopo il crollo l 05

Kurt Patzold La storiografia nella Repubblica Democratica Tedesca in retrospettiva. Una discussione 119

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Horst Gies Rieducazione o rinnovamento? Esperienze sul rivolgimento nell'insegnamento e nell'apprendimento della storia in Germania dopo ill989 133

Wolfgang Ktittler Problemi del discorso storiografico nella Germania unificata. Pensiero storico e scienza della storia nella transizione 149

IV Il crollo del blocco sovietico 175 Francesco Benvenuti Fine del comunismo e riflessione storico-nazionale in Russia 177

Marek Waldenberg La storiografia polacca dopo la svolta del 1989 189

Peter Hanak Il contributo degli storici ungheresi alla trasformazione democratica 203

Drago Roksandic La storiografia croata dopo ill989 211

Gli autori del volume 219

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Introduzione

La storiografia ha sempre svolto un'importante funzione politica, sia nella sua fase pre-scientifica che in quella in cui ha assunto uno statuto scientifico, per legit­timare il potere, o per dare forza a un contro-potere, per giustificare una guerra, una conquista o una combinazione dinastica e matrimoniale.

A partire dall'inizio del secolo scorso, quando la storiografia ha assunto gra­dualmente (e con notevoli differenze iniziali fra i vari paesi) uno statuto scientifico, gli studiosi e i docenti della materia hanno costantemente insistito sulla loro ogget­tività, o perlomeno sulla ricerca dell'oggettività per mezzo di procedure formaliz­zate della lettura, analisi e valutazione delle fonti; queste sono assurte a simbolo dell'oggettività ed avalutatività della ricerca storica.

Ma come ben sottolineano nei due interventi introduttivi di questo volume Miccoli ed Iggers, la pretesa dell'oggettività scientifica è stata fin dall'inizio solo un fragile velo rispetto all'incidenza dei fattori soggettivi e valutativi, anche se questi erano spesso impliciti e non consapevoli. Un velo rappresentato in primo luogo dai metodi e dalle procedure della ricerca, nonchè dall'onestà individuale del ricercatore.

Certo, nei regimi dittatoriali che hanno contraddistinto la storia del nostro seco­lo, oggettività e valutatività sono state strettamente ed esplicitamente legate fra di loro; la storiografia è stata asservita in modo rigido ed aperto alle necessità del pote­re politico. Questo è, almeno, ciò a cui hanno puntato questi regimi. Basti pensare all'esempio letterario offerto da G. Orwell; il protagonista del suo 1984 è addetto a cancellare eventi e nomi della storia recente, rispecchiando la volontà del potere. In verità, i regimi dittatoriali a noi noti, che hanno avuto ciascuno caratteristiche dif­ferenti, non sono riusciti a raggiungere questo ideale di appropriazione totale della storia e della memoria. Il nazionalsocialismo ha fallito del dare vita a una Volksgeschichtsschreibung, che spodestasse la saldezza dell'establishement accade­mico prussiano; il fascismo italiano è riuscito solo molto marginalmente a capovol­gere le tradizioni culturali nazionali (anche in campo storiografico) e lo stesso sem­bra si possa dire per altri regimi di tipo fascista, o para-fascista come in Spagna. Questa valutazione scaturisce fra l'altro dai contributi raccolti in questo volume.

Mentre sappiamo troppo poco (per non dire nulla) su situazioni quali quella del Giappone negli anni '30 o della Cina comunista, a prima vista sembrava che la stru­mentalizzazione della ricerca storica fosse giunta a livelli massimi nel sistema comunista, e in primo luogo nell'Unione Sovietica, se non altro per il periodo molto lungo che questo regime ha avuto a disposizione: oltre settant'anni.

Il convegno, organizzato nell'ottobre 1994 a Trieste, per iniziativa dell'Università di Trieste, del Comitato di Studi Storici e del Goethe-Institut, e di cui in questo volume vengono pubblicati gli atti, si proponeva di mettere a fuoco la problematica della transizione dalle dittature alle democrazie proprio per quanto concerne la ricerca storica e la scrittura storica, ovvero la storiografia nel suo com­plesso. Nel suo titolo, il concetto di "muro" si riferiva alle divisioni ideologiche ed

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interpretative (talora molto rigide) che le storiografie nazionali hanno eretto nel corso di questo secolo; divisorie che non correvano soltanto fra il mondo "libero" delle democrazie e quello "non-libero" delle dittature, di varia natura.

L'idea originaria del convegno nasceva dalla constatazione della peculiare, e davvero molto radicale, forma con cui la storiografia nella Repubblica Democratica Tedesca era stata di fatto spazzata via a seguito dell'unificazione. Il dibattito, che si era acceso in Germania dopo l'ottobre 1990 e che aveva avuto riflessi anche all'e­stero, era ritenuto dagli ideatori del convegno come un punto di riferimento adatto a valutare se la transizione era avvenuta allo stesso modo negli altri stati dell'ex­blocco comunista. Allo stesso tempo, è emersa l'opportunità di spostare all'indietro la riflessione critica, andando ad analizzare le modalità con cui si era verificato il passato dalle dittature alle democrazie dopo il1945, ovvero dopo il crollo dei regi­mi fascisti (la Spagna presentava ovviamente un'ulteriore sfasatura cronologica). Il confronto diacronico non era affatto inteso come un sostegno alle teorie, oggi tor­nate nuovamente in auge, del totalitarismo. Esso muoveva invece dall'esigenza di mettere in luce la specificità, le articolazioni nelle varie nazioni e nei diversi conte­sti ideologici e cronologici.

Il ruolo della storiografia fra dittatura e democrazia non è affatto un tema sol­tanto tedesco, anche se potrebbe sembrare che proprio la caduta del Muro di Berlino nel1989 abbia rappresentato il trionfo della democrazia occidentale, sancendone la sua "vittoria nella storia". Certo la riunificazione di una scienza storica, cresciuta per oltre quarant'anni in modi del tutto divergenti, all'interno di un paese comune evoca un'altra forma ed intensità dell'autoriflessione degli storici. Tuttavia resta significativo, e talora allarmante, in che misura questa ulteriore querelle allemande attesti ancora una volta la forza di quel pensiero sulla "via speciale" della storia tedesca, che tanto peso ha avuto nella storia del passato. Da questo punto di vista (e certo con un richiamo alla timidezza dell' Abrechnung con il passato nazionalsocia­lista dopo il 1945) l'attuale discussione aperta in Germania è assai più profonda e la rottura assai più radicale di quanto si sia verificato negli altri paesi dell'ex bloc­co-comunista. Le relazioni di Benvenuti, Hanak: e Waldenberg attestano questa sostanziale diversità in modo molto netto. Lo stesso andamento del convegno atte­sta la peculiarità della situazione tedesca.

L'impostazione del convegno e i suoi esiti mi paiono anche significativi in quan­to aprono squarci interessanti sulle forme con cui i regimi dittatoriali hanno cerca­to di imporre il proprio marchio ideologico sulla storiografia e di quanto, invece, retaggi culturali precedenti (come soprattutto nel caso del nazionalsocialismo tede­sco, studiato da Faulenbach) o una miscela di vecchio e di nuovo (come nel caso della storiografia italiana durante il fascismo, analizzata da Santomassimo) abbiano continuato a coesistere; per non dire del caso spagnolo, nel quale la lenta e gradua­le transizione politica - secondo il saggio di Tusell - sarebbe stata accompagnata da un'altrettanto graduale, ma innegabile transizione nel campo storiografico. Anche le relazioni dedicate ai regimi di tipo comunista mettono in evidenza gradualità,

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persistenze di vecchi modelli storiografici (soprattutto nel caso polacco), o addirit­tura il tentativo di una parte significativa della storiografia di regime di appropriar­si della storia nazionale e dei suoi retaggi.

Probabilmente Trieste - città di confine, ricca di articolazioni culturali multiet­niche e di retaggi storici così intrecciati - è stata una sede particolarmente adatta per fare i conti con queste complesse tematiche, offrendo anche ai relatori e ospiti tede­schi presenti l'opportunità di rendersi conto che la discussione tedesco-tedesca (deutsch-deutsch) deve essere probabilmente collocata entro un contesto diacroni­co e soprannazionale più ampio. I contributi presentati al convegno e qui raccolti non hanno un carattere strettamente comparatistico, anche perchè ciascun relatore si è mosso riflettendo le urgenze della propria cultura nazionale, della propria tran­sizione. In questo senso, mi paiono particolarmente significativi i contributi di Stuhlpfarrer e Hanak, che hanno un taglio più scopertamente politico-culturale. Al lettore lasciamo il compito- se ne sarà stimolato- di fare confronti. La discussione sui differenti approcci metodo logici con cui si possa analizzare la storiografia come possibile "scienza collaborazionista" è appena iniziata; la ricerca di un metodo accettabile per realizzare una "storicizzazione critica" (secondo la definizione dello storico tedesco-statunitense K.H. Jarausch) che consenta di evitare i rischi dell'a­pologia è anch'essa appena iniziata. Se noi storici non saremo in grado di portare avanti questa ricerca, alla fine avrà ragione lo scrittore Peter Schneider, quando già nel 1982 profetizzava: "Abbattere il muro che è in testa richiederà più tempo, di quanto ne richieda qualsiasi demolizione edile per il muro visibile" 1

La realizzazione di un convegno e di un libro, che dia conto dei risultati del primo è sempre la sintesi di molte collaborazioni e di molti sforzi. D'altra parte, è un piacere per il curatore - tirando le somme di quanto realizzato - ringraziare tutti coloro che hanno collaborato; in primo luogo l'Università di Trieste nella persona del Magnifico Rettore, prof. Giacomo Borruso, il Comitato di Studi Storici, nella persona di Paolo Cammarosano, il Dipartimento di Storia, nella persona di Giovanni Miccoli, e il Goethe-Institut di Trieste, nella persona di Brigitte Weis. Costoro hanno creduto fin dall'inizio nel progetto e lo hanno sostenuto in ogni modo. Numerose istituzioni hanno contribuito finanziariamente, oltre alle già cita­te; a tutte va dato atto della sensibilità con cui hanno compreso il significato dell'i­niziativa, soprattutto per una città come Trieste. Vorrei infine ringraziare Martin Sabrow, che con grande spirito di amicizia si è impegnato affinchè venisse realiz­zata una versione tedesca (ulteriormente arricchita) di questo libro, Claudio Venza, che ha tradotto dallo spagnolo il contributo di Tusell e Andrea La Bella, che ha tra­dotto i contributi in lingua tedesca e inglese ed ha curato l'editing dell'intero volu­me con la consueta solerzia.

Trieste, ottobre 1995 Gustavo Corni

1 P. Schneider, Der Mauerspringer. Erziihlung, Darmstadt, 1982, p. 102

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I Le premesse metodologiche

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Giovanni Miccoli Università di Trieste

Sul ruolo civile dello studio della storia

Le questioni trattate nel complesso di relazioni e di interventi pubblicati in que­sto volume presentano aspetti e dimensioni molteplici. I problemi specifici delle diverse scuole e dei diversi orientamenti storiografici, connessi ai profondi muta­menti istituzionali e politici provocati dalla crisi dei sistemi detti del "socialismo reale", si incrociano con problemi generali che rinviano allo statuto della ricerca storica, al ruolo anche civile e politico dello studioso di storia, al rapporto tra cul­tura storica e cultura politica. Non si è trattato però solo di questo. Perché i proble­mi specificamente disciplinari, propri di ogni fase di passaggio, come le passioni, le difficoltà e gli scontri che a tale fase normalmente si connettono, risultano dram­maticamente accentuati dall'impetuoso riemergere, dagli strati profondi del corpo sociale, di miti irrazionali che sembravano ormai totalmente emarginati se non defi­nitivamente sconfitti: nazionalismo, razzismo, antisemitismo, etnocentrismo, anche se in vesti e con motivazioni in parte mutati, si profilano ancora una volta come una miscela esplosiva che rivela una capacità di mobilitazione e di consenso impensa­bile fino a pochi anni fa. Si accentua così l'urgenza di riscoprire e ripensare il ruolo civile e politico che può competere alla ricerca storica.

Su tre aspetti, connessi a tali problematiche generali, articolerò perciò molto schematicamente questo mio intervento: l. Condizionamenti "esterni" ed "interni" che si pongono allo studioso di storia. 2. Condizionamenti specifici della storiogra­fia contemporaneistica 3. Relazioni e nessi fra studio della storia e cultura politica.

Preliminarmente tuttavia un'osservazione mi sembra opportuna. Indubbiamente non pochi di tali problemi si sono acuiti quando la storia venne inserita, fin dal Settecento e più ancora nell'Ottocento, tra le discipline oggetto d'insegnamento scolastico, assumendo così esplicitamente una funzione pubblica. Essi però hanno le loro radici nel fatto stesso di studiare e raccontare il passato con il fine di cono­scerlo e farlo conoscere. Nascono con il nascere di una storiografia. Si tratta certa­mente di un'ovvietà, che talvolta però si tende a dimenticare: la nostra conoscenza del passato è sempre mediata, e dunque condizionata, dai trami ti grazie ai quali pos­siamo cercare di conoscerlo e dall'ottica e dalle prospettive con cui lo studioso lo affronta. Un duplice condizionamento, oggettivo e soggettivo, fa sì che la nostra ricerca non riesca mai ad esaurire pienamente in sé il proprio oggetto. Le "fonti" costituiscono un passaggio preliminare obbligato ed insieme un limite che rimane insuperabile. Potrò allargare il loro spettro e intensificare gli scavi per reperirne di

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Giovanni Miccoli

nuove, così come potrò affinarne l'analisi e moltiplicare le cautele per evitare for­zature nella loro lettura, ma lo scarto tra la storia, tra ciò che è avvenuto (le res gestae), e la storiografia, ciò che di esso posso conoscere e raccontare (l'historia rerum gestarum) non potrà mai essere eliminato.

l. Anche a prescindere dalle osservazioni appena formulate non credo si possa affermare che il sistema politico costituisca l'unico decisivo condizionamento per lo studio della storia. Certo: non sono pochi i contributi raccolti in questo volume che danno testimonianza ed offrono esempi della pesantezza di questo condiziona­mento. La costruzione di una storia ufficiale ne è l'esito scontato. Esso deriva dal ruolo propagandistico ed insieme di legittimazione attribuito alla storiografia. Ne è un risultato estremo. Ma l'idea che la storiografia debba assolvere a compiti di pro­paganda e legittimazione non è certo !imitabile ai teorici, ai costruttori o ai fautori di quei sistemi politici contemporanei variamente definibili come illiberali, totalita­ri, autoritari, che hanno reclamato e prodotto la costruzione di "storie ufficiali". E' un'idea che viene da lontano e che si lega alla vicenda di tutte le grandi istituzioni come ai grandi movimenti e alle grandi correnti culturali ed ideali che ne hanno sostenuto e o messo in discussione le pretese.

La storiografia come strumento di propaganda e di legittimazione ed insieme come arma di polemica contro i propri avversari conosce la sua prima grande sta­gione nel Cinquecento, quando la Chiesa di Roma e d i riformatori scelsero il ter­reno della storia per affrontarsi e per combattersi. Non era una novità assoluta. Esempi precedenti di un uso della storia in funzione polemica o propagandistica certamente non mancano. Era però una novità il posto centrale che la storia venne a occupare in quello scontro, così com'era una novità l'imponenza di mezzi e di impegno intellettuale messi in campo. Lutero aveva denunciato in Roma un tradi­mento supremo commesso non per debolezze o nefandezze di singoli ma per tutto un sistema complessivo di dottrine, di culto, di organizzazione che gli uomini nel corso della loro storia erano venuti lentamente costruendo. Nello sviluppo della sto­ria della Chiesa, i protestanti trovavano le ragioni del loro attacco, nella storia dun­que andavano apprestate le difese.

Non si è trattato, però, di una prerogativa esclusiva della storiografia cattolica e della storiografia protestante. Quanto più un'istituzione o un movimento politico o una corrente di ideee intendono ricavare anche dalla storia la propria legittimità tanto più la storia storia diventa facile strumento e occasione di difesa, di attacco e di manipolazione. La storiografia dei lumi ha scelto anch'essa, con tutta evidenza, di svolgere tale funzione, né a tale funzione, mutando segno, si è sottratta la storia­grafia romantica.

Ma in quello stesso contesto di aspra contrapposizione e all'interno di quelli stessi fronti si è prodotto anche un movimento opposto. La consapevolezza che le proprie argomentazioni e le proprie ricostruzioni saranno tanto più efficaci quanto più saranno fondate su testi accertati e sicuri apre la via ali' opera della grande eru-

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Sul ruolo civile dello studio della storia

dizione secentesca e settecentesca. La storia non cessa d'essere terreno di scontro, ma si cominciano ad elaborare criteri per evitarne le manipolazioni e i distorcimen­ti, controproducenti alla lunga per la stessa causa che si intende difendere. Né ci si ferma a questo. Gli esiti sanguinosi e socialmente devastanti dello scontro confes­sionale, le forzature e le distorsioni polemiche operate su entrambi i versanti, sug­geriscono un atteggiamento verso la storia capace di superare le macroscopiche uni­lateralità della storiografia apologetica e controversistica. L'ambizione di potere realizzare una storiografia "imparziale" (Arnold, Mosheim) accompagna il lento costruirsi di uno statuto scientifico per la disciplina.

Un duplice processo parallelo segna, per dir così, l'enorme sviluppo della sto­rio grafia lungo il corso dell'Ottocento. Tale sviluppo trova infatti un potente soste­gno nello stato, e si realizza in primo luogo nell'ambito di istituzioni pubbliche. La ricerca storica e lo studio della storia si configurano come una componente essen­ziale per la formazione di un cittadino, capace di servire lo stato e di operare per il bene pubblico. Il diffuso impegno di scavo e di ricerca verso la "storia patria", che caratterizza l'imponente produzione storiografica e documentaria del periodo, nasce da un atteggiamento spirituale profondo ma corrisponde anche agli orienta­menti dei poteri pubblici che intendono fare della "nazione" e del "patriottismo nazionale" il collante essenziale dell'identificazione collettiva nelle istituzioni.

Il rischio e la ricorrente tentazione, impliciti in tali orientamenti, di strumenta­lizzare lo studio della storia a fini pedagogici o propagandistici, trovarono peraltro un loro antidoto- riallacciandosi all'insegnamento della grande erudizione secente­sca e settecentesca - nel crescente sforzo di definirne lo statuto scientifico, preci­sandone caratteristiche, metodi, limiti e finalità. I risultati raggiunti a questo riguar­do dalla scuola storica positiva rappresentano, penso lo si debba riconoscere, un punto fermo per il lavoro di ogni studioso di storia.

Non si trattò tuttavia, né si poteva trattare, di risultati definitivi. Il percorso per sottrarre lo studio della storia dalla subalternità alle ideologie e alle propagande è ben lontano dall'essere compiuto: sottoposto a permanenti insidie, costantemente rimesso in discussione da polemiche più o meno interessate, esso costituisce tutto­ra un problema aperto per il nostro mestiere. Credo tuttavia che nel lungo lavorio volto ad affinare e a precisare, e conseguentemente a riaffermare e a difendere, lo statuto scientifico della ricerca storica, stia la salvaguardia fondamentale per garan­tire la sua autonomia e perciò la sua funzione nella vita e nella cultura delle società umane.

Lo studioso senza idee, orientamenti, simpatie, antipatie, passioni non esiste: penso anzi che chi si professasse tale sarebbe da guardare con sospetto. Il problema non sarà più, come per un vecchio maestro quarant'anni fa, di "tenere a freno il furi­bondo cavallo ideologico", oggi che tutte le ideologie appaiono così scolorite; ma non per questo è venuta meno la necessità di mantenere ben viva la coscienza di tutti i condizionamenti interiori ed esteriori che ulteriormente limitano e rischiano costantemente di deformare e manipolare il nostro approccio al passato. La consa-

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Giovanni Miccoli

pevolezza di tali condizionamenti costituisce una premessa essenziale per definire i limiti entro i quali si può parlare di una specificità della ricerca storica. In mancan­za di ogni possibile verifica sperimentale è al fondamento documentario della pro­pria ricostruzione e dei propri giudizi soltanto che lo studioso di storia può affidare la garanzia della "scientificità" della propria ricerca.

Indubbiamente noi oggi leggiamo le fonti con occhi ben diversi dai grandi mae­stri della scuola storica positiva; e ben diversi sono i nostri criteri per valutarne le caratteristiche ed i limiti di affidabilità. Lo spettro stesso e la tipologia delle fonti si sono ulteriormente allargati anche rispetto all'ampia ed articolata classificazione offerta dalla Historik del Droysen. Ma non diversamente da quei vecchi maestri è ancora sulle "fonti" e soltanto sulle "fonti", raccolte, analizzate, vagliate, scompo­ste e ricomposte nei loro diversi elementi e nei loro diversi apporti, che ogni stu­dioso di storia fonda la propria ricostruzione e articola le proprie risposte ai diversi problemi storici; così come sulla sua capacità di "leggere" e "interpretare" le fonti, rispettandone la consistenza e lo spessore e nella piena consapevolezza perciò dei termini e dei limiti che permettono loro di contenere e offrire elementi di cono­scenza reale, lo studioso di storia sa che riposa la bontà stessa del suo prodotto. Le "verità" cui egli potrà attingere sono e saranno sempre parziali e limitate. Ma ciò non infirma il fatto che la ricerca storica sia e resti ricerca di verità. Lo rilevava Arnaldo Momigliano una ventina d'anni fa: il fine del lavoro dello studioso di sto­ria, la divisa del suo impegno non può non essere la ricerca della verità, limitata e parziale quanto si vuole, come tutti i prodotti degli uomini, ma non per questo meno reale.

2. E' nota la lunga diffidenza degli storici accademici per gli studi di storia con­temporanea, perchè troppo condizionabili dalle questioni e dai dibattiti del presen­te. Si trattava, per certi aspetti, di una diffidenza poco meditata, nella misura in cui era l'espressione in primo luogo di un rifiuto, il rifiuto di vedere, e sia pure ampli­ficati come in uno specchio, i problemi e le difficoltà che erano anche i loro. Ma per altri aspetti era una diffidenza non ingiustificata, anche se si risolveva in una rimo­zione: perché la storia contemporanea è stata ed è, costantemente, terreno di con­quista e di battaglia dei poteri e delle forze in campo. E' il settore della ricerca sto­rica che più immediatamente risponde ai bisogni propagandistici e di legittimazio­ne e di difesa dei poteri e delle forze politiche, alle loro esigenze di mobilitazione, o, al contrario, di assopimento del corpo sociale.

Lo si è detto a proposito del nazismo, ma lo si sarebbe potuto ripetere, sia pure con graduazioni diverse, anche per altri casi: certi pesi del passato risultano insop­portabili, richiedono dunque una sorta di rimozione dalla memoria collettiva. Ma con quali costi, a più lunga scadenza, con quali perdite per la crescita della coscien­za civile? Non posso nascondere la mia totale diffidenza per le misure amministra­tive che colpiscono idee, orientamenti, scelte ideologiche e politiche: non sono poche le pagine di questo libro che ne offrono un'impressionante esemplificazione

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Sul ruolo civile dello studio della storia

e nel corso di situazioni e di Circostanze che avrebbero dovuto segnare il trionfo di ben altre prospettive e di ben diversi criteri di comportamento. Ma non minore è la mia diffidenza per gli atteggiamenti lenitivi, di rimozione o edulcoramento rispetto alle vicende della società, per le deformazioni "che vogliono aiutare a vivere", per ogni infrazione, fosse pur ispirata alle più nobili motivazioni e finalità, di quegli ele­mentari principi e criteri di verità che sono il fondamento e l'ambizione di ogni ricerca storiografica.

L'intervento di Karl Stuhlpfarrer illustra eloquentemente, nel lungo dopoguerra austriaco, la nascita di un mito, lenitivo del proprio vicino passato, ma anche irri­mediabilmente funzionale alle esigenze politiche dei nuovi poteri, e scoprendone i meccanismi psicologici e culturali ne mostra i rischi per gli orientamenti comples­sivi del corpo sociale. Sono rilievi, osservazioni, analisi - penso sia superfluo rile­varlo - che si potrebbero ripetere per molti altri paesi e per molte altre situazioni. La memoria del ventennio tra le due guerre e di tanti aspetti e vicende della seconda guerra mondiale patisce deformazioni, rimozioni e aggiustamenti funzionali ai nuovi assetti e ai nuovi rapporti di potere: si tratti del regime di Vichy, o del regime nazista, o del fascismo, e della Resistenza, ben presto celebrata come il lavacro purificatore che avrebbe mostrato il vero volto della società italiana. Non è certo un caso che si siano dovuti attendere gli inizi degli anni Novanta per parlare nuova­mente della Resistenza anche in termini di "guerra civile". Negarne tale carattere permetteva di espellere, per dir così, il fascismo dalla storia della società italiana, di eludere il problema del consenso che pur aveva avuto, di rimuovere fastidiose que­stioni sulle sue radici culturali e sociali, sulle sue alleanze, sugli appoggi di cui aveva goduto, sul suo essere espressione durevole di orientamenti profondi del corpo sociale, affatto scomparsi con la sua sconfitta. Il conformismo culturale recla­mato dalle esigenze immediate della politica ha trovato a lungo il proprio compia­cente supporto in un'attività storiografica che giustificava con la sua presunta mili­tanza "antifascista" la propria subalternità ad esigenze che poco o nulla avevano a che fare con quella "conoscenza critica" che costituisce il fine unico della ricerca storica.

Si pagano qui le confusioni spesso interessate tra lavoro storiografico e lavoro politico, quasi che il voler distinguere fra tali ambiti costituisca un indizio di cedi­mento e di rinuncia al proprio impegno civile, e soprattutto si paga qui tutta la debo­lezza strutturale della corporazione degli storici, costantemente soggetti alle pres­sioni e agli allettamenti che il potere politico, nelle sue varie forme ed ed espres­sioni, per la stessa organizzazione della ricerca e degli studi, è in grado di esercita­re. Ma non si tratta solo di questo.

Vi è nella ricerca storica contemporaneistica una difficoltà intrinseca connessa all'enorme accumulo del materiale documentario che costituisce il suo terreno di scavo e di lavoro, alla possibilità stessa di ampliarlo, per dir così, senza fine: la "sto­ria orale" ne offre un esempio lampante. Il problema di scegliere e di selezionare le proprie fonti è per lo studioso di storia contemporanea assolutamente ineludibile. Le

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Giovanni Miccoli

diverse ideologie politiche hanno rappresentato a lungo, da questo punto di vista, un supporto e uno strumento decisivi, offrendo allo storico, oltre ai criteri d'inter­pretazione, anche quelli di selezione e di organizzazione dei dati e delle fonti. Non credo si possa dire che gli esiti sono stati sempre positivi. La tendenza a cercare nelle fonti soprattutto pezze d'appoggio alle proprie tesi generali ha dominato a lungo, implicita o esplicita che fosse, gli studi di storia contemporanea.

E' una stagione per molti aspetti conclusa. La crisi generale delle ideologie poli­tiche ha inferto un colpo mortale ai presupposti nei quali tale tendenza cercava la propria giustificazione. Ma i problemi che il ricorso all'ideologia cercava di risol­vere restano tutti aperti. La difficoltà e la crisi in cui si dibatte la ricerca storica con­temporaneistica, vorrei quasi dire la sua perdita d'identità, derivano da tale situa­zione. Il crescente ricorso a schemi di derivazione sociologica supplisce malamen­te alla perdita delle antiche bussole. Maschera le difficoltà non le risolve. Offre risultati in cui la costruzione a priori anticipa, per non dire sostituisce, al di là delle apparenze, la frastagliata esperienza empirica della realtà.

Più che mai resta attuale il problema delle fonti, come il problema di offrire la possibilità di verificare la fondatezza e le ragioni dei propri percorsi di ricerca e dei propri giudizi ed interpretazioni. E' ovviamente impossibile pensare, per la storia contemporanea, ad un analogo dei "Monumenta Germaniae Historica" o dei "Rerum italicarum scriptores", per limitarsi a due esempi soltanto. Ma qualcosa di più in questa direzione potrebbe e dovrebbe essere fatto. Non è certo un caso che le "Veroffentlichungen der Kommission fiir Zeitgeschichte" sulla storia del cattolice­simo tedesco e delle sue relazioni con il regime nazista abbiano permesso un vero e proprio salto di qualità alle ricerche su tali temi. Ed è altamente significativo il fatto che, pur trattandosi di un gruppo di studiosi fortemente connotato confessio­nalmente, le edizioni documentarie da esso realizzate costituiscano un modello di precisione critica ed editoriale, nel senso che offrono una larga messe di elementi per sottoporre a revisione la linea interpretativa che caratterizza la produzione spe­cificamente storiografica di quel gruppo. Non è una constatazione consueta in que­sto ambito di studi e di problemi, ma sta a dimostrare che il mestiere, se condotto con rigore e onestà intellettuale, può emanciparsi da ogni influenza allotria. E' una strada, penso, che dovrebbe essere seguita: l'unica forse che potrebbe ridare una qualche base sicura ed autonoma alla ricerca contemporaneistica, evitando la babe­lica casualità che troppo sta prevalendo in questo campo.

3. Le relazioni ed i nessi tra studio della storia della storia e cultura politica dipendono da molteplici aspetti: ma principalmente dal ruolo di formazione civile e politica che viene attribuito o che può essere attribuito allo studio della storia. Da questo punto di vista la storia occupa nella tradizione marxista un posto assoluta­mente privilegiato: ma non in essa soltanto. Non è per una stravaganza che Benedetto Croce cercava nella storia le basi e la conferma della sua "religione della libertà". Tutto l'Ottocento liberale ha fatto dello studio della storia una delle com-

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Sul ruolo civile dello studio della storia

ponenti essenziali per la formazione di un cittadino consapevole. D'altra parte gli storici liberali e conservatori hanno sempre accusato i marxisti per il forte condi­zionamento ideologico che caratterizza le loro ricerche, deformandone in senso pro­pagandistico la ricostruzione.

Non c'è dubbio che alcuni casi sono clamorosi: con la Storia del partito comu­nista bolscevico, edita da quel comitato centrale e tradotta in molte lingue, si trava­lica ogni margine di accettabilità per entrare nella più smaccata propaganda. E'indubbiamente un caso limite. Esempi di deformazioni più o meno singolari, derivate dal proprio impianto politico-ideologico, non mancano tuttavia in tutte le scuole e su tutti i versanti. Gerhard Ritter è certamente un grande storico: ma l'e­scludere da parte sua dali' ambito della resistenza tedesca al nazismo i comunisti e il gruppo della "rote Kapelle", perché incline a collaborare con i comunisti, nasce da presupposti ideologici (non può essere ascritto alla resistenza chi intendeva sosti­tuire un totalitarismo con un altro totalitarismo), eredi a loro volta di contrapposi­zioni e fratture maturate fin dagli anni della repubblica di Weimar, prima e più che da un'analisi spassionata dei rapporti e delle forze in campo.

Non ritengo comunque molto produttiva una discussione, che abbia come ogget­to la ricerca storiografica ed i suoi prodotti, concentrata sui principi e sui presuppo­sti generali dell'uno o dell'altro studioso. Ciò che di volta in volta va valutata è la maggiore o minore funzionalità di quei principi e di quei presupposti, applicati in quel determinato modo, per capire e chiarire le vicende e le situazioni fatte oggetto di quel determinato studio: che è ciò che a uno studioso di storia dovrebbe in ulti­ma analisi interessare.

Ma per ciò che riguarda il nessq fra studio della storia e formazione politica o formazione di una cultura politica, la questione centrale sta evidentemente nel modo in cui si intende che tale formazione debba essere raggiunta. Perché se la si intende in termini di crescita delle capacità critiche, di conoscenza spassionata di uomini e cose, la rivendicazione di un tale nesso è pienamente compatibile, direi anzi essen­ziale e connaturata allo studio della storia, fa parte intrinsecamente delle sue fun­zioni e della sua ragion d'essere nella vita delle società umane. Mentre è assoluta­mente inaccettabile ove lo si intenda in termini di formazione e di organizzazione del consenso ( o del dissenso), politico o sociale che sia.

Horst Gies insiste nel suo intervento sul compito di distruzione e di contestazio­ne dei miti vecchi e nuovi che compete alla ricerca storiografica. L'interazione costante tra ricerca storica e memoria collettiva, più o meno deformata e deforman­te, costituisce indubbiamente un aspetto centrale del rapporto che unisce lo studio della storia alla cultura e alla vita morale di una società. Nella misura in cui la defor­mazione della memoria, come la costruzione di miti collettivi, risponde per lo più a interessi politici ben precisi, in funzione di un rafforzamento o di un allargamento del proprio consenso, la ricerca storiografica e lo studio della storia si propongono la costruzione di una cultura politica diversamente fondata e diversamente orienta­ta. Da questo punto di vista si può affermare che sono funzionali ad una crescita

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della democrazia intesa come partecipazione criticamente consapevole dei cittadini alla vita pubblica.

Ma il rapporto tra ricerca storica, studio della storia e cultura e formazione poli­tica non può che essere instabile e dialettico. Il rischio de11la cattura e della defor­mazione propagandistica insidia costantemente il nostro mestiere. Per questo l' af­fermazione e la difesa della sua "gratuità", nel senso che esso non ha di mira imme­diate finalità pratiche ma solo la crescita e l'allargamento delle nostre conoscenze sul passato più o meno prossimo, non significa disimpegno civile ma solo corretta definizione delle sue caratteristiche e delle sue funzioni: della sua specificità nel contesto del lavoro intellettuale degli uomini.

Gratuità della ricerca non significa tuttavia disattenzione ai problemi, alle domande, alle ferite che lacerano la nostra società. Credo sia esssenziale che lo stu­dioso di storia sappia cogliere la centralità che certi temi rivestono, oggettivamente per dir così, nella vita morale e culturale di una società, il rilievo che il prendere coscienza di certi temi e di certe vicende assume nello sviluppo della sua coscien­za morale. Anche qui, credo, non mancano preoccupanti carenze. Troppo spesso la ricerca storica accetta gli accantonamenti e le rimozioni suggerite dagli opportuni­smi del momento. Uomo del proprio tempo, lo studioso di storia si sottrae a fatica agli stereotipi che il proprio tempo reclama a proprio conforto.

Un eloquente esempio a questo proposito è offerto dal modo con cui a lungo il problema dell'antisemitismo e della Shoah è stato affrontato dalla maggior parte della storiografia. L'enormità del crimine e la responsabilità primaria dei nazisti e dell'ideologia nazista nella realizzazione dello sterminio sistematico degli ebrei europei ha oscurato e rimosso il contesto complessivo, ha prodotto una ricostruzio­ne storica rassicurante che non ammetteva altre chiamate di correo. Ma così sono rimasti a lungo in ombra le complicità, le connivenze, il consenso, l'indifferenza che variamente hanno accompagnato l'avvio da parte dei nazisti della persecuzione antiebraica, così come è rimasta fuori dal campo di osservazione quella tradizione diffusa di antisemitismo cristiano e non, da cui quella persecuzione era nata già nel corso degli anni Trenta in Germania come in altri paesi europei.

L'inquietante domanda sulle radici ideologiche e religiose di quell'aspra e spes­so feroce tradizione di intolleranza, così profondamente innervata nella cultura europea, è stata per lo più elusa. Così come si è evitato di chiedersi quale peso anti­semitismo e razzismi più o meno espliciti abbiano avuto nella formazione della coscienza nazionale dei popoli europei. Il libro di Christian Delacampagne (L'invention du racisme) potrà essere giudicato qua e là schematico e non privo di forzature anacronistiche, ma ancora negli anni Ottanta restava pressochè un unicum in quest'ambito di problemi. Sorretta da una storia deformata e falsificata, l'idea di un popolo italiano naturalmente immune da antisemitismo e razzismo ha costituito un luogo comune fino a non molti anni fa.

Non si tratta, sia chiaro, di operare un mero rovesciamento di tali stereotipi ossi­ficati nella coscienza collettiva. Ma di saperli valutare e ridimensionare, critica-

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mente e storicamente, in tutti i loro limiti e in tutte le loro ambiguità più o meno nascoste. Guardare con occhi lucidi e disincantati il più possibile a fondo nelle cose, ai loro processi e ai loro andamenti reali: sta qui il ruolo civile, la funzione civile della ricerca storica e dello studio della storia nelle università.

Altro e diverso problema tuttavia è costituito dall'insegnamento della storia nelle scuole superiori, dove diventano prioritarie, se non prevalenti, urgenze peda­gogiche, questioni di capacità critica e di apprendimento da parte degli allievi e via dicendo. Sono aspetti che non ho la capacità di affrontare. Vorrei solo rilevare che tale insegnamento può costituire un potenziale canale per una ricaduta deformante sulla ricerca storica, per reintrodurvi sottilmente la storia-apologia, la storia-propa­ganda attraverso l'attribuzione di un compito immediatamente pedagogico-politico a tale insegnamento: come sarebbe quello di educare alla democrazia o di rafforza­re la coscienza nazionale e la coesione nazionale e via dicendo. Compiti tutti che possono essere anche nobilmente svolti, ma che tuttavia implicano pressochè ine­vitabilmente, per la logica stessa che li ispira, un ritorno alla storia "mito", ad una storia pedagogica ed edificante, di eroi e reprobi, di buoni e cattivi, capace, grazie a tali modelli, di trasmettere "valori". Indubbiamente la scuola deve farlo. Mi domando però se sia la storia lo strumento più adatto, e soprattutto se un tale modo, più o meno largamente in uso ad opera dei diversi sistemi politici quando non è semplicemente suggerito da un certo conformismo nazionale, non ottenga alla lunga l'effetto opposto, nel momento stesso in cui l'insegnamento e lo studio della storia, invece che trasmettere un discorso di verità, si rivela trasmettere un discorso di pro­paganda, soggetto a tutte le distorsioni e le deformazioni della propaganda. Se per ottenere un certo scopo ed esaltare o presentare certi valori devo raccontare men­zogne o distorcere e manomettere la realtà delle situazioni e delle vicende storiche, non sarà perchè quello scopo e quei valori non sono poi così alti e puri come si vor­rebbe far credere? Il percorso mentale seguito negli ultimi decenni da molti giova­ni italiani, che hanno scelto la militanza nei movimenti neofascisti e della destra o della sinistra eversiva, sembra corrispondere anche a considerazioni di questo tipo, rappresenta la risposta a quella storia maldestramente apologetica che per alcuni decenni ha aduggiato le "celebrazioni" ufficiali dell'antifascismo e della Resistenza, le centinaia e centinaia d'interventi promossi dai docenti "democratici" nelle loro scuole.

Lo studioso di storia, come uomo, come cittadino del suo tempo, ha i suoi orien­tamenti ideali e politici, anche se non credo che generalmente li ricavi dalla sua ricerca. Né credo sia la ricerca la sede più adatta per propagandarli e diffonderli. Credo anzi che il suo lavoro sarà tanto più valido, efficace, persuasivo, quanto più saprà tenerli sotto controllo, quanto più saprà evitare che essi ne influenzino e ne deformino l'andamento. Per questo dubito molto che una storiografia possa e debba utilmente classificarsi e definirsi con aggettivi che ne segnalino l'appartenenza reli­giosa e politica. Non è una scelta d'asetticità, meno che mai di mascheratura, ma di rispetto e di consapevolezza: rispetto per un mestiere, che, valga quello che valga,

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ha le sue regole e le sue funzioni che è doveroso rispettare; consapevolezza che un comportamento diverso produce solo cattiva storiografia ed è controproducente per gli ideali e gli orientamenti stessi che si vorrebbe difendere. Nella ricerca storica la ripulsa e la condanna di determinati sistemi politici e di determinate ideologie deve risultare dall'analisi spassionata delle loro caratteristiche e degli esiti che hanno prodotto nella vita degli uomini e delle società, non da proclamazioni, dichiarazio­ni, esecrazioni. E ci si dovrebbe guardare dalle troppo facili condanne delle scelte compiute dagli uomini nel passato: il moralismo storiografico è fra tutti i moralismi quello forse più squallido, perchè privo di costi personali.

Non so se lo studio della storia ci possa insegnare qualcosa, se la storia possa essere maestra di qualcosa, nel senso degli antichi. Credo però che lo studio della storia ci debba dare una sempre più chiara consapevolezza dei nostri limiti, ci debba e ci possa insegnare ad essere umili.

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Georg G. lggers State University of New York- Buffalo

Storiografia e politica nel XX secolo

Pensando che questa relazione sarà letta all'inizio del convegno, ho deciso di tenere le mie argomentazioni su un piano molto generale e di !imitarle a delle osser­vazioni, che potrebbero essere d'aiuto nel fornire un contesto concettuale, in cui inserire le successive relazioni e le discussioni, che tratteranno degli storici e della storiografia nella transizione dalla dittatura alla democrazia tra il1945 e il 1990. Il mio intento sarà quello di riflettere sulla storiografia non solo in questo periodo, ma più in generale nel XX secolo e non solo nelle dittature, ma anche nelle democra­zie così come le abbiamo conosciute.

Alla base della questione del rapporto tra storiografia e politica nel XX secolo vi è il problema della possibilità dell'obbiettività storica. Dovremmo evitare l'errore di presupporre una differenza di fondo tra il contesto scientifico nelle dittature e quello nelle democrazie. Il termine democrazia deve essere specificato. Quando lo uso intendo non la democrazia in un senso ideale ma i sistemi politici, che si sono sviluppati nell'Europa occidentale a partire dal tardo Settecento e che sono emersi o riemersi nella Repubblica federale di Germania, in Austria e in Italia dal 1945 e nell'Europa centro-orientale dal 1989. Analogamente uso qui il termine socialismo in riferimento al cosiddetto "socialismo reale", ai sistemi che hanno durato nell'Europa orientale e centro-orientale sotto l'egemonia sovietica tra il 1945 e il 1989. Ovviamente una differenza tra i due sistemi esiste, ma nell'area della scien­za e della scrittura storiche essa non è affatto così assoluta come quella che i tipi ideali di democrazia e di dittatura sembrerebbero suggerire. Da tale distinzione tra i due sistemi risulterebbe che nelle dittature la scienza è completamente regola­mentata e ridotta essenzialmente a propaganda e che nelle democrazie, che consen­tono una maggiore iniziativa individuale, esiste un mercato delle idee, che rende possibile una scienza obbiettiva.

La mia tesi è duplice. Da un lato, credo che tutta la storiografia, che abbia pre­tese scientifiche o no, rifletta una prospettiva politica. Questo significa che il meto­do avalutativo (Wertfreiheit), che Max Weber riteneva vincolante per tutti gli scien­ziati sociali, compresi gli storici, non è possibile. 1 Dall'altro lato, sostengo che vi sono criteri che distinguono l'onestà dalla disonestà nelle opere storiche.

Sono state scritte molte cose su quello che Charles Beard, negli anni Trenta del Novecento,2 e, più recentemente, Peter Novick3 hanno deriso come "il nobile sogno" degli storici. Questo "nobile sogno" consisteva nel credere che l'immersi o-

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ne nelle fonti desse la possibilità di ricreare il passato, con le parole di Ranke, "wie es eigentlich gewesen". Questo tentativo di identificare la storia con l'applicazione di metodi rigorosi era parte del processo con cui la storia si affermò come discipli­na accademica nel primo Ottocento. Ranke, Droysen e altri parlarono della storia come di una scienza (Wissenschaft o Geschichtswissenschaft), un termine che fu presto ripreso da quasi tutte le lingue, con la notevole eccezione dell'inglese4

• Gli studi storici furono professionalizzati. L'habitus dello storico divenne uguale a quello dello scienziato naturale. Anche se fu fatta una grande distinzione tra le forme di spiegazione proprie della storia e più in generale delle scienze culturali e quelle delle scienze naturali, il contesto istituzionale entro cui venivano praticati entrambi i tipi di scienza, con l'accento sulla formazione, sullo status professionale e sulla metodologia, era simile. E al centro di entrambe le scienze vi era la creden­za che la ricerca professionalizzata della conoscenza garantisse una conoscenza oggettiva e avalutativa, o, come si esprimeva Ranke, imparziale (unpartheyisch)5

Un aspetto caratteristico della nuova storiografia professionale era la misura in cui essa era ideologica e politica. Storici come Heinrich von Sybel erano fino a un certo punto consapevoli e orgogliosi di questo6 In Germania, la nuova professione storica si dedicò a servire le aspirazioni nazionali e politiche di un Biirgertum, che nel corso del secolo compromise crescentemente i suoi originari principi liberali sostenendo la monarchia autocratica degli Hohenzollern per raggiungere l'unifica­zione nazionale e la stabilità sociale. Si andava negli archivi - Treitschke ne è un buon esempio - per provare quello che si voleva provare. In Francia l'ideologia della nuova professione, che emerse solo dopo il 1870 era differente; essa si identi­ficava infatti con l'eredità della Rivoluzione francese, ma il compito di fornire legit­timità a un ordine politico e sociale era simile. In realtà, nonostante le evidenti dif­ferenze nei sistemi politici, l'ordine sociale della Francia della Terza Repubblica e quello della Germania imperiale avevano molte somiglianze. In entrambi i paesi la professionalizzazione avvenne all'interno di un contesto politico determinato. La fondazione di dipartimenti di storia era strettamente legata al sorgere del nazionali­smo e a una nuova scena politica, in cui le aspirazioni delle classi medie, che rite­nevano di rappresentare la nazione, si univano agli interessi degli stati esistentF.

Ranke, che fu più tardi acclamato persino in America come il "padre della scien­za storica",8 non era certamente né un liberale né un nazionalista, in realtà rimase uno dei pochi veri europei del XIX secolo; ciònonostante egli esemplifica la politi­cizzazione della scienza storica professionale. Gli storici del XVIII secolo, per esempio Gibbon, Hume, Montesquieu, Voltaire, Raynal, Moser e Schl6zer, aveva­no tutti spiccate simpatie politiche, ma non le nascondevano e non rivendicavano per la loro storiografia nessuno statuto scientifico. Ranke si considerava al di sopra delle parti. Tuttavia i suoi pregiudizi erano incorporati negli assunti fondamentali con cui avvicinava le sue fonti. Egli credeva, procedendo dalla critica esterna, riguardante l'autenticità delle fonti a quella interna, riguardante la loro credibilità, di essere in grado di avvicinarsi all'ideale della certezza storica. Tuttavia la sua cri-

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tica delle fonti rimaneva a un livello superficiale, superficiale nel senso che restava alla superficie, senza inoltrarsi in un'analisi in profondità dei rapporti contenuti nelle fonti 9

• Convinto che gli stati consolidati costituissero entità morali, 10 accettava i rapporti diplomatici per lo più per quello che dicevano, senza cercare di decifrare gli interessi che essi riflettevano e di cui gli autori di questi rapporti non erano pie­namente consapevoli. Un rapporto diplomatico è, naturalmente, una narrazione in cui sono entrati elementi soggettivi. Lo stesso vale per tutti i testi. Ogni fonte è per­tanto prospettica. Il carattere prospettico della fonte, come sosterremo più avanti, non inficia necessariamente il suo valore di verità, ma richiede un'analisi in profon­dità. Ranke era convinto della sua imparzialità (Unpartheilichkeit) perché, in modo molto simile a Edmund Burke, egli considerava razionale e morale il mondo evo­lutosi storicamente. 11

Potremmo forse parlare di un paradigma in cui rientra molta della storiografia professionista dal tempo di Ranke fino al XX secolo inoltrato. In parte questo para­digma persiste anche oggi. Le due dittature che considereremo, quella del nazio­nalsocialismo e quella della Repubblica democratica tedesca, hanno modificato le strutture di questo paradigma solo in alcuni aspetti, di cui il più importante è stato, naturalmente, il controllo politico diretto, che esse imposero. A differenza di Jom Rlisen o di Horst-Walter Blanke-Schweers, con "paradigma" non intendo una teo­ria o una metodologia storiografica, ma piuttosto un modello generale, che include la struttura istituzionale e gli assunti fondamentali sulla realtà sociale, che determi­nano la scrittura storica. Nonostante le differenze nella cultura politica in cui la sto­ria fu scritta in Germania, in Francia o negli Stati Uniti, vi erano grandi somiglian­ze. La professionalizzazione assunse forme simili. Caratteristica del professionismo era la pretesa di poter parlare con l'autorità dell'esperto. Gli storici dell'illuminismo avevano rivendicazioni più modeste. In tutto il mondo sorsero istituzioni scientifi­che simili ovunque la storia diventasse una disciplina professionistica. L'esclusione del dilettante significava anche l'esclusione di persone e di punti di vista fuori dal centro del potere accademico. Il processo di reclutamento garantiva un alto grado di conformità sociale ed ideologica. Certi elementi della popolazione furono efficace­mente esclusi dall'accademia. Le donne furono escluse dappertutto, fino a tempi molto recenti. Gli ebrei furono esclusi, fino agli anni Quaranta del Novecento, non solo in Germania, ma anche negli Stati Uniti e in misura più ridotta in Francia. Nonostante le forti differenze nella cultura politica in Germania, Francia, Gran Bretagna e negli Stati Uniti, la scienza storica in tutti questi paesi si concentrò in modo abbastanza restrittivo sugli affari di stato. Inoltre la storia era generalmente vista come un processo progressivo unilineare, in cui gli stati moderni della civiltà occidentale occupavano la scena centrale. Vi era anche un ampio accordo sugli argomenti che erano considerati storicamente significativi. E anche quando l'inte­resse per la politica veniva ampliato fino ad abbracciare le Peuple, come nell'epica descrizione della Rivoluzione francese di Michelet, il popolo doveva conformarsi alle idee della classe media maschile. Questa prospettiva fu in qualche modo

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ampliata alla fine del XIX secolo, quando simultaneamente in Francia, negli Stati Uniti, in Germania, in Polonia, in Belgio e altrove la concentrazione sulla politica lasciò il passo a un maggiore interesse per le strutture economiche e sociali e a un rafforzato interesse per gli aspetti culturali. Ma questa continuò ad essere una cor­rente sotterranea ancora a XX secolo inoltrato.

Fino all'avvento del fascismo in Italia e del nazionalsocialismo in Germania, abbiamo parlato di società relativamente aperte per quanto concerneva la ricerca e la scrittura, almeno nel senso che un intervento diretto del governo mancava o era limitato, sebbene fossero operative le forme meno visibili di disciplina e di control­lo che abbiamo indicato. Non mi sento competente per commentare gli studi stori­ci nell'Italia di Mussolini, sebbene l'esilio di eminenti storici italiani come Gaetano Salvemini e Arnaldo Momigliano sia la prova del carattere repressivo del regime. Il rapporto del regime nazista con l'establishment storico fu molto complesso e molto diverso da quello della RDT socialista. Nel Terzo Reich non si verificò il cambia­mento radicale nel personale storico che ebbe luogo nella RDT. Nel caso del Terzo Reich è in realtà sconvolgente vedere quanto poco fosse cambiata la composizione della professione dopo il 1933. Vi fu un'epurazione selettiva di storici per le loro opinioni democratiche o per la loro origine ebraica. Nel lungo periodo quest'epura­zione costituì per la storiografia tedesca una perdita molto più seria di quanto gli autori tedeschi recenti non abbiano riconosciuto, 12 perché riguardava quegli storici, che avevano sollevato problemi critici riguardo l'adeguatezza del paradigma tradi­zionale e ricercato nuove metodologie. 13 Altri storici più affermati, che deviavano politicamente o metodo logicamente dall'ortodossia dominante, come Franz SchnabeP4 o Johannes Ziekursch,15 furono fatti tacere. Ma la maggior parte degli storici accademici tedeschi ebbe pochi problemi nell'effettuare la transizione verso il regime nazista nel 1933 e dopo, e pochi problemi nella transizione dopo il 1945. Sotto il nazismo vi furono due tendenze storiografiche principali. Una era la Volksgeschichte, che condivideva le opinioni razziste dei nazisti. Degli studiosi con­temporanei l 'hanno difesa e hanno sostenuto che essa fornì importanti contributi allo sviluppo della storia sociale moderna nella Germania post-bellica.16 Partendo dal presupposto che al centro degli studi storici doveva essere il Volk, inteso in ter­mini razziali, non lo stato, i praticanti della Volksgeschichte erano interessati agli aspetti della vita popolare, all'attività economica, ai modelli sociali e alla cultura. Sebbene il regime nazista avesse simpatia per questo approccio, non fece mai degli sforzi molto convinti per dargli una base istituzionale. 17 Il lavoro della maggior parte degli storici tedeschi restò indisturbato. Ciò si verificò perché essi condivide­vano gran parte del clima di consenso creato dai nazisti. 18 Avevano rifiutato la repubblica di Weimar, volevano il ritorno ad uno stato autoritario e chiedevano una revisione radicale del trattato di Versailles. 19 I nazisti non avevano bisogno di irre­gimentarli. L'establishment accademico tedesco aveva, fin dalla disputa su Lamprecht negli anni Novanta dell'Ottocento,20 rifiutato vigorosamente i tentativi di mettere un maggiore accento sulla società e sulla cultura negli studi storici, per-

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ché li associava al socialismo e al marxismo. Nel Terzo Reich questo establishment coesistette amichevolmente con gli esponenti della Volksgeschichte, che si occupa­vano anche loro della società e della cultura, ma con un approccio più romantico e diverso da quello delle scienze sociali analitiche e con idee politiche simili alle sue.21

La situazione nella zona d'occupazione sovietica e, dopo il1949, nella RDT, la cosiddetta "seconda dittatura tedesca" fu molto differente. Mentre il regime nazista si fondava su un'insolita combinazione di consenso e di terrore, nella RDT il con­senso era assente e negli anni post-staliniani il terrore fu messo in sordina. Il con­trollo diretto, che aveva un ruolo molto più grande che nel regime nazista, fu anni­presente dal ritorno dei capi della KPD al seguito dell'Armata rossa nel 1945 fino alla caduta del Muro nel 1989. Senza dubbio vari storici che andarono nella metà orientale della Germania nel1945 o poco dopo, tornando dall'esilio in Occidente o nell'Unione Sovietica o venendo fuori da una prigione nazista, lo fecero per la loro convinzione marxista che la RDT rappresentasse una società migliore.22 Vi era anche una generazione più giovane di uomini e di donne, che divennero legati alla RDT in conseguenza delle esperienze del nazismo e della guerra e che ritenevano che la società tedesca, che esisteva prima della guerra e che a loro avviso persiste­va nella Repubblica Federale del dopoguerra, fosse responsabile per i terrori del fascismo. Fritz Klein ha recentemente descritto in modo eloquente la sua conver­sione al marxismo e alla RDT in questi termini.23 E poi vi era una generazione anco­ra più giovane di storici, che crebbe nella RDT e trasse vantaggio dai benefici che questo stato riservava ai suoi intellettuali. Nonostante i suoi strenui tentativi di incorporare i simboli del nazionalismo tedesco,24 la RDT non riuscì ad indossare un manto di legittimità nazionale come avevano fatto i nazisti.

Nonostante le somiglianze negli organi di controllo e di repressione dei due sistemi, dalla censura, al ruolo del partito, fino ai campi di concentramento, essi dif­ferirono fondamentalmente nel modo in cui influenzarono il lavoro degli storici. Gli storici nella RDT erano sia più irregimentati che meno terrorizzati di quelli nel Terzo Reich. La probabilità che pagassero con la vita il non conformismo erano minime, dopo i primi anni della RDT, e le prospettive d'imprigionamento declina­rono nel periodo più tardo della RDT. Invece un'intera serie di misure e di pratiche disciplinari sbarrava loro la carriera se non si conformavano. Nella RDT persistet­tero degli elementi del paradigma tradizionale, compreso molto dell'ethos e del­l'habitus del professionismo. Così restava l'insistenza sul fatto che la storia fosse una scienza rigorosa con pretese d' autorità. L'ideologia del marxismo o piuttosto di una versione marxista-leninista di esso sostituì quella dello storicismo. Gli stori­ci della RDT lavorarono negli archivi in modo molto simile a quanto avevano fatto gli storici dopo Ranke; e in modo molto simile a quello degli storici tedeschi del XIX secolo cercavano nei documenti delle conferme alle loro idee politiche. Nonostante il loro marxismo, essi si spinsero molto meno avanti di molti degli sto­rici sociali e culturali occidentali nel criticare il primato di una storia politica con-

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cepita restrittivamente. Il controllo degli studiosi rese possibile strumentalizzare la scienza storica e la dottrina marxista per servire i bisogni politici quotidiani del regime, soprattutto nel suo confronto con l'Ovest. Tuttavia nella RDT gli studi sto­rici non furono irregimentati in modo più totale di quanto lo fossero stati nel Terzo Reich. Entro certi limiti vi fu la possibilità di lavori innovativi.25 Di questo parlere­mo ancora più avanti.

Né la fine della dittatura nella parte occidentale della Germania nel 1945 né quella nella parte orientale nel1989 significarono il ritorno ad una discussione libe­ra da condizionamenti ideologici. Abbiamo già brevemente menzionato la transi­zione nella Germania occidentale dopo il1945. Il cambiamento nella composizio­ne personale della professione storica fu persino più minuscolo che nel 1933. Gli storici d'idee democratiche, che erano stati esiliati dopo il 1933 non tornarono in Germania.26 Fu screditata l'ideologia volkisch nazista, ma non gli storici che l'ave­vano sostenuta, i quali furono quasi tutti prontamente riabilitati. La Volksgeschichte popolare nel periodo nazista fu spogliata dei suoi aspetti razzisti e rifondata dai suoi sostenitori come una nuova storia sociale che ora si concentrava sulla società indu­striale invece che sui contadini premoderni, ma che, come la vecchia Volksgeschichte, sposava la concezione di una comunità nazionale organica priva di conflitti di fondo. 27 Storici come Gerhard Ritter e Hans Rothfels, che avevano rap­presentato posizioni conservatrici e fortemente nazionaliste prima dell'avvento al potere del nazismo - e che tra parentesi avevano impedito nel 1931 per motivi ideologici la Habilitation di Eckart Kehr, forse il più brillante dei giovani storici sociali tedeschi dell'epoca- occupavano dopo il 1945 le posizioni chiave nella professione storica.28 Hans Freyer, il sociologo che con Gunther Ipsen aveva dato vita alla Volksgeschichte, ebbe un ruolo importante nei primi incontri del dopo­guerra della professione storica tedesco-occidentale.29 Negli anni Cinquanta il testi­mone passò dagli storici conservatori tradizionali a una generazione più giovane, quella di Werner Conze, Theodor Schieder e Otto Brunner, che erano stati formati da Hans Freyer e da Gunther Ipsen e che avevano iniziato le loro carriere sotto i nazisti. Dopo essersi purificati politicamente, essi divennero negli anni Cinquanta e Sessanta i mentori di una nuova generazione di storici sociali.30

Una questione che deve essere posta è quanto fosse aperta alla libera discussio­ne e al dissenso l'accademia tedesco-occidentale del dopoguerra. La regolamenta­zione e l'intervento diretto da parte del partito e dello stato erano naturalmente ces­sati, ma restavano alloro posto le strutture di controllo e di reclutamento che la pro­fessione storica della repubblica di Weimar aveva ripreso dalla Germania imperia­le. Mentre non vi furono ostacoli per la maggior parte degli ex nazisti, a Walter Markov, un comunista che aveva trascorso dieci anni nelle prigioni naziste fu nega­ta nel 1946 l'opportunità di una Habilitation a Bonn.31 Nuovo direttore della "Historische Zeitschrift" divenne Ludwig Dehio, che aveva egli stesso subìto delle persecuzioni sotto il nazismo per i suoi ascendenti ebraici e che nel 1946 scrisse sulle con sequenze disastrose d eli' aspirazione tedesca ali' egemonia. 32 Ma Winfried

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Schulze ha documentato i ripetuti casi in cui Gerhard Ritter impedì la pubblicazio­ne nella "Historische Zeitschrift" di articoli che sollevavano la questione della responsabilità tedesca, compreso un elogio funebre di Mare Bloch, che era stato assassinato dalle truppe tedesche in Francia nel 1944.33 Soltanto gli anni Sessanta videro il sorgere di un maggiore pluralismo, quando una generazione più giovane di storici con un forte senso di responsabilità per il passato tedesco fece breccia nel­l'angusto modello dominante.34

Dopo la caduta della RDT, "la seconda dittatura tedesca", la storiografia fu sot­toposta a cambiamenti molto più radicali di quelli che avevano caratterizzato la fine della dittatura nazista. Così come dopo il 1945 vi era stato nella Germania Orientale un cambiamento quasi totale nella composizione personale della disciplina, anche ora vi fu un cambiamento quasi altrettanto esteso. L'Accademia delle Scienze della RDT, che comprendeva quattro istituti storici e costituiva il principale centro di ricerca nella RDT, fu completamente disciolta; la maggior parte degli storici nelle università furono licenziati e nella maggioranza dei casi sostituiti da studiosi tede­sco-occidentali. I licenziamenti riguardavano non solo persone che erano politica­mente compromesse a causa dei loro stretti legami con il precedente regime, ma anche molti che erano risultati privi di responsabilità politiche. Dopo che l'accesso ai posti fu reso libero, alla competizione per i posti vacanti furono applicati i crite­ri validi per le istituzioni accademiche tedesco-occidentali. In questi posti furono nominati molto pochi storici della vecchia RDT.35 Questo non significò l'imposi­zione di un nuovo conformismo ideologico. In realtà le nomine alla Humboldt UniversiUi.t a Berlino, a Jena, Potsdam e Francoforte sull'Oder riflettono la varietà di punti di vista storiografici esistente nella Repubblica Federale. Tuttavia il pro­cesso di reintegrazione dell'Est nella Germania unificata implicò che all'Est fu imposto in blocco il sistema scientifico occidentale, in un momento in cui i limiti di questo sistema erano stati ampiamente riconosciuti. Senza considerare il loro valo­re scientifico, furono eliminati metodi storiografici che avrebbero potuto mettere in discussione modi di pensiero consolidati all'Ovest.

Questo significa dunque che, dato che ogni studio storico è guidato dall' ideolo­gia, tutta la conoscenza storica è relativa e perciò ogni speranza di comprendere il passato è completamente illusoria, che tutte le rappresentazioni storiche sono pro­dotti dell'immaginazione? Significa dunque inoltre che, poiché non solo nella dit­tatura, ma anche nelle democrazie sono presenti elementi di controllo, le condizio­ni dello studio storico sono essenzialmente le stesse in entrambi? La mia risposta ad entrambe le domande è un no deciso.

Gli ultimi trent'anni hanno visto importanti mutamenti nel paradigma che ha dominato gli studi storici dall'inizio del XIX secolo. Ma il contesto istituzionale è rimasto fondamentalmente immutato. Sebbene ci siano stati tentativi, come nel movimento dello "History Workshop"/6 di uscire dai confini dell'accademia, la maggior parte della ricerca storica, compresa quella che si muove in direzioni alter­native, è ancora condotta nelle università da uomini, e ora in maniera crescente

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anche da donne, che si considerano dei professionisti. L'habitus della ricerca stori­ca resta in gran parte invariato. I modelli di carriera restano simili, le aspettative sociali sono poco cambiate, le idee su ciò che costituisce la produttività scientifica restano in gran parte le stesse. Tuttavia negli studi storici è stato introdotto un gran numero di nuove prospettive. Queste prospettive riflettono delle critiche all'imma­gine della società che caratterizzava il paradigma tradizionale.

Il marxismo ha fornito forse l'alternativa più importante al paradigma consoli­dato. Ma sebbene il marxismo sottolineasse gli aspetti di classe e di conflitto nella società, esso operava con concezioni dello sviluppo storico e dell'obbiettività scien­tifica che si adattavano bene al paradigma. Sia la visione classica che quella marxi­sta della scienza storica persero molta della loro attrattiva già negli anni Sessanta, quando pensatori provenienti da molte diverse direzioni videro la società, la cultu­ra e la politica in nuovi modi. Michel Foucault è forse più rappresentativo di questa nuova consapevolezza di quanto lo sia Karl Marx. Sia Ranke che Marx si erano concentrati sulle grandi istituzioni e sulle strutture al centro della società, sullo stato e, nel caso di Marx, sulle interazioni tra stato ed economia; entrambi concepivano il potere in termini di controllo centralizzato. I nuovi critici vedevano il potere ope­rare negli interstizi della vità quotidiana. Quei segmenti della popolazione che erano stati trascurati sia nella visione storicista che in quella marxista, come le minoran­ze etniche, le classi inferiori e le donne, cercavano ora di introdurre nuove prospet­tive da cui vedere la storia. Le concezioni macrostoriche, comprese quelle di cre­scita e di progresso, che erano state centrali nel paradigma tradizionale e nel marxi­smo, non erano più convincenti, né lo era la loro concezione della scienza.

Una vittima del nuovo scetticismo fu la credenza nell'obbiettività storica. Le grandi narrazioni, nelle quali la storia appariva come un tutto unico con una dire­zione comprensibile lasciarono il posto a visioni in cui la storia appariva frammen­taria. Lutz Niethammer ha riassunto molte di queste discussioni in un libro recente, in cui si è chiesto se la storia fosse giunta ad una fine e se vivessimo ormai in un mondo post-storico. 37 Egli ha giustamente dato una risposta negativa a questa domanda, mettendo in evidenza che le storie che si concentrano non sui grandi con­testi ma sul livello delle vite e delle memorie di quelli che erano stati nell'ombra della storia hanno ugualmente senso. La possibilità della conoscenza storica ogget­tiva è stata messa in discussione su due piani. Il primo è la critica ideologica della scienza, la comprensione del fatto che la scienza non trasmette una conoscenza ava­lutativa, ma riflette interessi che deviano il conoscere e rendono la conoscenza un mezzo di controllo sociale e culturale. Sia Nietzsche che Foucault hanno pertanto equiparato la conoscenza al potere.38 Questo è stato anche un dogma centrale della Teoria critica della Scuola di Francoforte.39 Collegata a questa vi è una critica più specifica della conoscenza storica. Vi è stato un massiccio attacco all'idea che i testi storici siano capaci di ricreare il passato storico. Al centro di questa critica vi è l'i­dea che non vi sia una realtà al di fuori del linguaggio, che il linguaggio delimiti la realtà.40 Questa tesi ha assunto varie forme. Riconoscendo che non soltanto i testi

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storici, ma anche le fonti storiche sono opere letterarie, Hayden White ha sostenu­to che ogni scritto storico è un prodotto dell'immaginazione letteraria e quindi non differisce in modo sostanziale dagli altri testi letterari.4

' In questo modo l'uso tradi­zionale dei documenti diventerebbe privo di senso.

La tesi che non vi sia una realtà storica è legata alla convinzione che tutta la conoscenza storica sia prospettica. Concordo sul fatto che il passato è sempre visto dalla prospettiva di chi guarda. Quest'idea non ha nulla di nuovo.42 Visto dalla pro­spettiva dei rapporti di genere, il passato appare in modo differente da quando viene visto dalla prospettiva marxiana della lotta di classe o da quella dell'equilibrio delle potenze di Ranke.43 Ma, come ha sostenuto Max Weber, la ricerca scientifica pre­suppone che il ricercatore abbia una prospettiva da cui formulare le sue domande. La conseguenza è che non vi è una storia sola, ma una molteplicità di resoconti che rivelano vari aspetti del passato. Ritornando alla storiografia della RDT, ricordo che se la sua ideologia marxista o marxista-leninista può aver limitato la sua visione, essa ha anche in vari casi dato rilevanti contributi all'analisi sociale e politica del passato tedesco. Gli studi delle forze che hanno portato allo scoppio della prima guerra mondiale sulla base di un'attenta analisi documentaria guidata dalla teoria marxista-leninista dell'imperialismo hanno dato origine a problematiche sull'inte­razione dei fattori economici e politici che sono state riprese dalla storiografia occi­dentale.44 Analogamente gli studi di etnologia della RDT hanno accertato un rap­porto tra strutture economiche e vita culturale molto più stretto di quello stabilito dalla maggior parte degli studi occidentali di antropologia culturale o di storia della mentalità.45 Dopo Kant è quasi banale notare che non possiamo mai raggiungere la realtà come essa realmente è, la "Ding an sich", ma la conosciamo sempre solo con la mediazione della nostra ragione. Frank Ankersmith ha sostenuto che tutta la sto­ria è una metafora,46 ma una metafora si riferisce sempre a qualcosa di reale che essa desidera descrivere. Un esempio dei dilemmi, che teorici come Hayden White, i quali mettono radicalmente in dubbio la possibilità della conoscenza oggettiva, devono affrontare è il fatto che essi non possono rispondere alle asserzioni degli antisemiti, che affermano che l'Olocausto non è mai avvenuto.47 La propaganda potrebbe pertanto rivendicare la stessa validità della ricerca storica onesta.

Il pluralismo delle prospettive storiche non esclude la possibilità dell'onestà intellettuale. Le differenti interpretazioni spesso si completano a vicenda piuttosto che contraddirsi. L'emergere di nuove prospettive storiche, quella femminista, quel­la etnica e altre, ha arricchito la nostra conoscenza del passato; tuttavia queste pro­spettive hanno anche portato in sé il pericolo di nuovi miti, che distorcono la nostra comprensione del passato proprio come hanno fatto il mito della storiografia tradi­zionale e quello del marxismo. Essi vanno ad unirsi al mito nazionalistico e a quel­lo classista degli storici tradizionali del diciannovesimo e del XX secolo. Fin dai primi giorni dell'umanità, il comportamento politico sembra sempre aver avuto bisogno di una comprensione mitica del passato che gli conferisse legittimità. Le epiche classiche, incluso il Vecchio Testamento, ne sono degli esempi. Gli studi sto-

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rici contribuirono in modo simile alla creazione di miti, non appena divennero una disciplina scientifica nel XIX secolo. Dobbiamo soltanto pensare a grandi creatori di miti come Michelet e Treitschke. Le grandi dittature del XX secolo - fascismo, nazismo, franchismo e comunismo - sono tutte costruite su miti storici. Mentre la ricerca storica non può mai raggiungere il finalismo che Ranke aveva in mente quando cercò di mostrare wie es eigentlich gewesen, essa può entro certi limiti cer­care di mostrare wie es eigentlich nicht gewesen. Abbiamo un sufficiente orienta­mento nel mondo in cui viviamo e un sufficiente senso comune per criticare ciò che che appare falso. Concordo con Karl Popper che raramente è possibile stabilire cosa è vero, ma che qualche volta è possibile mostrare cosa è falso. Una buona parte del­l'apparato critico del vecchio paradigma resta utile. Al livello dell'esame critico della documentazione esiste la possibilità di un discorso comune tra storici le cui visioni del mondo e i cui valori siano altrimenti differenti. Uno dei compiti princi­pali dello storico dovrebbe essere lo smascheramento dei miti storici.

Questo mi porta alla questione della democrazia e della dittatura. Certamente dobbiamo distinguere tra le democrazie che conosciamo e il concetto di una società aperta democratica come ideale o tipo ideale. Abbiamo indicato i limiti dell'apertu­ra nelle società democratiche passate e presenti. Tuttavia vi sono almeno delle dif­ferenze relative. Nonostante le restrizioni che vi esistono, le società democratiche portano in sé le condizioni per il pluralismo e per la libera espressione e insieme a questi per I' onestà intellettuale, che in loro sono infinitamente più grandi di quan­to furono nelle due dittature che abbiamo confrontato.

Note

l. In un passo famoso Weber aveva affermato che esiste una logica della ricerca sociale universal­mente valida, così che "una dimostrazione scientifica corretta nelle scienze sociali deve esser ricono­sciuta come giusta anche da un cinese mentre a lui può mancare la sensibilità per i nostri imperativi etici." (Die "Objektivitat" sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in Gesammelte Aufsatze zur Wissenschaftslehre, Tiibingen 1951, p. 175.; trad. it., L"'oggettività" conoscitiva delle scienze sociali e della politica sociale, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino 1958, ristam­pa Milano 1974, p. 66).

2. Ch. Beard, That Noble Dream, "American Historical Review", 41, 1935, pp. 74 87.

3. P. Novik, The "Objectivity Question" and the American Historical Profession, Cambridge 1988.

4. In inglese si parla normalmente di historical scholarship o historical studies (studi storici).

5. Si veda L. v. Ranke, Idee der Universalhistorie, in L. von Ranke, Vorlesungseinleitungen, a cura di

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V. Dotterweich e W. P. Fuchs, Miinchen 1975, pp. 80-82.

6. H. von Sybe1, Ùber den Stand der neueren deutschen Geschichtsschreibung (1856), in Kleine histo­rische Schriften, Miinchen 1863, pp. 355 s.

7. W. R. Keylor, Academy and Community: The Foundation of the French Historica1 Profession, Cambridge, Mass. 1975; Ch. Simon, Staat und Geschichtswissenschaft in Deutschland und Frankreich 1871 1914. Situation und Werk von Geschichtsprofessoren an den Universitaten Berlin, Miinchen, Paris, 2 voli, Miinchen 1988; G. G. lggers, Geschichtswissenschaft in Deutschland und Frankreich 1830 bis 1918 und die Rolle der Sozialgeschichte. Ein Vergleich zwischen zwei Traditionen biirgerli­cher Geschichtsschreibung, in J. Kocka (ed), Biirgertum im 19. Jahrhundert, Miinchen 1988, vol. 3, pp. 175-199.

8. Si veda G. G. Iggers, The Image of Ranke in American and German Historical Thought, in "History and Theory", 2, 1962, pp. 17-40.

9. Si veda G. Benzoni, Ranke's Favourite Source. The Venetian Relazioni, in G. G. lggers - J. M. Powell (ed d), Leopold von Ranke an d the Shaping of the Historical Discipline, Syracuse 1990, pp. 45-57.

10. Si veda L. von Ranke, Politisches Gesprach (1836), in Samtliche Werke, 2 ed., vol. 49-50, Leipzig 1887, pp. 314-339.

11. L. von Ranke, Ùber die Verwandschaft und den Unterschied der Historie und der Politik (1836), in Samtliche Werke, 2 ed., vol. 24, Leipzig 1876, pp. 280-293.

12. Cfr. P. Th. Walther, Von Meinecke bis Beard? Die nach 1933 indie USA emigrierten deutschen Historiker, Ph. D. Diss., State University of New York at Buffalo 1989; G. G. lggers, Die deutschen Historiker in der Emigration, in B. Faulenbach (ed), Geschichtswissenschaft in Deutschland, Miinchen 1974, pp. 97-111, 181-183.

13. Si veda G. G. Iggers, Introduction, in dello stesso, The Social History of Politics. Criticai Perspectives in Historical Writing since 1945, Leamington Spa 1985, pp. 1-48.

14. Si veda L. Gal!, Franz Schnabel, in H. Lehmann- J. Van Horn Melton (edd), Path of Continuity: Centrai European Historigraphy from the 1930s to the 1950s, Cambridge 1994, pp. 155-166.

15. Si veda H. Schleier, Johannes Ziekursch, in H. Schleier, Die biirgerliche Geschichtsschreibung der Weimarer Republik, Berlin 1975, pp. 299-352.

16. Si veda W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, Miinchen 1989; inoltre H. Lehmann - J. V an Horn Mel ton ( edd), Paths of Continuity, ci t. Sulla Volksgeschichte si veda anche W.

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Oberkrome, Volksgeschichte. Methodische Innovationen und volkische Ideologisierung in der deut­schen Geschichtswissenschaft 1918-1945, Gottingen 1993.

17. Si veda H. Heiber, Wa1ter Frank und sein Reichsinstitut fiir Geschichte des neuen Deutschlands, Stuttgart 1966.

18. Si veda K. F. Wemer, Das NS-Geschichtsbild und die deutsche Geschichtswissenschaft, Stuttgart 1967.

19. Si veda B. Faulenbach, Ideologie des deutschen Weges. Die deutsche Geschichte in der Historiographie zwischen Kaiserreich und Nationalsozialismus, Miinchen 1980.

20. Si veda R. Chickering, Karl Lamprecht. A German Academic Life (1856 1915), Atlantic Highlands, N.J. 1993; sul reclutamento dei professori universitari tedeschi e sulla creazione o l'impo­sizione del consenso si veda W. Weber, Priester der Klio. Historisch-sozialwissenschaftliche Studien zur Herkunft und Karriere deutscher Historiker und zur Geschichte der Geschichtswissenschaft 1800-1970, Frankfurt/M. 1984.

21. V. W. Oberkrome, Volksgeschichte, cit.

22. Si veda H. Mayer, Der Turm von Babel. Erinnerung an eine Deutsche Demokratische Republik, Frankfurt am Main 1991.

23. F. Klein, Der Erste Weltkrieg in der Geschichtswissenschaft der DDR, in "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", 42, 1994, pp. 293-301.

24. Si veda A. Nothangle, Historical Myth Building and Youth Propaganda in the Soviet Zone of Germany and the German Democratic Republuc, 1945-1989, Ph. D. Dissertation, State University of New York at Buffalo 1994; J. H. Brinks, Die DDR Geschichtswissenschaft auf dem Weg zur deutschen Einheit. Luther, Friedrich II und Bismarck als Paradigmen politischen Wandels, Frankfurt 1992.

25. Si veda G. G. Iggers (ed), Marxist Historiography in Trasformation. East German Social History in the 1980s, Providence 1991; ed. ted. leggermente modificata, Ein anderer historischer Blick. Beispiele ostdeutscher Sozialgeschichte, Frankfurt 1991. Sulla storiografia della RDT cfr. A. Fischer -G. Heydemann (edd), Geschichtswissenschaft in der DDR, 2 voli., Berlin 1988-90.

26. Si veda W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit.; inoltre C. Epstein, A Past Renewed. A Catalog of German-Speaking Historians in the United States after 1933, Cambridge 1993.

27. Si veda W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit.

28. Sugli sforzi di Ritter per bloccare la Habilitation di Kehr cfr. H. U. Wehler, Geschichtswissenschaft

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beute, in J. Habermas (ed), Stichworte zur "Geistigen Situation der Zeit", Frankfurt 1979, vol. 2, p. 721.

29. Si veda W.Schulze, Geschichtswissenschaft nach 1945, cit.; inoltre J. Z. Miiller, Hans Freyer (1887-1969) and the Genealogy of Social History in West Germany, in H. Lehmann- J. Van Horn Melton (edd), Paths ofContinuity, cit., pp. 197-229.

30. Si veda G. G. lggers, Introduction, in dello stesso (ed), The Social History of Politics, ci t.

31. Si veda G. G. lggers, Einleitung, in dello stesso (ed), Ein anderer historischer Blick, cit., p.9; cfr. anche la lettera di Walter Markov a Georg G. lggers in data 25 giugno 1990.

32. L. Dehio, The Precarious Balance. Four Centuries of the European Power Struggle, New York 1965; ed. or., Gleichgewicht oder Hegemonie. Ùber ein Grundproblem der neueren Staatengeschichte, Krefeld 1960; trad. it., Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della politica moderna, Bologna 1988; dello stesso, Germany and World Politics in the Twentieth Century, New York 1967; ed. or., Deutschland und die Weltpolitik im 20. Jahrhundert, Miinchen 1955; trad. it., La Germania e la politica mondiale del XX secolo, Milano 1962.

33. Secondo Schulze, di fronte alle critiche per aver ignorato la morte di Bloch, Ritter chiese infine a Walter Kienast, condirettore della "Historische Zeitschrift" dopo i11935 e membro del partito nazista, di scrivere il necrologio che fu pubblicato nella "Historische Zeitschrift", 170, 1950, pp. 223-225. Si veda W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., p. 170.

34. Si veda G. G. lggers, Introduction,in dello stesso (ed), Social History of Politics, ci t.

35. Essi comprendono Hartmut Harnisch alla Humboldt-Universitat, Jan Peters all'Università di Potsdam, Helga Schultz all'Università Viadrina di Francoforte suli'Oder e Hartmut Zwahr all'Università di Lipsia.

36. Si vedano le riviste "Geschichtswerkstatt" e "WerkstattGeschichte" sul modello dello "History Workshop" britannico e molti altri "history workshops" locali in tutta la Germania, la Gran Bretagna, la Scandinavia e altrove.

37. Posthistoire: Has History Come to an End?, London 1992; ed. or., Posthistoire: 1st die Geschichte zu End e, Reinbek 1989.

38. Si veda A. Megill, Prophets of Modernity: Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida, Berkeley 1985.

39. Si veda M. Jay, The Dialectical lmagination: A History of the Frankfurt School and the Institute of Social Research 1923-1950, Boston 1973; trad. it., L'immaginazione dialettica, Torino 1979.

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40. Si veda G. Spiegel, History, Historicism and the Social Logic of the Text in the Middle Ages, "Speculum", 65, 1990, pp. 59-86; v. anche Chr. Conrad M. Kessel (edd), Geschichte schreiben in der Postmoderne. Beitrage zur aktuellen Diskussion, Stuttgart 1994.

41. Si veda H.White, Metahistory. The Historical lmagination in Nineteenth Century Europe, Baltimore 1973; trad. i t., Retorica e storia, Napoli 1973; dello stesso, Tropics of Discourse. Essay in Cultura! Criticism, Baltimore 1978; dello stesso, The Content of the Form. Narrative Discourse and Historical Representation, Baltimore 1987.

42. Si vedano p. es. i testi scelti di Chladenius e Gatterer in H. W. Blanke e D. Fleischer, Theoretiker der Aufklarung, vol. 2, Stuttgart 1990; cfr. anche gli scritti di sociologia della conoscenza di Karl Mannheim.

43. Si veda p. es. J. W. Scott, Gender and the Politics of History, Princeton 1988.

44. Si veda J. A. Moses, The Politics of Illusion. The Fischer Controversy in German Historiography, New York 1975.

45. Si veda G. G. lggers (ed.), Historiography in Trasformation, cit.

46. F. R. Ankersmith, Historism. An Attempt at Synthesis, in via di pubblicazione in "History and Theory", 35, 1995.

47. Si veda H. White, Historical Emplotment and the Problem ofTruth, in S. Friedlander (ed), Probing the Limits of Representation. Nazism and the "Fina! Solution", Cambridge, Mass., 1992, pp. 37-53.

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II La transizione dai regimi

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Gianpasquale Santomassimo Università di Siena

Gli storici italiani tra fascismo e repubblica

"Come mai gli Italiani, gli epigoni dei patriotti del Risorgimento; gli Italiani che erano il popolo, forse, politicamente più libero tra le genti di Europa; il popolo più insofferente di tirannie spirituali; come poterono assoggettarsi al fascismo e tolle­rado, e mostrar di onorario per tanti anni? -Per quali vie, con quali incantesimi il fascismo si impose sulla vostra Italia? Quando, e per quali motivi, cominciò la sua decadenza? E perché mai non poteste ribellarvi prima del nostro arrivo e della vostra sconfitta militare?"

Erano le domande, forse retoriche e ingenue, che un soldato americano rivolge­va a un anziano storico italiano e da cui prendeva le mosse il libro epistolare di Corrado Barbagallo, che costituiva il primo tentativo di proporre un quadro com­plessivo del fascismo da parte della storiografia italiana.'

La stessa scarsa fortuna di questo libro, che peraltro alternava notazioni acute ad altre molto superficiali, era un segnale della difficoltà, e, per certi aspetti, anche dello scarso interesse nello studiare e definire il fascismo immediatamente dopo la Liberazione.

Già alla caduta del fascismo l'uomo di cultura che aveva quasi simboleggiato l'opposizione degli intellettuali al regime evidenziava la volontà di voltare pagina, quasi di cancellare dalla mente, per quanto possibile, quel recente passato.

"Il senso che provo -scriveva Benedetto Croce la sera del25 luglio 1943 nel suo Diario- è della liberazione di un male che gravava sul centro dell'anima: restano i mali derivati e i pericoli; ma quel male non tornerà più". E aggiungeva due giorni dopo: "il fascismo mi appare già un passato, un ciclo chiuso, e io non assaporo il piacere della vendetta. Ma l'Italia è un presente doloroso". 2

In seguito, Croce parlerà del fascismo come di una "parentesi" nell'ordinato svi­luppo della società italiana, di una "invasione degli Hyksos", non destinata a lasciar tracce se non effimere.

Va registrata una fugace apparizione nella cultura italiana di quella tematica delle "responsabilità collettive", che dopo lunghi anni di rimozione la cultura tede­sca avrebbe in seguito dovuto affrontare. Si affaccia in alcuni spunti di Concetto Marchesi e Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma verrà poi quasi sopraffatta dall'avvio di una retorica resistenziale, che nelle sue manifestazioni "ufficiali", virate spesso in chiave nazionalistica, non tenderà solo a rivendicare i meriti dei partigiani italia­ni, ma anche ad utilizzare la lotta di liberazione quale strumento di assoluzione indi-

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Gianpasquale Santomassimo

scriminata e di occultamento di responsabilità. In questi anni è' molto più intensa ed operosa, comprensibilmente, la ricerca in

parte archivistica e in parte storiografica sulla Resistenza, che inizia fin dal 1943 accompagnando le tappe della liberazione della penisola e che sfocia presto in alcu­ni tentativi di sintesi;3 e che in seguito, nel1953, approderà al primo vero e proprio "classico" - di grande valore, anche letterario - di Roberto Battaglia, che già aveva impostato in termini storiografici le dimensioni del problema costituito dalla Resistenza nella storia d'Italia.4 E' significativo che l'opera di Battaglia si aprisse con un esplicito riconoscimento delle "basi di massa" del fascismo italiano: una sot­tolineatura, all'epoca, così singolare e dissonante da passare pressoché inosservata.5

Non erano mancati spunti- o semplici suggerimenti- di analisi del fascismo; si pensi alla definizione che già nel1945 coniava Carlo Morandi del fascismo come di una nuova destra "armata della tecnica modernissima dei rivoluzionari per con­quistare il potere, e di quella ben nota degli antichi despoti per mantenerlo a qua­lunque costo".6 E l'emigrazione antifascista, nelle sue varie componenti, aveva pro­dotto pur nell'immediatezza della polemica politica analisi degne di nota e destina­te a riemergere col passare degli anni (si pensi alle opere di Angelo Tasca, di Gaetano Salvemini, di Silvio Trentin, dello stesso Palmiro Togliatti): ma non a caso esse sarebbero state riscoperte o divulgate solo a distanza di molti anni o addirittu­ra di decenni. Ora prevaleva quel fastidio diffuso (la celebre "repugnanza" manife­stata da Croce) dinanzi al compito di far storia del passato più prossimo.

Paradossalmente, la riflessione degli intellettuali era molto più penetrante e lun­gimirante nell'analisi del presente: si pensi a quel singolare testo scritto da Giaime Pintor nell'ottobre dell943, un mese prima della morte, e dedicato al colpo di stato del 25 luglio, dove erano presenti intuizioni sulla dinamica dell'allontanamento di Mussolini dal potere, sui "quarantacinque giorni" badogliani e sullo sfacelo dello Stato italiano che vent'anni dopo, all'apertura degli archivi, avrebbero trovato una sostanziale conferma.7 Il testo di Pintor concludeva negando che il fascismo fosse stato una "parentesi", bensì "una grave malattia" che "aveva intaccato quasi dap­pertutto le fibre della nazione", testimoniando della diffusione nella cerchia degli intellettuali delle tesi crociane prima ancora che esse avessero trovato una formula­zione esplicita e definita, e riproponendone il lessico e le categorie, pur dissenten­do nella valutazione degli effetti e della gravità di quella "malattia", anticipando aspetti del dibattito che si sarebbe aperto negli anni successivi.

I motivi della convergente "repugnanza" a far storia del fascismo sono facil­mente spiegabili. Il "guardare avanti" era non solo politicamente giusto e opportu­no, ma serviva anche ad evitare di tematizzare tutte le implicazioni, dolorose, delle vicende appena trascorse, di approfondire quella che uno storico come Morandi, pure incline ai toni sfumati, definiva "una disperata angoscia, quasi una ruga profonda scavata nel cuore delle giovani generazioni".8

Si pensi solo alle implicazioni della sconfitta italiana, traumatiche per uomini che erano stati educati nel culto della patria, operante non solo nelle sue deforma-

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zioni nazionalistiche e fascisteggianti. Benedetto Croce era stato neutralista allo scoppio della prima guerra mondiale, ma, pur combattendo gli eccessi e le falsifi­cazioni della propaganda antitedesca, aveva tenuto un atteggiamento "patriottico", confermato in seguito in forma abbastanza clamorosa quando, pur disapprovando l'aggressione all'Etiopia, avrebbe fatto dono della sua "medaglietta" di parlamen­tare nella raccolta per l"'oro alla Patria". Nel corso della seconda guerra mondiale si accorgeva invece - ed era il dramma anche di molti intellettuali tedeschi esuli nel mondo - che questo naturale allineamento "patriottico" era privo di efficacia, e che anzi si era spinti addirittura ad augurarsi la sconfitta militare del proprio paese. E' il caso di citare il brano, drammatico, in cui Croce chiarisce la sua posizione:

"A guerra dichiarata e irrevocabile, un più terribile travaglio fu vissuto da noi nei nostri petti; perché una severa educazione civile ci aveva reso assiomatico il prin­cipio che, quando si ode il primo colpo di cannone, un popolo deve far tacere tutti i suoi contrasti e fondersi in un'unica volontà per la difesa e vittoria della patria, la quale, abbia essa torto o ragione, è la patria. E a questo principio solenne noi rilut­tavamo ad obbedire, e la riluttanza non era di ribelle passionalità, ma di una voce interiore, di un senso di verità che ci faceva avvertire che l'osservanza dell'antica massima sarebbe stata, questa volta, un impossibile sforzo, una brutta ipocrisia verso di noi stessi. A poco a poco la luce si fece in noi: cominciammo ad udire intor­no a noi che la presente guerra non era una guerra tra popoli ma una guerra civile; e più esattamente ancora, che non era una semplice guerra d'interessi politici ed economici, ma una guerra di religione; e per la nostra religione, che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo al penoso distacco dalla brama di una vittoria ita­liana, di una vittoria che sarebbe stata non solo la fine del restante mondo, ma quel­la dell'Italia resa schiava dalla Germania, e, direi, della stessa Germania resa a sua volta definitivamente schiava di una fazione di prepotenti ... ".9

Dunque, "guerra di religione", che per Croce significava prevalenza della "reli­gione della libertà" su ogni sentimento nazionale, e che vanificava il principio, che era sempre stato considerato assiomatico, del "right or wrong, it's my country".

Ma i motivi della difficoltà di far storia del fascismo vanno ricercati anche in quel vasto - e in larga misura, inevitabile - coinvolgimento degli intellettuali italia­ni nella politica culturale e nelle iniziative del regime fascista, che aveva avuto il momento di massimo sviluppo proprio negli anni della seconda guerra mondiale.

Molti studi - intrecciati anche a numerose polemiche - sono stati prodotti su que­sto tema, fino a pochi anni fa del tutto inedito nella storiografia italiana. 10 Nella impossibilità di delineare in questa sede un quadro compiuto, mi limiterò a sottoli­neare l'opportunità di non sottovalutare né enfatizzare il fenomeno, con assoluzio­ni o condanne indiscriminate. Quanto al dissenso, definito "abissale" da Furio Diaz, che ha contrapposto alcuni storici italiani nella valutazione della relativa "moder­nità" e "apertura" alle esperienze straniere della storiografia italiana durante il fasci­smo, e, per converso, del carattere più o meno "innovativo" o "rivoluzionario" della storiografia italiana del secondo dopoguerra, credo si debba nettamente convenire

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con Diaz sul clima di relativa chiusura provinciale e di relativo isolamento degli studi storici italiani in epoca fascista, e, quindi sul carattere realmente di "rottura" rappresentato da alcune caratteristiche della storiografia postfascista, che avremo modo di documentare. 11

E' ovviamente molto difficile valutare e soppesare quelli che Arnaldo Momigliano ha definito i "pensieri che non furono più pensati" durante il regime fascista. 12 Ma è difficile sottrarsi alla sensazione di un clima asfittico indotto dalle limitazioni della libertà, e che vide il diffondersi di un complesso meccanismo di "dissimulazione", più o meno "onesta" e calcolata, che si espresse nel fenomeno del cosiddetto "nicodemismo" - di cui fu maestro e interprete raffinatissimo, anche per la sua frequentazione del pensiero ereticale, uno storico come Delio Cantimori.

E' il caso di ricordare una pagina dimenticata e molto cupa di Barbagallo, nel libro già citato:

"Per circa venti anni l'Italia non è vissuta, le generazioni, che si sono succedute alla vita dopo il 1922, non furono che diafani nugoli di ombre; la vita, se vita ci fu, ribolliva al di fuori, al di là di questo ingombrante scenario, e la intessevamo noi, silenziosi e sotterranei, i quali, senza che nessuno se ne accorgesse (e nemmeno noi stessi) trascorrevamo un'esistenza di congiurati, legati gli uni agli altri da una segre­ta catena di pensieri comuni, che scambiavamo solo tra noi ( ... ); dalla nostra vita sono stati recisi tanti anni, durante i quali, giovani, giungemmo in silenzio alla vec­chiaia; vecchi, quasi al termine della vita( ... ) E la volontà di agire viene meno, e la parola si spegne sulle nostre labbra, e la penna ci sfugge dalle dita". 13

Ma forse è più giusto e realistico parlare di una vasta "zona grigia" tra fascismo e antifascismo, che costituiva la collocazione più ricorrente per gran parte degli intellettuali italiani.

"Ciò di cui mi sono convinto -ha scritto Franco Calamandrei a commento del diario paterno- è che dal periodo del fascismo, dai suoi guasti, dai suoi inquina­menti, non ci ha distaccati un taglio il quale, oltre che di rinnovamento politico e sociale, sia stato un taglio di verifica e riforma morale abbastanza netto e rigoroso. Secondo me la storiografia, la memorialistica, la narrativa su quel periodo sono rimaste -salvo qualche eccezione- ancora troppo disegnate in bianco e nero, poco attente oppure restie a esplorare e discutere la vasta area grigia tra il fascismo e l'an­tifascismo militanti, le frontiere sfumate e fluide attraverso le quali da un lato il regime trovò in quell'area più d'una delle sue condizioni d'acquiescenza, conve­nienza, inerzia, paura, per la propria durata, e dall'altro il versante antifascista attin­se sì in essa crescente alimento per il proprio sviluppo fino all'insurrezione ma anche, prima, attinse remore, incertezze, ambiguità, smarrimenti." 14

Pure, va ricordato- ma il tema investe tutta l'intellettualità italiana e non solo il settore degli storici - come malgrado il coinvolgimento nelle istituzioni culturali del regime non si realizzasse una mobilitazione "patriottica" degli storici paragonabile a quella ottenuta dall"'Italietta" liberale durante la prima guerra mondiale: e ciò nonostante la partecipazione diretta di numerosi storici nella individuazione e nella

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giustificazione degli stessi obiettivi della politica imperialistica del fascismo, dalla rivendicazione dell'italianità di Malta e della Corsica alla più generale agitazione contro i "princìpi di Versailles" e gli equilibri europei, invero precari, scaturiti da quei trattati. 15

Ma a guerra dichiarata, se si eccettua l'impegno militante di Carlo Morandi sulle pagine di "Primato", la rivista di Bottai nata per sollecitare quel "coraggio della concordia" degli intellettuali verso i destini della patria, non vi saranno analoghe prese di posizione da parte degli storici, che sembravano contribuire a quel "silen­zio ostile della cultura" nei confronti della guerra che lo stesso Bottai denunciava. 16

Ciò avveniva malgrado la singolare operosità della storiografia italiana durante la seconda guerra mondiale, notevole per quantità e qualità. In questi anni giungo­no a termine o si avviano studi di grande significato. A titolo d'esempio, ricordere­mo che Delio Cantimori pubblicherà nel 1939 gli Eretici italiani del Cinquecento, e nel 1943 gli Utopisti e riformatori italiani; Luigi Salvatorelli pubblicherà nel 1939 La Triplice Alleanza e Pio XI e la sua eredità pontifica/e, nel 1940 la secon­da edizione de Il pensiero politico italiano da/1700 a/1870, nel 1941 il primo volu­me della Storia d'Europa da/1871 a/1914, e l'anno successivo il Profilo della sto­ria d'Europa, per concludere nel 1943 col Pensiero e azione del Risorgimento.

Per Carlo Antoni vanno ricordati Dallo storicismo alla sociologia (1940) e La lotta contro la ragione (1942); Luigi Dal Pane pubblicherà nel 1940 Il tramonto delle corporazioni in Italia e nel 1944 la Storia del lavoro in Italia.

Adolfo Omodeo pubblicherà nel '39 il profilo di De Maistre, nel '40 La leggen­da di Carlo Alberto nella recente storiografia, e nel1941 Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica. Ma soprattutto Omodeo avviava su "La Critica" nel maggio 1940 i suoi studi sulla cultura francese nell'età della Restaurazione, raccolti in volu­me al termine della guerra. La data era quanto mai significativa, e rievocandone il senso Omodeo avrebbe riprodotto quell'atteggiamento, che troviamo anche nel Diario di Piero Calamandrei, di "dolore quasi fisico per la Francia che muore", 17 e che tanto ai fascisti quanto agli antifascisti pareva simboleggiare anche la "morte" della democrazia:

"Il primo studio apparve sulla 'Critica' quando la Francia cadeva vinta nel mag­gio 1940 e sembrava perdere anche la nativa virtù. Quei giorni per coloro che in Italia amavan la libertà furono i più amari della guerra, più amari di quelli stessi in cui una tempesta di ferro e di fuoco destò le città italiane. Ci pareva che la nostra civiltà, i suoi ideali e le sue fedi crollassero; che a noi non restasse che di sopravvi­vere come i vinti di Filippi in un mondo non più nostro." 18

Nel corso del ventennio avevano operato in Italia alcuni grandi "storici di razza" (è il termine che essi useranno retrospettivamente per autodefinirsi); una genera­zione che si era mossa tra Croce e Volpe19 (con le eccezioni costituite da Cantimori e Candeloro, di formazione filosofica e con forti influssi gentiliani). Era una élite molto ristretta, che costituirà il ponte con le nuove generazioni; e proprio sui termi­ni, sugli elementi di continuità e discontinuità è il caso di interrogarsi, notando in

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primo luogo che essi stessi - i "maestri" - erano molto cambiati. Il Morandi del dopoguerra, come è stato osservato, era più diverso dal Morandi dell940 di quan­to non fosse alcun altro storico della sua generazione, pur nella continuità di meto­do e di stile20 Anche l'esperienza politica nella Resistenza di Chabod influisce, certo in forme sottili e non vistose, sulla sua produzione del dopoguerra;21 come la resi­dua attività di Omodeo, troncata dalla morte prematura, è profondamente segnata dalla sua esperienza politico-culturale nel Partito d'Azione.

Era la continuità di una comune civiltà "storicistica" -lo "storicismo degli stori­ci", che andrebbe sempre distinto da quello dei filosofi- che forniva le basi per un linguaggio comune, pur nella radicale diversità di interpretazioni. "Egli fu dei nostri" scriverà Croce recensendo con commossa sorpresa le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, e intendeva dire che Gramsci muoveva dallo stesso humus cul­turale, partecipava della stessa tradizione, delle stesse problematiche.22

In tema di storicismo e "storicismi" aveva destato sensazione nel 1945, nel primo numero di "Società", la rivista vicina al partito comunista, l'analisi condotta da Cantimori dello storicismo idealistico, italiano e soprattutto tedesco, che era una dissoluzione critica dei fondamenti di quella cultura, per la prima volta condotta sul terreno della discussione ravvicinata delle fonti - che era apparso innanzi quasi dominio riservato della cultura di ispirazione crociana -. Il bersaglio era Carlo Antoni, ma sullo sfondo si intravvedeva con ogni evidenza Croce (al quale, forse per un residuo "nicodemitico", Cantimori non accennerà mai se non in termini posi­tivi).23

"Gratitudine e lontananza", come è stato notato,24 erano i sentimenti prevalenti nei confronti di Croce da parte di numerosi storici e uomini di cultura, che avevano tratto forza e vigore dalla "linea di resistenza" rappresentata dai suoi scritti durante il fascismo, ma che ormai si distaccavano da lui nelle scelte politiche (gran parte di essi erano ormai azionisti o comunisti) e anche nelle interpretazioni di momenti par­ticolarmente delicati del passato nazionale.

Se il vero e proprio dibattito sul Risorgimento e sui sui suoi esiti si svilupperà in termini espliciti solo a partire dal 1948, con la pubblicazione del Quaderno omoni­mo di Gramsci, non va dimenticato che il tema era stato presente in aspetti partico­lari ma non sottovalutabili (le polemiche "antisabaudiste", fattesi più aspre in pros­simità del referendum istituzionale del 1946), e che, più in generale, aleggiava sullo sfondo. Sintomatico è che il dibattito più significativo nel primo parlamento post­fascista fu quello provocato dalle dichiarazioni di Ferruccio Parri alla Consulta sul carattere "liberale", ma "non democratico" dei governi prefascisti,25 con accesi interventi, fra gli altri, di Benedetto Croce in difesa deli"'Italietta" prefascista.

Che si profilasse la riapertura di un "processo al Risorgimento" era manifestato da diversi sintomi, quali la ripresa di interessi e suggestioni legate a Oriani non meno che a Gobetti, come nell' Antistoria d'Italia del triestino Fabio Cusin,26 e nelle prime fortunate opere di Giovanni Spadolini,27 che si faceva anche promotore di una rivalutazione in chiave "democratica" della stessa personalità di Alfredo Oriani,

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proclamato nel ventennio "precursore" per antonomasia del fascismo. 28

Ma la verità era che Il mondo del Risorgimento si era ormai andato quasi "decomponendo nei suoi elementi costitutivi" e ciascun elemento se ne andava "tutto solo a cercarsi le sue origini storiche".29

Del tutto nuovo era l'interesse per l'Illuminismo e la Rivoluzione francese. Erano i temi su cui non solo il fascismo, ma tutta !"'ideologia italiana" aveva impo­sto una sorta di damnatio memoriae,30 malgrado il vero e proprio culto, presente in Croce e in Fortunato, dei martiri della rivoluzione napoletana del1799, e la cui giu­stificazione aveva col tempo creato non pochi problemi di coerenza interna nella visione storica di un Croce.31 Ora uscivano i primi libri di Franco Venturi su Boulanger e sulle origini intellettuali della rivoluzione francese, a cui faranno segui­to dal 1952 gli studi fondamentali sul populismo russo, altro tema per diversi fili annodato agli interessi e ai dibattiti della nuova cultura emergente in Italia.32

Ma i grandi fatti nuovi, coerenti con gli indirizzi politici e culturali che andava­no profilandosi nella società italiana, erano gli studi sul movimento socialista e quelli, più appartati e meno al centro di dibattiti -anche per quella tradizionale sot­tovalutazione un po' snobistica che la cultura "laica" italiana ha sempre manifesta­to nei confronti della cultura cattolica- sul movimento cattolico, sulle sue origini e i suoi sviluppi.33 Peraltro su questo terreno non operavano solo cattolici che rico­struivano la storia del loro complesso movimento, ma anche storici di altra tradi­zione e impostazione, come il marxista Giorgio Candelora, autore di un libro che all'epoca apparì forse schematico, ma che si rivelò nel tempo ricco di intuizioni che sarebbero state confermate dagli studi successivi.34

La nascita di una storiografia marxista in Italia (di vera e propria nascita bisogna parlare, infatti, poiché i precedenti, per diversi motivi, possono essere considerati "false partenze"),35 collegata all'insediamento del Pci nel territorio nazionale e alla riproposizione, in forme nuove, della tradizione socialista, si nutriva di apporti e suggestioni molteplici. Traeva spunti dalla problematica più "ortodossa", proposta in forme a volte rozze ma originali e vigorose da Emilio Sereni,36 ma anche dalla riproposizione di testi dimenticati della tradizione socialista come dalla ricerca di vecchie e nuove traduzioni della migliore storiografia sovietica.37 Erano vitali soprattutto le suggestioni del Tarlé, che già nel 1941 Ranuccio Bianchi Bandinelli aveva individuato come esempio di quel modello, a cui bisognava tendere, di rin­novamento che non rompesse i ponti con la tradizione umanistica:

"E' questo il 'materialismo storico'? Se è questo, siamo d'accordo. Perché un problema che ci assilla è come si possa passare dal nostro storicismo al materiali­smo storico. Di che cosa sia effettivamente quest'ultimo, nessuno ci parla (ed è una delle colpe di Croce, di tacere su ciò che egli non approva - viene quasi il dubbio che ci sia, in questo caso, una omissione voluta più dall'uomo appartenente a un ceto sociale conservatore, che dallo studioso); e il c. d. 'superamento' del marxismo 'vissuto e morto' con i contributi del Labriola e con le critiche crociane non ci per­suade, perché il socialismo non solo ha seguitato a vivere sulle vie del marxismo,

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ma cresce e si espande. E, a quanto pare, la cultura in Russia è tutt'altro che morta, anche se non sappiamo 'quale' cultura sia.

Viene il sospetto che il 'materialismo storico' o, meglio, 'dialettico', non sia affatto una ricetta da applicare, non un cànone dal quale non dipartirsi pena la sco­munica; ma sia un metodo ancora in fieri, una impostazione generale dei problemi (al modo stesso che non è una ricetta lo storicismo crociano), conciliabilissima con lo storicismo, o almeno con l'essenza del nostro metodo storicistico (e in fondo, derivano entrambi da Hegel); possa anzi essere quello storicismo che ci soddisfi meglio, da quando sempre maggiori dubbi ci vengono sull'essenza di quello cro­ciano, difficilmente separabile da quel suo 'liberalismo', che per altre vie non pos­siamo più accettare come vitale (e che domani potremmo riconoscere francamente dannoso). Se qualcuno potesse riso l vermi questo dubbio, tutto si chiarirebbe. (E forse non soltanto a me.)".38

Le suggestioni più concrete venivano comunque dalle proposte e dagli esempi di storici della generazione immediatamente precedente: e in particolare da Carlo Morandi, destinato a una morte prematura e improvvisa nel 1950, e da Delio Cantimori, che amava atteggiarsi a "vecchio" d'anni e di esperienze di fronte alle nuove generazioni sebbene fosse nel pieno della sua maturità intellettuale.

Nelle piattaforme proposte da questi due storici vi erano evidenti diversità di intonazione, sottolineate recentemente da Luisa Mangoni/9 diversità che forse pos­sono essere colte solo retrospettivamente e che non dovevano essere chiarissime per i contemporanei. Entrambe le linee si riconnettevano in qualche misura a Nello Rosselli, muovendo da dove si era arrestata la ricerca dell'autore di Mazzini e Bakounine. Proprio da Salvemini e Rosselli muoveva nel 1946 il saggio program­matico di Carlo Morandi su "Belfagor", Per una storia del socialismo in Italia.

Per Morandi, era necessario "studiare le pagine dei nostri marxisti, sia ortodos­si che revisionisti, in stretta connessione con lo sviluppo del movimento socialista nella penisola", e, soprattutto, andava sollecitata "meno contemplazione astratta dei 'princìpi' e delle fortune del verbo marxista; maggiore aderenza al concreto vivere del socialismo". "Non trascurare la 'città del sole', ma soprattutto raccogliere lo sguardo attento sulla 'città dell'uomo"', rinunciando ai "!abili orizzonti" di una ricerca dottrinaria sui "precursori".40 Erano spunti che si sarebbero intrecciati con le suggestioni suscitate dalla pubblicazione degli inediti carcerari di Gramsci.41

Nella varia attività suggerita e stimolata da Cantimori, improntata a grande rigo­re filologico e alla connessione fra "utopismo", socialismo delle origini e pensiero rivoluzionario europeo - e in parte ispirata anche dal suo libro su Utopisti e rifor­matori -, vanno ricordati soprattutto i lavori giovanili di Armando Saitta su Filippo Buonarroti; tema non nuovissimo, e già al centro dei contributi della Pia Onnis alla fine degli anni Trenta e poi delle ricerche di Alessandro Galante Garrone, ma che qui si profilava con più nettezza come il vero e proprio "anello mancante" tra rivo­luzione francese e quelle origini risorgimentali del socialismo italiano al centro degli studi di Rosselli.42

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La scoperta di Gramsci, evento dalle ripercussioni molto vaste in molteplici set­tori della cultura italiana, nel campo specifico degli studi storici su marxismo e movimento operaio avvalorava la "linea" suggerita da Morandi sul "concreto vive­re del socialismo italiano", e, soprattutto- in questo stava la sua novità e il suo fasci­no- indirizzava l'attenzione verso lo studio delle "classi subalterne", della loro cul­tura, della loro organizzazione e - potremmo dire, con termine consapevolmente anacronistico - della loro "quotidianeità".

Questo spiega, forse, la marcata diffidenza di Cantimori verso Gramsci -il cui nome, peraltro, ricorre pochissime volte nei suoi scritti- e la sua polemica postuma, in anni molto diversi, contro il "gramscismo".43 In effetti, l'orientamento della gio­vane storiografia marxista italiana prendeva strade molto difformi rispetto a quelle suggerite da Cantimori. Da parte di Cantimori (e di Saitta) si era profilata, di fatto, la tendenza a porre al centro degli interessi quella che rischiava di risolversi in una sorta di genealogia del pensiero rivoluzionario italiano. Giusta o sbagliata che fosse -non sta a noi dirlo- la tendenza ispirata a Gramsci e al "gramscismo" apriva inve­ce orizzonti tematici completamente nuovi, se pure spesso percorsi con metodi e intonazioni tradizionali e inadeguati.

Più in generale, si assisteva in questi anni al superamento delle "colonne d'Ercole" della storiografia tradizionale (come auspicava nel 1949 Ernesto Ragionieri, un giovanissimo storico vicino al marxismo),44 che avveniva in più dire­zioni: studio delle classi subalterne e del movimento socialista, interesse per il movimento cattolico e per la "storia della pietà",45 ampliamento degli interessi della stessa tradizione crociana.

L'opera prima di Rosario Romeo, il Risorgimento in Sicilia, si inseriva in un filo­ne, anch'esso nuovo, di ripresa di attenzione non più "localistica" e municipalistica per la storia locale e accanto alla fedeltà ai motivi di fondo dell'ispirazione crocia­na (e anche delle suggestioni meno caduche dell'opera di Volpe, in seguito esplici­tamente rivendicate) introduceva una notevole attenzione per la vita economica e sociale.46 Per quanto paradossale possa apparire, tenendo presente che alla metà degli anni Cinquanta l'autore sarebbe stato il protagonista di una dura polemica contro la storiografia gramsciana, va ricordato che ora Romeo era costretto a difen­dersi da accuse di marxismo (e, addirittura, di "gramscismo"), muoventi dagli ambienti politico-culturali a lui più prossimi, a riprova di come potesse essere rigi­da, in quegli anni, la difesa dei canoni "ortodossi" della storiografia tradizionale.47

La storiografia italiana in modi e forme originali (e forse in gran parte inconsa­pevoli) si inseriva in una rivoluzione storiografica che andava al di là dei confini nazionali e il cui merito è stato volta a volta rivendicato da diverse scuole e tradi­zioni, da quella marxista a quella delle "Annales", ma che è più giusto considerare un dato generazionale frutto di apporti molteplici e difformi.

Come ha notato felicemente Lawrence Stone, gli storici che hanno operato nella seconda metà del secolo hanno avuto il privilegio di assistere a un enorme amplia­mento degli orizzonti della storia: "le masse, in luogo di quella minuscola élite pari

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all'uno, al massimo al due, per cento della popolazione che sino a poco tempo fa costituiva l'oggetto della storia" .48

Erano quegli "esclusi dalla storia" che secondo il fondatore dell'antropologia culturale in Italia, Ernesto De Martino -anch'egli, come molti altri, approdato al marxismo da una originaria posizione crociana-, lottavano ora per entrarvi e per uscire dalla subalternità.49 Era il mondo che acquistava risonanza internazionale gra­zie alla grande stagione del cinema neorealistico (si pensi soprattutto a un film esemplare come La terra trema di Luchino Visconti) e che in questi anni si era affacciato nella cultura italiana attraverso il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e, in seguito, con la diffusione dei romanzi di Ignazio Silone50 e con la pubblicazio­ne delle poesie di Rocco Scotellaro. "E' fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo".51

Note

l. C. Barbagallo, Lettere a John. Che cosa fu il fascismo, Napoli 1947 (Lettere scritte fra il gennaio e il maggio 1945), Lettera del IO gennaio 1945, p. 4. Su numerosi aspetti dell'attività di Barbagallo durante il fascismo, cfr. A. Casali, Storici italiani fra le due guerre. La "Nuova Rivista Storica" (1917-1943), Napoli 1980.

2. B. Croce, Quando l'Italia era tagliata in due - Estratto di un Diario, in Scritti e Discorsi Politici (1943- 1947), Bari 1973, l, p. 173.

3. Si ricordino solo i volumi, rappresentativi di posizioni e tradizioni diverse, di L. Longo, Un popo­lo alla macchia, Milano Verona 1947; L. Va1iani, Tutte le strade conducono a Roma. Diario di un uomo nella guerra di un popolo, Firenze 1947; R. Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla liberazione, Milano 1948.

4. R. Battaglia, Il problema storico della Resistenza, in "Società", 1948, n. l, pp. 64-87; Il significato nazionale della Resistenza, ibidem, 1950, n. 2, pp. 193-211. Battaglia, già storico dell'arte, era giunto in età avanzata agli interessi di storia contemporanea, stimolati dalla sua partecipazione alla lotta par­tigiana dopo il "trauma" dell'8 settembre (vedi la rievocazione autobiografica in Un uomo, un parti­giano, Firenze 1945).

5. R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 25 aprile 1945, nuova ed., Torino 1963, p. 15.

6. C. Morandi, Come nacque e come finì la seconda guerra mondiale, Firenze 1945, ora in Scritti sto­rici, a cura di A. Saitta, III, Roma 1980, p. 265.

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7. G. Pintor, Il colpo di stato del 25 luglio, uscito postumo nei "Quaderni italiani" di New York, IV, 1944, ora ne Il sangue d'Europa (1939 1943), a cura di V. Gerratana, Torino 1975, pp. 165-181; prima ed. 1950. Per la comprensione critica del personaggio, è indispensabile anche la lettura di G. Pintor, Doppio Diario 1936-1943, a cura di M. Serri, con una presentazione di L. Pintor, Torino 1978.

8. C. Morandi, Le origini della seconda guerra mondiale, in Scritti storici, cit., III, p. 259.

9. B. Croce, La libertà italiana nel mondo, in Per la nuova vita dell'Italia. Scritti e discorsi (1943 1944), poi in Scritti e Discorsi Politici, cit., pp. 51-52. In forma ufficiale, gli stessi concetti verranno enunciati nel discorso al Teatro Eliseo di Roma del 21 settembre 1944, destinato soprattutto agli Alleati: "Ma la maggiore, la più fiera battaglia, gli italiani dovettero vincerla nei loro petti, quando si strapparono dal modo consueto dell'affetto per la patria e si rivolsero a desiderare ed affrettare coi voti, dolorosamente, la sconfitta dell'Italia nella guerra empia accanto alla Germania, la sconfitta che sola poteva essere per loro vittoria di restituita indipendenza e libertà ... " (L'Italia nella vita internazionale, in Pagine politiche, poi in Scritti e Discorsi Politici, cit., II, pp. 87-91). Cfr. su queste pagine le anno­tazioni di G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 219-233. Spunti di grande interesse sul Croce "politico" di questi anni sono in S. Setta, Croce. il liberalismo e l'Italia postfascista, Roma 1979. Una ricca aneddotica è in A. Fratta, Così finì il Regno d'Italia. Dai taccuini di Croce, prefazione di G. Galasso, Napoli 1992.

10. Cfr. per un quadro generale G. Turi, Le istituzioni culturali del regime fascista durante la seconda guerra mondiale, "Italia contemporanea", 138, gennaio marzo 1980, pp. 3-23, e il successivo Intellettuali e istituzioni culturali nell'Italia in guerra 1940 1943, in L'Italia in guerra 1940-1943, a cura di B. Micheletti e P. P. Poggio, "Annali della Fondazione 'Luigi Micheletti"', 5, 1990-1991, Brescia 1992, pp. 801-826.

Il. Cfr. F. Diaz, La "nuova storiografia" fra impegno politico e ricerca scientifica: momenti e proble­mi, in B. Vìgezzi (ed),Federico Chabod e la "nuova storiografia" italiana dal primo al secondo dopo­guerra (1919-1950), Milano 1984, pp. 633-676 e pp. 693-697.

12. "Il vero male fatto dal fascismo agli studi di storia non sta nelle sciocchezze che si dissero, ma nei pensieri che non furono più pensati. Molti dei migliori, se non dissero nulla che non andava detto, non dissero tutto quello che avrebbero dovuto dire" (A. Momigliano, Gli studi italiani di storia greca e romana dal 1859 al 1939, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli 1950, vol. l, pp. 105-106).

13. C. Barbagallo, Lettere a John, cit., pp. 55-56 (Lettera del 27 gennaio 1945).

14. F. Calamadrei, Piero Calamandrei mio padre, in P. Calamandrei, Diario 1939-45, a cura di G. Agosti, vol. I, Firenze, 1982, pp. XI-XII, che proseguiva: "Bisogna dunque che la sua autobiografia [dell'antifascismo] si addentri in quel chiaroscuro morale finora rimasto ai margini, nella interiorità

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che il disegno dei moventi politici e sociali ha finora lasciato in ombra, e perciò anche nel rapporto di contrasto oppure di intreccio, di osmosi, tra quei moventi, le loro regole e scadenze, il loro percorso, legati ad una battaglia collettiva, ed il sentimento individuale, le vicissitudini private dell'animo, gli alti e bassi quotidiani del cuore".

15. Sulla più importante delle istituzioni della politica culturale fascista in questo settore cfr. A Montenegro, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull'Istituto per gli studi di politica internazionale, 1933-1943, "Studi storici", 1978, n. 4, pp. 777-817; su un aspetto più specifico, ma rilevante, cfr. anche E. Decleva, Politica estera, storia, propaganda: l'Ispidi Milano e la Francia (1934-1943), "Storia contemporanea", 1982, n. 4/5, pp. 697-757.

16. Cfr. G. Santomassimo, Gli storici italiani negli anni della guerra. Il caso Morandi e "Primato", in L'Italia in guerra 1940-1943, cit., pp. 827-844; Cfr. anche "Primato" 1940-1943, antologia a cura di L. Mangoni, Bari 1977.

17. "Non si può aprire un libro- scriveva Piero Calamandrei ai primi di giugno dell940- senza tro­varvi la Francia: questo senso di dolore fisico per la Francia che muore ... Maramaldo ha dichiarato la guerra: senza neppur tentare di giustificare la pugnalata a freddo nella schiena del ferito che si difen­de dall'aggressore. L'infamia è così enorme che se ne rimane come schiacciati" (P. Calamandrei, Diario 1939-45, cit., I, p. 182).

18. A Omodeo, Introduzione (datata 1946), a Studi sull'età della Restaurazione. La cultura francese nell'età della Restaurazione. Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione, prefazione di A Galante Garrone, Torino 1970, p. 5. Su Omodeo vedi il recente profilo critico di M. Mustè, Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico, Bologna 1990.

19. Annotazioni generali su questo tema sono in A Casali, Gli storici del ventennio, "I viaggi di Erodoto", a. IV, n. 12, dicembre 1990, pp. 58-77.

20. E. Ragionieri, Carlo Morandi, "Belfagor", XXX, fase. VI, 30 novembre 1975, p. 694.

21. Cfr. S. Soave, Federico Chabod politico, Bologna 1989.

22. " ... come uomo di pensiero egli fu dei dei nostri, di quelli che nei primi decennii del secolo in Italia attesero a formarsi una ente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente, tra i quali anch'io mi trovai come anziano verso i più giovani"(Benedetto Croce, "Quaderni della 'Critica"', n. 8, luglio 1947). Per un'ampia e ragionata rassegna della prima recezione di Gramsci nella cultura italiana, vedi E.Santarelli, Gramsci ritrovato. 1937-1947, Catanzaro 1991.

23. Cfr. D. Cantimori, Appunti sullo "storicismo", "Società", a. I, n. l, 2, 1945, poi in Studi di storia, I, Torino 1959, pp.S-45. Il saggio di Cantimori, in sé molto specialistico e reso ancora più arduo dalla completa assenza di note e rinvii bibliografici, aveva quasi il valore di un "manifesto" della nuova rivi-

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sta, evidenziando bene quella opzione per la cultura di ricerca, "filologica" e "analitica", contrapposta alla cultura "sintetica", che nell'Editoriale di avvio nella "nuova serie" della rivista, nell947, sareb­be poi stata rivendicata da Cesare Luporini in trasparente polemica con la tendenza impersonata dal "Politecnico" di Elio Vittorini (''Società", 1947, n. 1). A proposito dell'atteggiamento di Cantimori verso Croce, già Miccoli aveva parlato di una "sorta di reticenza, come di una scarsa voglia ad affron­tare di petto e direttamente il problema di ciò che quell'opera aveva rappresentato nella recente storia italiana" (G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino 1970, p. 240).

24. L. Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, in AA. VV., Storia dell'Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Torino 1994, p. 631. Il riferimento è in particolare a scritti di Ernesto De Martino, Antonio La Penna e, soprattutto, Ranuccio Bianchi Bandinelli, che nel primo numero di "Società" scriveva, fra l'altro: " .. oggi che siamo usciti da quel carcere, nel quale la sua [di Croce] era la sola luce che pala­rizzava i nostri sguardi, essa ci è apparsa meno intensa, meno viva ... il grande vecchio non sta più davanti a noi come una mèta o un faro. Se lo scorgiamo ancora, con uno sguardo d'affetto, è quando ci rivolgiamo indietro" (A che serve la storia dell'arte antica?, "Società", I, n. l, p. 11).

25. Cfr. F. Parri, Scritti 191511975, Milano 1976, pp. 192-193.

26. F. Cusin, Antistoria d'Italia, Torino 1948. Sul personaggio e sul suo carattere "anticonformista", vedi il ritratto recente di E. Santarelli, Fabio Cusin, "Belfagor", a. XLVIII, l gennaio 1993, pp. 41-56.

27. G. Spadolini, Il '48. Realtà e leggenda di una rivoluzione, Firenze 1948; dello stesso, Ritratto dell'Italia moderna, Firenze 1948; dello stesso, Lotta sociale in Italia, Firenze 1949.

28. Cfr. M. Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani. Il mito del precursore, saggio introduttivo di G. Santomassimo, Ravenna 1988.

29. W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant'anni, cit., vol. I, p. 247.

30. Cfr. F. Diaz, L'incomprensione italiana della rivoluzione francese. Dagli inizi ai primi del Novecento, Torino 1989.

31. La contraddizione, innegabile, tra il culto dei martiri del '99 e l'avversione per la tradizione illu­ministica e giacobina modellata sulla lettura di Vincenzo Cuoco, percorre sotterraneamente tutta la produzione del Croce giovane e maturo, e viene avviata a soluzione solo negli anni della prima guer­ra mondiale, con i saggi, spesso ingiustamente sottovalutati, su Giuseppe e Carlo Poerio, apparsi su "La Critica" nell917, poi editi nel libro che da essi prende titolo, ma che in genere è ricordato soprat­tutto per la terza sezione, Per Francesco De Sanctis, che raccoglie scritti di Croce dall896 al 1917 su vari aspetti dell'attività di De Sanctis (Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari 1949, la cui Avvertenza è datata febbraio 1918). Studiando i Poerio Croce aveva cercato -con qualche for-

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zatura- di far emergere una "tradizione moderata" meridionale, lontana dagli eccessi e dalle astrazio­ni del giacobinismo (e, chiaramente, molto più vicina al suo sentire). Anticipando considerazioni che avrebbero trovato forma più "classica" e compiuta nella Storia del Regno di Napoli, aveva descritto la situazione meridionale come caratterizzata da "falsi partiti politici di maschera democratica, sfruttato­ri della cosa pubblica a pro di clientele, e dall'altra, da un'ombra di partito moderato e liberale, che cerca di darsi qualche corpo mercé l'unione, non fondata sopra medesimezza di tradizioni o confor­mità d'idee, con la parte cattolica"; dopo aver auspicato la nascita di un vero partito liberale inteso come partito del "bene pubblico", aveva concluso che "l'avanzamento civile di un popolo dipende, in ultima analisi, dal moltiplicarsi in esso degli uomini che 'sanno', e che 'sanno fare', e che hanno 'disinteresse personale', ossia abito civile", [La tradizione moderata nel Mezzogiorno d'Italia (Giuseppe e Carlo Poerio), in Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, cit., pp. 40-41].

32. F. Venturi, Le origini dell'Enciclopedia, (prima ed. Firenze 1946) Torino 1963; L'antichità svela­ta e l'idea del progresso in N. A. Boulanger (1722-1759), Bari 1947; Jean Jaurès e altri storici della rivoluzione francese, Torino 1948.

33. In generale, sulla storiografia sul movimento cattolico nel secondo dopoguerra, cfr. le rassegne di G. Verucci, Movimento cattolico dall'unità al fascismo, in Il mondo contemporaneo. Storia d'Italia, 2, Firenze 1978, pp. 666-681, e di M. G. Rossi, Il movimento cattolico, in N. Tranfaglia (ed), L'Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, Milano 1980, pp. 132-170.

34. G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1953. Su questo versante dell'opera di Candeloro, cfr. G. Miccoli, "Il movimento cattolico in Italia" di Giorgio Candeloro, "Studi storici", a.XXVII, n. 4, 1986, pp. 805-815; F. De Giorgi, Cattolicesimo e civiltà moderna nela storiografia di Giorgio Candeloro, Cavallino di Lecce 1990; sui precedenti, diversi e complessi per ispirazione e inte­ressi, vedi R. Pertici, Giorgio Candeloro storico delle dottrine politiche (1931-1949), "Passato e pre­sente", n. 22, 1990, pp. 141-178. Tra i testi del!' epoca in ambito marxista, cfr. anche P. Alatri, Appunti per una storia del movimento cattolico in Italia, "Società", a. V, 1949, pp. 244-263.

35. Cfr. I. Cervelli, Gli storici italiani e l'incontro con il marxismo, in Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, 2, Questioni di metodo, tomo primo, Firenze 1983, pp. 588-614.

36.Cfr. soprattutto Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino 1947.

37. "111945 rappresentò veramente il giro di boa negli studi storici italiani, specialmente fra i giova­ni e i giovanissimi: curiosità fino allora represse esplosero addirittura: ricordo ancora, alla Biblioteca di storia moderna di Roma la caccia furiosa a quei pochi libri che si erano salvati e che erano o parla­vano di Filippo Buonarroti, di Marx, di Engels, di Labriola, di Pokrovskij" (E. Sestan, Federico Chabod e la "nuova storiografia": profilo di una generazione di storici, in Federico Chabod e la "nuova storiografia" italiana dal primo al secondo dopoguerra (1919-1950), cit., p. 17).

38. Così R. Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, Roma 1976, p. 77, commen-

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tando nel gennaio 1941la lettura del libro di Tarlé su Napoleone: "Tarlé è un vecchio storico, forma­tosi prima della rivoluzione, ma apprezzato e ufficialmente rappresentativo nella Russia di oggi; dun­que accettato e valido. La sua storia è ottima, vera storia, assai più di quelle, più comuni, che sempre mitizzano, pro o contro, l'eroe Napoleone. Qui egli è veduto nel complesso ambiente del suo tempo, posto entro quelle date circostanze politiche ed economiche".

39. L. Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, cit., pp. 682-687, dove fra l'altro si osserva come nella piattaforma cantimoriana "la vicenda del movimento operaio italiano appariva sì come tema specifico rispetto a una più generale storia d'Italia, ma essa veniva a far parte di un quadro generale che era quello del pensiero marxista internazionale, che ne diveniva in un certo senso il tessuto connettivo".

40. C. Morandi, Per una storia del socialismo in Italia, "Belfagor", a. I, 1946, fase. II, pp. 162-168, ora in Scritti storici, cit., I, pp. 67-77.

41. Di grande interesse era l'articolo esplicitamente sollecitato dalla lettura del Gramsci de Gli intel­lettuali e l'organizzazione della cultura (C. Morandi, Appunti e documenti per una storia degli italia­ni fuori d'Italia. A proposito di alcune note di Antonio Gramsci, "Rivista storica italiana", 1949, fase. III, pp. 379-84, ora in Scritti storici, cit., I, pp. 78-84), dove le nuove suggestioni gramsciane sul "cosmopolitismo" degli intellettuali italiani si confrontavano e si fondevano con le antiche propensio­ni di ispirazione volpiana.

42. A. Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell'Ottocento 1828-1837, Torino 1951; A. Saitta, Filippo Buonarroti. Contributo alla storia della sua vita e del suo pensiero, 2 voli., Roma 1950-1951. Sottolinea giustamente l'assenza in Saitta di alcun "legame profondo con il pensiero gram­sciano" V. Criscuolo, La genesi dell'opera storica di Armando Saitta, "Critica storica", XXVIII, 1991, n. 4, p. 631, con notazioni che possono essere estese anche a Cantimori.

43. L'unica polemica esplicita è contenuta nella famosa lettera del 1956 che interveniva nel dibattito aperto da Saitta su "Movimento operaio", lettera poi non compresa da Cantimori nella raccolta degli Studi di storia, a differenza degli Epiloghi congressuali dell'anno precedente. In quell'occasione, pole­mizzando con la lettera di Luigi Tassinari, Aldo Zanardo, Roberto Zapperi, Renzo De Felice e Pietro Melograni pubblicata nello stesso fascicolo ("Movimento operaio", VIII, 1956, n. 1-3), Cantimori cri­ticava l'uso del termine "ispirazione marxista" da parte del "quintetto napoletano" (perché borsisti dell'Istituto Croce), e aggiungeva polemicamente: "così, per dichiararsi marxista si potrà faré a meno di leggere e studiare criticamente e storicamente e Marx e Engels e Lenin e Stalin, basterà da princi­pio aver letto e studiato Gramsci, e poi da Gramsci si scenderà agli studi su Gramsci, e poi via via,[ ... ] e si finirà nel dogmatismo e nell'ortodossismo". Il testo contiene, come si vede, implicazioni abba­stanza controverse, che andrebbero analizzate in forma più attenta e distesa.

44. Cfr. E. Ragionieri, Storiografia in cammino, "Il Nuovo Corriere", 6 marzo 1949, ora in E. Ragionieri, Storiografia in cammino, a cura di G. Santomassimo, prefazione di E. Garin, Roma 1987,

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Gianpasquale Santomassimo

pp. 16-20. Per una ricostruzione degli anni giovanili di questo storico, cfr. G. Santomassimo, La for­mazione intellettuale di Ernesto Ragionieri, "Passato e presente", n. 8, 1985, pp. 103-144.

45. Vanno ricordati soprattutto gli studi e le iniziative editoriali promossi da don Giuseppe De Luca, sul quale cfr. soprattutto L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo catto­lico e la cultura italiana del Novecento, Torino 1989.

46. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950. Vedi anche l'intervento, molto importante per il suo contenuto "programmatico" e di primo bilancio su Storia regionale e storia nazionale, "Cultura moderna. Rassegna delle edizioni Laterza", n. 6, dicembre 1952, poi in Mezzogiorno e Sicilia nel Risorgimento, Napoli 1963, pp. 7-15. Per un profilo complessivo, cfr. soprattutto G. Pescosolido, Rosario Romeo, Roma-Bari 1990.

47. Cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, in "Il Mondo", 24 febbraio 1951 (ora in R. Romeo, Scritti storici 1951 1987, Milano 1990, pp. 3-4), che replicava "con meraviglia" alle critiche mosse da Panfilo Gentile nella recensione al suo libro (''Il Mondo", 20 gennaio 1951).

48. L. Stone, La storia e le scienze sociali nel secolo XX, in Viaggio nella storia, Roma Bari, p. 24.

49. E. De Martino, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, "Società", 1949, n. 3, pp. 411-435; da vedere anche la critica di C. Luporini (''Società", 1950, n. l, pp. 95-106), con ulteriore discus­sione fra i due nel numero successivo ("Società", 1950, n. 2, pp. 306-312). L'importanza della discus­sione fra De Martino e Luporini nella vicenda di "Società" è stata sottolineata da L. Mangoni, "Società": storia e storiografia nel secondo dopoguerra, "Italia contemporanea", n. 145, ottobre­dicembre 1981, pp. 39-58. Una rievocazione postuma della polemica- con molte imprecisioni, com­prensibili a distanza di tanti anni - è in C. Luporini, Da "Società" alla polemica sullo storicismo, "Critica marxista", n. 6, 1993, in particolare alle pp. 21-23.

50. Il riferimento è soprattutto a Fontamara, scritto nel 1930 e pubblicato per la prima volta a Zurigo nel 1933. Tradotto in ventisette lingue, ebbe la sua prima edizione italiana non clandestina solo nel 1949 (Milano-Verona).

51. R. Scotellaro, E' fatto giorno, a cura di F. Vitelli, Milano 1982, p. 150; prima ed. 1954.

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Bemd Faulenbach Ruhr - Universitat Bochum

La storiografia tedesca dopo la dittatura di Hitler

Il 1945 rappresenta una profonda cesura nella storia tedesca. Tuttavia vi sono anche delle continuità, senza considerare il protrarsi delle conseguenze degli avve­nimenti dell'epoca precedente: il dominio nazionalsocialista, i suoi crimini e la guerra. Quale fu il rapporto tra continuità e discontinuità in un gruppo, quello degli storici, che è solito occuparsi quasi per professione di problemi di continuità e di discontinuità?

A questo proposito si impone una serie di questioni: - In che misura si trasformò la storiografia, quanto cambiarono gli storici e la

scrittura della storia? La composizione degli storici fu modificata dalla denazifi­cazione, dalle conseguenze della guerra, ecc ... ?

-In che modo gli storici affrontarono l'esperienza della dittatura? Come riflette­rono sul loro ruolo durante il Terzo Reich? Questo ruolo venne analizzato o rimos­so?

- Attraverso quali prospettive la dittatura divenne oggetto della ricerca e della scrittura storiche? Quali modelli interpretativi furono dominanti?

- In che misura venne rivista l'immagine complessiva della recente storia tede­sca?

-Cambiò il paradigma scientifico e mutò l'assiomatica politica? Inoltre, a proposito di tutte queste questioni, bisogna determinare in che misura

i cambiamenti si verificarono all'improvviso o nel corso di un lungo processo. Gli storici e la storiografia erano coinvolti esistenzialmente nei processi socio­

politici del dopoguerra. Bisogna domandarsi come questi processi abbiano influito sulla storiografia e, in particolare, sul suo giudizio sulla dittatura e sulle esperienze nella dittatura. A questo riguardo bisogna indicare il bisogno materiale, la ricostru­zione, il rapporto con le potenze occupanti, il conflitto Est-Ovest, la fondazione della Repubblica federale e della RDT, il loro sviluppo e il loro rapporto reciproco e molte altre cose. Come ha influito - se è giusto questo concetto dello storico fin­landese Seppo HentiHi - la "guerra fredda storiografica" tra Germania occidentale e Germania orientale sul giudizio della dittatura nazista e sull'immagine della storia più recente?1

In questa sede si possono dare a queste domande, in riferimento agli anni Quaranta e Cinquanta, solo alcune risposte molto semplificatorie.

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Bernd Faulenbach

I La denazificazione non ha messo realmente in discussione la continuità perso­

nale della corporazione storica. Secondo Wolfgang Weber essa riguardò 24 storici su 110, di cui una parte à la longue tornò all'università.2 I rappresentanti della sto­riografia nazionalsocialista non poterono più restare nelle università. Di coloro che furono esclusi nella zona occidentale fanno parte Walter Platzhoff, che era stato ret­tore a Francoforte, Karl Alexander von Miiller, promotore fin dall'inizio del nazio­nalsocialismo a Monaco e direttore della "Historische Zeitschrift" durante il Terzo Reich e Gustav Adolf Rein, che aveva fatto parte dei nazionalsocialisti convinti; temporaneamente sospesi furono Willy Andreas e Wilhelm Mommsen, che nell'e­poca di Weimar erano annoverati nell'ala liberaldemocratica degli storici e che dopo il 1933 avevano ceduto al nazionalsocialismo.

Nella zona d'occupazione sovietica la denazificazione riguardò più storici che nelle zone occidentali, tuttavia anche qui prevalse la continuità- soprattutto di fron­te alla carenza di storici qualificati marxisti o marxisti-leninisti. In generale, si può osservare a proposito degli storici lo stesso che che si nota in altri settori sociali della zona d'occupazione sovietica: determinante per la possibilità di ricoprire posti di responsabilità non fu tanto il comportamento avuto nel passato quanto la dispo­nibilità a contribuire alla cosiddetta "rivoluzione antifascista-democratica".3

Nella Germania occidentale ritrovarono un posto alla lunga anche coloro che avevano lavorato nella Germania orientale, nelle università del Reich del Baltico o anche nella zona d'occupazione sovietica.

Degli storici emigrati tornò soltanto una parte. Di questo furono responsabili riserve di tipo politico, soprattutto per gli storici ebrei, la difficile situazione socio­economica in Germania, motivi familiari e cause simili.4 Non c'è dubbio che gli sto­rici meno conosciuti non ottennero chiamate da nessuna università. Nella Germania occidentale tornarono Hans Rothfels e Hans-Joachim Schoeps, entrambi storici conservatori e inoltre il politologo di orientamento socialdemocratico Ernst Fraenkel. Hajo Holborn, che negli USA era diventato uno dei principali storici per la"Central European History'', non fu disposto ad accettare una cattedra in Germania; tuttavia egli visitò spesso il paese negli anni Cinquanta e Sessanta.5 Hans Rosenberg rifiutò una chiamata a Colonia, ma nel 1951 andò alla Freie Universitat di Berlino Ovest come docente ospite, esercitando una notevole influenza su una generazione più giovane di storici. 6 Anche se Dietrich Gerhard accettò nel1954 una cattedra a Colonia, egli restò radicato a St. Louis negli USA. Gli storici emigrati ebbero un influsso crescente nella Repubblica federale soltanto nel clima mutato degli anni Sessanta e Settanta. Alcuni storici di orientamento comunista andarono nella zona d'occupazione sovietica/RDT: Leo Stern, Jiirgen Kuczynski e Karl Obermann. Una parte di questi storici doveva ancora completare la sua qualifica­zione.7

Nella zona d'occupazione sovietica/RDT gli "storici borghesi" vennero sempre più ridimensionati. Una parte fu posta fuori ruolo o andò in Occidente. Dal 1948

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La storiografia tedesca dopo la dittatura di Hitler

venne progressivamente realizzata la leadership marxista-comunista. Già nei primi anni Cinquanta fu affermata l'egemonia della storiografia marxista-leninista; le altre posizioni, anche quelle marxiste, furono spinte ai margini.8 Gli storici "bor­ghesi", cioè di orientamento non marxista-leninista, conservarono abbastanza a lungo la loro posizione nella storia antica e medievale.9

In generale, si può concludere che all'Ovest la denazificazione e le conseguen­ze della guerra hanno intaccato la continuità personale degli storici, senza tuttavia veramente interromperla. All'Est la continuità fu sì interrotta, con un processo dura­to anni, ma questo fu un risultato non tanto della denazificazione, quanto della costruzione di una storiografia marxista-leninista decisa dal partito.

Il quadro era simile allivello delle istituzioni. Nel1945-46le università riprese­ro l'insegnamento, con alcune differenze nelle diverse zone d'occupazione. Nel primo dopoguerra furono riorganizzati i "Monumenta Germaniae Historica" .10 A causa della guerra, delle sue conseguenze e della denazificazione, vi fu una sospen­sione sia nello Historikerverband (Associazione storica), che venne ricostituito nel 1948 con un appello di Gerhard Ritter, Hermann Aubin, Hermann Heimpel e Herbert Grundmann, che nella pubblicazione della più importante rivista scientifi­ca storica, la "Historische Zeitschrift", il cui primo volume fu pubblicato sotto la direzione editoriale di Ludwig Dehio nel 1950, dopo il superamento di numerose difficoltà. 11 Nonostante qualche accento nuovo, qui prevalsero gli aspetti di conti­nuità.

Tuttavia nel dopoguerra fu fondata ex novo nelle zone occidentali e nella Repubblica federale anche una serie di istituzioni e di gruppi di ricerca, che segna­rono dei nuovi orientamenti nella storiografia. Importante è soprattutto la fondazio­ne dello "Institut fiir Zeitgeschichte". 12 L'idea di fondare questo istituto risale al 1945 e fu originata in primo luogo da considerazioni di pedagogia popolare; que­st'idea fu al centro di una polemica tra i politici di orientamento cattolico e degli storici influenti, soprattutto Gerhard Ritter, ma condusse alla fine, nel 1950, alla fondazione dell'Istituto. Da allora l'Istituto si dedicò molto alla ricerca sul movi­mento nazista e sulla storia del Terzo Reich, inoltre alla storia della repubblica di Weimar. I "Vierteljahreshefte fiir Zeitgeschichte", diretti dall953 da Hans Rothfels e Theodor Eschenburg, rispecchiano il lavoro dell'Istituto e della ricerca contem­poraneistica. Altre nuove creazioni furono la costituzione del "Max-Planck-Institut fiir die Geschichte" di Gottingen e la fondazione della "Kommission ftir die Geschichte des Parlamentarismus und der politischen Parteien", che mostrano il particolare interesse della storiografia per questo campo tematico. 13

Nella zona d'occupazione sovietica/RDT si affermò negli anni Cinquanta la separazione della ricerca e dell'insegnamento secondo il modello sovietico. Sorsero non solo grandi istituzioni di ricerca, come il "Zentralinstitut ftir Geschichte" dell'Accademia delle Scienze, ma anche grandi istituti di partito, così che i due stati tedeschi percorsero strade separate anche nell'organizzazione scientifica. Nacquero riviste proprie della RDT; nel 1953 fu pubblicata la "Zeitschrift fiir

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Geschichtswissenschaft", nella quale, come negli altri organismi, era dominante la storiografia marxista-leninista a carattere stalinista. La polemica con la storiogra­fia tedesco-occidentale ebbe un ruolo significativo a questo riguardo. 14

Sul piano delle istituzioni vi furono dei grandi cambiamenti sia nella parte occi­dentale che in quella orientale. Soprattutto nella zona d'occupazione sovietica/RDT fu costituita anche per la storiografia una struttura scientifica orientata sul modello sovietico. I cambiamenti non furono affatto determinati dal tentativo di superare le strutture dell'epoca nazionalsocialista: prioritarie erano all'Ovest la "ricostruzione" e ad Est l'adeguamento al modello sovietico.

II In che misura fu analizzato nel dopoguerra il ruolo della storiografia e in che

modo vi hanno contribuito gli storici? La questione del ruolo degli storici si pre­sentò nel contesto della denazificazione, in particolare all'interno del lavoro dei comitati organizzativi istituiti dalle autorità d'occupazione, che dovevano creare i presupposti della riapertura delle università.

Da un punto di vista generale bisogna costatare che l'analisi autocritica del ruolo degli storici fu molto carente. Alcuni - come Hermann Heimpel e Reinhard Wittram - parlarono dei loro errori e dei loro comportamenti sbagliati nel Terzo Reich. 15 Diversi fatti furono taciuti. Che questo silenzio e questa discrezione fosse­ro la premessa del nuovo orientamento democratico, come ritiene Hermann Liibbe, sembra discutibile. 16 Spesso fu sottolineato che la storiografia non era stata preva­lentemente caratterizzata in senso nazionalsocialista. 17 Si pensava di doversi e di potersi separare in fretta dai nazisti in senso stretto, ma si rivendicava alla corpora­zione nella sua stragrande maggioranza il merito di aver fornito ricerche e opere sto­riche serie e di aver respinto le richieste dei nazisti. Ciò pone il problema del ruolo effettivo della storiografia nell'epoca nazionalista.

La storiografia tedesca era stata strettamente legata alla fondazione dello stato nazionale tedesco e alla storia dell'impero, così che nel1918-19, con il crollo del­l'impero e la rivoluzione, essa aveva perso il suo contesto di riferimento politico­ideale.18 Anche se la continuità personale non fu allora in alcun modo messa in dub­bio, la parte principale della storiografia mantenne una distanza più o meno grande dalla repubblica di Weimar. I cosiddetti "Vernunftrepublikaner", che accettarono la repubblica e si sforzarono di mantenere la continuità nella storiografia e i democra­tici, che volevano addirittura una revisione delle tradizioni storiografiche, costitui­vano una minoranza. Un gruppo almeno altrettanto grande esigeva non solo che vi fosse una nuova ascesa politica della Germania, ma anche che si tornasse a una via particolare tedesca di sviluppo socio-politico. Ciò implicava il superamento della democrazia parlamentare. 19

Nel 1933 non vi era praticamente alcun nazista tra gli storici affermati e molti rifiutavano anche lo stile politico plebeo dei nazisti. Non vi è dubbio però che una parte degli storici, soprattutto dei più giovani, fosse coinvolta nel 1933 nella "rina-

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scita nazionale" e alcuni di essi salirono anche in cattedra rapidamente.20 Viceversa, i pochi liberali di sinistra persero completamente i loro posti; una parte emigrò, come Veit Valentin, i giovani allievi di Meinecke Hajo Holborn, Hans Rosenberg, Felix Gilbert, Dietrich Gerhard, inoltre Wolfgang Hallgarten, Ernst Kantorowicz e altri. La maggior parte degli storici non dovette in realtà essere però livellata. Essi erano parte di quei gruppi e di quelle istituzioni, che contribuirono a sostenere il Terzo Reich senza essere nazisti in senso stretto. Walter Frank e il suo "Reichsinstitut ftir die Geschichte des neuen Deutschland" non ebbero alcuna ege­monia sugli storici dell'età moderna. 21 La storiografia poté per lo più conservare una certa indipendenza rispetto alla NSDAP e alle sue istanze, poiché, come ha detto Rudolf Vierhaus, vi furono "sorprendentemente poche collisioni tra ciò che il siste­ma nazista chiedeva e si aspettava e ciò che veniva insegnato e scritto dagli stori-

Non bisogna trascurare il fatto che tra molti storici e la politica nazista vi era un non piccolissimo terreno comune di convinzioni: la concezione darwinistico-socia­le della storia come lotta delle nazioni e degli stati, la dottrina del primato della poli­tica estera, l'idea dello stato di potenza, lo scetticismo verso la democrazia occi­dentale, l'idea di uno sviluppo speciale tedesco. A ciò si aggiungevano in molti sto­rici, soprattutto tra i più giovani, l'approvazione dell'anti-liberalismo e l'obbiettivo di una limitazione dell'idea di nazione e di società, non in ultimo la fissazione sui concetti di Volk (popolo) e di Volkstum (popolare)Y La revisione del trattato di Versailles, la nuova ascesa nella politica estera, l' AnschluB dell'Austria erano ulteriori "ponti" che univano gli storici e il sistema nazionalsocialista. Come ha mostrato Karin Schoenwaelder, durante la guerra persino gli storici che erano criti­ci della politica nazionalsocialista parteciparono alla discussione sul nuovo ordine dell'Europa. 24

Il clima epocale creato dal nazismo in Germania influenzò senza dubbio anche la storiografia. Vennero così stimolate soprattutto determinate direzioni, come la concezione pangermanistica della storia e la Volksgeschichte. 25 La linea di ricerca riassunta sotto il concetto di Volksgeschichte aprì dal punto di vista metodologico nuove strade interdisciplinari, tuttavia essa aveva senza dubbio una contiguità con la concezione del Volkstum del nazionalsocialismo. Inoltre i risultati di questa linea storiografica furono utilizzabili strumentalmente dalla politica nazista, per esempio nella fissazione dell' appartenenza al Volkstum e dei confini. Nella persona di Joachim Beier, che fu al servizio dello Sicherheitsdienst delle SS, uno storico di questa linea ha persino partecipato alla politica di sterminio nazista.26

In questo contesto, le dichiarazioni di influenti storici del dopoguerra, secondo cui la storiografia ha in maggioranza mantenuto la sua autonomia scientifica di fronte al nazionalsocialismo sono tutt'al più una mezza verità. In realtà, "la capa­cità di perdurare" di questa scienza era troppo grande perché potesse essere global­mente strumentalizzata ideologicamente e politicamente. Tuttavia in molte parti della storiografia l'adattamento al sistema nazionalsocialista e i punti d'accordo con

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la politica nazista, soprattutto con la politica estera, sono inequivocabili, come lo sono la parziale apertura alla politica nazista, per esempio accogliendo la rubrica "questione ebraica" nella "Historische Zeitschrift", e non in ultimo il ruolo proble­matico della Volksgeschichtschreibung. Su tutti questi aspetti non vi fu nel dopo­guerra alcuna riflessione critica .27

Nello stesso tempo però bisogna anche osservare che alcuni storici si ritirarono in settori scientifici non politici e alcuni collaborarono persino con la resistenza. Gerhard Ritter mantenne un collegamento con il circolo di Goerdeler, elaborò per esso un memoriale e fu arrestato per alto tradimento. Nel dopoguerra egli ha fatto più volte ricorso a questo fatto, derivandone una giustificazione della sua aspira­zione alla guida della storiografia dopo Hitler; questo era anche uno dei motivi del suo comportamento molto sicuro di sé nei confronti degli storici stranieri.28 E' stata provata una vicinanza alla resistenza anche di Friedrich Baetgen e di Peter Rassow.29 Fritz Kem, che inizialmente aveva combattuto aspramente la repubblica di Weimar e poi si era impegnato per la riconciliazione franco-tedesca, appoggiò nel Terzo Reich un gruppo di studenti comunista attorno allo storico di Bonn Walter Markov, che era in prigione dal 1936, e fuggì nell'aprile 1945 in Svizzera a causa del suo legame con la resistenza militare. 30

Nelle pubblicazioni degli storici, che erano sottoposte alla censura, sono solo a fatica rintracciabili tracce di un atteggiamento critico. Gerhard Ritter rivendicò il merito di aver rivolto implicitamente una critica alla politica nazista nel suo Machtstaat und Utopie. Secondo lui si era addestrati "a leggere tra le righe".31 In parte può anche esser stato così, tuttavia i suoi testi si potevano leggere anche in un altro modo e furono interpretati diversamente anche da parte degli esiliati, come mostra il dibattito sul menzionato libro di Ritter nel dopoguerra. 32 La distanza spa­ziale e temporale accresce le difficoltà nel giudicare l'effetto della parola scritta o parlata nelle società totalitarie.

Riassumendo, bisogna concludere che nel dopoguerra non ha avuto luogo un confronto autocritico con la storia della disciplina, a parte una partecipazione degli storici al dibattito su una revisione dell'immagine della storia, di cui parleremo subito. Questo confronto è stato fatto solo a partire dagli anni Sessanta, fondamen­talmente da parte di un'altra generazione, più giovane, che non era realmente coin­volta nell'epoca nazionalsocialista (si pensi al lavoro di Helmut Heiber sul "Reichsinstitut flir Geschichte des neuen Deutschland").33

Come si può spiegare quest'elusione del proprio passato da parte degli storici? Hans Schleier ha scritto a questo proposito, elaborando le proprie esperienze nella RDT: "Oggi, così come dopo il1945, il superamento del passato è così difficile per chi è coinvolto, perché l'autocritica e la critica sono così strettamente intrecciate alla questione dell'esistenza professionale della categoria"34 Questo è un elemento importante. A ciò si aggiunge il fatto che un nuovo orientamento richiede l' elabo­razione del vissuto e quindi anche del tempo.

Anche nella RDT non venne inizialmente compiuta questa elaborazione delle

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tradizioni storiografiche. Certamente la storiografia e il comportamento di Gerhard Ritter, per fare un esempio, furono oggetto di critica da parte della storiografia della RDT, tuttavia la polemica era così evidente che l'effetto fu piuttosto controprodu­cente.35 Più importanti furono i contributi storiografici degli anni Sessanta e Settanta, che stimolarono anche la discussione ad Occidente.36

III

Dopo il 1945 fu avanzata da più parti la richiesta di una revisione dell'immagi­ne della storia tedesca. Friedrich Meinecke scrisse nel 1945: "La nostra immagine tradizionale della storia, quella con cui siamo cresciuti, necessita ora di una revi­sione fondamentale, per distinguere chiaramente i valori e i non valori della nostra storia".37 Gerhard Ritter sottolineò nel 1946 "che vi sarebbe bisogno di una totale trasformazione del nostro pensiero storico", in seguito tuttavia egli parlò non solo della necessità, ma anche dei pericoli di una revisione.38 Fritz Hartung, per fare un terzo esempio, che nell'epoca di Weimar aveva fatto parte della "nationale Opposition" contro la repubblica, constatò nel1946 una corresponsabilità della sto­riografia tedesca nel fatto "che il popolo tedesco non ha imparato nulla dal crollo" e quindi ha contribuito alla preparazione spirituale del nazionalsocialismo (una cri­tica che può esser compresa solo come autocritica).39 La richiesta di una revisione dell'immagine della storia, che implicava una critica prudente e formulata solo in termini generali della tradizione della disciplina storiografica, era senza dubbio dif­fusa tra gli storici negli anni del dopoguerra.40

Per esempio, negli anni del dopoguerra, che furono caratterizzati dalla caduta dei tedeschi nell'impotenza politica, venne criticata l'ipertrofia del pensiero di potenza nel pensiero politico e anche nella storiografia tedeschi. Meinecke, che già dopo la prima guerra mondiale aveva parlato di un'irrazionalizzazione del potere "genuina­mente tedesca, ma non commisurata allo scopo", nel suo libro del 1945 Die deut­sche Katastrophe criticò nuovamente il fatto che "in Germania la potenza fosse diventata fine a se stessa".4

' Attenendosi alla contrapposizione, caratteristica del pensiero tedesco, di potenza da un lato e cultura dall'altro, egli affermò che "da noi il pensiero di potenza deve purificarsi dalla sporcizia che lo ha ricoperto, soprattut­to nel Terzo Reich, prima d'essere di nuovo in grado di combinarsi con lo spirito e con la cultura".42 Gerhard Ritter ammise in modo autocritico, che "( ... )un esagera­to culto del potere in quanto tale, un quasi pagano deliziarsi di ragionamenti machiavellici (che i liberai-nazionali amavano chiamare, secondo l'uso linguistico bismarkiano, "di realismo politico")", era stato diffuso "proprio tra i rankiani, che inoltre avevano la tendenza a cercare la ragion di stato anche là dove le decisioni dei governanti sono determinate dall'insufficienza umana, dal cieco caso e dalla passione".43

Singoli storici volevano non solo voltare le spalle alla concezione dello stato di potenza, ma anche cercare di raggiungere per i tedeschi un'esistenza principalmen­te culturale. Pertanto affermavano che i tedeschi dovevano riacquisire un atteggia-

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mento cosmopolita e tornare al pensiero federalistico.44 Meinecke, che prima della prima guerra mondiale aveva concepito lo sviluppo dal cosmopolitismo allo stato nazionale come un percorso in ascesa, nel 1945-46 voleva ritornare al cosmopoliti­smo del tempo di Goethe e promosse la fondazione di comunità goethiane.4s Dal suo punto di vista Burckhardt era più attuale di Ranke, poiché aveva "visto molto più a fondo il malvagio mondo d'oggi".46 Questa riattualizzazione di Burckhardt suscitò però anche delle opposizioni. Già nel1946 Gerhard Ritter si rifiutò di riconoscere che in Burckhardt si potesse trovare "la soluzione dell'enigma del mondo, che può essere salvifica per la nostra situazione"; egli affermò decisamente "che la comu­nità umana non può prosperare che sul terreno dell'ordinamento statale e che non vi è nessun ordinamento statale senza rivendicazione di potere e impiego di violen­za".47

In conclusione, si deve costatare che anche se gli storici nelle zone occidentali e nella Repubblica federale parteciparono al dibattito pubblico sulla revisione del­l'immagine della storia nel primo dopoguerra, essi impiegavano categorie in alcuni casi abbastanza vaghe, come quella del "carattere demoniaco del potere" .48 La loro attenzione era rivolta principalmente alla politica di potenza e di conquista e poco ai problemi di politica interna. Inoltre non bisogna dimenticare che ben presto que­sto sforzo si attenuò, cosa che dev'essere vista nel contesto della polemica sulla divisione tedesca.

IV Nella situazione del dopoguerra si affermò in un intero gruppo di storici l'idea

che fosse compito dello storico e della storiografia, di fronte alla difficile situazio­ne della nazione, fornire un orientamento sulla base della storia. Nel settembre 1946 Gerhard Ritter scrisse a Friedrich Meinecke "Mai sono stato consapevole come oggi del grande compito politico nazionale dello storico ... , mai però sono stato così consapevole anche della mostruosa difficoltà del compito."49 Fu con lo scopo di fare un'autocritica e insieme di difendere la continuità che egli scrisse: "Ma è infinita­mente importante che lo storico da un lato assicuri la continuità del pensiero stori­co, quindi impedisca che un'interruzione catastrofica della tradizione apra la strada al completo caos della disperazione politica e morale; e dall'altro lato mostri la necessaria sveltezza per aiutare a promuovere un vero nuovo inizio senza rigidi conservativismi" .so

Gli storici cercarono, anche se con accenti diversi, di mettere insieme entrambi gli aspetti allo scopo di realizzare un "autorisveglio della coscienza" (Selbstbesinnung). Alcuni storici si sforzarono in una serie di libri, saggi e confe­renze apparsi nel primo dopoguerra di contribuire all'orientamento dell'opinione pubblica tedesca, reinterpretando la più recente storia tedesca alla luce della cata­strofe tedesca - Siegfried Kaelhler parlò di un "oscuro enigma della storia tede­sca" .s 1 Esempi caratteristici di questi tentativi sono il libro sulla "catastrofe tedsca" di Friedrich Meinecke e Deutschland und Europa di Gerhard Ritter, che sono parte

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di un più vasto dibattito sulla "questione della colpa" nella società tedesca.52

Meinecke faceva risalire la "catastrofe tedesca" ad una combinazione di fattori interni da un lato e di fattori comuni a tutta l'Europa dall'altro, attribuendo anche lui, riguardo al 1933, una certa importanza al casoY La specificità dello sviluppo tedesco era costituita, a suo parere, dal rapporto delle due correnti europee del nazionalismo e del socialismo, dalla loro contrapposizione e dal loro particolare intreccio in Germania. Gli sembrava essenziale a questo riguardo anche la tradizio­ne militaristica prussiana, che ora vedeva in modo straordinariamente critico, distin­guendo tra una Prussia capace di cultura e un'altra nemica della cultura. Altrettanto criticamente però egli giudicava lo sviluppo della borghesia. Secondo lui la devia­zione decisiva dal pensiero liberale dell'Europa occidentale iniziava nel 1848 e nella particolare via tedesca all'unità, trovava espressione nel Partito della patria durante la prima guerra mondiale e in fenomeni come la "leggenda della pugnala­ta alle spalle", culminando infine nel Terzo Rei c h. Meinecke credeva di poter pro­vare delle continuità dal XIX secolo fino al Terzo Reich.

Al contrario di Meinecke, Ritter sottolineava la discontinuità tra il Terzo Reich e la storia prussiano-tedesca. In Deutschland und Europa - come già aveva fatto nel memoriale, che scrisse a Friburgo nel gennaio 1943 - egli prese energicamente posi­zione contro la tesi di una via generale sbagliata della Germania, che veniva soste­nuta non solo nell'opinione pubblica alleata, ma anche in quella tedesca54

- si pensi alle critiche di Karl Barth, Ernst Niekisch o anche di Alexander Abusch. Queste cri­tiche presupponevano una continuità da Lutero a Hitler, attraverso Federico II e Bismark.55 Secondo Ritter, né illuteranesimo, né il prussianesimo dovevano esser considerati premesse del nazionalsocialismo in Germania. Ritter considerava piuttosto il Terzo Reich come un risultato patologico del processo di democratizza­zione iniziato con la Rivoluzione francese, anche come conseguenza della secola­rizzazione a questa intrecciata e della connessa decadenza delle norme morali. In questo modo, difendendo la storia tedesco-prussiana, egli riconduceva il nazional­socialismo al processo complessivo della modemizzazione. La difesa della Prussia provocò le critiche degli storici cattolici, sebbene anche questi connettessero come Ritter il nazionalsocialismo alla modemizzazione.56 Le concezioni troppo estese della continuità esistenti nella pubblicistica vennero per lo più rifiutate dagli stori­CI.

Tuttavia anche gli storici parteciparono alla ricerca dei fattori che avevano sepa­rato la Germania dall'Europa occidentale. Rudolf Stadelmann sostenne così la tesi che la Germania non avesse superato le tre tappe percorse dall' Inghilterra, dalla Francia e dagli USA nel XVII e nel XIX secolo: il passaggio alla costituzione rap­presentativa democratica, alla società dell'uguaglianza e al pensiero della cittadi­nanza. 57 L'assolutismo illuminato avrebbe separato lo sviluppo tedesco da quello europeo, che fu spinto avanti dalle rivoluzioni. Il fallimento della rivoluzione del 1848- su cui nel1948 si concentrò molto interesse- fu per Stadelmann un'ulterio­re tappa del particolare sviluppo tedesco.

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Anche la fondazione dell'impero di Bismarck fu discussa nel dopoguerra nel contesto della recente storia tedesca. Ulrich Noack e Franz Schnabel sollevarono il problema se la fondazione dell'impero piccolo tedesco-prussiana di Bismarck,

· imposta con mezzi militari, non dovesse essere considerata, alla luce delle sue con­seguenze di lungo periodo, un pernicioso cambiamento di binari, mentre un ordina­mento grande-tedesco e federalistico avrebbe corrisposto meglio alla storia tedesca e alla situazione mitteleuropea.58 Rispetto a questa tesi, Ritter e altri storici confer­marono nuovamente la giustificazione storica e la mancanza d'alternative della via di Bismarck. E' indicativo del ritorno temporaneo di vecchie controversie della politica nazionale il fatto che in questa discussione risuonasse ancora una volta il contrasto tra grandi-tedeschi e piccoli-tedeschi, assieme a quello tra le confessioni. Questo contrasto fu di nuovo deciso a favore della linea di sviluppo che ebbe suc­cesso.

La questione delle continuità della recente storia tedesca con il Terzo Reich passò in secondo piano già nei primi anni Cinquanta. Essa fu ripresa soltanto negli anni Sessanta, nel contesto della cosiddetta Fischer-Kontroverse, e venne allora riferita sia alla politica estera che allo sviluppo sociale e politico dall'Ottocento; il maggior interesse fu rivolto soprattutto alla storia dell'impero.59

Nella zona d'occupazione sovietica/RDT vi furono nel primo dopoguerra su questo complesso di problemi delle posizioni parzialmente simili a quelle del resto della Germania. Il libro di Alexander Abusch Irrweg der Nation, che fu la più importante espressione della cosiddetta Misere-These, considerava le tradizioni prussiane, Junker e militaristiche come il cuore del problema tedesco.60 Anche que­sta tesi fu abbandonata nei primi anni Sessanta, quando si dovette distinguere tra gli elementi "progressivi" nel passato tedesco e quelli "reazionari". Ciò portò ad un' immagine della storia dicotomica.

Per quanto riguarda le categorie con cui fu interpretata la storia tedesca in Occidente nel dopoguerra, appare evidente che la dittatura nazionalsocialista e la sua politica furono in parte ricondotte alla modernità, cosa che fece assumere alla problematica tedesca il significato di un'accentuazione particolare di un problema europeo. Inoltre fu impiegata da alcuni la categoria della via speciale tedesca, che prima del 1945 aveva avuto un valore positivo, ma che ora assumeva un significa­to critico.61 Nonostante l'idea di uno sviluppo peculiare tedesco, si assumeva sem­pre più l'esistenza di una discontinuità tra la recente storia tedesca e l'epoca nazio­nalsocialista. S'indebolì così anche l'impulso a confrontarsi criticamente con la recente storia tedesca. Tranne che per la linea storiografica cattolica, per cui era cen­trale l'idea dell'Occidente, la prospettiva nazionale restò dominante. Bisogna pen­sare che il mantenimento di questa prospettiva era per certi versi la premessa di un'autoriflessione critica.62 In ogni modo sottolineare problemi comuni europei poteva significare anche sfuggire alla problematica tedesca; lo stesso valeva, sul piano politico, per l'abbandono dell'identità tedesca a favore di quella europea.

Bisogna constatare che il dibattito del dopoguerra fu caratterizzato più da una

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discussione sull'identità nazionale, che si riallacciò a discussioni precedenti, che da una precisa elaborazione critica dell'esperienza della dittatura. Gli storici - come la grande maggioranza della popolazione - sentivano prevalentemente la vittoria allea­ta sul nazionalsocialismo non come una liberazione, ma come una sconfitta, una catastrofe.

v Per la maggior parte degli storici nel primo dopoguerra la più recente storia tede­

sca, cioè l'epoca nazionalsocialista e la sua preistoria immediata, non fu ali' inizio un tema di studio.63 Ciò non dipese soltanto dalla scarsa accessibilità delle fonti, una situazione che si modificò nel corso degli anni Cinquanta, ma anche da riserve dovute in parte a motivi professionali (ci sarebbe stata ancora troppo poca distanza temporale) o da blocchi d'origine biografica.

Certo sul mercato librario uscì presto un gran numero di autobiografie e di opere con toni autobiografici sulla storia politica, militare ed economica della seconda guerra mondiale. In questi libri l'esperienza bellica dominava su quella della ditta­tura. Una posizione particolare ebbe il libro Der SS-Staat di Eugen Kogon, che spie­gava il sistema di terrore. In questo libro l'autore, che era stato detenuto a Buchenwald, univa le esperienze personali all'analisi scientifica.64

Lo "Institut fiir Zeitgeschichte" divenne il centro più importante della ricerca storico-contemporanea, che era principalmente rivolta alla chiarificazione di impor­tanti fatti della vita politica. Anche nella storiografia contemporaneistica degli anni Quaranta e Cinquanta è evidente un certo ritardo nella ricerca sulla politica riguar­do agli ebrei e sul genocidio ebraico.65 Anche se i "Vierteljahreshefte filr Zeitgeschichte" pubblicarono già nel loro primo numero una testimonianza sulle gassazioni di massa, bisogna osservare che l'Olocausto restò piuttosto ai margini dell'interesse scientifico della storiografia contemporaneistica tedesco-occidentale, cosa che corrispondeva all'opinione diffusa che si dovesse considerare lo sterminio degli ebrei esclusivamente come opera delle SS.66

Nell'interpretazione del Terzo Reich dominante nella Germania occidentale, il nazionalsocialismo venne all'inizio concepito in primo luogo come hitlerismo. Il mito del Fiihrer aveva senza dubbio ancora il suo effetto; i fatti del Terzo Reich venivano visti a partire da Hitler, che veniva considerato in parte demone, in parte soggiacente al carattere demoniaco del potere. Ciò discolpava senza dubbio tutta la restante storia tedescaY Rispetto a quest'interpretazione, la teoria del totalitarismo, che si diffuse vieppiù ad Occidente negli anni Cinquanta, fu certamente un pro­gresso.68 Tuttavia essa causò alcuni unilateralismi nella visione del Terzo Reich, poi­ché non solo trascurò le condizioni socio-politiche della politica nazionalsocialista e attribuì al sistema nazista una struttura monolitica, ma rese anche possibile colle­gare la critica del sistema nazista alla lotta contro il comunismo. Ciò implicava la tendenza addirittura a strumentalizzare la prima cosa a favore della seconda.

Toni apologetici erano udibili solo ai margini della corporazione storica tedesco-

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occidentale, come nel caso di Gustav Adolf Rein, che nel 1954, richiamandosi al principio di obbiettività di Ranke, criticò la ricerca sul nazionalsocialismo, che a suo parere era guidata da pregiudizi. In un memoriale egli parlò di "immagini sto­riche di Versailles e di Norimberga distorte in modo menzognero" e sostenne che la storiografia sul nazismo fosse in mano ad avvocati. 69 A questa critica si opposero altri storici.

L'interpretazione dell'epoca nazionalsocialista fu per certi aspetti l'immagine rovesciata dei modelli interpretativi prevalenti ad Occidente. Tuttavia bisogna con­statare che nella zona d'occupazione sovietica/RDT non fu creata alcuna ricerca storico-contemporaneistica paragonabile a quella tedesco-occidentale. In continuità con le tradizionali teorie del fascismo marxiste-leniniste, soprattutto con la formu­la di Dimitroff, il sistema nazionalsocialista fu interpretato come l'aperta dittatura terroristica del capitale monopolistico o finanziario, il cui dominio ad Occidente restava ininterrotto; la funzionalizzazione dell'interpretazione del sistema nazista contro il sistema concorrente era qui molto più crassa che in Occidente.70 Del resto essa serviva direttamente alla legittimazione del "socialismo" nella RDT.

Anche l'immagine della resistenza nelle due storiografie era per certi aspetti antagonistica-71 La RDT si definiva come uno stato antifascista. Sebbene la resi­stenza antifascista fosse oggetto della storiografia, la politica della SED influì su quest'ultima in modo molto problematico. Lo spettro di ciò che era concepito come resistenza antifascista si restrinse. La resistenza venne insieme destoricizzata e mitizzata, solo negli anni Settanta e Ottanta vi furono nella RDT considerevoli ten­denze a ristoricizzare la resistenza.72

Anche ad Occidente tuttavia vi era un'immagine unilaterale della resistenza. Qui la resistenza del movimento operaio fu inizialmente trascurata. Al centro dell' atten­zione vi fu invece la resistenza che condusse al20 luglio. Essa fu però generalmente riconosciuta soltanto dopo un lungo processo nell'opinione pubblica- anche gra­zie all'impegno degli storici.73 In questo contesto è significativo il libro di Hans Rothfels Die deutsche Opposition gegen Hitler, che mostrava che nella resistenza del 20 luglio si erano espresse delle specifiche tradizioni tedesche e che quindi una parificazione tra la tradizione tedesca e il nazionalsocialismo era inaccettabile.74

Non era priva di finalità politiche neppure la biografia di Goerdeler di Gerhard Ritter, che era tra l'altro ispirata dall'intenzione di dimostrare che la resistenza era una tradizione a cui si poteva riallacciare la nuova Repubblica federale. 75 Ritter pre­sentava Goerdeler e le sue idee con inequivocabile simpatia, ma non ometteva le debolezze di questa personalità. Le figure guida di Ritter, a cui a suo parere avreb­bero dovuto far riferimento i tedeschi, erano Federico il Grande, Stein, Bismarck e Goerdeler. 76

Sarebbe troppo semplice parlare di una completa rimozione del Terzo Reich da parte della storiografia degli anni Quaranta e Cinquanta. Bisogna ricordare due aspetti:

l) Nella Repubblica federale si sviluppò negli anni Cinquanta- al contrario che

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nella RDT, dove non vi fu all'inizio nulla di paragonabile- una ricerca storico-con­temporaneistica, in parte intrecciata alla giovane disciplina della politologia, di notevole livello; si pensi per esempio a lavori come la Auflosung der Weimarer Republik di Karl Dietrich Bracher, che fu pubblicato nel1955. 77 Questa storiogra­fia contemporaneistica fu all'inizio in rapporti un po' tesi con la maggior parte degli storici modernisti e medievisti. La tensione fu superata solo con la penetrazione di approcci critici nella storiografia dell'età moderna a partire dalla Fischer­Kontroverse.78

2) Il conflitto Est-Ovest si sovrappose allo studio dell'epoca nazionalsocialista e contribuì a determinarne l'interpretazione. Nella RDT la valutazione dell'epoca nazionalsocialista fu quasi direttamente in funzione politica, ma anche nella Germania occidentale il clima politico influenzò l'interpretazione del nazismo.79

VI

Nel dopoguerra, cioè nell'epoca post-dittatura, non si arrivò a un nuovo orienta­mento metodologico. Spesso, con riferimento non solo a irruzioni ideologiche nella storiografia durante il periodo nazista, ma anche alle tendenze contemporanee "revisionistiche", venne postulato il rispetto dell'ideale di obbiettività rankiano.80

Anche se nella discussione sulla coscienza storica tedesca furono toccate pure que­stioni sui fondamenti della storiografia, predominò molto chiaramente la continuità metodologica con le tradizioni storiciste.81

Se negli ultimi decenni è stata sottolineata criticamente la mancanza di una moderna ricerca storico-sociale dopo il 1945, bisogna ricordare che negli anni Cinquanta, per esempio al congresso storico di Marburgo del1951, si discusse dav­vero di storia sociale. A ragione Winfried Schulze ha sottolineato che i nuovi approcci storico-sociali degli anni Cinquanta si riallacciavano in parte alle tradizio­ni della storia regionale e della cosiddetta Volksgeschichte, che si erano formate dopo la prima guerra mondiale e si erano sviluppate nel periodo nazista. 82

Del resto l'esperienza della storia tedesca con le sue catastrofi era così schiac­ciante, che una frequentazione troppo estesa della storia sociale e culturale avrebbe potuto essere considerata proprio come un sottrarsi al compito della ricostruzione critica della recente storia tedesca. Tuttavia le problematiche e gli strumenti meto­dologici di questa ricostruzione erano spesso troppo convenzionali; la storia politi­ca era aperta alla storia culturale, ma non alla storia sociale. Dagli anni Sessanta si sviluppò, in parte sotto l'influenza di storici emigrati e determinata da un mutato clima epocale scientifico-culturale, una nuova storiografia sociale.

Anche nella storiografia nella zona d'occupazione sovietica e nella RDT fu a lungo dominante la storia politica, in cui avvenimenti, idee e personalità erano viep­più interpretati dal punto di vista della partiticità marxista-leninista o stalinista. Lo storico finlandese Hentilli giudica a ragione: "Il divario tra la storia politica da un lato e la storia sociale ed economica dall'altro fu (nella RDT) almeno altrettanto grande quanto nella storiografia tradizionale occidentale"; soltanto negli ultimi due

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decenni della RDT si formò una storiografia sociale indipendente marxista.83

L'immagine del predominio della continuità nel dopoguerra viene richiamata anche dal fatto che nella storiografia occidentale vennero continuati numerosi temi di ricerca, come le riforme prussiane o Bismarck.84 Tuttavia vi furono discussioni e nuove interpretazioni, per esempio sul tema del rapporto fra la Germania e l'Occidente. Inoltre si sviluppò un forte interesse per la storia del parlamentarismo e dei partiti - un tema che aveva avuto una certa importanza già nella repubblica di Weimar, ma che era declinato nel periodo nazista.85 La stessa repubblica di Weimar divenne un importante campo di ricerca.

La storiografia marxista-leninista si rivolse in particolare alla storia del movi­mento operaio, in cui stava in primo piano il movimento operaio "rivoluzionario".86

Per il resto questa storiografia era in considerevole misura riferita negativamente alla storiografia della Repubblica federale.87

Nonostante le molte continuità, non bisogna trascurare il fatto che gli orienta­menti politici della storiografia tedesco-occidentale cambiarono - non solo rispetto al periodo nazista, ma anche rispetto alla repubblica di Weimar. Un motivo impor­tante fu, oltre all'esperienza del periodo nazista, anche il contrasto Est-Ovest. Per gli storici delle zone occidentali e della Repubblica federale divenne obsoleto il modello positivo di una via peculiare tedesca, che implicava, tra l'altro, un deciso distanziarsi dalla democrazia occidentale. Da un lato, la via peculiare tedesca era finita nella catastrofe, dall'altro lato il contrasto tra la Germania e la cultura politi­ca dell'Occidente fu ampiamente relativizzato dal conflitto Est-Ovest.88 Certamente re.:ta"·:1.no delle riserve nei confronti di alcuni fenomeni della democrazia occiden­tale; soprattutto si rimaneva scettici di fronte a ogni agire di massa.89 Inoltre è ine­quivocabile l'intenzione di una parte degli storici di conservare le tradizioni politi­che e sociali tedesche, una volta "purificate", come un presupposto fondamentale dell' identità nazionale.90 Tuttavia questo nuovo orientamento appare notevole in considerazione della "ideologia della via tedesca", che aveva dominato a lungo nella storiografia tedesca.91 In questo parziale nuovo orientamento politico, che rifletteva la mutata costellazione internazionale, si colloca anche il fatto che alcuni storici come Hans Rothfels e Ludwig Dehio assunsero una valutazione più critica dello stato nazionale.92

La storiografia della RDT sulla storia recente e recentissima fu crescentemente funzionalizzata da parte della SED. Nel1955 il partito attribuì agli storici il compi­to di prestare un'attenzione ancora maggiore al rafforzamento dell'imperialismo e del militarismo nella Germania occidentale.93 La storiografia della RDT era sotto molti aspetti un'anti-storiografia rispetto a quella della Repubblica federale e in questo senso non rappresentava veramente una minaccia per quest'ultima.

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La storiografia tedesca dopo la dittatura di Hitler

Conclusioni Il quadro complessivo della storiografia in Germania dopo la dittatura di Hitler

è molto ambivalente: vi si mescolano momenti di forte continuità e inizi di un nuovo orientamento, momenti di riflessione critica e la rimozione di aspetti della storia più recente.

Riassumendo, si possono individuare quattro punti: l. nel primo dopoguerra gli storici furono solo molto limitatamente in grado di

criticare il proprio ruolo nel periodo nazista. Una causa importante di ciò fu per alcuni il problema della sopravvivenza professionale alla luce del loro coinvolgi­mento nell'ideologia o nella politica nazionalsocialista. Questo anche se solo una parte infinitesimale degli storici fu toccata dalla denazificazione - che nella corpo­razione veniva prevalentemente vista con scetticismo - in modo tale da perdere i suoi posti, temporaneamente o in modo duraturo. A parte i problemi quotidiani e le sofferenze individuali, anche l'insufficiente distanza temporale ostacolò un'autori­flessione critica. Quest' insufficiente distanza temporale fu anche addotta come un motivo del fatto che non fu ancora possibile ancora criticare il periodo nazista. Bisogna notare che neppure i pochi storici, che erano tornati dall'emigrazione o che erano stati in contatto con la resistenza, elaborarono una ricostruzione critica. Soltanto una nuova generazione, venuta dopo il nazismo, incominciò negli anni Sessanta nella Repubblica federale, nel contesto di un clima politico in trasforma­zione, una ricostruzione critica delle tradizioni storiografiche e del ruolo degli sto­rici nel Terzo Rei c h. Questa ricostruzione non è a tutt'oggi ancora conclusa.94

Nella RDT degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta la tradizione storia­grafica tedesca fu certamente criticata, tuttavia la polemica contro la storiografia tedesco-occidentale era così in primo piano, che i lavori su questo tema agirono ad Occidente in modo controproducente. La "guerra fredda storiografica" (HentiHi) tra Est e Ovest ha più ostacolato che promosso il processo di ricerca critica.95

2. Per gli storici, come per grandi settori della popolazione, l'esperienza della guerra e della catastrofica sconfitta prevalse su quella della dittatura. Nella storia­grafia si trovano però solo marginalmente delle tendenze apologetiche nei confron­ti della politica nazista.

Nell'interpretazione del Terzo Reich il nazionalsocialismo fu all'inizio interpre­tato- con un' inequivocabile tendenza discolpatrice- come "hitlerismo"; anche se la teoria del totalitarismo, che fu recepita negli anni Cinquanta, continuava a can­cellare in parte il contesto sociale, essa rappresentò un progresso rispetto all' inter­pretazione dell'hitlerismo. Dagli anni Sessanta, poi, questa teoria fu messa con suc­cesso in discussione - sotto l'influenza dei risultati della ricerca empirica e di un mutato clima epocale - dai rappresentanti di una nuova generazione di storici, con un conseguente notevole ampliamento delle prospettive di ricerca.96

La ricerca storico-contemporaneistica, presto avviata ad Occidente, che in qual­che luogo era collegata alla politologia in crescita nel dopoguerra e che quindi si sviluppò al di là dei confini della corporazione, cercò all'inizio di trovare "positivi-

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sticamente" i fatti fondamentali. Con l'accessibilità di grandi fondi documentari a partire dalla fine degli anni Cinquanta, l'immagine del sistema nazionalsocialista divenne più articolata. Iniziò un processso di storicizzazione, che mantiene fino ad oggi una certa tensione con la valutazione etico-politica.

3. Dopo il1945 gli storici cercarono spesso di situare il periodo nazista nel con­testo della storia tedesca, cioè di discutere i problemi interpretativi fondamentali della storia tedesca moderna alla luce della "catastrofe tedesca". All'inizio furono impiegate categorie ed immagini vaghe (come quella del "carattere funesto della storia tedesca", ecc ... ), che spesso più che spiegare nascondevano, documentando una certa confusione.97 Non di rado il movimento nazionalsocialista e la dittatura nazista furono spiegati con il mutamento politico-sociale della modernità. Tuttavia la prospettiva della storia nazionale restò dominante, nonostante la concezione dell'Occidente europeo propugnata da parte cattolica; questa prospettiva fu in un certo senso anche il presupposto di un confronto autocritico con il passato.

All'Ovest fu abbandonato il modello positivo di uno sviluppo peculiare tedesco divergente dall'Occidente e dall' Oriente. Tuttavia ci si oppose per lo più alla con­cezione diffusa nel dopoguerra, che derivava dall'immagine storica del Terzo Reich, di uno sviluppo peculiare - valutato ora negativamente - culminante nel Terzo Reich. La deviazione dello sviluppo tedesco dall'Occidente fu un tema importante, discusso soprattutto sul piano della storia politica e del pensiero, della storiografia dopo il 1945. Anche qui fu impostata in modo nuovo una discussione avviata da lungo tempo. Mentre nella Repubblica federale il contrasto con l'Occidente veniva sentito come sempre più obsoleto dal punto di vista normativa, esso sopravvisse nella RDT come motivo profondo della storiografia marxista­leninista. La storiografia della RDT sull'epoca più recente fu sottoposta negli anni Cinquanta alle direttive immediate del partito; in questo periodo essa fu in gran parte in funzione del sistema marxista-leninista-stalinista.

Il conflitto Est-Ovest indebolì, nel corso di un lungo processo, l'orientamento verso lo stato nazionale delle due storiografie, senza tuttavia superarlo. Complessivamente, si può dire che l'antagonismo Est-Ovest ha facilitato un nuovo orientamento politico. Tuttavia esso ha più ostacolato che promosso lo studio criti­co del periodo nazista, poiché da entrambe le parti vi fu la tendenza a rivolgere l'in­terpretazione della dittatura nazista contro l'altro sistema.

4. Il rivolgimento del 1945, la fine della dittatura e la costruzione progressiva di un ordinamento democratico e di un "sistema socialista-antifascista" non produsse­ro all'inizio un cambiamento dei paradigmi scientifici. Anche se nella Germania occidentale e in quella orientale vi furono dei mutamenti istituzionali, che portaro­no a uno sviluppo separato della storiografia nei due stati tedeschi, non fu ancora messo in discussione il predominio della storia politica, di cui non si richiese alcun ampliamento. A questo proposito, bisogna considerare che i rivolgimenti politici non conducono di per sé a nuove metodologie scientifiche. Inoltre la seconda guer­ra mondiale e i crimini nazisti furono concepiti come avvenimenti politici, che

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dovevano essere superati politicamente e moralmente; la storia politica e la storia culturale dovevano pertanto essere poste al centro dell'interesse. Ernst Schulin ha giustamente parlato di uno "storicismo politicamente e moralmente addomestica­to".98 Negli anni Sessanta la storia politica fu aperta alla storia sociale. Questo accrebbe addirittura l'importanza del periodo nazista, poiché si studiarono le conti­nuità sociali di lungo periodo, che portarono al periodo nazista.

In generale, la ricostruzione critica della storia delle dittature è sempre un lungo processo, che è difficile soprattutto per la generazione coinvolta nella dittatura. Ciò vale anche, o forse soprattutto, per gli storici - evidentemente anche per quanto riguarda la RDT.

Note

I. S. HentiHi, Jaettu Saksajaettu historia. Kylma historiasota 1945-1990, Helsinki 1994.

2. Cfr. W. Weber, Priester der Klio. Historisch-sozialwissenschaftliche Studien zu Herkunft und Karriere deutscher Historiker und zur Geschichte der Geschichtswissenschaft 1800-1970, Frankfurt am Main 1984; W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, Miinchen 1989, pp. 121 ss., soprattutto pp. 126 s.

3. Sullo sviluppo nella zona d'occupazione sovietica/DDR cfr. H. Schleier, Vergangenheitsbewaltigung und Traditionserneuerung? Geschichtswissenschaft nach 1945, in W. H. Pehle-P. Sillem, Wissenschaft im geteilten Deutschland. Restauration oder Neubeginn nach 1945?, Frankfurt 1992, pp. 205 219, soprattutto pp. 212 ss.

4. Cfr. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 130 ss.

5. Cfr. B. Faulenbach, Hajo Holbom, in H. U. Wehler (ed), Deutsche Historiker, vol. VII, Gottingen 1982, pp. 114-132, qui p. 115.

6. V. H. A. Winkler, Ein Erneuerer der Geschichtswissenschaft. Hans Rosenberg 1904-1988, in "Historische Zeitschrift", 248, 1989, pp. 529-555; G. A. Ritter, Hans Rosenberg 1904-1988, in "Geschichte und Gesellschaft", 15, 1989, pp. 282-302, qui p. 269.

7. H. Schleier, Vergangenheitsbewaltigung und Traditionserneuerung, cit., pp. 212 ss.

8. Cfr. G. Heydemann, Geschichtswissenscahft im geteilten Deutschland. Entwicklungsgeschichte, Organisationsstruktur, Funktionen, Theorie und Methodenprobleme in der Bundesrepublik Deutschland und in der DDR, Frankfurt am Main 1980, soprattutto pp. 134 ss.; dello stesso, Zwischen Diskussion und Konfrontation. Der Neubeginn deutscher Geschichtswissenschaft in der SBZ/DDR, in

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Chr. Cobet (ed), Einfiihrung in Fragen an die Geschichtswissenschaft in Deutschland nach Hitler 1940-1950, Frankfurt am Main 1986, pp. 30-60.

9. Cfr. anche K. Blaschke, Geschichtswissenschaft im SED-Staat. Erfahrungen eines "biirgerlichen" Historikers in der DDR, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 17 18/1992, pp. 14-27.

10. V. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 145 ss.

11. V. ibidem, pp. 87 ss.

12. V. W. Benz, Wissenschaft oder Alibi? Die Etablierung der Zeitgeschichte, in W. H. Pehle-P. Sillem, Wissenschaft, cit., pp. 11-25; H. Auerbach,Die Griindung des lnstituts fiir Zeitgeschichte, in "Vierteljahreshefte fiir Zeitgeschichte", 1970, pp. 529-554.

13. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, pp. 228 ss.

14. Sullo sviluppo della storiografia nella DDR v. H. Schleier, German Democratic Republic, in G. G. lggers- H. T. Parker (edd),International Handbook of Historical Studi es. Contemporary Research and Theory, Westport- London 1979, pp. 325-342.

15. Cfr. H. Obenaus, Geschichtsstudium und Universitat nach der Katastrophe von 1945: das Beispiel Gottingen, in K. Rudolph-Christl Wickert (edd), Geschichte als Moglichkeit. Ùber die Chancen von Demokratie. Festschrift fiir Helga Grebing, Essen 1995, pp. 307-337, qui pp. 312 ss.

16. H. Liibbe, Der Nationalsozialismus im deutschen NachkriegsbewuBtsein, in "Historische Zeitschrift", 236, 1983, pp. 579-599.

17. V. ibidem, pp. 30 ss.

18. Cfr. H. Schleier, Die biirgerliche deutsche Geschichtsschreibung der Weimarer Republik, Koln 1975; B. Faulenbach, Ideologie des deutschen Weges. Die deutsche Geschichte in der Historiographie zwischen Kaiserreich und Nationalsozialismus, Miinchen 1980.

19. V. B. Faulenbach, Ideologie des deutschen Weges, cit., soprattutto pp. 248 ss.

20. Cfr. B. Faulenbach, Di e "nationale Revolution" und di e deutsche Geschichte. Zum zeitgenossischen Urteil der Historiker, in W. Michalka (ed), Di e nationa1sozialistische Machtergreifung, Paderborn 1984, pp. 351-371; W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, ci t., pp. 30 ss.

21. V. H. Heiber, W alter Frank und sein Reichsinstitut fiir Geschichte des neuen Deutschland, Stuttgart 1986.

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22. R. Vierhaus, W alter Frank und di e Geschichtswissenschaft im nationalsozialistischen Deutschland, in "Historische Zeitschrift", 207, 1968, pp. 617-627.

23. V. p. es. R. Stadelmann, Vom geschichtlichen Wesen der deutschen Revolutionen, in "Zeitwende", 10, 1934, pp. 109-116. Cfr. B. Faulenbach, Die "nationale Revolution", cit., pp. 370-371.

24. K. Schonwaelder, Historiker und Politik. Geschichtswissenschaft im Nationalsozialismus, Frankfurt am Main-New York 1992, pp. 140 ss.

25. Su queste direzioni di ricerca cfr. H. Ritter von Srbik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus bis zur Gegenwart, vol. II, 2 ed., Miinchen- Salzburg 1964, pp. 337 ss.; W. Oberkrome, Volksgeschichte. Methodische Innovation und volkische Ideologisierung in der deutschen Geschichtswissenschaft 1918-1945, Gottingen 1993.

26. Cfr. la conferenza di Karl Heinz Roth al congresso storico del 1994 a Lipsia.

27. Cfr. B. Faulenbach, Die "Historische Zeitschrift". Zur Frage geschichtswissenschaftlicher Kontinuitiit zwischen Kaiserreich und Bundesrepublik, in "Tijdschrift voor Geschiedenis", 99, 1986, pp. 517-529, qui pp. 520 s.

28. V. K. Schwabe, Gerhard Ritter. Werk und Person, in Schwabe-R. Reichard(edd.), Gerhard Ritter. Ein politischer Historiker in seinen Briefen, Boppard am Rhein 1984, pp. 1-170, qui pp. 9 ss.

29. Cfr. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., p. 39.

30. H. Hallmann, Fritz Kern, 1884-1950, in Bonner Gehlehrte. Geschichtswissenschaft, Bonn 1968, pp. 351-375.

31. G. Ritter, Machtstaat und Utopie. Vom Streit um die Diimonie der Macht seit Machiavelli und Morus, Miinchen 1940; 2 ed. 1941; 3 e 4 ed. 1943; 5 ed. Stuttgart 1947 con il titolo Die Diimonie der Macht. Betrachtungen iiber Geschichte und Wesen des Machtsproblems im politischen Denken der Neuzeit; trad. it., Il volto demoniaco del potere, Bologna 1958. V. K. Schwabe- R. Reichard, Gerhard Ritter, cit., p. 404.

32. Cfr. K. Schwabe-R. Reichard, Gerhard Ritter, ci t. pp. 47 ss., pp. 404, 426, 433.

33. H. Heiber, Walter Frank, cit.

34. H. Schleier, Vergangenheitsbewiiltigung und Traditionserneuerung? Geschichtswissenschaft nach 1945, in W. H. Pehle-P. Sillem (edd), Wissenschaft im geteilten Deutschland, cit., pp. 205-219, qui p. 206.

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35. Cfr. W. Berthold, Der politisch-ideologische Weg Gerhard Ritters, eines fiihrenden ldeologen der deutschen Bourgeousie, in "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", 1958, pp. 959-989; dello stesso, " ... groBhungem und gehorchen". Zur Entstehung und Funktion der Geschichtsideologie des west­deutschen Imperialismus. Untersucht am Beispiel von Gerhard Ritter und Friedrich Meinecke, Berlin 1960.

36. V. J. Streisand (ed), Studien iiber die deutsche Geschichtswissenschaft von 1800 bis 1871, 2 voli., Berlin 1969; H. Schleier, Die biirgerliche deutsche Geschichtsschreibung, cit.

37. F. Meinecke, Die deutsche Katastrophe. Betrachtungen und Erinnerungen, in dello stesso, Autobiographische Schriften, Stuttgart 1960, pp. 323-445, qui p. 431; trad. i t., La catastrofe tedesca, Firenze 1948. L'autore si appoggia in questo punto al seguente saggio: B. Faulenbach, Historistische Tradition und politische Neuorientierung, in W. H. Pehle - P. Sillem, Wissenschaft im geteilten Deutschland, cit., pp. 194-204.

38. G. Ritter, Geschichte als Bildungsmacht. Ein Beitrag zur historisch-politischen Neuorientierung, Stuttgart 1946; dello stesso, Europa und die deutsche Frage. Betrachtungen iiber die geschichtliche Eigenart des deutschen Staatsdenkens, Miinchen 1948, p. 8. Cfr. K. Schwabe, Gerhard Ritter, cit., pp. 128 ss.

39. W. Schochow, Ein Historiker in der Zeit. Ein Versuch iiber Fritz Hartung (1883-1967), in: "Jahrbuch fiir die Geschichte Mittel und Ostdeutschlands", 32, 1985, pp. 218-250, qui p. 226.

40. Cfr. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, pp. 200 ss.; E. Schulin, Zur Restauration und langsamen Fortentwicklung der deutschen Geschichtswissenschaft nach 1945, in dello stesso, Traditionskritik und Rekonstruktionsversuch, Gottingen 1979, pp. 133-143.

41. F. Meinecke, Die Idee der Staatsrason in der neueren Geschichte, Miinchen 1929; trad. it., L'idea della ragion di stato nella storia moderna, Firenze 1944; dello stesso, Die deutsche Katastrophe, cit., pp. 432 s.

42. Ibidem.

43. G. Ritter, Geschichte als Bildungsmacht, cit., p. 39.

44. Così Ulrich Noack; su Noack v. H. P. Schwarz, Vom Reich zur Bundesrepublik, 2 ed., Stuttgart 1980, pp. 355 ss.

45. F. Meinecke, Weltbiirgertum und Nationalstaat, Miinchen 1907; trad. it., Cosmopolitismo e Stato nazionale, Perugia-Venezia 1930; dello stesso, Die deutsche Katastrophe, cit., pp. 439 ss.

46. F. Meinecke, Ausgewahlter Briefwechsel, Stuttgart 1962, p. 312.

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47. G. Ritter, Geschichte als Bildungsmacht, cit.

48. V. G. Ritter, Die Damonie der Macht, cit. Cfr. B. Faulenbach, Deutsche Geschichtswissenschaft nach den beiden Weltkriegen, in G. Niedhart - D. Riesenberger (edd), Lernen aus dem Krieg? Deutsche Nachkriegszeiten 1918 und 1945, Mtinchen 1992, pp. 207-240, qui pp. 224 s.

49. Lettera di Ritter a Friedrich Meinecke del10.9.1946, riprodotta in K. Schwabe-R. Reichard (edd), Gerhard Ritter, cit., pp. 418 s.

50. Ibidem, p. 419.

51. S. A. Kaehler, Vom dunklen Ratse1 der deutschen Geschichte, in dello stesso, Studien zur deut­schen Geschichte des 19. und 20. Jahrhunderts, Gottingen 1961, pp. 374 ss.

52. Cfr. B. Eberan, Luther? Friedrich "der GroBe"? Wagner? Nietzsche? ... ? ... ? Wer war an Hitler schuld. Die Debatte um die Schuldfrage 1945-1949, Mtinchen 1983.

53. F. Meinecke, Die deutsche Katastrophe, cit., pp. 323-445.

54. G. Ritter, Europa und die deutsche Frage, cit.; i memoriali del Freiburger Kreis in K. Schwabe-R. Reichard (edd), Gerhard Ritter, cit., pp. 629 ss.

55. Cfr. K. Barth, Zur Genesung des deutschen Wesens, Stuttgart 1945; A. Abusch, Der Irrweg einer Nation, Berlin 1946; trad. it., Storia della Germania moderna, Torino 1951; E. Niekisch, Deutsche Daseinsverfehlung, Berlin 1946.

56. Cfr. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 266 ss.

57. R. Stadelmann, Deutschland und Westeuropa. Drei Aufsatze, Laupheim 1948.

58. Cfr. L. Gall (ed), Das Bismarck Problem in der Geschichtsschreibung nach 1945, Kbln 1971 (con saggi di Noack, Schnabe1 e Ritter).

59. Cfr. B. Faulenbach, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, in "Tijdschrift voor Geschiedenis", 94, 1981, pp. 29-57, qui pp. 41 ss.; G. G. Iggers, Neue Geschichtswissenschaft. Vom Historismus zur Historischen Sozialwissenschaft. Ein internationaler Vergleich, Mtinchen 1978, pp. 109 ss.; trad. it., Nuove tendenze della storiografia contemporanea, Catania 1981.

60. A. Abusch, Der Irrweg einer Nation, cit. Cfr. anche H. Schleier, Vergangenheitsbewiiltigung, cit., pp. 218 s.

61. Cfr. B. Faulenbach, "Deutscher Sonderweg". Zur Geschichte und Prob1ematik einer zentralen

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Bernd Faulenbach

Kategorie des deutschen geschichtlichen BewuBtseins, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 3311981, pp. 3-21, qui soprattutto pp. 12 ss.

62. Cfr. E. Schulin, Zur Restauration, cit., pp. 137 ss.

63. B. Faulenbach, NS-Interpretationen und Zeitklima. Zum Wandel in der Aufarbeitung der jiingsten Vergangenheit, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 22/1987, pp. 19-30.

64. E. Kogon, Der SS Staat. Das System der deutschen Konzentrationslager, Miinchen 1946.

65. V. K. Kwiet, Die NS-Zeit in der westdeutschen Forschung 1945-61, in E. Schulin (ed), Deutsche Geschichtswissenschaft nach dem Zweiten Weltkrieg (1945-1965), Miinchen 1989, pp. 181-198.

66. Cfr. H. Mommsen, Erfahrung, Aufarbeitung und Erinnerung des Holocaust in Deutschland, in H. Loewi (ed), Holocaust. Die Grenze des Verstehens. Eine Debatte iiber die Besetzung der Geschichte, Reinbek 1992, pp. 93-100, qui pp. 95 ss.

67. Cfr. G. Schreiber, Hitler. Interpretationen 1923-1983. Ergebnisse, Methoden und Probleme der Forschung, Darmstadt 1984.

68. V. l. Kershaw, Der NS Staat. Geschichtsinterpretationen und Kontroversen im Ùberblick, Reinbek 1988, pp. 48 ss.

69. V. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 200 ss.; la cit. a p. 204.

70. Cfr. G. Lozek, Die deutsche Geschichte 1917/18 bis 1945 in der Forschung der DDR (1945 bis Ende der sechziger Jahre), in E. Schulin (ed), Deutsche Geschichtswissenschaft nach dem zweiten Weltkrieg, cit., pp. 199-211.

71. Cfr. B. Faulenbach, Auf dem Weg zur gemeinsamen Erinnerung? Das Bild vom deutschen Widerstand gegen den Nationalsozialismus nach den Erfahrungen von Teilung und Umbruch, in "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", 42, 1994, pp. 588-597.

72. V. O. Groehler, Zur Geschichte des deutschen Widerstandes. Leistungen und Defizite, in R. Eckert­W. Kiittler-G. Seeber (edd), Krise Umbruch Neubeginn. Eine kritische und selbstkritische Dokumentation der DDR-Geschichtswissenschaft 1989/90, Stuttgart 1992, pp. 408-418. Cfr. anche A. Leo, Antifaschismus und Kalter Krieg. Eine Geschichte von Einengung, Verdrangung und Erstarrung, in Brandenburgische Gedenkstatten fiir die Verfolgten des NS Regimes. Perspektiven, Kontroversen und intemationale Vergleiche, Berlin 1992, pp. 74-80.

73. Cfr. M. Kittel, Die Legende von der "Zweiten Schuld". Vergangenheitsbewaltigung in der Ara Adenauer, Berlin- Frankfurt 1993, pp. 191 ss.; R. Hiller, 20. Juli 1944- Vermachtnis oder Alibi? Wie

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La storiografia tedesca dopo la dittatura di Hitler

Historiker, Politiker und Journalisten mit dem deutschen Widerstand gegen den Nationalsozialismus umgehen, Miinchen 1994; B. Faulenbach, Auf dem Weg zur gemeinsamen Erinnerung?, cit.

74. H. Rothfe1s, Die deutsche Opposition gegen Hitler. Eine Wiirdigung, Krefeld 1949, 2 ed. Frankfurt 1969; dello stesso, Das politische Vermachtnis des deutschen Widerstandes, a cura della Bundeszentrale fiir Heimatdienst, Bonn 1955.

75. G. Ritter, Cari Goerdeler und die deutsche Widerstandsbewegung, Stuttgart 1954; trad. it., Cari Goerdeler e la resistenza tedesca, Torino 1960.

76. v. K. Schwabe, Gerhard Ritter, cit., pp. 121 ss.

77. K. D. Bracher, Di e Auflosung der Weimarer Republik. E in e Studi e zum Problem des Machtverfalls in der Demokratie, Villingen 1955.

78. Cfr. B. Faulenbach, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 40 ss.

79. Cfr. B. Faulenbach, NS Interpretationen und Zeitklima, cit.

80. Cfr. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 201 ss.

81. Cfr. B. Faulenbach, Zur Geschichtswissenschaft nach der deutschen Katastrophe, cit., pp. 201 ss.

82. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 281 ss.

83. S. Hentila, Jaettu Saksa, jaettu historia, cit., p. 404. Sullo sviluppo degli ultimi decenni v. G. G. lggers, Ein anderer historischer Blick. Beispiele ostdeutscher Sozialgeschichte, Frankfurt 1991.

84. Cfr. Mommsen, Hauptendenzen nach 1945 und zu der Ara des Kalten Krieges, cit., pp. 114 ss.; B. Faulenbach, Die "Historische Zeitschrift", ci t.

85. Sulla costituzione della "Kommission fiir di e Geschichte des Parlamentarismus und der politischen Parteien" v. W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, cit., pp. 252 ss.

86. Cfr. H. Schleier, Vergangenheitsbewaltigung, cit., pp. 218 ss.; G. Lozek, Die deutsche Geschichte, cit., pp. 205 ss.

87. V. p. es. W. Berthold-G. Lozek-H. Meier-W. Schmidt (edd), Kritik der biirgerlichen Geschichtsschreibung. Handbuch, 3 ediz., Koln 1970 (l'edizione della Akademie Verlag Ost Berlin era apparsa col titolo "Unbewilltigte Vergangenheit". Handbuch der Auseinandersetzung mit der west­deutschen biirgerlichen Geschichtsschreibung). Cfr. S. Hentila, Jaettu Saksa, jaettu historia, cit., pp. 397 ss.

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Bernd Faulenbach

88. B. Faulenbach, (Ri)costruzione di identità per mezzo della storia? Sul rapporto tra storiografia e cultura politica in Germania, in L. Riberi (ed), La Germania allo specchio della storia. Storiografia politica e società nell'Otto e Novecento, Milano 1995, pp. 217-237, qui pp. 231 ss.

89. Cfr. K. Schwabe, Gehrard Ritter, ci t., pp. l 09 ss.; B. Faulenbach, Deutsche Geschichtswissenschaft nach beiden Weltkriegen, cit., pp. 236 ss.

90. Cfr. anche Mommsen, Hauptendenzen nach 1945 und in der Àra des kalten Krieges, cit., pp. 113 ss.

91. Cfr. B. Faulenbach, "Deutscher Sonderweg", cit.

92. V. L. Dehio, Deutschland und die Weltpolitik im 20. Jahrhundert, Frankfurt 1961, pp. 122 s., 127 ss.; trad. it., La Germania e la politica mondiale del XX secolo, Milano 1962; H.Rothfels, Geschichtliche Betrachtungen zum Problem der Wiedervereinigung, in dello stesso, Zeitgeschichtliche Betrachtungen, Gottingen 1959, pp. 236-253.

93. S. HentiH:i, Jaettu saksa, jaettu historia, ci t., pp. 402 s.; G. Heydemann, Geschichtswissenschaft im geteilten Deutschland, cit., pp. 153 ss.

94. Cfr. tra gli altri H. Heiber, Walter Frank und sein Reichsinstitut fiir Geschichte, cit.; K. Schonwalder, Historiker und Politik, cit.; W. Oberkrome, Volksgeschichte, cit.

95. S. Hentila, Jaettu Saksa, jaettu historia, cit., p. 397.

96. Cfr. B. Faulenbach, NS Interpretationen und Zeitklima, cit., pp. 23 ss.

97. S. A. Kaehler, Vom dunklen Ratsel, cit., pp. 374 s.

98. E. Schulin, Zur Restauration, cit., p. 139.

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Karl Stuhlpfarrer Università di Vienna

L'Austria, prima vittima della Germania di Hitler. La storia di un mito e il suo significato

L'Austria è divenuta oggetto di chiacchiere a causa del suo passato nazista. Presso i nostri vicini settentrionali, queste chiacchiere diventano talvolta la mali­gnità di chi finora è rimasto solo con la sua responsabilità e finalmente vede sco­perto il suo complice. Le chiacchiere sono cominciate apparentemente quando l'ex presidente austriaco Kurt Waldheim durante la sua campagna elettorale parlò come se fosse stato privato della memoria, e continuano ancora. Recentemente il ministro degli esteri austriaco Alois Mock vi ha dato un nuovo impulso, lamentando il fatto che Waldheim, nella sua qualità di ex segretario generale dell'ONU, non venga ricevuto a New York. Così Mock ha di nuovo sovrapposto a una seria discussione sulla partecipazione dell'Austria al regime nazista il clamore di un'offesa immagi­naria, la cui entità può esser misurata solo da chi conosce il pericolo esistenziale in cui cadde il professar Bernhardi di Schnitzler quando rifiutò di dare soddisfazione per l'offesa subita dalla moglie di un collega, che non veniva più ricevuta dalla prin­cipessa Stixenstein.

Il ministro degli esteri Mock ha quindi oggi spavaldamente risvegliato una chiacchiera, da cui l'Austria ha cercato di liberarsi con la menzogna fin dalla scon­fitta del regime nazionalsocialista, riuscendo anche a farlo per lungo tempo con un certo successo. Ciò fu il risultato di una messa in scena pubblica di stato, che ebbe una buona riuscita, poiché per molto tempo non fu contestata. Vi parteciparono sia la società civile che i produttori d'ideologia all'interno e anche all'esterno dell'Austria. E' il pezzo teatrale, che nomino nel titolo della mia relazione: L'Austria, la prima vittima della Germania di Hitler, una leggenda di cui cercherò di ricostruire la storia e il significato, o meglio la funzione e l'interpretazione.

Parlo di "Germania di Hitler" e non di "Germania" da sola, come annuncia il programma del convegno. "Germania di Hitler" sta e stava nel mio titolo con riferi­mento alla dichiarazione di Mosca del novembre 1943. Per strada ho perso "Hitler". Altamente significativo, direte voi; questi austriaci! Ma io vi rispondo: Non è stata colpa mia. Non ho partecipato alla preparazione del programma. Ammetto di non aver fatto obbiezioni quando è successo, ma sono gli altri ad avere la colpa. Mi hanno tradito. E, detto tra noi, si può dire ciò che si vuole, ma la colpa è sicuramente dei tedeschi.

Quello che vi ho appena recitato è un discorso chiave in una delle forme del rap-

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Karl Stuhlpfarrer

porto degli austriaci con il loro passato nazista. In poche parole questo discorso suona così: non c'eravamo e, se anche ci fossimo stati, non abbiamo fatto niente; e se avessimo fatto qualcosa, sarebbe stato solo il nostro dovere. Questo discorso per­mise e ancora permette che coesistano cose apparentemente inconciliabili: una con­cezione ufficiale sull'Austria durante il dominio nazionalsocialista e una privata, che concorda con la prima in molti punti. Apprendiamo la concezione ufficiale dai discorsi ufficiali, dai libri di scuola e dalle posizioni dell'Austria nelle numerose discussioni per il Trattato di stato austriaco. La memoria collettiva si espresse però sempre più anche nei monumenti ai soldati in onore degli eroi caduti per la patria -in Russia e altrove - nei discorsi ufficiali e nelle feste delle associazioni di reduci e delle leghe di compagni d'arme, nelle tavolate all'osteria e in quelle famigliari a casa. Entrambe le concezioni fornirono segmenti di memoria, tendendo - ora l'una, ora l'altra - ad affermare il monopolio della loro interpretazione del passato. I buchi e le rotture di queste interpretazioni sono delle condizioni determinanti anche per il lavoro degli storici austriaci del dopoguerra.

Alla festa d'inaugurazione del monumento ai soldati sul Diirrnberg, l'allora Landeshauptmann di Salisburgo e futuro cancelliere alla fine degli anni Sessanta Josef Klaus parlò nel settembre 1954 dell'adempimento del dovere, dello spirito di sacrificio e della forza di carattere degli austriaci caduti in guerra, cose che da sole giustificavano il fatto che essi venissero onorati come eroi.'

Allora lo storico austriaco Friedrich Heer mise in guardia dal trasformare in modo menzognero le commemorazioni dei morti in commemorazioni degli eroi e dall'alterare le proporzioni tra i carnefici e le vittime: "Lo dico apertamente: l'Austria andrà in rovina se i suoi responsabili politici non oseranno chiamare le cose con il loro vero nome. La dura e amara verità dei 600.000 morti in Austria dice: siamo morti perchè quand'eravamo vivi non siamo stati consigliati abbastanza; ci hanno guidato e sedotto, ci hanno spinti nell'inferno della guerra e ci hanno lascia­to morire senza aiuto( ... ) Noi, che siamo morti vittime di una follia e d'un acceca­mento, di una follia che non è cominciata con Hitler e che non è finita con la sua caduta".2

"Nessuna Austria libera senza la sconfitta della Wehrmacht tedesca", disse in modo chiaro nel 1960 anche il giornalista cattolico Kurt Skalnik. Ma di questo non si parlava più già allora. La lotta per l'immagine della storia dominante nell' Austria era già cominciata a fine guerra. Quest'immagine della storia crollò solo in appa­renza nel 1986, perchè, nel conflitto sulla persona del presidente federale, si rivelò come un'imbroglio. Difesa dalla colpa, rovesciamento della colpa, minimizzazio­ne, armonizzazione e tabuizzazione, questi sono, anche secondo le ricerche dei lin­guisti, i discorsi correnti nell'Austria degli anni Ottanta per quanto riguarda il rap­porto con il passato nazionalsocialista.3

C'era voluto quasi mezzo secolo perchè 1'8 luglio 1991 un altissimo rappresen­tante dello stato austriaco, il cancelliere, affermasse la corresponsabilità dell'Austria nel regime nazista. Nel suo discorso di fronte al Nationalrat, egli prese

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L'Austria, prima vittima della Germania di Hitler

le mosse dalla situazione politica attuale, dalla nuova era in Europa, in cui domina­no la libertà, i diritti dell'uomo e la democrazia e che non consente altro giudizio che una condanna sull'epoca nazionalsocialista. E Franz Vranitzky proseguiva con queste parole:

"Riconosciamo tutte le date della nostra storia e le azioni di ogni parte del nostro popolo, le buone come le cattive, e come rivendichiamo le buone, così dobbiamo scusarci per le cattive - presso i superstiti e presso i discendenti dei morti. Questo riconoscimento è stato continuamente fatto dai politici austriaci. Vorrei oggi farlo esplicitamente in nome del governo federale austriaco, come criterio del rapporto che dobbiamo avere con la nostra storia, quindi come criterio per la culiura politica del nostro paese, ma anche come nostro contributo alla nuova cultura politica d'Europa". 4

Questo discorso fu ripetuto quasi letteralmente nei suoi singoli passaggi da Vranitzky due anni dopo, durante la sua visita di stato in Israele, all'Università Ebraica. Egli rifiutò il concetto di una colpa di guerra collettiva dell'Austria, ma riconobbe: "Tuttavia anche molti austriaci avevano dato il benvenuto all' AnschluB, hanno poi sostenuto il regime nazionalsocialista, vi hanno partecipato a molti livel­li della gerarchia. Molti austriaci avevano partecipato alle misure repressive e alle persecuzioni del Terzo Reich, in parte in posti di rilievo".5

Una svolta straordinaria nell'atteggiamento ufficiale dei governi federali austria­ci dopo così tanti anni, però non una svolta completa. Infatti venivano ancora rispet­tate le inviolabili regole fondamentali del consenso politico interno austriaco: lo stato come principio più alto, che si arroga anche il diritto di scusarsi per tutti, nes­suna sconfessione dei precedenti governi della seconda Repubblica, nessuna tema­tizzazione dell'austrofascismo, nessun riferimento al ruolo dei Uinder dopo la dis­soluzione dell'unità politico-amministrativa dell'Austria avvenuta dopo l"'AnschluB". L'unità nazionale restava il valore dominante, nel presente e nella storia. Ma per la prima volta si ruppe con una lunga tradizione di neutralizzazione delle esperienze del regime nazista e con le sue cinque posizioni fondamentali: il rifiuto della responsabilità, la negazione dell'ingiustizia, il respingere le vittime, il richiamarsi ad istanze più alte e la condanna di quelli che già avevano indicato tutto questo e che ancora nel 1986, in un volantino elettorale per Kurt Waldheim, erano stati chiamati, con un interessante errore d'associazione, "storici alla scrivania".6

Vranitzky parlò nel suo discorso di scuse e di corresponsabilità, ma anche del fatto che con il suo discorso egli si collocava in una coerente tradizione dei gover­ni federali. Tuttavia le dichiarazioni di questi governi federali dopo il 1945 erano completamente diverse. Ma cominciamo dai presidenti federali.

Nel suo messaggio per l'anno nuovo del1 gennaio 1946, il presidente federale Karl Renner ci ha lasciato un esempio raro della rimozione austriaca e insieme anche un pezzo esemplare di discorso metaforico mitteleuropeo dalla retorica abba­gliante. Renner riconosce il fatto incontestabile che l'Austria, piccola per territorio e numero d'abitanti, aveva dovuto subire solo una piccolissima parte delle soffe-

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Karl Stuhlpfarrer

renze della guerra, ma le attribuisce tuttavia una distinzione unica e rara: "Tuttavia all'Austria è capitato il triste ruolo di aver costituito il primo scoppio e la prima vit­tima di questa guerra mondiale dei sette anni e insieme di essere stata l'ultima vit­tima delle azioni belliche europee."7 Renner attribuiva agli storici degli anni aveni­re il compito di "considerare con precisione queste connessioni", ma sapeva già bene indicare i fondamenti della spiegazione dello svolgimento storico: "Il paese, lo stato e il popolo dell'Austria erano scomparsi come nel Carso un fiume qui e là dispare e viene inghiottito dalla superficie del mondo".8 Scomparsi come lo stato e il popolo - e il consenso del popolo e di Renner per il nazismo - erano per Renner anche i nazionalsocialisti austriaci in posizioni direttive, che egli, pur dovendo sapere il contrario, diceva fossero stranieri e fossero stati scacciati dai distretti del Reich (Reichsgauen) dalla popolazione austriaca. Nei fatti, cinque dei sette gover­natori del Reich (Reichsstatthalter) in Austria provenivano da quel paese e vennero rimossi solo dagli alleati.

Il socialdemocratico Renner evocava una seconda volta, come aveva fatto dopo la prima guerra mondiale, la rivoluzione sociale e nazionale: "Tutte le tensioni che troppo spesso v'erano state tra i singoli Liinder, tutti i contrasti di classe, che dovun­que e in ogni tempo dividono le nazioni, furono soppressi, anche ogni tentativo di separazione nazionale, la cattiva eredità del secolo passato, fu eliminato, fu costi­tuita l'unità della giovane nazione e la corrente, che sembrava essersi persa nel Carso, eruppe fuori, possente come un torrente di montagna, chiara e pura come acqua di montagna, e l'Austria ritornò ... ".9

Già prima della fine d'anno 1945-46 Renner aveva espresso la sua concezione in varie occasioni. Nel settembre 1945 egli parlò dei tragici avvenimenti - di cui quindi nessuno aveva la responsabilità - che avevano intrecciato il destino dell'Austria a quello della Germania e quindi alla catastrofe della guerra mondia­le.10 E nell'appello del governo provvisorio un mese prima era stato scritto: "Una colpa gravissima si è addossata la Germania nazista, che con l'astuzia e la violenza ha derubato il nostro stato di ogni autodeterminazione e ci ha imposto la più terri­bile guerra di ogni tempo. Una piccola minoranza ha aiutato a consegnare la nostra patria a questi avventurieri del Terzo Reich, a smembrare lo stato e a sottomettere il nostro popolo al dominio di elementi stranieri". 11

Nel programma l'unificazione nazionale dell'Austria consisteva in primo luogo nell'esclusione dei nazionalsocialisti in quanto estranei al paese, poi nella loro rein­tegrazione e, poichè essi non erano in realtà estranei al paese, scomparvero anche in quanto nazionalsocialisti.

Nella manifestazione commemorativa della guerra civile del febbraio 1934 il cancelliere Leopold Figl parlò di una riparazione dell'ingiustizia, rivolgendosi a entrambe le parti, gli austrofascisti e i socialisti, 12 poichè essi avevano, in due grup­pi divisi, combattuto per l'Austria, non come i nazionalsocialisti "colpevoli del cri­mine d'alto tradimento contro la propria patria". La ricostruzione richiedeva la riconciliazione, la collaborazione, la pace interna e Figi unì a ciò l'appello a non

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L'Austria, prima vittima della Germania di Hitler

guardare più indietro alla storia.'3

Del tutto diverso fu ciò che disse Figi un mese dopo alla Festa commemorativa del governo federale nel GroBen Musikvereinsaall' 11 marzo 1946. Egli sottolineò il ruolo di vittima dell'Austria e fece appello al giudizio della storia dicendo: "La storia chiarirà un giorno chi in quei giorni riuscì nella più grande prova per i prin­cipi personali e chi invece fallì. Possiamo aspettare tranquillamente il giudizio della storia. E con noi può aspettare anche l' Austria."'4

E Figi aggiunse: "Al di là della politica di partito, nella consapevolezza della responsabilità dell'Austria per i suoi martiri, mi oppongo oggi a ogni tentativo di disturbare l'opera di epurazione del governo. So che in questo sono sicuro del con­senso dei partiti e anche di quello delle potenze alleate."'5 Figi fece allora appello perchè l' 11 marzo 1938 diventasse una festività nazionale, perchè l'Austria sareb­be stata, a suo parere, pronta alla lotta, solo non avrebbe potuto certo intraprender­la da sola. 16

La festa per una sconfitta può - come si vede in altre piccole nazioni - sviluppa­re una notevole forza di mobilitazione - ma l' 11 marzo non è diventato una festività nazionale austriaca. Il modello della riconciliazione tra austromarxisti e austrofa­scisti è stato esteso agli austronazisti.

Si fa presto a raccontare le tappe di questo sviluppo. Esse vanno dalla - presto interrotta, ma nella prima fase davvero efficace- denazificazione dell' Austria, 17 che ebbe diversi esiti a seconda delle regioni e dei gruppi sociali, alla cosiddetta "re­integrazione", attraverso l'integrazione degli ex nazionalsocialisti nei due grandi partiti OVP (partito popolare) e SPO (partito socialista) e infine la fondazione del quarto partito dell'Austria, il Verband der Unabhangigen (VdU). Quest'ultimo ottenne un considerevole successo alle elezioni del 1949, raccolse ancora più elet­tori con il suo candidato alla presidenza nel 1951 e infine nel 1953, appena prima di entrare in un progettato governo di coalizione in stretta collaborazione con l'OVP, fu escluso dall'accesso al governo soltanto per l'intervento del presidente socialista. Ciò provocò il suo inevitabile declino.

Soltanto dagli anni Ottanta il partito che è succeduto alla V dU, la FPO (partito liberale austriaco), che è ora più liberale e non nazionale, ha avuto un rilancio, prima in coalizione con la SPO, ora come partito d'opposizione. Ciò presupponeva però un discorso di unificazione e di rimozione nazionale, che permettesse a questo partito di presentarsi come un partito apertamente liberale, senza dover rinunciare nei particolari ad elementi delle concezioni legittimatrici e minimizzatrici del regi­me nazionalsocialista.

Punto di partenza e di riferimento del discorso di unificazione e di rimozione nazionale in Austria, qualunque sia il partito, è la "Dichiarazione sull'Austria" (la cosiddetta "Dichiarazione di Mosca") concordata il 30 ottobre 1943 dai tre ministri degli esteri di Gran Bretagna, USA e Unione Sovietica, Eden, Hull e Molotow, che fu pubblicata l'l novembre 1943 come appendice 6 del Protocollo della Conferenza di Mosca.

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Karl Stuhlpfarrer

Questa dichiarazione contiene una clausola delle vittime e della liberazione, cioè che: "L'Austria, il primo paese libero, che dovette cader vittima della tipica politi­ca aggressiva di Hitler, deve esser liberato dal dominio tedesco"; una clausola di nullità, cioè la dichiarazione che l' "AnschluB" era nullo e non valido; una clauso­la della responsabilità o della complicità, cioè che la partecipazione dell'Austria alla guerra a fianco della Germania di Hitler le addossava una responsabilità in vista della resa dei conti definitiva. Poichè alla fine - secondo la clausola del contributo - l'Austria doveva dare un proprio contributo alla sua liberazione. Questo non era un giudizio giuridico sulla colpa o sulla non colpa, non era nemmeno un'analisi dei fatti storici, era una dichiarazione politica per la ricostituzione dell'Austria con l'in­tenzione di indebolire la Germania di Hitler, di stimolare la resistenza contro il regi­me nazionalsocialista in Austria con la promessa dell'indipendenza dopo la guerra, quindi uno strumento di propaganda.18

I governi austriaci dopo la guerra usarono questa dichiarazione degli alleati per sottrarsi alla corresponsabilità per i crimini del nazionalsocialismo. Essi crearono un mito nazionale con una funzione legittimatrice. 19

La Dichiarazione d'Indipendenza austriaca del27 aprile 1945 riprendeva i con­tenuti della Dichiarazione di Mosca e dichiarava "nullo e non valido lo AnschluB", che era stato imposto. Da qui il governo austriaco derivò, dopo l'agosto del 1945, una teoria dell'occupazione, non dell'annessione, dell'Austria, che secondo il pare­re del diplomatico austriaco Norbert Bischoff, come egli scrisse al giurista Alfred Verdross, esperto in diritto internazionale, il9 agosto 1945, costituiva l'argomenta­zione "per noi davvero più favorevole". 20 Nella sua visita negli Stati Uniti nell'ot­tobre 1946 il ministro degli esteri Gruber ottenne il riconoscimento ufficiale della teoria dell'occupazione da parte del governo TrumanY

Soltanto il 14 maggio 1955, il giorno prima della firma del Trattato di stato austriaco a Vienna, i firmatari del trattato cancellarono dal Preambolo il passo sulla corresponsabilità dell'Austria, secondo cui cioè " ... l'Austria non può evitare una corresponsabilità , che deriva dalla partecipazione alla guerra",22 Ma la teoria austriaca dell'occupazione non si affermò completamente, perchè nel Preambolo restò detto che il trattato era stato concluso proprio perchè la regolazione dei pro­blemi riguardo "l'annessione dell'Austria da parte della Germania di Hitler e della sua partecipazione alla guerra come parte integrante della Germania resta ancora aperta"23

Ciònonostante rimasero intatti la concezione dell'occupazione e il mito della vit­tima, che ne era il prodotto, anzi questo venne consolidato attraverso la sua conti­nua estensione a sempre più austriaci, considerati vittime, poichè i ricordi delle vit­time individuali venivano amalgamati a quelli collettivi. Infatti chi si può sentire vittima della dominazione nazista in Austria? In primo luogo naturalmente gli austrofascisti. Con l'integrazione dell'Austria nel Reich tedesco essi hanno perso le loro posizioni di potere, sono stati cacciati via dai loro posti nell'apparato statale, sono stati mandati nelle prigioni e nei campi di concentramento. Poi le vittime di

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L'Austria, prima vittima della Germania di Hitler

guerra militari e civili, poi i profughi-deportati e infine gli stessi nazionalisti, poi­chè essi, secondo l'opinione dei sostenitori di questa concezione, furono gli unici perseguitati dopo il 1945. Soldati, feriti, morti e prigionieri di guerra, tutti costoro divennero improvvisamente le vere vittime della guerra, come le enumerò una volta il ministro degli interni socialdemocratico Oskar Helmer.24 Così non resta più posto per le vere vittime della dominazione nazista in Austria: gli ebrei, gli zingari, i membri della resistenza antinazista, i lavoratori coatti, i menomati fisici e psichici e molti altri. Soprattutto, questo concetto comprensivo delle vittime fa scomparire tutti i colpevoli.

Prendiamo un esempio dal reinsediamento, dalla fuga e dalla deportazione dei sudtirolesi, proprio perchè il Sudtirolo è diventato dopo il 1945 una parte del rac­conto dell'unificazione nazionale austriaca, un simbolo d'integrazione nazionale. Infatti anche il Sudtirolo e i sudtirolesi sono delle vittime, vittime cioè dei fascisti tedeschi ed italiani, i cui intrecci hanno cominciato ad essere scoperti dagli storici sudtirolesi e austriaci solo dagli anni Settanta, contro forti resistenze e ostilità.25

La rivendicazione del Sudtirolo da parte dell'Austria iniziò, come mostrò la Resolution der Kundgebung Siidtirol di Vienna del 3 ottobre 1945, con due menzo­gne. La prima era che si fosse trattato di un trasferimento forzato, la seconda affer­mava, in modo non rispondente a verità, che i sudtirolesi avevano mantenuto un orientamento austriaco nonostante il terrore fascista. Con la rivendicazione del Sudtirolo, vittima del fascismo, anche l'Austria rafforzava il suo ruolo di vittima e la sua pretesa a un risarcimento.26 Le vere vittime nel Sudtirolo e in Austria restaro­no rimosse da questo tipo di discorso, così come ne furono esclusi gli italiani del Sudtirolo.

Di questa visione unilaterale del passato delle minoranze fa parte anche il modo in cui l'Austria ufficiale pretende di aver sempre rispettato i suoi impegni nei con­fronti delle minoranze nel periodo tra le due guerre, mentre la persecuzione delle minoranze, che vivevano in Austria sarebbe avvenuta per così dire senza l'Austria. I Ui.nder, che avevano continuato ad esistere dopo l"'AnschluB", non hanno per il resto alcun problema rispetto alla loro continuità ed identità nei secoli, ma non c'è stato fino ad oggi nessun Landeshauptmann, che si sia persuaso a riconoscere pub­blicamente la corresponsabilità del suo Land come ha fatto il cancelliere federale per tutta l'Austria. Non è un caso che l'analisi della questione delle minoranze costituisca un secondo aspetto fondamentale della strategia di elaborazione del pas­sato degli storici austriaci. Si tratta della storia dell'esclusione, della persecuzione e dello sterminio di massa degli ebrei, degli zingari (roma) e degli appartenenti ai popoli slavi dell'Austria.

Questa è infatti una funzione essenziale del mito della vittima in Austria. In quanto menzogna politicamente praticabile, esso risparmia una dolorosa riflessione, come fu detto, sul proprio fascismo austriaco- nelle sue due forme-, sull'antise­mitismo e sul razzismo in generale e sulla partecipazione di austriaci allo sterminio di massa.27

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Karl Stuhlpfarrer

Riassumendo dunque le funzioni del mito dell'Austria come prima vittima della Germania di Hitler, si può dire che:

l. esso sèrviva ad accorciare il periodo d'occupazione alleata e a sconfessare la giustificazione di quest'ultimo;

2. permetteva la rinuncia alle richieste di riparazione nei confronti dell'Austria e l'accesso austriaco alla "proprietà tedesca";

3. serviva a respingere le rivendicazioni territoriali (e le riparazioni), cioè le richieste della Jugoslavia e

4. legittimava nello stesso tempo le rivendicazioni territoriali austriache nei con­fronti degli stati vicini. Si è detto della rivendicazione sul Sudtirolo. Meno noto può essere il fatto che da parte austriaca vi furono delle idee di incorporare la Kanaltal, Odenburg/Sopron, Berchtesgaden e alcuni altri territori di confine.

5. Infine la tesi dell'occupazione permise di riallacciarsi direttamente alla costi­tuzione del1929, che è valida sino ad oggi in Austria nella sua forma predittatoria­le e che dà all'esecutivo poteri straordinari. Questa tesi fu sostenuta anche perchè così restava valido il concordato stipulato dal regime austrofascista.

6. L'ampliamento della tesi della vittima favorì la reintegrazione degli ex nazi­sti, anche dei cosiddetti volksdeutschen Heimatvertriebenen,28 che portarono con sé la loro immagine della storia, e soprattutto di quelli che tornarono a casa dalla pri­gionia di guerra.

7. La tesi della vittima promosse pertanto un processo di unificazione naziona­le, che si sviluppò attraverso il rifiuto della responsabilità per i crimini di violenza e a volte indossò anche panni antitedeschi.

La nazione austriaca si è quindi data la sua storia, con la riconciliazione dei partiti della guerra civile e con la rimozione della partecipazione austriaca al regi­me nazionalsocialista. Questo è anche il significato emotivo - oltre la sua funzione giuridico-internazionale - della neutralità austriaca, che indica un importante pro­cesso d'apprendimento dalle esperienze della storia austriaca e mondiale: mai più una partecipazione a guerre fuori dell'Austria, mai più una guerra civile all'interno dell'Austria. Ed è del tutto irrilevante se definiamo questo processo d'apprendi­mento come un normale elemento della formazione di una nazione, come una men­zogna o, come è stato anche detto, come un peccato originale.29

"Si potrebbe dire", così il giornalista austriaco Hugo Portisch cerca un gesto di riconciliazione con il passato, "che i politici austriaci d'allora soppesando due beni -qui il riconoscimento di una corresponsabilità per l' AnschluB e la guerra di Hitler, là la possibilità di uscire in fretta il paese dalla miseria e dai pericoli del dopoguer­ra - abbiano dato la precedenza al superamento della miseria e del pericolo imme­diati" .30

La storiografia austriaca, lo si può dire senz'altro, ha in gran parte seguito la stra­da della politica. Solo lentamente essa si è avvicinata ai problemi di cui parliamo e furono davvero relativamente pochi coloro che dopo la oltretutto ritardata istituzio­nalizzazione della storia contemporanea in Austria iniziarono a fare questo. Ma

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L'Austria, prima vittima della Germania di Hitler

abbiamo la fortuna di ricevere sempre molto appoggio e forti impulsi dai colleghi storici al di fuori dell'Austria. La seconda cosa però che ci tiene in movimento sono i nostri artisti, che non hanno rinunciato e non rinunciano a lavorare su questo pro­blema e a tener desta l'attenzione della società austriaca.31

Ma, soprattutto dalla metà degli anni Ottanta, chi non cessa di seguire le fila della leggenda dell'Austria come vittima in quel labirinto dove si trovano così tanti colpevoli sono dei numerosi giovani storici contemporanei, spesso in condizioni miserabili di ricerca e di sostentamento.32

In questo modo essi preservano gli austriaci da un'amnesia collettiva, perchè non si verifichi quello che scrisse un autore, che ci è comune:

"Lui era là molto simile a quanto era stato, ma non più simile di una fotografia a una cosa viva. Ed ora, che guardava indietro, era immobile come una fotografia. Pare che ricordare non sia una vera azione. Il ricordo lo si subisce immobile. Chi ricorda e chi è ricordato s'immobilizzano"Y

Note

l. "Di e neue Front", 2.1 0.1954, citato da A. Gaisbauer, "Òsterreich wird zugrunde gehen, wenn nicht ... ",in Dokumentationsarchiv des ostemeichischen Widerstandes. Jahrbuch 1988, Wien 1988, pp. 52-54, qui p. 53.

2. "Salzburger Volkszeitung", 17.11.1954, citato in A. Gaisbauer, "Òstemeich wird zugrunde gehen", cit., p. 53.

3. R. Wodak e altri, "Wir sind alle unschuldige Tater!" Diskurshistorische Studien zum Nachkriegsantisemitismus, Frankfurt am Main 1990; R. Wodak e altri, Die Sprachen der Vergangenheiten. Òffentliches Gedenken in osterreichischen und deutschen Medien, Frankfurt am Main 1994.

4. "Der Standard", 9.7.1991, p. 23.

5. Discorso di Vranitzy de11'8.6.1993. Cfr. "Salzburger Nachrichten", 9.6.1993. Anche Waldheim disse già nel suo discorso alla televisione austriaca per il cinquantesimo anniversario dell"'AnschluB": "Vi furono austriaci vittime e altri che furono colpevoli. Non diamo l'impressione di non averci avuto niente a che fare." in O. Karas (ed), Die Lehre. Òsterreich: Schicksalslinien einer europaischen Demokratie, Wien 1988, p. 14. Tutto in G. Bischof, Di e Instrumentalisierung der Moskauer Erkliirung nach dem 2. Weltkrieg, in "Zeitgeschichte", 20, 1993, pp. 345-346, qui p. 346.

6. L'a. si riferisce qui al termine Schreibtischtater (criminali alla scrivania), che indica i criminali col­letti bianchi (N.d.T.).

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Karl Stuhlpfarrer

7. "Wiener Zeitung", 1.1.1946, p. l.

8. Ibidem.

9. Ibidem.

10. "Wiener Zeitung", 2.10.1945, p. l.

11. "Wiener Zeitung", 28.10.1945, p. l.

12. "Wiener Zeitung", 12.2.1946, p. l

13. "Wiener Zeitung", 13.1.1946, p. l.

14. "Wiener Zeitung", 12.3.1946, p. l.

15. Ibidem.

16. Ibidem.

17. Cfr. W.R. Garscha-C. Kuretsidis Haider, Die Verfahren vor dem Volksgericht Wien (1945-1955) als Geschichtsquelle, Wien 1993.

18. G. Bischof, Die lnstrumentalisierung, cit., p. 347.

19. R. G. Knight, Besiegt oder befreit? Eine volkerrechtliche Frage historisch betrachtet, in G. Bischof-J. Leidenfrost (edd), Die bevormundete Nation. Òsterreich und die Allierten 1945-1949, lnnsbruck 1988, pp. 77-91, qui p. 77.

20. G. Bischof, Die lnstrumentalisierung, cit., p. 354.

21. Ibidem, p. 357.

22. G. Stourzh, Geschichte des Staatsvertrags, Graz 1980, p. 243.

23. Ibidem, p. 244.

24. Das Buch des osterreichischen Heimkehrers, a cura del Bundesministerium fiir lnneres. Abt. 14 (Wien 1949).

25. Il primo fu C. Gatterer, lm Kampf gegen Rom. Biirger, Minderheiten und Autonomien in ltalien, Wien 1968, seguimmo Leopold Steuer e io. Il lavoro fu proseguito da altri giovani storici.

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26. Cfr. "Wiener Zeitung", 4.10.1945, p. 2.

27. K. Scholz, Aus einem totalen Haus. Anmerkungen zur zeitgeschichtlichen Kultur in Òsterreich, in "Dokumentationsarchiv des osterreichischen Widerstandes. Jahrbuch 1988", Wien 1988, pp. 31-39, qui pp. 33. s.

28. Si tratta dei tedeschi residenti nell'Europa centro-orientale, che durante la seconda guerra mon­diale furono utilizzati dai nazisti per i loro piani di colonizzazione dell'Est. Nell945 furono scaccia­ti dai loro luoghi d'insediamento, ottenendo la cittadinanza tedesca e austriaca (N. d. T.).

29. H. Portisch, Òsterreichs Mitverantwortung fiir seine NS-Vergangenheit. Lebensliige oder Erbsiinde?, in "NÒ Journal", 43, novembre 1986, pp. 10-11, qui p. 10.

30. Ibidem, p. 11.

31. K. Stubenvoll, Bibliographie zum Nationalsozialismus in Òsterreich. Eine Auswahl, Wien 1992. Questa bibliografia selezionata contiene già 1626 titoli.

32. Cfr. S. Mattl-K. Stuhlpfarrer, Abwehr und Inszenierung im Labyrinth der zweiten Republik, in E. Talos-E. Hanisch-W. Neugebauer ( edd), NS-Herrschaft in Òsterreich 1938-1945, Wien 1988, pp. 601-624; inoltre S. Mattl-K. Stuhlpfarrer, "Come nel Carso dove qua e là dispare un fiume". Gli austriaci sotto il fascismo tedesco 1938-1945, in Il "caso Austria". Dall"'Anschluss" all'era Waldheim, a cura di G. E. Rusconi e R. Cazzola, Torino 1988, pp. 99-143.

33. l. Svevo, Kurze sentimentale Reise. Erzahlung, Stuttgart 1978, p. 41 (nella trad. viene ripreso il testo originale, in l. Svevo, Corto viaggio sentimentale, Roma 1992, p. 40, N. d. T).

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Javier Tusell U.N.E.D. di Madrid

Gli storici spagnoli e la transizione alla democrazia

La transizione spagnola alla democrazia fa parte di una terza ondata di demo­cratizzazione a livello mondiale, che iniziò nel Mediterraneo e, dopo aver avuto successo in buona parte dell'America Latina, ebbe il suo momento culminante nella scomparsa del comunismo nell'Est europeo nel1989. Nel contesto geografico e cul­turale che le è proprio (cioè nel Mediterraneo) la transizione spagnola costituì un notevole successo in confronto con la Grecia, dove la dittatura era stata molto meno lunga e non aveva mai avuto pretese di durata illimitata, e con il Portogallo. In que­st'ultimo paese, da un lato non vi furono problemi come i nazionalismi periferici o i separatismi legati al terrorismo - e l'esercito finì col rompere con il regime -, dal­l'altro lato, si pose in maniera evidente, durante alcuni mesi, il pericolo di una dit­tatura di sinistra. I costi sociali della transizione in Spagna furono relativamente lievi: essenzialmente essi risultarono legati all'incapacità di risolvere, in un perio­do simile a quello degli altri paesi europei, la crisi economica mondiale conseguen­te all'aumento dei prezzi energetici (1973 e 1979). Se prima della morte di Franco si poteva pensare alla possibilità che la transizione si concludesse in un nuovo epi­sodio di guerra civile come quello del 1936, nel1982 il processo era in realtà con­cluso con un bilancio molto soddisfacente. Anche se nella storia del mondo del secolo XX si considererà sempre che il principale momento del protagonismo spa­gnolo fu la guerra civile, il secondo momento sarà senza dubbio il passaggio alla democrazia in quanto esso servì indubbiamente da esempio, più o meno necessario, per una parte delle transizioni nell'America Latina e, inoltre, è stato giudicato con entusiasmo in latitudini molto differenti come quelle dei paesi dell'Est. 1

Quanto detto non costituisce, tuttavia, il profilo fondamentale caratteristico della transizione spagnola che si può identificare in due aspetti essenziali. In primo luogo, a differenza dei paesi già citati, in Spagna si era prodotto un cambiamento econo­mico, sociale e culturale decisivo prima del cambiamento politico, che fu - dal primo - non solo preceduto, ma reso possibile. In effetti questa trasformazione ebbe luogo a partire dal mutamento di politica economica del 1959 e, in maniera parti­colare, dalla metà della decade degli anni Sessanta: il suo risultato fu di convertire la Spagna in una nazione moderna con dei risultati molto difficilmente superabili sul terreno dello sviluppo industriale. Questa evoluzione economica fu accompa­gnata da un progressivo cambiamento di mentalità, coadiuvato dall'apertura all'e­stero, dal maggiore egualitarismo sociale, dall'evoluzione della chiesa e dell'uni-

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versità. Al momento della morte di Franco (1975), la maggioranza degli spagnoli si orientava già a favore di un regime democratico.

Come secondo punto, ricordiamo che la transizione spagnola si realizzò dall'in­temo delle stesse istituzioni della dittatura, fatto estremamente infrequente in que­sta "terza ondata democratica". Ad ogni modo il caso spagnolo fu il primo nel quale si produsse questo tipo di processo, ma esso si concretizzò in un modo molto più profondo e veritiero. E' molto dubbio, ad esempio, che in Polonia le elezioni tenu­te alla fine del regime comunista fossero qualcosa di diverso di un mezzo per con­trollare la protesta sociale senza mettere in ballo l'essenza del regime. In Cile la dit­tatura di Pinochet volle fare una transizione controllata allo scopo di perpetuarsi, ma fallì e questo ebbe come conseguenza l'autentica transizione al regime democrati­co. Forse il caso spagnolo è più comparabile a quello della dittatura militare brasi­liana (anche se questa fu molto meno lunga) o a quello dell'Ungheria, fra i paesi ex comunisti. In tutti i modi non si produsse mai un caso così nitido come quello spa­gnolo nel quale le istituzioni della dittatura votarono una legge che, permettendo una consultazione democratica, cambiava la legittimità stessa del sistema politico attraverso procedimenti previsti dallo stesso sistema.2

Ai fini di questa comunicazione sono sufficienti questi tratti definitori del feno­meno. A partire da questa premessa, ciò che risulta doveroso sottolineare è che, in un modo non determinante, ma con una certa influenza, gli storici svolsero un ruolo in tutto il processo politico che portò da una dittatura ad una democrazia. Durante la transizione spagnola il passato come memoria collettiva e la storia come scienza hanno giocato una parte di primaria importanza; ciò, in fin dei conti, non ha nulla di sorprendente, date le peculiarità della storia spagnola del secolo XX. Nuovamente, a questo punto vanno fatte alcune chiarificazioni preliminari.

Gli specialisti hanno messo in evidenza quanto risulti positivo per un processo di transizione alla democrazia l'esistenza di una precedente tradizione politica e culturale: in questo senso, per esempio, la Cecoslovacchia aveva più possibilità di stabilità democratica che la Romania. In Spagna ci fu una pratica democratica ante­riore, anche se agitata e convulsa, nella tappa repubblicana ( 1931-1936) che si con­cluse in una guerra civile (1936-1939).3 L'interpretazione successiva di questa espe­rienza democratica giocò un ruolo decisivo nella configurazione delle istituzioni politiche durante il regime di Franco. La dittatura spagnola fu, a differenza di qua­lunque altra europea negli anni Trenta, la conseguenza di questa guerra civile che non produsse solo un elevatissimo numero di morti in combattimento ma che si pro­trasse con decine di migliaia di esecuzioni dopo la sua conclusione e con un' epu­razione massiccia dell' amministrazione. In questo modo, anche se il regime nato dalla guerra era molto meno totalitario del fascismo in Italia o del nazismo in Germania, esso portò ad una rottura con il passato per molti aspetti superiore e giu­stificata, in termini storici, da un'interpretazione della Repubblica e della guerra. La dialettica fra vincitori e vinti risultò un fattore essenziale per spiegare la vita spa­gnola fino agli anni Sessanta e si può dire che fino al1975 svolse una parte essen-

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ziale nella definizione della politica spagnola. In realtà solo le elezioni costituenti del 1977 cicatrizzarono la ferita della guerra civile in modo definitivo.

Durante tutti gli anni che vanno dal1939 al1975 l'interpretazione collettiva del periodo 1931-1939 ha avuto un ruolo fondamentale nella vita degli spagnoli. Per quelli che vinsero, il1939 fu soprattutto un punto di partenza del tutto nuovo. Il pas­sato, anche remoto, fu interpretato come un pendìo inclinato verso lo scontro parto­rito da una cospirazione rivoluzionaria, esistente già nel1931 e completamente evi­dente nel 1936. A partire da11965 cominciò a prendere piede un'altra interpreta­zione del tutto diversa di questi anni. Si valutò l'importanza dell'esperienza repub­blicana del1931, ma soprattutto si lesse la guerra civile non come punto di parten­za e di fondazione di un sistema politico, bensì come una tragedia da evitare nel futuro, circondata, talvolta, da un enorme senso di sofferenza e da drammatici inse­gnamenti per il futuro. Questa visione comportò un'accettazione per i posteri dei contendenti del 1936, quanto meno, di una parziale colpevolezza della propria ten­denza negli eventi tragici e una volontà di sostanziale rettifica. Su questo piano si può affermare che il punto di riferimento, morale ed emotivo,decisivo per la transi­zione spagnola è stata la guerra civile del1936-1939, nello stesso peso avuto dalla guerra civile inglese del secolo XVII per lo sviluppo delliberalismo moderno.4 Nel corso di tutta la transizione fu molto frequente il fatto che i protagonisti politici citassero i propri omologhi degli anni Trenta; ciò rappresenta una buona testimo­nianza di quanto rimanesse in essi il ricordo di un passato che risultava assai poco esemplare. Quando durante gli anni della transizione (197 5-1982) si è manifestato un eccesso di tensione, esso è sempre diminuito, in forma drastica, con la sola evo­cazione di quanto successo nel 1936.

Ora si può cominciare ad esaminare il possibile ruolo degli storici nel processo storico della transizione. Ovviamente prima di far riferimento alla decade degli anni Sessanta, quando iniziò a manifestarsi in Spagna il cambiamento sociale e cultura­le che precedette quello politico, occorre considerare la tappa precedente.

In realtà, l'impatto della guerra civile sulla storiografia del dopoguerra fu mino­re di ciò che si potrebbe pensare. Naturalmente è doveroso distinguere fra la storia professionale, sviluppata nell'ambito universitario, e gli insegnamenti elementari in materie storiche impartiti nelle scuole. In questo ultimo campo si ebbe certamente un impatto molto forte della guerra civile e d'altronde era un fatto inevitabile. Riassumendo in maniera molto breve, si può dire che tutta la fase anteriore ai Re Cattolici risultava essere una via verso l'unità nazionale, mentre l'epoca di massi­ma gloria nazionale erano i secoli XVI e XVII e dal secolo XVIII si considerava che fosse già iniziato il declino verso la rivoluzione che avrebbe raggiunto la sua mas­sima espressione nella Seconda Repubblica.5 In questo tipo di interpretazione coin­cidevano le differenti tendenze esistenti nella Spagna di Franco.

La storia professionale universitaria si vide influenzata dalla guerra civile in un modo abbastanza più sfumato. Come era prevedibile, nell'ambiente accademico si verificò una rottura con la tradizione storiografica che poteva qualificarsi come

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liberale. Non si può però parlare di una storiografia "fascista", bensì di un predo­minio delle interpretazioni più conservatrici provenienti dal periodo anteriore (in generale, fino a quel momento, la storiografia spagnola era stata opera di conserva­tori).6 D'altro canto non ci fu una storiografia professionale e ufficiale attorno alla crisi degli anni Trenta, bensì, in generale, le interpretazioni che si diedero di questo periodo provenivano da giornalisti (Pla, Arranis, ... ). Le ragioni che si possono addurre per spiegare tale carenza di autentica storiografia sui tempi immediatamen­te precedenti sono varie: dalla pluralità della destra spagnola che aveva vinto la guerra civile - e ciò avrebbe potuto convertire la storiografia in un terreno di dispu­te politiche in seno al regime -, fino ai pericoli di offrire un'immagine troppo evi­dente della disparità tra il regime spagnolo e il resto dei sistemi europei a partire dal 1945. Forse svolse un ruolo di maggior importanza il solo fatto di desiderare di dimenticare il passato o di considerarlo come poco suscettibile di interpretazione spassionata in quanto aveva avuto un finale bellico. Semplicemente, malgrado che il franchismo avesse avuto una manifesta origine storica, non ci fu un proposito di giustificarlo con una forma scientifica; era sufficiente la propaganda politica uffi­ciale.

Quello che si verificò in Spagna, invece, fu un'esaltazione dell'età moderna nella quale la Spagna cattolica sostenne una funzione imperiale in Europa e in tutto il mondo. Fino ad allora la storiografia spagnola aveva avuto come centro di gravità l'epoca medievale, in quanto momento istitutivo della Spagna; questo periodo con­tinuò ad essere il principale oggetto di studio e ricerca da parte del grande storico spagnolo dell'epoca liberale, Menéndez Pidal. Il carattere peculiare di questo momento è che il centro di gravità della produzione storiografica spagnola si tra­sferisse alla tappa moderna, epoca alla quale si dedicarono la maggioranza delle pubblicazioni e delle tesi dottorali dei ricercatori più importanti. Sicuramente la qualità di questa storiografia cambiò molto: lo stesso ammiraglio Carrero, il princi­pale consigliere di Franco, scrisse sulla battaglia di Lepanto, ma anche i migliori storici spagnoli dell'epoca (compresi quelli che poi si spostarono verso lo studio dell'epoca contemporanea) si dedicarono a questa tappa ed ebbero una produzione monografica di qualità superiore agli apporti degli storici stranieri. Tutto ciò mal­grado che fosse implicito che la storia dell'epoca medievale servisse nell'istruzione primaria per trasmettere una visione conservatrice, tradizionale e cattolica del pas­sato. Malgrado che l'ottica interpretativa avesse sempre questo sottofondo, le lettu­re date dissentivano, a volte, dalle tesi semplificatrici dell'insegnamento scolastico elementare. Ad esempio, attorno al secolo XVIII, molto presto - negli stessi anni Quaranta - si sviluppò un'interpretazione positiva che contrastava perfino con il contenuto di alcuni discorsi di Franco, incline a condannare la massoneria di quel periodo.

Risulta molto significativo che la storia contemporanea fosse coltivata dall"'Instituto de Estudios Polfticos", organismo di carattere politico e falangista (anche se con il tempo divenne modernizzatore ed introdusse gli studi di sociolo-

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gia), mentre la storia moderna e l'americanismo, anch'essi oggetto di speciale atten­zione in questo momento, ebbero come sede il "Consejo Superior de Investigaciones Cientfficas". Ciò significava che non si attribuiva alla storia con­temporanea un carattere propriamente scientifico e che, in definitiva, si evitò per quanto possibile di fare i conti con questo tipo di storia. Tutta la saggistica del dopo­guerra, sia dell'emigrazione (Américo Castro, Sanchez Albornoz, ... ) o dell'interno (Lain, Calvo Serer, ... ) diventò una meditazione attorno alla convivenza degli spa­gnoli nel passato; essa non faceva riferimento alla storia presente o immediata bensì a quella più remota: anche se la discordia nazionale era stata tangibile nei tempi recenti, Castro e Sanchez Albornoz la fecero risalire ai tempi medievali. Se ci fu una propaganda, anche pesante, destinata a interpretare gli anni Trenta in una forma giu­stificatoria per il regime, essa non ebbe mai pretese scientifiche e nemmeno ebbe un suo posto nell'università. Gli storici più legati al falangismo scomparvero comple­tamente a cominciare dal1945, quando predominò, ormai in modo irreversibile, un conservatorismo cattolico tradizionale. A partire dalla fine degli anni Quaranta apparve una storia scientifica relativa alla età contemporanea ed essa si attestava, prudentemente, ad una data sufficientemente lontana (furono i casi del libro di Pab6n su Cambò, che si fermava al 1918,7 o di Maura e Fernandez Almagro su Alfonso XIII),8 oppure trattava di fatti di altri paesi (La rivoluzione portoghese dello stesso Pab6n del 1941).

In definitiva si può affermare che fino alla metà della decade degli anni Sessanta la storia contemporanea della Spagna appena esistette come insegnamento e come ricerca. Nell'università i professori non la insegnavano, né i giovani laureati pote­vano fare ricerca: alla metà degli anni Sessanta, per esempio, era impensabile che si presentasse una tesi dottorale attorno alla Seconda Repubblica. In realtà solo il primo terzo del secolo XIX cominciò ad essere oggetto di ricerca seguendo dei cri­teri scientifici. A partire da questa data cominciò a prodursi un cambiamento, che coincise con vari fattori ambientali di prima importanza, come il decollo economi­co e il mutamento di mentalità prodotto da una maggiore apertura all'estero e dal­l'influenza del Concilio Vaticano II nel cattolicesimo spagnolo. In un primo momento l'attenzione attorno alla storia contemporanea spagnola non sorse tanto tra gli storici spagnoli quanto tra gli stranieri, principalmente tra gli anglosassoni che posero in evidenza gli imprescindibili antecedenti della guerra civile, l'avveni­mento più importante della storia spagnola del secolo XX. Dopo una prima tappa costituita dalla saggistica di questa provenienza,9 studiosi britannici e nordamerica­ni (Payne, Malefakis, ... ) portarono a termine un'importante lavoro di ricerca origi­nale che permise anche la redazione di manuali come quello di Raymond Carr. 10

Questo interesse, che andava al di là delle frontiere spagnole, si unì ad una moder­nizzazione storiografica prodotta nella storia moderna, a cominciare dalla metà degli anni Cinquanta, grazie ali' influenza francese, di cui fu principale testimo­nianza la personalità di Jaume Vicens Vives. 11 La sua prematura scomparsa gli impedì di dedicare maggiore attenzione alla storia contemporanea, alla quale si era

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Javier Tusell

interessato in particolar modo negli ultimi tempi; ma la sua influenza fu molto importante, non solamente rispetto alle generazioni più giovani ma anche per gli storici della sua stessa età che, come lui, cambiarono impostazioni metodologiche e svilupparono un interesse crescente verso la storia più vicina.

Il risultato di questo insieme di influenze fu un mutamento radicale prodotto durante la seconda metà degli anni Sessanta, in special modo dagli ultimi anni della decade alla morte di Franco nel1975. Questa trasformazione coincise con la tappa che è stata definita "tardofranchismo", nella quale la distanza tra il regime e la società spagnola si accentuò e, perciò, la legittimità del regime venne messa in dub­bio. In realtà tutto ciò non indicava che la società spagnola entrasse in belligeranza contro il franchismo, bensì che essa si sviluppava al margine dello stesso e che il sistema politico, cosciente di questa situazione, non aveva altra soluzione che mostrarsi più tollerante che in altri tempi. Durante questi anni cominciò ad essere onnipresente nella politica spagnola la sensazione dell'imminenza della morte di Franco, mentre le inchieste scoprivano che gli spagnoli stavano cambiando menta­lità: la maggioranza era composta da sostenitori, ad esempio, della libertà sindaca­le, che cominciavano ad appoggiare pure la libera istituzione dei partiti politici quando entrambe le cose erano illegali. La sensazione della separazione tra il regi­me e la società permise ai più giovani dirigenti di sentirsi obbligati a rendere possi­bile una transizione alla democrazia o perfino a collaborare con essa.

Tanto il passato come memoria collettiva che la storiografia in quanto scienza contribuirono in un modo decisivo a questo processo sviluppato a partire dalla morte di Franco. E' opportuno, comunque, porre in evidenza le fasi di una progres­siva presa di coscienza storica attorno al passato. In primo luogo ci fu un recupero delle testimonianze dei protagonisti del periodo anteriore alla guerra civile (esempi possono essere la pubblicazione delle memorie di Gil Robles, nel 1968, o di quelle di Azafia, apparse nel 1966, originariamente in Messico e solo dopo in Spagna). 12

Soprattutto, in maniera decisa, si ebbe un cambiamento nella storiografia che portò in un modo molto brusco a trasferire il centro di gravità della produzione storiogra­fica dall'epoca moderna verso l'epoca più attuale. In parte questo fu opera dei mae­stri della generazione precedente, come si è già segnalato: la seconda parte della biografia di Cambò scritta da Pab6n, 13 il libro su Fernando VII di Arto la, 14 i primi testi di Jover sul secolo XIX 15 o le ricerche di Seco su Alfonso XIII 16 sono buone testimonianze di questa tendenza perché tutti gli autori citati, ad eccezione di Pab6n, erano stati modernisti prima di queste date. Nel 1958 apparve, per la prima volta, un manuale di storia recente (quello di Seco edito da Gallach) 17 nel quale la guerra civile veniva definita come tale e non "Guerra di Liberazione" o "Crociata", com'e­ra abituale. Alcuni di questi storici non affrontarono questioni relative alla Repubblica, in quanto continuavano a considerarle troppo recenti, ma lo fecero Pab6n, Seco e Artola.

In tutti i modi la grande diffusione della conoscenza del passato recente era in forte debito con gli storici più giovani, discepoli della generazione precedente; alcu-

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ni di essi trattarono questioni che potevano essere considerate molto delicate dal punto di vista politico per un regime come quello di Franco. La stessa enunciazio­ne dei temi di ricerca oggetto dell'attenzione degli storici lo testimonia senza dar luogo a dubbi. Va ricordato che il regime continuava ad essere una dittatura centra­lista, che proibiva i partiti politici e i sindacati liberi e il cui fondamento ideologico era una guerra civile nella quale chi personificava il regime aveva conquistato la vit­toria. Dalla fine degli anni Sessanta ci fu, ad esempio, una bibliografia, elaborata con requisiti scientifici, attorno ai movimenti nazionalisti (Solé Tura, nel1967, sul catalanismo). La fiorente storia economica (Anes, Sanchez Albornoz, Tortella)18 si impegnò a smentire che nel secolo XIX fosse esistita un'incuria da parte dello stato che aveva impedito la crescita, o che questo secolo fosse stato di decadenza econo­mica. Gli studi sul movimento operaio dalla seconda metà degli anni Settanta (Termes, Balcells e molti altri) furono il rifugio delle tendenze più di sinistra e non fu l'unico caso, in quanto storici marxisti si dedicarono anche alla storia economi­ca: Fontana sul regno di Fernando VII (1971) o Lacomba attorno alla crisi del1917 (1970). Dall'esilio Tufi6n de Lara scrisse una storia di segno marxista e di ambi­zione divulgativa. 19 Storici di ideologia più liberale affrontarono il funzionamento della monarchia parlamentare e il caciquismo, interrogandosi sulle ragioni che pote­vano spiegare il presunto fallimento della tradizione liberale e parlamentare spa­gnola (Tussell, Varela, Fusi, Romero Maura dalla fine dei Sessanta e inizio dei Settanta). Fare un inventario della produzione bibliografica di questi anni trasfor­merebbe il presente lavoro in un'enciclopedia. 20

Ritengo che sia molto più interessante per questo saggio citare alcuni caratteri generali del cambiamento storiografico di questi anni in Spagna. Si trattò, in primo luogo, di un processo molto brusco, di un autentico rovesciamento, fino al punto che si può dire che, in meno di una generazione, il panorama della storiografia spa­gnola cambiò in maniera sostanziale. Si ridussero comparativamente le schiere del "modernismo" (secoli dal XV al XVIII), mentre quelle del "contemporaneismo" crebbero in modo smisurato. Per citare un solo dato quantitativo, si deve ricordare che nello spazio di una generazione il numero di professori universitari dedicati alla storia contemporanea si moltiplicò per dieci. Pertanto il centro di gravità della sto­riografia si trasferì all'epoca contemporanea e si può perfino sostenere che la storia di questa epoca operò, per così dire, come una scienza imperialista. In effetti, una gran parte dei migliori libri di ricerca che si pubblicarono da parte di specialisti in diritto politico o costituzionale, in questi anni finali del franchismo, non si riferiva­no al presente ma al passato prossimo ed erano, pertanto, di storia. Nella Spagna dell'epoca, la cosa più abituale era che un professore di queste materie non scrives­se una tesi dottorale attorno al funzionamento delle istituzioni del regime di Franco, bensì delle istituzioni repubblicane degli anni Trenta, perché si sapeva che le prime erano fittizie mentre le seconde servivano per giustificare la propria posizione poli­tica: in questi momenti essere franchista nell'università era poco meno di una stra­vaganza. L'abbondanza di ricerche realizzate durante questi anni fu tale che, da un

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lato, la storiografia spagnola sostituì gli specialisti stranieri nell'avanguardia della ricerca e che, successivamente, le pubblicazioni di storia contemporanea risultaro­no meno ricche di novità. Addirittura in certi aspetti si può parlare di un'assenza di territori inesplorati.

Un'importanza maggiore del contenuto di questa fioritura storiografica ha la ripercussione sociale che la accompagnò. In questi anni la storia occupò sempre il primo posto nelle classifiche di vendita di libri non letterari. Se si convertì in auten­tica passione nazionale, la ragione va attribuita alla precedente assenza di cono­scenze, alla coscienza del peso che il passato prossimo aveva sul presente e al fatto che la storia permetteva di trattare in modo elittico del presente senza pericolo eccessivo. La storia era, pertanto, anche un sostituto del saggio politico. Da qui è derivata una tendenza nel gran pubblico in Spagna a chiedere allo storico insegna­menti dal passato da usare in modo immediato nella realtà presente. Questo fatto, se risulta confortante perchè permette allo storico di attribuirsi una funzione socia­le può anche risultare eccessivo.

Sul momento la rievocazione del passato permise agli spagnoli di conoscere l'e­sistenza di una tradizione che era stata loro nascosta. L'interesse per l'esperienza democratica repubblicana degli anni Trenta e le ragioni della sua crisi fu molto caratteristico della decade dei Settanta. Su questo aspetto particolare conviene ricor­dare, per esempio, che in molte questioni cruciali, pericolose in un'ottica stretta­mente politica, si erano pubblicati libri di storia di tipo scientifico già prima della morte di Franco. Basti ricordare che era apparsa una ricerca sulle elezioni del feb­braio 1936 i cui risultati testimoniavano la illegittimità della sollevazione di alcuni mesi dopo 21 e un'altra sui partiti della Catalogna autonoma mentre in quest'epoca l'autonomia e i partiti costituivano un'autentica aggressione al sistema costituzio­nale vigente. 22 E' significativo che due dei libri più rilevanti, per l'interesse degli specialisti e del pubblico, negli anni finali del regime di Franco riguardassero la sto­ria elettorale 23 e la storia dei partiti politici.24 E' evidente che se si scriveva su parti­ti ed elezioni era perché si desiderava che esistessero e perché era prevedibile che in breve tempo il desiderio si convertisse in realtà. Nel 1973 potè apparire un Manuale di Storia della Spagna del secolo XX nel quale si trattava dell'epoca più recente con una manifesta ostilità politica (il suo autore, Tamames, fu deputato comunista alle Corti costituenti del 1977). 25

E' opportuno ricordare che la stessa propaganda del regime sperimentò una tra­sformazione sostanziale che la spinse a produrre apporti validi e documentati mal­grado la sua evidente deformazione ideologica. Anche se non si tratta di vera e pro­pria propaganda, questa affermazione risulta particolarmente sicura per ciò che riguarda la storiografia militare della guerra. I libri pubblicati da Martinez Bande sulla guerra civile 26 e quello di Salas sull'Esercito Popolare della Repubblica 27 con­tinuano ad essere imprescindibili nel momento attuale. Entrambi avevano combat­tuto contro la Repubblica durante la guerra civile, però in quel momento affronta­rono questo passato, del quale erano stati testimoni, da una prospettiva strettamen-

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te storica e consultando gli archivi. In generale si può affermare che se gli storici universitari incentrarono i loro studi sulla Repubblica, i movimenti operai, i nazio­nalismi periferici o la monarchia costituzionale, la guerra civile fu affrontata prin­cipalmente da storici vicini al regime i quali, apportando una documentazione ori­ginale che solo loro potevano consultare, fecero scomparire non pochi miti, non solo filorepubblicani ma anche filofranchisti. Il propagandista del regime più cono­sciuto in questo momento nel settore della storia fu Ricardo de la Cierva che pub­blicò, fra l'altro, una biografia del dittatore.28 A prescindere dalla sua funzione poli­tica e dell'intento esclusivamente divulgativo, non c'è il minimo dubbio che tutto ciò presupponeva uno sforzo per offrire un'altra versione, più fedele alla verità, della storia più recente. Nel complesso questo genere di pubblicazioni spiegava, con una versione deformata però più verosimile, come si era prodotta una dittatura per­sonificata in Franco. Ciò che però non poteva essere perdonato a questi testi era il fatto di continuare ad essere pubblicati. Convertendo in storia la guerra civile, che aveva prodotto il regime, anch'esso restava condannato in modo indiretto come un residuo del passato.

Le posizioni storiografiche ufficiali e quelle dei giovani professori universitari, tra i quali il franchista era un'eccezione, non coincidevano, anzi spesso erano in conflitto su punti essenziali. In tutti i modi la discussione su questioni di rilevanza politica, che coinvolgevano la giustificazione stessa del regime ( se la democrazia fosse stata effettiva durante la tappa repubblicana o se fosse stata giustificata la sol­levazione di Franco, per esempio) si poterono fare pubblicamente e senza troppi impedimenti. La censura degli anni finali del franchismo poteva colpire duramente i giornali, ma era molto più benevola con i libri, soprattutto se trattavano del passa­to, anche quello proprio. Per grandi che fossero le differenze interpretative, ci furo­no tuttavia punti di identità, il principale dei quali, che si impose in modo schiac­ciante, fu che la guerra era stata un fallimento di tutta la società, aveva prodotto una barbarie generalizzata e, infine, costitutiva una "tragedia" collettiva che pesava sulla coscienza di tutti. Al di là del fatto che ci fosse un avvicinamento di posizioni tra gli storici, sembra indubbio che sull'opinione pubblica pesò, prima di tutto e in un modo molto chiaro, il ricordo di una storia recente che non si doveva ripetere in nessuna maniera. Perciò durante le discussioni costituenti del 1977 furono molto frequenti le invocazioni al ricordo degli anni Trenta allo scopo di impedire che si riproducessero i mali di quell'esperienza democratica. La storia che prima aveva preteso di giustificare il regime postbellico, per lo meno a livelli educativi elemen­tari, ora svolgeva un ruolo decisivo nel rendere possibile la transizione in pace verso la libertà.

In conclusione, si può ritenere che gli storici abbiano avuto un ruolo positivo, di avanguardia e di sostegno, in questo processo politico. Tuttavia il loro caso non costituisce qualcosa di più di un'esemplificazione concreta della realtà della transi­zione spagnola già descritta nelle prime pagine di questa comunicazione. In Spagna si potè arrivare ad una transizione eccezionalmente morbida grazie ad un preceden-

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te lungo periodo nel quale si erano realizzati sostanziali cambiamenti non solo nel campo economico, ma anche in quello culturale. In forza delle circostanze gli sto­rici dovettero svolgere un compito molto importante negli anni precedenti. I socio­logi, per esempio, descrivendo la realtà sociale spinsero affinchè cambiasse la poli­tica e si adattasse alla stessa società. Gli storici contribuirono non solo ad indicare che ciò era possibile (perché si era già verificato negli anni Trenta), bensì agirono come "esorcisti" di tutti i mali, avendo creato la coscienza della possibilità di rica­duta in una barbara guerra civile.

Approssimativamente dal 1980 si è verificato in Spagna un certo riflusso nel­l'interesse del pubblico verso la storia, quando si è resa meno necessaria la già descritta funzione sociale e politica. L'insistenza su un periodo storico di massima discordia, come è una guerra civile, ha portato invece l'inconveniente che nell'at­tualità si avverte l'assenza di "luoghi di memoria" o di "eroi collettivi" comuni a tutte le tendenze politiche. Non esiste una convergenza, come in altri paesi, sulla Liberazione del 1945, perché la confluenza di tutte le concezioni politiche in un'e­sperienza storica collettiva vissuta nel consenso, è data solo dal caso della transi­zione stessa e questa comincia appena ora ad essere oggetto di storia. In realtà il resto della storia spagnola si interpreta in termini distinti se non antagonisti. Al momento in Spagna si sta verificando una curiosa sovrapposizione di simboli e per­sone, fatto che permette, ad esempio, che dirigenti della Falange o militari insorti nel 1936 continuino ad apparire nelle intitolazioni delle strade, ma esse possono ricevere anche il nome dei loro antagonisti. Davanti al ministero dei Lavori pubbli­ci a Madrid, per esempio, le statue di Franco e del dirigente socialista Indalecio Prieto sono separate da appena cento metri; sarebbe inconcepibile trovare una situa­zione simile con De Gaulle e Petain in Francia o con Mussolini e Gramsci in Italia.

In quanto alla storiografia bisogna dire che, dopo aver compiuto la propria fun­zione esorcistica, ha smorzato la passione attorno ai tragici anni Trenta. La storia scientifica del regime franchista ha potuto iniziare con rapidità; se in Italia, ad esempio, essa dovette aspettare fino a venti anni dopo la morte di Mussolini, in Spagna esisteva già dieci anni dopo la fine di Franco. Ad ogni modo ciò non signi­fica che essa non abbia causato gravi problemi. Una testimonianza del modo poco traumatico della transizione è il dato che gli archivi del dittatore continuano a resta­re di proprietà della famiglia, fatto che ha causato gravi ostacoli agli storici. La sto­ria servì per ammorbidire le asperità di un cambio del regime, ma questo fatto si è ritorto contro la storia.

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Gli storici spagnoli e la transizione alla democrazia

Note

l. Uno "stato della questione" su questo tema dal punto di vista degli storici si può trovare in La tran­sici6n a la democracia en Espafia, "Ayer", 15, 1994.

2. Una narrazione degli avvenimenti si trova in J. Tuseii, La transici6n espafiola a la democracia, Madrid 1991.

3. Un'interpretazione recente si può leggere in S. Payne, Spain's first democracy. The Second Republic, 1931-1936, Madison 1993.

4. V. Perez Diaz, La emergencia de la Espafia democratica: la invenci6n de una tradici6n y la dudosa institucionalizaci6n de una democracia, Instituto Juan March de Estudios e Investigaciones, Working Paper W 18, 1991.

5. R. Valls, La interpretaci6n de la Historia de Espafia y sus origines ideo16gicos en el Bachiiierato franquista (1938-1953), Institut de Ciencies de l'Educaci6, Universitat de Valencia (s.a.).

6. G. Pasamar, Historiograffa y ideologia en la posguerra espafiola. La ruptura de la tradici6n liberai, Universidad de Zaragoza, 1991.

7. J. Pabon, Cambò, Barcellona 1952.

8. Duque de Maura-M. Femandez Aalmagro, Por qué cay6 Alfonso XIII?, Madrid 1948.

9. Il labirinto spagnolo di Brenan fu pubblicato nell962 da Ruedo Iberico, a Parigi; ed. it. Storia della Spagna 1874-1936. Le origini sociali e politiche della guerra civile, Torino 1970.

10. Oxford 1966; trad. it., Storia deiia Spagna 1808-1939, 2 voli., Firenze 1978.

11. In italiano di J. Vicens Vives cfr. Profilo della storia di Spagna, Torino 1966.

12. In italiano, di Azana, vi è poco. Si veda La veglia a Benicarlò, Torino 1967.

13. Barcellona 1969. In questo studio si trattava la fase repubblicana con un criterio scientifico.

14. Madrid 1969.

15. Il suo caso è alquanto eccezionale perché il saggio Conciencia obrera y conciencia burguesa en la Espafia contemporanea (Madrid) porta la data del 1952, anche se allora non ebbe continuità.

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Javier Tusell

16. C. Seco Serrano, Alfonso XXIII y la crisis de la Restauraci6n, Barcellona 1969 (terza ediz. 1992).

17. Barcellona 1958. Si tratta dell'ultimo tomo di una Storia di Spagna la cui prima parte era rimasta interrotta negli anni Trenta.

18. Di quest'ultimo in Italia è disponibile il saggio- in castigliano- in A. Grohmann (ed) Due storia­grafie economiche a confronto: Italia e Spagna. Dagli anni '60 agli anni '80, Milano 1991.

19. Ed. it.: Storia della repubblica e della guerra civile in Spagna, Roma 1966; Storia del movimento operaio spagnolo, Roma 1976.

20. II miglior esame della bibliografia di questi anni si trova in J. M. Jover, El siglo XIX en la histo­riograffa espafiola contemporanea (1939 1972), in El Siglo XIX en Espafia: doce estudios, Barcellona 1974, pp. 9-152.

21. J. Tusell, Las elecciones del Frente Popular, Madrid 1971.

22. I. Molas, El sistema de partits politics a Catalunya (1931-1936), Barcellona 1971.

23. M. Martinez Cuadrado, Elecciones y partidos polfticos de Espafia (1868-1931), Madrid 1969.

24. M. Artola, Partidos y programas polfticos (1808-1936), Madrid 1974.

25. Madrid 1973.

26. Madrid 1968 e ss.

27. Madrid 1973.

28. Madrid 1973.

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III La nuova "questione tedesca"

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Gustavo Comi Università di Trieste

La sto rio grafia della ex RDT fra dogmatismo e innovazione. Un tentativo di bilancio dopo il crollo

Nel 1971, da un elevato concesso di partito, uno dei responsabili della politica culturale nella RDT, Kurt Hager, lanciava un accorato monito: "La storia deve appa­rire come la prosecuzione di quanto di meglio ha prodotto il popolo tedesco, e delle tradizioni umanistiche e progressive in tutti i settori: non dobbiamo cedere all'av­versario nemmeno un pensatore o poeta progressista, non un umanista. La storia deve essere scritta in modo che divenga chiaro che la RDT, e cioè lo stato sociali­sta, è quello in cui vengono custodite tutte le grandi tradizioni progressive e rivolu­zionarie del nostro popolo".' Questa citazione riflette una delle caratteristiche salienti e fondanti nella ricerca storica e nella produzione storiografica nell"'altro" stato tedesco.

La rigorosa funzionalizzazione della storiografia alle esigenze di legittimazione del regime comunista è, uno dei motivi che sono stati addotti, dopo la riunificazio­ne della Germania, per giustificare lo smantellamento sistematico e completo del ridondante apparato di ricerca ed universitario. Facendo un paragone con il regime hitleriano, si è affermato che agli storici della RDT è stato imposto un tasso molto più elevato di conformismo, anche se in presenza di forme di repressione e di cen­sura meno visibili. Ciò che è accaduto alla storiografia non trova eguali per le altre scienze sociali, che pure erano anch'esse rigorosamente allineate al regime e fun­zionali alla sua sopravvivenza (si pensi all'economia, alla sociologia, al diritto); tale radicalità attesta dell'importanza centrale attribuita alla storiografia dai responsabi­li del regime, e soprattutto, dopo il 1990, dal ceto politico ed accademico della Germania riunificata.

A seguito dello smantellamento dei centri di ricerca ed universitari, che ha com­portato fra l'altro il licenziamento, il prepensionamento o il "parcheggio" in pro­grammi di lavoro a tempo determinato di svariate centinaia di docenti e studiosi, talora di fama internazionale, si è sviluppato in Germania un aspro dibattito, che ha coinvolto sia valutazioni di tipo etico, che considerazioni di tipo metodologico e relative allo statuto della storiografia come scienza sociale. La valutazione preva­lente è stata quella che la ricerca storica nella Germania comunista fosse, global­mente, da svalutare, in quanto inficiata da una posizione di sottomissione al volere della dirigenza politica. Questa valutazione critica, corroborata dal richiamo alla troppo mite riflessione autocritica degli storici tedeschi dopo il 1945, ha condotto

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Gustavo Corni

alla già ricordata politica di smantellamento. Le voci contrarie sono state poche e flebili. Ovviamente, una parte degli storici già inseriti nella carriera accademica del­l'ex-RDT hanno difeso con forza e con una certa coerenza morale la loro storia per­sonale e il loro profilo scientifico. Non sono mancati, tuttavia, alcuni tentativi di cogliere il vento favorevole, cercando di strappare qualche posto di ruolo o qualche finanziamento per le proprie ricerche nell'ambito di una storiografia "pacificata".2

Voci intese a valorizzare, o almeno a giustificare alla luce dei pesanti condizio­namenti politici ed ideologici, i risultati della storiografia dell'ex-RDT in campi specifici si sono levate non soltanto nell'ex-RDT, ma anche all'estero. Mi riferisco in particolare all'intenso ed appassionato lavoro di G.G.Iggers, il quale ha cercato con la sua autorevolezza di avallare una valutazione più variegata della produzione storiografica nell"'altro" stato tedesco, sottolineando i positivi risultati raggiunti in particolare nella ricerca modernistica e storico-antropologica.3 Anche l'Historikerverband tedesco occidentale e, in una dichiarazione pubblica del dicem­bre 1990, la potente American Historical Association, hanno espresso l'auspicio che i conti con la storiografia orientale fossero fatti senza spirito di vendetta e desiderio di prevaricazione, ma alla luce di un'equilibrata valutazione dei meriti e dei deme­riti. Tali auspici sono stati attuati solo in misura molto parziale - come ha dovuto constatare recentemente H.Schultz.4

Non è mio compito qui entrare nel merito del dibattito a posteriori;5 nè sono in grado di entrare nel merito dei meccanismi di funzionamento della ricerca, di coor­dinamento politico e di strumentalizzazione, che sono oggetto di vari, recenti studi, resi possibili dall'apertura degli archivi.6 Da osservatore esterno, vorrei invece delineare a larghi tratti le principali linee evolutive della ricerca storica nella ex­RDT, precisando che per ovvie ragioni di spazio dovrò !imitarmi a cenni sintetici ed esemplificativi su un panorama storiografico molto ampio, che ha avuto una com­plessa evoluzione, sia nel tempo che nelle sue varie branche specifiche.7 Dopo inizi non facili, dovuti in primo luogo alla politica sovietica, che almeno fino al 1953/55 ha continuato a tenere aperta I' opzione di dare vita ad una Germania unificata, neu­trale e democratica, la dirigenza politica della SED è riuscita infine a consolidare Io stato da essa governato, dal punto di vista economico, politico ed istituzionale. Soprattutto in contrapposizione con la benestante Germania federale, è stato neces­sario fornire una legittimazione storica alla ex-zona d'occupazione sovietica, per molto tempo spregiativamente chiamata "Germania di Pankow" (dal sobborgo ber­linese, nel quale erano insediati i centri di governo). Per quasi vent'anni - non si dimentichi - il nuovo stato è rimasto praticamente isolato sul piano internazionale, a causa del pesante boicottaggio attuato dalla RFT secondo la cosiddetta "dottrina Hallstein". La RDT è stata presentata perciò come la "prima nazione socialista sul suolo tedesco", come inveramento delle migliori tradizioni del popolo e della storia tedesca, e soprattutto come lo stato in cui la classe operaia ha potuto finalmente concretizzare il proprio destino storico. La storiografia è stata finalizzata - come abbiamo visto all'inizio - a questa impostazione politica e valorizzata in quanto

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La storiografia della ex RDT fra dogmatismo e innovazione

disciplina in grado di concretizzare questa visione teleologica della storia tedesca. Per raggiungere questo obiettivo, il regime comunista ha cercato di imporre il pre­dominio del marxismo-leninismo, come base metodologica ineludibile.

Questi pesanti condizionamenti politico-ideologici giustificano il ruolo nevral­gico che la storiografia ha rivestito all'interno del regime comunista. La peculiare collocazione della RDT, come vetrina del blocco comunista, ma anche come suo elemento più esposto alla minaccia da parte del blocco occidentale (minaccia non solo militare; basti pensare all'infiltrazione dei mezzi di comunicazione di massa), spiega anche perchè la storiografia della RDT sia stata probabilmente più confor­mista e più controllata rispetto alle consorelle, in particolare in Polonia, in Cecoslovacchia e in Ungheria, anche se con notevoli sbalzi nel tempo. Va inoltre ricordato un ulteriore elemento. La ricerca storica nella RDT si è sviluppata anche sotto il condizionamento, molto pesante, del confronto-scontro con la storiografia nella Germania occidentale. La necessità di porsi come alternativa, dal punto di vista del metodo e dell'interpretazione, alle tradizioni storiografiche tedesche ha rappresentato un elemento condizionante di grande rilievo. Basti pensare che un'in­tera branca storiografica si è specializzata nello studio e nella critica - perlopiù senza mezzi termini - contro la storiografia "borghese" della RFf.8 L'attenzione, molto forte, nei confronti della storiografia occidentale si è mossa per lungo tempo, a Est, sul filo di una critica spietata e distruttiva, che esprimeva valutazioni spesso molto grossolane sulla storiografia occidentale. Le sue evoluzioni interne, così significative a partire dai primi anni '70 (si pensi all'emergere prepotente della cosiddetta "Neue Sozialgeschichte") sono state o trascurate, all'interno di una più generale valutazione negativa, o addirittura criticate come forme ancor più sofisti­cate di manipolazione della storia, e quindi più pericolose e da rigettare. Solo nel corso degli anni '80 da una critica incondizionata si è passati a valutazioni più sfu­mate e, soprattutto, si sono intensificati i contatti fra storici dei due paesi, anche a livello ufficiale. Tuttavia, a testimonianza del peso dei condizionamenti politici, ricordo che non è stato quasi mai possibile realizzare progetti di ricerca o pubblica­zioni comuni. Nel1987/88 un progetto ad alto livello, imperniato su un convegno e su una pubblicazione inter-tedesca sulla genesi della Seconda guerra mondiale è stato bloccato dai vertici politici della SED, ai quali gli storici coinvolti si sono pie­gati.9

L'atteggiamento prevalentemente critico ed ostile della ricerca storica nella RDT rispetto alla sua controparte occidentale, che pur non ha impedito anche in anni più lontani alcuni contatti personali e una reciproca conoscenza, deriva sia da una pre­cisa volontà politica, che dal desiderio della storiografia orientale di consolidarsi e legittimarsi. Infatti, occorre aggiungere che per parte sua la storiografia occidenta­le ha risposto con un lungo, tenace atteggiamento di indifferenza, non solo evitan­do il dialogo, ma anzi ponendosi con un atteggiamento di superiorità e di (fastidio­sa) supponenza nei confronti dei colleghi. Per molto tempo, nella Repubblica Federale è stata negata o ridimensionata la qualità scientifica delle pubblicazioni

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Gustavo Corni

storiche nella Germania comunista, tacciate di essere funzionalizzate alle esigenze del regime comunista. Alla luce di questo, reciproco, atteggiamento non sorprende che il dialogo sia stato così difficile. 10

Ciò che gli analisti della RDT criticavano maggiormente nella storiografia occi­dentale, anche nelle sue versioni più moderne, era la non-accettazione di "leggi", che regolino l'evoluzione storica. Secondo la storiografia orientale, infatti, era un postulato indiscusso che solo la metodologia marxista-leninista consenta di coglie­re le linee evolutive, necessarie, della storia; tale svolgimento sfocierebbe inevita­bilmente nel trionfo del socialismo e nell'instaurazione del comunismo. Negare l'e­sistenza di leggi storiche significa scadere nella non-scientificità e nell'anticomuni­smo. Con chiarezza ed orgoglio la storiografia della RDT ha affermato il suo esse­re "partitica", parteilich. La Parteilichkeit è una componente essenziale del marxi­smo-leninismo in quanto dottrina e concezione del mondo della classe destinata a realizzare il comunismo e quindi a raggiungere la fine della storia. Essa è perciò pienamente congrua con l'oggettività. Il marxismo-leninismo è, infatti, allo stesso tempo teoria scientifica ed ideologia fondata scientificamente. Ideologia in senso negativo, invece, è la mistificazione della verità storica, portata avanti dalla storia­grafia occidentale. 11

Questa griglia era molto rigida; in realtà, a ben vedere, vi erano molti spazi, o "nicchie", nei quali la ricerca storica aveva possibilità di muoversi autonomamen­te. Gli stessi teorici del marxismo-leninismo hanno sostenuto che il legame fra scienza e politica non doveva essere inteso come una cinghia di trasmissione inelu­dibile. La ricerca storica ha le sue leggi intrinseche, le sue procedure disciplinari, che non possono essere piegate a schemi prefissati. Il riconoscimento di questo mar­gine di autocorrezione è venuto alla luce solo a partire dalla seconda metà degli anni '70, quando sia lo stato comunista che la sua storiografia apparivano sufficiente­mente saldi. Va anche ricordato come le stesse enunciazioni teoriche non siano rimaste ancorate al rozzo marxismo-leninismo delle origini, nel quale era presente anche una forte influenza del dogmatismo staliniano (almeno fino alla morte del dit­tatore). All'interno della storiografia orientale non sono mancati approfonditi sfor­zi di rielaborare criticamente alcune delle categoria fondamentali della dottrina marxista-leninista. Vorrei ricordare, in particolare, le ricerche del gruppo guidato da W.Ktittler, che si sono imperniate sulla categoria di "formazione sociale" e sulla sua fruibilità in campo storiografico empirico. Queste ricerche hanno preso avvio negli anni '70, ricollegandosi ad analoghi sviluppi nell'URSS. 12 e presentano un elevato livello di sofisticazione analitica, tanto da avere suscitato valutazioni positive nella storiografia occidentale.

L'esistenza di questo tipo di riflessioni teoriche, flessibili ed attente alle trappo­le del dogmatismo, non deve distogliere l'attenzione dalla componente- a mio avvi­so - fondamentale nella storiografia della RDT: la sua strumentalizzazione ad opera della dirigenza oligarchica della SED, per legittimare l'esistenza dello stato comu­nista; in altre parole, la linea fondamentale mi pare essere quella di una storiografia

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preoccupata innanzittutto della questione nazionale. Nell'immediato dopoguerra­come è noto - molti dei canoni interpretativi della storiografia storicistico-naziona­le, che aveva dominato fino ad allora, entrarono in crisi a causa dei terribili crimini commessi dai nazionalsocialisti (con la partecipazione di un gran numero di "nor­mali" cittadini tedeschi). La storia tedesca entrò giocoforza nel mirino di una valu­tazione critica, soprattutto da parte di studiosi stranieri; la reazione della storiogra­fia tedesca occidentale fu cauta ed oscillante. Ad un Meinecke, che proponeva coraggiosamente una rilettura critica del passato, risposero autori come Ritter; met­tendo in evidenza l'irruzione del "demoniaco" - ovvero Hitler - e quindi dell'in­spiegabile nella recente storia nazionale, essi finirono per fornirne una giustifica­zione, per assolvere le linee di continuità della storia tedesca. 13

Nella zona d'occupazione sovietica predominò inizialmente- per un quinquen­nio circa - una lettura radicalmente negativa della storia tedesca, ad esempio in opere come /rrweg einer Nation di Alexander Abusch. 14 Ben presto, però, gli stori­ci marxisti, che andarono assumendo un ruolo dirigente nella corporazione, sotto­posero a critica questa impostazione negati va. Si passò così ad un'interpretazione, che metteva in evidenza le fasi positive e le varie tappe storiche della Germania democratica e progressista. La cosiddetta "Miseretheorie" venne ufficialmente affossata da una presa di posizione del Comitato Centrale della SED nell'ottobre 1951 - una delle tante decisioni politiche, che influenzarono profondamente l'evo­luzione della storiografia. Da quel momento, anche grazie ad un primo consolida­mento delle istituzioni della ricerca e dell'insegnamento, fu possibile avviare una rilettura della storia tedesca, cosiddetta delle "due linee". Mentre si addebitava alla RFT di essere l'erede delle tradizioni autoritarie, militaristiche e belliciste della sto­ria nazionale, lo stato comunista creato aldilà dell'Elba venne accreditato di essere l'erede delle sue tradizioni positive e progressiste. Fulcro di queste tradizioni erano la classe operaia e le sue organizzazioni politiche e sindacali, o per meglio dire le sue componenti di sinistra, legate alla tradizione marxista-comunista.

Sintomatico di questa artificiosa spaccatura della storia tedesca in chiave mani­chea è il percorso espositivo creato nel1952-3 nell'appena costituito Museum fiir deutsche Geschichte di Berlino. Il gruppo di storici, guidati da Alfred Meusel, creò un progetto espositivo molto netto e chiuso in se stesso, che presentava il ruolo delle classi dirigenti come meramente negativo, nella storia tedesca. Le grandi imprese editoriali del Lehrbuch der deutschen Geschichte, pubblicato da un gruppo di stu­diosi in dodici volumi a partire dal 1959, e della Geschichte der deutschen Arbeiterbewegung, pubblicata a partire dal 1966 in otto volumi a cura di un collet­tivo di eminenti storici guidati dallo stesso W.Ulbricht, rappresentano l'espressione più significativa del tentativo della corporazione degli storici di proporre una lettu­ra lineare e organica della storia tedesca, che rispecchiasse l'impostazione delle "due linee". Questa stagione di grandi opere fece seguito alla prima, delicata, fase di formazione di una specifica storiografia marxista-leninista. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la tradizione marxista nella storiografia era, in Germania,

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molto debole. 15 Per dare vita a nuovi quadri di ricercatori e docenti fu giocoforza far ricorso, inizialmente, alla disponibilità di studiosi non marxisti, che sono stati defi­niti "borghesi"; fra questi ricordiamo personaggi di rilievo, quali Fritz Hartung, Heinz Hausherr, Karl Griewank ed Eduard Winter. La collaborazione con questi storici fu difficile e durò molto poco, sia per la loro diffidenza verso il nuovo regi­me comunista che si andava delineando, che - e soprattutto - per le pressioni del potere politico verso un' omologazione della ricerca storica ai suoi voleri. L'inasprirsi della guerra fredda pose fine alla collaborazione, aprendo la strada a un rapido esautoramento di tutti quegli studiosi che non si adattavano ai canoni uffi­ciali: da storici di sinistra, come W.Abendroth, costretto a fuggire a Occidente, a storici cristiani, come K.H.Blaschke, costretto a decenni di grigio "esilio interno". Ma anche lo studioso della rivoluzione francese W.Markow, molto aperto verso i contatti con il gruppo delle "Annales" e che in quanto marxista era stato boicottato a Occidente, subì poi drastici interventi punitivi sotto l'accusa di "titoismo".16

Solo con grande fatica, e per opera soprattutto dei pochi ricercatori marxisti di vaglia attivi a Est (ricordo in particolare Leo Stern, Walter Markow, Alfred Meusel e il patrono della storia economica, Jiirgen Kuczynski), fu possibile creare nuovi quadri di ricercatori e docenti universitari. Questi quadri, perlopiù sinceri fautori di un rinnovamento degli studi storici in chiave marxista, ebbero la loro prova del fuoco proprio nella redazioni delle grandi opere collettive appena citate.

Parallelamente, vennero create le nuove istituzioni per la ricerca; in parte esse vennero accentrate nel Zentralinstitut fiir Geschichte presso l' Akademie der Wissenschaften (fondato nel1956), in parte furono sottoposte direttamente al con­trollo del partito, come l'Institut fiir Marxismus-Leninismus, fondato nel 1949 e responsabile fra l'altro dell'edizione completa delle opere di Marx ed Engels, e l' Akademie fiir Gesellschaftswissenschaften, fondata nel 1951. La ricerca scientifi­ca di punta si concentrò soprattutto in queste istituzioni, sulle quali il controllo del regime era molto forte e diretto. Le università, invece, furono tenute in secondo piano, per quanto riguarda la ricerca. Ad esse venne demandato soprattutto l' inse­gnamento, ovvero la diffusione su scala più ampia dei risultati interpretativi scatu­riti dai succitati centri di ricerca extra-universitari. Per avere un'idea dell'importan­za di questi ultimi, ricordo che al momento dell'unificazione i quattro principali isti­tuti di ricerca storica dell'Accademia (quello per la storia tedesca, quello per la sto­ria "universale", quello per la storia antica e quello per la storia economica) aveva­no complessivamente quasi 400 ricercatori a tempo pieno, senza contare i bibliote­cari e tecnici, mentre l'Institut fiir Marxismus-Leninismus contava 100 ricercatori di ruolo. Nel1953 venne fondata anche la "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", che divenne ben presto la principale e più autorevole rivista storica nella RDT, che rifletteva più fedelmente le direttive politico-ideologiche.

Solo molto gradualmente ed attraverso correzioni di rotta molto caute la visione lineare, manichea e moralistico-didascalica della storia tedesca, che si rispecchiava nella teoria delle "due linee", è stata arricchita e resa più articolata. Vi è stato da un

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lato un allargamento dell'arco cronologico, fino a cogliere la genesi della "linea positiva" della storia tedesca nelle lotte sociali e politiche che hanno accompagna­to la Riforma protestante, all'inizio del XVI secolo. Questa fase storica è stata defi­nita come "Frtihbiirgerliche Revolution"; 17 sono stati avviati studi di medievistica e di antichistica, anche con buoni esiti, soprattutto per quanto concerne gli aspetti di storia economica e di storia della cultura materiale. Dal lato cronologicamente opposto, è stata avviata - fra molte cautele - una specifica ricerca sulla storia della RDT nell'ambito del blocco sovietico. Anche in questo campo, così delicato, un input decisivo è venuto da Ulbricht, con il suo libro Die Entwicklung des deutschen volksdemokratischen Staates (del 1958). Ma occorre dire che in questo settore la produzione storiografica è rimasta fino all'ultimo aderente alla volontà politica; ampie "macchie bianche" sono rimaste insondate: dal tema dello stalinismo, a quel­lo dei rapporti con l'URSS, dai conflitti all'interno della dirigenza della SED all'ar­ticolarsi dell'apparato repressivo della "Stasi", alla dialettica fra potere politico e cittadini - per fare solo alcuni esempi.

La storia economica, che nel 1960 si è dotata di un'autorevole rivista, lo "Jahrbuch fiir Wirtschaftsgeschichte", ha potuto gradualmente aprirsi verso le sto­riografie internazionali e verso i nuovi metodi, anche di storia quantitativa, in par­ticolare grazie alla protezione accordatale da Kuczynski, uno studioso di alto profi­lo, eterodosso ma che godeva di rapporti di amicizia con i più alti dirigenti politici di Berlino. 18

Senza poter entrare qui nel merito di un panorama storiografico che si andava indubbiamente arricchendo, vorrei ricordare come gli specialisti di storia della sto­riografia concordino nel sostenere che a partire dagli anni '70 quella della RDT sia entrata nella fase della "scientifizzazione". Superata la fase dello scontro con i resi­dui della storiografia borghese e poste le basi, anche istituzionali, per una specifica lettura marxista-leninista della storia tedesca, è stato ora possibile allargare lo sguardo, lasciare maggiore spazio a singole ricerche individuali; alcuni studiosi sono stati in grado di aprirsi varchi per sperimentazioni metodologiche più vicine agli standards occidentali, moltplicando insomma le nicchie per approcci e studi che non fossero sottoposti al controllo degli organismi di partito e di regimi; questi ulti­mi avevano nel "Rat fiir Geschichtswissenschaft", fondato nel 1968, un fondamen­tale strumento per sentire il polso della corporazione, ricevendone suggerimenti, ma soprattutto imponendo ad essa - addirittura sotto forma di pianificazione delle (modeste) risorse- i percorsi delle grandi ricerche, per le quali ancora una volta si continuò a privilegiare il lavoro in collettivo.'9 In primo luogo venne gradualmente modificata la chiave di lettura della storia nazionale. L'interpretazione delle "due linee", così fortemente selettiva, è stata abbandonata e sostituita dal tentativo di recuperare una serie di filoni dalla linea precedentemente bollata come "negativa". E' stato il VI congresso della Historikergesellschaft (1976), l'associazione che riu­niva storici ed insegnanti di storia, a dare l'impulso decisivo per questa svolta, sostenendo la necessità di superare l'ottica della storia di classe. Allo stesso tempo,

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il congresso ha sanzionato una svolta in direzione del recupero delle storie locali e regionali, che nell'ambito di uno stato fortemente accentrato (nel quale una legge del 1952 aveva abolito i Uinder storici) avevano finora avuto uno sviluppo molto modesto.20

Non è possibile chiarire la genesi di questa svolta, che comunque non può esse­re vista come un atto singolo, ma come il risultato di una complessa evoluzione. Mi pare che due fattori almeno dovrebbero essere ricordati a questo proposito: l' evolu­zione interna della corporazione, che ha determinato una crescente domanda di nuovi ambiti di ricerca, di nuovi terreni di studio e (parzialmente) di nuove meto­dologie, e le esigenze della classe dirigente del regime. Quest'ultima, in un clima di distensione fra i due stati tedeschi, ha sentito il bisogno di approfondire il consenso di cui disponeva e nello stesso tempo probabilmente si è illusa che fosse possibile (ed anzi opportuno) allentare le redini della pressione autoritaria.

In campo storiografico, la svolta ha avuto conseguenze molto importanti: l'a­pertura alla storia prussiana, finora bollata irrevocabilmente in negativo, la valoriz­zazione di figure cardinali della storia tedesca: Lutero, Federico II e Bismarck, una nuova stagione di studi di storia regionale e locale. Nell'aprire le celebrazioni Iute­rane, nell980, lo stesso Honecker sostenne che Lutero era una figura centrale nella storia tedesca. Analogamente, la ricca letteratura su Federico II e su Bismarck,21 che ha avuto un buon successo di pubblico anche a Occidente, si è imperniata su un recupero, non acritico, di queste figure simboliche nell'ambito di una lettura globa­le della storia tedesca. Nel parallelo dibattito sulla coppia di concetti "Erbe -Tradition", ovvero eredità e tradizione,22 ritroviamo il tentativo di dare una dignità teorica all'allargamento in atto nella prospettiva storica. Secondo questa interpreta­zione, la storia della RDT doveva essere spiegata ricorrendo non soltanto alle sue componenti democratiche e progressiste, ma anche a tutte le sue altre correnti. Era così possibile giustificare gli allargamenti ricordati più sopra. Da questi aggiusta­menti è derivata anche una significativa ripresa della Landesgeschichte, finora messa in disparte a favore dell'ottica nazionale-statuale.

Va tuttavia osservato che in questo sforzo di appropriarsi di aspetti precedente­mente rigettati del passato storico, i ricercatori della RDT sono in larga misura rima­sti legati a metodologie antiquate e a una prospettiva nazionale - direi quasi, nazio­nalistica- che invece nella Repubblica Federale veniva invece messa in disparte. La metodologia marxista-leninista è stata paradossalmente rinnegata da una storiogra­fia che in precedenza si era dichiarata fiera custode di questa concezione del mondo. Come abbiamo già visto, ha invece assunto un peso notevole la prospettiva biogra­fica e personalistica.

L'impostazione fortemente nazionale del recente allargamento di visuale riflette appunto il bisogno della dirigenza di Berlino di legittimare il proprio come uno stato non più parziale e diviso, ma come uno stato a se stante, dotato di un profilo stori­co non meno che politico, militare ed economico.

Parallelamente a questi processi, si sono registrati progressi notevoli in svariati

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settori della ricerca, soprattutto sul terreno della storia sociale; si potrebbero citare le ricerche interdisciplinari fra storia ed antropologia, incentrate sulla regione di Madgeburgo,23 oppure le ricerche di storia sociale urbana di H.Schultz/4 o gli studi di H.Zwahr sulla genesi della classe operaia,25 o ancora gli studi di storia agraria, imperniati sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo;26 si tratta di ricerche, che hanno avuto un riscontro a livello internazionale, quale raramente si era avuto, negli anni precedenti, per gli storici della RDT. Non si può tuttavia dire che tutti i settori della ricerca storica abbiano raggiunto analoghi livelli di sviluppo. Nè si può rite­nere che le forme di controllo sulla storiografia siano state allentate. Anzi, soprat­tutto nei campi di ricerca più delicati, dal punto di vista politico, la storiografia della RDT rimase arroccata fino all'ultimo su antiquate metodologie e su interpretazioni eterodirette; ciò vale, in particolare, per gli studi di storia del nazionalsocialismo. Pur producendo significativi studi in particolare sull'intreccio fra politica ed eco­nomia, questi non hanno mai fatto decisamente i conti con l'inadeguatezza dell'in­terpretazione dimitroviana del fascismo come "agente" del grande capitaleY E ciò vale ancor di più per le ricerche sulla storia della RDT stessa, fortemente penaliz­zate da censure e auto-censure.28 Infatti, non si può trascurare il fatto che molti ricer­catori erano in buona fede nell'incorporare le aspettative del regime, stante la loro formazione e il loro reclutamento.

Questa situazione complessa, fatta di luci e di ombre, ha fatto sì che gli storici, non meno dei politici, siano stati del tutto incapaci di cogliere l'incipiente crisi del regime. Perciò, gli storici come corporazione si sono trovati, al momento della caduta del regime, in una posizione politicamente molto debole: incarnazione del conformismo e della manipolazione propagandistica della storia nazionale, a diffe­renza di molti colleghi in altri paesi dell'Est, essi sono rimasti fin all'ultimo "alli­neati e coperti" - si potrebbe dire. Fra i pochi aperti segnali di critica, vorrei ricor­dare un lucido intervento di H.Zwahr, del novembre 1989, sull'oppressività ormai intollerabile del sistema burocratico. 29 E' probabilmente vero- lo scrivente l'ha più volte sperimentato di persona- che nel corso dell'ultimo decennio fra gli storici si sono svolte discussioni spesso franche, con prese di posizione nette ed aperture (almeno informali) verso i colleghi occidentali; tuttavia, verso l'esterno questa cre­scente dialettica interna non è trapelata per nulla. Censura? Autocensura? E' diffi­cile soppesare i vari elementi, che sono stati sovrastati dalla demolizione - forse troppo rapida - della storiografia nela RDT. Una demolizione che rispondeva sì a criteri di trasparenza ed affidabilità democratica, ma che rispecchiava allo stesso tempo - e in misura non insignificante, credo - la pressione della corporazione occi­dentale per nuovi posti di lavoro a favore delle migliori giovani leve.

Nella profluvie di autocritiche, di lamentazioni, di orgogliosi arroccamenti da parte di studiosi eminenti (fra i quali ricordo Patzold e Kiittler, tenaci sostenitori della persistente validità del metodo materialistico nell'analisi storica),30 che si è avuto nell'ultimo triennio non sono mancati casi di opportunismo e di "voltagabba­na". Con forza si sono fatti sentire gli storici delle generazioni più giovani, a lungo

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tenuti a freno da un sistema dominato da ritmi molto lenti di carriera.31 La maggior parte di queste discussioni, anche umanamente molto dolorose, sono inutili,32 dato che si può dire che la storiografia sviluppatasi nei quarant'anni di vita della RDT sia definitivamente scomparsa. Tentare di mettere in evidenza ciò che dovrebbe essere salvato rischia, oggi, di essere un esercizio di mera accademia.33 Solo una maggiore distanza temporale e un'approfondita analisi delle fonti d'archivio, che si stanno rendendo accessibili, ne consentirà sperabilmente una valutazione più distac­cata ed organica.

Note

l. Zitiert aus H.Bartel - W.Schmidt, Neue Probleme der DDR-Geschichtswissenschaft, in "ZfG", 20, 1973, S.817.

2. Esemplare della complessità ed asprezza dei temi sul tappeto è la discussione accesasi attorno al Forschungsschwerpunkt fi.ir Zeithistorische Studien, creato a Potsdam nel1991 anche con lo scopo di creare prospettive di lavoro anche per ricercatori "orientali" di talento. Un ampio intervento, che rias­sume i termini del dibattito è di J.Danyel,Der Historiker und die Mora!. Anmerkungen zur Debatte i.iber die Autorenrechte an der DDR-Geschichte, in "GG", 21, 1995, pp.290-303.

3. G.G.Iggers, Ein anderer historischer Blick. Beispiele ostdeutscher Sozialgeschichte, Frankfurt, 1991, con un ampio saggio introduttivo. Anche C.S.Maier, un autorevole e molto noto storico di Harvard, è più volte intervenuto per consigliare moderazione e per invitare a non spazzare via, sulla base di valutazioni politiche generali, le risorse scientifiche disponibili nell'ex-RDT; cfr. il suo arti­colo Geschichtswissenschaft und 'Ansteckungsstaat', in "GG", 20, 1994, pp.616-624.

4. H.Schultz,Das Fiasko der historischen Gerechtigkeit - Ostdeutsche Geisteswissenschaften im Umbruch, in "GG", 21, 1995, pp. 430-439.

5. Vorrei ricordare - senza pretese di completezza - una serie di volumi collettivi, che riassumono da diversi punti di vista il dibattito sul ruolo della storiografia nel passato regime e sul suo futuro: K.H.Jarausch (a cura di), Zwischen Parteilichkeit und Professionali@. Bilanz der Geschichtswissenschaft der DDR, Berli n, 1991, R.Eckert - W.Ki.ittler- G.Seeber (a cura di), Krise -Umbruch - Neubeginn, Stuttgart, 1992, R.Eckert - I.S.Kowalczuk - I.Stark (a cura di), Hure oder Muse? Klio in der DDR, Berlin, 1994, M.Sabrow- P.T.Walther (a cura di), Historische Forschung und sozialistische Diktatur, Leipzig, 1995, e K.H.Jarausch - M.Middell (a cura di), Nach dem Erdbeben. (Re-)Konstruktion ostdeutscher Geschichte un Gesellschaftswissenschaft, Leipzig, 1994.

6. Rimando ai saggi di M.Sabrow e R.Eckert, che si sono profilati come i più attenti ricercatori su que­sto terreno, pubblicati nel volume a cura di G.Comi e M.Sabrow, Die Mauem der Geschichte, Leipzig,

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1996, che raccoglie una versione tedesca parziale degli atti del Convegno triestino.

7. Fra gli studi sulla storia della storiografia della RDT, ricordo D.Riesenberger, Geschichte und Geschichtsunterricht in der DDR, Gottingen, 1973, G.Heydemann, Geschichtswissenschaft im geteilten Deutschland, Frankfurt, 1980, A.Dorpalen, German History in Marxist Perspective, London, 1985, A.Fischer- G.Heydemann, Geschichtswissenschaft in der DDR, 2 voli., Berlin, 1988-1990.

8. Cfr. H.Schleier, Theorie der Geschichte - Theorie der Geschichtswissenschaft, Berlin, 1975 e G.Lozek (a cura di), Unbewaltigte Vergangenheit. Kritik der bi.irgerlichen Geschichtsschreibung in der BRD, Berlin, 1977.

9. Gli studiosi occidentali hanno pubblicato i loro saggi nel volume a cura di M.Broszat e K.Schwabe, Di e deutschen Eliten und der Weg in den Zweiten Weltkrieg, Mi.inchen, 1989. Da parte orientale è stata possibile una pubblicazione parziale solo nella fase finale di dissoluzione del regime comunista; L.Nestler (a cura di),Der Weg deutscher Eliten in den zweiten Weltkrieg, Berlin, 1990, con due saggi introduttivi di M.Broszat e di L.Nestler, che spiegano dalle due parti le cause del fallimento del pro­getto comune. Una valutazione più generale dei rapporti fra contemporaneisti occidentali ed orientali è di K.Patzold, Martin Broszat e le scienze storiche nella Repubblica Democratica Tedesca, in C.N atoli (a cura di), Stato e società durante il Terzo Reich, Milano,l993, pp.212-229.

10. Tra le poche eccezioni, ricordo una serie di interventi molto equilibrati ed attenti di J.Kocka: Zur ji.ingeren marxistischen Sozialgeschichte, in P.C.Ludz (a cura di), Soziologie und Sozialgeschichte, Opladen, 1972, pp.491-514, e Parteilichikeit in der DDR-marxistischen Geschichtsschreibung, in AA.VV., Objektivitat und Parteilichikeit in der Geschichtswissenschaft, Mi.inchen, 1977, pp.263ss.

11. Cfr. G.Lozek, Das Problem von Objektivitat und Parteilichkeit und di e Auseinandersetzung mi t der bi.irgerlichen Geschichtsschreibung, in "Zeitschrift fi.ir Geschichtswissenschaft" (abbreviata: ZfG), 31, 1983, pp.387ss.

12. Ricordo, in particolare, il volume a cura di E.Engelberg e W.Ki.ittler, Formationstheorie und Geschichte, Berlin, 1978, il saggio dello stesso Ki.ittler, La storia come scienza sociale specificata­mente storico-materialistica, in P.Rossi (a cura di), La teoria della storiografia oggi, Milano, 1983, pp.205ss. e, sempre di W.Ki.ittler (a cura di), Gesellschaftstheorie und geschichtswissenschaftliche Erklarung, Berlin, 1985.

13. Nella ricca letteratura sulla storiografia del secondo dopoguerra ricordo solo i fondamentali studi di W.Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, Mi.inchen, 1989, E.Schulin (a cura di),Deutsche Geschichtswissnschaft nach dem Zweiten Weltkrieg (1945-1965), Mi.inchen 1989, e la recente ricerca inedita di J.Solchany, Comprendre le nazisme dans l' Allemagne des annees zero, these de doctorat, Univ. Strasbourg 1994.

14. Pubblicato a Berlino nel 1947; sulla stessa linea si muove l'importante studio di G.Lukacs, La distruzione della ragione, dell955.

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15. Cfr. K.Kinner, Marxistische deutsche Geschichtswissenschaft 1917 bis 1933, Berlin, 1982.

16. Cfr. il suo volume autobiografico Zwiesprache mit dem Jahrhundert, Berlin, 1989.

17. Una ricostruzione del dibattito svoltosi attorno all'interpretazione di questa fase storica è quella di H.Haun, Die Diskussion iiber Reformation und Bauernkrieg in der DDR-Geschichtswissenschaft 1952-54, in "ZfG", 30, 1982, pp.18ss.

18. Nell'inesauribile produzione storiografica di Kuczynski, studioso sempre anticonformista ed acuto, anche se rigorosamente fedele al marxismo, ricordo la fondamentale e monumentale opera in 40 volumi Geschichte der Lage der Arbeiter unter dem Kapitalismus, Berlin, 1960ss., vera miniera di materiali statistici e di apro fondi menti monografici, nonchè la più recente Geschichte des Alltags des deutschen Volkes, 4 voli., Berlin, 1980ss., che ha contribuito ad avviare un aperto dibattito fra gli sto­rici.

19. Dopo la caduta del regime, fra gli storici della ex -RDT è iniziato un processo di rilettura critica del passato, con particolare attenzione ai meccanismi di funzionamento della ricerca e agli intrecci con il potere politico; cfr. fra gli altri W.Schmidt, Geschichte zwischen Professionali@ und Politik, in "ZfG", 40, 1992, pp.1013-1030.

20. Sulle restrizioni imposte alla storia locale si veda l'impietosa autocritica (con evidenti intenti giu­stificativi) di W.Gutsche, Zu den Restriktionen der heimatgeschichtlichen Arbeit in der DDR-Provinz, in "ZfG", 39, 1991, pp.1093-1106. Si noti l'uso della parola "Heimat", che nei decenni precedenti sarebbe sicuramente stato impossibile.

21. Per il primo, rimando ai libri di I.Mittenzwei: Preussen nach dem Siebenjahrigen Krieg, Berlin, 1979, e Friedrich II von Preussen: eine Biographie, Berlin, 1980; per il secondo si veda la monumen­tale biografia in due volumi di E.Engelberg, Bimarck, 2 voli. Berlin, 1985-1990.

22. Cfr. gli interventi di H.Bartel, Erbe und Tradition in Geschichtsbild und Geschichtsforschung der DDR, in "ZfG", 29, 1981, pp.387-394, dello stesso con W.Schmidt, Historisches Erbe und Traditionen. Bilanz, Probleme, Konsequenzen, in "ZfG", 30, 1982, pp.816-829. I principali testi della discussione sono raccolti in H.Meier- W.Schmidt (a cura di), Erbe und Tradition. Geschichtsdebatte in der DDR, Koln, 1989.

23. Tra i numerosi studi pubblicati da un gruppo di giovani ed attivi ricercatori su questo tema, ricor­do H.J.Rach - B.Weissel, Landwirtschaft und Kapitalismus. Zur Entwicklung der okonomischen und sozialen Verhaltnisse in der Magdeburger Borde, Berlin, 1978.

24. H.Schultz, Berlin 1659-1800. Sozialgeschichte einer Residenz, Berlin, 1987; dello stessa ricordo un precedente studio sulla prato-industria rurale:Landhandwerk im Ubergang vom Feudalismus zum Kapitalismus, Berlin, 1978.

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La storiografia della ex RDT fra dogmatismo e innovazione

25. H.Zwahr,Zur Konstituierung des Proletariats als Klasse, Berlin, 1978.

26. Cfr. H.Hamisch, Kapitalistische Agrarreform und lndustrielle Revolution, Weimar, 1984 e H.H.Miiller, Akademien und Wissenschaft im 18. Jahrhundert, Berlin, 1975.

27. Ricordo, fra gli altri, la fondamentale monografia di D.Eichholtz, Geschichte der deutschen Kriegswirtschaft, 2 voli., 1984-85 (non è ancora uscito il terzo ed ultimo volume).

28. Particolarmente radicali sono state le osservazioni critiche di H.Weber, forse il massimo studioso occidentale di storia della RDT: WeiBe Flecken in der Geschichte. Die KPD-Opfer der Stalinschen Sauerungen und ihre Rehabilitierung, Frankfurt, 1990 (sec. ed.).

29. E' pubblicato anche in italiano: Una discussione appena avviata. Sistema amministrativo e società, sistema amministrativo e scuola, storiografia, etc., in "Scienza e Politica", nr,5, 1991, pp.I7-28. Lo stesso storico di Lipsia è autore di un'appassionata ricostruzione, quasi dal vivo, del crescere della pro­testa popolare nella città sassone: Ende einer Selbstzerstorung, Gottingen, 1993.

30. Cfr. W.Kiittler, Geschichtsperspektiven im Umbruch, in "ZfG", 40, 1992, pp.725-736, e dello stes­so Geschichtstheorie und -methodologie in der DDR, in "ZfG", 42, 1994, pp.8-20; K.Patzold, Antifascism in the German Democratic Repblic, in "Radica! History Review", 54, 1992, pp.87-109.

31. Il 10 gennaio 1990 due giovani ricercatori, A.Mitter e S.Wolle, hanno pubblicato un manifesto, in cui invitavano a una rigorosa e franca discussione interna e a un rinnovamento profondo della corpo­razione; da questa iniziativa è scaturita la fondazione dell'Unabhangige Historikerverband, tuttora molto attivo nel denunciare i conformismi di ieri e di oggi e le repressioni cui i più giovani e dinami­ci ricercatori sono stati per lungo tempo sottoposti. Si veda, a titolo di esempio, l'ampio saggio di R.Eckert, Spie al dipartimento di storia. Sicurezza dello Stato e Università nella RDT, in "Ventesimo secolo", n.s., 8, 1993, pp.273-300.

32. A titolo di esempio, vorrei ricordare il caso del licenziamento dello storico-antropologo H.Groschopp, al quale l'autorevole rivista "Geschichte und Gesellschaft" ha dato ampio risalto; cfr. Dokumentation einer Kiindigung, in "GG", 20, 1994, pp.242-250.

33. Fra le valutazioni più equilibrate, oltre a quelle già citate di lggers, ricordo H.Schultz, Was bleibt von der Geschichtswissenschaft der DDR?, in "Oesterr. Zeitschr.f. Geschichtswissenschaften", 1991, l, pp.22-39.

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Kurt Patzold Berlino

La sto rio grafia nella Repubblica Democratica Tedesca in retrospettiva - una discussione

I vincitori scrivono la storia delle loro vittorie insieme alla storia delle sconfitte dei loro avversari. L'affermazione non richiede alcuna prova, ma dev'essere com­pletata. Anche dopo i trionfi più completi, la storia non viene scritta dai soli vinci­tori. In Germania lo si è visto per esempio dopo i disastrosi avvenimenti del 1933. All'interno dei confini del Reich si poté stabilire cosa poteva essere scritto, stam­pato e diffuso sul passato. All'estero però vi furono pubblicisti, studiosi e scrittori, tra cui i tedeschi furono determinanti, che si opposero ai resoconti menzogneri della storiografia ufficiale del "Terzo Reich". I governanti di Berlino non avevano brac­cia abbastanza lunghe per annullare questi resoconti avversi, benchè cercassero di farlo impiegando lo stesso apparato diplomatico. Al contrario, per usare la stessa immagine, le braccia degli avversari del regime fuori dai confini erano troppo corte per far arrivare la loro verità in Germania. Soltanto dopo l'annientamento del pote­re fascista la maggioranza dei tedeschi incominciò ad apprendere che all'estero e nell'esilio era sorta un'immagine antifascista del passato tedesco, al centro della quale vi era soprattutto la storia tedesca dall'inizio del secolo. Questi fatti vengono qui ricordati perché la storiografia degli esiliati antifascisti tedeschi ebbe un ruolo nel fondare la storiografia della Repubblica democratica tedesca e ne rappresentò anzi una delle radici.

Anche nella Germania d'oggi i vincitori riscrivono la storia. E' quasi superfluo aggiungere che essi sono di un genere ben diverso da quello dei vincitori del1933. Equipararli con le loro intenzioni e i loro obbiettivi a coloro che all'inizio degli anni Trenta credettero di instaurare un dominio millenario non sarebbe altro che una calunnia. Tuttavia non si può ignorare il fatto che vi è anche un'eguaglianza, non solo esteriore. Così come allora vi fu un'esigenza di giustificare il proprio operato, si poté ritrovare quest'esigenza anche nel 1990, al momento della fine della RDT, e non sembra che essa sia stata ancora soddisfatta. E, oggi come allora, la visione di chi domina la storia determina l'immagine pubblica del passato. Al contrario che nel passato, però, gli sconfitti non sono stati messi completamente a tacere nel pro­prio paese. Tuttavia la loro situazione sociale, materiale e spirituale è fondamen­talmente cambiata. Per quanto diversa possa essere la loro situazione, sono stati get­tati in condizioni che sono loro ancora estranee e che sotto qualche aspetto lo diver­ranno ancor di più. La situazione in cui continuano a trovarsi non soltanto gli stori-

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Kurt Piitzold

ci e gli intellettuali in generale, ma anche parti molto più ampie della popolazione tedesca-orientale, è stata definita uno "shock culturale". Essa è stata originata dalla reintroduzione del capitalismo nella Germania orientale e dalle sue conseguenze.

Gli storici della RDT sono stati scacciati con poche eccezioni dai loro posti di lavoro, perché questi posti non esistono più o perché sono stati occupati da altre per­sone. Infatti la "tendenza generale" dei cambiamenti personali è consistita nell'e­scludere gli studiosi "orientali" dalla vita accademica.1 Ma per quante poche possi­bilità di esprimersi e di diffondere le proprie idee restassero a coloro che furono costretti al pensionamento o, più spesso, al pre-pensionamento, che finirono nella disoccupazione o che ne furono momentaneamente preservati attraverso misure speciali della cosiddetta Arbeitsbeschaffung (politica occupazionale), tuttavia essi difesero ciò che ritenevano difendibile dei risultati delle loro ricerche. Alcuni difen­dono anche ciò da cui nel loro stesso interesse farebbero meglio a staccarsi. Queste osservazioni vengono fatte per dare un quadro, certamente molto approssimativo, delle condizioni in cui si svolgono le discussioni intellettuali sulla storiografia della RDT oggi. Queste discussioni sono ancora molto influenzate da interessi politici e proprio agli storici tedeschi non è riuscito affatto facile, come mostra la storia del loro agire, muoversi nei rapporti di tensione fra politica e scienza in modo che la loro disciplina non venisse danneggiata. Ma basta con le premesse.

I

La storiografia della RDT era, non diversamente da quella di molti stati della terra, una costruzione complessa e molto articolata. Il suo nucleo intellettuale era costituito da teorie, conoscenze, ipotesi, informazioni, supposizioni. Essa aveva le sue forme organizzative stabili, gli istituti nelle università, nell'Accademia delle Scienze, presso i partiti e le organizzazioni politici, nell'esercito e nella polizia. Disponeva di periodici, operava con redazioni di riviste scientifiche e con lettori editoriali specializzati. Da essa partivano collegamenti con riviste e stazioni radio, attraverso cui veniva realizzata una diffusione intensiva di conoscenze scientifiche. Questo complesso di relazioni intellettuali, assieme alle sue forme organizzative e ai suoi fondamenti materiali, non esiste più. Esso fu distrutto, eliminato o anche abbandonato in quel processo di - secondo la definizione giuridica - adesione (Beitritt) dei cinque Uinder alla Repubblica federale tedesca.

La fine della storiografia della RDT fu breve ed è, almeno per quanto riguarda i suoi svolgimenti esteriori, facilmente descrivibile. Non si può fare lo stesso per i suoi inizi. Quando lo stato della RDT fu fondato nel1949, al suo interno vi era già una storiografia. I suoi rappresentanti erano da un lato studiosi che non avevano ceduto ai governanti fascisti. La loro qualificazione era molto diversa. Tra essi si trovavano storici professionisti di rango. Alcuni però erano stati nominati negli isti­tuti universitari, che erano allora le uniche istituzioni per la ricerca storica del paese, per mancanza di personale.

Per le loro biografie, per le motivazioni del loro lavoro scientifico, per le loro

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La storiografia nella RDT in retrospettiva

posizioni teoriche e metodologiche, questi storici rappresentavano un gruppo socia­le di cui non se ne può pensare uno più variopinto. Per la maggior parte avevano origini borghesi. Tra loro non vi era quasi nessuno con convinzioni socialiste. Tuttavia essi si adattarono a collaborare lealmente con chi rappresentava il nuovo potere - ufficiali della potenza occupante sovietica e politici tedeschi - e non pochi lo fecero finchè non diventarono professori emeriti o fino alla morte. L'opera di alcuni di loro fu ricordata in un volume intitolato Wegbereiter der DDR­Geschichtswissenschaft (Precursori della storiografia della RDT) e precursori lo furono davvero.2 Senza frequentare le loro lezioni e i loro seminari, senza l'inse­gnamento scientifico-metodologico di questo gruppo di dotti, in cui le buone tradi­zioni del lavoro di ricerca storica erano sopravvissute al fascismo, difficilmente sarebbero stati creati i quadri scientifici, che negli anni successivi avrebbero carat­terizzato la storiografia della RDT.

Per questi studiosi, che allora venivano compresi nella categoria generale degli "scienziati borghesi", che applicata a questo gruppo non aveva quel significato negativo che le era proprio quando veniva impiegata contro gli avversari ideologi­ci che si trovavano all'esterno dello stato, fu importante l'incontro con un secondo gruppo di studiosi. Questo gruppo era e rimase relativamente piccolo. L'influenza sugli studenti che esso ebbe dopo essere entrato nell'università fu però grande. Molti di coloro che successivamente ebbero posizioni determinanti nella storiogra­fia della RDT trassero una parte considerevole delle loro motivazioni e dei loro orientamenti da questo gruppo e dalle concezioni che esso rappresentava. Sto par­lando degli studiosi che provenivano dall'esilio o dalle prigioni fasciste. La mag­gior parte di questi studiosi era marxista, era politicamente vicina al movimento operaio e faceva parte organizzativamente del partito operaio. Gli appartenenti a questo piccolo gruppo, fra cui ricordo i nomi dello storico Walter Markov e dello storico economico Jiirgen Kuczynski, avevano o acquistarono fama anche interna­zionale, lavoravano soprattutto alle università di Berlino e di Lipsia. Gli studenti di storia nei primi anni della RDT godettero di una situazione eccezionale rispetto a quella dell'università tedesca nel suo complesso. Poterono studiare con i cattedrati­ci non marxisti, che allora costituivano la maggioranza, e allo stesso tempo lavora­re con la minoranza di docenti universitari marxisti e imparare da esse. Nel 1990 alcuni si illusero che questo pluralismo si sarebbe ricreato in nuove forme. Certamente negli anni Quaranta e Cinquanta il pluralismo fu un risultato del fatto che il funzionamento dell'università non poteva assolutamente fare a meno degli specialisti, se non se ne voleva la paralisi. Tuttavia né il rapporto del nuovo potere statale con questi specialisti né quello della nuova generazione di studenti può esser ridotto a questo. Questo rapporto non fu privo di conflitti. Esso non fu però nient'af­fatto strumentale, ma fu invece caratterizzato in modo crescente e duraturo dal rispetto. All'interno della storiografia chi già agli inizi della RDT fu trattato in modo duro sul piano politico e scortese sul piano umano furono in primo luogo i marxi­sti, come il già citato Walter Markov, che si oppose alla campagna condotta nel-

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l'ambito della lotta al "titoismo".3

La formazione della storiografia nella RDT ha però le sue vere radici sociali nella rottura del privilegio dell'educazione dei ricchi e dei possidenti e le sue radi­ci politiche nella riforma universitaria democratica che già nel 1946 aprì la via del­l'università ai figli degli operai e dei contadini. Gli appartenenti a questi gruppi , ma anche molti studenti provenienti dalla piccola borghesia o dalla borghesia colta (Bildungsbiirgertum) erano caratterizzati (e per molti si può dire senza esagerazio­ne segnati) dalle loro esperienze durante il fascismo e in guerra. La politica dei con­quistatori imperialisti sotto la dittatura di Hitler era intervenuta nella vita loro e in quella delle loro famiglie e le aveva determinate per anni e si era trattato di una poli­tica, come essi incominciavano sempre più a capire, di una natura profondamente inumana e criminale.

"Mai più il fascismo", questa fu la massima di vita impressa agli studenti dei primi corsi del dopoguerra e fin dall'inizio dedicarsi alla scienza non significò per loro allontanarsi dalla politica. Essi non avevano nemmeno un'idea delle differen­ze tra le due cose- tra la scienza e la politica- e delle trappole e delle insidie insi­te in questa relazione. Ciò dovette dimostrarsi gravido di conseguenze. Infatti all'o­rigine dell'evoluzione della storiografia vi fu l'idea sbagliata che la scienza marxi­sta e la politica antifascista (poi socialista) non fossero in contraddizione e che la scienza potesse essere resa e diventasse il fondamento di tutte le decisioni politiche. Il rapporto a lungo acritico degli storici della RDT con il potere statale ha in questo la sua prima radice, anche se non l 'unica. Vi si aggiunsero la subordinazione alle richieste di disciplina e poi anche l'adattamento per comodità o per calcolo. Chi però descrive l'atteggiamento della storiografia e degli storici verso lo stato della RDT come quello di una "puttana" (come si sa ciascuno ha il suo gusto) non ha capito nulla delle sue premesse e dei suoi sviluppi. Gli studiosi che verso la fine degli anni Cinquanta cominciarono a costituire quel gruppo, che, succedendo ai pre­cursori, dev'essere definito in senso stretto come quello degli storici della RDT, volevano partecipare alla creazione della Germania postfascista, che nelle loro idee doveva essere socialista. Essi consideravano la tendenza storica che si realizzò nello stato tedesco-occidentale come uno sviluppo errato e, con l'avvento della Guerra fredda, come una minaccia per la loro esistenza.

Può sembrare inusuale e criticabile iniziare la retrospettiva sulla storiografia di uno stato finito con un approccio così incentrato sulle generazioni e sulle biografie. Tuttavia questo procedimento non è soltanto giustificato dai fatti dimostrabili del primo decennio del dopoguerra, ma è anche richiesto dall'ignoranza con cui oggi vi si passa sopra. Si vorrebbe rimuovere del tutto il pensiero che la situazione della Germania nel maggio 1945 diede origine a più vie e trarre dal fatto che una delle due strade che furono effettivamente percorse non ebbe sbocco la conclusione che la via della RDT mancava fin dall'inizio di legittimazione.

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La storiografia nella RDT in retrospettiva

II La storiografia della RDT è liquidata. Quando emerse il problema politico su

come si dovesse procedere nei confronti del suo personale, dei suoi gruppi di ricer­ca e delle sue strutture, si affermò che nei nuovi Ui.nder non si era trovato nulla che meritasse il nome di scienza. Circolò la parola "deserto scientifico", che creò le premesse per l'immagine complementare dell'azione benefica che prometteva di trasformare questo deserto in una landa fiorente. Sui suoi campi, secondo un'inter­pretazione iniziale delle intenzioni, sarebbero fioriti anche i fiori del marxismo, seb­bene non più come monocultura.

Quattro anni dopo un processo di "Abwicklung"4 della storiografia è giunto sostanzialmente alla fine e - a volte per vie traverse e quindi non senza ritardi - al suo scopo.5 Nei nuovi Ui.nder sono stati realizzati i contenuti e le strutture dell'or­ganizzazione scientifica della Repubblica federale. Tra parentesi, non è stata sol­tanto opera delle forze della attuale coalizione di governo. L'opposizione non si è rifiutata e ha così mostrato di non avere una concezione alternativa della cura e dello sviluppo delle scienze.

La "Abwicklung" della struttura storica (la sezione storia e i suoi settori) sorta nella RDT nella Humboldt-Universitat 6 fu realizzata concretamente da studiosi appartenenti alla socialdemocrazia o ad essa vicini. La motivazione che si elimina­va un "deserto scientifico", che non poteva reggere in loco e nell'incontro diretto con gli affermati specialisti, fu sostituita da quella più raffinata che lo scopo era quello di eliminare una scienza che era servita soltanto alla legittimazione dello stato e i cui esponenti non avevano avuto altra funzione che quella di rappresentan­ti ideologici della direzione del partito e dello stato della RDT. La loro attività scien­tifica sarebbe stata orientata, e solo in questo contesto diventa chiara la gravità del­l' accusa rivolta loro, alla stabilizzazione di un regime criminoso, la seconda ditta­tura tedesca dopo quella del "nazionalsocialismo". Una delle accuse rivolte alla sto­riografia, che fu pubblicata negli ultimi giorni prima della liquidazione giuridica della RDT nel 1990, affermò che la storiografia era stata schierata contro la popo­lazione e sostenne che la storiografia della RDT "agì in modo disumano, poiché ingannò gli uomini sulla loro storia".7 Nel frattempo sono stati elaborati e pubbli­cati giudizi più differenziati.8 Gli scopi e gli obbiettivi sono stati, come si è detto, raggiunti.

Le generazioni future di storici tedeschi, sia detto a margine, potrebbero occu­parsi del perché gli storici della (vecchia) Repubblica federale abbiano lasciato i loro colleghi sotto il peso di questa critica e perché alcuni, come lo storico antico di Monaco Christian Meier,9 abbiano chiesto l'allontanamento indifferenziato di tutti dal pubblico impiego, sebbene essi avessero, tramite molti incontri internazionali e interstatali, tramite monografie e riviste, conoscenza di una realtà diversa e potes­sero ancora ricordarsi dell'utile che avevano tratto da questi incontri. 10 Certo questo fatto non è senz' esempio nella storia tedesca. Già una volta degli studiosi furono scacciati con il pretesto che erano criminali politici o strumenti di questi, quando

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l'accusa era quella di essere "criminali del novembre". Nell'università di Berlino quest'accusa colpì anche il famoso studioso di Las salle e biografo di Friedrich Engels Gustav Mayer, che nella Repubblica di Weimar non aveva mai potuto otte­nere una cattedra e che dopo la caduta di questa fu perseguitato come ricercatore orientato al materialismo storico, come socialdemocratico ed ebreo. 11 Allora era certo pericoloso contraddire le accuse. Tuttavia degli studiosi, senza prender posi­zione in pubblico, si adoperarono almeno per "via burocratica" in favore dei colle­ghi perseguitati.

Per molto tempo resterà da assolvere il compito di vagliare e di giudicare indi­pendentemente dagli interessi politici meriti e mancanze, realizzazioni e fallimenti della storiografia della RDT. 12 Al momento sembra che gli storici che lavorano fuori dalla Germania abbiano i presupposti e le condizioni migliori per farlo. Essi non possono affatto venir sospettati di voler ricostituire il "socialismo reale" o di avere indulgenza nei suoi confronti per interessi particolari.'3 Non c'è bisogno d'essere un sognatore per potersi immaginare il momento - oggi certamente non prevedibile -in cui le cose saranno arrivate al punto, che si faranno sentire giudizi più equi. Tuttavia resterà una difficoltà, che deriva dal fatto che un giudizio non coinvolge soltanto questa storiografia, poiché le sue radici risalgono alla storia della storio­grafia del XIX secolo e alle controversie, che durano da allora, su quali correnti sto­rio grafiche soddisfino meglio i requisiti della scienza.

La storiografia dellla RDT fu un figlio legittimo e allo stesso tempo snaturato di quella visione della storia del materialismo-storico, che risale a Karl Marx e Friedrich Engels. Perciò bisogna ricercare caso per caso, per ogni sotto-disciplina e per le ricerche condotte al suo interno, quale sia il loro posto in questo complica­to rapporto ereditario. Potrebbe così apparire ed anzi apparirà, che vi si trovano, ine­gualmente distribuiti, punti di forza e limiti, progressi scientifici indipendenti e incrostazioni e costruzioni erronee e dogmatiche.

I già menzionati convegni, colloqui e simposii tenuti insieme da storici dell'"Est" e dell'"Ovest" si sono fondati proprio sul confronto tra differenti approc­ci teorici e metodo logici. Di alcuni di questi colloqui sarebbe rimasto, dopo la prima conoscenza, soltanto un brutto ricordo, se fosse nata l'impressione che dalla RDT si potevano sentire soltanto ottusità dogmatiche e che i suoi rappresentanti non por­tavano risultati scientifici degni d'attenzione e di discussione. Se in queste tavole rotonde qualcuno avesse rimproverato a un partecipante che egli aveva una posi­zione materialista, per esempio a proposito della natura della dittatura fascista in Germania, ciò avrebbe suscitato nel migliore dei casi uno scuotere di teste. Più tardi, nel 1992, il medesimo motivo poté figurare come causa di critica in una let­tera di licenziamento di un'università tedesco-orientale e venir denunciato come espressione di un tenace dogmatismo. Dello stile prediletto da alcuni partecipanti alle discussioni è, per esempio, prova un'osservazione del 1992 di Hans-Ulrich Wehler secondo cui "l'infelice definizione del fascismo del Komintern equivale alla più grande sciocchezza scientifica che ci si potesse immaginare". Questa definizio-

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La storiografia nella RDT in retrospettiva

ne si troverebbe al medesimo livello di quella spiegazione secondo cui fu l' impo­tenza degli uomini tedeschi che li spinse nelle SA. 14

La storiografia della RDT ha contribuito, in misura maggiore o minore, al pro­gresso della scienza in molti campi. Se nella letteratura specialistica e tra gli stori­ci ciò non viene contestato, il riconoscimento di questa realtà dei fatti viene espres­so in modi diversi. Una rigida obbiettività contrasta con la condiscendenza di altri riconoscimenti. Georg Iggers, che si occupa da molto tempo della storiografia della RDT e ne è uno dei più intimi conoscitori, cita con approvazione un rapporto sugli istituti storici dell'Accademia della RDT, secondo cui in essi "fu svolto del lavoro che corrispose agli standards internazionali e spesso s'inoltrò persino in nuovi campi di ricerca" .15 Hans-Ulrich Wehler dichiarò, nello stile di una valutazione sco­lastica, che vi furono settori in cui la ex (sic) storiografia della RDT può essere "promossa". Egli menzionò la storia agraria e la "ricerca sulla formazione delle classi" all'Università di Lipsia. 16 A questi giudizi se ne possono aggiungere altri. Tra i lavori nel settore della preistoria e della protostoria spiccano i risultati sulla storia degli slavi occidentali. Dalla ricerca medievistica spiccano le pubblicazioni sugli inizi dello stato moderno. I lavori che si occupavano della rivoluzione prato-bor­ghese - benchè il concetto sia controverso, lo uso qui per indicare il tema - diven­nero noti e trovarono ampio riconoscimento. I ricercatori trarranno ancora per molto tempo profitto dai lavori di Ernst Engelberg sulla biografia di Bismark e sulla nasci­ta dell'Impero tedesco. Walter Markov e i suoi allievi, tra cui è conosciuto soprat­tutto Manfred Kossok, si distinsero per i loro contributi alla storia comparata delle rivoluzioni. Le ricerche di Anneliese Laschitza sulla biografia di Rosa Luxemburg e i lavori editoriali ad esse collegati mostrano che anche in istituzioni sotto il con­trollo diretto dei dirigenti della SED e anche in un campo sottoposto in modo ecce­zionale al "controllo del partito" il pensiero indipendente e il lavoro originale non incontrarono limiti insuperabili. Di questo elenco fanno parte le ricerche degli sto­rici economici della scuola di Jiirgen Kuczynski sulla storia delle forze produttive e dei rapporti di produzione, soprattutto nel XIX e nel XX secolo, che sono pubbli­cate in monografie e nel prestigioso "Jahrbuch fiir Wirtschaftsgeschichte". Interrompo qui l'elenco , che è molto incompleto e quindi ingiusto verso tutto cio che non viene citato e tutti coloro che non vengono menzionati.

La storiografia della RDT ebbe, come ogni disciplina negli altri stati, oggetti e temi in cui si mostrarono le sue capacità, mentre si possono individuare settori in cui era poco sviluppata e presentava lacune. E' insufficiente interpretare questa situazione esclusivamente come la proiezione degli interessi politici dei detentori del potere ai vertici dello stato. Anche nei suoi settori e nelle sue problematiche pri­vilegiati, la storiografia era influenzata da più fattori. Un fattore essenziale deriva­va dallo stato della storiografia tedesca tradizionale, che aveva a sua volta - questo è dire poco - le sue preferenze. Quando della storiografia viene detto criticamente che essa "è stata una storiografia selettiva"17

, non bisogna dimenticare o sottacere che gli storici della RDT si occuparono di problemi, processi e avvenimenti della

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storia tedesca, che furono programmaticamente trascurati o ignorati dai loro prede­cessori e che ricevettero poca attenzione anche nella Repubblica federale, così che ancora il presidente Gustav Heinemann, in un famoso discorso a Brema, esortò ad occuparsi dei movimenti popolari dei secoli passati. La storia del movimento ope­raio tedesco, dei movimenti sociali fino all'epoca della guerra dei contadini, della situazione sociale della maggioranza della popolazione nei diversi periodi storici -l'elenco è incompleto- fu un tema negletto dalla storiografia tedesca "accademica". Se essa oggi non lo è più, è anche per merito della storiografia della RDT. La con­siderazione di questa storia, a parte la discussione sulle interpretazioni, fu una delle sfide che vennero lanciate dalla storiografia della RDT con effetti a livello interna­zionale. Un motivo molto concreto, che giustifica la considerazione selettiva di periodi e parti della storia fu del resto il numero limitato degli storici.

I giudizi più controversi, che rimarranno tali per molto tempo, sono quelli riguardanti periodi, oggetti e temi della storia tedesca del ventesimo secolo, soprat­tutto per l'arco temporale dagli anni precedenti alla prima guerra mondiale fino alla fine della seconda guerra mondiale. Con riferimento a questi decenni, ma soprat­tutto alla dittatura fascista, si è affermato che nella RDT "il passato è stato aboli­to".18 Chi si sia anche superficialmente occupato dell'attività e delle pubblicazioni degli storici della RDT sa invece che la storia delle due guerre mondiali e gli anni dal 1933 al 1945 facevano parte dei loro campi di ricerca favoriti. L'ultima impre­sa, riguardante la storia delle conquiste imperialistiche e soprattutto la documenta­zione dei crimini fascisti durante le campagne di guerra e le scorrerie, fu l'edizione documentaria Europa unterm Hakenkreuz, che iniziò ad esser pubblicata nell989, ancora sotto la RDT. 19 L'impresa sopravvisse alla fine della RDT e della sua storia­grafia. Questo è in gran misura merito degli storici e degli archivisti dell'archivio federale di Coblenza, che hanno curato il completamento di quest'edizione docu­mentaria. Nel1992 poté così venir pubblicato il volume che si occupa dell'Italia dal momento in cui da alleato diventò paese occupato e nemico dell'ex "partner dell' Asse".20 La storia comparata della discussione storiografica sui quarant'anni di fascismo e di guerra, che ebbe luogo nei due stati tedeschi, deve ancora venir scrit­ta. Chi voglia muoversi con obbiettività in questo campo si scontra con lo stereoti­po di un "antifascismo ordinato per decreto (e quindi somministrato dagli storici)" alla popolazione della RDT.

Dopo la fine della RDT molti storici hanno analizzato il loro ruolo nello stato che era crollato e su questo hanno fatto anche dichiarazioni pubbliche. All'inizio queste uscite pubbliche sono state denunciate come mosse calcolate di una strategia finalizzata alla difesa del loro posto. Di questo ora non si può più parlare.

Gli storici hanno essi stessi richiamato l'attenzione su errori, lacune e carenze delle loro ricerche e pubblicazioni. Dire di loro in blocco, che sono stati incapaci di imparare e che per questo hanno dovuto perdere il posto, costituisce perciò una dif­famazione. Dopo il1990 non c'è stato nessuno degli storici noti che abbia detto, che la sua opera fosse stata guidata dai dirigenti dello stato e del partito. Gli autori devo-

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La storiografia nella RDT in retrospettiva

no rispondere di ciò che hanno fatto pubblicare, e su questo hanno preso posizio­ne.21 Certamente vi fu dell'opportunismo di fronte ai censori e ai lettori editoriali, ma questo fenomeno non è monopolio del "socialismo reale". Gli storici che hanno lavorato nella RDT e che possono ora lavorare temporaneamente in istituzioni di ricerca della Repubblica federale fanno a volte esperienze in tal senso, che li sba­lordiscono.

La storiografia della RDT è stata senza dubbio sottoposta dagli anni Sessanta a un controllo particolare e sempre più completo da parte dei dirigenti del partito e dello stato. L'effetto dell'immagine della storia sulla coscienza politica e sul com­portamento della maggioranza della popolazione è stato molto sopravvalutato da W alter Ulbricht e non solo da lui. Per di più Ulbricht si riteneva uno specialista della storia, che in varie occasioni definì il suo terzo mestiere, dopo quelli del falegname e del politico. Questo genere di prevaricazione non è raro tra i politici e più volte ha provocato gravi danni alla ricerca storica.

Ancora sotto il governo di Ulbricht fu 1st1tmto il "Rat fiir Geschichtswissenschaft", in cui venivano chiamati storici di tutti gli istituti scienti­fici. Lo presiedeva un membro del comitato centrale della SED e la sua sede uffi­ciale si trovava in un istituto appartenente alla SED. Questa forma di direzione e pianificazione del lavoro storiografico diventò sempre più perfezionata, ma aveva però i suoi limiti. Anche in questo Consiglio si affermò in alcuni settori un diritto degli storici a partecipare alle decisioni, un diritto che peraltro essi sfruttarono male e da cui, per la composizione del consiglio, furono completamente esclusi i ricer­catori più giovani.

Questo meccanismo di controllo interferì maggiormente nelle ricerche e nelle pubblicazioni sulla storia del movimento operaio e internazionale dopo la Rivoluzione di novembre e sulla storia della RDT. Chi pertanto voleva far ricerca senza ordini e prescrizioni restrittivi evitò già agli inizi di specializzarsi in queste direzioni. Questo costituì - anche qui è tuttavia sbagliato dare giudizi globali - in una certa misura una selezione negativa. Le pubblicazioni riguardanti questi argo­menti venivano controllate prima della stampa. Questo le distingueva dalle altre pubblicazioni, che venivano giudicate dai lettorati editoriali secondo i propri crite­ri. Anche quest'ultima procedura fu spesso dannosa e diede origine a prevaricazio­ni, ma in altri casi essa fu stimolante o servì a eliminare degli errori.

Nella pratica quotidiana del lavoro storiografico nella RDT vi era più normalità e vi erano meno misteri e cose abnormi di quanto venga oggi talvolta indicato. Bisogna dire che i fondamenti spirituali costituivano solo un aspetto del lavoro sto­riografico. La dotazione materiale e personale della storiografia era cattiva e lo era ancora di più nel confronto internazionale. L'impegno dei ricercatori in attività al di fuori dei loro compiti reali era estremamente elevato e provocava una forte perdi­ta di tempo. Il peso di queste attività cresceva se dagli istituti di partito si passava a quelli delle accademie e delle università. Già solo per questo la storiografia della RDT rimase indietro rispetto a quella della vecchia Repubblica federale per quanto

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riguarda la quantità della sua produzione. Il razionamento della carta e della stam­pa fece sì che anche molte dissertazioni degne di pubblicazione potessero venir con­sultate solo nelle biblioteche specializzate.

III Un'eredità spirituale della RDT è la crisi del pensiero marxista, non solo nelle

sue deformazioni, che furono chiamate "marxismo-leninismo", ma anche nei suoi fondamenti. Lo scomparso stato tedesco-orientale non è certo l'unico responsabile di questa crisi, che ha una lunga storia. Nella RDT però, una parte del paese natale di Marx, non soltanto i leader politici, ma anche milioni di loro seguaci hanno desi­derato di costruire la società, di cui Marx e Engels avevano disegnato i contorni.22

La maggioranza degli storici della RDT, e non solo quelli che erano membri della SED, aderiva alla metodologia storica marxista. Così non fu un caso che subito dopo la fine dello stato venisse fuori anche la domanda "cosa resta della storiogra­fia della RDT?".23

Certamente questa crisi del marxismo interessa oggi in Germania quasi soltanto coloro, che hanno ritenuto possibile superarla con un rinnovamento, cioè quei marxisti, ormai ridottisi a un pugno di persone, che vengono attualmente conside­rati come una specie di fossili. Per quanto riguarda gli storici, essi sembrano anco­ra occupati soprattutto a constatare l'entità del danno che li ha inaspettatamente col­piti e contro cui non erano in alcun modo assicurati. Si sono riuniti in una serie di associazioni che operano ai margini della società, anche se questa non li ignora del tutto. Organizzano conferenze, discussioni e qualche volta anche convegni in cui è vero che restano per lo più tra di loro, ma mai senza che vi siano differenze d'opi­nione. Temi di lavoro e di discussione sono soprattutto, e ciò è caratteristico della situazione, concrete questioni storiche. L'attenzione e la partecipazione più forti sono suscitate dalla storia della RDT e dai processi che portarono alla sua fine. Per quanto si può capire, questi lavori, che molte volte si fondano su ricerche private, vengono realizzati parallelamente a quelli in corso negli istituti universitari e extrauniversitari. Uso il termine "parallelamente" nel senso stretto matematico, per dire che questi diversi sforzi di ricerca s'incontrano solo all'infinito. Questa situa­zione potrebbe cambiare solo se venisse rettificata la concezione del pluralismo degli storici tedeschi nel pubblico impiego e se nelle associazioni menzionate venis­sero superati gli ostacoli apparsi dopo la sconfitta, che fu anche per colpa propria, e culminati nel processo di "Abwicklung". Le prospettive di un simile cambiamen­to non sono grandi, sebbene non manchino dichiarazioni secondo cui si aspira ad una "storiografia metodologicamente aperta".24 Quello che si voleva era spesso un"'apertura" che escludesse i rappresentanti del materialismo storico. Lo storico di Bochum Winfried Schulze motivò quest'esclusione col fatto che "i punti di vista teorici attraenti", che sarebbero stati avanzati anche dalla storiografia della RDT, avrebbero da molto tempo "trovato posto nel sistema scientifico occidentale".25 In questa prospettiva, il materialismo storico appare come una specie di miniera i cui

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La storiografia nella RDT in retrospettiva

filoni interessanti siano esauriti. Quest'immagine è notevolmente in contraddizione con un'osservazione della stesso autore, secondo cui la storiografia della RDT ha costituito una sfida per la storiografia della Repubblica federale e le discussioni sono state fruttuose per entrambe le parti, mentre alla fine si constata: "questa sfida è ora naturalmente andata perduta". 26 Pertanto il potenziale di provocazione intel­lettuale della storiografia della RDT non si era affatto del tutto esaurito. Questo significherebbe che esso non andò affatto perduto in modo "naturale", una volta realizzatosi il processo di adesione dei cinque Uinder orientali.

Certamente la discussione tra gli storici marxisti, se vuole dare un contributo al superamento della crisi del pensiero del materialismo storico non può più evitare la critica dei fondamenti teorici. Non vi è alcuna questione che non dovrebbe essere riapprofondita, che si tratti del tema delle formazioni sociali, delle loro caratteristi­che e delle forze che le fanno muovere oppure di quello della coppia concettuale delle masse popolari e delle personalità e del loro ruolo nel processo storico. Il fatto che il dibattito sulle questioni storiche fondamentali tra gli ex storici della RDT, che ritengono possibile e anzi necessario un rinnovamento del pensiero storico materia­listico e che non vogliono trasformarsi in ricercatori positivisti, faccia così fatica a partire ha probabilmente più cause. Da un lato, continua lo choc che fu causato dal crollo della loro visione dello svolgimento della storia mondiale, sebbene questa visione cominciasse ad apparir loro in parte problematica e non vera già prima che la RDT e il sistema degli stati del "socialismo reale" si autodistruggessero. Dall'altro lato, potrebbe avere un ruolo una debolezza che risale ai tempi lontani della RDT, cioè il forte isolamento delle singole discipline delle scienze sociali, che caratterizzò persistentemente il sistema scientifico, nonostante tutte le proclama­zioni roboanti a favore di una collaborazione interdisciplinare. In terzo luogo, anche la politica che si definisce di sinistra, che è rivolta all'affermazione tramite il lavo­ro pratico e il successo tangibile, non riconosce i danni di un deficit teorico.

Soltanto le future esperienze in un mondo radicalmente mutato mostreranno se il rinnovamento del pensiero marxista verrà considerato un bisogno da parte di gruppi sociali rilevanti e quindi si cercherà una prospettiva sulla storia che non ado­peri soltanto - per ritornare alla situazione tedesca - il vuoto slogan "avanti così, Germania".

Note

l. Così osserva G. G. Iggers, Der Forschungsschwerpunkt Zeithistorische Studien in Potsdam, in "German Studies Association Bullettin", January 1994, n. l, citato dalla traduzione tedesca in R. Eckert e altri (edd), Hure oder Muse? Dokumente und Materialen des Unabhangigen Historiker Verbandes (d'ora in poi citato come UHV Dokumente), p. 306.

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2. Si vedano le brevi biografie di Karl Griewank, Otto Hoetzsch, Martin Linzel, Fritz Rorig, Friedrich Schneider, Heinrich Sproemberg, Eduard Winter, in H. Heitzer e altri (edd), Wegbereiter der RDT­Geschichtswissenschaft, Berlin 1989. Avrebbe dovuto esser pubblicato un secondo volume, che non è più stato realizzato.

3. Markov, che restò fedele alle sue convinzioni socialiste anche di fronte alla "svolta" della RDT del 1989-1990, fino alla sua morte, ne ha parlato egli stesso: W. Markov, Zwiesprache mit dem Jahrhundert. Dokumentiert von Thomas Grimm, Berlin 1990, pp. 197 ss.

4. Il concetto appare nel linguaggio della burocrazia di molti stati tedeschi e significava che un'istitu­zione per cui i detentori del potere non avevano più alcun impiego o che non poteva più esser mante­nuta veniva liquidata senza esser sostituita. Certe istituzioni e parti dell'esercito tedesco furono "abgewickelt" in base alle prescrizioni del Trattato di Versailles. La definizione si ritrova anche nelle leggi in occasione dell' AnschluB dell'Austria, infatti la Banca nazionale austriaca fu "abgewickelt". Quando il capo del Reichssicherheits-Hauptamt, Reinhard Heydrich fece erigere nell941 il ghetto e campo di concentramento di Theresienstadt, dispose che il comune doveva essere "abzuwickeln", cosa che significò la sua fine e l'evacuazione degli abitanti cechi.

5. All'inizio dell992 Jiirgen Kocka indicò come obbiettivo della ricostituzione del personale scienti­fico nelle università il raggiungimento "di una buona 'miscela' di tedeschi orientali e occintali (e di stranieri), ma temeva che, come dopo il 1945, potesse risultare una continuità maggiore di quella auspicabile. Cfr. Deutschlands Historiker/innen nach dem Fall der Mauer, in "Osterreichische Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaften", 1992, l, p. 72. Il timore di Kocka risultò completamente infondato.

6. Poiché gli istituti storici dell'università berlinese non dovevano essere aboliti senza rimpiazzarli, il procedimento di Abwicklung, che fu deciso inizialmente dal Senato di Berlino e che doveva consen­tire il licenziamento di tutto il personale scientifico e tecnico senza l'indicazione e la giustificazione delle cause di licenziamento, risultò impraticabile. Il tribunale competente lo giudicò illegale. Si dovette scegliere la via dei licenziamenti individuali, in parte anche quella della modifica dei contrat­ti di lavoro, che risultò più lunga, ma che alla fine fece raggiungere lo scopo.

7. Si veda il quotidiano Die Welt, 29.9.1990, resoconto su un "dibattito sulla storiografia nella RDT' nel congresso storico di Bochum del26-29.9.1990.

8 .A favore di tali giudizi si è appellato Georg G. Iggers nel saggio: Geschichtswissenschaft und auto­ritarer Staat. Ein deutsch-deutscher Vergleich, in "Osterreichische Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaften", 3, 1992, fase. l, pp. 7-21. Nella frase conclusiva l'autore esprime la spe­ranza che "molti storici e storiche possano venir integrati nelle istituzioni scientifiche della nuova Repubblica federale".

9. Tra l'altro in un articolo pubblicato nella "Frankfurter Zeitung" con il titolo Lieber abwickeln.

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La storiografia nella RDT in retrospettiva

10. In un campo di studi così pieno di controversie come quello della preistoria e della storia della seconda guerra mondiali, i rapporti sviluppati dal 1975 sembrarono nella seconda metà degli anni ottanta essere così maturi, che in occasione del cinquantesimo anniversario dell'inizio della guerra doveva esser pubblicato un volume collettaneo che riunisse i contributi di storici della RFfe della RDT e che doveva esser pubblicato sia da una casa editrice tedesco-occidentale che da una tedesco-orien­tale. Alla fine l'impresa fallì per l'intervento dei dirigenti politici della RDT, a cui gli storici della Germania orientale si piegarono e che essi per di più nascosero. Cfr. M. Broszat- K. Schwabe (edd), Die deutschen Eliten und der Weg in den Zweiten Weltkrieg, Miinchen 1989 e L. Nestler (ed), Der Weg deutscher Eliten in den zweiten Weltkrieg, Berlin 1990, soprattutto le introduzioni di Broszat e Nestler.

11. Cfr. per i dettagli K. Patzold, Gustav Mayer (1871-1948), in Berliner Historiker. Die neuere deut­sche Geschichte in Forschung und Lehre an der Berliner Universitat ("Beitrage zur Geschichte der Humboldt-Universitat zu Berlin", 13).

12. Si mostra ora ancora una volta e in modo imprevedibile quale cattivo servizio si siano resi a suo tempo gli storici della RDT con i numeri speciali della "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", com­pilati ogni due Congressi storici internazionali, quindi ogni dieci anni, che riferivano le loro ricerche nello stile di una bibliografia annotata, senza intenzioni e senza distanza critiche, appiattendo le diffe­renze dei risultati invece di metterle in evidenza. Il manoscritto dell'ultimo numero, che doveva esse­re presentato al Congresso storico di Madrid, venne terminato, ma non fu più pubblicato.

13. Questo è ancora l'argomento più a buon mercato con cui si risponde alla richiesta di considerare l'eredità della RDT nelle sue contraddizioni.

14. UHV Dokumente, cit., p. 185.

15. G. G. Iggers, Geschichtswissenschaft?, cit.

16. Questo in una tavola rotonda alla Humboldt Universitat di Berlino citata in UHV Dokumente, cit., p. 198.

17. Questa critica fu espressa da Winfried Schulze nella conferenza già citata (cfr. la nota 14) e fu com­pletata dall'osservazione che questa pratica fu abbandonata negli anni Ottanta (UHV Dokumente, p. 171.).

18. Ibidem, p. 179.

19. Europa unterm Hakenkreuz. Achtbandige Dokumentenedition, Herausgegeben von einem Kollegium unter Leitung von Wolfgang Schumann und Ludwig Nestler, vol. l, Die faschistische Okkupationspolitik in Polen (1939-1945), Berlin 1989.

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20. Europa unter Hakenkreuz, a cura del Bundesarchiv, vol. 6: Die Okkupationspolitik des deutschen Faschismus in Jugoslawien, Griechenland, Albanien, Italien und Ungam (1941-1945), Berlin Heidelberg 1992. I promotori dell'edizione documentaria, Wolfgang Schumann e Ludwig Nestler, morirono nel1989.

21. L'autore di questo contributo si è più volte espresso su questo tema e sul proprio lavoro, che riguar­da soprattutto la storia dell'antisemitismo e della pesecuzione degli ebrei negli anni tra il 1933 e il 1945, tra l'altro in Research on Fascism and Antifascism in the German Democratic Republic. A Criticai retrospective, in "Radica! History Review", 54, 1992, pp. 87-109. Vedi anche Antifaschismus und NS-Geschichte, in: "konkret" (Hamburg), 1992, fase. 11, pp. 52-58. Il contributo è una risposta al resoconto di come fu trattata la persecuzione degli ebrei da parte della storiografia della RDT fatto da Olaf Groehler in precedenza sulla stessa rivista (1992, fase. 5). La discussione è uno dei pochi esem­pi del fatto che gli storici sono entrati in polemica sul loro lavoro passato e di come l'hanno fatto. A questa polemica presero parte anche Ji.irgen Kuczinski e Kurt Gossweiler (1992, fase. 8).

22. La base di massa dello stato della RDT è uno di quei temi di ricerca contro cui attualmente si ele­vano particolari ostacoli politici. E' ora provato, soprattutto dalle ricerche di Heinz Niemann, che le fonti per rispondere alla domanda su quando questa base si ampliò, quando si restrinse, fino alla distru­zione del suo nucleo nel1989, non devono essere considerate troppo scetticamente. Vi sono dati socio­logici tenuti segreti, che furono raccolti in modo serio.

23. Questa è la problematica anche dell'articolo di Helga Schultz (in "Òsterreichische Zeitschrift fi.ir Geschichtswissenschaften", 3, 1992, fase. l, pp. 22-40.

24. In questo senso si espresse, nella stessa occasione (v. nota 14), anche Winfried Schulze, che par­tecipò in modo determinante alle decisioni sul futuro degli storici che lavoravano nella Humboldt Universitat ai tempi deiia RDT, prima come vicepresidente e poi come presidente di una cosiddetta commissione sull'organizzazione e le nomine.

25. Citato in UHV Dokumente, ci t., p. 171.

26. Ibidem, p. 172.

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Horst Gies Freie Universitat di Berlino

Rieducazione o rinnovamento? Esperienze sul rivolgimento nell'insegnamento e nell'ap­prendimento della storia in Germania dopo ill989

I

Dopo l'unificazione dei due stati tedeschi si è posto il problema se l'insegna­mento e l'apprendimento della storia nei nuovi Uinder, all'interno e all'esterno della scuola e dell'università, potessero essere rinnovati, oppure se essi dovessero essere radicalmente trasformati. La mia opinione è che né "rieducazione", né "rin­novamento" sono concetti adeguati per indicare il compito che si è dovuto assolve­re e che ancora resta da assolvere. Infatti dopo il1990 nei nuovi Uinder non si sono verificate né la Re-education da parte degli alleati occidentali, né la sopraffazione da parte dei comunisti sovietici, che avevano caratterizzato rispettivamente la parte occidentale e quella orientale della Germania dopo il 1945 .'Anche il tentativo della "denazificazione" non ha potuto e non può ancora esser seguito da una "de-stasifi­cazione".2 Inoltre può venir riformato soltanto ciò che contiene elementi riformabi­li, mentre nella RDT veniva trasmessa un'immagine della storia, che era ideologi­camente determinata e politicizzata in modo unilaterale e che per la sua pretesa tota­litaria non è compatibile con uno stato liberale e democratico e con una società plu­ralistica. Per dimostrare questo, dovrò descrivere a grandi linee la funzione della storia e della sua tramissione nella RDT prima del 1989. Come succede nella vita privata, anche nella ricerca scientifica non accade volentieri che si analizzino avve­nimenti spiacevoli, si citino prese di posizione compromettenti, si richiamino alla memoria brutti comportamenti. In Al di là del bene e del male Friedrich Nietzsche osserva: "'Ho fatto questo' dice la mia memoria. 'Non posso aver fatto questo' -dice il mio orgoglio e non vacilla. Alla fine la memoria cede."3 La ricostruzione del "secondo passato tedesco" (Jiirgen Habermas) nel ventesimo secolo è un compito di tutti i tedeschi. Darvi un piccolo contributo da un punto di vista non coinvolto personalmente è il motivo ispiratore del mio intervento in questo convegno.

II

Qual era dunque il rapporto con la storia nella RDT? Nel secondo stato (Teilstaat) tedesco, che l'Unione Sovietica aveva fondato dopo la seconda guerra mondiale nella sua sfera di dominio con l'aiuto dei comunisti tedeschi, }"'oggetti-

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vismo" era un valore negativo e veniva screditato come "borghese". "Ideologia" e "propaganda" erano invece considerati concetti positivi, anche nell'ambito della trasmissione della storia.4

Come la storia può venire strumentalizzata secondo il modello sovietico, lo si poteva vedere fino a poco tempo fa nel "Museum der bedingungslosen Kapitulation des faschistischen Deutschland im GroBen VaterHindischen Krieg" (Museo della resa senza condizioni della Germania fascista nella grande guerra patriottica). Il museo, visitato anche da molte classi scolastiche della RDT, fu creato nel1967 per glorificare l'Armata Rossa a Berlino-Karlshorst, in quell'edificio in cui il9 maggio 1945 fu stipulata la capitolazione senza condizioni del Reich tedesco. Invece di cer­care di spiegare razionalmente cause e conseguenze della guerra, il museo era sede di un culto degli eroi fondato sul sentimento.5 Il suo corrispettivo era il "Museum fiir Deutsche Geschichte" (Museo della storia tedesca), che fu creato nel vecchio arsenale sulla Unter den Linden a Berlino, per fornire una dimostrazione della teo­ria delle formazioni sociali, su cui si fondava il materialismo storico, e un' icono­grafia della storia del movimento operaio, del socialismo e della KPD.6 Esso fu peraltro chiuso e smembrato nel settembre 1990 per decisione del governo della allora ancora esistente RDT.

Anche la scuola era, come fu detto in un dizionario pedagogico della RDT del 1987, una "istituzione ideologica, che (era) responsabile della trasmissione dei fon­damenti dell'ideologia marxista". Il fondamento teorico di questa concezione era fornito dal marxismo-leninismo, in cui gli insegnanti venivano erroneamente con­cepiti come "incaricati della classe operaia" e gli storici venivano trasformati in "soldati" e "combattenti del partito sul fronte ideologico", come venne insegnato agli storici della Humboldt-UniversiHit nel1963.7

Se nel nazionalsocialismo, in conformità con la dottrina dello stato derivata dal­l'ideologia della razza, la massima era stata "E' oggettivo ciò che è tedesco",8 nella RDT la massima divenne la "partiticità", che predeterminava la risposta al proble­ma della verità storica in conformità al "punto di vista di classe" determinato dalla SED. Freya Klier ha descritto nel suo libro Liig Vaterland i risultati degli sforzi della dirigenza dello stato e del partito per mettere in linea l'educazione popolare nella RDT.9 Gli storici e gli insegnanti di storia furono esecutori compiacenti. Essi si lasciarono corrompere e deformare dal potere della SED, cosa che non soltanto li screditò personalmente come storici e insegnanti, ma rese anche non credibile la "scientificità" delle loro teorie e dei loro metodi. Come dev'esser considerato come persona e come sostenitore del "metodo del materialismo storico di Marx" un influente rappresentante della storiografia della RDT, che ancora nel 1988 giustifi­cava acriticamente la partiticità e le sue note conseguenze per la ricerca della RDT come "il punto di vista della classe operaia, della rivoluzione socialista e del socia­lismo, che guida la conoscenza e l'interesse storici"?10 Ed è adatto a formare inse­gnanti di storia all'università un metodologo della storia, che nel1987 considerava che il compito dell'insegnamento della storia fosse "contribuire sostanzialmente a

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Rieducazione o Rinnovamento?

formare l'immagine della storia marxista-leninista e la coscienza storica socialista degli alunni, dare un fondamento storico alloro punto di vista di classe, inoltre aiu­tarli ad acquisire solide opinioni marxiste-leniniste verso i problemi del nostro tempo e rafforzare la disponibilità degli alunni a consolidare e difendere la RDT come la loro patria socialista, che è radicata nelle migliori tradizioni tedesche"? 11 A mio parere le due domande si rispondono da sole.

I precetti politici della SED condussero non solo all'ignoranza delle fonti, a distorsioni e a rimozioni nella rappresentazione di fenomeni storici, ma anche alla creazione di stereotipi di amici e nemici e di leggende di vittime e di eroi, con l'aiu­to della emotivizzazione e della suggestione. L'opera di Herbert Miihlstadt Der Geschichtslehrer erziihlt offre un ricco materiale di studio su questo tipo d'inse­gnamento della storia, in cui si trovava sempre una presa di posizione acritica per chi non aveva potere e un disprezzo sentimentale a favore di chi lo deteneva. 12 Nella RDT i racconti storici erano molto apprezzati e venivano impiegati volentieri e con gran successo nell'insegnamento storico. In questo modo si dovevano anche susci­tare compassione e solidarietà nei confronti degli eroi soccombenti come il condot­tiero di schiavi Spartaco, il capo di contadini Thomas Miintzer o il leader operaio Emst Thalmann. Wendelin Szalai, uno dei maggiori metodologhi della storia della RDT, afferma molto giustamente a questo riguardo in un'autocritica retrospettiva: "Il ruolo creatore d'identificazione attribuito alla personalità storica era più impor­tante del suo reale significato storico" .13 L'obbiettivo non era rendere comprensibi­le la complessità della realtà storica o valutare obbiettivamente gli interessi e le fun­zioni, ma educare a diventare una "personalità socialista", che si distinguesse per "coscienza di classe" e non mettesse in discussione il potere della SED. Il secondo dei "dieci comandamenti della morale socialista" del programma partitico della SED del 1963 diceva infatti "Devi amare la tua patria e essere sempre pronto a usare tutta la tua forza e la tua capacità per difendere il potere degli operai e dei contadi­ni (cioè la SED)."14

Gli sforzi educativi in questo senso iniziavano già all'asilo nido, proseguivano nella scuola e nell'azienda e finivano nell'organizzazione del tempo libero. I gio­vani pionieri, la FDJ (Libera Gioventù Tedesca), la letteratura per l'infanzia e per i giovani, e inoltre soprattutto i mass-media, tutti avevano il proprio ruolo. Ciò che negli anni Trenta era la "educazione alla Volksgemeinschaft", veniva rappresentato nella RDT dalla "educazione collettiva": i valori positivi, la solidarietà, i sentimen­ti reciproci e il senso di sicurezza erano legati alla classe sociale e dovevano essere creati al suo interno. Gli strumenti emotivi utilizzati nei due stati totalitari, come per esempio i canti e le processioni di massa, inoltre i rituali e i simboli, sono sor­prendentementi simili. 15

Il dominio dello stato sugli uomini nella RDT non poteva naturalmente funzio­nare senza immagini del nemico. All"'amore per il socialismo" corrispondeva l"'odio per l'imperialismo". Così i funzionari del partito e della FDJ nei club spor­tivi della RDT al tempo delle Olimpiadi del 1964 ricevettero istruzione di porre al

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centro dei loro sforzi "l'educazione di tutti gli sportivi alla fiducia e alla lealtà incondizionate verso il nostro potere degli operai e dei contadini e all'odio contro i nemici del popolo, i militaristi e gli imperialisti della Germania occidentale" .16 In modo simile le alunne e gli alunni nelle scuole dovevano studiare che "l' aggressi­vità imperialistica è causata dalla proprietà capitalistica-monopolistica dei mezzi di produzione" e che quindi tutti i pericoli per la pace provenivano da occidente. 17

Nell'insegnamento storico della RDT la guerra di Corea, scoppiata nel 1950 quando l'ONU inviò truppe sotto la guida statunitense nella Corea del Sud per respingere un attacco della Corea del Nord, fu descritta al contrario come una "aggressione imperialistica contro la Repubblica democratica popolare coreana" .18

La storia dell'Unione Sovietica era rappresentata nella RDT come un successo inin­terrotto, periodo staliniano incluso naturalmente. Reinhold Kruppa, membro dell'Accademia delle Scienze pedagogiche e uno dei più influenti metodologhi della storia della RDT, ammette in retrospettiva apertamente a questo proposito: "Nelle lezioni di storia gli alunni non appresero nulla sui GULAG nell'URSS, nulla sui conflitti nazionali ed etnici che covavano in questo paese, nulla sui milioni di vittime tra la popolazione rurale durante la collettivizzazione nell'Unione Sovietica. " 19

Anche avvenimenti della propria storia, come per esempio il 17 giugno 1953 o l'erezione del Muro il 13 agosto 1961, furono rappresentati in modo emotivo e foriero d'emotività, con una manipolazione sia della realtà storica che degli studen­ti, una manipolazione, che mirava alla formazione degli atteggiamenti e delle coscienze. Così come il giornale della SED "Neues Deutschland" aveva attribuito la responsabilità della rivolta degli operai e dei contadini contro il loro stesso gover­no ad "agenti imperialistici", "persone da quattro soldi", "soggetti comprati" e "ele­menti fascisti", nel manuale ufficiale di storia del 1971 si diceva: "Il 17 giugno del 1953 ad agenti di diversi servizi segreti, che da Berlino Ovest erano stati infiltrati in massa nella capitale e in alcuni distretti della RDT, riuscì di indurre una piccola parte dei lavoratori a delle temporanee cessazioni del lavoro e a dimostrazioni. Grazie all'azione decisa delle parti più avanzate della classe operaia e dei suoi allea­ti, insieme con le forze armate sovietiche e di organi armati della RDT, il putsch controrivoluzionario fece fiasco entro 24 ore".20

Il manuale scolastico nell'edizione del1989 ammetteva che i dirigenti del parti­to e dello stato avevano preso decisioni "sbagliate" e "insufficientemente riflettu­te", che avevano provocato "incomprensione" e "insoddisfazione" presso la popo­lazione, ma non si distaccava dal mito di un "rivolgimento controrivoluzionario" ordito e guidato dall'Ovest. Così non stupisce il fatto che nello stesso libro di sto­ria del 1989 veniva insegnato agli alunni che il 13 agosto 1961 la RDT con la "ragionevolezza" e con un' "azione decisa", cioè con "la costruzione del muro anti­fascista", aveva "salvato la pace mondiale" e che la costruzione del Muro e la chiu­sura ermetica verso occidente erano stati accolti dalla popolazione della RDT "con soddisfazione universale" .21

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Rieducazione o Rinnovamento?

Pochi anni dopo la fine del nazionalsocialismo la SED offrì alla popolazione tedesco-orientale una nuova dottrina sacra, questa volta marxista-leninista, in cui la figura sovrumana di capo con cui identificarsi e a cui sottomettersi era rappresenta­ta da Stalin. Nel contesto del comportamento politico autocratico della SED l' espe­rienza antifascista dei dirigenti della RDT ebbe un'importante funzione legittima­trice intema.22 La SED e i suoi storici propagandarono e praticarono un concetto ideologico di vittima, che, nel caso delle vittime dei nazionalsocialisti, valutava la loro appartenenza al movimento operaio più che per esempio la loro origine ebrai­ca. Questa concezione della storia e il modo in cui la storia fu strumentalizzata sotto la regia della SED sono documentati in particolare dal modo in cui nella RDT furo­no considerati i campi di concentramento. Il fatto che in questi campi molti comu­nisti avessero pagato la loro resistenza con la prigionia, la tortura e la morte riva­lutò notevolmente la RDT nella sua fase iniziale.23 Come gli "eredi sorridenti" del proverbio, si credeva di poter appropriarsi di quest'eredità storica senza dover anche esser responsabili per gli obblighi, per esempio nei confronti dello stato d'Israele. I luoghi della memoria della violenza criminale nazista furono fatti diven­tare senza problemi "monumenti antifascisti", cioè monumenti della resistenza e della liberazione antifascista.24 Venne coscientemente taciuto che nel campo di con­centramento di Buchenwald, liberato nell'aprile 1945 dagli americani, funzionari dell'autoamministrazione dei detenuti, che in precedenza avevano fatto parte della KPD e che ricoprirono più tardi nella RDT funzioni di governo e di partito di responsabilità, si erano lasciati usare come sgherri delle SS, avevano fatto senza scrupoli il loro interesse e spesso avevano persino tormentato di loro iniziativa i compagni di prigionia.25 Venne coscientemente taciuto anche il fatto che la maggior parte di questi ex campi di concentramento erano stati conservati dopo il 1945 come "campi speciali" in cui venivano di nuovo imprigionati e torturati a morte molte migliaia di uomini innocenti - ovvero non nazisti -, solo perché si opposero alla costruzione di una nuova dittatura totalitaria, quella comunista. L' adeguata consi­derazione di questo capitolo iniziale di storia,Z6 che era stato taciuto nella RDT, costituisce una gravosa ipoteca sulla trasformazione dei luoghi della memoria del nazionalsocialismo tedesco-orientali già iniziata.

Nella RDT l'antifascismo fu per decenni un valore fondamentale politico-mora­le, anche nel processo educativo,27 ma quanto più esso venne "fatto sviluppare" in modo formale e acritico da raison d'etre a dottrina dello stato della RDT, tanto più divennero visibili le somiglianze e i parallelismi tra il nazionalsocialismo e il socia­lismo reale. L'antifascismo fu strumentalizzato da parte dei detentori del potere della SED nel loro interesse, usato come copertura di una nuova repressione e del­l' eliminazione di tutte le opposizioni e se ne fece abuso per screditare la concezio­ne di democrazia occidentale tramite l'equiparazione di imperialismo, fascismo e capitalismo.28 Dietro a ciò vi era una concezione dell'uomo e della società fonda­mentalmente diversa. Nell'antropologia marxista-leninista l'uomo sviluppa la sua dignità non nell'autonomia individuale, ma nella solidarietà con un collettivo e

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nella comunità con la sua classe. Nell'interpretazione marxista-leninista dei diritti fondamentali dell'uomo non vi sono diritti connaturati all'individuo, immutabili e precedenti lo stato;29 soprattutto tali diritti non esistono indipendentemente rispetto allo stato socialista, nel quale si presuppone un'identità d'interessi tra dominanti e dominati e nel quale perciò non esiste la divisione dei poteri e l'indipendenza del potere giudiziario. L' "avanguardia del proletariato" decideva gli interessi "oggetti­vi" dei "lavoratori", perché grazie al materialismo storico essa era in grado di rag­giungere con certezza scientifica la comprensione dello sviluppo sociale. Dal momento che la filosofia della storia marxista-leninista pretende di conoscere il corso della storia non vi è alcun libero arbitrio individuale. La libertà è invece la capacità di sottomettersi alla necessità del decorso storico predeterminato.30 Robert Havemann, vecchio comunista e perseguitato ed emarginato dalla SED come criti­co del regime, osservò laconicamente a questo proposito: "Se non capite ciò che è veramente necessario - e questa necessità veniva normalmente decisa da quelli che la postulavano- allora non potete nemmeno avere la libertà".31

Perché faccio riferimento a queste differenze di fondo tra la concezione "occi­dentale" della democrazia e quella "orientale"? Perché vi è una chiara tendenza a definire il "socialismo reale" della RDT come una "deformazione" del marxismo­leninismo. Per indicare questa "degenerazione" di una teoria in sé giusta si è tirato in ballo il concetto suggestivo di "stalinismo" - un tentativo fin troppo trasparente di discolpa da parte di coloro che cercano di salvare ciò che non è salvabile.32

Tutta l'agitazione e tutto l'indottrinamento, anche con l'aiuto della storia, tutti gli sforzi di educare a una specie di "patriottismo della RDT" non ebbero in ultima istanza successo. Fu la contraddizione oggettiva tra l'ideale socialista e la realtà quotidiana nella RDT, tra le promesse marxiane della morte della stato e la costru­zione nella realtà di un onnipresente potere della Stasi, tra l'appello di Rosa Luxemburg per la "libertà di chi pensa diversamente" e lo spionaggio e la repres­sione delle opinioni dissidenti, tra l'immagine propagandistica della "decadenza del capitalismo" e l'idea che gli uomini potevano farsi dell'occidente attraverso gli schermi televisivi - furono queste contraddizioni insomma che screditarono i gover­nanti della RDT agli occhi dei dominati. Lo stato che era stato fondato sulle baio­nette della Armata rossa, questo frammento statale sotto un governo d'occupazione, non poté compensare il suo deficit di legittimazione democratica e nazionale né con la rievocazione della Prussia né con una sentimentale "propaganda storica".

Gli storici, gli insegnanti di storia e l'insegnamento storico erano doppiamente inseriti in questo sistema di menzogna e di manipolazione. Da un lato, per la priorità attribuita alla ricerca storica, che dalla riforma universitaria del 1968 ebbe luogo principalmente negli istituti dell'Accademia, mentre nelle università e nelle scuole para-universitarie continuavano ad avere la precedenza la dottrina e l'educazione socialiste;33 dall'altro lato, però soprattutto per il controllo politico della SED, che non esercitava soltanto una sorveglianza severissima sullo sviluppo e sulla realiz­zazione dei programmi di ricerca, comprese le pubblicazioni, i programmi d'inse-

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gnamento, i manuali e i regolamenti delle lezioni, ma arrivava ad esercitare il con­trollo assoluto, cioè la censura, fin nelle aule scolastiche e universitarie. Dopo ciò che si è detto è facile rispondere alla domanda sul perché gli storici e gli insegnanti di storia non abbiano intrapreso nulla contro questa situazione, o perché se lo fece­ro non ebbero successo. Essi dovevano i loro posti di lavoro privilegiati alla loro tessera della SED, quindi si erano legati le mani da sè. Inoltre essi avevano accet­tato il postulato che la partiticità derivata coerentemente dal marxismo aveva un carattere di esattezza scientifica e quale scienziato avrebbe voluto distruggere il fon­damento del suo prestigio sociale? Ma la manifesta contraddizione tra la realtà sto­rica e la storia che veniva insegnata li screditò agli occhi degli studenti e provocò un'irreparabile perdita d'autorevolezza degli storici e degli insegnanti di storia marxisti-leninisti.34

Nei quarant'anni di storia dell'insegnamento storico nella RDT fu possibile usare soltanto un unico manuale di storia. Quello per la decima classe, in cui veni­va presentata ai sedicenni la storia del loro stato, fu realizzato nel 1988-89 senza nemmeno la cura degli esperti dell'Accademia delle Scienze pedagogiche. Dei suoi 16 autori 11 provenivano dalla scuola superiore di partito "Karl Marx" di Berlino della SED.35 Nella formazione quinquennale degli insegnanti di storia della RDT alle 55 settimane di studio della storia si affiancavano 21 settimane di studio del marxismo-leninismo. Il 45% dello studio specifico era riservato al periodo tra il 1917 e il 1989. Nel programma di studio ministeriale per la formazione di inse­gnanti di storia del 1982 veniva indicato come obbiettivo della formazione che essi in futuro "dessero un contributo sostanziale come propagandisti dell'immagine della storia marxista-leninista, della coscienza nazionale socialista e quindi del patriottismo socialista della gioventù scolastica". 36

Un insegnamento della storia che si basava su questi fondamenti teorici, su que­sti intendimenti politici, su questa realtà di intenzioni, di contenuti e di metodolo­gie, che abbiamo qui solo tratteggiato, non è riformabile; esso necessita invece di un cambiamento radicale. Le carenze di contenuti riguardavano tra l'altro:

- l'interpretazione unilaterale dell'antichità come "società schiavistica"

- l'esposizione insufficiente della storia del medioevo europeo

- la completa negligenza del movimento liberale e democratico dell'epoca della Restaurazione

- la svalutazione della rivoluzione del1848/49 con i suoi impulsi costituzionali

- la qualificazione negativa della democrazia parlamentare come "prefascista" e la sua valutazione come qualcosa da superare

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Nel campo metodologico l'insegnamento frontale e canonificato che veniva pra­ticato nella RDT non corrispondeva né al sentire di una democrazia pluralistica né al modello pedagogico del cittadino (Staatsbiirger) emancipato valido nella Repubblica Federale. La molteplicità di prospettive, per fare un esempio, o l'ap­prendimento attraverso la ricerca e la scoperta, che sono concetti centrali nella didattica della storia della Germania occidentale, erano termini estranei all' inse­gnamento della storia e alla metodologia storica della RDT.37

Dal momento che nel 1990 il contesto politico nei nuovi Uinder è radicalmente cambiato, non ci poté essere soltanto un rinnovamento dell'insegnamento della sto­ria, ma fu invece necessario costituire un insegnamento della storia completamen­te nuovo. Tuttavia questo poteva e può riuscire solo se vengono considerate le con­dizioni socio-culturali, che come è noto presentano molti ostacoli al cambiamento. Soprattutto nella formazione e nel perfezionamento degli insegnanti bisogna perciò fare ancora molta opera di chiarificazione per far capire la differenza dell'insegna­mento e dell'apprendimento della storia in uno stato democratico da quelli in uno stato totalitario, sia nel settore degli obbiettivi e dei contenuti che in quello meto­dologico e in quello mediale.

A questo lavoro di chiarificazione e alla necessaria ricostruzione parteciparono attivamente dopo il 1990 molti storici, didattici della storia e insegnanti di storia tedesco-occidentali, non solo con conferenze, seminari e corsi nelle università e nelle scuole universitarie della Germania orientale, ma anche, su invito dei ministeri competenti, direttamente "sul posto" nelle scuole, con corsi di perfezionamento per insegnanti o come insegnanti ospiti.38 Questo impegno non fu determinato tanto da zelo missionario quanto dal bisogno di comprensione reciproca, di uno scambio d'esperienze e di solidarietà tra colleghi.39 Tra questi aiuti ad aiutarsi da sè bisogna sottolineare, oltre a molte iniziative personali, soprattutto l'impegno dello Historikerverband (Associazione degli storici) e in particolare quello del Verband der Geschichtslehrer Deutschlands (Associazione tedesca degli insegnanti di storia) con le sue sezioni regionali. In questo modo si è realizzata anche la costruzione di rappresentanze d'interessi degli insegnanti di storia nei nuovi Uinder.40 Queste asso­ciazioni regionali dell'Associazione tedesca degli insegnanti di storia hanno, dato il federalismo culturale della Germania, una funzione importante nell'aggiorna­mento degli insegnanti, nell'intervento presso i ministeri a favore dell'insegnamen­to della storia e nella realizzazione di nuovi programmi d'insegnamento di storia. Singole associazioni regionali della Germania occidentale hanno formalmente assunto il patronato di associazioni di colleghi nella Germania orientale a fianco di analoghe azioni di sostegno della burocrazia ministeriale e dell'amministrazione scolastica di un vecchio Land per un nuovo Land, quando c'era corrispondenza nei partiti di governo e nella politica educativa. Si possono citare come esempi l'impe­gno e la funzione di modello, rispettivamente, del Nordrhein-Westfalen per il Brandenburg e della Baviera e del Baden-Wiirttemberg per la Sassonia.

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Anche nelle università e nelle organizzazioni scientifiche vi furono le stesse atti­vità e lo stesso impegno, come per il problema di cosa si dovesse fare del persona­le gonfiato in modo esorbitante e quindi costosissimo delle Accademie della RDT. A questo proposito divennero tristemente famosi i nuovi concetti di "Evaluation" e di "Abwicklung". La questione della qualificazione professionale e dell'integrità morale dei colleghi della RDT non è stata e non è di facile soluzione. Vennero richiesti pareri di esperti, furono riuniti giurì d'onore interni all'università, furono richieste informazioni all'istituzione, che era competente sugli atti rimasti del Ministerium fiir Staatssicherheit, infine delle commissioni per l'organizzazione e per le nomine universitarie decisero sul personale degli istituti storici. Nell'aprile 1991 la Corte costituzionale ha stabilito che fosse legittima solo l'estromissione (Abwicklung) del personale di quelle istituzioni, che non sarebbero più state rico­stituite. Vi fu comunque un accordo sul fatto che non avevano più i requisiti neces­sari coloro i quali avevano servito troppo compiacentemente la dittatura comunista come delatori e falsificatori della storia. Ma anch'essi hanno potuto giovarsi della libertà d'opinione garantita dallo stato di diritto, hanno potuto e possono continua­re a pubblicare e hanno potuto far uso senza problemi e spesso addirittura con suc­cesso della possibilità di riacquistare i loro posti con appelli giudiziari. Soltanto se avevano intenzionalmente taciuto la loro vicinanza al sistema, se quindi avevano fatto false dichiarazioni, cosa che è spesso accaduta, vi era un motivo di licenzia­mento.

Rispetto alle epurazioni politiche che furono realizzate nella zona di occupazio­ne sovietica/RDT dopo il 1945 41 il processo di ricostruzione del sistema educativo nella Repubblica Federale dopo il 1990 sembra quasi innocuo. Che gli insegnanti di educazione militare e quelli di educazione civica fossero inadatti all'insegnamento, lo ha dovuto decidere in ultima istanza la più alta corte del lavoro tedesca. Sempre per via giudiziaria è stato deciso che la semplice appartenenza agli organi di parti­to della SED non è un motivo sufficiente di licenziamento. A una ex insegnante di storia di Dresden fu riconosciuto dal Bundesarbeitsgericht (corte del lavoro fede­rale) che poteva mantenere l'impiego nella scuola, e quindi nello stato, sebbene fosse evidente la sua vicinanza al sistema della RDT in quanto ex dirigente del Freundschaftspionier42 Quando il presidente dell'Associazione degli storici della Sassonia dichiarò con forza: " I fustigatori ideologici, i collaboratori e gli informa­tori della Stasi, gli insegnanti che hanno distrutto la carriera professionale o scola­stica degli studenti non hanno più posto nella scuola"43 aveva fatto i conti senza con­siderare gli strumenti che lo stato di diritto mette a disposizione di quegli stessi col­leghi, che in precedenza avevano cercato di svalutarlo in quanto borghese e decadente. Nessuno poté contraddire Stefan Wolle, quando dichiarò al congresso degli storici di Hannover nel 1992: "Chi ha denunciato altri, chi ha emarginato e insultato degli studenti, chi ha distrutto delle carriere, non può più essere tollerato nelle università. Troppi stanno ancora nelle loro cariche e possono continuare indi­sturbati ad insegnare, mentre la riabilitazione di coloro che dovettero interrompere

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gli studi, che andarono in prigione o che furono cacciati dal lavoro si fa ancora attendere. A molto non è più possibile rimediare, tuttavia è intollerabile che perso­ne che si sono rese colpevoli si dichiarino oggi vittime del sistema".44

Comunque la scuola unitaria della RDT fu sostituita da un sistema scolastico articolato. Al posto del nuovo piano unitario per l'insegnamento della storia della RDT, che era stato appena introdotto, vennero in successione delle "indicazioni sui programmi d'insegnamento" (Turingia), delle "linee generali" (Sassonia-Anhalt e Mecklenburg-Pommem) e dei "piani generali" (Brandenburg) completamente nuovi. Essi furono tutti definiti "provvisori" perché erano stati per lo più scritti in fretta e furia, si fondavano su principi legislativi ancora incompleti o non ancora esistenti e in molti casi erano ancora molto influenzati dai modelli dei Uinder patro­ni.45 Soltanto a Berlino le leggi scolastiche e anche il programma d'insegnamento per la storia vigenti nella parte occidentale furono direttamente estese a Berlino Est. Questi nuovi programmi d'insegnamento non erano dei curricula disciplinari chiu­si, come quelli della RDT, ma davano e danno agli insegnanti di storia spazi note­voli per considerare gli interessi degli studenti, le particolarità regionali e le incli­nazioni particolari.

Naturalmente vi fu nel 1989-80 anche qualche iniziativa di metodologhi della storia della RDT per correggere all'ultimo momento uno sviluppo di cui si era rico­nosciuta la negatività. Un gruppo di lavoro della Accademia delle scienze pedago­giche (APW) della RDT pubblicò allora un contributo alla discussione sul futuro insegnamento della storia insieme ad un bilancio autocritico delle cause determi­nanti della presente situazione, facendo riferimento a "un doloroso processo di rico­noscimento mai disgiunto dalla riflessione sulla nostra responsabilità personale" .46

Molto in questi scritti ricordava le tecniche della ben conosciuta autocritica comu­nista, era superficiale e stereotipato o doveva essere inteso addirittura come un rozzo tentativo di conquistarsi dei favori. 47 Inoltre le "Proposte" di piano d'inse­gnamento presentate dai collaboratori della APW restarono irrealizzate e costituiro­no solo del materiale da gioco teorico. Al contrario fu realizzato un piano d'inse­gnamento riformatore, che era stato elaborato dai metodologhi della storia della Padagogische Hochschule di Dresda e fu accettato in Sassonia nel 1990-91. Ma ciò fu possibile solo nella fase di transizione, prima che una commissione insediata dal Ministero dell'istruzione sassone preparasse un piano sostitutivo.48

III

Quattro anni dopo l'unificazione esteriore della Germania molti ritengono che non sia stata ancora realizzata l'unità interna, cioè che la comprensione reciproca sia troppo poca e che il sentimento di comune appartenenza dei tedeschi dell'Est e di quelli dell'Ovest lasci a desiderare. Questa diagnosi della situazione tedesca si è manifestata nell'immagine dei "muri nella testa" degli uomini, che aleggia dapper­tutto sui media. In realtà, dal momento che la socializzazione e la formazione men­tale degli uomini nei due stati tedeschi furono per quarant'anni diverse, anzi oppo-

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ste, nessuno può stupirsi delle difficolta di comprensione reciproca. Ma di tutti i medicamenti che vengono messi in vendita quello meno accettabile è il consiglio di metterei una pietra sopra e di rinunciare alla ricostruzione della storia della RDT per motivi di pace interna.

Così come dopo il1945 non fu possibile concedere ai tedeschi occidentali un'af­frettata rimozione del passato nazionalsocialistico, così dopo il 1949 non può esse­re permessa ai tedeschi orientali una trasfigurazione nostalgica della loro storia nel socialismo reale.49 Dopo i rivolgimenti del1918-19, del1933 e del1945-49, gli sto­rici e gli insegnanti di storia della Germania, dopo il 1989-1990, sono stati posti e ancora sono posti, per la quarta volta in questo XX secolo, di fronte al compito di dedicarsi ad una radicale elaborazione della storia più recente, che è in parte anche la loro. Di questo problema si sono fatte esperienze a cui si può ricorrere. Chi crede di poter creare l'unità interna con la dimenticanza e la rimozione si sbaglia e sotto­valuta gli effetti di lungo periodo di un passato non elaborato. Sgomberare il passa­to per salvare il presente non fu possibile dopo il 1945 e non è una cosa sostenibile nemmeno dopo il 1989. Come il passato nazionalsocialista è un passato "che non vuole passare" (Ernst Nolte), così lo è il passato del socialismo reale. Non si può stendere una coltre di silenzio sul passato della RDT, non si può farlo né per pro­teggersi, né per viltà, né per disinteresse. Bisogna esigere l'elaborazione della dit­tatura comunista in modo così intransigente, come lo si fece con la dittatura nazio­nalsocialista.

Chi un tempo polemizzò con severità intransigente contro una "deproblematiz­zazione del passato tedesco" (Hans-Ulrich Wehler), lo deve fare anche per il "secondo passato tedesco" (Jiirgen Habermas). Infatti si pone nuovamente il pro­blema della responsabilità e, purtroppo, anche della colpa personale. Non c'è giu­stificazione per il fatto che oggi l'elaborazione del passato, quando è riferita alla RDT, si scontri nell'opinione pubblica con un clima di ignoranza, di disinteresse o addirittura di rifiuto. Qui vi è molta ipocrisia. Infatti proprio i moralisti e i sosteni­tori di principi etici a proposito della dittatura di "destra" si sono spesso trasforma­ti, quando si tratta della dittatura di "sinistra" in Germania, in minimizzatori, in giu­dici moderati e in realisti. Sul lungo periodo, però, essi dovranno soccombere al bisogno di chiarificazione storica.

Non si può lasciare l'elaborazione della storia del sistema d'ingiustizia della RDT solo a coloro che sono responsabili della dittatura della SED e neppure solo a quelli che l'hanno tranquillamente accettata. Si tratta invece di un compito comune di tutti i tedeschi. Gli storici e gli insegnanti di storia che hanno vissuto nella RDT e che hanno collaborato attivamente alla "costruzione del socialismo", possono con­tribuire enormemente alla chiarificazione di questo periodo della storia tedesca con un lavoro di memoria. Essi dovrebbero riflettere sul vecchio proverbio ebraico: "La volontà di dimenticare protrae l'esilio. Il segreto della liberazione è il ricordo". Con riferimento alla frase di Nietzsche che si è citata, essi dovrebbero attivare non il loro "orgoglio", ma la loro memoria, per contribuire alla chiarificazione e alla elabora­zione della "seconda dittatura tedesca" (Jiirgen Kocka).

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Note

l. Cfr. il recente studio di K. H. Fiissl, Di e Umherziehung der Deutschen. Jugend und Schule unter den Siegermachten des Zweiten Weltkrieges 1945-1955, Paderbom 1994.

2. La ricostruzione del ruolo e del significato del Ministerium fiir Staatssicherheit (Ministero della sicurezza dello stato) della DDR è ancora agli inizi. Fondamentale è K. W. Fricke, Die DDR Staatssicherheit. Entwicklung, Strukturen,Aktionsfelder, 3 ediz., Koln 1989. Dello stesso autore v. da ultimo, con molte informazioni, Kein Recht gebrochen? Das MfS und die politische Strafjustiz in der DDR, in Aus Politik und Zeitgeschichte B 40/94, pp. 24 ss.

3. F. Nietzsche, Werke, a cura di Karl Schlechta, vol. Il, Frankfurt/M. 1976, p. 71.

4. Cfr. i relativi lemmi nel Kleines Politisches Worterbuch, 7. ediz., Berlin (DDR) 1988 V. anche J. Rohlfes, Geschichtsdidaktik in der Zwangsjacke, in "Geschichte in Wissenschaft und Unterricht", 41, 1990, pp. 705 ss.; Horst Gies, Geschichtskultur und Geschichtsmethodik in der Deutschen Demokratischen Republik, in H. Sussmuth (ed), Geschichtsunterricht im vereinten Deutschland. Auf der Suche nach Neuorientierung, vol. l, Baden-Baden 1991, pp. 30 ss.

5. Cfr. il resoconto di Chr. von Marschall in "DerTagesspiegel", 11.5.1993 e l'analisi di H. Bookmann in "Damals", 25.7.1993.

6. In "Di e Zeit", 31.1.1952 venne scritto, sotto il titolo Museum fiir Geschichtsfalschung (Museo per la falsificazione della storia): "L'ultimo (tentativo), ad opera della storiografia nazionalsocialista di Rosenberg, non risale a molto tempo fa. Ma questo lavoro comunista ha un'impostazione più risoluta di quella del precedente tentativo di cambiare significato alla storia, che al suo confronto può quasi esser considerato cauto." V. anche K. Pfundt, Di e Griindung des Museums fiir Deutsche Geschichte in der DDR, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 23/94, pp. 23 ss.

7. Padagogisches W6rterbuch, Berlin (DDR) 1987, p. 176; W. Eckermann-H. Mohr, Einfiihrung in das Studium der Geschichte, 4 ediz., Berlin (DDR) 1986, p. 23; I. S. Kowalczuk, Die Historiker der DDR und der 17. Juni 1953, in "Geschichte in Wissenschaft und Unterricht", 44, 1993, p. 705.

8. Su questo v. H. Gies, Geschichtsunterricht unter der Diktatur Hitlers, Koln 1992.

9. F. Klier, Liig Vaterland. Erziehung in der DDR, Miinchen 1990. Delle categorie utilizzate di "inse­gnante medio", "cinico", "colpo di fortuna" e "calzino rosso", è "soprattutto" l'ultima che viene appli­cata agli insegnanti di educazione civica (Staatsbiirgerkunde) e di storia (pp. 148 ss.).

l O. W. Kiittler, Di e historische Methode aus marxistischer leninistischer Sicht, in Ch. Meier-J. Riisen (edd), Historische Methode. Theorie der Geschichte. Beitrage zur Historik, vol. 5, Miinchen 1990 (la citazione a p. 426).

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11. H. Diere, Zur Weiterentwicklung der didaktisch methodischen Konzeption des Geschichtslehrganges Anspriiche und Losungsansiitze, m "Geschichtsunterricht und Staatsbiirgerkunde", 29, 1987, p. 401.

12. H. Miihlstadt, Der Geschichtslehrer erzahlt, 3 voll., Berlin (DDR) 1970 (nuova ed. 1980-85).

13. W. Szalai, Wie "funktionierte" ldentitatsbildung im DDR Geschichtsunterricht? Il, in "Geschichte­Erziehung-Politik", 4, 1993, p. 584.

14. Revolutionare deutsche Parteiprogramme, Berlin (DDR), p. 302.

15. Su questo v. W. Szalai, Wie «funktionierte» Identitatsbildung in der DDR? 1., cit., pp. 505 ss. e E. Jesse, War die DDR totalitiir? in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 40/1994, pp. 12 ss.

16. J. Staatdt, Die SED und die Olympischen Spiele 1972. Dokumentation des "Forschungsverbandes SED-Staat" der Freien Universitiit Berlin, citato in "Frankfurter Allgemeine Zeitung", 21.9.1993.

17. Sull'inculcazione di immagini del nemico e sull'educazione all'odio nella RDT cfr. W. Henrich, Das unverzichtbare Feindbild. HaBerziehung in der DDR, Bonn 1981; U. Margedant, Feinbilder sozialisti­scher Erziehung in der DDR, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 52-5311988, pp. 24 ss. ; H. Gies, GeschichtsbewuBtsein und Geschichtsunterricht in der Deutschen Demokratischen Republik, in "Geschichte in Wissenschaft und Unterricht", 40, 1989, pp. 618 ss.

18. Cfr. Unterrichtshilfen Geschichte, 10. Klasse, parte I, Berlin (DDR), 1971, pp. 116 ss.

19. R. Kruppa, Der DDR-Geschichtsunterricht vor der Wende, in "Geschichte-Erziehung-Politik", 4, 1993, p. 650.

20. "Neues Deutschland", 18 26.6.1953; Geschichte.Lehrbuch fiir Geschichte, 10. Klasse, parte l, Berlin (DDR), 1971, p. 170.

21. Geschichte. Lehrbuch fiir Klasse 10., Berlin (DDR) 1989, pp. 62 ss. e 96 ss.

22. V. tra gli altri B. Wittrich, Interdependenz von Antifaschismus und Stalinismus in der politischen Kultur der SED und der DDR, in "Geschichte-Erziehung-Politik", 2, 1991, pp. 657 ss.

23. Cfr. J. Daugel, Die Opfer und Verfolgtenperspektiven als Griindungskonsens? Widerstandstraditionen und Schu1dfragen in der DDR, in dello stesso (ed), Die geteilte Vergangenheit. Zum Umgang mit Nationalsozialismus und Widerstand in beiden deutschen Staaten (Zeithistorische Studien, a cura del Forschungsschwerpunkt Zeithistorische Studien Potsdam, vol. 3) Berlin 1994.

24. Cfr. ibidem i contributi su Buchenwald (B. Ritscher), Ravensbriick (G. Schwarz) e Sachsenhausen (M. Titz).

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25. Cfr. ora L. Niethammer (ed), Der gesauberte Antifaschismus. Die SED und die kommunistische Kapos von Buchenwald. Dokumente, Berlin 1994.

26. V. Th. A. Seidel, Buchenwald historische Erinnerung auf dem Ettersberg. Doppelsymbol brauner und roter Gewalt, in "Das Parlament", 35-36, 2.- 9.9.1994 e C.- D. Steyer, Das MiBtrauen sitz tief. Sachsenhausen-Ùberlebende melden sich, in "Der Tagesspiegel", 6.5.1994.

27. P. Dudek, Antifaschismus: von einer politischen Kampfformel zum erziehungstheoretischen Grundbegriff?, in "Zeitschrift fiir Padagogik", 36, 1990, pp. 353 ss.

28. Cfr. tra gli altri R. Richter, Antifaschismus vor neuen Anforderungen, in "Beitrage zur Geschichte der Arbeiterbewegung", 32, 1990, pp. 772 ss.; Y. Thron, Faschismus-Antifaschismus. Neue Erfordemisse ihrer weiteren Erforderungen. (Bericht iiber ein Kollegium der Fachkommission Geschichte der Neuesten Zeit (1917-1945) der Historiker-Gesellschaft der DDR am 13.6.1990 in Berlin), ibidem, pp. 825 s. e K. H. Jarausch, Das Versagen des ostdeutschen Antifaschismus, in "Initial", 1991, 2, pp. 114 ss.

29. Sulla voce "diritti dell'uomo" cfr. Kleines Politisches Worterbuch, 3 ed., Berlin (DDR) 1978, p. 577. In generale v. D. KirchhOfer, Kommunistische Erziehung und Individualitatsentwicklung, in "Padagogik", 43, 1988.

30. Cfr. W.Berthold, Marxistisches Geschichtsbild, Volksfront und antifaschistisch demokratische Revo1ution. Zur Vorgeschichte der Geschichtswissenschaft der DDR, Berlin (DDR) 1970 e W. Leonhard, Die Etablierung des Marxismus-Leninismus in der SBZ/DDR (1945-1955), in "Aus Politik und Zeitgeschichte", 40/94, pp. 3 ss.

31. R. Havemann, Dialektik ohne Dogma, Reinbek 1964, p. 103; trad. it., Dialettica senza dogma, Torino 1965.

32. Per un esempio rappresentativo cfr. W.Kiittler, Neubeginn in der ostdeutschen Geschichtswissenschaft Bilanz nach dem Zusammenbruch der DDR, in A. Fischer (ed), Studien zur Geschichte der SBZ/DDR (Schriftenreihe der Gesellschaft fiir Deutschlandforschung, vol. 38), Berlin 1993, pp. 245 ss. (soprattutto p. 246 e p. 254). Su questo v. W. Weber, DDR- 40 Jahre Sta1inismus. Ein Beitrag zur Geschichte der DDR, Essen 1993.

33. Cfr. A. Fischer-G. Heydemann (edd), Geschichtswissenschaft in der DDR, vol. 1: Historische Entwicklung, Theoriediskussion und Geschichtsdidaktik, Berlin 1989.

34. Cfr. tra l'altro Materialen des Unabhangigen Historikerverbandes der DDR, in "Initial", 1991, p. 187 ss. e C. Dannehl-H. Diihlsen, Geschichtslehrer des Landes Brandenburg zwischen gestern und morgen, in "Geschichte-Erziehung-Politik", 1991, p. 553 ss.

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Rieducazione o Rinnovamento?

35. "Nella fase finale del lavoro per il Lehrbuch fiir Geschichte, Klasse l O. non fu permesso di influi­re sul contenuto del manoscritto né a dei collaboratori della APW né a degli storici ... ; soltanto ad un unico redattore editoriale fu concesso di prender visione del lavoro per un paio d'ore nella Scuola supe­riore della SED, il luogo di lavoro del direttore del collettivo degli autori. Non fu richiesto né fu pos­sibile altro che dei miglioramenti stilistici." (R. Kruppa, "Der DDR-Geschichtsunterricht vor der Wende, in "Geschichte- Erziehung- Politik", 1993, p. 651).

36. Studienplan fiir die Ausbildung von Diplomlehrern der allgemeinenbildenden polytechnischen Oberschulen in der Fachkombination Deutsche Sprache und Literatur/Geschichte, a cura del Ministerrat der DDR, Ministerium fiir Volksbildung/Ministerium fiir Hoch- und Fachschulwesen, Berlin (DDR) 1982, pp. 39 ss.

37. Cfr. B. Gertner-R. Kruppa, Methodik Geschichtsunterricht (a cura della APW della DDR), Berlin (DDR) 1975.

38. Cfr. come esempio rappresentativo G. A. SiiB, Als Berater in Thiiringen, in "Inforrnationen fiir den Geschichts und Gemeinschaftskundelehrer", 1991, fase. 42, pp. 23 ss. e P. Lautzas, Als Westlehrer an einer Ostschule. Eine Woche Gastunterricht in Kraftsdorft!Thiiringen, ibidem, pp. 27 ss.

39. V. ad esempio A. HOfer-P. Lautzas, Geschichtslehrer und Geschichtsunterricht in den neuen Uindern der Bundesrepublik-Pladoyerfiir eine Haltung der Begenung, in "Informationen fiir den Geschichts-und Gemeinschaftskundelehrer", 1990, fase. 40, pp. 21 ss.

40. In Sassonia la fondazione dell'associazione degli insegnanti di storia avvenne nell'aprile 1990: "Informationen", 1990, fase. 39, p.15; nel Mecklenburg-Vorpommern nel settembre 1990: "Informationen", 1991, fase. 41, p. 8; in Turingia nel novembre 1990: "Inforrnationen", 1991, fase. 41, p. 16; nel Sachsen-Anhalt nel maggio 1992, "Informationen", 1993, fase. 45, p. 18; nel Brandenburg nel dicembre 1990: "Informationen", 1991, fase. 41, p. 6.

41. Cfr. tra gli altri B. Hohlfeld, "Massenorganisation" Schule. Der Zugriff der SED auf das allge­meinbildende Schulwesen in der Friihphase der SBZ/DDR 1945 1953, in "Geschichte in Wissenschaft und Unterricht", 45, 1994, pp. 434 ss.

42. Cfr. i relativi articoli in "Der Tagesspiegel", 18.3, 7.7 e 23.7.1994.

43. "Informationen fiir den Geschichts -und Gemeinschaftskundelehrer", 1992, fase. 43, p. 30.

44. Bericht iiber die 39. Versammlung deutscher Historikein Hannover 1992, "Beiheft zu GWU", Stuttgart 1994, p. 38.

45. Cfr. p. es. D. Klose, Hausgemachtes aus nordrhein Westfalen fiir den Geschichtsunterricht in Brandenburg: ein produktiver Weg der Erneuerung?, in "Informationen fiir den Geschichts-und

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Horst Gies

Gemeinschaftskundelehrer", 1991, fase. 41, pp. 27 ss.

46. H. Iffert, Diskussionsangebot zum zukiinftige Geschichtsunterricht, in "Geschichtsunterricht und Staatsbiirgerkunde", 32, 1990, p. 140.

47. V. p. es. B. Pauli, Krise und Chance unseres Geschichtsunterrichts, in "Geschichte-Erziehung­Politik", l, 1990, pp. 295 ss.

48. Rahmenplan Geschichte Klassen 5-12, a cura del Consiglio distrettuale di Dresden, sezione edu­cazione, e di una commissione per i programmi d'insegnamento della Padagogischen Hochschule di Dresda presieduta da R. Kappler e W. Szalai, Dresden 1990. V. anche K. Bergmann - G. Schneider, Gewendete Geschichte in einer geschichtlichen Wende, in "Geschichte- Erziehung- Politik", 2, 1991, p. l; V. Tuckerrnann, Emeuerung oder neue Geschichtsunterricht?, ibidem, pp. 886 ss.

49. Cfr. tra gli altri Chr. KleBmann, Zwei Diktaturen in Deutschland. Was kann die kiinftige DDR­Forschung aus der Geschichtsschreibung zum Nationalsozialismus lernen?, in "Deutschland Archi v", 25, 1992, pp. 601 ss. e L. Kiinhard e altri (edd), Die doppelte Diktaturerfahrung. Drittes Reich und DDR. Ein historisch-wissenschaftlicher Vergleich, Frankfurt am Main 1994.

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Wolfgang Kiittler Forschungsschwerpunkt Wissenschaftsgeschichte - Berlino

Problemi del discorso storiografico nella Germania uni­ficata. Pensiero storico e scienza della storia nella tran­szzzone

Il tema del convegno colloca lo sviluppo della scienza storica in Europa nel con­testo del passaggio "dalle dittature alle democrazie" fra il 1945 e il 1990 e implica, da un punto di vista normativa, che tramite la democrazia debbano e possano esse­re abbattuti "i muri della storia", che esistono nella testa degli uomini. In questo modo la storia in quanto scienza viene considerata nel suo contesto sociale, cultu­rale e politico, come parte della cultura storica, 1 che è a sua volta parte integrante della cultura politica di un popolo. Ciò è particolarmente importante per quanto riguarda la storiografia tedesca, che nel seguito verrà considerata in prospettiva, dati i veementi dibattiti pubblici - con forti valenze politiche - sulla storia, in cui sono coinvolti soprattutto gli storici contemporaneisti.2 Ho pertanto impiegato nel titolo anche il termine "discorso storiografico",3 per mettere in evidenza il contesto gene­rale cognitivo, emotivo e politico, entro il quale bisogna considerare sia questa con­tesa che il ruolo svoltavi dagli storici di professione.

Allo stesso tempo l'esempio tedesco, da cui deriva anche la stessa metafora pro­grammatica dei "muri della storia", assume un significato centrale per lo studio della storia della storiografia all'interno del rapporto tra dittature e democrazie nella storia contemporanea. Infatti la svolta che è avvenuta in Germania era ed è, nono­stante le conseguenze problematiche, legata alla speranza di superare gli aspetti di separazione e di delimitazione nel pensiero storico dei tedeschi e dei loro vicini e di impiegare costruttivamente la memoria storica per la formazione di principi demo­cratici di convivenza all'interno della Germania e nel rapporto con gli altri popoli. Quanto quest'obbiettivo sia necessario e quanto sia difficile da realizzare è mostra­to dai contributi di K. Patzold e H. Gies, che, lungi dal superare i muri che divido­no, esprimono piuttosto vecchie e nuove contrapposizioni.4 In questi contributi, il discorso di un rinnovamento normativa dal punto di vista occidentale si scontra con il discorso contrapposto di una legittimazione limitatamente critica degli scopi della storiografia della RDT.

Anche se queste posizioni, nella loro radicalità, non sono rappresentative del­l'intero spettro delle opinioni, vi trovano espressione delle complicazioni tipiche del processo di unificazione. Anche per me, in quanto storico, che prima del 1989 era

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Wolfgang Kiittler

impegnato attivamente nella storiografia della RDT, è difficile occuparsi di questo tema a causa del radicale rivolgimento sociale, che si è compiuto, e del connesso avvicendamento di discorsi storiografici fondamentalmente diversi. Nello stesso tempo, però, queste difficoltà consentono di allargare la prospettiva ad un confron­to più ampio e generale, che accanto ai problemi attuali della cultura storica in Germania consideri anche il loro sfondo storico generale, cosa che rimanda al com­plesso rapporto tra democrazia e dittatura nella storia tedesca di questo secolo.

Con questo obbiettivo verranno affrontati nel seguito l. i problemi di prospetti­va e i criteri di confronto nell'approccio ai passati problematici 2. le trasformazio­ni della storia in quanto scienza e 3.le alternative di un nuovo discorso storico tede­sco.

I Prospettiva per un confronto storiografico nella presente transizione.

Il tema viene posto in maniera prospettica, anche a scopo analitico, e richiede la proiezione dei cambiamenti attuali, già verificabili, sulle possibili alternative della cultura storica nel suo complesso, che sono state problematizzate in numerose ricer­che sullo sviluppo del pensiero storico in Germania dopo ill990.5 Non ci si può limitare a semplici giudizi di valore a favore della democrazia e contro la dittatura, a favore della storiografia occidentale pluralistica e contro la "storiografia nella dit­tature" del "socialismo reale" in sé; il confronto può venir sostanziato soltanto con il contenuto concreto di storiografie collocate all'interno di reali transizioni di siste­mi e di discorsi. Gli osservatori sono inevitabilmente anche attori o persone coin­volte, quindi partecipanti al processo che bisogna studiare. Ciò significa che il pro­blema del confronto, sia in generale che specialmente per quanto riguarda la dispu­ta storiografica in Germania dopo il 1990, è fortemente legato a finalità politiche e sociali. La particolare prospetticità della storia contemporanea 6 vale su due piani; sul piano oggettivo degli accadimenti e sul meta-piano della scienza, che diventa essa stessa oggetto di studio della storia contemporanea. Dato che la tematica viene spesso strumentalizzata dai politici per fare una "politica della storia", 7 la traspa­renza delle prospettive soggiacenti ai due aspetti della storia contemporanea è necessaria già dal punto di vista metodologico.

A mio parere è importante uno sviluppo su basi democratiche della scienza della storia e del pensiero storico, uno sviluppo in cui venga accettata la differenza delle identità storiche e in cui le varie prospettive vengano articolate costruttivamente in aperta competizione con le altre. Ciò presuppone da un lato una società capace di riformarsi e di cambiare in un mondo che muta in modo terribilmente rapido e dal­l'altro lato la concezione di una scienza della storia emancipatrice e critica, che -anche se una sopravvalutazione dell'efficacia della nostra corporazione non sareb­be giustificata - abbia un considerevole ruolo di responsabilità in questa società in base alla sua funzione pubblica di cultura specialistica. Questo orientamento deri­va, nel mio caso, anche da una riflessione critica sulla situazione di "minorità per propria colpa"8 e presuppone la disponibilità a superare le proprie posizioni prece-

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denti, in quanto in esse veniva interiorizzato il monopolio della validità di una sin­gola teoria come visione del mondo e principio euristico.9 Soltanto così è possibile accettare coerentemente l'apertura democratica non solo nelle condizioni esterne, ma anche nel proprio pensiero. Ciò presupposto, non intendo la pluralità come indifferenza di metodi e di prospettive e considero la possibilità di un pensiero orientato a Marx come molto importante per la scienza della storia e per la cultura storica in Germania. 10

Una considerazione comparativa complessiva deve innanzitutto partire dal pre­supposto che l'attuale disputa storiografica tedesca ha dimensioni storiche, che tra­valicano l'ambito di quanto potrebbe esser trattato con un confronto delle situazio­ni degli storici tedeschi occidentali e orientali dopo il 1989. Da un lato, le immagi­ni della caduta del Muro il 9 novembre 1989, che preparò l'unificazione, hanno, in contrasto con quelle della costruzione del Muro del 21 agosto 1961, che consolidò la separazione in due stati, un significato simbolico riguardo alle grandi speranze connesse alla democrazia tedesco-occidentale e ora tedesco-unitaria. Dall'altro lato, l'idea di uno stato nazionale tedesco unitario è legata non soltanto alle impressio­ni positive del crollo dei muri che separavano, ma anche - e dopo il 1990 certo non di meno, a causa degli attentati contro gli stranieri e delle attività estremistiche di destra - sempre alle paure provocate da due guerre mondiali e ai crimini nazisti, che furono commessi nel nome dell'impero tedesco. L'8 maggio 1945 e il 3 ottobre 1990, così come le controversie sulla preistoria e sulle conseguenze di queste due cesure, mostrano questa ambivalenza di fondo, che emerge chiaramente dalle opportunità e dai pericoli dello sviluppo gravido di rischi dell'Europa dopo la svol­ta. Ciò spiega soprattutto perché in Germania le controversie sugli orientamenti e sulle identità storiche continuino a pesare molto di più che in paesi con una più anti­ca tradizione democratica. I tedeschi non sono certo "una nazione normale",11 che si possa senza problemi unificare internamente dopo l'unificazione esteriore. A que­sto proposito bisogna prendere molto sul serio i moniti degli storici di altri paesi, secondo cui i tedeschi non dovrebbero lasciare che le complicazioni del loro pro­cesso d'unificazione li distolgano dai problemi europei e globali. 12

L'oggetto concreto del contendere nelle attuali discussioni sulla storia contem­poranea e sulla cultura storica tedesche corrisponde ai problemi centrali della costellazione socio-politica originata dalla cesura del1989-90. Questi consistono in primo luogo nell' improvvisa risoluzione del conflitto di sistema tra le due Germanie a favore dell'Ovest- per il crollo della RDT e per la fine del blocco orien­tale e dell'Unione Sovietica- e, di conseguenza, nell'elevata concentrazione della discussione storiografica sul passato della RDT. In secondo luogo, in questo modo al posto del modello storico-sistemico della doppia statualità, che era dominante prima del 1989, si è di nuovo affermato un contesto di riferimento storico-nazio­nale, in cui questi nuovi problemi del passato si sovrappongono a quelli del nazio­nalsocialismo, così che entrambi si acuiscono a vicenda. In terzo luogo, si sviluppa un nuovo contesto discorsivo, in cui i due campi di conflitto menzionati si legano a

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nuovi fattori d'orientamento storici, che derivano dai cambiamenti sociali, econo­mici e culturali di lungo periodo della civilizzazione moderna e del capitalismo.

Questi tre complessi di problemi emergono in modo abbastanza concorde, nono­stante tutti i contrasti interpretativi, anche dai risultati dei numerosi sondaggi e delle molte indagini sociologiche sullo sviluppo della coscienza storica e politica dopo il 1990.13 Insieme ai processi d'avvicinamento, viene osservata una forte persistenza delle differenze tra la coscienza sociale e il pensiero storico dei tedeschi dell'Est e dell'Ovest, una persistenza che è l'espressione di culture politiche diverse. 14

All'euforia dell' "insperata unità" seguirono presto i sintomi di una "crisi dell'uni­ficazione"15 a proposito della sua realizzazione interna e del mantenimento dell'u­nità ad opera di entrambe le parti. Questa crisi si mostrò in modo accentuato anche tra gli storici. 16

Dato questo contesto storico-culturale e politico, è chiaro a tutti che è importan­te non soltanto una meta-osservazione pluralistica e aperta delle prospettive secon­do cui la funzione delle storiografie tedesche può essere vista, ma soprattutto un'e­splicita presa di posizione sulla questione stessa di quali siano i contenuti delle con­cezioni storico-scientifiche. A questo proposito bisogna ricordare, nonostante tutte le necessarie critiche al discorso storiografico della RDT, che la stessa storiografia tedesco-occidentale, se viene vista nella continuità delle linee principali della sto­riografia tedesca, ha un passato problematico per quanto riguarda il rapporto con la democrazia. Questo passato consiste nella continuità degli orientamenti dominanti e delle posizioni della maggior parte dei "sacerdoti di Clio"17 tra i "mandarini tede­schi"18, a partire dall'impero, passando per il rifiuto della repubblica di Weimar e la comoda sopportazione del regime nazista- se non il sostegno ad esso-, fino al par­ziale riorientamento, accompagnato da una sostanziale conservazione della tradi­zione, nei primi decenni dopo la guerra. 19

Se ci si interroga sulle conseguenze, le opportunità e i pesi negativi, che deriva­no dal mutamento delle funzioni, dei ruoli e delle tradizioni delle storiografie tede­sche nelle diverse cesure di sistema e nei diversi rapporti tra democrazia e dittatu­ra, allora anche la corresponsabilità degli storici tedeschi per la destabilizzazione della democrazia dopo il 1918, per il passaggio alla dittatura nazista e per il poco convinto abbandono di quest'eredità dopo il1945 rientra nell'ambito della compa­razione.20

Al contrario, nel dibattito sulla RDT e sulla sua storiografia si mettono ora in evidenza da un lato la riuscita della democrazia della Repubblica federale e gli indi­scutibili successi della sua storiografia- a partire dagli anni Sessanta- nell'analisi critica dell'epoca nazionalsocialista e dall'altro lato i pesanti deficit dell'antifasci­smo della RDT e della storiografia da esso ispirata.21 Ciò è senza dubbio giustifica­to dalla necessità di evidenziare i cambiamenti in senso democratico del pensiero storico e della storiografia dell'Ovest e le notevoli pregiudiziali antidemocratiche del discorso storiografico della RDT. Da un lato, però, nella vecchia Repubblica federale non sono mai state del tutto superate e negli ultimi .anni sono state perfino

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Problemi del discorso storiografico nella Germania unificata

parzialmente riprese le continuità del pensiero storico orientato a destra. Di questo si parlerà più diffusamente più avanti.

Dall'altro lato, ancora più importante per il nostro problema di comparazione è il fatto che le alternative e le responsabilità della storiografia tedesco-occidentale e tedesco-orientale nel dopoguerra spesso non sono più viste all'interno del paralleli­smo storico originato dalla guerra fredda prima e dalla coesistenza dei sistemi poi, cioè all'interno della comune distanza sempre precaria dal passato fascista e della competizione tra i sistemi. Si afferma invece sempre più una prospettiva di con­danna dell'intera storiografia della RDT, in cui alla fine solo quest'ultima appare restare nella tradizione della dittatura e del totalitarismo - si tratta certo di uno stato d'eccezione della storia della storiografia, che impedisce ogni possibilità di trovar­vi contenuti e soluzioni utili per l'abbandono dei vecchi sviluppi errati della storia tedesca 22 e in generale anche solo di cercarvi dei risultati scientifici rilevanti.23

Questa tendenza era presente fin dal principio anche nella critica radicale degli ex dissidenti e di un gruppo di giovani storici riuniti nello Unabhangigen Historikerverband, che originariamente era orientata in modo diverso, essendo rivolta a un rinnovamento autonomo della RDT contro il suo vecchio potere.24

Quanto più ci si allontana dal1989, tanto più i suoi più accesi sostenitori si confor­mano oggi de facto in gran parte ai più rigidi rappresentanti della posizione di pola­rizzazione tra gli storici tedesco-occidentali 25 e anzi li superano nella indifferenzia­ta analogia tra le "due dittature".26

Ritengo invece che i profitti e le perdite dei cambiamenti odierni della cultura storica dopo il 1990 debbano essere messi in rapporto con tutti i passati problema­tici e con il ruolo svoltovi dagli storici tedeschi e che questi cambiamenti non deb­bano invece essere visti solo come un ripagamento della colpa e della compromis­sione della storiografia della RDT, contrapposte ad una non problematizzata nor­malità democratica dell'Ovest. Ciò vale tanto più per quanto riguarda un'analisi delle discussioni attuali sulla storia all'interno e all'esterno della disciplina- senza parlare del fatto che nell'analisi dovrebbero essere inclusi anche confronti interna­zionali sul rapporto con i passati problematici. 27

II Il discorso sistemico e la fine della storiografia della RDT.

La RDT e le condizioni generali dell'unificazione sono il vero luogo del rivol­gimento e della trasformazione nello sviluppo della scienza storica. Il processo, che non ha paragoni storici, dell' inglobamento di un intero stato - la RDT - nel fino allo­ra opposto sistema economico, sociale, costituzionale e culturale della Repubblica federale tedesco-occidentale fu qui legato a un incisivo cambiamento di élites, che riguardò in modo particolarmente forte la storiografia.28 Il riordinamento consisté nella imposizione a livello istituzionale e personale del sistema d'insegnamento e di ricerca tedesco-occidentale e inoltre nella dissoluzione strutturale della storiografia della RDT. Dopo la cosiddetta Evaluierung 29 e la ristrutturazione, esistono solo sto­rici, che sono stati (in pochi casi) assunti con una nuova chiamata nella nuova orga-

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Wolfgang Kiittler

nizzazione scientifica oppure che (in numero maggiore) vi sono impiegati in posti temporanei sulla base di programmi di promozione; inoltre molti degli storici col­piti dalla Abwicklung continuano a lavorare o individualmente o all'interno delle molte associazioni sorte nella Germania orientale. Una parte non trascurabile del potenziale complessivo di storici esistente prima del 1989 è completamente esclu­sa dal discorso specialistico, per il passaggio ad altri lavori, per la disoccupazione, per il prepensionamento o per il raggiungimento dell'età della pensione.

Il quadro fenomenologico esteriore mostra, anche fatte salve le distinzioni tra le singole persone e le singole ricerche, più un'interruzione che una transizione, in quanto non vi è più continuità nelle istituzioni, negli istituti di ricerca e negli approcci teorico-metodologici. Le cause di ciò possono esser tuttavia solo in parte ricercate nella politica scientifica perseguita dopo il trattato d'unificazione, che domina apparentemente i dibattiti, per essere criticata o giustificata. Le cause più profonde risalgono alla perdita del contesto sociale, statale e teorico (marxista­leninista), in cui la storiografia della RDT poté formarsi e svilupparsi distintamen­te.

Il discorso storiografico - specialistico e non specialistico - nella RDT era in primo luogo un discorso di sistema, in cui la storia mondiale era interpretata come uno sviluppo verso il socialismo-comunismo e l'epoca dopo il1917 era vista come la realizzazione progressiva di questo sviluppo.30 La concezione che "il socialismo reale (significasse) la realizzazione del progresso sociale nella nostra epoca"3', cioè significasse una fase di sviluppo sociale superiore rispetto al capitalismo e succes­siva a questo, era vincolante. La proiezione dell'intera storia tedesca sul socialismo della RDT doveva nello stesso tempo servire - questo accadde in modo maggiore verso la fine della RDT - il sempre precario aspetto nazionale della coscienza stori­ca.32 La dottrina marxista-leninista della formazione sociale, della rivoluzione e delle classi ottenne così una doppia posizione monopolistica in quanto base ideolo­gica e teoria sociale vincolante. 33 Nello stesso tempo, le teorie, i metodi e gli sche­mi contenutistici dovevano restare legati alle concezioni del marxismo classico e quindi a tutta l'eredità progressiva, umanistica e democratica nella storia dell'uma­nità, in modo che veniva mantenuta la disponibilità ad un pensiero storico più ampio e più aperto dal punto di vista euristico. La specializzazione professionale nella metodologia e nella ricerca pratica fu non solo possibile, ma divenne anche necessaria quanto più la storiografia della RDT si sviluppò su proprie basi, e que­sto non solo all'interno di nicchie, ma per impulso ufficiale. Spinte importanti verso una progressiva scientifizzazione derivarono dai cambiamenti della situazione internazionale dopo la metà degli anni Cinquanta e dopo il XX congresso del PCUS.34

Ma questo cambiamento non si collocava fuori dal discorso di sistema specifi­co; esso doveva piuttosto - e così era anche concepito soggettivamente dagli storici della RDT - esser strumentale al successo dello sviluppo di questo discorso, come lo era la comunicazione nella comunità scientifica internazionale. La contraddizio-

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Problemi del discorso storiografico nella Germania unificata

ne tra le condizioni generali sotto molti aspetti abnormi della storiografia e la sua crescente professionalità era, se non apparente, intrinseca.35

L' ineliminabile contraddizione di un' "ecumene storiografica"36 profondamente divisa secondo i sistemi, ma pure capace di cooperazione, che Erdmann ha con­statato a proposito dei Congressi storici internazionali dopo il 1960, vale quindi in modo particolare per il tipo di storiografia, che si era sviluppato nella RDT. I suoi risultati divennero compatibili con quelli delle storiografie occidentali nella misura in cui il discorso di sistema sia si scientifizzò all'interno del socialismo reale, sia si internazionalizzò, anche a seguito dei cambiamenti di prospettiva delle scienze sociali e storiche ad occidente.37

Con il passaggio a quella mescolanza di confronto e di cooperazione, che carat­terizzò il conflitto Est-Ovest dopo la fine della vera e propria guerra fredda, prima negli USA, in Francia e in Gran Bretagna e poi anche nella Repubblica federale divennero influenti delle correnti delle scienze sociali ed umane, che tenevano conto anche dal punto di vista contenutistico della concorrenza tra i sistemi. Vennero sviluppate teorie della società industriale, della crescita e poi della moder­nizzazione nella prospettiva di una trasformazione interna e di una riforma degli stati industriali occidentali e anche come risposta ai movimenti d'indipendenza nel Terzo mondo, al socialismo reale e al marxismo. In una prospettiva in cui una modernità occidentale riflettuta criticamente veniva assunta come modello di un progresso generale sociale, economico e culturale, la generale coesistenza dei siste­mi fu considerata come un fenomeno di lunga durata delle differenze della moder­nizzazione tra Primo, Secondo e Terzo mondo. In questa prospettiva, i sistemi socia­listi creati dopo il 1917 e il 1945 apparivano come sviluppi che divergevano dalle società moderne, ma che rispondevano a problemi simili.38

Concetti di questo genere furono recepiti in modo crescente nella storiografia tedesco-occidentale dopo gli anni Sessanta.39 Il loro effetto era legato, in dichiarato contrasto con la tradizione fino ad allora conservatrice della storiografia tedesca, al rifiuto, con un chiaro orientamento verso l'Occidente, di vie peculiari nazionali della storia tedesca e all'accettazione critica della doppia statualità tedesca, vista ora, nel contesto generale, in tempi lunghi. All'interno della scienza il cambiamen­to di prospettiva trovò espressione in una storiografia critica "al di là dello storici­smo"40, nella "scienza sociale storica"4\ cioè in concezioni di storia sociale e strut­turale teoricamente orientate, come per esempio quella della Gesellschaftsgeschichte (storia della società).42 La ricerca storica e la storiografia dovevano svilupparsi in stretta cooperazione con le scienze sociali; a questo propo­sito fu importante la ricezione di Marx e di Max Weber.43 In questo contesto susci­tarono il principale interesse, anche per la storia tedesca del XIX e del XX secolo, i problemi della costituzione e del mutamento strutturale delle società moderne, della loro stratificazione sociale e delle differenze di classe, della rivoluzione e della riforma, del capitalismo e del socialismo.

In questo modo si rafforzò a poco a poco anche la ricezione critica dei risultati

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Wolfgang Kiittler

delle direzioni di ricerca con tematiche simili nella RDT, non soltanto in settori di poco rilievo politico, ma anche in settori con impostazione teorica come la storia sociale ed economica,44 la storia comparata delle rivoluzioni,45 le ricerche sulla Riforma e sulla guerra dei contadini e sulla rivoluzione borghese in Germania nel XIX secolo.46 Persino nella storia contemporanea, che nella RDT fu esposta dall'i­nizio alla fine a interventi e a strumentalizzazioni politiche particolarmente forti, per esempio le ricerche sulle due guerre mondiali 47 e sulla storia dell'imperialismo e del fascismo 48 rappresentarono - grazie alla loro metodologia, alle loro proble­matiche e ai loro risultati - dei seri stimoli per la ricerca anche secondo i criteri tede­sco-unitari e internazionali.49

Questo contesto è andato perduto nel 1989-90, provocando nella corporazione storica della RDT una grave perdita d'orientamento e una generale crisi di paradig­mi, che ci sarebbe stata anche senza la rimozione operata dalla politica scientifica. Il comportamento degli storici della RDT n eli' autunno del 1989 mostra chiaramen­te i limiti della loro possibilità -e non mi considero certo un'eccezione- di pensa­re a un mondo senza il socialismo che conoscevano. Soltanto una minoranza parte­cipò anche solo ai dibattiti e alle pubblicazioni autocritici durante e dopo il rivolgi­mento. 50

La questione di quanta disponibilità all'innovazione vi fosse tra gli storici affer­mati della RDT, e per che cosa, è rimasta una domanda controfattuale. Infatti prima del 1989 gli storici non poterono esprimersi e poi il processo del riordinamento determinato dalla parte occidentale passò presto sopra le differenze di posizioni basate sul sistema della RDT. Una riforma fondamentale della cultura storica della RDT, compresi l'insegnamento e la ricerca, era comunque inevitabile, e un'ipoteti­co rivolgimento autonomo nella RDT avrebbe probabilmente causato delle con­traddizioni e delle polemiche interne, fino a una vera lacerazione.

Nel contesto del riordinamento determinato dalla parte occidentale, si irrigidì sempre più, a partire circa dall'estate del 1990, il giudizio proveniente sia dall'in­terno, da parte dello Unabhangigen Historikerverband, che dall'esterno, dalle osser­vazioni dei colleghi tedesco-occidentali, che ci fosse una fondamentale incapacità di rinnovamento. Gli sforzi, senza dubbio presenti, di operare distinzioni oggettive e di realizzare un comune ripensamento critico dell'organizzazione scientifica tede­sca finirono su posizioni difensive, sia allivello delle decisioni politiche sulla scien­za che nella discussione sui contenuti, dove ebbe il sopravvento la già indicata cri­tica globale, in cui l'intero sviluppo della storiografia della RDT appare dal punto di vista funzionale abnorme e dal punto di vista sostanziale secondario o addirittu­ra privo d'importanza.51

Tra gli storici della RDT ancora scientificamente attivi hanno ormai effetto le caratteristiche del nuovo sviluppo generale socio-culturale, politico e scientifico in cui essi sono stati posti, con modi di reazione molto diversi. All'inizio furono molto diffusi l'insicurezza e l'adattamento al nuovo sistema e, soprattutto tra i più giova­ni, anche il rapido recepimento delle interpretazioni e delle istituzioni di ricerca

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tedesco-occidentali. In questo contesto, i tentativi di riallacciarsi alle idee marxiste, di rielaborare criticamente le tradizioni passate della RDT, devono comunque tro­vare nuove forme di comunicazione. Anche il controdiscorso, a cui partecipa atti­vamente una serie di storici della RDT, è obbligato a riorientarsi su prospettive, che vadano al di là degli abituali schemi Est-Ovest o capitalismo-socialismo, se vuole superare la sindrome estremamente controproduttiva della sconfitta, che rimanda solo a se stesso chi ne viene colpito.52

Il bilancio dei profitti e delle perdite apportati dalla storiografia della RDT alla scienza e alla cultura storica in Germania non si esaurisce tuttavia, in prospettiva, soltanto in questo bilancio della svolta e dell'unificazione, cioè nella decisione pre­valsa nel sistema di discorso. Il bilancio del passato e le decisioni attuali sono piuttosto dei problemi particolari in contesti più generali, in cui si collocano sia l'in­grandita Repubblica federale che la scienza storica tedesco-occidentale, che ora determina le regole.

III Il ritorno dello stato nazionale e i cambiamenti della scienza storica tedesco­occidentale come scienza storica della Germania unita.

Con la forza normativa che hanno i fatti, la storiografia tedesca a finanziamento pubblico rappresenta sostanzialmente la continuità della storiografia tedesco-occi­dentale prima del1989. Le critiche generali e le analisi delle prospettive assumono, come se fosse del tutto naturale, i contenuti e le controversie della storiografia tede­sco-occidentale come un fondamento e un continuum per l'intera Germania.53

Questa certezza si trova in tutte le scuole e le correnti, ciascuna delle quali rivendi­ca il merito di essere più vicina alle necessità sorte dopo la cesura del 1989-90. Si tratta tuttavia di un inganno, soprattutto perché le tradizionali controversie del discorso storiografico della vecchia Repubblica federale partono da una costella­zione, che è essa stessa il risultato del periodo della storia dei sistemi in Germania e in Europa, che è finito con il 1989-90. Il ritorno alla situazione di uno stato nazio­nale unitario non rappresenta certamente un'ora zero, ma ha cambiato fondamen­talmente il pensiero storico e la concettualizzazione storiografica da due punti di vista: da un lato attraverso il ritorno della storia nazionale nel ruolo di prospettiva dominante e dall'altro lato - un aspetto legato al primo da un rapporto di reciproco rafforzamento - attraverso la disputa storiografica sulla RDT. I cambiamenti di lungo periodo riguardanti il primo aspetto sono avvenuti già prima del 1989. Le interpretazioni conservatrici della storia nazionale, profondamente radicate nel pen­siero storico, avevano presto trovato nel neostoricismo un fondamento metodologi­co e concettuale modificato e parzialmente adattato ai nuovi tempi, con cui, a par­tire dalla fine degli anni Settanta, poterono rapidamente riguadagnare terreno. I loro rappresentanti continuavano a sentirsi legati ai criteri ermeneutico-narrativi della storiografia e ai valori conservatori e misero in dubbio fin dal principio la validità cognitiva di una storiografia con impostazione teorica.54 Essi si opposero molto aspramente all'influenza delle scienze sociali sul pensiero storico-umanistico. Si

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affermò invece una ripresa della storia politica, della storia delle persone e degli eventi,55 che era comunque intrecciata in modo flessibile alla storia sociale e alla Kulturgeschichte (storia della civiltà). Nella rappresentazione fu inoltre data pre­ferenza alla narrazione.

Dal punto di vista dei contenuti, mantennero la loro tradizionale priorità sia i principi d'identità particolari dei popoli, delle regioni e delle culture, che le carat­teristiche comuni cristiano-occidentali delle società borghesi - come nel concetto di Nipperdey di un' "unità nella molteplicità" storica.56

In questo contesto, la RDT era considerata come una separazione, dovuta a una costrizione esterna, dal normale sviluppo nazionale tedesco, mentre l'esperimento socialista nell'Europa centrale e orientale in generale era visto sempre più come ciò che aveva violentemente soppresso e messo a tacere con l'imposizione i preceden­ti sviluppi multietnici, nazionali e culturali in quest'area, il cui ritorno era conside­rato presto o tardi inevitabile. Tuttavia né venne normalmente diagnosticata una rapida fine della coesistenza dei sistemi, né fu messa veramente in dubbio la possi­bilità della comunicazione e della cooperazione con gli storici della RDT, soprat­tutto a seguito della discussione sulla tradizione nazionale degli anni Ottanta.57

In generale, nonostante tutte le controversie, furono mantenuti un accordo di fondo e una compatibilità con le correnti della nuova scienza storica critica e con i loro metodi, che si basavano sui principi liberali, dello stato sociale e di diritto e sulla comune contrapposizione al socialismo est-europeo. Poiché il confronto fra sistemi era rivolto principalmente al contrasto tra le dittature del XX secolo e le società aperte occidentali, la teoria in sé eterogenea e discussa del totalitarismo poté, all'interno dell'apparentemente stabile dualismo Est-Ovest, servire come involucro concettuale di un discorso comune.58 Un altro elemento di conciliazione fu il fatto che negli anni Settanta le critiche di fondo al nazismo ottennero un con­senso molto maggiore sia nelle discussioni pubbliche che grazie ai considerevoli progressi delle ricerche specialistiche di storici di orientamenti diversi.

Dall'altro lato, non fu mai veramente superato il fenomeno del nazionalismo conservatore di destra, che cercava di cambiare in senso revisionistico il rapporto con la storia tedesca, soprattutto riguardo la questione della colpa e della responsa­bilità per i crimini fascisti. Nuovi attacchi in questa direzione si annunciarono già nel cosiddetto Historikerstreit del1986. Certo allora la controversia sull'unicità dei crimini fascisti finì inequivocamente a sfavore della nuova destra. Ma l'alternativa, che fu allora estremizzata, fra una "normalizzazione" della formazione dell'identità storico-nazionale da un lato e la responsabilità "patriottico-costituzionale"59 per la compromessa storia dei tedeschi nel XX secolo dall'altro lato, rese evidente l'esi­stenza di un dissidio fondamentale, che mostrava il cambiamento già generalizzato nella comprensione della storia. 60

Nello stesso tempo, anche gli impulsi di tutt'altro genere dello spirito del tempo postmoderno intaccarono il predominio del discorso dei sistemi, anche se nella Repubblica federale, e soprattutto nella sua storiografia, ciò successe in ritardo e in

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forma ridotta. Nella filosofia e nelle scienze umane questi impulsi furono legati al nuovo orientamento del pensiero storico verso la linguistica, la teoria letteraria, la semiologia e la filosofia del linguaggio (linguistic turn), che ebbe origine in Francia e negli Stati Uniti. Anche se negli anni Ottanta gli approcci, ispirati da queste posi­zioni, della storia del quotidiano, della storia delle mentalità e della nuova Kulturgeschichte hanno guadagnato terreno e influenzano molto significativamente il discorso interdisciplinare delle scienze e l'interesse per la letteratura storica, essi non hanno raggiunto dal punto di vista della cultura storica la stessa importanza che hanno in Francia e negli USA.61 A causa del ritardo della ricezione del pensiero postmoderno, le sue componenti di critica radicale 62 furono superate dalle tenden­ze conservatrici dello spirito del tempo occidentale, che si affermarono intanto in tutt'Europa, e furono in parte cancellate per la mobilità dei confini del postmoder­no con il culturalismo conservatore. Il dominante orientamento epocale di segno conservatore verso un aspro rifiuto del socialismo e del marxismo e di tutti i pro­getti di teoria sociale, delle utopie e delle filosofie della storia 63 si incontra, soprat­tutto nel discorso pubblico, con la critica della ragione e dell'Illuminismo da parte del postmoderno, per quanto quest'ultimo potesse avere all'origine altre motivazio­ni. Per quanto riguarda la storiografia, vi sono delle affinità nella critica dei concetti teorici della storia sociale e della storia strutturale. Lo storicismo e il postmoderno si sono così rivelati per un certo verso del tutto compatibili nel rifiuto del discorso della storia del sistema. 64

Le conseguenze del crollo del sistema nella RDT e della ricostituzione dello stato nazionale si ripercuotono ora come catalizzatori su questa situazione già in movimento. La "RDT come storia"65 è diventata, dopo l'apertura degli archivi e di fondi documentari normalmente non accessibili, un oggetto di ricerca, che gode di un momento di straordinario interesse, per l' attrattività delle fonti, ma soprattutto perché le discussioni sul passato tedesco hanno spostato l'attenzione sul socialismo della RDT. 66 Sebbene anche in questo settore la storiografia tedesco-occidentale sia dominante, non si è verificata una semplice riproduzione delle sue correnti e dei suoi rapporti. Invece i contrasti tra le diverse concezioni teoriche e della ricerca si incrociano e si sovrappongono in modo particolarmente complicato ai conflitti interni tedesco-orientali e alle attuali lotte di potere e di prestigio, che si sviluppa­no attorno alla riformata ricerca sulla RDT. 67

In questo contesto è stata nuovamente inasprita la disputa sulla storiografia della RDT, non soltanto attraverso controversi dibattiti sulle prospettive di ricerca, ma anche per mezzo di rivelazioni su coinvolgimenti con il sistema e su cpllaborazio­ni con la Stasi, fino al caso estremo delle polemiche su chi degli appartenenti a que­sta storiografia potesse ancora occuparsi di storia contemporanea con uno stipendio pubblico.68 La storiografia della RDT rappresenta un punto di scontro tra il dibatti­to pubblico e il contro-discorso degli intellettuali della RDT, che altrimenti non hanno punti di contatto. Lo si è potuto capire confrontando le discussioni della commissione d'inchiesta incaricata dal Bundestag con quelle di una commissione

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d'inchiesta alternativa. 69

Quando si parla in generale di una spaccatura nella discussione, sia pubblica che interna alla disciplina, sulla storia della RDT tra un discorso con forti sottolineatu­re morali-normative, da un lato, e un discorso tendente invece all'integrazione, pragmatico e capace di fare distinzioni, dall'altro/0 ciò è certamente vero per quan­to riguarda gli aspetti esteriori e lo stile della polemica. Nella sostanza però non si tratta tanto della morale o dell'analisi,71 quanto delle prospettive chiave, che stanno alla base sia degli aspetti estetico-emotivi, che di quelli cognitivi dell'approccio alla storia della RDT. E' qui che divengono importanti i contenuti, le posizioni politiche e i punti di vista sulla questione stessa, che ne derivano.

L'oggetto RDT ha perso il contesto rappresentato dal rapporto tra due stati e due sistemi e il discorso di sistema prosegue nella disputa storiografica interna a un solo stato. Così il sistema e la storia della RDT, nonostante le dichiarate intenzioni di fare delle distinzioni, vengono collocati, all'interno dell'immagine del contrasto tra la democrazia tedesca e le dittature tedesche, sempre più vicino al nazionalsociali­smo. Il dibattito sul rapporto tra fascismo-nazionalsocialismo e comunismo-socia­lismo della RDT- che ha come oggetto questioni interpretati ve di sostanza e non il metodo della comparazione storica - nel 1986 verteva ancora principalmente sulla unicità o sulla relatività dell'Olocausto.72 Oggi invece questa disputa si concentra quasi totalmente sul problema del socialismo reale come conseguenza del 1945 e su quello della somiglianza di sistema o della differenza di fondo tra il regime nazista e quello della RDT. Non a caso, l'obbiettivo privilegiato degli attacchi politici e anche teorici sono non solo le prospettive analitiche della ricerca tedesco-occiden­tale sulla RDT, ma anche i concetti teorici storico-strutturali e storico-sistemici in generale. Questo sebbene i metodi dell'analisi della trasformazione siano partico­larmente attuali e validi proprio per la modernizzazione di tipo occidentale dell'ex­RDT e dei vicini paesi orientali.73 Si va dall'accusa di aver fallito l'obbiettivo di creare una teoria predittiva, a quella di aver commesso un generale errore di valu­tazione del socialismo della RDT e di aver collaborato con le sue élites abusando della politica della distensione.74 Queste polemiche accelerano e rafforzano consi­derevolmente i cambiamenti del contesto generale del discorso storiografico e anche degli orientamenti degli specialisti sulla storia contemporanea e sui problemi fondamentali della scienza storica, che erano iniziati già prima del1989. Ciò ha già prodotto conseguenze molto evidenti all'interno e all'esterno della disciplina: l'im­magine della storia e la storiografia della RDT hanno perduto quasi completamen­te il loro ruolo di stimolo verso una persistente critica delle continuità del conser­vatorismo di destra in Germania. Nello stesso tempo non è trascurabile la riduzio­ne del consenso goduto dalle correnti della scienza sociale storica critica, che si concepivano come garanzia di una cultura storica critica, non solo rispetto all'Est, ma anche nella stessa Germania occidentale. Al contrario hanno ricevuto un note­vole impulso i metodi e le concezioni, che si collocano direttamente o indiretta­mente nella linea di una rideterminazione in senso neo-conservatore dell'identità e

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della collocazione della Germania, sia all'interno che verso l'esterno.75 In questo modo vengono riattivati sia gli aspetti conflittuali del discorso di sistema storiogra­fico, sia le controversie più antiche e più profonde sulla questione delle vie princi­pali e delle vie peculiari, sulla relativizzazione e sulla normalizzazione del ruolo dello stato nazionale tedesco nel XIX e nel XX secolo o sulla sua particolare com­promissione.76 Anche il campo di ricerca della "modernizzazione" viene crescente­mente occupato da concezioni d'orientamento conservatore.77

IV Contorni e problemi di un nuovo discorso storiografico.

Sullo sfondo dello scenario sopra descritto degli attuali dibattiti tedeschi sul pas­sato può nascere l'impressione che i conflitti provocati dalle due eredità critiche del conflitto tra sistemi, da un lato, e del fascismo e della guerra, dall'altro, vengano nuovamente combattuti, in una forma un po' modificata, così che il peso schiac­ciante dell'eredità storica, per usare la famosa metafora di Marx, faccia muovere la nuova scena storica, evocando i fantasmi del passato con i loro "nomi, grida di bat­taglia e costumi" e il loro linguaggio.78

Su questo "palcoscenico" è evidente un'avanzata generale del pensiero storico conservatore, con un corrispondente spostamento del "centro", con delle punte estreme di radicalismo di destra ai margini e inoltre con dei chiari sintomi di incer­tezza e di confusione nella cosiddetta sinistra. 79 Ciò non può stupire dopo il fiasco del socialismo di tipo sovietico dell'epoca dopo il 1917 e dopo quello del corri­spondente esperimento tedesco nella RDT.80

Questo trend conservatore e anche tendenze di estrema destra sono presenti, con differenti sintomi nazionali e storici, in tutt'Europa e negli Stati Uniti. Negli altri paesi le tendenze di estrema destra sono addirittura più forti e politicamente più influenti che in Germania. Ma il fatto è che anche qui entrambi i fenomeni si raffor­zano in conseguenza della nuova unità nazionale inquieta e dividono gli animi all'interno e all'estero in modo più forte che altrove- oggi come in passato.

I dubbi e le preoccupazioni che si potrebbe preparare una nuova via speciale non sono come minimo diminuiti, visti gli attentati contro gli stranieri e le attività neo­naziste, e non vengono alimentati soltanto dai fenomeni di estrema destra. I vecchi principi di coscienza antidemocratici di destra, originati da precedenti tradizioni,81 e quelli nuovi, provocati, soprattutto tra i giovani,82 da una precaria incertezza dei valori, rappresentano senza dubbio dei pericoli per l'accordo democratico. Oggi più che mai vi è un dovere particolare, che deve essere sempre tenuto vivo e che non finisce mai, di stare attenti che il nazionalismo estremo, il radicalismo di destra e il razzismo non possano più prendere il potere in alcuna forma.

Non ritengo tuttavia che il problema critico del nuovo discorso storiografico tedesco-unitario sia il pericolo diretto del ritorno degli sviluppi errati del passato tedesco, per quanto gli effetti di quest'ultimi debbano essere senza dubbio presi sul serio. Mi sembra più pericoloso che la reciproca intransigenza tra tedeschi occiden­tali e tedeschi orientali, che derivava dal vecchio conflitto dei sistemi e che ora è

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nuovamente risorta, e le tradizionali divisioni politico-ideologiche a "sinistra" e a "destra" del centro, con le incrostazioni di gravose eredità storiche non elaborate o riattualizzate, si ergano come nuovi "muri della storia". Così sorgono infatti degli auto-blocchi, che impediscono di vedere il bisogno di un cambiamento comune in un mondo che si trasforma velocemente. Nuove spinte in questo senso sono a mio parere rappresentate nella parte occidentale dalla rafforzata coscienza della conti­nuità e del successo, che ostacola la disponibilità a cambiamenti,83 e nella parte orientale da una contrapposizione, che rende difficile a coloro che erano impegnati nel socialismo della RDT di rivolgersi in modo costruttivamente critico ai rapporti mutati. 84

Da un lato è diventato di moda fare i conti con le conseguenze del passato nazi­sta in analogia con gli effetti del comunismo. Ciò succede, come si è accennato, anche nel discorso specialistico. Ne sono esempi significativi la disputa sull'inte­grazione o sull'esclusione dei comunisti per quanto riguarda la resistenza tedesca in occasione del cinquantesimo anniversario dell'attentato a Hitler del20 luglio 194485

e ora le controversie sull'8 maggio 1945, considerato o come una liberazione, oppu­re come una cesura che condusse a una nuova ingiustizia.86

A destra viene dichiarata la vittoria definitiva nella "guerra civile delle ideolo­gie",87 nel senso in cui E. Nolte alla fine degli anni Ottanta aveva caratterizzato l'in­tera epoca delle guerre e delle rivoluzioni, compresi il fascismo e i suoi crimini, come una lotta difensiva e preventiva contro la rivoluzione mondiale sovietica.88 La cesura del 1989-90 ha insieme il valore di conferma a posteriori del pensiero stori­co conservatore borghese e viene suggellata dal punto di vista teorico con la "vitto­ria silenziosa" della teoria del totalitarismo, applicata in modo analogo alla RDT e al regime nazista.89 L'accettazione positiva della democrazia viene in questo modo commisurata a un sentire comune definito in modo unilaterale "antitotalitario" e viene quindi inserita in un teorema, che fin dalla nascita viene interpretato in modo differente e controverso e finora non ha veramente creato un tale consenso. La resi­stenza nell'opinione pubblica e il rifiuto da parte degli specialisti non sono certo scarsi,90 ma è anche indiscutibile che il numero di coloro che accettano questo tipo di riflessione supera di molto il gruppetto di conservatori di destra del 1986.91

Vorrei definire ciò, schematicamente, come la trappola del totalitarismo, la cui seduzione consiste nel fatto che conservatori di destra, liberali, movimenti civici tedesco-orientali e sinistra occidentale vengono avvinti da un'immagine del nemi­co rivolta non solo contro l'esperimento socialista nella parte orientale, ma anche contro l'idea e la pratica di concezioni sociali interventistiche e trasformatrici. Questo orientamento si esplica in primo luogo nella negazione, per mezzo della delimitazione e dell'esclusione, e in ultimo fa sì che il mettere in rapporto il passa­to della RDT e quello nazista abbia un risultato pa{ticolarmente nefasto: la tenden­za diretta o indiretta verso la "normalizzazione" del secondo al prezzo della demo­nizzazione del primo.92 I moniti riguardo a un pericoloso "stare dalla parte sbaglia­ta",93 che soprattutto all'estero ha causato preoccupazione,94 non sono quindi ingiu-

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stificati. Paradossalmente, l'unilateralità e l'incompletezza delle controversie e degli orientamenti di pensiero, che traggono impulso dal tradizionale confronto tra modernità occidentale e socialismo reale, tra discorso nazionale e discorso sistemi­co, si rivelano proprio negli aspetti decisivi di continuità del cambiamento sociale, che vanno oltre il 1989. Il nuovo nella Germania unificata è in realtà, da un punto di vista internazionale, la "normalità" estremamente contradditoria e precaria della civiltà occidentale, che è come prima, e ora sempre più universalmente, dominata dal capitalismo.

Il pensiero storico e la storiografia in Germania - di nuovo unitari, senza confi­ni di sistema, ma in un grande stato nazionale e sotto l'influenza determinante tede­sco-occidentale - sono posti in questo contesto. Le caratteristiche dello spirito epo­cale dominante, che punta oggi in una direzione determinata, sono la critica della ragione, l'abbandono di progetti sociali e di idee di progresso, lo scetticismo verso la conoscenza storica razionale in genere. La nuova oscurità (Uniibersichtlichkeit) del pensiero storico e della filosofia 95 e la tendenza, che vi è connessa, ali' irra­zionalismo, all'estetizzazione e all'individualizzazione unilaterale e inoltre al gene­rale scetticismo della ragione e della scienza 96 sono l'espressione di una diffuso e problematico sentimento di una svolta epocale, che non soltanto è privo di apertura verso nuove visioni, ma se ne dichiara esplicitamente estraneo. Nella loro globalità questi sintomi sono stati giustamente indicati, in una sintesi dello sviluppo degli ultimi due decenni apparsa poco dopo la "svolta", come la "doppia crisi del post­moderno e del marxismo".97 In questa formula trovano espressione dei mutamenti socio-culturali ed ideali, che sono generali, pur avendo caratteristiche contrastanti e trovandosi all'interno di contesti diversi: da un lato, le mostruose possibilità e insieme le rovinose conseguenze della razionalità strumentale, dall'altro il falli­mento del socialismo, il più importante progetto alternativo rispetto alla modernità.

Nella Germania odierna le preoccupazioni e le insicurezze generali causate dai sintomi di crisi politica, economica, ecologica e demografica della civiltà moderna si combinano alle incertezze sul futuro ruolo del ricostituito stato nazionale unita­rio e sulla difficile trasformazione della ex RDT.

I generali mutamenti socio-culturali hanno da tempo trasformato le strutture e i modelli di pensiero del milieu sociale in trasformazione.98 Nello stesso tempo, anche i vecchi problemi del capitalismo - l' ineguaglianza sociale, la disoccupazio­ne, ecc. - si sono accentuati in modo nuovo. Il nuovo contesto nazionale e la demo­crazia rappresentativa di tipo occidentale realizzata a livello tedesco-unitario non hanno oggettivamente eliminato del tutto i problemi delle precedenti storie dei sistemi. Non sono stati eliminati né gli impulsi ad un orientamento storico in un mondo di vita che è caratterizzato dalle diseguaglianze dell'economia di mercato capitalistica e dai nuovi rischi della civiltà, né i problemi teorici di un mutamento sociale, culturale e scientifico, che è più profondo che in altre epoche di rivolgi­mento.

Da ciò deriva anche un modo diverso di considerare l'eredità della RDT- al di

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là delle prospettive di liquidazione o di legittimazione e contrario. Come si è mostrato, nel discorso storiografico riguardo alla RDT è dominante in questo momento l'interpretazione che fosse un sistema con aspetti arretrati e anzi pre­moderni.99 In questo modo però vengono perse di vista le possibilità creative e pro­duttive del sistema normativo e della coscienza storico-politica della RDT - sia riguardo alla tradizione del marxismo classico e a quella umanistica e protestante, che furono preservate a livello individuale ed ufficiale,100 sia per i potenziali d'in­novazione, che dopo il fallimento del socialismo reale potrebbero stimolare delle future forze modernizzatrici. 101

La prospettiva del divario di modernizzazione tra Est e Ovest, che secondo Weidenfeld si mostra nello scontro tra uno "shock da modernizzazione" della popo­lazione della RDT da un lato e di un "rafforzato orizzonte occidentale" nei vecchi Uinder dall'altro, 102 spiega solo insufficientemente i presupposti della trasformazio­ne dopo l'unificazione. In questa prospettiva infatti la vecchia Repubblica federale appare come un modello di sviluppo prefissato e immutabile, così come l'Occidente nel suo complesso rispetto al Secondo e al Terzo mondo.

Poiché gli sviluppi reali dopo il 1990 mostrano ovunque i limiti di questa pro­spettiva, 103 questa cesura non rappresenta affatto la conferma delle attuali concezio­ni occidentali e dei loro scenari. Essa indica piuttosto la necessità di una nuova apertura della ricerca storica e delle scienze sociali.

Bisognerebbe fondare questa diagnosi sull'intera letteratura e su tutta la ricerca storiografica, sui cambiamenti delle diverse scuole e delle varie correnti sotto l'in­flusso delle nuove questioni e dei vecchi problemi posti in modo nuovo. Naturalmente ciò dovrebbe costituire il tema di un'altro saggio. Sarebbe però molto importante un'analisi tendenziale della scienza nel suo contesto storico-culturale. 104

A ciò si ricollega il. citato contro-discorso di settori intellettuali della vecchia RDT, che da un lato rappresenta per certi versi l'altra faccia della liquidazione glo­bale, ma dall'altro lato tematizza anche queste nuove prospettive del cambiamento sociale nella Germania unificata. 105 Per quanto riguarda i contenuti, viene sottoli­neato il carattere alternativo della società della RDT, non solo rispetto al passato fascista, ma anche rispetto al capitalismo in generale. Il circolo vizioso vittoria­sconfitta, che caratterizza questo pensiero per ragioni che sono a un primo sguardo senza dubbio plausibili, in considerazione delle molte nuove ingiustizie, è tuttavia spesso determinato da una prospettiva del chi vince su chi della lotta per il potere politico e culturale-storico, che, con i suoi effetti repressi vi, ha avuto una parte non trascurabile nel fallimento dell'esperimento del socialismo reale. Se quindi la cri­tica degli sviluppi errati nel sistema della RDT e della propria corresponsabilità si limita a riconoscere il fallimento di una causa tuttora ritenuta migliore, si rimane ancora ai margini della questione centrale di come si debba definire e collocare il socialismo come strategia di risoluzione dei problemi dopo le esperienze del1917-1989 e le necessità della fine di questo secolo. 106 E' logico che su questo le opinio­ni siano divise e che questo discorso abbia al suo interno posizioni altrettanto dif-

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ferenti, quanto quelle esistenti nell'opinione pubblica in generale. 107

Ritorno, concludendo, alla prospettiva per una storiografia critica delineata all'i­nizio. L'affermazione della validità di determinati orientamenti storici tramite l'e­sclusione, la rimozione e la repressione del diverso e dell'estraneo è cosa che in Germania ha una lunga tradizione, che viene attualmente fatta rivivere da più parti. 108 Da un lato, gli effetti reali e ideali del conflitto Est-Ovest e del passato nazi­sta in questa tradizione possono dare impulso, anche in un contesto formalmente democratico, a nuovi discorsi di potere e a reazioni corrispondenti. Dall'altro lato, vi sono senza dubbio possibilità e opportunità per un aperto dialogo comune sui "passati tedeschi" e sui futuri orientamenti storici.

Note

l. Cfr. J. Rusen, Geschichtskultur als Forschungsproblem, in: dello stesso, Historische Orientierung. Ùber die Arbeit des GeschichtsbewuBtseins, sich in der Zeit zurechtzufinden, Koln-Weimar-Wien 1994, soprattutto pp. 248 ss.

2. Cfr. la risoluzione "zum Umgang mit Zeitgeschichte in der Offentlichkeit", Lipsia 30.9.1994, in Verband der Historiker Deutschlands. Mitteilungsblatt 1995, Gottingen 1995, pp. 30 s.

3. Cfr. W. Kuttler-J. Rusen-E. Schulin (edd), Geschichtsdiskurs, vol. l: Grundlagen und Methoden der Historiographiegeschichte, Frankfurt am Main 1993, in particolare la Einleitung, pp. 11-13.

4. Cfr. K. Piitzold, La storiografia nella ex DDR in retrospettiva; H. Gies, Rieducazione o rinnova­mento? Esperienze sul rivolgimento nell'insegnamento e nell'apprendimento della storia in Germania dopo ill989, entrambi in questo volume.

5. Cfr. per una sintesi W. Weidenfeld (ed), Deutschland. Eine Nation doppelte Geschichte. Materialien zum deutschen Selbstverstiindnis, Koln 1993.

6. Cfr. H. G. Hockerts, Zeitgeschichte in Deutschland. Begriff, Methoden, Themenfelder, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 29-30, 16.7.1993, pp. 3 ss.

7. Cfr. P. Steinbach, Zur Geschichtspolitik, in J. Kocka-M. Sabrow (edd), Die DDR als Geschichte, Berlin 1994, pp. 159 ss.

8. M. Kossok, Im Gehiiuse selbstverschuldeter Unmundigkeit oder Umgang mit der Geschichte, in "BZG", 1993, fase. 2, pp. 24 ss.

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Wolfgang Kiittler

9. Questo punto viene trattato ampiamente in W. Kiittler, Geschichtstheorie und-methodologie in der DDR, in "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", 42, 1994, fasc.l, pp. 8 ss., qui p. 19.

10. Questo punto è trattato più ampiamente in W. Kiittler, Marxistische Geschichtswissenschaft heute, in l. S. Kowalczuk (ed), Paradigmen deutscher Geschichtswissenschaft. Ringvorlesung an der Humboldt Universitiit zu Berlin, Berlin 1994, pp. 211 ss.

Il. Cfr. Ch. Meier, Wir sind ja keine normale Nation, "Di e Zeit", 21.9.1990, p. 7.

12. Cfr. la discussione generale sul tema del convegno del9.10.1994, in questo volume.

13. Cfr., dal punto di vista occidentale, W. Weidenfeld (ed), Deutschland, cit., Einleitung, pp. 9 s. e, da quello orientale, J. Hofmann, Zeitgeschichtliche Erfahrungen, soziale Pragungen, ldentifikation. Ostdeutsche Zwischenbilanz der deutschen Einheit, in dello stesso e altri (redd), Zwischen AnschluB und Zukunft II: Beitrage zu einer ostdeutschen Zwischenbilanz, Potsdam 1994, pp. 5-21.

14. Oltre a W. Weidenfeld (ed), Deutschland, cit., cfr. U. Uffelmann (ed), Identitatsbildung und GeschichtsbewuBtsein nach der Vereinigung Deutschlands, Weinheim 1993.

15. Cfr. K.H. Jarausch, Die unverhoffte Einheit 1989-1990, Frankfurt/Main 1995, soprattutto pp. IO ss., 327 ss.

16. Cfr. J. Kocka, Die Geschichtswissenschaft in der Vereinigungskrise, in "Initial. Zeitschrift fiir sozialwissenschaftlichen Diskurs", 1991, 2, pp. 132 ss.

17. Cfr. W. Weber, Priester der Klio. Historisch sozialwissenschaftliche Studien zur Herkunft und Karriere deutscher Historiker und zur Geschichte der Geschichtswissenschaft 1800-1970, Frankfurt/Main 1984.

18. Cfr. F. Ringer, Die Gelehrten. Der Niedergang der deutschen Mandarine 1890-1933, Miinchen 1987, soprattutto pp. 12 ss., 385 ss.

19. V. G. G. Iggers, Deutsche Geschichtswissenschaft. Eine Kritik der traditionellem Geschichtsauffassung von Herder bis zur Gegenwart, Miinchen 1971 (prima ed. americana 1968); E. Schulin (ed), Deutsche Geschichtswissenschaft nach dem Zweiten Weltkrieg (1945-1965), Miinchen 1989; W. Schulze, Deutsche Geschichtswissenschaft nach 1945, Miinchen 1989.

20. Nel dibattito in corso, ha richiamato l'attenzione su quest'aspetto W. Schulze, Das traurigste Los aber traf die Geschichtswissenschaft. Die DDR-Geschichtswissenschaft nach der deutschen Revolution, in R. Eckert-W. Kiittler-G. Seeber (edd), Krise Umbruch Neubeginn. Eine kritische und selbstkritische Dokumentation der DDR Geschichtswissenschaft 1989/90, Stuttgart 1992, pp. 219 s. (in origine in "Geschichte im Wissenschaft und Unterricht", 41, 1990, pp. 683 ss.).

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Problemi del discorso storiografico nella Germania unificata

21. In generale su questo dibattito v. J. Danyel (ed), Die geteilte Vergangenheit. Zum Umgang mit Nationalsozialismus und Widerstand in beiden deutschen Staaten, Berlin 1995.

22. Cfr. K. H. Jarausch, Kritische Perspektiven zur deutschen Vergangenheit: Folgen der Vereinigung fiir die Geschichtswissenschaft, in Jarausch-M.Middell (edd), Nach dem Erdbeben.(Re) Konstruktion ostdeutscher Geschichte und Geschichtswissenschaft, Leipzig 1994, pp. 21 ss.

23. Cfr. la critica agli sforzi di storici americani come Georg Iggers e Konrad H. Jarausch per una valu­tazione oggettiva nelle recensioni di Alexander Fischer ("Historische Zeitschrift", 260, 1995, pp. 131 s.), un autore che, significativamente, prima del 1989 aveva valutato molto diversamente i risultati della storiografia della DDR: v. A. Fischer - G. Heydemann, Die DDR-Geschichtswissenschaft, 2 voll., Berlin 1988-89.

24. Questa posizione è documentata in R. Eckert-1. S. Kowalczuk-1. Stark (edd), Hure oder Muse?. Klio in der DDR. Dokumente und Materialen des Unabhangigen Historikerverbandes, Berlin 1994.

25. Cfr. A. Mitter-S. Wolle, Inquisitoren auf der Faultierfarm (articolo della "Frankfurter Allgemeine Zeitung" del9.9.1993), ibidem, pp. 276 ss.

26. 1112.6.1995 è stato presentato il libro di I. S. Kowalczuk-S. Wolle-A. Mitter, Der Tag X 17. juni 1953, Berlin 1995, dove si trova tra l'altro la tesi facilmente commerciabile della "nazificazione" della SED dopo il1953 (Kowalczuk). Cfr. "Berliner Zeitung", 14.6.1995, p. 6.

27. Approcci a questo problema in C. Burrichter-G. Schodl (edd), "Ohne Erinnerung keine Zukunft". Zur Aufarbeitung von Vergangenheit in einigen europaischen Gesellschaften unserer Tage, Koln 1992 e W. Bielas-R. Possekel (edd), Der Blick zuriick nach vom. Geschichtsdenken im osteuropaischen Umbruch, Hagen 1994.

28. Cfr. J. MittelstraB, Turning the Tables. Ùber den beispiellosen Umbau eines Wissenschaftssystems, in E. Fromm-H. J. Mende (edd), Vom Beitritt zur Vereinigung. Schwierigkeiten beim Umgang mit deutsch-deutscher Geschichte. Akademische Tage des Luisenstadtischen Bildungsverein e.V., 21. 27.10.1993, Berlin 1993, pp. 28 ss.

29. Cfr. Wissenschaftsrat. Stellungnahme zu den auBeruniversitaren Forschungseinrichtungen auf dem Gebiet der Geisteswissenschaften, Diisseldorf 5.7.1991, soprattutto pp. 17 ss. e 124 ss.

30. Programm der Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, Berlin (Ost) 1976.

31. W. Eichhom e altri, Marxistisch leninistische Philosophie, Berlin (Ost) 1979, pp. 530 e ss. (e in tutti i manuali e nelle opere di consultazione).

32. Cfr. il Vorwort zur Gesamtausgabe della Deutsche Geschichte in zwOlf Banden, a cura del

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Wolfgang Kiittler

Zentralinstitut fiir Geschichte der AdW der DDR, Berlin 1982 89 (voli. l 5, 9), in ogni vol. alle pp. 5 s.

33. Per una critica dall'interno cfr. M. Kossok, Was bleibt von der Revolution und ihrer Theorie? Ein Gedankenspiegel in dreizehn Thesen, in "'Z'. Zeitschrift marxistischer Emeuerung", 1992, fase. 12.

34. Sullo sviluppo teorico cfr. K. Naumann, Òkonomische Gesellschaftsformation und historische Formationsanalyse, KOln 1983.

35. Cfr. A. Fischer-G. Heydemann, Weg und Wandel der Geschichtswissenschaft und des Geschichtsverstandnisses in der SBZ/DDR seit 1945, in degli stessi (edd), Die DDR Geschichtswissenschaft, ci t., vol. l, pp. 9 ss.

36. Cfr. K. D. Erdmann, Die Òkumene der Historiker. Geschichte der Internationalen Historikerkongresse und des Comité Intemational des Sciences Historiques, Gottingen 1987, pp. 337 ss.

37. Cfr. G. Heydemann, Geschichtswissenschaft im geteilten Deutschland, Frankfurt am Main 1981, soprattutto pp. 217 ss., 235 ss.

38. Cfr. D. Geyer, Die russische Revolution. Historische Probleme und Perspektiven, Stuttgart 1968, pp. 130 ss.

39. Cfr. H. U. Wehler, Modernisierungstheorie und Geschichte, Gottingen 1975, pp. 51 ss.

40. Cfr. W. J. Mommsen, Geschichtswissenschaft jenseits des Historismus, Diisseldorf 1971.

41. Cfr. J. Kocka, Sozialgeschichte. Begriff-Entwicklung-Probleme, Gottingen 1977.

42. Cfr. M. Hertling e altri (edd), Was ist Gesellschaftsgeschichte? Positionen, Themen, Analysen. H.U. Wehler zum 60. Geburtstag, Miinchen 1991.

43. J. Kocka, Sozialgeschichte, cit.

44. Cfr. G. G. lggers (ed), Ein anderer historischer Blick. Beispiele ostdeutscher Sozialgeschichte, Frankfurt am Main 1991.

45. Lo stato della ricerca marxista sulle rivoluzioni prima del 1989 è riassunto in M. Kossok (ed), Vergleichende Revolutionsgeschichte. Probleme der Theorie und Methode, Berli n (Ost) 1988.

46. Cfr. W. Schmidt, Die 1848er Revolutionsforschung in der DDR, in "Zeitschrift fiir die Geschichtswissenschaft", 42, 1994, fase. l, pp. 21 ss.

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Problemi del discorso storiografico nella Germania unificata

47. Sull'esempio della ricerca sull'imperialismo e sulle guerre mondiali v. F. Klein, Der erste Weltkrieg in der Geschichtswissenscahft der DDR, in "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", 42, 1994, fase. 4, pp. 293 ss.

48. Cfr. U. Hebert-0. Groehler, Zweierlei Bewiiltigung. Vier Beitriige iiber den Umgang mit der NS Vergangenheit in beiden deutschen Staaten, Hamburg 1992.

49. I più importanti sviluppi della ricerca sono documentati in H. Heitzer e altri (edd), Studienbibliothek DDR Geschichtswissenschaft, voli. 1-1 O, Berlin 1981 89.

50. Cfr. R. Eckert-W. Kiittler-G. Seeber (edd), Krise-Umbruch-Neubeginn. Eine kritische und selb­stkritische Dokumentation der DDR-Geschichtswissenschaft 1989/90, Stuttgart 1992 e R. Eckert- I.­S. Kowalczuk- I. Stark (edd), Hure oder Muse?, cit.; v. anche "Initial", 1991, fase. l e 2, e "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 17-18, 17.4.1992.

51. Così dice il "Poscritto" di un'analisi di H. U. Wehler, Sebstverstiindnis und Zukunft der westdeut­schen Geschichtswissenschaft, in K.H. Jarausch-J. Riisen-H. Schleier (edd), Geschichtswissenschaft vor 2000. Perspektiven der Historiographiegeschichte, Geschichtstheorie, Sozial-und Kulturgeschichte. Festschrift fiir Georg G. lggers zum 65. Geburtstag, Hagen 1991, pp. 75-81, qui pp. 78 s.

52. R. Mocek, UnzeitgemiiBes iiber "siegreiche" und "unterlegene" Kulturen, in E. Fromm-H. J. Mende (edd), Vom Beitritt zur Vereinigung, cit., pp. 237 ss.

53. Cfr. W. J. Mommsen, Die Geschichtswissenschaft nach der "demokratischen" Revolution in Osteuropa, in "Neue Rundschau", 105, 1994, fase. l, pp. 75 ss.

54. Questa discussione ha caratterizzato il dibattito sui principi tedesco-occidentale degli anni Settan­ta e dell'inizio degli anni Ottanta. Cfr. R. Koselleck - W.J. Mommsen -J. Riisen, Objektivitiit und Parteilichkeit, Miinchen 1978; K.-G. Faber- Ch. Meier (edd), Historische Prozesse, Miinchen 1978; J. Kocka - Th. Nipperdey (edd), Theorie und Erziihlung in der Geschichte, Miinchen 1979; R. Koselleck - H. Lutz - J. Riisen, Formen der Geschichtsschreibung, Miinchen 1982.

55. Esemplare Th. Nipperdey, Deutsche Geschichte 1866-1918, 2 voli., Miinchen 1990.

56. Th. Nipperdey, Einheit und Vielfalt in der neueren Geschichte, in "Historische Zeitschrift", 253, 1991, fase. l.

57. Cfr. J. H. Brinks, Di e DDR Geschichtswissenschaft auf dem Weg zur deutschen Einheit, Frankfurt 1992, soprattutto pp. 309 ss., che interpreta con delle forzature questa discussione come il ritorno del nazionale da entrambe le parti.

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58. Cfr. tra l'altro K. D. Bracher, Zeitgeschichtliche Erfahrungen als aktuelles Problem, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 11, 1987.

59. Questo concetto è di D. Sternberger, Verfassungspatriottismus, Frankfurt am Main 1990.

60. Cfr. J. Habermas, Eine Art Schadensabwicklung, in "Historikerstreit". Eine Dokumentation der Kontroverse um di e Einzigartigkeit der nationalistischen Judenvernichtung, Miinchen 1987, pp. 62 ss.; trad. it., Una sorta di risarcimento di danni, in Germania: un passato che non passa, a cura di G. E. Rusconi, Torino 1987, pp. 11-24. Contrapposto a M. Stiirmer, Geschichte i m geschichts1osen Land, in "Historikerstreit", cit., 36 ss.

61. Cfr. G. G. lggers, Geschichtswissenschaft im 20 Jh., cit., pp. 87 ss.

62. Cfr. H. P. Kriiger, Postmoderne als das kleinere Ùbel. Kritik und Affirmation in Lyotards "Widerstreit", in dello stesso, Demission der Helden. Kritik von innen 1983-1992, Berli n 1992, pp. 182 ss.

63. Cfr. J. Fest, Der zerbrochene Traum. Vom Ende des utopischen Zeitalters, Berlin 1991.

64. Cfr. F. Ankersmit, Historismus, Postmoderne und Historiographie, in "Geschichtsdiskurs", l, pp. 65 ss

65. Cfr. i materiali in J. Kocka-M. Sabrow (edd), Die DDR als Geschichte, cit.

66. Una rassegna è fornita da J. Kocka, Di e Geschichte der DDR als Forschungsproblem, in dello stes­so (ed), Historische DDR-Forschung. Aufsatze und Studien, Berlin 1993, pp. 9 ss.

67. Cfr. R. Eckert-1. S. Kowalczuk-U. Poppe (edd), Wer schreibt die DDR Geschichte? Ein Historikerstreit um Stellen, Strukturen, Finanzen und Deutungskompetenz, Evangelische Akademie Berlin Brandenburg, "Nachlese", 9, 1994.

68. Cfr. gli articoli e le lettere dei lettori sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung" del l 0.8, 24.8, 25.8, 7.9, 9.9, 2.10 e 4.11.1993.

69. Cfr. il rapporto della commissione d'inchiesta Aufarbeitung von Geschichte und Folgen der SED Diktatur in Deutschland, Deutscher Bundestag. 12. Wahlperiode, Drucksache 12/7820 del31.5.1994 e J. Cerny, Erkunden oder aufarbeiten? Un/arten des Umgangs mit deutscher Zeitgeschichte, in "Utopie kreativ", 47-48, settembre-ottobre 1994, pp. 13 ss.

70. Cfr. su questo K. H. Jarausch, in M. Sabrow-P. Walther (edd), Historische Forschung in der SBZIDDR, Berlin 1995.

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Problemi del discorso storiografico nella Germania unificata

71. Cfr. M. Kiipper, Geschichte, Moral und Moralisieren. Potsdamer Forschungszentrum zur DDR stellt sich vor, in "Der Tagesspiegel", 10.6.1993, p. 18.

72. Cfr. "Historikerstreit", ci t.

73. J. Kocka, Ùberraschung und ErkHirung. Was die Umbriiche von 1989/90 fiir die Gesellschaftsgeschichte bedeuten konnten, in M. Hettling e altri (edd) Was ist Gesellschaftsgeschichte?, cit., soprattutto pp. 19 ss.

74. Cfr. A. Mitter-S. Wolle, Der Bielefelder Weg, in degli stessi (edd), Hure oder Muse, cit., soprat­tutto pp. 264 ss.

75. Lo storico di Bielefeld Wehler descrive in questi termini nel suo scritto polemico sulle controver­sie del1986/87 delle tendenze che sono molto attuali. Cfr. H. U. Wehler, Entsorgung der deutschen Vergangenheit? Ein polemischer Essay zum "Historikerstreit", Miinchen 1988; trad. it., Le mani sulla storia, Firenze 1989.

76. Cfr. la discussione generale Sackgasse aus dem Sonderweg - zum Ort der DDR in der europaischen und deutschen Geschichte, in J. Kocka- M. Sabrow (edd), Die DDR als Geschichte, cit., pp. 197 ss.

77. Cfr. H. Moller, Die Relativitat historischer Epochen: Das Jahr 1945 in der Perspektive des Jahres 1989, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 18 19/95, 28.4.1995, pp. 3 ss.

78. K. Marx, Der achzehnte Brumaire des Louis Bonaparte, in MEW, Berlin 1956 ss., vol. 8, p. 115.

79. Cfr. i contributi di S. Geschke, Nichts richtig, nichts iibrig? Ein Stimmungsbild der ideellen Gesamtlinken, N. Seitz, Die "What's right?"- Debatte. Das zaghafte Herantasten an eine zivile Rechte e H. Vorlander, What's liberai? Der Liberalismus zwischen Triumph und Erschopfung, tutti in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 10/95, 3.3.1995.

80. Cfr. P. Glotz, Die Linke nach dem Sieg des Westens, Stuttgart 1992, pp. 49 ss.

81. W. Weidenfeld (ed), Deutschland, cit., pp. 22, 16 19.

82. H. Klages-Th. Gensicke, Geteilte Werte. Ein deutscher Ost West Vergleich, ibidem, pp. 47 ss.

83. Cfr. W. Lepenies, Folgen einer unerhorten Begebenheit. Die Deutschen nach der Vereinigung, Berlin 1992.

84. Sui dibattiti a questo proposito, tenuti soprattutto nella PDS, v. l'appello di 38 personalità In groBer Sorge, in "Neues Deutschland" del 18.5.1995, p. 3, su cui W. Gehrke, Die Sorge um die PDS, in "Neues Deutschland", 20 21.5.1995, p. 3 e U. J. Heuer, Allererster Anfang eines Dialogs, ibidem, 23.5.1995, p. 5.

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85. Cfr. P. Steinbach, Teufel Hitler Belelzebub Stalin?, in "Zeitschrift fiir Geschichtswissenschaft", 1994, fase. 7, pp. 651 ss.

86. Cfr. l'appello 8 Mai 1945 gegen das Vergessen, in "Frankfurter Allgemeine Zeitung", 7.4.1995.

87. Cfr. E. Nolte, in "Frankfurter Allgemeine Zeitung", 17.2.1990.

88. E. Nolte, Der europiiische Biirgerkrieg: 19I7-1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus, Frankfurt am Main I987; trad. it., Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea I917-1945, Firenze I989.

89. Così J. Habermas commenta giustamente l'interpretazione conservatrice di destra del I989. Cfr. J. Habermas, Geliihmte Politik, in "Der Spiegel", 28, I2.7.1993, p. 55.

90. Cfr. i contributi controversi alla Enquetekommission del Bundestag di H. Mi:iller, Sind nationalso­zialistische und kommunistische Diktaturen vergleichbar? e J. Kocka, Nationalsozialismus und SED Diktatur in vergleichender Perspektive, in "Potsdamer Bullettin fiir historische Studien", 2 (dicembre I994), pp. 9 ss. e 20 ss.

91. Cfr. Weltbiirgerkrieg der ldeologien. Antworten an Emst Noite. Festschrift zum 70. Geburtstag, a cura di Th. Nipperdey, A. Doering Manteuffel e H.U. Thamer, Berlin I993.

92. R. Zitelmann, Historiographische Vergangenheitsbewiiltigung und Modernisierungstheorie, in B. Faulenbach-M. Stademmaier (edd), Diktatur und Emanzipation. Zur russischen und deutschen Entwicklung I 917 I99 I, Essen I 993, pp. III ss.

93. Cfr. B. Faulenbach, Die doppelte Herausforderung. Nationalsozialismus und Stalinismus als Herausforderungen zeithistorischer Forschung und poiitischer Kuitur, in J. Danyel (ed), Geteilte Vergangenheit, cit., pp. 107 ss.

94. Cfr. M. Zimmermann, Die Erinnerung an Nationalsozialismus und Widerstand im Spannungsfeld deutscher Zweistaatlichkeit, ibidem, pp. I33 ss.

95. Cfr. J. Habermas, Die neue Uniibersichtlichkeit, Frankfurt am Main 1985.

96. H. Schniidelbach, Zur Rehabilitierung des animai rationale, in dello stesso, Vortriige und Abhandlungen, vol. 2, Frankfurt am Main I992, soprattutto pp. I2 ss.

97. Introduzione dei curatori in K. Jarausch-J. Riisen-H. Schleier (edd), Geschichtswissenschaft vor 2000, cit., p. I6.

98. Cfr. M. Veste-P. von Oertzen-H. Geiling-Th. Hermann-D. Miiller, Soziale Milieus im gesellschaf­tlichen Strukturwandei, Ki:iln I 993.

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99. Cfr. R. Possekel, Abrechnen mi t dem Realsozialismus, in "Berliner Debatte Initial", 1994, fase. 5.

100. Cfr. H. P. Kriiger, Das strukturelle Ratsel "DDR" und die protestantische Mentalitat der ostdeut­schen Mehrheit, in dello stesso, Demission, pp. 27 ss.

101. Cfr. S. Hradil, Die Modemisierung des Denkens. Zukunftspotentiale und "Altlasten" in Ostdeutschland, in "Aus Politik und Zeitgeschichte", B 20, 1995, 12.5.1995, soprattutto pp. 10 ss.

102. W. Weidenfeld, Deutschland nach der Vereinigung: Vom Modernisierungschock zur inneren Einheit, in dello stesso (ed), Deutschland, cit., pp. 16 s.

103. Cfr. K. Miiller, Vom Post Kommunismus zur Postmodernitat? Zur Erklarung sozialen Wandels in Osteuropa, in "Kolner Zeitschrift fiir Soziologie und Sozialpsychologie", 47, 1995, fase. l, pp. 37 ss.

l 04. Cfr. R. Chartier, Zeit der Zweifel. Zum Verstandnis gegewartiger Geschichtsschreibung, in "Neue Rundschau", 105, 1994, fase. l, pp. 9 ss.

105. Cfr. Ansichten zur Geschichte der DDR, voli. l 5, Berlin 1993 ss.

106. Cfr. per una critica il brano Gibt es noch einmal einen Anfang?, in F. Schorlemmer, Zu seinem Wort stehen, Miinchen 1994, pp. 183 ss.

107. Cfr. la incessante discussione su socialismo, capitalismo e modernità in riviste come "Utopie kreativ", "Berliner Debatte Initial" e soprattutto "Neues Deutschland".

108. Cfr. M. Geyer, Geschichte als Wissenschaft fiir eine Zeit der Uniibersichtlichkeit, in K. H. Jarausch-M. Middell (edd), Nach dem Erdbeben, (Re-)Konstruktion ostdeutscher Geschichte und Geschichtswissenschaft, cit.

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IV Il crollo del blocco sovietico

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Francesco Benvenuti Università di Bologna

Fine del comunismo e riflessione storico-nazionale in Russia

L'argomento che mi accingo a esporre non esaurisce quello, assai più ampio, indicato dal titolo di questo convegno. Per motivi di concisione e di chiarezza ho scelto di occuparmi solo di una parte del lavoro di riflessione e di ricerca storiogra­fica svolto in Russia negli ultimi anni. Mi propongo così di affrontare soltanto un problema (in realtà, di un insieme di problemi), per quanto di natura straordinaria­mente generale, che ha sicuramente orientato in modo decisivo il lavorio della coscienza civile di molti russi postsovietici nel corso degli ultimi anni. Mi riferisco al problema del posto che deve essere assegnato al periodo sovietico nel quadro complessivo della storia della Russia moderna. Alla soluzione di un tale problema è evidentemente legato, nella coscienza civile della Russia attuale, lo scioglimento di un nodo intellettuale e culturale assai intricato, un viluppo di questioni strettosi assieme durante l'intero corso della storia della Russia contemporanea, prima e dopo la Rivoluzione. Si tratta dell'identità storico-nazionale russa dopo il crollo del comunismo sovietico. Data la natura generale di un tale argomento, ho ritenuto legittimo fare uso sia di opinioni espresse da storici di professione, sia da intellet­tuali non specialisti di storia.

E' evidente che un tema del genere potrebbe essere adeguatamente trattato solo da parecchi punti di vista, anche assai specialistici. Ad esempio, è chiaro che la defi­nizione di un nuovo profilo dell'identità nazionale in quel paese non è solo legato alle forme della coscienza storica ma anche all'andamento del processo di ridefini­zione politica dei territori dello Stato sovietico, che si annuncia assai lungo e tutt'al­tro che unilineare.

Io mi limiterò ad accennare al rapporto che diverse correnti di opinione in Russia tendono a stabilire tra la cultura politica e l'ambiente socio-economico della Russia prerivoluzionaria, da un lato, e quelli prevalsi dopo il 1917, dali' altro. In certi con­testi, presso alcuni autori, il problema viene anche presentato come quello della continuità o meno della logica storica che ha presieduto agli sviluppi interni e internazionali di quel paese dalla fine del XVII secolo alla fase finale della pere­stroika.

Ancora una volta, è mio scrupolo avvertire che questo non è stato certo l'unico interrogativo che i russi hanno rivolto al proprio passato da quando il governo di M.S. Gorbachev autorizzò una discussione storica, ampia e non pregiudiziale, verso

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la fine dell987. Al contrario, si può dire che da questo momento fino al 1990 la maggior parte degli interventi nella discussione hanno dibattuto un tema diverso da quello oggetto della mia attenzione. Si trattava della continuità o meno della storia del bolscevismo, tra periodo delle origini e stalinismo; e tra quest'ultimo e i regimi politici stabilitisi al tempo di Khrushchev e di Brezhnev. Sia in Russia che all'este­ro la questione è stata ed è tuttora indicata frequentemente con la formula del "pro­blema delle alternative allo stalinismo", o delle "varianti non realizzate di sviluppo del socialismo" .1 A partire dagli anni centrali della perestroika il rappresentante russo più serio e autorevole di questa tendenza è V.P. Danilov, con la sua argomen­tazione in favore dell'esistenza di un"'alternativa buchariniana".2 Analoghe tenden­ze di opinione erano nate tra gli storici occidentali già negli anni Settanta, quando si legarono soprattutto ai lavori di S.F. Cohen e M. Lewin.3 Anche in questo caso abbiamo dinanzi un insieme di questioni cruciali per la storia russa e mondiale del XX secolo: la loro trattazione presenterebbe comunque difficoltà non facilmente superabili all'interno di una concisa presentazione individuale.

Il problema della continuità del bolscevismo, in Russia, ha essenzialmente cor­risposto a un atteggiamento della coscienza politica e civile del paese che oggi è probabilmente superato dall'evoluzione tumultuosa degli eventi negli anni a noi più vicini. Il problema delle "alternative", infatti, nasceva ancora all'interno dei valori del socialismo sovietico. Non si può negare che esso non rispecchiasse un momen­to cruciale nell'evoluzione degli interrogativi attorno all'identità nazionale. Ma è opportuno riconoscere che la discussione sulle "alternative" formulava solo in una forma particolare e, in parte, politicamente condizionata, l'interrogativo di fondo. Quel dibattito, in altre parole, poneva essenzialmente il problema di quale tipo di socialismo l'URSS fosse stata portatrice. Il termine di paragone tendeva a essere ridotto a un singolo atto fondativo della storia russa contemporanea, la rivoluzione d'Ottobre, con il suo arsenale etico e programmatico originario. Una tale imposta­zione presupponeva così la negligenza, almeno momentanea, del rapporto tra l'Ottobre e il passato russo.

Porre, invece, il problema dell'identità nazionale russa nel suo senso più pieno significa chiedersi se il periodo sovietico debba essere considerato essenzialmente una tappa storica estranea al corso della storia nazionale, un processo innescato essenzialmente dall'esterno di questa storia o comunque un episodio parentetico nel corso del suo svolgimento. Alternativamente, si dovrebbe riconoscere che il perio­do sovietico ha rappresentato uno sviluppo e una prosecuzione storicamente legitti­ma della vicenda nazionale, una sua tappa organica, almeno per aspetti sostanziali. Probabilmente, questa impostazione dei problemi della storia nazionale è più con­gruo al grado attuale di coscienza civile dei postsovietici.

La singola trattazione nella quale la prima delle due tesi (quella dell'"estraneità", per intendersi) è stata esposta nel modo più chiaro è un lungo saggio di A.Tsipko, apparso nell'inverno 1987-88. L'Autore vi sosteneva diverse proposizioni, stretta­mente legate tra loro. In primo luogo, la politica di Stalin doveva essere considera-

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ta una derivazione diretta dal corpo dottrinale del marxismo. Di conseguenza, veni­va sdegnosamente rigettata l'idea che il passato russo abbia potuto fornire una qual­che base d'appoggio allo stalinismo. Riprendendo una vecchia e discutibile tesi, Tsipko era al più disposto a concedere che il marxismo radicale aveva potuto attec­chire saldamente solo tra l' intelligentsiia russa, presentata come un gruppo sociale sradicato e del tutto non rappresentativo della società prerivoluzionaria. La seguen­te è l'affermazione dell'Autore per noi più rilevante:

"Non capisco come alcuni pubblicisti si sforzino di trovare nelle concezioni sta­liniane del socialismo qualcosa di peculiare, di russo, di patriarcale . . . non sono certo nel giusto coloro che vedono lo stalinismo come una rinascita della tradizio­ne patriarcale russa. Il conservatorismo patriarcale russo ha i suoi peccati. Ma esso non aveva il desiderio scatenato dei nostri dogmatici provenienti dal marxismo di cercare ancora una volta di costruire la vita sui principi utopistici della Comune di Owen, squassando nel frattempo l'eredità culturale della civiltà umana." 4

M.Geller e A.Nekrich (due storici russi emigrati già prima dell'inizio della pere­stroika) qualche anno prima avevano declinato una percezione analoga in modo altrettanto chiaro e significativo: rivoluzione bolscevica e stalinismo vengono dal medesimo tentativo di imporre alla realtà sociale un programma essenzialmente utopico, cioè storicamente gratuito in massimo grado. Lo stato sovietico non può essere considerato un'eredità del dispotismo zarista, né una conseguenza dei tratti nazionali, storici e religiosi della Russia. Esso fu piuttosto "uno stato di tipo nuovo, basato su di un'ideologia di tipo particolare: uno stato totalitario con un'ideologia totalitaria".5

L'idea che delle costruzioni dottrinali, o progetti "utopici", possano costituire l'essenza stessa di fenomeni storici complessi come lo stalinismo può dar luogo a obiezioni di fondo, anche sul piano metodologico.6 Tuttavia, tali tentativi di spie­gazione possono essere giustificati dalle sconcertanti capacità di distruzione, mani­festate dai "totalitarismi" del XX secolo, che possono sembrare a stento riconduci­bili all'interno della dimensione propria della storia. E' questa circostanza che può indurre ad affermare la loro provenienze da una dimensione "ideologica" peculiare della prima metà del secolo, come sembra suggerire Geller. Di qualità incommen­surabilmente inferiore sono, invece, quelle posizioni di altri autori russi dei nostri giorni che attribuiscono il successo del bolscevismo nel loro paese, nel 1917, a un "complotto" internazionale, ebraico o massone.7

A differenza di queste ultime, la legittimità intellettuale della posizione di Tsipko e di Geller è, mi pare, confermata dal fatto che perfino uno storico del calibro di A. Mayer ha mostrato in proposito una significativa e drammatica oscillazione. Nel suo ultimo studio sulla genesi della politica nazista di sterminio antiebraico, Mayer attribuisce la decisione dell'Olocausto sia all'evoluzione dell'antisemitismo laico moderno, successivo alla Rivoluzione francese; sia ad uno schumpeteriano ritorno della Germania alla dimensione arcaica, spirituale e psicologica, della "guerra tota­le", della "guerra ideologica", delle Crociate e della guerra dei Trent'anni, dovuto

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agli sconvolgimenti senza precedenti causati dalla prima e dalla seconda guerra mondiale.8 Si tratta, forse, di uno dei più solidi e, al tempo stesso, appassionati ten­tativi di spiegare con il metodo della storia ciò che sembra uscire dai limiti di que­sta. Uno storico russo che avremo modo di incontrare ancora, M.Ia. Gefter, in un primo momento era sembrato arretrare dinanzi ad ogni tentativo di spiegare stori­camente gli orrori dello stalinismo:

"Stalin e il sangue sono inseparabili. E non solo il sangue umano, di cui la sto­ria (tutta!) è impregnata. No, egli è a tal punto legato a un tale eccesso di sangue, in tutte le sua azioni, che ciò spezza ogni spiegazione razionale: e di lui stesso, e di noi e della storia come tale.9

Il più chiaro e conseguente rappresentante dell'opinione della "continuità" e "organicità" della storia nazionale è stato I.Kliamkin, con un suo intervento della fine dell987. 10 Gli sviluppi della Rivoluzione, e in particolare l'industrializzazione e la collettivizzazione staliniane, sono stati da questi presentate come la riproposi­zione nel XX secolo di un caratteristico modello di sviluppo russo. Manifestatosi per la prima volta sotto Pietro il Grande, esso sarebbe stato in incubazione già nei secoli del dominio tartaro e nell'opera di Ivan il Terribile. Arretrata dal punto di vista economico e militare, agli albori dell'epoca moderna la Russia disponeva di un solo atout per dotarsi dei mezzi con cui sostenere efficacemente la concorrenza internazionale delle potenze e assicurare la difesa nazionale: il potere autocratico, fortemente centralizzato, costituitosi in una tremenda lotta per la sopravvivenza e il territorio già nei primi secoli di questo millennio. Lo stato non aveva alternative all'esercizio del proprio straordinario potere di coercizione al fine della mobilita­zione integrale delle scarse risorse interne, materiali e umane.

Ma esso conseguì i propri obiettivi solo al prezzo di mantenere profonde e ster­minate sacche di arretratezza sociale e civile. L'organizzazione autoritaria, patriar­cale della società, e gran parte della sua originaria struttura socio-culturale si man­tennero anche ben addentro al periodo sovietico. Questi aspetti conservatori e regressivi furono ancora una volta rafforzati dalla ripresa dello sforzo di moderniz­zazione su larga scala compiuto sotto Stalin, ancora una volta sotto la pressione di un ambiente internazionale ostile. Come già al tempo di Pietro, essi furono conser­vati proprio dalla straordinaria tensione verso la modernizzazione. Di qui sarebbe uscita l'Unione Sovietica contemporanea, che ha continuato a presentare gli stessi tratti di illibertà, crudezza e primitività nei rapporti politici e sociali e di illimitato predominio dello stato già caratteristici della Russia tradizionale.

Nella primavera dell988 V. Seliunin intervenne con un saggio assai affine per il suo contenuto a quello di Kljamkin, per quanto con sensibili differenziazioni di ana­lisi.11 In modo meno deterministico di quest'ultimo, Seliunin vedeva in tutto il corso della storia della Russia moderna lo scontro di due principi, quello del mercato e quello statalista. Il primo, tuttavia, sarebbe stato sconfitto in alcune decisive batta­glie campali, combattute tra l'epoca di Ivan IV e quella di Pietro I. Verso la fine del secolo scorso l'economia di mercato e il capitalismo di tipo europeo-occidentale

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avrebbero finalmente avuto maggiori chance di affermarsi. Ma l'ideologia antimer­cato della Rivoluzione distrusse ancora una volta l'embrione di una "normale" società borghese; ed avvenne così che, per quanto paradossale anche questo feno­meno possa apparire, il bolscevismo aprì la strada alla rivincita del principio socio­economico storicamente prevalente nella storia russa, lo statalismo. Al pari di quel­le di Tsipko e Geller, la visione di Kliamkin e Seliunin tradisce l'influenza di alcu­ni cliché, comuni anche a diverse trattazioni storiche occidentali. Nel periodo a noi più vicino, ad esempio, l'esistenza di uno specifica dinamica politica russa di "rivo­luzione dall'alto", da Pietro a Stalin, è stato affermato da R.C. Tucker. 12 Th. von Laue sottolineò a suo tempo la continuità esistente tra l'industrializzazione zarista e sovietica negli ulitmi due secoli. 13

Un altro eminente storico russo, Gefter, ha dato alla luce alcuni saggi il cui con­tenuto generale e alcune precise formulazioni dei quali possono fondatamente esse­re indicati a complemento e ulteriore illustrazione della tesi di Kliamkin. 14 Gefter ha definito con una terminologia assai suggestiva la logica ininterrotta dell'evoluzione storia russa come dettata dall'imperativo della "potenza a spese dello sviluppo": la potenza dello stato, cioè, avrebbe costantemente risucchiato le risorse materiali, umane e intellettuali del paese, dando luogo a una sorta di caratteristico e parados­sale circolo vizioso di modernizzazione-arretratezza. Per Gefter le riforme gorba­cheviane e l'apparizione del "nuovo modo di pensare" segnavano non solo, e direi non tanto, il momento finale della crisi del comunismo sovietico, quanto la fine di un ciclo multisecolare della storia nazionale. Quest'ultima appariva così, retrospet­tivamente, dagli anni della perestroika, come sostanzialmente unificata sotto l'egi­da di un forte principio monistico. La logica della "potenza a spese dello sviluppo", secondo Gefter, sarebbe infatti iniziata al tempo di Pietro e culminata nello stalini­smo. Verso la fine degli anni Venti, cominciò a delinearsi desolantemente l'incon­gruità dell'originaria prognosi leniniana sull'avvento di una "rivoluzione mondia­le"; e l'economia sovietica cominciò a urtare contro precisi limiti, che sembravano precluderle un rapido e indolore processo di sviluppo. La scelta di Stalin fu allora quella di promuovere quanto più possibile, a qualsiasi costo e per qualsiasi eve­nienza, il potenziale industriale e difensivo del paese. In tal modo il paese sarebbe ripiombato nella tradizionale logica della politica di potenza, con le sue drammati­che implicazioni sulla vita sociale e civile interna.

La tesi del carattere organico del periodo sovietico alla logica di sviluppo della storia russa ridimensiona drasticamente, come è chiaro, il ruolo della dottrina e del programma bolscevichi nella nascita dello stalinismo e, di conseguenza, nel dura­turo assetto preso in quegli anni dalla società sovietica. Nell'argomento di Kliamkin e di Gefter, la domanda stessa se quella società potesse dirsi socialista perde di senso.

Gefter, per la verità, ha compiuto uno sforzo largamente persuasivo di concilia­re la sua percezione dell'inesorabilità della legge della "potenza a spese dello svi­luppo" con i suggerimenti delle scuola delle "alternative" e con l'impostazione del

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problema della natura sociale del regime bolscevico e poi staliniano. La politica del rafforzamento dello stato e del potenziamento industriale-militare fu imboccata, secondo Gefter in due tappe: nel 1921, con l'instaurazione definitiva del mono­partitismo; e alla fine del decennio, con l'industrializzazione e la collettivizzazione. Durante questo processo, sotto la guida essenzialmente di alcune idee di Stalin, il partito si indusse a escludere la trasformazione della rivoluzione in una politica gra­dualistica di riforme. Inoltre, esso rifiutò di effettuare la necessaria revisione delle previsioni di sviluppo storico-mondiali formulate a suo tempo da Lenin. Gefter ha così visto nella perestroika e nel "nuovo modo di pensare" l'inizio del superamen­to dell'orizzonte storico, nazionale e mondiale, all'interno del quale si è sviluppata la vicenda del comunismo nel XX secolo. Questa concezione è oggi condivisa da numerosi ricercatori e intellettuali russi, collaboratori e membri della Fondazione intitolata a Gorbachev. 15

Quanto poi alla natura sociale del regime sovietico dei primi decenni, sia Gefter che Kliamkin hanno indicato la forza e l'estensione, dopo il 1917, di poderosi impulsi egualitari tra la popolazione e del prototipo sociale del "comunismo di guerra" (1918-1920). Si trattava di un egualitarismo primordiale e spietato. Gli sto­rici V. Kozlov e G. Bordiugov hanno dimostrato, a loro volta, la compatibilità (e anzi, la convergenza) di questa dimensione socio-culturale della Rivoluzione con le risorgenti, decisive tendenze stataliste e monopolistiche tradizionali della storia russa, al culmine della stessa esperienza del comunismo di guerra. 16 Tsipko e Geller vedevano, invece, proprio nel comunismo di guerra un'esperienza essenzialmente segnata dai dettami dell'ideologia e dalle suggestioni dell'utopia sociale.

Per arricchire, e complicare, il quadro un po' schematico che sono venuto trat­teggiando, mi resta da fare menzione di una terza, importante corrente di opinione sul problema della continuità storica russa. Si tratta di un certo numero di autori i quali, rispondendo in modo positivo a questa domanda, vedono gli elementi più vistosi di continuità non tanto nelle forme politico-istituzionali o socio-economiche, quanto negli atteggiamenti (o se si vuole, nelle strutture) culturali, che avrebbero caratterizzato l'evoluzione dello spirito nazionale attraverso le epoche. Si sono viste, così, le radici del sistema politico sovietico e dell'utopia rivoluzionaria nella persistenza, o risorgenza, di elementi mentali del paganesimo; o al contrario, nello Stato "monastico-totalitario" creato da Ivan il Terribile; o in tendenze intellettuali al magicismo, al miracolismo, al missionarismo, suscettibili di indurre a travalica­re i dati empirici della realtà umana e sociale nella prefigurazione di un futuro "immancabilmente radioso" .17 Il prototipo di questa visione in chiave culturalistica della continuità storica è, con ogni probabilità, rappresentato dagli scritti di un emi­nente intellettuale russo, emigrato dopo la rivoluzione, N.Berdiaev, socialista in gioventù e spiritualista cristiano nella seconda parte della sua vita. 18

Per quanto soggettivamente alieno da un intento apologetico, Berdiaev indicò nel comunismo sovietico un fenomeno storico profondamente condizionato o diret­tamente plasmato da quello che egli riteneva essere il complesso spirituale russo tra-

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dizionale, essenzialmente collettivistico e religioso, al quale egli attribuiva un valo­re etico essenzialmente positivo. Bisogna invece notare che, negli attuali autori ispi­rati al senso della continuità, sia storico-politica che storico-culturale, è vivissimo un forte senso, diciamo, di autocritica nazionale. Le loro opere si presentano come impietose autoanalisi collettive. In essi non vi è niente del compiaciuto sentimento della continuità e dell' organicità della vicenda storica nazionale, propria del nazio­nalismo prerivoluzionario o di quel particolare e complesso fenomeno che fu il patriottismo sovietico, nel quale si legavano ambiguamente idealità socialista e patriottismo tradizionale. Il loro senso della vicenda storica russa è quello di una continuità patita, non orgogliosamente rivendicata. Dice bene di Kliamkin, ad esempio, Maria Ferretti:

"Kliamkin, a differenza degli storici ufficiali, non vuole affatto giustificare l'or­rore dello stalinismo con i suoi milioni di vittime innocenti, perché afferma con forza il diritto a un giudizio morale. La sua interpretazione dello stalinismo espri­me, semmai, una posizione di storicismo deterministico secondo cui, se è andata così, vuoi dire che non poteva andare diversamente: posizione che rivela soprattut­to il timore dell'Autore che la ricerca delle alternative possibili possa distogliere da una comprensione adeguata del passato" .19

Quanto alle implicazioni sul piano politico e civile di queste percezioni storiche, si può dire che è implicita in Kliamkin una raccomandazione ai propri concittadini a cessare di considerare la competizione con i paesi avanzati come l'impulso fon­damentale della vita nazionale; e a divisare per il futuro una via comunque specifi­ca e originale allo sviluppo della Russia postzarista e postsovietica. Kliamkin invi­ta, quindi, a non farsi ipnotizzare dal concetto, oggi così popolare e diffuso in quel paese, di "normalità" dello sviluppo storico, secondo cui il percorso storico e l' as­setto attuale dei paesi occidentali dovrebbe essere considerato non solo essenzial­mente uniforme ma anche, appunto, universalmente normativo. C'è qui, evidente­mente, una contraddizione nel suo pensiero, una tensione irrisolta: il concetto di normalità storica è infatti servita allo stesso Kliamk:in per far risaltare la "speci­ficità" della logica russa di sviluppo nel quadro mondiale. L'insistenza di Kliamkin sulle peculiarità strutturali del modello russo è invece rivolta sia contro l'idea marxista e bolscevica originaria, che il "socialismo" potesse rappresentare una cura efficace contro le distorsioni proprie di quel modello; sia contro l'idea che sia pos­sibile oggi prendere nuovamente a prestito dall'Occidente una concezione politico­economica normativa per il futuro della Russia postsovietica: e precisamente, l'idea astratta e idealizzata dell'economia pura di mercato.

Diversamente, per Seliunin la "normalità" occidentale diviene proprio l'impera­tivo politico della Russia dei nostri giorni. La possibilità di conseguire un tale obiet­tivo sarebbe garantita proprio dalla scoperta di alternative capitalistico-democrati­che di sviluppo nella storia del paese, le ultime delle quali si sarebbero verificate al tempo della NEP, in periodo sovietico; ma soprattutto alla vigilia della Prima guer­ra mondiale, al tempo delle riforme del primo ministro P.Stolypin (1906-1911).

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Per Tsipko e Geller, per quanto si può capire, si tratta essenzialmente di persua­dere l' opinione nazionale a staccarsi radicalmente da ogni forma di pensiero dog­matico, utopistico e confliggente con la "natura umana"; e a conformarsi al canone etico-politico, empirico e relativistico, che rappresenterebbe il punto d'arrivo dello spirito pubblico nelle società occidentali.

Si sarà compreso, giunti a questo punto, che ci troviamo di fronte a un altro dei nodi ancora irrisolti dell'identità storico-nazionale postsovietica, quello della per­cezione dell'Occidente (la "normalità") in Russia in questi ultimi anni. Non posso che !imitarmi a enunciare la questione e a rilevare il peso che, nelle concezioni sto­riche alle quali mi sono riferito, continua, di fatto, ad avere la visione della stono­grafia sovietica tradizionale, di una storia del capitalismo occidentale fortemente unificata dalle categorie del pensiero storico marxista classico. Rimando gli inte­ressati, per un'illustrazione piì elaborata di questo tema, ai lavori di un Convegno di studi che si è tenuto recentemente nel nostro paese.20

Vale, tuttavia, la pena di rilevare come l'idea della specificità e dell'unicità del modello di sviluppo storico russo non rappresenta né un puro e semplice lascito delle correnti slavofile della cultura russa del secolo scorso (per le quali, in ogni caso Kliamkin ha parole di apprezzamento), né una novità assoluta nel modo di pensare degli storici russi negli ultimi decenni. Alludo al gruppo ispirato soprattut­to (ma non soltanto) dai lavori di K.Tarnovskij, attivo tra gli anni Sessanta e Settanta, al quale appartenne lo stesso Gefter. Questi studiosi si occupavano soprat­tutto del periodo che va dall'abolizione del servaggio all'entrata dell'Impero russo nella Prima guerra mondiale (1861-1914).21 Tarnovskii e i suoi colleghi videro la società russa prerivoluzionaria come un conglomerato instabile di diversi "modi di produzione", secondo un modo di pensare esposto a suo tempo dallo stesso Lenin. Tuttavia, diversamente da Lenin e da numerosi altri studiosi sovietici, essi giunse­ro alla conclusione di una irriducibile peculiarità dello sviluppo del paese, sia rispet­to agli esempi europei (inglese, francese, tedesco e americano), sia rispetto a quelli "asiatici". Di fatto, veniva posta in dubbio l'adeguatezza del regime monopartitico bolscevico a rispecchiare una tale complessità della storia sociale ed economica russa.22 Su di un piano ancor più generale, essi posero implicitamente in dubbio (probabilmente, senza volerlo) la garanzia teorica marxista della riducibilità ad un unico, fondamentale corso storico delle diverse vie di sviluppo osservabili su scala planetaria. In altre parole, questo gruppo di studiosi pervenne, in certo senso, alla dissoluzione dello schema marxista sostanzialmente monistico della storia mondia­le, in nome dell'individualità e irripetibilità dei singoli processi storici nazionali. E' significativo che a qualche distanza di tempo dall'apparizione degli scritti più rile­vanti di questa corrente, negli anni Settanta e Ottanta, si poteva osservare anche il progredire di una crisi e di un'analoga dissoluzione delle categorie storico-sociolo­giche di derivazione leninista usate da molti studiosi sovietici dei paesi in via di svi­luppo, soprattutto africani e latino-americani.23 Vorrei osservare che questa disgre­gazione concettuale ha preso la forma di uno sforzo di precisazione di categorie sto-

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riche e sociologiche di origine marxista, che continua a presentare un rilevante inte­resse scientifico. Questo è vero sia nel caso del gruppo di Tarnovskij, che in quello degli africanisti sovietici.

Come si può vedere, per consistenti aspetti l'inizio di una crisi dell'identità sto­rico-nazionale russa non può certo essere posto solo negli anni 1987-1991. L'ultima cartina di tornasole con la quale mi appresto a far reagire il materiale storiografico russo e sovietico è rappresentata dall'evoluzione in Russia degli studi su Pietro il Grande e la sua opera.

Il giudizio formulato, in questo dopoguerra, attorno a questo pilastro dell'iden­tità storica russa moderna ha continuato a modellarsi, fino alla perestroika, secondo il modulo stabilito dal pensiero democratico e rivoluzionario russo della seconda metà dello scorso secolo.24 All'attività progressiva di Pietro in campo economico e culturale venivano giustapposti drammaticamente i colossali sacrifici cui la popola­zione fu sottoposta al tempo delle guerre e delle riforme, il più duraturo dei quali fu la razionalizzazione e il rafforzamento del servaggio contadino. Si trattava di un giudizio per buona parte irrisolto, carico di una sua interna tensione patriottica e politico-morale. Si ricorderanno, in particolare, le stesse, significative parole di Lenin, sullo zar che aveva cercato di "combattere la barbarie con mezzi barbari". La storiografia sovietica ha, in genere, equanimemente indicato sia l'aspetto del "pro­gresso" che quello dei "sacrifici", con una netta tendenza a sottolineare l'entità del primo.25 Non poteva, infatti, essere ignorato il lampante parallelismo che sponta­neamente si stabiliva tra le riforme dello zar modernizzatore e l'opera della rivolu­zione bolscevica, soprattutto al tempo di Stalin: come Pietro aveva fornito per due secoli la fondamentale legittimazione dello zarismo, così l'industrializzazione sta­liniana fornì un sostanziale elemento di legittimazione al regime sovietico, almeno fino alla grande crisi economica iniziata con la perestroika.

Tuttavia, nell'ultimo periodo dell'Impero russo, l'ambivalente giudizio degli storici antiautocratici verso Pietro cominciava a cambiare nel senso di un più matu­ro inquadramento storico della sua opera. In particolare, anche le realizzazioni pro­gressive dell'epoca pietrina cominciavano a essere esaminate nei loro aspetti più storicamente condizionati, cioè nei loro limiti storici. Aprì la strada a questa nuova percezione, naturalmente, V. Kliuchevskii, la cui ombra non ha cessato di aleggiare sulla storiografia nazionale anche per quasi tutto il periodo sovietico.26 Essa fu approfondita da P. Miliukov, accademico e personalità eminente del Partito "Cadetto" (liberale) russo, attorno alla svolta del secolo. Miliukov rilevava che un'eccessiva attenzione era stata fino ad allora rivolta all'opera di rinnovamento propriamente culturale svolta da Pietro; ma che l'esame delle sue altre principali riforme interne mostrava un carattere disorganico e tutt'altro che univocamente improntato ad uno spirito civile moderno. Il giudizio conclusivo di Miliukov prelu­deva, ormai, chiaramente a una riconsiderazione profonda del posto di Pietro nella storia russa, anche presso l'opinione democratica: "La Russia fu elevata al rango di grande potenza al prezzo dell'immiserimento del paese".27 Come si può vedere, è

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assai probabile che sia questo l'archetipo della formula di Gefter sulla "potenza a spese dello sviluppo", sopra ricordata.

Uno dei più eminenti specialisti viventi del periodo petrino, E. Anismov, ha da poco pubblicato un volume nel quale Pietro è indicato, oltre che come l'artefice di un modello di "progresso attraverso la coercizione".28 Le conclusioni di questo stu­dioso sembrano ripartire da un punto molto prossimo a quello cui era giunto Miliukov. Secondo Anisimov, le riforme petrine non furono solo disorganiche ed essenzialmente ispirate al principio dell'espedienza. Esse rivelano anche una cultu­ra amministrativa e civile sensibilmente arcaica, se giudicata con il metro proprio della storia. La figura di Pietro viene rigorosamente confinata nella sua epoca, in una precisa variante dello "Stato regolare"29 europeo sei e settecentesco, e associa­ta a una forma peculiare di "feudalesimo statale",30 scarsamente suscettibile di evol­vere in senso propriamente moderno. In tal modo, restituita interamente alla storia, la figura dello "zar modernizzatore" non può più prestarsi a giuocare il ruolo di mito fondante della Russia contemporanea, capace di proiettare la sua ombra fino alla metà del XX secolo: almeno, non nello stesso modo che ha confortato, finora, tanti storici, e non storici, russi pre- e postrivoluzionari. Se un persistente legato storico petrino viene ancora percepito da intellettuali come Anisimov, esso è, diciamo, di carattere più negativo che positivo.

Questa osservazione riporta chi ha avuto la pazienza di seguirmi al punto dal quale la presente esposizione ha preso inizio: sembra proprio, infatti che, come affermato da Kliamkin e da Gefter, il distacco da quel potente archetipo dell' iden­tità storica russa non sia stato portato a termine prima che la logica storica manife­statasi con Pietro e culminata sotto Stalin si fosse definitivamente esaurita, con il crollo del regime sovietico.

Note

l. Takayuki Itto (ed), Facing up to the Past. Soviet Historiography under Perestroika, Sapporo 1989, pp. 151 ss.; R. W. Davies, Soviet History in the Gorbachev Revolution, Basingstoke and London 1989, pp. 27 ss.; F. Benvenuti, Stalin e lo stalinismo negli anni della perestroika, in "Studi storici", 3, 1991; M. Ferretti, La memoria mutilata, Milano 1993, pp. 234 ss.

2. V. P. Danilov, Lo stalinismo e i contadini, in A. Natoli-S. Pons (edd), L'età dello stalinismo, Roma 1991.

3. S. F. Cohen, Bucharin e la rivoluzione bolscevica, Milano 1975; M. Lewin, Contadini e potere sovietico dal1928 al1930, Milano 1972.

4. A. Tsipko, O zonakh zakrytin dlia mysli, in Surovaia drama naroda, Moskva 1989, p. 188.

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5. M. Geller-A. Nekrich, Utopia in Power: The History ofthe Soviet Union from 1917 to the Present, New York 1986; trad. it., Storia dell'URSS dal1917 ad oggi, Milano 1984, p. 334.

6. Chi scrive ha cercato di valutare criticamente questa concezione in Rivoluzione e comunismo sovie­tico nella prospettiva storica della fine: 1991-1917, in A. Colombo (edd), Crollo del comunismo sovie­tico e ripresa dell'utopia, Bari 1994.

7. G.Lami, Il passato ricreato: Nas Sovremennik (1987-1991), in "Annali dell'Istituto Gramsci Emilia Romagna", l, 1992/93; M. Ferretti, La memoria mutilata, cit., pp. 283 ss.

8. A. Mayer, Soluzione finale, Milano 1988.

9. M. la. Gefter, Stalin umer vchera, in Inogo ne dano, Moskva 1988, p. 302.

10. l. Kliamkin, Kakaia ulitsa vedet k khramu, in "Novyi Mir", 11, 1987.

11. V. Seliunin, Istoki, ibidem, n. 5, 1988. Ampie sintesi di questo e degli interventi di Tsipko e di Liamkin si trovano nei lavori di Davi es e della Ferretti, sopra indicati.

12. R.C.Tucker, Stalin il rivoluzionario 1879 1929, Milano 1975; dello stesso, Stalin. The Revolution from above, New York 1991.

13. Th. Von Laue, Why Leni n? Why Stalin?, Philadelphia-New York-Toronto 1971.

14. V. sopra, nota n.9; M.la.Gefter, Stalin e lo stalinismo: il problema del soggetto, in A. Natoli - S. Pons, L'età dello stalinismo, ci t.

15. Si vedano, ad es., i saggi che dall992 viene pubblicando la rivista moscovita "Polis".

16. V.A. Kozlov-G.A. Bordiu.gov, "Voennyi kommunizm": oshibka ili "proba pochv", in Istoriia Otechestva, voll., Moskva 1991, vol. Il, p. 77.

17. M. Ferretti, La memoria mutilata, ci t., pp. 327 ss.; F. Benvenuti, Stalin e lo stalinismo, cit., pp. 572 5.

18. Si veda, ad es., N. Berdiaev, Le fonti e il significato del comunismo russo, Milano 1975; I ed., Paris 1955.

19. M. Ferretti, La memoria mutilata, cit., pp. 272 3.

20. Si tratta del Convegno internazionale "L'immagine dell'Occidente nella società sovietica", orga­nizzato dalla Fondazione Antonicelli a Livorno, 2-3 ottobre 1992. Alcuni dei contributi presentati in

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Francesco Benvenuti

questa sede si trovano in "Europa/Europe", l, 1993.

21. K. N. Tarnovskii, Problemi agrarno kapitalisticheskoi evolutsii Rossii, in "Istoriia SSSR", 3, 1970; v. anche il volume collettivo Voprosi istorii kapitalisticheskoi Rossii, Sverdlovsk 1972.

22. A. Venturi, Rivoluzione e identità: il Partito socialista rivoluzionario russo, in "Studi storici", nn. 2 3, 1993, p.328.

23. G. Golan, The Soviet Union and National Liberation Movements in The Third World, Boston London-Sydney-Wellington 1988.

24. N. V. Riasanovsky, The lmage ofPeter the Great in Russian History and Thought, New York 1985; M.Natarizi, Le riforme pietrine nell'odierna storiografia russa, in "Studi storici", nn. 2-3, 1993.

25. N. Pavlenko, Petr Pervyi, Moskva 1975.

26. V.O. Kljucevskij, Pietro il Grande, Bari 1986 (con una illuminante Prefazione di F. Venturi).

27. P.N. Miliukov, Gosudarstvennoe khoziaistvo Rossii v pervoi chetvertoi XVII stoletiia i reforma Petra Velikogo, II ed., Sankt Petersburg 1905, p. 546.

28. E. A. Anisimov, The Reforms of Peter the Great. Progress through Coercion in Russia, London 1993, p. 296.

29. Anisimov raggiunge così a pieno titolo la scuola storica occidentale che maggiormente ha svilup­pato questa dimensione degli studi petrini: v. M.Raeff, La Russia degli Zar, Bari 1989. Uno storico economico britannico, inoltre, ha da poco mostrato in straordinario dettaglio quanto la tradizione indu­strialista fondata da Pietro restasse, alla vigilia della rivoluzione d'Ottobre, fortemente ancorata a una visione rigidamente statalista e dirigista (in senso accentuatamente cameralistico e mercantilistico) dell'economia nazionale; v. P. Gatrell, Government, lndustry and Rearment in Russia 1900-1914, Cambridge (UK) 1994.

30. Questa definizione si trova, in realtà, in un'altra opera: Istoriia Otechestva, a cura di L.I.Pateiuka, 2 voli., Moskva 1992, vol. I, p. 9.

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Marek Waldenberg Università di Cracovia

La storiografia polacca dopo la svolta del1989

Il carattere ideologico e giustificatorio che la storiografia sugli eventi contem­poranei spesso assume spiega come anche in Polonia questa storiografia abbia subi­to notevoli cambiamenti con il mutare del sistema politico. La caduta del cosiddet­to socialismo reale non ha tuttavia ancora dato vita a un grande dibattito sul patri­monio della scienza storica e sugli atteggiamenti degli storici negli ultimi cin­quant'anni, né ad una discussione metodologica. E' stato comunque possibile evi­denziare carenze, tendenziosità e falsificazioni prodotte dal modo in cui si è finora cercato di presentare il passato e si sono create le condizioni per ricostruire anche la storia più recente senza tabù, senza lasciare "macchie bianche" e senza presenta­re alcuni eventi in modo frammentario o ambiguo.

Le dimensioni e il carattere dei cambiamenti causati nella storiografia dalla svol­ta del 1989 furono determinati soprattutto dalle condizioni in cui essa allora si trovava, dal suo considerevole livello scientifico, dalla posizione di spicco che occupava negli studi umanistici polacchi e dal prestigio di cui non pochi storici godevano nel mondo scientifico occidentale.

La posizione relativamente vantaggiosa della storiografia polacca nei confronti delle storiografie di quasi tutti i paesi del "socialismo reale" derivava innanzitutto da certi tratti specifici della situazione politica in Polonia, in particolare dalle tra­sformazioni cominciate fin dalla metà degli anni Cinquanta.

L'erroneità della tendenza a non considerare le sostanziali differenze, che si erano prodotte tra i singoli paesi del blocco sovietico nella sfera della politica, del­l' economia e della cultura, risulta particolarmente evidente nel caso della Polonia e anche in quello dell'Ungheria.

L'affermazione che suscita maggiori perplessità è quella che la Polonia sia stata uno stato totalitario. Quest'affermazione provoca obbiezioni anche qualora ci si serva di quest'ambigua categoria senza trascurare le differenze assai rilevanti tra i diversi sistemi totalitari, per esempio tra la Germania nazista e la Russia sovietica, e la si impieghi come un modello ideale, ammettendo che il totalitarismo possa essere graduale e che quindi, per fare un esempio piuttosto banale, esistano rilevanti differenze tra il totalitarismo sovietico nel periodo dall'inizio degli anni Trenta fino alla morte di Stalin, quello durante il governo di Kruscev e quello ai tempi di Breznev.

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Marek Waldenberg

Ricordiamo che C. J. Friedrich e Z. Brzezinski, quando crearono questa catego­ria, indicarono come totalitaria una società in cui: l. esiste un'ideologia ufficiale, ossia una dottrina che abbraccia tutti gli aspetti fondamentali dell'esistenza umana, e tale ideologia viene accettata, anche se passivamente, dal popolo; 2. esiste un solo partito di massa con un solo leader, con un' organizzazione gerarchica o oligarchi­ca, che sovrasta l'organizzazione governativa burocratica o vi si identifica; 3. si rea­lizza un monopolio del controllo delle forze armate, determinato tecnologicamente; 4. esiste un monopolio dei mezzi di comunicazione di massa, che si trovano nelle mani del partito o delle istituzioni, che gli sono sottomesse; 5. vige un sistema di controllo poliziesco fondato sul terrore, rivolto non solo contro il nemico, ma anche contro gruppi di persone o classi sociali individuati arbitrariamente; 6. esiste un'e­conomia guidata e controllata centralmente dal partito o dai suoi organi.2

Tenendo conto di queste caratteristiche si può affermare che la Polonia si è avviata verso il totalitarismo assoluto negli anni 1949-54, quando il Partito operaio unificato polacco (POUP), che deteneva il monopolio del potere, mirava ad assimi­lare il p·aese al regime e alla pratica sistemica dell'URSS. Tuttavia già negli anni 1955-56 si verificò il "disgelo", la "destalinizzazione", che culminò nel cosiddetto "ottobre polacco" del1956. Sembrò allora che la Polonia si fosse incamminata sulla strada di un "socialismo che piace" (o, come si sole va dire nel periodo della Primavera di Praga, di un "socialismo dal volto umano"), di un socialismo demo­cratico. Il successivo trentennio non confermò queste aspettative; le trasformazioni che si verificarono e che furono effettuate in quel periodo procedettero in modo discontinuo, in particolare per quanto riguarda la concessione della libertà (o la sua mancanza), i metodi con cui veniva esercitato il potere e l'intensità della repressio­ne. Ciò rende difficoltosa una periodizzazione. Vi sono però sufficienti presupposti per affermare che il sistema che vigeva in Polonia a partire dal 1956 non avesse un carattere totalitario. Lo si può piuttosto definire autoritario. Questa tesi suscita non di rado delle controversie con connotazioni fortemente emotive. L'aggettivo "autoritario" non ha infatti una connotazione altrettanto negativa quanto quella del­l'aggettivo "totalitario". A sostegno di questa tesi ci sono tuttavia numerosi ele­menti. Il carattere e l'estensione di questo testo permettono di esaminarli in manie­ra soltanto concisa.

Il sistema politico era caratterizzato dal ruolo decisivo delle istanze di vario livello del partito nel dirigere l'attività dell'apparato statale e nell'assegnare incari­chi in questo apparato, che era così sottoposto all'apparato partitico organizzato gerarchicamente. Deteneva il potere un solo partito, la cui dittatura era sancita, negli anni Settanta, da un'enigmatica formula sul ruolo guida del partito inserita nella costituzione. Tuttavia sembra fondata l'affermazione che vi fossero nello stesso tempo alcuni elementi di pluralismo politico. Infatti esistevano altri due partiti che riconoscevano il ruolo guida del POUP: il Partito unificato popolare (ZSL), soste­nuto da quell'ambiente rurale, che già prima della Grande guerra aveva costituito le

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La storiografia polacca dopo la svolta del 1989

basi di un forte movimento politico contadino, e il Partito democratico (SD), a cui era affidato il compito di rappresentare gli interessi degli artigiani e di una parte del­l'intellighenzia. Nonostante dipendessero dal partito al potere, questi due partiti, specialmente nei periodi di crisi, godevano di una limitata possibilità di influire sulle decisioni riguardanti la politica e l'attività dell'apparato statale. E' da rilevare che dopo le elezioni parlamentari del 1989, che videro il grande successo di "Solidarnosc", questi partiti stipularono con il sindacato un accordo, che sfociò nella formazione del governo capeggiato da un militante di "Solidamosc", Tadeusz Mazowiecki, mentre il POUP si ritrovò in minoranza. Si diede così legalmente ini­zio a una radicale e rapida traformazione del sistema economico e politico.

Un elemento di pluralismo politico era inoltre costituito dall'esistenza dell'or­ganizzazione cattolica "Pax". Quest'ultima era stata fondata poco dopo la guerra, in circostanze non chiare, da un gruppo di militanti di una corrente filo-fascista e nazional-estremista e, in seguito, fu utilizzata dal partito al potere come uno stru­mento teso a indebolire la posizione della chiesa cattolica e a ottenere la collabora­zione e l'appoggio al regime da parte di cattolici laici e religiosi. Aveva filiali in tutto il paese; pubblicava un quotidiano e dei periodici; era rappresentata nel parla­mento e nel Consiglio di stato. In alcuni periodi divenne quasi un partito politico. Erano invece molto più limitate le possibilità di iniziativa politica delle altre asso­ciazioni cattoliche, in modo particolare del gruppo "Znak", legato alla gerarchia ecclesiastica. La rappresentanza di questo gruppo nel parlamento si limitava a pochi membri e l'ingerenza della censura nei periodici che pubblicava era particolarmen­te forte. Si potrebbe considerare come un altro elemento di un limitato pluralismo politico la mancanza di omogeneità dello stesso POUP. Questo partito fu caratteriz­zato da frequenti divisioni dei suoi organi dirigenti, protrattesi per tutto il periodo analizzato, che a volte sfociavano nella costituzione di frazioni informali. Una manifestazione particolarmente evidente di ciò fu la formazione della corrente dei "partigiani" capeggiata da Mieczyslaw Moczar, il quale ricopriva alti incarichi nel partito e nello stato. I suoi sostenitori dirigevano l'apparato della polizia e avevano funzioni di spicco in alcuni comitati regionali nel partito, che godevano di larghe prerogative. La corrente di Moczar si opponeva alla liberalizzazione del sistema politico e fu ispiratrice e organizzatrice della campagna antisemita di stampo razzi­sta scatenata nel marzo 1968. Al tempo stesso puntava su contenuti nazional­patriottici, cercando di accattivarsi le simpatie di quei partecipanti alla resistenza antinazista, che non facevano capo al movimento comunista e che spesso erano stati perseguitati nei periodi precedenti. Anche l'organizzazione degli ex-combattenti capeggiata da Moczar ebbe una notevole importanza politica, diventando un altro elemento peculiare di un pluralismo politico assai circoscritto.

Un tratto particolarmente importante della specifica situazione della Polonia era costituito dalla posizione molto forte della chiesa cattolica nella società. Le relazio­ni tra lo stato e la chiesa nel periodo analizzato subirono delle modifiche. Esse migliorarono lentamente nell'autunno 1956, finchè nella metà degli anni Sessanta

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Marek Waldenberg

scoppiò la più aspra crisi di tutto il periodo 1956-89, che durò alcuni mesi. Indipendentemente da queste oscillazioni e dal grado di disponibilità della dirigen­za del partito a prendere in considerazione le richieste della chiesa, il partito dovet­te comunque fare i conti con l'autorità di cui godeva la chiesa nella maggior parte della società.

Non vi sono sufficienti presupposti per ritenere che il sistema di controllo poli­ziesco basato sul terrore, che era tipico dello stato totalitario e si era consolidato negli anni 1949-54, operasse in Polonia anche nel periodo successivo. La forza di repressione del sistema diminuiva in modo discontinuo, benchè l'apparato repressi­vo rimanesse sempre molto ampio e i suoi metodi d'azione violassero spesso la legge vigente. D'altra parte, però, la Polonia era il paese in cui le frequenti manife­stazioni di massa venivano brutalmente represse assai più spesso che nelle altre nazioni dipendenti dall'URSS. Nel dicembre 1970, durante le manifestazioni ope­raie di Danzica e di Gdynia, alcune decine di persone rimasero uccise negli scontri con l'esercito e con la polizia.

I menzionati elementi di pluralismo politico e l'indebolimento dell'uso della repressione come metodo per esercitare il potere facilitarono in notevole misura la formazione di un margine di libertà nella sfera della cultura e della scienza molto più ampio che negli altri paesi del blocco sovietico, eccetto che in Ungheria. A par­tire dal 1956 l'intensità dell'indottrinamento iniziò gradualmente a diminuire. Si faceva invece sempre più insistente l'atteggiamento scettico nei confronti del­l'ideologia comunista e in particolare del marxismo anche tra i quadri dirigenti del partito. Richiamarsi al marxismo-leninismo divenne così sempre più una pura for­malità. Dagli esponenti della cultura e della scienza ci si aspettava piuttosto che si astenessero dal criticare la politica realizzata dal regime oppure che la accettassero e non che professassero l'ideologia ufficiale.

L'ambiente degli storici polacchi non era divenuto, nel suo complesso, uno stru­mento asservito al potere nemmeno nel periodo dello stalinismo negli anni 1950-55 e, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si era continuamente battuto per esten­dere la libertà di ricerca e di pubblicazione. Gli auspici di questo ambiente perché fosse reso possibile un più libero accesso agli archivi, perché fosse eliminata l'in­gerenza della politica e limitato l'intervento della censura si erano intensificati soprattutto nei frequenti periodi di crisi attraversati dal "socialismo reale" in Polonia.

L'atteggiamento degli storici contribuì, tranne che nel periodo staliniano, a far sì che le limitazioni della libertà di studio e di pubblicazione diminuissero e fossero assai minori che in quasi tutti gli altri paesi del "socialismo reale". L'ingerenza della censura politica era più forte e ostinata in due settori di ricerca, quello della storia dei rapporti polacco-sovietici e quello della storia della Polonia popolare, dove più numerosi erano i temi considerati tabù e più diffuse le pubblicazioni d'occasione, che rispondevano alle aspettative e alle direttive delle autorità politiche. In questi settori le falsificazioni erano quindi maggiori. Già alla fine degli anni Sessanta fu

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La storiografia polacca dopo la svolta dell989

possibile ottenere una presentazione della storia polacca tra le due guerre assai più obbiettiva e variegata che in precedenza, capace di mettere in luce non solo i feno­meni economici e politici negativi, ma anche i successi raggiunti in quell'epoca. Il sistema politico creato dopo il colpo di stato di Pilsudski del maggio 1926 veniva descritto in modo più equilibrato, senza essere trattato necessariamente come una sorta di fascismo polacco. L'intervento e l'incidenza della censura dipendevano inoltre non solo dal tema trattato, ma anche dal tipo di pubblicazione che lo ospita­va: erano minori nei periodici e nei testi scientifici rivolti a un numero assai ridot­to di lettori, maggiori nelle pubblicazioni destinate a un pubblico più numeroso.

Nonostante le limitazioni imposte dagli ambienti politici, una frequente auto­censura e la disponibilità di una parte degli storici ad adattare le proprie opere alle direttive o ai suggerimenti delle autorità, si può riconoscere che il bilancio com­plessivo della storiografia polacca dopo l'ultimo conflitto mondiale è positivo. Jacques le Goff ha ricordato di recente l'opinione di Fernand Braudel, per il quale dopo la seconda guerra mondiale la scuola storica polacca era annoverata tra le migliori del mondo.3 Non vi è però dubbio che questo giudizio si riferisce soprat­tutto, se non esclusivamente, alla storiografia che non si è occupata dei tempi più recenti, sebbene anche in quella contemporanea siano apparse opere di alto livello scientifico.

Sebbene nel periodo successivo alla guerra la maggioranza degli storici, soprat­tutto la giovane generazione, fosse stata influenzata dalle suggestioni metodologi­che marxiste, nella maggior parte dei casi essa non era disposta a interpretare in modo unilaterale la storia polacca e la storia generale alla luce del ruolo decisivo del fattore economico e della lotta di classe. Ciò fu dovuto, tra l'altro, a un vivo con­tatto con la scienza mondiale. Pochi erano gli storici disposti a sottomettersi alla direttiva, che considerava la storia nazionale prima del1914 come un processo che conduceva inevitabilmente alla nascita della Polonia popolare, e ad evidenziare tutto ciò che doveva legittimare l'origine operaia e contadina della Seconda Repubblica, il governo dei comunisti e la politica di quest'ultimi.4 Il conformismo di una parte degli storici si manifestava non tanto nel piegare i risultati delle anali­si alle preferenze ideologiche del partito di governo, quanto nell'evitare i temi più scabrosi.

La storia più recente della Polonia abbonda di temi simili. I più importanti sono: le circostanze che portarono al ripristino della libertà nel1918, l'atteggiamento del partito comunista - e, prima, della socialdemocrazia del Regno polacco-lituano -verso l'indipendenza, la guerra polacco-sovietica nel 1919-1920, il patto Ribbentrop-Molotov e l'invasione delle truppe sovietiche del17 dicembre 1939 nei territori orientali della Polonia, la politica delle autorità sovietiche in questi territo­ri tra il settembre del1939 e il giugno 1941, l'internamento degli ufficiali polacchi e la successiva eliminazione della maggior parte di essi a Katyn e in altre località, l'imposizione al potere dei comunisti da parte dell'URSS, l'atteggiamento dell'URSS nei confronti dell'insurrezione di Varsavia, la persecuzione delle forma-

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Marek Waldenberg

zioni armate create nel periodo dell'occupazione nazista e dipendenti dal governo in esilio a Londra, la sovietizzazione della Polonia nella prima metà degli anni Cinquanta, infine le successive crisi politiche. L'analisi di questi aspetti della storia contemporanea era impossibile oppure estremamente difficile. Anche se alcuni di questi problemi avevano smesso di essere considerati rigidamente come tabù, le pubblicazioni che li riguardavano erano piene di omissioni e di mezze verità.

Dei temi scabrosi faceva parte anche la storia del movimento operaio e del movi­mento socialista. I lavori pubblicati negli anni 1950-55 su questi argomenti erano sempre pieni di falsità e di valutazioni estremamente tendenziose. In seguito la cen­sura divenne sempre più tollerante e iniziarono ad apparire alcune pubblicazioni di carattere realmente scientifico, ma non tali da conferire particolare significato a questo settore della storiografia. L'allentamento della rigidità dei canoni della pre­sentazione della storia del movimento operaio polacco fece sì che anche nelle opere degli autori impiegati nelle istituzioni scientifiche del POUP vi fossero delle diffe­renze nella descrizione e nella valutazione di alcuni aspetti chiave della storia di questo movimento. Non era più obbligatoria la ferma condanna del Partito sociali­sta polacco (PPS), anche se i suoi studiosi erano non di rado costretti ad evitare alcune questioni o a presentarle in modo incompleto e confuso.5 Simile era la situa­zione di quanti si occupavano della storia della socialdemocrazia internazionale.

Dal 1956 aumentò il numero dei lavori riguardanti la storia della Polonia dopo la seconda guerra mondiale. Dalle bibliografie sulla storia polacca risulta che negli anni 1960-1980 la lista delle monografie che trattano della Polonia popolare si è quintuplicata, mentre quella delle monografie sui periodi storici precedenti non è neanche raddoppiata. Queste analisi avevano tuttavia un carattere unilaterale e piuttosto marginale: su circa 7000 lavori dedicati alla storia della Polonia popolare pubblicati negli ultimi tre decenni ben il 60% riguardano il Partito operaio polacco e il Partito operaio unificato polacco e soprattutto il funzionamento delle loro strut­ture locali. Quindi attualmente tutto deve essere analizzato ab ovo. I lavori, i cui autori si erano proposti compiti più scientifici che ideologico-politici, non sono infatti riusciti a modificare l'interpretazione della storia polacca più recente soste­nuta dal POUP.

Solo al momento della formazione dell'opposizione democratica in Polonia, verso la fine degli anni Settanta, si è sviluppato su vastissima scala, rispetto ad altri paesi dell'Est, un movimento editoriale non soggetto alla censura statale e una parte considerevole di queste pubblicazioni ha avuto carattere storico.6 E' vero che per tutto il periodo successivo alla guerra si era sviluppata una fervente attività edito­riale nei centri polacchi in esilio nei paesi dell'Europa occidentale e nell'America del Nord. I suoi prodotti non erano però riusciti a raggiungere un vasto numero di lettori in Polonia a causa delle difficoltà politiche e di comunicazione. Nello stesso tempo la stampa clandestina, specialmente negli anni 1980-1981, giungeva ad un'ampia cerchia di lettori, soprattutto studenti. Era prodotta da un numero relati­vamente alto di studiosi professionisti, alcuni dei quali avevano già collaborato

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La storiografia polacca dopo la svolta dell989

anche all'elaborazione dell'interpretazione ufficiale della storia polacca. Dopo il 1976la maggior parte di essi pubblicava contemporaneamente anche nelle edizioni statali. Fuori dalla censura statale veniva coltivata anche una viva e versatile pub­blicistica storico-politica, i cui autori hanno radicalmente negato l'immagine della storia creata fino allora dalle pubblicazioni sottoposte alla censura. Si opposero così a una storiografia che ha contribuito, come ha scritto Krystyna Kersten, a far sì che la società polacca, nutrita da decenni di un sapere deformato, plasmato secondo i bisogni attuali, sia stata privata della storia più recente, che è il fondamento di un pensiero autonomo e indipendente. Questa è stata sostituita da segni e simboli sto­rici, quelli "statalizzati" e quelli impressi nella memoria, e da schemi teorici prefor­mati.7

Molti autori della storiografia di opposizione non sono però riusciti ad evitare quanto giustamente criticavano: una selezione unilaterale dei fatti, addirittura una loro deformazione e delle valutazioni assai tendenziose. Lo si può notare soprattut­to nel fatto che delinearono un'immagine del movimento comunista come di un movimento privo di radici storiche locali: il Partito comunista polacco avrebbe teso infatti a una nuova spartizione del paese e il suo predecessore SDKPIL (la social­democrazia del Regno polacco-lituano) si sarebbe opposto con decisione alla rico­struzione dello stato polacco, affermandone, come Rosa Luxenburg, l' impossibi­lità. I comunisti erano accusati di rappresentare sempre gli interessi stranieri, tede­schi o russi;8 non mancavano neanche le pubblicazioni clandestine che interpreta­vano la storia del comunismo in Polonia come un prodotto dell'attività dei centri internazionali ebraici, che in questo modo avrebbero cercato di schiavizzare i polac­chi sotto altre forme.9

Questa letteratura storiografica e pubblicistica dava per scontata la totale sepa­razione tra la società e un sistema politico privo di basi di consenso. La storia della Polonia dopo il settembre 1939 veniva spesso presentata come la storia di un paese sofferente per oltre quarant' anni sotto l'occupazione straniera, prima quella nazista e poi quella sovietica. Le due occupazioni erano spesso poste sullo stesso piano, fino a cancellare la differenza del grado e della forma della dipendenza dall'URSS rispetto a quella dai nazisti.

Malgrado la loro tendenziosità e le evidenti semplificazioni, le pubblicazioni storiche apparse nel paese fuori del controllo della censura hanno assolto ad impor­tanti compiti divulgativi e didattici, colmando le "macchie bianche" della storia­grafia e mostrando le tendenze indipendentistiche - cioè il desiderio di uno stato pie­namente sovrano e di una libera formazione del proprio sistema - presenti nella società polacca nel periodo successivo alla guerra.

Il carattere pluralistico della storiografia polacca a partire dalla fine degli anni Settanta, che era sconosciuto o assai più debole negli altri paesi del socialismo reale, ha fatto sì che l'immagine della storia della Polonia, anche di quella più recente, fosse più completa e variegata.

L'ambiente degli storici polacchi era non solo in gran parte preparato a cambia-

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Marek Waldenberg

menti del sistema, ma li aveva esso stesso iniziati e appoggiati. Con il1989, che fu l'inizio della trasformazione del sistema, non si ebbe una svolta radicale nella sto­riografia polacca, ma cominciò la sua norrnalizzazione. L'eliminazione della censu­ra e del controllo politico portò infatti alla scomparsa dell'area della storiografia ufficiale e di partito, ponendo fine alla selezione dei terni d'indagine e alla condan­na all'oblio di molti problemi ed eventi storici. Occorre però notare che nell'atmo­sfera di resa dei conti con il passato e con il "comunismo" sono venuti meno gli studi sulla storia del movimento comunista e perfino su quella di tutto il movimen­to operaio. Sono state liquidate istituzioni scientifiche specializzate - per esempio l'Istituto di storia del movimento operaio nell'Accademia delle scienze sociali pres­so il Comitato centrale del POUP, l'Istituto dei Paesi socialisti dell'Accademia polacca delle scienze -, sono stati srnernbrati archivi ben organizzati - l'Archivio centrale del Comitato centrale del POUP -, soppressi periodici specialistici come "Z pola walki". Molto spesso si è messo in dubbio il senso e la necessità delle ricerche sul movimento operaio, negando il loro carattere scientifico. Le poche pubblicazio­ni apparse dopo il 1989 sono il risultato di indagini iniziate e sviluppate prima del cambiamento del sistema oppure erano state già edite in epoca anteriore in clande­stinità.

Ovviamente i fattori di natura politica hanno avuto una notevole influenza sui cambiamenti della storiografia polacca dopo il 1989. Non si possono tuttavia dimenticare i condizionamenti economico-finanziari e psicologici: con il processo di normalizzazione della società polacca e con il persistere della crisi sociale ed economica viene infatti diminuendo l'interesse per la letteratura scientifica, anche per quella storica, e compaiono notevoli difficoltà editoriali. A causa delle limita­zioni finanziarie è stata interrotta la pubblicazione di numerosi periodici, special­mente di quelli regionali. Si è fermata, o è stata notevolmente limitata, l'attività di numerose associazioni storiche regionali. Tuttavia, al posto delle istituzioni, delle case editrici e delle riviste soppresse hanno cominciato ad apparirne di nuove e di più adeguate ai bisogni storiografici. La più ampia attività di documentazione, di analisi ed editoriale viene svolta dall'Osrodek (Centro) "Karta" di Varsavia, fonda­to nel 1990 dai redattori e collaboratori del periodico di storia "Karta", che veniva pubblicato fin dal gennaio del 1982. Questo centro si interessa innanzitutto delle vicende belliche e postbelliche dei polacchi dell'Est, cioè dei territori, che apparte­nevano già dopo la prima guerra mondiale oppure dal 17 settembre 1939 all'ex Unione sovietica, anche se dimostra un interesse sempre più vivo per le condizioni belliche e postbelliche dei polacchi nelle regioni occidentali. Raccoglie ed elabora le testimonianze individuali e di gruppo del passato polacco: diari, ricordi, relazio­ni, collezioni di fotografie, mappe e piante, scritti e stampe clandestine, documenti provenienti da archivi fino a poco tempo fa inaccessibili, ecc ... Nell'ambito delle collane editoriali "Gli ebrei polacchi" e la "Serie bianca" ha pubblicato alcuni volu­mi sull'Olocausto e sulla situazione degli ebrei nella Polonia postbellica e materia­li riguardanti le persecuzioni dei polacchi nell'URSS negli anni Trenta; si è anche

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La storiografia polacca dopo la svolta del 1989

occupato delle reazioni della società polacca all'introduzione della legge marziale in Polonia.

Tra le nuove istituzioni di ricerca, che si occupano della questione dell'Est biso­gna annoverare lo Studium dei problemi nazionali dell'Europa dell'Est presso l'Università di Varsavia, che pubblica due periodici storici: "Ob6z" e "Przeglad W schodni".

Nel1992 è comparso il quadrimestrale "Sprawy Narodowosciowe", una pubbli­cazione della cattedra di studi nazionali dell'Accademia polacca delle scienze.

L'Istituto di studi politici dell'Accademia polacca delle scienze di Varsavia, fon­dato nel 1990, presenta un profilo scientifico più generale. Si occupa infatti anche della storia successiva al 1939, cercando nei limiti del possibile di comprendere nella sua attività di studio ed editoriale la storia polacca più recente nel suo com­plesso. Pubblica alcuni periodici di storia, tra cui "Rocznik Polsko-Niemiecki" e "Archiwum Mysli Politycznej", e due preziose collane: "Documenti sulla storia della Repubblica Popolare Polacca" e "Dagli archivi sovietici". Già dal periodo pre­cedente al1989 un'attività scientifica analoga è stata sviluppata da alcuni centri di studio, storici e politologici, presso tutte le università, presso l'Accademia polacca delle scienze e altri istituti universitari. Recentemente l'Università di Wroclaw ha iniziato, in collaborazione con l'Istituto J6zef Pilsudski di New York, la pubblica­zione del periodico dedicato alla storia polacca contemporanea "Niepodleglosc", uscito con molti intervalli fin dal 1929, prima in Polonia e, dopo la guerra, negli USA. Questo periodico arricchisce la letteratura storiografica polacca di rilievo nazionale.

Il numero relativamente alto di istituzioni di ricerca, di case editrici e di perio­dici non è tuttavia una prova della buona condizione della storiografia. La distribu­zione e la tiratura di testi scientifici hanno subito un calo spaventoso: il più delle volte essi sono pubblicati in un centinaio di copie, o al massimo in poche centinaia, e sono reperibili esclusivamente nel luogo di pubblicazione.

Tuttavia, negli ultimi anni sono stati fatti dei tentativi per avviare nuove dire­zioni di ricerca sull'intero processo storico polacco, fino a toccare temi di storia medievale, anche se si riconosce che la storia più antica non esige una revisione di fondo, ma solo un approfondimento di indagine su alcuni eventi o una nuova ottica metodologica per vecchi temi di ricerca. Fra i problemi di ricerca trascurati fino al 1989 vi è anche la storia degli ebrei in Polonia.10

La storia più recente della Polonia, specialmente quella successiva al1944, esige invece che la ricerca ricominci quasi da zero. L'abolizione della censura e un più libero accesso agli archivi delle autorità sovietiche hanno reso possibile condurre ricerche scientifiche sulla storia dei rapporti-polacco sovietici e intraprendere inda­gini sulla storia di quella parte della Seconda Repubblica, che dopo il 17 settembre 1939 si è trovata sotto l'occupazione sovietica. Sono già stati pubblicati i primi due volumi dei materiali d'archivio fomiti dalle autorità russe nel novembre del1992. 11

L'edizione completa di questi documenti, prima sconosciuti ai ricercatori polacchi,

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si comporrà di cinque volumi. Sono state pubblicate anche delle raccolte di docu­menti provenienti dall'ex URSS e riguardanti la questione di Katyn negli anni 1940-1992.12 Sono già apparse le prime sintesi sulla storia dei rapporti polacco-sovietici nel periodo della seconda guerra mondiale e nella guerra polacco-bolscevica del 1920, che costituiscono un punto di partenza per l'analisi di vari aspetti del proces­so di sovietizzazione della Polonia dopo il1944. Sono già stati pubblicati studi sullo stalinismo polacco, sul ruolo e sull'importanza del culto di Stalin in Polonia, sul­l' atteggiamento delle élites politiche e intellettuali nei confronti del processo di sovietizzazione del paese, sulla storia dell'opposizione anticomunista, ecc .. 13

Gli studi sui rapporti polacco-sovietici sono strettamente collegati alla genesi e alle vicende della Polonia popolare. Negli ultimi anni, accanto alle dedizioni della letteratura del circuito alternativo, sono apparse numerose monografie dedicate ad alcuni eventi, personaggi e problemi del periodo più recente della storia polacca. E' stata dedicata maggiore attenzione al primo decennio della Polonia popolare, ana­lizzando la sua collocazione internazionale, la liquidazione dello stato clandestino diretto, nel periodo dell'occupazione nazista, dal governo in esilio, alcuni aspetti del processo di sovietizzazione della Polonia, l'ambito e l'efficacia della resistenza anticomunista, le cause e la dinamica dell'Ottobre polacco, ecc .. 14 Sono meno numerose le indagini sulla Polonia popolare dopo il 1956, rese difficili dalla man­canza di un'adeguata distanza storica e dai problemi d'accesso alle numerose fonti archivistiche. Così, la maggior parte degli scritti dedicati agli eventi principali del­l'ultimo quarto del secolo ha un carattere pubblicistico e cronachistico. Si notano invece alcuni progressi nella pubblicazione, fra le fonti sulla storia della Polonia popolare, dei documenti dei servizi segreti e della direzione del POUP. 15

Nonostante il numero delle analisi specifiche su singoli eventi della Polonia postbellica sia ancora esiguo, sono già stati compiuti tre tentativi di sintesi della sua storia. Si tratta di monografie molto differenti tra loro: il lavoro di J. Eisler è sol­tanto una descrizione delle azioni politiche delle élites di partito e parapartitiche, che hanno governato la Polonia postbellica; il volume di Z.J. Hirsz segue soprattut­to l'attività dello stato e i meccanismi atti ad esercitare il potere con l'applicazione del terrore e la schiavizzazione della società; l'analisi di A. Czubinski ha infine un carattere generale. 16

Queste tre sintesi palesano delle difficoltà e delle carenze sostanziali dell'attua­le storiografia contemporaneistica: la pesante influenza delle opinioni politiche, una forte pressione psicologica di diversi ambienti, che valutano in modo assai emotivo il passato e soprattutto la propria esperienza diretta, la mancanza d'indagini siste­matiche su numerosi eventi, la tendenza a generalizzazioni e a valutazioni troppo affrettate. Ne risultano differenze di fondo nella presentazione di questioni storiche fondamentali: se ad esempio la Repubblica popolare sia uno stato polacco, nono­stante le indubbie limitazioni della sua sovranità, o piuttosto un paese occupato e schiavizzato; se costituisca una continuazione del processo storico o se, per usare una definizione impiegata da alcuni politici e intellettuali, sia stata soltanto un inter-

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vallo nella storia; se in alternativa ad essa avrebbe potuto esistere uno stato demo­cratico e sovrano o la diciassettesima repubblica dell'URSS; se essa sia stata dall'i­nizio alla fine uno stato totalitario o se il periodo del totalitarismo sia durato solo alcuni anni; se, in conclusione, siano stati dominanti o comunque rilevanti i suoi successi economici, sociali e culturali o se invece il suo bilancio sia decisamente negativo e se sia giustificato affermare che si è verificato un reale regresso cultura­le.

Negli ultimi tempi cominciano ad apparire scritti che tentano un'analisi più arti­colata del periodo postbellico, soffermandosi, tra l'altro, sui motivi per cui una parte cospicua della società, nonostante i timori nutriti nei confronti dell'ideologia comu­nista e la sfiducia verso l'URSS, abbia accettato, sia pure in misura diversa, i fon­damentali cambiamenti del sistema e non sia stata, se si eccettuano alcuni periodi, decisamente ostile al potere vigente.

E' degna d'attenzione la comparsa negli ultimi anni di pubblicazioni, che tratta­no il complesso e scabroso problema dei rapporti dei polacchi con le altre comunità nazionali, con le minoranze etniche della Polonia e con le popolazioni limitrofe. Ci si è occupati tra l'altro dell'antisemitismo nella Polonia postbellica, un tema consi­derato tabù per molti anni. 17 Lo stesso si può dire della questione dei rapporti polac­co-ucraini nel periodo della seconda guerra mondiale, quando, negli anni 1943-44, nella Volinia e nella Galizia orientale si verificarono esecuzioni di massa di polac­chi ad opera di nazionalisti ucraini, e nei primi anni dopo la guerra, quando le repressioni colpirono la popolazione ucraina, che risiedeva numerosa nella regione sud-orientale e fu poi forzatamente trasferita e dispersa in varie località dei territo­ri appartenuti precedentemente alla Germania e acquisiti dalla Polonia dopo la guerra. 18

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Se si parla delle problematiche nazionali bisogna notare che nella pubblicistica storica si è manifestata, come negli altri paesi postcomunisti, la tendenza a glorifi­care le correnti nazionalistiche locali, perfino quelle rappresentate dalle "Narodowe Sily Zbrojne", che, nel periodo dell'occupazione tedesca, considerando l'URSS il principale nemico, collaborarono in una certa misura con i nazisti e che non senza fondamento vengono accusate di aver assassinato gli ebrei e di aver combattuto contro il movimento di resistenza armata di sinistra. Gli storici partecipano anche all'analisi delle cause del crollo del cosiddetto socialismo reale, sebbene- e non c'è da meravigliarsi - i primi tentativi di un'indagine sistematica di questo problema siano usciti dalla penna dei sociologi.

Riassumendo, si può affermare che il bilancio non solo dell'intera storiografia polacca, ma anche di quella sua componente che si occupa della storia nazionale più recente è positivo, se confrontato con la storiografia di quasi tutti i paesi dell'ex blocco sovietico. Ciò non significa, ripetiamo, che lo stato della letteratura sulla sto­ria contemporanea possa essere considerato soddisfacente. I cambiamenti radicali del sistema verificatisi negli ultimi cinque anni hanno indebolito in modo sensibile le basi materiali, organizzative ed editoriali delle ricerche, anche se non hanno pro-

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vocato perdite profonde. Non è stato indebolito il potenziale scientifico umano, mentre è stata eliminata la pressione dei centri del potere politico e l'ingerenza della censura. Approfittando di questa nuova situazione, gli storici si sono dedicati a temi che prima non potevano trattare liberamente. Lo hanno fatto in un'atmosfe­ra caratterizzata da forti passioni politiche, da scontri fra quelli che prima erano all'opposizione e quelli che erano vicini al potere, e, dopo un breve periodo, in un clima di accese controversie anche tra quegli stessi, che erano stati all'opposizione. Alcuni storici avevano partecipato in prima persona a quelle lotte e non c'è quindi da meravigliarsi che le passioni politiche abbiano lasciato una forte impronta su molti lavori storici, non solo di carattere pubblicistico. Ci si può attendere che tra poco le emozioni si affievoliscano e che la storiografia contemporaneistica si arric­chisca di lavori, che siano frutto di studi più approfonditi e solidi, basati sulle nuove fonti accessibili e liberi da pressioni politiche.

Note

l. Il testo qui presentato approfondisce parzialmente elementi già presenti in M.Sliwa-M.Waldenberg, I conti con il passato: la storiografia polacca contemporanea, in "Passato e Presente", N r. 34, 1995, pp. 101-112.

2 .C.J. Friedrich-Z. Brzezinski, Totalitari an Dictatorship and Autocracy, Cambridge/Mass. 1965.

3. Quest'opinione è stata ricordata da Le Goff in occasione della cerimonia di conferimento del dotto­rato honoris causa presso l'Università di Varsavia nel novembre 1993: cfr. Spelnione proroctwo. Wybitny historyk francuski o polskim dziejopisarstwie in "Polityka", 18 dicembre 1993, n. 51, p. 21.

4. Cfr. R Stobiecki, Stalinowska wizja dzejow Polski - proba rekonstrukcji modelu, "Dzieje Najnowsze", 1993, n. 3, p. 74 eA.F. Grabski, Stalinowski mode! historiografii, ibidem, 1992, n. 3, pp. 23-45.

5. Cfr. A. Zarnowska, Historiografia ruchu robotniczego w Polsce w ostatnim dziesiecioleciu, in Oblicza lewicy. Losy idei i ludzi, Warszawa 1992, pp. 23 ss.

6. Si veda K. Labedz, Wydawnictwa historyczne drugiego obiegu w Polsce Materialy do bibliografii adnotowanej za lata 1980 1987, Introduz. di M. Sliwa, Warszawa 1990.

7 .Cfr. K. Kersten, Narodziny systemu wladzy Polska 1943-1948, Warszawa 1984.

8. Cfr. R. Mieczyslawowicz- R. Szeremietiew, W obcym interesie. Historia KPP, Krak6w 1978.

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9. Cfr. Judeopolonia. Nieznane karty historii PRL 1944-1981, Krak6w 1981. l O. L'elenco dettagliato delle pubblicazioni apparse negli ultimi anni è fornito da R. Zebrowski, Dzieje Zyd6w w Polsce, Warszawa 1993.

11. Polscy jency wojenni w ZSRR 1939-1941, Warszawa 1992; Armia Polska w ZSRR 1941-1942, Warszawa 1992. Questi documenti sono stati curati e pubblicati da W. Materski.

12. Katyn. Dokumenty ludob6jstwa, Warszawa I992; Dokumenty Katynia. Decyzja, Warszawa 1992; Cz. Mikolajczyk, Dramat katynski, Warszawa I 989.

I3. A. Werblan, Stalinizm w Polsce, Warszawa I991; R. Kupiecki, Natchnienie milion6w. Kult J6zefa Stalina w Polsce 1944-1956, Warszawa 1993; E. J. Nalepa, Oficerowie radzieccy w Wojsku Polskim w latach 1943-1968. Studium historyczno-wojskowe, parte I e II, Warszawa 1992; P. W6jcik (ed), Elity wladzy w Polsce a struktura spoleczna w latach I 944-1956, Warszawa 1992; P. Hubner, Polityka naukowa w polsce w latach 1944-1953. Geneza systemu, 2 voli., Wroclaw 1992.

14.Cfr. ad esempio W. Borodziej, Od Poczdamu do Szklarskiej Poreby. Polska w stosunkach miedzy­narodowych I945-I947, London 1990; R. Turkowski, Polskie Stronnictwo Ludowe w obronie demok­racji 1945- I 949, Warszawa 1992; A. Leinwand, Przyw6dcy Polski podziemnej przed sadem moskwie­skim, Warszawa I 992, J. Eisler - R. Kupiecki, N a zakrecie historii - rok 1956, Warszawa 199 I; P. Machcewicz, Po1ski rok I956, Warszawa I993.

15. A. Kochanski (ed), Protok61 obrad KC PPR w maju 1945, Warszawa 1992; dello stesso (ed), Protokoly posiedzen Biura Politycznego KC PPR 1944-1945, Warszawa 1992; A. Garlicki, Z tajnych archiw6w, Warszawa 1993; Tajne dokumenty Panstwo-Kosci611980-1989, London-Warszawa 1993.

16. A. Czubinski, Dzieje najnowsze Polski. Polska Ludowa 1944-1989, Poznan 1992; J. Eisler, Zarys dziej6w politycznych Polski I944-I989, Warszawa I992; Z. J. Hirsz, Polska miedzy II a III Rzeczypospolita I944-1989, Biaiystok I993.

17. Cfr. B. Szynok, Pogrom Zyd6w w Kielcach 4lipca I 946, Warszawa I 992 e J. Eisler, Marzec I 968, Warszawa 1991.

18. R. Torzecki, Polacy i Ukraincy. Sprawa ukrainska w czasie II wojni swiatowej na terenie II Rzeczypospolitej, Warszawa I 993.

Cfr. J. J. Wiatr, Zmierzch systemu, Warszawa 199I e J. Szczepanski, Polskie losy, Warszawa 1993.

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Peter Hanak Centrai European University di Budapest

Il contributo degli storici ungheresi alla trasformazione democratica

La storiografia ungherese è stata profondamente scossa e insieme rivitalizzata dalla rivoluzione del 1956. Dopo la brutale sconfitta della rivoluzione alcuni stori­ci sono fuggiti all'estero, molti altri si sono ritirati nell'emigrazione interna o hanno iniziato un'opposizione, una lotta prudente, timida, ma tenace contro l'ideologia dominante dello stalinismo-leninismo. 1 In un primo momento essi hanno rivolto le loro critiche contro illeninismo, definito come un "dogmatismo", contro le falsifi­cazioni, che venivano eufemisticamente definite "partiticità comunista", e contro il nazionalismo sovietico mascherato come "internazionalismo". Furono mostrati da un lato l'intreccio fra lo stalinismo e l'imperialismo russo e dall'altro la sottomis­sione vassallatica cammuffata come "socialismo patriottico".2

A questa lotta di liberazione spirituale presero parte sia dei "comunisti riformi­sti", che dei sostenitori dell'opposizione democratica e anche degli storici nazional­conservatori. Oltre al rifiuto del dogmatismo, si rivelarono possibili e poterono esser realizzati sia una profonda revisione del culto degli eroi comunista che l'al­largamento del concetto delle "tradizioni progressive" e dei suoi contenuti alla fino­ra trascurata tradizione nazionale. A questo proposito bisogna riconoscere che il regime di Kadar si distinse favorevolmente da tutti gli altri sistemi dell'area comu­nista. Era più tollerante rispetto alla "dissidenza d'opinione" e garantì un certo spa­zio anche all'opposizione. Un aspetto importante della resistenza degli storici ungheresi, èhe ebbe efficacia sia scientifica che politica, fu il decennale dibattito sulle regioni storiche d'Europa.

I La Mitteleuropa alla ribalta.

I sostenitori della posizione "anti Mitteleuropa" consideravano l'esistenza di questa regione una finzione, un'illusione politica, che, se mai aveva avuto un'esi­stenza reale nel diciannovesimo secolo, era crollata dopo la prima guerra mondiale e sparita per sempre dopo la seconda guerra mondiale. La sua resuscitazione non è nient'altro che il fantasma delle aspirazioni egemoniche dell'imperialismo tedesco. In termini più moderati, l'idea della Mitteleuropa è un mito reazionario, un sogno irrealistico di politici per hobby. 3 Qui sorge il problema se il cosiddetto "sobrio pos­sibilismo" possa essere identificato con la Realpolitik e se la realtà ancora storica-

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Peter Hanak

mente immatura, cioè una momentanea irrealtà, possa essere identificata con l'uto­pia. A questa domanda hanno risposto non solo gli storici, ma anche i popoli della Mitteleuropa, con la caduta del Muro di Berlino, la rivoluzione a Praga, Temeschwar e Bucarest, il radicale mutamento di sistema in Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia e in Romania. Il 1989 merita l'epiteto di annus mirabilis perché ha mostrato che ciò che è irreale per la Realpolitik può facilmente tramutarsi in realtà politica in un momento di svolta storico-politico. Nel 1989 la riorganizzazio­ne della Mitteleuropa si è trasformata da utopia in oggetto della Realpolitik. Tuttavia le opinioni sulla situazione storica e attuale della Mitteleuropa sono diame­tralmente in contrasto.

Un gruppo di storici si è decisamente opposto alla schematica divisione dell'Europa in una regione, o "blocco", occidentale e in una orientale. Attraverso studi e discussioni è stato provato che i criteri geografici e politici da soli non sono sufficienti perché una regione storica può essere definita solo sulla base della somi­glianza di complessi di criteri strutturali.4 Secondo questa determinazione è esistita in Europa dall'inizio del medioevo anche una regione di mezzo, che, pur avendo confini mutevoli, costituì una zona di passaggio graduale tra il mediterraneo e l'a­tlantico occidentale da un lato e l'oriente russo, intessuto di elementi asiatici, dal­l'altro. La struttura socio-economica, il sistema politico e il livello d'istruzione di questa regione - e quindi anche dell'Ungheria- restarono certo arretrati rispetto a quelli occidentali, tuttavia essi furono, considerando la maggioranza dei criteri e il trend dello sviluppo dell'epoca moderna, più vicini all'occidente di quanto non fosse lo sviluppo orientale.5

Contro questa posizione, un altro gruppo di studiosi sostenne la bipartizione dell'Europa, riconoscendo solo due grandi regioni e inserendo l'Ungheria nella regione orientale. Non avrebbe senso oggi negare che dietro a queste due posizioni non vi erano solo degli argomenti e degli interessi scientifici, ma anche dei princi­pi derivati da una visione del mondo.6 Dietro la concezione "biregionale" vi era il principio della coesione della "comunità di destino" orientale, dietro la concezione "triregionale" v'erano invece gli ideali normativi occidentali. Avendo dimostrato i principali motivi della divergenza dal mondo ortodosso orientale, cioè dallo svilup­po storico russo, questa concezione ridimensionò le "prove storiche" dell'integra­zione dei nostri piccoli stati nel blocco orientale e ricondusse quest'ultima sempli­cemente alle conseguenze delle decisioni delle grandi potenze. Fu così contraddet­ta l'ideologia ufficiale, che interpretava l'occupazione come una ricongiunzione (Anschluj3) volontaria, come la vittoria del socialismo. In tale maniera il punto di vista triregionale implicava la rivendicazione storica della rottura con lo schiera­mento sovietico e la rivendicazione dell'indipendenza per i piccoli popoli della Mitteleuropa.

Negli anni Ottanta questi storici hanno sollevato sempre più nuovi temi, per esempio gli effetti retroattivi dell'illuminismo e la nascita del capitalismo nella Mitteleuropa, gli effetti duraturi della rivoluzione del 1848, la ricerca sulla barghe-

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Il contributo degli storici ungheresi alla trasformazione democratica

sia, nuovi studi sull'urbanizzazione moderna e non in ultimo sulle somiglianze della storia del quotidiano nella regione. La forza di convinzione di questi studi e dibatti­ti fu tale da provare a un vasto mondo di lettori l'esistenza della regione di mezzo. Molti studiosi ritennero allora che due rovinose guerre mondiali, gli amari decenni dell'occupazione tedesca e anche di quella russa fossero stati una lezione suffi­cientemente severa del fatto le piccole nazioni della regione devono chiarire e mediare i loro problemi comuni e unirsi in una forma di comunità economica e poli­tica.7 Si sperava che anche l'occidente riconoscesse la massima politica onorata dagli inglesi dal Settecento: senza una Mitteleuropa indipendente l'esistenza e la distensione dell'intero continente sono in gioco e restano facili da destabilizzare.8

II Aspetti della discussione tra gli storici.

Oltre al dibattito sulla Mitteleuropa vi sono state in Ungheria negli ultimi anni molte altre discussioni. Mi sia concesso di menzionare solo alcuni aspetti più inte­ressanti. Soprattutto sono stati ripresi i vecchi dibattiti sul 1848 e sul compromesso del 1867. Nell'epoca in cui prosperava il dogmatismo, il compromesso fu aspra­mente condannato sia dal punto di vista nazionale che da quello di classe. Il dog­matismo storico marxista rivolgeva pochissima attenzione al problema della moder­nizzazione e della formazione della borghesia (Verbiirgerlichung). La revisione cri­tica del dogmatismo elaborò gli enormi vantaggi del consolidamento politico, del rapido sviluppo economico, delle conquiste di civiltà. L'approfondito dibattito mise nella giusta luce la struttura politica e il meccanismo economico della monarchia. Aumentò la conoscenza del fatto che la struttura politica monarchica era una com­binazione tra stato di diritto e stato autoritario - comunque con dei risultati costi­tuzionali progressivU una storiografia imparziale ha constatato uno sviluppo eco­nomico in contrasto con aspetti politici, come la "situazione semi coloniale" dell'Ungheria e l'oppressione nella monarchia. I suoi elementi principali furono i vantaggi dei costi comparati, la libera mobilità delle forze produttive e la divisio­ne complementare dei settori economici. 10 Tutte queste conquiste, che negli anni Cinquanta furono bandite come invenzioni del diavolo, si dimostrarono trent'anni dopo come una leva importante del passaggio all'economia di mercato.

Il più immediato ed efficace contributo degli storici alla trasformazione demo­cratica fu tuttavia la combattiva ricostruzione della storia della rivoluzione del 1956. Degli studi scientifici veritieri poterono fino ad allora esser pubblicati solo all'estero o nella letteratura "Samizdat". In Ungheria era severamente vietato e punito anche il solo termine "rivoluzione del1956". Il rivolgimento si verificò nel 1986 - il trentesimo anniversario della rivoluzione - prima in una piccola cerchia e poi nel1989-90 nell'intera opinione pubblica. 11 Il risultato di annose ricerche segre­te si concretizzò in raccolte di documenti, in collane di studi e con la fondazione di un Istituto per lo studio della rivoluzione. 12

Consideriamo anche il fatto che molti storici modificarono la loro carriera, pre­sero parte attivamente alla politica, scambiarono le loro tranquille scrivanie per

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Peter Handk

scranni ministeriali o seggi da deputati- nell'ultimo governo oltre al capo del gover­no anche tre ministri, tre segretari di stato e il presidente della camera erano storici di professione. Tuttavia la maggior parte degli storici preferì la non partiticità e la storia del quotidiano alla politica. Ritenevano che la magia della storiografia consi­stesse nella spiegazione di avvenimenti documentati in modo critico. Se si conside­rano solo alcuni lavori storici rappresentativi degli ultimi cinque anni si può con­cludere in coscienza che solo una piccola minoranza è entrata al servizio di una nuova partiticità - o meglio, di una "multipartiticità" -, la grande maggioranza sono rimasti o diventati storici di professione indipendenti. 13

Dato l'accresciuto ruolo degli storici nel corso della trasformazione democrati­ca, si può a ragione domandare come sia potuto succedere che proprio gli storici che hanno scoperto con tanta precisione i tratti specifici e le anomalie dell'Europa cen­trale e orientale non abbiano osservato la rinascita di un non nascosto nazionalismo e non l'abbiano annunciata a tempo debito. 14 Come poté succedere che il dannoso nazionalismo conservatore del periodo tra le due guerre tornasse dominante? A que­sta questione scientifica e di coscienza bisogna rispondere senza apologie e senza scusanti.

III Errori e delusioni.

Il primo errore - un errore tipico della ragione illuminata - consiste nel fatto che gli intellettuali accademici pensavano di poter ripartire da dove si era interrotta la continuità nel1938 o nel1945. I gruppi social-liberali- l'opposizione democratica della regione - non tennero abbastanza in considerazione quali profonde distorsio­ni economiche e sociali - la perniciosa mancanza di capitali, l'arretratezza tecnolo­gica, l'annientamento del morale dei lavoratori, la deformazione dello spirito imprenditoriale - avesse lasciato in eredità il comunismo. Anche gli economisti riformatori hanno sottovalutato le straordinarie difficoltà della transizione, cioè quelle presentate da un ritorno senza esempi all'economia di mercato e quindi dai problemi della privatizzazione.'5 La nuova élite non ebbe nè il tempo di preparare un ampio programma nè la possibilità di farlo maturare. Durante la dittatura sovie­tica non poté cristallizzarsi una vera immagine del futuro e nemmeno un program­ma di transizione. Per la mancanza di un'opinione pubblica non si poterono nem­meno far conoscere nei media i problemi fondamentali delle riforme.

Il pericolo maggiore risiedeva però nel vuoto di potere generale creatosi dopo la caduta del sistema sovietico e la dissoluzione del Patto di Varsavia. In questo vuoto di potere tutti i nuovi governi si trovarono privi di sicurezza e si sentirono minac­ciati dai vicini. La paura reciproca di un'aggressione da parte dei vicini era la riper­cussione degli sbagli delle riorganizzazioni del 1919 e del 1945. Liberati dal Comecon, gli stati della regione finirono in un vuoto economico, poiché erano stati dissolti i vecchi legami, ma non ne erano stati ancora creati di nuovi. Nel vuoto ideologico rinacquero logicamente le idee tradizionali, in primo luogo e soprattutto il nazionalismo.

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Il contributo degli storici ungheresi alla trasformazione democratica

IV Il nazionalismo.

Retrospettivamente appare chiaro che gli intellettuali riformatori non dedicaro­no sufficiente attenzione al nazionalismo, che durante l'era comunista penetrò anche nelle minime pieghe del corpo della nazione, sebbene questo non investisse soltanto gli strati della popolazione inseriti nella cultura nazionale, ma infettasse anche i partiti comunisti e ancora più la mentalità delle élites del partito. Questo sentimento nazionale, che sopravvisse e fu attizzato dalla nuova ingiustizia, fu il maggior catalizzatore della caduta del partito e del sistema. E' però nella natura del nazionalismo, dell'azione sulle coscienze di elementi mitici ed irrazionali, che esso non sia divisibile nei suoi vari aspetti. Anche nel campo sovietico non si riuscì a separare il patriottismo dall'egoismo e dall'ambizione nazionali. Da qui all'odio per lo straniero, al nazionalismo che conquista e mescola il passo è breve. Nell'anno delle delusioni fu pienamente chiaro che sotto il manto della fratellanza a parole, dell'internazionalismo degli slogan dell'epoca passata si era diffuso virulentamen­te il nazionalismo, che poté riabilitarsi in pochi giorni.

Siamo quindi costretti a vedere che ci siamo sbagliati nel giudicare la portata dello sperato risveglio della coscienza provocato dai colpi del comune destino.

Al nuovo fiorire dei contrasti nazionali contribuirono tra l'altro, oltre a una certa riabilitazione del vecchio sistema o ancien régime, le forti rivali di partito e la pro­paganda, che vi è connessa, inoltre la scarsa conoscenza di sé o l'incapacità di fare autocritica. L'autocritica è stata anche altrove frequentemente con il nichilismo antinazionale - nell'Europa centro-orientale questo è successo però particolarmen­te spesso. Per i piccoli popoli di questa regione è un riflesso conscio o inconscio scaricare la responsabilità delle sconfitte, delle disgrazie e della povertà sull'av­versario, soprattutto sul vicino cattivo. Per gli ungheresi i capri espiatori sono il tedesco e il turco, per i polacchi il tedesco e il russo, per gli slovacchi e i romeni l'ungherese e tutti insieme danno la colpa agli ebrei. 16 Il metodo della trasformazio­ne attuale non fu l'attenuazione, ma l'approfondimento del nazionalismo, che si esprime nell'ostilità verso l'occidente, nella paura nei confronti dell'oriente e nel populismo nazionale all'interno.

Questo meccanismo di difesa si mostrò in modo chiaro nel corso dell'ultimo mezzo secolo. L'opinione pubblica dei piccoli popoli- esclusi alcuni lucidi e corag­giosi intellettuali - ha attribuito i colpi inflitti dal fascismo e dal comunismo esclu­sivamente all'occupazione e alla violenza tedesca o russa. La maggioranza non riconosce che il fascismo e il comunismo presero piede anche tra le proprie fila, che anch'essa trasse vantaggio dal sistema fascista e comunista locale, che le masse collaborarono con i sistemi totalitari. E' eclatante la riabilitazione del fascismo locale , per esempio la festa per Tiso in Slovacchia, la riabilitazione di Antonescu in Romania, l'omaggio a Horthy in Ungheria.

Il "complesso d'innocenza" - l'attribuire la colpa alla costrizione o ai vicini, il ricorrere per una spiegazione alla malvagità o alla fatalità- tutto questo s'inserisce perfettamente nella mitologia centro-europea e est-europea. 17 Abbiamo conosciuto i

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Peter Handk

miti dell'origine, la coscienza della vocazione, gli autoritratti adulatori che attribui­vano innocenza e grandezza. Ci è anche nota l'alchimia di contenuti irrazionali e sentimentali dei nazionalismi regionali e anche del nostro, il "dio degli ungheresi" addomesticato dal liberalismo, la patente esclusiva della capacità di fondare uno stato e di preservarlo. Da almeno un secolo e mezzo conosciamo anche quello dei vicini, il pensiero nazionale etnocentrico formulato nei termini del romanticismo di Herder, che presso gli slovacchi è legato al messianismo panslavistico e presso i romeni all'ortodossia greca. Il nazionalismo fideista non sopporta alcuna eterodos­sia e non mostra la minima tolleranza verso il pluralismo caratteristico dell'Europa centro-orientale, la "differenza". Ci è diventato infine noto che, oltre all'arretratez­za economica e sociale, anche il nazionalismo mitizzato come una dottrina di sal­vezza ha avvicinato pericolosamente i popoli all'accettazione dell'ortodossia poli­tica e del dominio di regimi autoritari.

Gli storici non hanno previsto questa tragica svolta. A loro scusante si può dire che nessuna delle istituzioni politiche competenti, nemmeno gli enormi servizi d'informazione, potevano prevedere questo "capriccio logico" della storia. Assumiamo dunque come un "peccato veniale" la fede nella crescita della raziona­lità dell'umanità, la fiducia allora logica che l'enorme e comune sofferenza duran­te il fascismo e il comunismo avesse fatto finalmente maturare nei popoli della regione lo spirito di tolleranza e la saggezza della riconciliazione.

In conclusione, possiamo meditare se ciò sia dovuto a un semplice errore o al tenace aggrapparsi all'utopia razionale. O forse bisogna concludere con Emst Mach che conoscenza ed errore provengono dalla stessa fonte. Resta, ora come prima, senza risposte la domanda se dobbiamo ancora insistere nelle utopie razionali o se dobbiamo rinunciare a questo errore sontuoso della ragione. Lasciamo per ora senza risposte questa domanda - per la prossima generazione di storici.

Note

l. Gli storici attivi e prestigiosi hanno alzato la voce contro la concezione e il metodo stalinisti già all'inizio dell956, nel famoso circolo d'opposizione "Petofi". Cfr. A. B. Hegediis (ed), A Pet6fi-Kor vitai hiteles jegyz6konyvek alapjan, III, Torténész-vita, Budapst 1990. Dopo la rivoluzione poterono naturalmente uscire delle autentiche pubblicazioni o all'estero o nella Samizdat-Literatur. V. per esem­pio A forraladom el6zménei, alakulasa és ut6élete (nella collana Magyar Fiizetek), Paris, N. J. 1987.

2. Torténettudomany és tortenéti tudatformalas, in "Torténelmi Szemle", 1969, fase. 3 4.

3. Péter Hanak, Ragaszkodas az ut6piahoz, Budapest 1993, pp. 156-158, 215-216.

4. J. Sziics, Ungarns regionale Lage in Europa, in H. P. Burmeister-F. Boldt (edd), Mitteleuropa. Traum

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Il contributo degli storici ungheresi alla trasformazione democratica

oderTrauma, Bremen 1988, pp. 161162.

5. J. Sziics, The Three Historical Regions of Europe, in "Acta Historica Academiae Scientiarum Hungaricae", 29, 1983, fase. 2-4, pp. 152-161.

6. P. Zs. Pach, A kozép kelet eur6pai régi6 az ujkor kezdetén, "Budapesti Ki:inyvszemle", autunno 1991, pp. 351-361. Osservazioni critiche di P. Hanak in Kedzjiik ujra a régiovitat?, ibidem, estate 1992, p. 145.

7. La rivista "Szazadvég" pubblicò una raccolta di articoli sulla Mitteleuropa, in cui venivano messe a confronto diverse concezioni. Cfr. Kell-e nekiink Ki:izép Europa?, numero speciale della rivista cit., Budapest 1989. Contemporaneamente è stata pubblicata in Inghilterra un'altra raccolta con gli stessi obbiettivi, v. G. Schi:ipflin- N. Wood, Search of Centrai Europe, Oxford 1989.

8. Sembra che nel1994 gli Stati Uniti e l'Unione europea abbiano definitivamente riconosciuto il dirit­to ad esistere ed il valore della Mitteleuropa.

9. P. Hamik, Ungarn in der Òsterreichisch-Ungarischen Monarchie: Ùbergewicht oder Abhangigkeit?, in Ungarn in der Donaumonarchie, Wien-Miinchen-Budapest 1984, pp. 264-277.

10. I. T. Berend-G. Ranki, Ki:izep Kelet Europa gazdasagi fejlodése a 19 20. szazadban, Budapest 1976; trad. it., Lo sviluppo economico nell'Europa centro orientale nel XIX e nel XX secolo, Bologna 1978; L. Katus, Economie Growth in Hungary during theAge ofDua1ism (1867-1913), in E. Pamlény, Sozial-okonomische Forschungen zur Geschichte von Ost-Mitteleuropa, Budapest 1970.

11. P. Locsei, Az emlékezés gyozelme a feledés felett, in "Demokrata", 1987, fase. 7-8, pp. 1-5; dello stesso, Ònéletrajzi emlékezés a Magyar Oktober 30. évfordulojara, in "Magyar Fiizetek", Paris, 18, 1987, pp. 131-137; A B. Hegediis (ed), òtvenhatrol nyolcvanhatban, Szazadvég- '56- os Intézet, Budapest 1992.

12. Le informazioni fondamentali si trovano in A. B. Hegediis (ed), 1956. A forraladom kronologiaja és bibliografiaja, Budapest 1990. Un ottimo studio specialistico è quello di L. Varga, Az elhagyott ti:imeg. 1950-1956, Budapest 1994.

13. Vorrei menzionare solo alcuni lavori rappresentativi: P. Engel, Beilleszkedés Europaba. A kezde­tekt6l 1440 ig, Magyarok Europaban I, Budapest 1990; F. Szakaty, Viragkor és hanyatlas 1440-1711, Magyarok Europaban II, Budapest 1990, D. Kosary, ùjjaépités és polgarosodas 1711-1867, Magyarok Europaban III, Budapest 1990; Z. L. Nagy, Magyarorgszag ti:irténete 1919-1945, Debrecen 1991. Per il resto della letteratura v. F. Glatz, The Selected Bibliography of Hungarian Historical Science 1985-1990, Budapest 1990 e anche le bibliografie annuali dell'Istituto di storia dell'Accademia delle Scienze ungherese.

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Peter Hanak

14. Poco dopo la rivoluzione del 1956 la rivista "Torténelmi Szemle" pubblicò i materiali di un'in­chiesta sul nazionalismo (A nacionalismus torténelmi gyokeneir61, "Torténelmi Szemle", 1960, fase. 2-3, pp. 310-380.). Questo simposio ebbe il difetto che la maggior parte dei partecipanti consideras­sero il nazionalismo come un fenomeno del passato.

15. Un esempio caratteristico è il "Programma per il mutamento di sistema" curato nel 1989 dall'Associazione dei Liberaldemocratici, criticato da J. Kornai, Régi és iij ellentmondasok és dilemmak, Budapest 1989, pp. 174 ss.

16. Uno dei libri più recenti sull'immagine dell'altro è: L. Kontler (ed), Pride and Prejudice. National Stereotypes in 19th and 20th Century Europe East to West, Centrai European University, Budapest 1995.

17. C. Milos, Centrai European Attitudes, in "Cross Currents", 5, 1986, pp. 102-1 03; P. Hanak, Alkat és torténelem, in "Vilagossag", Budapest 1994, fase. 56, pp. 32-33.

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Drago Roksandic Università di Zagabria

La storiografia croata dopo il1989*

Durante il processo della nascita dell'"Europa dopo il 1989" la storia non ha ovunque lo stesso senso e lo stesso significato. Nel caso croato si tratta di aspetti particolarmente importanti per la comprensione della natura del grande rivolgimen­to del1990-91. Il crollo della comunità jugoslava e dell"'autogoverno socialista", l'autodeterminazione del popolo jugoslavo e la proclamazione dell'indipendenza statale e infine soprattutto la guerra difensiva (dal1991) sono tutte realtà impossi­bili da comprendere al di fuori del loro contesto storico. Impossibili da comprende­re e anche da spiegare. Tutto ciò che è accaduto negli ultimi anni, che accade ed accadrà ancora alla Croazia ha anche un suo più ampio contesto mitteleuropeo, sudesteuropeo e mediterraneo, comunque europeo e non può affatto venir spiegato soltanto dal punto di vista nazionale, tanto meno se si perdono di vista le sfide del futuro, che la società croata "post 1989" condivide da un punto di vista regionale.

Anche se nel 1989 non fui proprio entusiasta dell'uso del concetto di "rivolu­zione" per identificare gli avvenimenti accaduti "a est della Cortina di ferro", poi­ché mi faceva troppo pensare alla nostalgia degli intellettuali liberali di sinistra per gli ideali traditi della propria giovinezza e del proprio passato di comunisti, è tutta­via sicuro che i11989 fu da un certo punto di vista senza dubbio una "rivoluzione". Sia le élites che le masse in questa parte del mondo provarono una tale euforia da ottimismo storico, liberarono tali aspirazioni, "saltarono" semplicemente "delle epoche" nel loro "ritorno in Europa", o più modestamente nella loro "adesione all'Europa", comunque nel loro "ritorno alla normalità", che ogni scetticismo intel­lettuale - soprattutto quello fondato sull'analisi storica realistica del potenziale di conflitto esistente nella "linea di separazione" delle epoche - equivalse più o meno dappertutto ad un' autosqualificazione pubblica, che non ebbe affatto delle conse­guenze terribili. Per facilitare mentalmente questo "ritorno", fu soprattutto necessa­rio sviluppare la coscienza storica che "noi" siamo sempre stati "Europa" e che "i cinquant'anni di pensiero unitario" imposti dall'Oriente "bizantino e dispotico­orientale" non hanno niente a che fare con l"'autocomprensione storica" del popo­lo croato. Pertanto anche la politica ufficiale (e non soltanto ufficiale!) croata del 1990-91 fu particolarmente storicistica.1

Lo storicismo doveva rispondere a quelle incertezze riguardo al futuro, per cui la politica e le scienze sociali applicate non avevano "risposte". Questa spiegazio­ne non è però sufficiente. L'orientamento verso l'indipendenza statale della Croazia

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Drago Roksandic

presupponeva necessariamente anche una "sanzione" storica. Pertanto vi fu anche la necessità di una completa reinterpretazione della storia croata. La miglior prova di ciò è costituita dalla costituzione della Repubblica di Croazia del dicembre 1990, di un epoca quindi in cui la Croazia apparteneva ancora alla comunità yugoslava. La costituzione mostra veramente nel modo migliore in cosa consista la sintesi della storia croata e quali siano le coordinate del futuro della Croazia. Il fatto che questo frammento sia stato senza dubbio scritto dal presidente della Repubblica dr. Franjo Tudjman, che è egli stesso uno storico, gli attribuisce ancora di più un peso parti­colare. Varrebbe veramente la pena di analizzare il frammento del "Preambolo", cioè delle disposizioni, con cui inizia la costituzione.2

Dalle "guerre turche" nel Cinque e Seicento le aspirazioni culturali e politiche dei croati sono state raramente così rivolte verso l'Europa occidentale come lo sono ora, ma la tragica realtà fa sì che esse restino "intrecciate" alla parte sudorientale del continente, cioè alla penisola balcanica. Ogni tentativo di comprendere la situazio­ne spirituale e culturale postjugoslava e post-socialismo reale croata contempora­nea deve tenere in considerazione questo fatto, che è al centro di tutte le contraddi­zioni verificatesi finora nelle scienze umane, nelle ideologie nazionali, nella politi­ca, nell'economia, ecc .. Alcuni storici sono diventati particolarmente consapevoli dell'importanza delle sue origini e del suo significato. Tuttavia sarebbe sbagliato non escludere fin dal principio l"'eccezionalismo" croato da una considerazione analitica di questa situazione. L'intera storia croata e l'intera tradizione culturale rispecchiano le esperienze contraddittorie soltanto di un unico popolo ai margini dell'Europa centrale, dell'area mediterranea e della penisola balcanica. Ciò non diminuisce certo la necessità di una reinterpretazione della propria identità, né la necessità di affrontare continuamente sul piano pratico delle nuove sfide storiche riguardo sia ai rapporti esistenti all'interno delle "cerchie" culturali, a cui apparten­gono la cultura e gli intellettuali croati, che ai rapporti di queste cerchie tra loro. Le attuali tragiche divisioni nella politica e nella cultura e, in misura non indiffe­rente, nella stessa storiografia riguardo al ruolo dei croati come "antemurale chri­stianitatis" rispetto all'Europa meridionale o di "porta dell'occidente" per i loro vicini dell'Europa sudorientale sono solo uno dei numerosi riflessi di queste con­traddizioni. E' pertanto questione di confini e di penetrazioni, la cui natura molto spesso è non tanto spazi al e o geografico-fisica, quanto culturale - all'interno della trinità dominante di cristianesimo occidentale, cristianesimo orientale e Islam. Si tratta dunque in ultimo di confini tra civiltà. La storiografia croata ha raramente affrontato tanto quanto ora delle sfide di tipo pratico nel considerare le conoscenze e le loro implicazioni. Tuttavia questa reinterpretazione della propria identità non fu mai unanime, anche se si includono i tempi del più forte "pensiero d'unità" e della repressione da parte del partito-stato, e ancora meno può esserlo oggi, nonostante non siano rari dappertutto, e in vari modi anche nella storiografia, gli appelli all"'unità nazionale". E' pertanto opportuno voltarsi un attimo indietro. Jaroslav Sidak, che fu per decenni una figura centrale della storiografia croata "dopo il

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La storiografia croata dopo il 1989

1945", nell'articolo "La storiografia croata, il suo sviluppo e il suo stato attuale (1971)"- pubblicato il 21 giugno 1971 e ripubblicato in un libro dieci anni dopo al tempo della "primavera croata",3 quando nella storiografia croata vennero spesso lasciate in eredità conoscenze dall'origine spesso controversa- poté giungere a que­sta conclusione: " ... la storiografia croata non ha bisogno di alcuna Canossa di nes­sun genere.( ... ) Ciò che essa deve «nei confronti dell'epoca e del suo popolo» non può essere altro, se vuole rimanere una scienza, che la ricerca della verità storica, per quanto difficile e dolorosa essa possa essere, e non il pragmatismo, di qualun­que tipo esso sia, che abbiamo finora sempre condannato negli altri e contro cui abbiamo combattuto fino all'ultimo".4 Proprio nel1971 fu fondato per iniziativa di un professore della sezione storica della facoltà di filosofia di Zagrabria l'odierno Istituto di storia croata. Si trattò della prima istituzione di questo tipo nella peral­tro tradizionalmente ricca storiografia croata. Vi lavorano oggi 42 ricercatori; si tratta della più grande concentrazione di questo tipo in Croazia. Le ricerche della storiografia croata sono naturalmente incentrate sulla storia croata. Dalla fondazio­ne del menzionato Istituto è rimasta sempre aperta la questione su come si doves­sero studiare i problemi fondamentali della storia nazionale in un contesto regiona­le ed europeo. Mirjana Gross e Igor Karaman, che sono ora i membri più stimati di quest'istituto, possono anche ora proclamare con la coscienza tranquilla che la sto­riografia croata riuscì sempre, confrontandosi con le proprie esigenze di ricerca nel quadro di un sistema di "tolleranza repressiva", ad assicurarsi uno spazio d'autono­mia intellettuale, uno spazio che peraltro essa ridefinisce e riafferma anche oggi. Sarebbe sbagliato accettare incondizionatamente queste posizioni. Bisogna dire che negli anni dopo il 1991 i contenuti della storiografia croata accademica furono anche aspramente criticati e proprio dal suo interno. Per distinguere da altre situa­zioni nell'Europa centro-orientale è però necessario dire che qui si trattava e si trat­ta di persone che prima dell990 non si erano "distinte" in nulla e in particolare non si erano distinte come promotori di "tendenze europeizzanti" nella storiografia croata sollevando questioni più o meno tabù nella ricerca storica. Pertanto la loro lotta, condotta in nome di "più alti ideali nazionali" nella storiografia, dovette esse­re necessariamente connotata da un'ideologia nazionale. Uno di questi critici, che ha conseguito il dottorato di storia, dichiarò il 17 settembre 1993, enunciando }"'argomento chiave" della sua critica della storiografia croata: "La nostra storia­grafia parla per esempio ancora dell'antifascismo, diffamando gli Ustascha".

Anche oggi si può dire che nello sviluppo della storiografia croata cambiano di epoca in epoca i punti centrali delle reinterpretazioni storiografiche, ma non cam­bia l'atmosfera di dialogo critico. Da questo deriva la mia convinzione personale, con cui molti non si diranno d'accordo, perché se ne può fare abuso. In questo lungo periodo dall'inizio dell'Ottocento, cioè dall'epoca dell'anticipazione della moder­nizzazione e delle fasi iniziali dell'integrazione nazionale nell'Europa centrale e meridionale, fino alla fine del XX secolo, cioè fino al crollo della "modernizzazio­ne", che aveva le sue radici nel paradigma comunista (1990), e alla proclamazione

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Drago Roksandic

dell'indipendenza nazionale della Repubblica croata ( 1991 ), lo "jugoslavesimo" e la "Jugoslavia" non ebbero da nessun'altra parte nell'area slavica del sud, nel con­testo della ricerca storica di "formule" risolutive per i numerosi problemi politici, di diritto costituzionale, economici e altri ancora, così tanti convinti sostenitori e convinti oppositori come in Croazia - sia nella maggioranza croata che nella mino­ranza serba della Croazia. Anche se non si fosse arrivati alla dissoluzione nella guerra della comunità jugoslava, cioè anche se la disgregazione della Jugoslavia fosse avvenuta pacificamente e senza conseguenze così tragiche per la Croazia, il "passaggio" da un'epoca all'altra sarebbe stato ugualmente gravato dalle numerose insicurezze, dai problemi e dalle difficoltà del post-Jugoslavia. Pertanto anche tutte le controversie riguardo alla realtà spirituale e culturale e allo sviluppo della storia­grafia sono molto più complesse di quanto normalmente appaia sotto l'influenza delle concezioni prodotte dalla polarizzazione bellica. Lo "jugoslavesimo" e la "Jugoslavia" sono, se viste dalla prospettiva croata dopo il 1991, "morti", ma ciò non significa che nella storiografia questi temi siano stati anche in minima parte risolti con delle "grandi parole". La grande maggioranza degli storici accademici di tutte le generazioni ne è completamente persuausa. Perciò proprio tra gli storici di professione della Croazia, e soprattutto tra coloro che sono eredi della tradizione di dialogo critico e di comunicazione con la storiografia europea e mondiale, vi è la più forte resistenza contro l"'uso della storia" pragmatico, che si esplica soprattut­to attraverso i tentativi (non) ufficiali di istituzionalizzare la "dimenticanza storica" ogni volta che si tratti di questioni "gravi e dolorose", per parafrasare Jaroslav Sidak.

Sarebbe estremamente errato concludere che in Croazia nella distinzione da parte accademica di storiografia "accademica" da un lato e di storiografia "di popo­lo" dall'altro non vi sia alcuna comprensione per gli imperativi della comunicazio­ne pubblica nell' estremamente difficile situazione croata, che è ulteriormente gra­vata da "piccolezze", come la grave crisi editoriale, l'inevitabile limitazione della comunicazione pubblica a causa della guerra, ecc ... Certo si potrebbe dire che in una tradizione storiografica come quella croata, che raramente è stata esposta così come ora alle sfide della comunicatività letteraria, diventa particolarmente importante, soprattutto tra gli storici più giovani, il modo in cui vengono comunicate le cono­scenze storiografiche. Tra i giovani storici ha avuto successo la nuova società stori­ca "Otium", che si è posta come obbiettivo proprio la promozione della cultura della comunicazione storiografica. Inoltre un punto di riunione delle diverse generazioni di storici e di romanisti è il laboratorio storico croato-francese, che fu fondato con l'ambizione di aprire, nel dialogo con la propria tradizione, anche il dialogo con la "nuova storia" francese, per la quale vi è in Croazia più interesse che mai, anche se i rapporti durano già da decenni. Il convegno internazionale "Teaching the Comparative History of Centrai- and South-East Europe", che si è appena tenuto a Zagabria (9-12.6.1994) con la partecipazione di circa trenta ospiti stranieri prove­nienti fin da Washington, Mosca e Ankara è stato pure esplicitamente "transgenera-

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La storiografia croata dopo ill989

zionale", con grande partecipazione degli studenti. Il convegno è stato aperto a nuovi temi, a nuovi arrivi, a nuovi tipi di comunicazione, ma è rimasto anche senza un sostegno ufficiale. Le innovazioni hanno appunto i loro limiti.

Tutte queste nuove iniziative trovano un appoggio diretto o indiretto nella facoltà di filosofia di Zagabria.

L'ex Istituto per la storia del movimento operaio della Croazia è da anni la più grande concentrazione di ricercatori in Croazia. Anche se l'Istituto di storia con­temporanea esiste de facto già da molto tempo, è stato chiamato così soltanto dopo il fondamentale cambiamento del sistema politico. Incomincia però a perdere in larga misura il carattere storico-contemporaneistico, che si era affermato faticosa­mente nel corso di molti anni. Sembra che oggi l'Istituto si occupi soprattutto della storia della frontiera militare della Croazia (XVI-XIX secolo) e, se tratta il XX secolo, lo fa sacrificando soprattutto gli anni 1941-1945 e quelli dopo il 1945.5

Recentemente sono stati svolti sempre più lavori sulla storia della chiesa cattolica croata. Senza dubbio tutto ciò che l'Istituto fa è importante per la storiografia croa­ta, si pone però la domanda se questa sia veramente la sua funzione, per non parla­re di come esso svolge il suo ruolo di istituzione, che oggi gode delle migliori con­dizioni per una produzione regolare di riviste. E' un fatto che il crollo della "autoamministrazione socialista jugoslava" in Croazia non ha costituito per l'Istituto uno stimolo sufficiente per intraprendere delle complesse ricerche storiche interdisciplinari sul periodo 1941-1990, per non parlare del periodo precedente (1918-1941).

In Croazia si è pienamente convinti del fatto che per il futuro della cultura e della società croate siano essenziali dei cambiamenti fondamentali nell'agire spirituale. E' fuori discussione che sia la scuola che la ricerca nelle scienze sociali e umanisti­che debbano essere radicalmente cambiate. Su tutto il resto vi è polemica nella comunità accademica e nell'opinione pubblica. Dato il monopolio del potere da parte della Comunità democratica croata e l'alto grado di centralizzazione nelle decisioni sullo sviluppo dell'università e della ricerca, che sono ineguagliati nelle tradizioni croate sia del XIX che del XX secolo, prima e dopo il "1945", le diffe­renze di posizioni e d'interessi negli ambienti universitari vengono non di rado risolte con gli strumenti del "potere meccanizzato". Perciò anche il concetto inau­gurato ufficialmente di "rinnovamento istituzionale" non è per nulla amato. Nemmeno i funzionari del partito di governo lo usano troppo spesso, anche se la politica culturale indicata da questo concetto continua ad essere realizzata in modo "conseguente". Nel volume collettaneo promosso ufficialmente "Il rinnovamento spirituale della Croazia" 6 è presente solo un unico storico laureato, Djuro Vidamarovic, che è peraltro un funzionario del partito di governo. Nell'Appendice "Storia e rinnovamento spirituale" egli dice tra l'altro: "Devo con rincrescimento constatare che a questo convegno non ha partecipato alcuno storico croato".7

Alcune delle sue critiche ai manuali di storia del periodo precedente restano senza dubbio valide - anche se critiche analoghe furono espresse anche prima del 1990 -

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ed è chiara la sua critica alle tendenze "megalomani" delle ricerche "etnogeneti­che", per esempio quelle sull'origine iraniana dei croati (con un ricco sostegno sta­tale!) iniziate dopo il1990. Tuttavia provocano disagio posizioni come la seguente: "Soltanto chi possiede l'identità nazionale croata può scrivere manuali di storia".8

Il meno che si possa dire è che si tratta di un "nazionalismo burocratico". Esso ha necessariamente un effetto riduttivo sul rapporto con la storia croata. Al posto della ricerca e del giudizio critico "fino ali' ultimo" sull'eredità storica, con "priorità", che siano la conseguenza della scelta scientifica di oggetti di ricerca, di imperativi metodologici, ecc ... nei metodi di interventismo statale che questo adot­ta, appaiono progressivamente nuove tendenze di sviluppo della storiografia croata. Esse sono adeguate alla "visione del mondo" e alla concezione della storia croata che l'ideologia politica del partito di governo suggerisce. La storiografia accademi­ca ne è ancora molto lontana. Tuttavia il controllo statale delle università è in una grande misura già una realtà. E' difficile prevedere cosa tutto questo significhi per il futuro della storiografia croata. E' certo che la storiografia croata è fortemente inserita nelle tendenze dominanti della storiografia europea. E' proprio questa però la garanzia più certa del suo futuro.

Appendice Dal Preambolo della costituzione della Repubblica croata ( 1990)

"Il popolo croato ha conservato nei millenni la sua indipendenza nazionale e la sua consistenza e ha conservato e sviluppato, al di là degli avvenimenti storici, in diverse forme di stato, l'idea fondamento dello stato di un diritto storico del popo­lo croato alla piena sovranità statale; ciò si manifestò

-nella nascita dei principati croati nel VII secolo; -nel regno dei croati sorto nel X secolo; -nel mantenimento della qualità di soggetto statale della Croazia durante l'u-

nione personale croato-ungherese; -nella decisione sovrana del parlamento croato nel 1527 sull'elezione del re

della dinastia asburgica; - nella decisione indipendente e sovrana del parlamento croato sulla

Prammatica sanzione del1712; -nelle decisioni del parlamento croato nel1848 sul ripristino dell'unione del tri­

regno della Croazia sotto il dominio del vicerè in base al diritto storico, statale e naturale del popolo croato;

- nel compromesso croato-ungherese del 1868 sulla sistemazione dei rapporti tra il regno di Dalmazia, Croazia e Slavonia e il regno d'Ungheria sulla base dei diritti tradizionali dei due stati e della Prammatica sanzione del1712;

-nella decisione del parlamento croato del29 ottobre 1918 sullo scioglimento dei rapporti di diritto pubblico tra Croazia e Austria-Ungheria, che si richiama al diritto nazionale storico e naturale, e nella contemporanea adesione della Croazia

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La storiografia croata dopo il1989

indipendente allo sttao degli sloveni, dei croati e dei serbi, proclamato sull'allora territorio della monarchia asburgica;

- nel fatto che la decisione del Consiglio nazionale dello stato degli sloveni, dei croati e dei serbi (SHS) sull'unione con la Serbia e il Montenegro nel regno dei serbi, dei croati e degli sloveni (l dicembre 1918)- poi (3 ottobre 1929) proclama­to regno di Jugoslavia - non fu mai sanzionata dal parlamento croato;

-nella fondazione nel1939 del viceregno di Croazia, con cui fu ristabilita l'in­dipendenza croata nel regno di Jugoslavia;

- nella determinazione del fondamento della sovranità statale durante la secon­da guerra mondiale, che si manifestò nell'opposizione alla proclamazione dello Stato indipendente di Croazia (1941) e nelle decisioni del Consiglio territoriale della liberazione popolare antifascista della Croazia ( 1943); poi nella costituzione della Repubblica popolare di Croazia e nella costituzione della Repubblica socia­lista di Croazia (1963-1990).

Nel rivolgimento storico che ha portato alla liberazione dal dominio comuni­sta e in riferimento ai cambiamenti nel sistema internazionale europeo il popolo croato ha affermato liberamente nelle prime elezioni democratiche (1990) la sua millenaria indipendenza statale e la sua decisione di fondare lo stato sovrano della Repubblica croata".

Note

* Il testo qui riprodotto è lo stesso presentato dall'Autore al convegno, senza che gli sia stato possibi­le rivederlo [ N.d.C.].

l. Tutto ciò che è stato scritto in quel periodo deve essere giudicato dal punto di vista scientifico, poi­ché si tratta di una produzione particolarmente abbondante, che solo in parte seguì il processo di svi­luppo della storiografia croata nel XX secolo. E' sicuro che all'interno di questa produzione gli effet­ti più distruttivi furono provocati dalla pubblicazione di quei lavori che nel periodo precedente furo­no nascosti per i motivi più diversi alla storiografia croata e all'opinione pubblica dalla censura di par­tito. Solo in casi eccezionali di grande importanza scientifica il contenuto e il valore di questi lavori ebbe effetti sconvolgenti, perché provò la mediocrità e l' assoluta povertà spirituale della politica con­dotta dal partito verso la storiografia in numerosi casi.

2. V. Appendice l.

3. Attraverso cinque secoli di storia croata, Zagreb 1981, pp. 351-369.

4. Ibidem, p. 369.

5. Per comprendere meglio le riflessioni sul futuro sviluppo della ricerca nella storiografia croata con-

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temporanea è indicativo il saggio "Croazia 1941. Saggio in occasione del cinquantesimo anniversario dell'inizio della lotta antifascista". Fu pubblicato nella "Rivista di storia contemporanea" (1-3, 1991, pp. 57-104), la rivista dell'Istituto di storia contemporanea. I testi che vengono pubblicati in questa rivista sono peraltro i più indicativi sulle tendenze delle ricerche sulla storia croata contemporanea. Balza all'occhio però la mancanza di lavori sostanziosi su aspetti fondamentali. Anche se il lavoro in due volumi di Stjepan Antoljak "La storiografia croata fino al 1918", (Zagabria 1993) è stato scritto nel corso di molti anni, questa pubblicazione ha un rapporto immediato con le questioni, che hanno un significato attuale per la ricerca. Sebbene se vi siano state recensioni di questo libro, si può affermare che la sua pubblicazione ha aperto un gran numero di settori di ricerca, che non sono stati ancora nem­meno identificati. Il libro di Mirjana Gross e Agneza Szabo, Verso la società civile croata. Lo svilup­po sociale nelle civili Croazia e Slavonia degli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo (Zagreb 1992) è la culminazione di ricerche di più anni sulla modemizzazione della società croata ed è tanto più indi­cativo per il fatto che fino ad oggi non vi è praticamente stata alcuna discussione scientifica. Se sia per l'uno che per l'altro caso è possibile "costruire" le spiegazioni più diverse, è più difficile spiegare per­ché anche il lavoro in due volumi di Franjo Tudjman, La Croazia nella Jugoslavia monarchi ca (Zagreb 1993) sia stato, tranne che in qualche caso, considerato nello stesso modo.

6. Zagreb 1992.

7. Ibidem, p. 120.

8. Ibidem, p. 121.

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Gli autori del volume

Giovanni Miccoli,

George G.lggers,

professore di Storia della Chiesa presso la Facoltà di Lettere e Direttore del Dipartimento di Storia dell'Università di Trieste.

professore emeritus presso la State University of New York,sede di Buffalo.

Giampasquale Santomassimo, professore di Storia della Storiografia presso l'Università di Siena.

Bernd F aulenbach,

Karl Stuhlpfarrer,

Javier Tusell,

Gustavo Corni,

Kurt Piitzold,

Horst Gies,

Wolfgang Kiittler,

direttore del Forschungsinstitut fiir Arbeiterbildung presso la Ruhr-Universitat di Bochum.

docente presso l' Institut fiir Zeitgeschichte dell'Università di Vienna.

professore di Storia contemporanea presso l'Universidad de Educacion a Distancia di Madrid.

professore di Storia della Germania presso l'Università di Trieste.

già docente di Storia contemporanea presso la Humboldt Universitat di Berlino.

professore di Didattica della Storia presso la Freie Universitat di Berlino.

ricercatore presso il Forschungsschwerpunkt Wissenschaftsgeschichte un - theorie di Berlino.

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Francesco Benvenuti,

Marek Waldenberg,

Peter Handk

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professore di Storia dell'Europa orientale presso l'Università di Bologna.

professore di Storia delle Dottrine Politiche presso l'Università Jagellonica di Cracovia.

professore di Storia contemporanea presso la Centrai European University di Budapest.

professore di Storia contemporanea presso l'Università di Zagabria.

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Quaderni del Dipartimento di Storia dell'Università di Trieste

l. Introduzione all'uso delle riviste storiche, a cura di N. Recupero e G. Todeschini (1994).

2. I muri della storia. Storici e storiografia dalle dittature _alle democrazie 1945-1990, a cura di G. Corni (1996).

in preparazione:

3. G. Paolin, Lettere familiari della nobildonna veneziana Fiorenza Cappello Grimani ( 1592-1605).

4. T. Catalan, La comunità ebraica di Trieste. Politica, società e cultura (1781-1915).

5. A. Vinci, Storia dell'Università di Trieste.

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