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Acea SpA Funzione Regulatory Piazzale Ostiense 2, 00154 Roma Tel. 06 5799 6445, Fax 06 5799 6992 [email protected] www.acea.it
Cap.Soc. Euro 1.098.898.884,00 iv CF, P.IVA e Registro delle Imprese di Roma 05394801004 CCIAA RM REA 882486
Acea SpA - Funzione Regulatory
Spett.le Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico Direzione Infrastrutture Piazza Cavour 5 20121 Milano e-mail: [email protected] Prot. n. 10/P/RY del 31 luglio 2015
Osservazioni al documento di consultazione 275/2015/R/EEL
“CRITERI PER LA DETERMINAZIONE E L’AGGIORNAMENTO DEL TASSO
DI REMUNERAZIONE DEL CAPITALE INVESTITO PER LE REGOLAZIONI
INFRASTRUTTURALI DEI SETTORI ELETTRICO E GAS.
ORIENTAMENTI INIZIALI”
*** 1. ASPETTI INTRODUTTIVI
OSSERVAZIONI GENERALI
Acea esprime apprezzamento per la consultazione pubblica avviata dall’Autorità con il
documento in esame, per la qualità degli obiettivi che l’Autorità intende perseguire
(Stabilità e certezza del quadro regolatorio; Adeguatezza del livello di remunerazione,
tenuto conto dei profili di rischio del settore; Tutela degli utenti del servizio) e per aver
ribadito gli obiettivi base della regolazione tariffaria (art. 1.1 legge n. 481/95),
confermando l’intento di dare sostanziale stabilità e affidabilità al quadro regolatorio
futuro (“certo, trasparente e basato su criteri predefiniti”).
Per Aziende regolate, la cui attività è di servizio pubblico e con elevata intensità
infrastrutturale, la leva tariffaria è evidentemente essenziale nella determinazione della
capacità degli operatori di auto-finanziarsi e, pertanto, di gestire il servizio in condizioni
di sostenibilità.
La delicatezza del tema proposto è particolarmente forte in quanto da esso dipende,
come è noto e come meglio qualificato da appresso, l’equilibrio economico finanziario
delle società oggetto di regolazione e anche la capacità di finanziare nuovi investimenti e,
in generale, di cogliere le sfide industriali che si prospettano nel prossimo futuro.
2
Dal punto di vista del quadro macroeconomico, delle prospettive del settore di
riferimento e della peculiarità delle aziende interessate in termini di attività e
accesso al credito, si ritiene opportuno rappresentare i seguenti punti.
L’andamento Macroeconomico e le variabili esogene.
L’economia mondiale, sempre più interconnessa, si trova a vivere un momento di
particolare incertezza, ed in maggior misura l’area Euro.
La crisi che ha colpito l’economia mondiale a partire dall’estate del 2007, e che ancora
oggi incide sullo sviluppo economico di diversi paesi anche nell’area euro, è dovuta a un
gran numero di fattori, molti dei quali comuni a tutti i paesi industrializzati, mentre altri
più specificamente caratteristiche della zona euro, dove hanno prolungato e accentuato
gli effetti della crisi stessa.
Dopo il primo decennio di stabilità dell’Euro, post bolle finanziarie, la zona è stata
caratterizzata da un circolo vizioso tra banche e debito sovrano, spostando la crisi dal
sistema bancario alle finanze pubbliche e diventando una “crisi dei debiti sovrani”, con
ripercussioni dirette sull’economia reale dei paesi a maggiore rischio default.
Oltre all’innesco di matrice finanziaria, l’area euro ha subito peggioramenti relativi alla
propria competitività: nel decennio successivo all’introduzione dell’euro, in diversi paesi
dell’area, il costo unitario del lavoro è aumentato spostando la produzione verso paesi in
cui era rimasto stabile, se non diminuito, con conseguente aumento del tasso di
disoccupazione.
Alla comparsa dei segnali di perdita di competitività, i mercati che fino ad allora non
avevano tenuto conto delle differenze esistenti in termini di rischi economici e finanziari
all’interno dell’Area, hanno rivalutato il rischio ed il potenziale di crescita dei
singoli paesi, provocando il deflusso di fonti di finanziamento essenziali per gli
investimenti ed accentuando così ulteriormente gli effetti della crisi. Dunque, la
crisi e la conseguente rivalutazione dei rischi dei singoli paesi, ha determinato un
aumento dei tassi di interesse dei titoli dei paesi più colpiti dalle dinamiche del rischio
default nella zona euro, portandoli ad un livello nettamente superiore persino a quello di
alcuni paesi in via di sviluppo, come rappresentato dai grafici che seguono.
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In sintesi, la crisi del 2007, partita dagli Stati Uniti e successivamente estesa a tutto il
resto del mondo, è stata una crisi molto profonda, ma la sua durata non è stata superiore
alle normali recessioni: infatti, gli Usa recuperano già a metà del 2009. Per l’Europa,
invece, l’uscita dalla crisi è ancora un obiettivo. Nel frattempo, oggi, si aggiungono
ulteriori complicazioni legate ad un indebolimento più generale di Cina, Russia e Brasile.
A dimostrazione di questa difficoltà di ripartenza dell’eurozona, un primo segnale tra tutti
è il corso dei prezzi del petrolio, crollato a causa della sovraproduzione conseguente alla
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doppia dinamica di eccesso di offerta (espansione della produzione non convenzionale) e
debolezza della domanda, e che avrebbe potuto far decollare fortemente l’economia
europea (almeno fino a quando i corsi del cambio con il dollaro si sono mostrati
interessanti), ma, invece, ha indotto l’innesco di fenomeni di deflazione.
In risposta, almeno a partire dal 2010, il ruolo della BCE sta stimolando la zona euro con
una serie di interventi con carattere sempre più di maggiore eccezionalità: “meccanismo
europeo di stabilità” – MES; riforma del “patto di stabilità e crescita” e l’accordo sul
“patto di bilancio”; l’Unione Bancaria e da ultimo il Quantitative Easing. Maglie che si
stringono nella direzione della uscita della crisi, della stabilità e dell’equilibrio ma che in
alcuni casi rappresentano una forza centrifuga come nel recente caso di potenziale
“Grexit”.
È chiaro che un operatore infrastrutturale e con obblighi di servizio pubblico,
davanti a tali complessità macroeconomiche, strutturali ed esogene, senta, ed
esprima, la propria necessità di essere posto al riparo da fluttuazioni ed
impennate di carattere geo-politico e politico-economico, per garantire lo
svolgimento della propria attività in maniera affidabile e sicura, sia dal punto di
vista finanziario che operativo. Prova ne è di questa visione e di questa necessità,
l’introduzione da parte della Banca Centrale Europea, all’interno del meccanismo di
“Quantitative Easing”, di importanti aziende infrastrutturali italiane.
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Tale inserimento, se da un lato securizza una parte del settore industriale infrastrutturale
italiano, introduce dall’altro differenziali difficilmente colmabili nelle diverse capacità di
credito e di assorbimento di capitali dal mercato da parte di tutti gli altri operatori del
settore. Nel prosieguo tale differenziale sarà, ove opportuno, messo in rilievo, ma a
partire da questo capitolo introduttivo viene evidenziato che eventuali
appiattimenti che prescindano dalle considerazioni che precedono possono
rappresentare una distorsione della competitività e della capacità finanziaria
delle singole aziende di rispondere efficacemente anche ai propri obblighi e
potrebbe rappresentare per il comparto un grave danno in termini di
sostenibilità, di stabilità e di equilibrio. L’azione di protezione del settore,
evidenziata proprio dall’apertura delle liste del QE alle aziende infrastrutturali italiane,
dovrebbe essere rivolta proprio alle aziende che possono soffrire dell’esclusione da tale
condizione di maggiore securizzazione rappresentata dall’equiparazione di solo una parte
del comparto ai titoli di stato..
Le variabili endogene o di settore.
La natura dell’attività riconosciuta in capo ai DSO rappresenta il punto di discontinuità e
di congiunzione insieme tra il vecchio paradigma elettrico ed il nuovo.
Fino a ieri, il ruolo del Distributore era principalmente “passivo”; di base era determinato
dal mantenere la sicurezza del sistema operativo e dall’operare come facilitatore neutrale
del mercato elettrico. Dato il suo ruolo tecnico, le sue interazioni si limitavano ai fornitori
di energia elettrica come utenti del sistema di Distribuzione, al TSO in termini di
interfaccia con il sistema di Trasmissione, e, solo in alcuni casi, con i clienti finali
soprattutto per ragioni legate alla sicurezza o alla interruzione della fornitura.
Tale ruolo, così definito, sta rapidamente modificandosi, come, d’altra parte,
ben indicato attraverso lo studio, e le conclusioni relative, illustrate nel “The
future Role of DSOs” pubblicato dal CEER e di cui qui, e anche nel prosieguo del
documento, si condividono alcuni passaggi.
In particolare, nei prossimi anni, saranno sempre maggiori le opportunità per i DSO di
avere un ruolo “attivo” nello sviluppo del mercato e del settore elettrico in generale. Le
nuove condizioni quali la funzione attiva della Domanda, le nuove tecnologie, la
liberalizzazione completa del settore Retail e la generazione distribuita, hanno modificato
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strutturalmente il ruolo e la cultura sottostante agli operatori della Distribuzione e tale
processo è diventato inarrestabile e contribuirà sempre di più a cambiare il futuro del
settore elettrico, in cui il DSO avrà un ruolo sempre più rilevante.
Tale approccio sarà sempre più vero quanto più l’Europa vorrà dotarsi, con il “Terzo
Pacchetto Energia”, di una struttura armonizzata tra tutti i mercati elettrici (cosiddetto
“target model”) e aumentare il grado di integrazione degli stessi, dove a cascata, rispetto
al ruolo dei TSO già in qualche modo partecipi e in preparazione della sfida futura, sarà
richiesto ai DSO di trasformare nei singoli Paesi il modello in realtà.
Facendo riferimento alle conclusioni di CEER, dal punto di vista dei DSO, nonostante una
grande convergenza dal punto di vista operativo tra le aziende europee del settore, vi
sono però sostanziali differenze “In particular, their activity profile can vary significantly
and there are still important differences in the degree to which different DSOs have been
unbundled across Europe”, concludendo che non esiste ad oggi un unico modello di
riferimento per i DSO nonostante siano chiamati tutti alla stessa sfida e indica alcune
modalità che possano supportare il cambio di ruolo: “Several measures to promote smart
grids and innovation have been referred to during the public consultation. These include:
i) reducing the cost recovery period, and more specifically to take into consideration a
shorter depreciation period; ii) taking into account the degree of risk in innovative
investments, due to new technology or other factors; and iii) creating specific funds or
incentives where necessary to promote the development of innovative investments which
have the potential to deliver benefits for current of future consumers. The regulatory
regime should not favour any particular type of technology but should focus on the
potential benefits for consumers”.
É chiaro che si tratta di una sfida che va colta, a cui sono sicuramente associati dei rischi,
maggiormente caratteristici delle dinamiche d’impresa piuttosto che delle attitudini delle
aziende regolate. In questo senso, e partendo da queste considerazioni iniziali che
saranno sviluppate dappresso e nei singoli punti di consultazione, è evidente che tale
sfida non può essere vinta se non con un approccio win-win, in cui le aziende di
Distribuzione rinnovano il proprio DNA a favore della modernità, della
europeizzazione e della innovazione senza che però l’evoluzione in atto possa
danneggiare il patrimonio del passato, in particolare, senza cedere alla tentazione
di porre i riferimenti finanziari avanti a quelli tecnici e di sistema, in quanto
comunque il servizio pubblico di Distribuzione Elettrica si dovrà basare innanzitutto sulla
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sicurezza e affidabilità delle proprie reti e del proprio esercizio quotidiano e da questo
bisognerà partire, piuttosto che darlo per scontato e renderlo addirittura un aggravvio.
La tipicità delle aziende coinvolte
A valle delle considerazioni sviluppate nel precedente punto, sembra opportuno indicare
che le aziende del settore, anche al di là della loro genesi e derivazione industriale,
abbiano con intensa rigorosità approcciato la loro missione di garantire una spina
dorsale infrastrutturale al Paese, facendosi carico di impegni finanziari e di
gestione di lungo se non lunghissimo termine.
Nel settore della Distribuzione la vita utile di beni come stazioni elettriche e linee di alta e
media tensione, com’è noto, traguarda i 30 anni. Data la necessità di promuovere
investimenti di lungo termine, l’approccio alle strategie di indebitamento da
parte degli operatori è giocoforza condizionato da tali circostanze che,
inevitabilmente, spingono a far riferimento a finanziamenti di lungo periodo a
tasso fisso: a titolo esemplificativo, per Acea, a fine 2014 la copertura a tasso fisso sul
totale indebitamento della Holding era superiore al 60% con una duration media
superiore ai 7 anni (tale struttura calata nella realtà della società di Distribuzione
raggiunge una duration superiore, come per il caso del finanziamento CDP a 22 anni, per
un valore pari a circa 1/5 della RAB, con tassi che restano nell’intorno del 6% e garanzie
della Capogruppo).
Con riferimento ai parametri strutturali nozionali della formula che si va aggiornando, e
dunque tipicamente la leva, ove fosse peggiorata nella direzione di un maggior
indebitamento delle aziende del settore, creerebbe aspettative dei mercati che facilmente
si tradurrebbero in un corrispondente peggioramento della percezione del rischio, del
rating e della capacità di accesso al credito, portando ulteriori elementi di rischiosità al
comparto, con potenziali effetti sul β.
Corre l’obbligo di sottolineare che il processo in corso non potrà prescindere, quindi,
dall’assicurare un quadro regolatorio stabile e trasparente e un solido riferimento
in termini di remunerazione del capitale infrastrutturale, precedentemente
investito e da investire, con uguale dignità, allo scopo di consentire a tutti gli
operatori di onorare gli impegni presi mediante una capacità finanziaria
necessaria e sufficiente a far fronte a tutte le obbligazioni derivanti da: 1) le
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proprie responsabilità di Distributore, 2) la corretta gestione operativa delle attività
sottese, 3) la tutela di tutti gli stakeholder, 4) la capacità di creare valore.
La revisione a cui si darà luogo, in termini di remunerazione del capitale investito da
parte delle aziende regolate con caratteristiche di monopolio e dinamiche di operatore
infrastrutturale, non potrà prescindere, nell’individuazione dei parametri e nella scelta
delle metodologie, anche da considerazioni relative al contributo strategico che esse
svolgono, ai fini della vita economica e sociale dell’intero Paese. Uno spostamento
verso il rischio delle componenti che si andranno a individuare farà percepire come
“rischiose” attività che viceversa sono alla base della sicurezza e della affidabilità
dell’intera nazione e che rappresentano l’ossatura energetica del Sistema Paese.
Da ultimo, ma non ultimo, la regolazione e le decisioni regolatorie tariffarie oltre a
consentire la sostenibilità del comparto infrastrutturale, rendono le aziende trasparenti
mettendo in luce, viceversa, il ruolo e l’azione di governo e di indirizzo dell’Autorità che
saprà, in merito, individuare i corretti driver e meccanismi di regolazione al fine di
condurre questo settore verso un’evoluzione dinamica e proficua a supporto della
modernità e dello sviluppo sostenibile dell’intero sistema Paese.
2. OSSERVAZIONI SUI SINGOLI SPUNTI PER LA CONSULTAZIONE
S1. Osservazioni sulla scelta di utilizzare come riferimento per la
determinazione del tasso di remunerazione del capitale investito il Capital
Asset Pricing Model
R1. Al momento non si ravvisa un modello di equilibrio di mercato più adatto per definire
il trade-off esistente tra rischio e rendimento atteso (il CAPM lega il rendimento atteso di
un titolo o di un progetto di investimento alla sua componente di rischio rilevante, vale a
dire non ulteriormente eliminabile, ossia il β).
S2. Osservazioni sulla scelta di fissare un tasso di remunerazione del capitale
investito (WACC) come media ponderata tra costo del capitale proprio e
costo del capitale di debito.
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R2. Il WACC rappresenta la più utilizzata formula di calcolo del tasso di attualizzazione e
di remunerazione del capitale offerta dalla prassi valutativa, nazionale ed internazionale,
e dunque fornisce una garanzia di riconoscibilità nell’utilizzo; non di meno contiene alcuni
limiti teorico-pratici e, per alcuni aspetti, richiede stime e valutazioni che vanno
attentamente analizzate e che nel prosieguo saranno evidenziate, con particolare
riferimento anche al grado di leva finanziaria sotteso, che rappresenta un dato sensibile e
che potrebbe dar luogo, entro certi limiti, ad incongruenze.
S3. Considerazioni sulle relazioni tra valore di mercato e valore regolatorio
degli asset come informazioni utili ai fini dell’impostazione della
metodologia di determinazione e aggiornamento del tasso di rendimento
del capitale investito ai fini regolatori
R3. Il concetto di valore di mercato degli asset, e quindi dei flussi di cassa futuri che lo
esprimono, rispetto al valore regolatorio degli asset stessi, e cioè la RAB, trova
congiunzione nella valorizzazione del tasso di sconto dei flussi di cassa futuri e dunque
nel tasso di remunerazione degli investimenti, che, nel caso di attività regolate, è
stabilito dall’Autorità. Va considerato che se, da una parte, le aziende regolate non
subiscono, dal punto di vista della produzione e della loro successiva collocazione sul
mercato, alcun elemento di pressione competitiva se non quello ”emulato” dalla
regolazione indipendente, sono, invece, in piena competizione con altre imprese, con pari
livello di rischio, nel mercato dei capitali. In altre parole, in tale mercato, al di là dei
prodotti e dei meccanismi di formazione dei prezzi, gli investitori sono interessati ad un
tasso di ritorno sugli investimenti, in funzione del rischio ed orientano, dunque,
l’impegno dei capitali a disposizione in considerazione della redditività attesa.
In generale, nella comparazione sul mercato dei capitali, se il tasso di ritorno sugli
investimenti di una azienda si discosta troppo da quello di aziende comparabili, il
disequilibrio sarà riflesso dall’alto valore di mercato della azienda rispetto alle altre.
In particolare, per aziende regolate, le conseguenze di un tasso di remunerazione del
capitale “riconosciuto” molto divergente dai valori che un investitore può facilmente
misurare per le proprie decisioni di investimento in quel comparto, comporterà che il
capitale di rischio, potenzialmente attratto da questo tipo di investimenti, si
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terrà lontano: sotto tale condizione, il valore regolatorio degli asset si discosterà dalla
misurazione adeguata del valore di mercato.
Il rischio di adottare parametri che sotto‐stimino il costo medio ponderato del capitale
sostenuto comporta, inoltre, la possibilità di adottare un tasso di remunerazione
riconosciuto inferiore all’effettivo costo del capitale che le imprese si trovano a
sostenere e, in tali circostanze, qualsiasi operazione di investimento
determinerebbe distruzione di valore.
In conclusione si fa presente che il riconoscimento di un WACC inadeguato, sia per
quanto attiene gli investimenti precedentemente effettuati che quelli da realizzare, si
riverbera negativamente sulla sostenibilità e sulla profittabilità delle imprese
infrastrutturali che svolgono un ruolo di Servizio Pubblico e, in tal senso, una elevata
discrepanza tra valore regolatorio e valore di mercato ne rappresenterebbe solo
l’evidenza.
S4. Osservazioni sull’ipotesi di adozione di logiche basate sullo split del costo
del capitale
R4. La logica dello “split cost of capital” potrebbe rappresentare un riferimento per
individuare potenziali sinergie tra le due componenti del costo d’investimento, “old” e
D/E
Kd
Ke
Wacc
Valore d’impresa
Tas
si d
i re
ndi
men
to
Va
lore di
impresa
11
“new” (rappresentate, rispettivamente, dalla stratificazione degli investimenti del passato
e dalla composizione degli stessi nel futuro), ed eventuali fattori condizionanti ed in
discontinuità rispetto alla trattazione omogenea dei due tipi di investimento.
Nel caso della regolazione Australiana, citata dal DCO, l’assunto era costituito dalla
evidenza empirica, riscontrata tramite gli andamenti delle aziende rispetto al mercato, di
un tasso di remunerazione del capitale con differenziale positivo tra quello riconosciuto
alle aziende regolate ed i tassi effettivamente registratisi sui mercati azionari; tale
condizione spingeva ad ipotizzare una riduzione del tasso di remunerazione del capitale
investito “old” (e che avrebbe già goduto di una extra remunerazione) rispetto al tasso
più alto necessario per i nuovi investimenti, per i quali veniva riconosciuta una
componente di rischio addizionale legata alla capacità realizzativa e alla aleatorietà delle
attività in fieri.
Nel caso dell’Italia, il riferimento fin qui adottato per il calcolo dei tassi di remunerazione
del capitale investito, e cioè il riferimento ai Titoli di Stato Italiani con orizzonte
decennale, è stato, come noto, il riferimento sul mercato dei capitali a cui hanno avuto
accesso tutti gli operatori, infrastrutturali e non, che si ponessero nella prospettiva di
raccogliere capitale di debito a lungo termine. In più, in una recente analisi sugli
andamenti delle utilities italiane rispetto agli indici di Borsa, condotta da Mediobanca nel
mese di luglio 2015 (Economia e finanza delle principali società partecipate dai maggiori
enti locali 2006-2013), si dimostra piuttosto che dal 2009 in poi l’andamento del
comparto si sia mostrato più modesto dell’andamento di mercato. Tale indicazione viene
esposta per condivisione, tenuto conto che, come noto, ad essere quotate non sono le
singole società regolate, ma le realtà societarie holding e anche che non tutte le case
madri sono quotate. In ogni caso, tale tipo di analisi induce una riflessione sulla creazione
di valore registrata in Italia in capo a società i cui profitti sono stati regolati e non a
mercato.
Ulteriore punto di riflessione sulla ipotesi di “split cost of capital” riguarda la
considerazione della stratificazione del debito: dato che, come sopra indicato,
storicamente, la remunerazione del capitale investito ed il riferimento scelto sono stati
effettivamente omogenei e che, sulla base di quegli indicatori, le società hanno intrapreso
percorsi di investimento, una eventuale ipotesi di valorizzazione della componente
“old” a tassi discontinui ed inferiori rispetto ai benchmark del passato
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metterebbe le aziende, che si sono indebitate nel lungo termine a quei tassi,
nelle condizioni di far fronte con estrema difficoltà alle proprie obbligazioni.
L’attuale momento di discontinuità sui mercati finanziari, come già ricordato nel dettaglio,
potrebbe rappresentare una opportunità per rivedere e separare la remunerazione tra
vecchi e nuovi investimenti, riconoscendo alla componente “old” i tassi a cui sono stati
contratti i finanziamenti sottostanti (stratificazione del debito), mentre alla componente
“new” gli attuali tassi di riferimento per tener conto della remunerazione del capitale
attesa da un investitore che si ponesse oggi sul mercato dei capitali. Tale approccio,
tuttavia, pur avendo una sua coerenza sul piano teorico, rischierebbe di non tenere
debitamente in conto il trade-off esistente tra la instabilità del momento in cui
tale condizione si verifica – con la sua potenziale volatilità - e la
capacità/flessibilità degli operatori di adeguare, nel tempo, la propria struttura
finanziaria alle mutevoli condizioni di mercato, che concorrono alla determinazione
dei parametri di riferimento della loro remunerazione. Il potenziale mutamento delle
condizioni di mercato, che in un determinato momento concorrono alla profittabilità degli
investimenti, pertanto, potrebbe altresì elevare la percezione di rischio (e dunque degli
oneri previsti) da parte dei soggetti finanziatori con conseguente inibizione e freno
all’afflusso di capitali necessari alla realizzazione degli investimenti (al riguardo si deve
tener conto della fine prevista per il Quantitative Easing, ossia settembre 2016). D’altra
parte, la possibilità di condizionare il finanziamento di una parte degli investimenti
secondo logiche di separazione tra capitale investito vecchio e nuovo, potrebbe
comportare ulteriori difficoltà: le aziende infrastrutturali per loro stessa definizione non
sono start-up ma aziende con un lungo processo di consolidamento alle spalle dimostrato
anche dalla quantità di capitale già investito, traducibile nella RAB. Tale capitale investito
rappresenta una massa critica su cui tutta la struttura finanziaria della intera azienda, e
dunque del comparto, fa perno: separare da tale blocco di riferimento, i tassi di una
porzione parziale del tutto potrebbe portare ad un peggioramento delle condizioni, un
aggravio della percezione del rischio e ad uno squilibrio tra fonti ed impieghi essendo la
vita utile dei beni sottostanti di gran lunga superiore al breve termine e tanto più allo
spot.
Infine, tale approccio andrebbe in contraddizione con la natura e le modalità operative
dei soggetti coinvolti: lato regolazione, si tratterebbe di un approccio difficilmente
conciliabile con lo scopo di garantire stabilità e predittibilità delle componenti regolatorie;
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lato operatori, nella generalità scarsamente dinamici sul mercato dei capitali, potrebbe
costituire un potenziale extra-costo tenuto conto degli oneri di rinegoziazione e della
difficoltà di smontare le strutture finanziarie esistenti a seguito della semplice
introduzione di tale meccanismo nella regolazione tariffaria.
La complessità a cui si dovrebbe dare luogo ed il breve termine a disposizione fa
ritenere stimolante, dal punto di vista intellettuale, l’introduzione del
meccanismo, ma di difficile implementazione per la partenza del prossimo
periodo regolatorio e fa propendere per un periodo di studio e monitoraggio al
fine di evitare di generare un potenziale disequilibrio finanziario del capitale
investito pregresso o in fase di programmazione.
S5. Osservazioni sulla durata del periodo regolatorio del tasso di
remunerazione.
S6. Osservazioni circa i parametri da individuare come specifici di settore
R5. L’ipotesi di un prolungamento della durata del periodo regolatorio potrebbe
rappresentare uno strumento nella direzione di una maggiore predictability della
regolazione. Tuttavia la sovrapposizione tra “periodi regolatori del tasso di
remunerazione” e “periodi regolatori tariffari”, in presenza di eventuali
aggiornamenti, nel breve termine, sia delle componenti della remunerazione del
capitale, sia di aggiornamenti lato tariffa (quali l’X-Factor), può condurre a
revisioni dell’impianto tariffario anche a distanza di un solo anno; tale approccio
può dimostrarsi poco coerente con le esigenze di stabilità e di certezza della
regolazione che, fino ad oggi, sono state assicurate dalla sostanziale stabilità
dei parametri lungo tutto l’arco del periodo tariffario.
R6. Si concorda che il parametro specifico di settore sia individuato prevalentemente dal
β ed è caldeggiato un riferimento di calcolo del β di settore “unlevered” e cioè al netto
della ipotesi del livello di indebitamento imposto.
Di diversa natura, infatti, sono le considerazioni relative al D/E. Con riferimento al calcolo
della remunerazione del capitale, il rapporto D/E rappresenta una componente fondante
in quanto il Wacc è la media ponderata delle risorse finanziarie impiegate tra capitale di
rischio e di debito: all’aumentare dei debiti, si registra una progressiva sostituzione di
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una risorsa più costosa (l’equity) con una meno costosa (il debito) e ciò consentirebbe di
ridurre il costo del capitale in virtù del beneficio fiscale del debito e finché non si
verificano incrementi rilevanti del costo del debito, il Wacc tende a diminuire. L’aumento
del valore si arresta quando l’impresa entra in una zona di rischio dovuta all’elevato
livello del debito in relazione alle attività complessive. Dunque, le imprese, per definire il
proprio livello di indebitamento ottimale, cioè il livello target o nozionale di struttura
finanziaria, dovrebbero determinare qual è il livello di equity e debito che massimizza il
valore dell’impresa senza detrimento a favore del rischio.
Nel caso delle imprese regolate, la complessità nasce dal fatto che i livelli di
remunerazione e di distribuzione nozionale del capitale tra le due componenti ai
fini del calcolo del WACC non sono endogeni, ma esclusivamente esogeni. Nel
caso di una forte disomogeneità tra struttura del capitale aziendale e struttura
nozionale, si misura una riduzione della giusta misura della remunerazione del
capitale investito rispetto alla struttura di riferimento ed una potenziale
distruzione di valore per il capitale investito.
S7. Osservazioni sull’ipotesi di introdurre un addendo relativo al rischio paese
nella formula per il calcolo del tasso di remunerazione del capitale
proprio.
R7. In merito all’opportunità di inserire un addendo relativo al rischio paese, si conferma
l’importanza di tale componente quanto più si farà riferimento a benchmark europei
nella individuazione delle componenti per il calcolo del tasso di remunerazione.
Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno anche di carattere sociale, dove il
differenziale di riferimento tra i tassi di remunerazione del capitale in Italia verso il resto
d’Europa, ed in particolare in Germania, il cosidetto “spread”, è entrato nella percezione
comune della realtà per i pesanti risvolti che ha indotto nella vita collettiva. Si ritiene,
dunque, che tale misura possa essere utilmente ed efficacemente presa a riferimento ai
fini della misurazione del rischio Paese Italia verso i restanti paesi europei ad alto rating e
meno soggetti al rischio default.
D’altra parte il riferimento ai rendimenti delle Utility dei paesi ad alto rating, come la
volatilità dei mercati, sono parametri che una azienda che ha stipulato contratti di
finanziamento nel tempo in Italia non ha mai visto porsi come logiche di comparazione e
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dunque, da una parte si tratta di riferimenti per lo più poco monitorati dagli operatori del
settore, a danno della predittibilità del riferimento, dall’altra di fenomeni che soggiacciono
a regole completamente diverse dalle modalità di finanziamento di un’infrastruttura della
distribuzione elettrica. Viene, dunque, apprezzato questo indagare correlazioni e
dinamiche che possono esistere sul mercato dei capitali, ma viene ribadito con fermezza
che si tratta di riferimenti che non portano nella direzione della stabilità e della certezza
del quadro regolatorio dipendendo da logiche più che esogene, avulse e traguardanti
orizzonti di breve periodo che non si coniugano con quelli di lungo periodo che
caratterizzano i riferimenti di un operatore infrastrutturale.
In merito allo spread, come resta dimostrato anche nella figura sottostante, il
differenziale tra i rendimenti europei di Paesi ad alto rating verso il nostro
Paese è effettivamente misurabile sia sul lungo che sul breve periodo. Dall’analisi
degli ultimi 20 anni si potrebbero misurare almeno tre diversi periodi di riferimento:
1. Pre-partenza dell’Euro con alta volatilità dei tassi, a seguito delle valute; 2. Fase
iniziale Euro con sostanziale convergenza dei tassi; 3. Effetto crisi finanziaria a partire dal
2007 che rappresenta la fase più turbolenta con inseverimento delle condizioni di
remunerazione del capitale per tutta l’Area Euro e che al suo interno contiene almeno
altre 3 fasi:
3.1 dal 2007, partenza della crisi, con un innalzamento di tutti i tassi;
3.2 dal 2009, a seguito della paura tra gli investitori riguardo a una crisi del debito
degli stati europei (che si intensificò all'inizio del 2010 e successivamente) e che
ha portato ad un allargamento della forchetta tra i rendimenti dei paesi a basso
rischio default e quelli ad alti livello di debito (crisi dei debiti sovrani);
3.3 ultima fase partita nel 2015, con flessione dei rendimenti su tutta l’Area e
raggiungimento di valori pari quasi a zero per i titoli spot dei paesi ad alto rating a
causa della partenza del programma di Quantitative Easing nell’Area da parte
della Banca Centrale Europea.
Stante questa analisi degli andamenti storici è complesso indicare l’esistenza e
l’eventuale riferimento a condizioni di mercato “normali”: si potrebbe da una parte
scegliere di fare riferimento a medie a lunghissimo termine che “normalizzino” tutti gli
andamenti discontinui oppure scegliere per “normale”, come indicato nel DCO, il periodo
post euro e ante crisi-finanziaria.
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Si concorda che il riferimento a condizioni “normali” di mercato, potrebbe
essere rappresentabile dai Paesi ad alto rating con l’aggiunta di uno “spread”
rappresentativo del differenziale Paese Italia; nel caso, scongiurato dalle
indicazioni dell’analisi, si prendano riferimenti spot sarebbe indispensabile
introdurre un correttivo per tener conto della completa eccezionalità del
momento storico legata agli effetti del QE.
In sostanza, l’analisi suggerisce che fermare oggi i riferimenti per il periodo regolatorio, a
meno dell’introduzione di correttivi (CRP + QE) o del riferimento a medie di lungo
periodo, rappresenta una singolarità che mal si combinerebbe con le intenzioni del
regolatore di dare certezza, stabilità, trasparenza e predittibilità ed uno uso efficiente
delle risorse nel organizzare l’ordinamento tariffario futuro.
L’indicazione in materia di aggiornamento del parametro tiene conto della già accennata
necessità di avere un quadro regolatorio stabile e “predictable” e, dunque, tenendo conto
dell’attuale modalità di revisione delle tariffe (x-Factor) la raccomandazione è di evitare
che siano effettuate modifiche sostanziali alla tariffa ogni anno e dunque sarebbe
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opportuno provvedere ad una revisione dei parametri che andranno in aggiornamento
nella formula della remunerazione del capitale (compreso il CRP) ogni tre anni, in linea
con l’aggiornamento dell’intera tariffa.
S8. Osservazioni sulle ipotesi per la fissazione del tasso di rendimento atteso
reale delle attività prive di rischio.
S9. Considerazioni su pro e contro della scelta di logiche maggiormente
forward looking ovvero di logiche fondate sull’individuazione di un
rendimento “normale”.
R8/R9. L’analisi condotta al punto R7. indica quanto i valori spot rappresentino un
riferimento falsato dalle eccezionali condizioni di mercato in cui l’Area Euro
versa. Tale riferimento di mercato continuerà, inoltre, per un periodo di tempo finito,
pari ai prossimi 12 mesi (come da indicazioni della stessa BCE) e al momento ipotizzare
cosa possa accadere alla fine del periodo è estremamente complesso, ma anche poco
attinente alle finalità dell’esercizio in corso, stimolato dal DCO, di aggiornare i riferimenti
per la remunerazione di investimenti in infrastrutture. Nella prospettiva appena delineata
anche la considerazione dei tassi di riferimento forward non aiuta a far recuperare
stabilità all’analisi: i mercati attualmente proiettano tassi in linea con gli attuali corsi ma
oscillano fortemente sulla base di fenomeni politico-economici (Grexit; andamento dei
greggi; sanzioni on/off ai paesi Arabi e, da ultimo, alla Russia) che sono comunque
tematiche avulse dall’obiettivo che si sta perseguendo con questo esercizio di
consultazione. Si ritiene che, stante le circostanze ampiamente descritte, non si
possa indicare né il tasso spot né il tasso forward, se anche con riferimento ai
titoli di stato tedeschi, come rappresentazione di remunerazione in assenza di
rischio, in quanto esprime, viceversa, proprio il rischio legato alle condizioni di
mercato contingenti, per nulla “normali”.
Per operatori nei settori delle infrastrutture, che mantengano nel tempo la propria
identità di azienda regolata la “normalità” manca di tutti i requisiti riferibili a fonti di
finanziamento speculative, di breve periodo e di diretto approvvigionamento sul mercato
dei capitali; si tratta, infatti, come già sottolineato, di società a struttura finanziaria
stabile, a tassi fissi e con lunghi periodi di restituzione del capitale a debito: smontare tali
tipi di strutture andrebbe a detrimento della capacità di finanziamento delle aziende
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stesse senza un beneficio tangibile, apparendo piuttosto un tentativo di abbattimento
retroattivo della capacità di finanziamento delle singole imprese e di sottrazione della
remunerazione agli investimenti del passato che porrebbe a rischio la capacità di
restituzione del debito contratto sotto la regolazione precedente.
Inoltre, si fa notare come l’indicazione di prendere a riferimento medie di lungo
periodo pone la condizione di rendere “reali” i rendimenti “nominali”. Si
caldeggia la decisione di non proseguire, per il riferimento all’inflazione,
nell’utilizzo delle indicazioni presenti nei DEF in quanto hanno mostrato nel
tempo un sostanziale scostamento con quanto effettivamente concretizzatosi
sul mercato, come rappresentato dalla tabella che segue.
Dal punto di vista della stabilità e della trasparenza ma anche e soprattutto della
prevedibilità, il passaggio dichiarato da tassi di remunerazione del capitale
nominali a reali, dovrebbe avvenire in condizioni di neutralità del riferimento:
dunque, se si considerano medie di lungo periodo, il modo più neutro, che qui si
suggerisce, per rendere questi riferimenti “reali” è sottrarre l’inflazione effettiva
sottostante e cioè del periodo considerato. Tale innovazione può rappresentare una
ottima opportunità per fare riferimento a valori omogenei e di effettivo riscontro anche
nella realtà operativa aziendale (tassi effettivi di mercato, indice dei prezzi effettivi di
mercato) e dunque a parametri che non subiscano indesiderabili impatti contingenti
dovuti ad un riferimento “di indirizzo” e non di evidenza nella realtà.
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In questo senso, viene giudicato peggiorativo il riferimento alle condizioni
attese dalla Banca Centrale Europea in tema di andamento dei prezzi, essendo
un chiaro obiettivo il raggiungimento di un tasso inflattivo pari al 2% nel medio
termine (da qui anche l’introduzione della misura del Quantitative Easing) ma
non necessariamente un obiettivo che verrà colto nei modi e nei tempi indicati
dall’Istituto e, dunque, riscontrabile nella realtà aziendale.
In conclusione, si impone una riflessione sulla proposta sin qui fatta per i rendimenti reali
attesi (l’attuale forchetta prevista dal DCO oscilla tra 0,5 e 1,5) e sulla asimmetria
temporale dei riferimenti per l’ottenimento del tasso di rischio cosidetto “reale”. Viene,
dunque, preso il riferimento per i paesi ad alto rating:
- Forward: sotto la soglia dell’1%
- “Normale” (ante 2008): nel documento Oxera si attesta intorno al 4-5%
- A questi valori verrebbe poi sottratto un tasso di inflazione attesa, matrice BCE,
che traguarda il 2% nei prossimi 5 anni;
Eseguendo i calcoli in questo modo verrebbe un valore pari in un caso al -1,0% e
nell’altro al 2-3%: la forchetta proposta è pari però a 0.5% e 1.5%.
Ripetendo l’operazione con le evidenze storiche: andamenti 1998-2008 dei Titoli Tedeschi
a 10 anni, pari al 4,3%, sottraendo il tasso di inflazione sotteso (Germania 1998-2008),
pari all’1,6%, il riferimento del Risk Free Rate, così calcolato e ove fosse corretto il
metodo, diventerebbe pari a 2,7%.
L’esigenza di replicare le indicazioni fornite nel DCO e provvedere ad un esatto
ricalcolo del valore non nasce chiaramente dalla necessità di inseguire i numeri
ma dalla volontà positiva di verificare la predittibilità e stabilità di un metodo e
delle sue conseguenze: le indicazioni fornite nella forchetta attualmente
predisposta non sembravano sottintendere a nessuna grandezza riscontrabile
sul mercato presente o passato e rendono difficile se non impossibile per un
operatore affidarsi a tale metodo con consapevolezza, come poi d’altra parte
osservato da codesta Autorità nel paragrafo 13.16
S10. Osservazioni sulle ipotesi per la determinazione del premio per il rischio
di mercato.
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R10. L’analisi condotta nei punti precedenti ribadisce a più riprese la necessità di fare
riferimento a condizioni stabili, di lungo periodo e che abbiano il vantaggio, tra
l’altro, di essere note per le aziende: come già sottolineato, difficilmente una
azienda regolata si trova a verificare gli attuali tassi di remunerazione del
capitale essendosi prevalentemente indebitata a lungo termine e con tassi
precedenti all’attuale momento di discontinuità, e dunque più elevati; resta,
inoltre, non percorribile la possibilità di una rinegoziazione massiccia del debito,
a meno di piccole porzioni che non spostano il costo complessivo.
In merito, quindi, all’individuazione del Premio di Rischio di Mercato resta senz’altro
opportuno fare riferimento a medie di lunghissimo periodo, come quelle fino ad oggi
utilizzate per il calcolo del parametro. Dal punto di vista concettuale e
metodologico, si mostra anche interessante il riferimento ad un Total Market
Return misurato come andamento dei rendimenti totali di mercato. La
considerazione di questa opportunità non può però prescindere dalle altre indicazioni che
la vincolano nell’attuazione: il passaggio da nominale a reale e, soprattutto, il
meccanismo di aggiornamento. Da un certo punto di vista affinchè l’arbitrarietà sia
completamente bandita (punto 13.20) da questo esercizio da cui deriverà la
remunerazione del capitale investito di un intero comparto industriale, sarebbe opportuno
che il Risk Free Rate ed il Rischio di Mercato non siano sottesi ad una operazione
aritmetica a risultato “invariante” (che dato il peso del RFR nella formula del WACC, sia
nel Ke che nel Kd, non si mostrerebbe invariante sul totale del tasso), ma piuttosto
espressioni di effettive condizioni di mercato osservate ed osservabili con riferimento ai
mercati meno soggetti al rischio e alla remunerazione totale del mercato nella sua
interezza.
Inoltre, qui, si sottolinea come relativamente al possibile impiego del Total Market Return
sarebbe opportuno svolgere una analisi ulteriore: serie storiche che superano addirittura i
100 anni devono necessariamente essere manipolate per essere rese in qualche modo
omogenee ed integrabili. Tale indiscussa necessità fa perdere però “predictibility” e
stabilità, all’utilizzo di una qualsiasi delle statistiche calcolate dai tanti analisti che
provvedono a questo calcolo rendendo incerto e poco affidabile il riferimento, compreso il
necessario passaggio da rendimenti nominali a reali, come sopra indicato.
Inoltre, l’utilizzo di medie di lungo periodo impone una riflessione sulla metodologia di
calcolo più appropriata tra il metodo aritmetico e quello geometrico. In questo senso
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molta letteratura e teoria (Dimson, Marsh e Staunton; Allen; Myers) converge sul
corretto uso della media aritmetica piuttosto che quella geometrica. Qui si fa presente
solo che mentre la media aritmetica fornisce l'ordine di grandezza dei valori esistenti,
nella media geometrica valori piccoli sono molto più influenti dei valori grandi (è
sufficiente la presenza di un unico valore nullo per annullare la media) e chiaramente
questo fenomeno, relativamente a periodi molto lunghi, rappresenta un vulnus e
allontana dalla corretta interpretazione degli andamenti effettivi
S11. Osservazioni sulle ipotesi per la determinazione del premio per il rischio
paese.
R11. Sul rischio Paese e sulle sue modalità di determinazione si è già detto ampiamente
nel precedente punto 7. Qui si ritiene opportuno sottolineare come, in effetti, il Rischio
Paese non pertiene solo alla componente del Costo dell’Equity ma anche alla componente
del Costo del Debito. Nel DCO, come da parte del consulente Oxera, tale punto viene
affrontato ma non fino alle sue estreme conseguenze, rappresentate dall’inserimento del
CRP nella formula di calcolo del WACC in entrambi gli addendi, in termini di CRPe e CRPd:
queste due grandezze, pertengono ad attitudini e attività diverse, lato equity e lato
debito. Lato equity: si concorda, ed è stato dimostrato graficamente, che sul mercato dei
capitali il Rischio Paese Italia sia operante e misurabile e tale grandezza una volta
acclarata va senz’altro inserita a correzione del cosidetto RFR “normale” con riferimento
ai paesi ad alto rating. La proposta di prendere a riferimento i corsi azionari nella loro
interezza (volatilità dei mercati), corsi che sono sensibili a fenomeni di politica economica
internazionale piuttosto che all’andamento del Rischio Paese, non sembra interessante,
anche in considerazione dell’internazionalizzazione dei Gruppi industriali e della difficoltà
di correlare l’andamento dei corsi azionari di un operatore con quelli del suo Paese di
riferimento (a questo proposito si indica il differenziale di rating tra una grande utility
tedesca ed il suo Paese di appartenenza).
Lato debito: come considerato correttamente, misura il peggioramento nelle condizioni di
accesso al credito a cui l’azienda accede in quanto operante nel Paese a maggior rischio
default e quindi indica la percezione di solidità e stabilità che i creditori hanno
dell’azienda, correlata al rischio del Paese in cui opera. Questa incidenza che può essere
di più complessa misurabilità non è per questo trascurabile.
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S12. Osservazioni sull’approccio indicato per la stima del parametro β.
R12. In effetti la riconsiderazione del parametro β ha una sostanziale urgenza per gli
operatori della Distribuzione Elettrica. Un interessante studio condotto dal CEER “the
future of the DSO” giunge alla conclusione che il ruolo degli operatori dei sistemi di
distribuzione sta cambiando e, se da un lato restano responsabili della sicurezza del
sistema, dall'altro possono stimolare la creazione di nuovi mercati e modelli di business
che coinvolgano sempre più i consumatori. Lo studio arriva alla seguenti conclusioni “As a
starting point, we recognise that there are differences among European countries in the
number, size and activity profile of DSOs, as well as in the technical characteristics of
distribution systems and the challenges facing each network operator (especially variable
RES electricity generation connected to distribution networks). This means that there is
no single model for the role of the DSO.” E continua: …“In addition, DSOs have an
important role to play in ensuring system operation is secure and as a neutral market
facilitator.” … “In the coming years, there will be new opportunities for DSOs to deliver
benefits to energy consumers and the energy sector in general. Retail liberalisation,
demand-side response arrangements, new technology, and distributed electricity
generation as well as gas distributed injection have meant that the role and culture of
DSOs has changed over the last decade and will continue to change in the future.”
Dal punto di vista della rischiosità dell’attività queste considerazioni richiamano
fattori addizionali: il ruolo del DSO, forse più di quello del TSO, sarà chiamato a
contribuire alla operatività del nuovo modello di Sistema Elettrico che l’Europa
si sta direzionando ad adottare e le più grandi sfide in termini di cambiamento e
di innovazione verranno proprio a ricadere sull’operatore responsabile della
Distribuzione Elettrica, senza però retrocedere, anzi implementando la qualità
dei servizi ad oggi offerti (sono oramai storia le delibere 258/14 sulla morosità
e la 268/14 sul codice di rete) e la stretta operativa e amministrativa nei
confronti dei DSO.
Tutto ciò in premessa, non si ravvisa la solidità concettuale nel cercare di individuare il
parametro β della Distribuzione Elettrica in Italia nel confronto con altri paesi e/o con
distributori di altri paesi, proprio per la differenza di rischiosità sottesa appena citata
diversi contesti nazionali. Si ricorda inoltre come la misura della BCE di inserire nella lista
dei titoli del Quantitative Easing operatori italiani infrastrutturali rende qualunque di
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questi riferimenti viziato per difetto rispetto alla realtà di un operatore infrastrutturale a
cui mancano questi livelli di securizzazione e di diversificazione.
Se si dovesse procedere alla valutazione del parametro del rischio sulla base dei criteri di
riferimento europei si dovrebbe poi eventualmente procedere ad un aggiustamento per
normalizzare alcuni indicatori che, come noto, attanagliano il nostro paese a differenza
degli altri paesi europei: densità di popolazione, problematiche burocratiche e
amministrative, inseverimento della normativa lato amministrativo.
Sarebbe inoltre opportuno tener conto del grado di rischiosità associato ad una maggiore
leva finanziaria, ove la leva, per quanto nozionale, dovesse raggiungere livelli oltre i quali
la stima del rischio da parte del mercato dei capitali dovesse incrementarsi, allora tale
condizione andrebbe riflessa anche nel β di settore, come già precedentemente e meglio
approfondito al punto R6.
S13. Osservazioni sulle ipotesi di aggiornamento infra-periodo del tasso di
remunerazione del capitale proprio.
R13. Si concorda che possa manifestarsi l’opportunità che alcune grandezze, a seconda
degli approcci utilizzati, possano richiedere aggiornamenti all’interno del periodo
regolatorio del tasso di remunerazione (al momento si ravvisa opportuno per il CRP);
sempre tenuto conto degli approcci utilizzati, potrebbe darsi la necessità di indicizzare
l’andamento di un parametro alla variabile cui è sotteso o se, essendo stato individuato
neutralizzando le discontinuità, potrebbe essere sufficiente riferirsi a tipologie di
aggiornamento di tipo trigger.
Al momento e secondo l’analisi fin qui sviluppata che tiene conto di riferimenti a medie a
lungo termine per RFR, TMR, ERP e Inflazione sottesa di periodo, la componente che
massimamente si reputa in condizioni di frequenza di aggiornamento è il CRP.
S14. Osservazioni sull’approccio indicato per la stima del costo del debito.
R14. Si concorda con il punto 15.2 in cui si sottolinea quale potrebbe essere la
composizione del costo del debito come “somma di un tasso di rendimento delle attività
prive di rischio, un premio per il rischio paese e uno spread che riflette l’eventuale
maggiore rischiosità del debito delle imprese regolate rispetto ai titoli di stato”.
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Si riconosce da parte dell’Autorità una comprensione del fenomeno della stratificazione
del debito (art. 15.4 e 15.5) anche se da questo punto di vista è ragionevole ritenere non
vi sia omogeneità di comportamenti tra gli operatori, il che renderebbe ancora più
delicata la possibilità di individuare una regola di carattere empirico: si sottolinea, come
già detto, che a contrarre debito, come d’altra parte a quotarsi sul mercato sono le
società holding non le singole società regolate (salvo l’eccezione del TSO che anche a
causa del suo inserimento nel QE non può essere preso a riferimento nell’analisi del costo
del debito) che, dunque, hanno proceduto al reperimento di risorse finanziarie non in
maniera omogenea o massiccia, ma secondo condizioni anche solo societarie che hanno
contribuito alla formazione di capitale di debito con l’unica regola di consentire l’evolversi
della attività alle migliori condizioni di mercato. In questo senso, potrebbe essere
interessante fare riferimento per il calcolo del costo del debito ad una media, ponderata
sulla composizione in essere, tra il costo del debito esistente e una stima del costo del
debito futuro. Tale approccio potrebbe facilitare la presa in considerazione sia del costo
storico del capitale e la sua relativa stratificazione sia le nuove opportunità, ove fosse, sul
mercato dei capitali.
S15. Osservazioni sull’approccio indicato per l’aggiornamento del costo del
debito.
R15. Si ribadisce quanto indicato al punto S13 in merito all’opportunità di aggiornamento
del CRP ma anche alla sostanziale interlocuzione sul metodo a seconda della
individuazione dei parametri.
S16. Osservazioni sull’approccio generale relativo al trattamento
dell’inflazione.
R16. In tema di inflazione si è già provveduto ad esprimere l’orientamento generale
(R8/9). Qui si ribadisce il principio della neutralità che il riferimento a tassi reali piuttosto
che nominali deve garantire e tale neutralità non può essere ricondotta, come già
esposto, mediante l’utilizzo di riferimenti “di indirizzo” quali quelli provenienti da enti con
funzioni di governo (DEF, BCE) in quanto si tratta di strumenti, per quanto autorevoli,
che potrebbero non essere mai rappresentativi della realtà, mentre, si ribadisce,
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l’esercizio in corso non rappresenta un mero esercizio concettuale ma intende consentire,
citando lo stesso DCO, “un approccio che, da un lato, consenta di migliorare la
trasparenza dell’impianto metodologico e, dall’altro, consenta di catturare meglio i
fenomeni che incidono sui livelli del costo del capitale proprio”: in questo accezione,
l’inflazione “programmata” appare un riferimento non praticabile.
Anche per questo parametro vale la stessa logica di riferimento per la modalità di calcolo
tra medie aritmetiche e medie geometriche esposta in precedenza.
S17. Osservazioni sull’approccio per la fissazione del livello di gearing.
S18. Considerazioni sul riferimento di capitale proprio (contabile o regolatorio)
da utilizzare nella valutazione del gearing effettivo delle imprese.
S19. Considerazioni sull’opportunità di prevedere che anche il costo del debito
sia differenziato tra i servizi regolati.
S20. Valutazioni circa l’opportunità di rivedere contemporaneamente, in prima
attuazione, il livello di gearing di tutti i settori regolati, sia del settore
elettrico che del settore gas sull’approccio generale relativo al trattamento
dell’inflazione.
R17./18./19./20. Non si condivide l’ipotesi di elevare l’attuale livello di gearing solo
per uniformità con la regolazione degli altri Paesi Europei, anche in seguito a quanto
ricordato precedentemente sull’allineamento tout-court all’Europa, date le differenze sia
in termini di Paese che di operatori regolati.
L’incremento nella formula del WACC del peso del capitale di debito (a minor costo)
rispetto all’equity (a maggiore remunerazione) ha il solo immediato effetto di comprimere
la remunerazione del capitale proprio per effetto della ponderazione. Al momento tale
intervento viene proposto al netto di qualsivoglia eventuale cambiamento strutturale
nelle compagini industriali (ancora non si sono realizzate le tanto perorate fusioni tra
utility che appaiono collocarsi piuttosto in un orizzonte di medio/lungo termine) e dunque
in costanza di attività. La decisione di aumentare il livello di debito nozionale delle
società regolate e la spinta sottintesa da parte del regolatore all’indebitamento
e il contemporaneo riferimento a tassi spot o forward fa temere che al centro
della attuale esercizio di revisione non siano poste le peculiarità del settore
infrastrutturale elettrico e gas, ma piuttosto si tratti di un mero esercizio di di
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finanza applicata che però nella sua attuazione pratica porterebbe alla
distruzione di valore per società ad alta capitalizzazione, stratificata nel tempo,
secondo modalità anche uniche.
Come già ribadito, il tessuto di riferimento non è costituito da mere società
infrastrutturali, a cui potrebbero associarsi comportamenti analoghi alle società
altamente liquide sui mercati, ma da holding multiservizi, le cui esigenze di cassa e di
copertura degli investimenti potrebbero non soggiacere, o di sicuro non averlo fatto nel
tempo, ad una regola univoca.
Nonostante le aspettative rispetto alla definizione regolatoria di questo parametro sono di
maggiore trasparenza e di attribuzione a criteri pre-definiti, si comprende e si mette in
evidenza il livello di complessità e la natura delle imprese che prevalentemente
costituiscono il comparto: le multiutility.
La natura ed il ruolo delle multiutility italiane è noto: aziende nate a partire dalla loro
radice locale, al servizio del territorio di riferimento, che gradualmente hanno assunto
logiche industriali, di investimento e qualità, a cui, oggi, si affidano obiettivi quali
efficienza economica, sostenibilità ambientale, responsabilità sociale, innovazione. Ma
tutto questo processo è, come noto, ancora in corso di evoluzione: sono legge dello Stato
le norme che indicano un impulso al consolidamento e alla razionalizzazione delle
partecipazioni pubbliche che, pur non essendo ancora avvenuta, rappresenta la direzione
in cui il settore viene indirizzato.
Ma al momento questi macrofenomeni di finanza strutturata non hanno ancora avuto
luogo, come già detto, e le aziende vedono il proprio fabbisogno finanziario ancora
prevalentemente soddisfatto attraverso la casa madre, in un contesto come quello
italiano che negli ultimi anni è stato stretto nella morsa del “credit crunch” proprio a
causa della crisi finanziaria (e bancaria) che ha investito il Paese. Tale modalità di
approccio al mercato dei capitali tramite intermediari che agiscono come prestatori di
fondi (sistema finanziario a finanziamento indiretto tramite intermediari) rappresenta
condizioni di operatività ben lontane dalle flessibili strutture finanziarie anglosassoni nelle
quali il ricorso all’emissione di obbligazioni per il capitale di debito è la modalità di
riferimento (sistema finanziario a finanziamento diretto senza intermediari).
Si concorda con l’opportunità di differenziare il costo del debito tra i diversi servizi
regolati, anche tenuto conto che attualmente le reti di Trasmissione ed i loro operatori di
riferimento sono stati, come già ricordato, inseriti nel programma di QE e questo non
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potrà che influire favorevolmente sui loro corsi e sulla loro capacità di indebitamento e
rendere la loro attrattività in termini di capitali e di indebitamento, anche a breve, di gran
lunga più liquida rispetto a quella di qualsiasi altro operatore di mercato, anche
performante, e molto di più di alle realtà operative che non sono quotate in Borsa.
Da qui la necessità di una riflessione ulteriore prima di condizionare il riferimento del
rapporto tra capitale di debito ed equity, proprio a quelle realtà, sia nazionali che
internazionali, che, come esplicitato, se ne discostano maggiormente. Anche da questo
punto di vista, in attesa di ulteriori comprensioni e anche di dinamiche finanziarie a
carattere strutturale, in fieri ma non in essere, potrebbe essere più opportuno stimare
una struttura neutrale tra debito ed equity. Un riferimento che possa, viceversa, elevare
la leva o le aspettative nel senso di un maggior indebitamento delle aziende del settore,
come noto, potrebbe nel mercato dei capitali tradursi in un peggioramento della
percezione del rischio, del rating e della capacità di accesso al credito, portando ulteriori
elementi di rischiosità al comparto, con potenziali effetti sul β.
S21. Osservazioni sull’approccio per la fissazione del livello di tassazione.
S22. Osservazioni sull’ipotesi di definire il tasso di remunerazione del capitale
investito come tasso post tasse.
R21./22. Si concorda con il punto di vista espresso che le tasse debbano rappresentare
un costo passante e pertanto di prevedere un aggiornamento periodico del parametro,
facendolo coincidere con quanto viene stabilito in materia di aggiornamento
relativamente ad altre grandezze. Inoltre è opportuno ricordare che, in termini di
applicazione del metodo, il parametro T dovrà opportunamente essere incrementato per
tenere conto della applicazione della formula a profitti nominali e non reali, come rilevato
nel DCO al paragrafo 9.2.
Paolo Carta
(Resp.le Funzione Regulatory)