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Jus-online 1/2015 1 Isabella Merzagora Professore ordinario di criminologia, Università degli Studi di Milano La violenza in famiglia SOMMARIO: 1. Introduzione: l’omicidio in famiglia. 2. La violenza contro i figli. 3. L’omicidio di coppia. 4. La violenza contro gli ascendenti. 5. Conclusioni. 1. Introduzione: l’omicidio in famiglia. Occupandomi, come faccio, di criminologia sono professionalmente al cospetto della “patologia” dei rapporti familiari, ma nella consapevolezza che si tratta dell’eccezione e non certo della regola dei rapporti familiari. Questi ultimi sono di norma basati sull’amore, sul rispetto, sulla solidarietà, pur se, come ricorda la stessa Relatio del Sinodo dei Vescovi “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, esiste “un disagio affettivo che arriva talvolta alla violenza”, ma è un’evenienza anche numericamente eccezionale. Non solo, ma gli omicidi in famiglia non seguono un andamento di crescita costante: Anni Omicidi in famiglia: eventi Omicidi in famiglia: vittime 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 178 170 158 179 154 152 175 167 182 159 201 187 174 195 167 172 194 178 195 175 Fonte: EU.R.E.S. 1 Occorre però aggiungere che gli omicidi in generale sono regolarmente diminuiti, sicché in percentuale rispetto a questi gli omicidi in famiglia risultano in crescita quasi per tutti gli anni considerati, attestandosi oramai su un terzo del totale. In ogni caso, anche se non aumentano in numero assoluto, nulla toglie al Contributo sottoposto a valutazione. 1 EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014.

Professore ordinario di criminologia, Università degli ... · crescita quasi per tutti gli anni considerati, attestandosi oramai su un terzo del totale. ... o del feto durante il

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Isabella Merzagora

Professore ordinario di criminologia, Università degli Studi di Milano

La violenza in famiglia

SOMMARIO: 1. Introduzione: l’omicidio in famiglia. 2. La violenza contro i figli. 3. L’omicidio di coppia. 4. La violenza contro gli ascendenti. 5. Conclusioni.

1. Introduzione: l’omicidio in famiglia.

Occupandomi, come faccio, di criminologia sono professionalmente al

cospetto della “patologia” dei rapporti familiari, ma nella consapevolezza che si

tratta dell’eccezione e non certo della regola dei rapporti familiari. Questi ultimi

sono di norma basati sull’amore, sul rispetto, sulla solidarietà, pur se, come ricorda

la stessa Relatio del Sinodo dei Vescovi “Le sfide pastorali sulla famiglia nel

contesto dell’evangelizzazione”, esiste “un disagio affettivo che arriva talvolta alla

violenza”, ma è un’evenienza anche numericamente eccezionale.

Non solo, ma gli omicidi in famiglia non seguono un andamento di crescita

costante:

Anni Omicidi in famiglia: eventi Omicidi in famiglia: vittime

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

178

170

158

179

154

152

175

167

182

159

201

187

174

195

167

172

194

178

195

175

Fonte: EU.R.E.S.1

Occorre però aggiungere che gli omicidi in generale sono regolarmente

diminuiti, sicché in percentuale rispetto a questi gli omicidi in famiglia risultano in

crescita quasi per tutti gli anni considerati, attestandosi oramai su un terzo del totale.

In ogni caso, anche se non aumentano in numero assoluto, nulla toglie al

Contributo sottoposto a valutazione. 1 EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014.

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dolore e allo scandalo - non a caso Dante colloca gli uccisori dei parenti fra i

traditori, nella Caina, la più profonda e tremenda delle regioni infernali, e li definisce

“sovra tutte mal creata plebe” (Inferno, XXXII, 13)- ma almeno ne ridimensiona

l’impressione che si tratti di un fenomeno diffuso persino nelle sue estreme

conseguenze –l’omicidio, appunto-, come certe scompostezze mediatiche possono

far pensare.

Neppure si tratta di un fenomeno nuovo: anche questo non è consolatorio,

perché avremmo la legittima pretesa di vivere in un mondo in cui il processo di

civilizzazione è costante, certo però che la storia e il mito sono popolati di vicende

di delitti in famiglia. Naturalmente con il trascorrere del tempo mutano la fisionomia

e l’eziologia dei reati: se è vero che la famiglia patriarcale era contraddistinta

dall’impero del padre e marito, d’altro canto la numerosità stessa del nucleo

garantiva un certo controllo sui comportamenti, e dunque anche sulla violenza

esercitata da e contro i suoi membri. Oggigiorno, viceversa, il controllo sociale

informale –della famiglia stessa, del vicinato- è molto minore, quello formale –cioè

dell’autorità costituita- è necessariamente meno capillare, e la famiglia nucleare

reagisce con una sostanziale chiusura in sé stessa, con l’impermeabilità:

“nell’organizzazione tradizionale, i poteri del capo famiglia erano sì amplissimi, ma

non arbitrari, soggetti sempre ad un controllo comunitario e ad una

regolamentazione sacrale”2. In sostanza, in questa famiglia occultata agli occhi del

tessuto sociale gli abusi possono commettersi anche per anni senza che nessuno non

solo intervenga, ma persino si renda conto di quanto sta avvenendo.

2. La violenza contro i figli.

Pur, senza giungere all’omicidio –tema che si riprenderà- le possibili modalità

di violenza in famiglia sono molte, e, almeno generalmente parlando, vanno dal più

forte al più debole, così come è implicito nel concetto stesso di violenza.

Ebbene i figli sono fra i componenti più deboli della famiglia, e nei loro

confronti sono descritte diverse forme di violenza, a cominciare da quella fisica.

Il rapporto “Hidden in Plain Sight” dell’Unicef, che raccoglie dati su 190 Paesi,

denuncia che a livello mondiale un quinto degli omicidi ha come vittima un

bambino o un ragazzo sotto i 20 anni. Nel 2012, sono stati uccisi 95.000 tra bambini

e giovanissimi. Sempre secondo questa fonte, nel 2003 nei 27 Paesi più

industrializzati sono morti 3.500 bambini per le conseguenze di maltrattamenti fisici,

nell’80% dei casi perpetrati dai genitori. Anzi, sono morti “almeno” 3.500 bambini,

2 M. Correra, P. Martucci, La violenza nella famiglia. La sindrome del bambino maltrattato, Milano, 1988, pp.

10-12.

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perché anche per questo fenomeno c’è un problema di “sommerso”, di “numero

oscuro” come dicono i criminologi, della difficoltà o impossibilità, soprattutto per i

bambini più piccoli, di denunciare, e della difficoltà, per gli adulti, di credere che

proprio le figure deputate a fornire amore e protezione possano essere aguzzini. Da

sempre si sono incontrati ostacoli ad ammetterlo, e per esempio il radiologo e

pediatra statunitense Caffey, prima di riconoscere che fratture multiple delle ossa

lunghe ed ematomi subdurali nei lattanti erano spesso ascrivibili ai maltrattamenti

dei genitori, formulò l’ipotesi di un’origine congenita delle lesioni, che addirittura

venne per lungo tempo conosciuta come “sindrome di Caffey”. Occorrerà attendere

gli anni Sessanta del Novecento perché Kempe e collaboratori “scoprano” che si

trattava invece di abusi perpetrati dai genitori o dai care givers.

Se poi dall’abuso fisico a passiamo a quello sessuale, il problema del numero

oscuro si aggrava. Ancora alla metà degli anni Ottanta del Novecento si faticava a

reperire Letteratura scientifica italiana in tema di incesto3; oggi le cose sono

certamente cambiate, a livello istituzionale ed a livello delle tante agenzie che si

occupano di questo fenomeno, e così sappiamo che nel 2013 in Italia, nel 54% degli

abusi sessuali in cui la vittima ha indicato l’autore questi apparteneva al nucleo

familiare4.

Un pregiudizio da confutare è quello secondo cui il violentatore sarebbe preda

di un impulso irrefrenabile. In realtà l’abuso sessuale è spesso programmato, non ha

nulla a che fare con la patologia –se non con quella patologia “culturale” e non

psichiatrica che confonde la forza con la violenza e l’autorevolezza con

l’autoritarismo-, e d’altro canto non si spiegherebbe come mai chi sia preda di così

prepotenti impulsi erotici li debba sfogare in famiglia. E’ un pregiudizio che serve a

“scusare” -non era colpa sua, ma della malattia- chi scuse non ha.

Un fenomeno sfuggente, poco tangibile e dunque poco quantificabile, è quello

delle violenze psicologiche. Viceversa gli abusi psicologici nei confronti dei bambini

sono senz’altro diffusi, anche se in forme sottili quanto poco conosciute. Si pensi,

per esempio, alla violenza assistita, la children witnessing violence, cioè la violenza -fisica,

verbale, sessuale, psicologica- compiuta su figure vicine al minore e a cui egli assista:

“Per il bambino, questo tipo di abuso risulta essere un’esperienza emozionale di

dimensioni spropositate e di difficile comprensione, con ripercussioni psicologiche a

volte molto rilevanti”5.

3 I. Merzagora, L’incesto, Milano, 1986. 4 www.osservatoriopedofilia.gov.it. 5 M. Severoni, Violenza intrafamiliare, in: G. Marotta, Temi di criminologia, Milano, 2004, pp. 169 ss.

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Come ricorda anche il Sinodo dei Vescovi, fra le forme di violenza è da citare

la strumentalizzazione dei bambini in caso di conflitti fra genitori: “I bambini sono

spesso oggetto di contesa […] e sono le vere vittime delle lacerazioni familiari”.

Infine, vi è lo sfruttamento da parte della criminalità magari proprio attraverso

gli altri membri della famiglia, tema di cui si sono interessate anche le Nazioni che

nel corso dell'VIII Congresso sulla Prevenzione del Reato ed il Trattamento dei

Delinquenti hanno raccomandato l’adozione della bozza di risoluzione intitolata

“Uso strumentale di bambini in attività delittuose”.

Talora poi, come s’è detto, si giunge al figlicidio.

Le tipologie e le motivazioni dei figlicidi materni e paterni sono differenti: i

padri uccidono di solito figli più grandi, per lo più nel corso di conflitti o litigi ed

usano armi; le madri uccidono più spesso figli piccoli, spesso appena nati, con

dinamiche di perversione della sindrome di attaccamento/separazione o a causa di

franca patologia.

Nel nostro e in altri codici l’infanticidio continua ad essere un reato punito in

modo molto più indulgente dell’omicidio comune. Già il codice Rocco stabiliva che

rispondesse di infanticidio, e non di omicidio: “Chiunque cagiona la morte di un neonato

immediatamente dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l'onore proprio o di un

prossimo congiunto (Omissis)”. Con legge 5 agosto 1981, n. 442 l'infanticidio per causa

d'onore scompare - e con esso “l'omicidio per causa d'onore”, a testimonianza del

mutamento nella percezione etica in materia - e viene sostituito dal nuovo testo

dell'art. 578 che recita: “La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente

dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono

materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni

(Omissis)”.

Ebbene, possono forse immaginarsi situazioni drammatiche in cui

effettivamente ricorrano queste “condizioni di abbandono materiale e morale”, e ciò

nonostante un panorama nazionale che vede sempre più accessibili per le madri

presidi sanitari ed assistenza pubblica, però poi, se queste situazioni sono

immaginabili, risultano anche assolutamente sporadiche. Infatti, negli ultimi decenni

il numero degli infanticidi subisce una brusca e costante caduta, riducendosi la

frequenza media annua fino a circa dieci volte, e non raggiungendo mai neppure le

10 unità dal 1993 in poi, a fronte delle centinaia di casi della prima metà del

Novecento. Ma nuove ipotesi potrebbero oggi affacciarsi per il sempre maggiore

ingresso in Italia di straniere in condizioni di estrema emarginazione -economica,

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culturale, di risorse di ogni tipo-, di clandestinità, di vera e propria schiavitù, che

possono configurare l’abbandono materiale e morale.

In ogni caso, stupisce che le numerose riforme legislative che si sono

succedute negli ultimi anni in risposta al crescente allarme sociale suscitato dai delitti

in famiglia abbiano lasciato assolutamente intatta questa norma.

Se il diritto, comunque, distingue l’infanticidio in condizioni di abbandono

materiale e morale dall’omicidio, in tema di figlicidio materno la criminologia

differenzia tra il neonaticidio, che ricorre nell’immediatezza della nascita;

l’infanticidio, che è l’uccisione del bimbo entro l’anno di età; e il figlicidio, quando la

vittima ha più di un anno. La distinzione, soprattutto fra le prime due forme e la

terza, è fatta in base a considerazioni di ordine statistico, socio-situazionale,

motivazionale. L’infanticidio e il neonaticidio ricorrono non solo quando l’uccisione

si dia immediatamente dopo la nascita, ma qualora sopravvengano dinamiche

particolari, quali sentimenti di ostilità e di estraneità nella madre, che talvolta

necessita di un certo periodo di tempo per raggiungere una compiuta maturazione

affettiva nei confronti del nuovo nato e per essere investita di quello “istinto

materno” che appare piuttosto “sentimento materno”, quindi non solo fatto

biologico.

Per il figlicidio materno più in generale, combinando quanto riferito da diversi

Autori6, si possono descrivere una serie di tipologie situazionali e motivazionali, in

un continuum che va dall’assenza di patologia, via via verso la patologia più grave.

1. Nell’atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i figli, non vi è

un progetto omicida, quanto un’evoluzione particolarmente infausta della battered

child syndrome, un agito impulsivo in risposta a pianti o urla del bimbo.

2. Nell’agire omissivo delle madri passive e negligenti nel ruolo materno si è al

cospetto di madri incapaci di affrontare i compiti della maternità relativi alle

necessità vitali del figlio. Analoghi a quelli testé citati sono i figlicidi dovuti a

deprivazione e trascuratezza.

3. Uguali e contrari sono i figlicidi dovuti ad eccesso di mezzi disciplinari e di

correzione.

6 I. Merzagora Betsos, Demoni del focolare. Mogli e madri che uccidono, Torino, 2003; G.C. Nivoli, Medea tra

noi. Le madri che uccidono il proprio figlio, Roma, 2002.

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4. Le madri che uccidono i figli non voluti sono coloro per le quali il figlio

rievoca momenti di abbandono, magari violenza sessuale, o particolari difficoltà

concrete ed esistenziali.

5. Le madri possono uccidere per motivi di convenienza o pressione sociale e

d’onore, questi ultimi, si spera, oramai in via di estinzione, ma nel classico studio di

Resnick, di decenni orsono, si poteva ancora leggere: “l’illegittimità, con il suo

stigma sociale, è il motivo più comune”7.

6. Tra i motivi sociali, o forse meglio ideologici, taluni annoverano i casi di

madri – ma anche padri - che aderendo a sette religiose che prescrivono di evitare

trasfusioni o medicinali, lasciano che i loro figli muoiano piuttosto che ricorrere a

cure mediche che potrebbero salvarli. Il caso più noto è quello dei Testimoni di

Geova, ma in USA è particolarmente diffusa la setta denominata “First Church of

Christ Scientist” o “Christian Scientist”, che interdice l’uso di qualsiasi medicinale: in un

caso occorso in Minnesota, una madre appartenente alla setta lasciò morire il figlio

undicenne affetto da diabete mellito e fu appunto incriminata per figlicidio.

7. Un importante contributo al figlicidio materno è poi costituito dalle madri

che hanno a loro volta subito violenza dalla propria genitrice e spostano

l’aggressività dalla “madre cattiva” verso il figlio: “Superfluo sottolineare, ad

esempio, quale rilievo possa avere nello sviluppo del cosiddetto ‘amore materno’ la

relazione avuta/in atto fra madre e figlia, quando solo si pensi al processo di

identificazione che naturalmente si verifica fra le due figure; lo sviluppo di un

proficuo rapporto madre-figlio può essere ostacolato, o reso angoscioso, dalla

possibile riattivazione di conflitti infantili, di sentimenti fortemente ambivalenti della

donna nei confronti della propria madre”8.

8. Dinamiche più prettamente patologiche si ritrovano nei neonaticidi attuati

in presenza ed a causa di psicopatologie puerperali, che sono descritte in tre diverse

forme (maternity blues, depressioni postpartum, psicosi puerperali) tutte caratterizzate

da depressione, ma con differenti livelli di gravità.

9. Sempre informate a grave depressione, ma non così strettamente e

temporalmente connesse all’evento del parto, sono le situazioni di quelle madri che

desiderano uccidersi e uccidono il figlio (suicidio allargato), delle madri che

uccidono il figlio perché pensano di salvarlo (figlicidio altruistico), delle madri che

uccidono il figlio per non farlo soffrire (omicidio pietatis causa o omicidio

7 P.J. Resnick, Child murder by parents. A psychiatric review of figlicide, in American Journal of Psychiatry, 126, (1969), pp. 325 ss.

8 R. Catanesi, G. Troccoli, La madre omicida. Aspetti criminologici, in Rassegna di Criminologia, 2, (1994), pp. 167 ss.

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compassionevole, o pseudo compassionevole, quando motivato dal desiderio di

“liberarsi del fardello” del figlio malato).

La depressione psicotica è poi fra le patologie più frequentemente citate da

tutti gli Autori che si occupano del tema, e si arriva a consigliare particolare vigilanza

in tutti i casi in cui una donna con figli sia diagnosticata depressa con ideazione

suicidiaria.

Questo ci obbliga ad una parentesi che non riguarda solo il figlicidio, ma, più

in generale, il problema della malattia mentale e della sua sottostima in rapporto ai

delitti in famiglia. Premesso che non è sempre la malattia l’unica chiave per

comprendere questi fatti, quante volte però di fronte ad un delitto in famiglia ci si è

chiesti “possibile che nessuno si fosse reso conto?”. Quante volte di fronte ad un

delitto in famiglia, in quelle interviste televisive -che non solo non arrecano

conoscenza ma ignorano pietas e decoro- abbiamo ascoltato parenti ed amici che,

stupefatti, sostenevamo di non aver avuto il minimo sentore di quel che pure era lì lì

per accadere, oppure che vagamente accennavano a dispiaceri apparentemente di

poco conto, mutamenti sottovalutati, eccentricità magari sbrigativamente attribuite a

stanchezza. Una corretta informazione, senza allarmismi, per una maggiore

“alfabetizzazione criminologica” per i cittadini, potrebbe essere provvidenziale in

termini preventivi.

Fra le dinamiche particolari di figlicidio si annovera la c.d. “Sindrome di

Medea”. Già Lombroso e Ferrero facevano cenno fra le motivazioni al figlicidio del

“bisogno di vendicarsi sul bambino del padre infedele”9, e Resnick, nel distinguere

le tipologie motivazionali del figlicidio, descriveva quello attuato per “vedetta del

coniuge”, in cui l'aggressività era spostata dall'oggetto effettivo di risentimento, il

marito, verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell'unione, al punto

che l’Autore definisce questo omicidio “un attentato deliberatamente concepito per

far soffrire il proprio coniuge”10. Quel che però costituisce forse una novità, è il

constatare che la “sindrome di Medea”, tradizionalmente descritta nel figlicidio ad

opera della madre, si riscontra attualmente anche e ancor di più nei casi di figlicidio

paterno11.

9 C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino, Quinta Edizione,

1927. 10 P.J. Resnick, Child murder by parents. A psychiatric review of figlicide, in American Journal of Psychiatry, 126,

(1969), pp. 325 ss. 11 A. Beringheli, A. Bramante, A. De Micheli, I. Merzagora Betsos, Madri e padri che uccidono: differenze tra

il figlicidio materno e quello paterno, e percezione sociale, in Archivio di Medicina Legale e delle Assicurazioni, 2006, 24, pp.

1 ss.

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Una dinamica che può sottendere il figlicidio ma è ben poco conosciuta è

quella della “negazione di gravidanza”. Nei più diffusi manuali di psichiatria,

compreso il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-5, si

trovano la pseudociesi o falsa gravidanza, e le sindromi psicopatologiche che

insorgono durante la gravidanza, il post-partum e l'allattamento, ma raramente si

trova traccia del fenomeno della negazione della gravidanza. La negazione può

protrarsi per un periodo più o meno lungo, e può addirittura coprire anche tutto il

periodo della gestazione, fino al parto, che dunque risulta essere inatteso per la

madre, la quale è allora travolta da un tumulto emotivo, anche di marca patologica,

che le impedisce di prestare le dovute cure al neonato fino a causarne la morte. La

negazione avviene pur in presenza di sintomi di gravidanza evidenti ed

inequivocabili, che non si vogliono riconoscere e che, con meccanismo di

razionalizzazione, si attribuiscono ad altre cause. Ma, ed è questa la caratteristica

sconcertante, la necessità di negare può essere così intensa da influenzare le

manifestazioni biologiche della gravidanza, ed infatti sono riportati casi in cui, nelle

madri che negano la gravidanza, mancano molti dei sintomi della stessa12.

La scoperta della gravidanza, da parte delle donne, può avvenire

accidentalmente prima del parto, per esempio dopo una radiografia disposta per

dolori di schiena o addominali, che queste donne non avevano attribuito alla

gravidanza. Quando poi la rivelazione avviene al momento del parto, anche senza

ricorrere agli Autori che pure la descrivono, può ben immaginarsi che la reazione

sia, quantomeno, di grave sconcerto. In questi casi, il luogo in cui il parto avviene è

la toilette, poiché la madre viene colta improvvisamente da “inspiegabili” dolori

addominali. Modalità del parto così poco ortodosse fanno facilmente comprendere

come talvolta la morte del bambino ne sia la conseguenza, anche per mera

mancanza di assistenza.

L'abuso nei confronti dei minori è comportamento purtroppo universale, nello

spazio e nel tempo, ma si riveste di forme specifiche anche in dipendenza da fattori

storici e sociali. Così, se nel passato si concretizzava piuttosto in incuria ed

abbandono, magari nella forma di una denutrizione mascherata da baliatico che

finiva per condurre alla morte per fame, oggi viceversa e paradossalmente si può

manifestare in eccesso di cura, in ciò favorito da malinteso e perverso ricorso al

sistema di welfare. La “Sindrome di Munchausen per procura” (SMP) è appunto una

forma di maltrattamento che deriva in un certo senso da troppa sollecitudine, e che è

resa possibile solo in una cultura in cui la scienza medica e l'assistenza sanitaria sono

particolarmente sviluppate. Meadow userà per primo nel 1977 l'espressione

12 I. Merzagora Betsos, A. Tanzini, Negazione della gravidanza e infanticidio, in Psichiatria Oggi, 2002, XV, I,

pp. 42 ss.

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“Sindrome di Munchausen per procura” (Munchausen syndrome by proxy) 13, per

intendere la situazione in cui i genitori, o inventando sintomi e segni che i propri

figli non hanno, o procurando loro sintomi e disturbi (per esempio somministrando

sostanze dannose), li espongono ad una serie di accertamenti, esami, interventi che

finiscono per danneggiarli o addirittura ucciderli, al punto che il tasso di mortalità è

stato calcolato fra il 9 e il 22% dei casi.

Già nel suo primo scritto Meadow aveva richiamato precedenti osservazioni di

“child abuse” per mezzo di avvelenamento, in cui la motivazione sarebbe da

ricercarsi nei conflitti coniugali dei genitori – di nuovo Medea, dunque- ed in cui la

conseguente malattia del bambino tendeva a ripristinare le relazioni coniugali a spese

del figlio. Successivamente fu segnalata all'attenzione scientifica un'altra e forse

ancor più subdola forma di Munchausen per procura: la falsa accusa formulata dalla

madre che il figlio abbia subito abuso, fisico e/o sessuale.

La Sindrome di Munchausen per procura è “subdola”: non solo i medici si

trovano di fronte a sintomi strani, a quadri clinici inusuali, recidivanti e resistenti alle

terapie, ma inoltre, se già è disturbante ammettere che i genitori, le madri in

particolare, vogliano fare del male ai propri figli, ancor più difficile è riconoscere che

a farlo siano madri che appaiono sollecite e premurose. E ancora, è fastidioso dover

concludere che si è stati manipolati, che si è perso tempo nel cercare l'inesistente,

insomma, che ci si è sbagliati. Da qui, e forse da altro ancora, la difficoltà

diagnostica della Sindrome in questione, e la necessità di sottolineare le

caratteristiche del Munchausen per procura e quindi foriere di sospetto:

- segni e sintomi bizzarri, che non si trovano in alcuna malattia conosciuta o

che sono incongrui rispetto a quadri patologici noti, difficilmente verificabili e in

numero eccessivo (più di cinque ma anche più di dieci sintomi diversi);

- il trattamento non ha alcuna efficacia;

- segni e sintomi compaiono solo quando i genitori (perlopiù la madre) sono

soli con il bambino;

- il genitore ha un comportamento troppo controllato rispetto alla gravità dei

problemi del bambino; ovvero è la continua ricerca di aiuto medico nonostante le

rassicurazioni dello staff medico che deve mettere in sospetto;

- il genitore non lascia mai il figlio solo durante la degenza;

13 R. Meadow, Munchausen syndrome by proxy - The hinterland of child abuse, in Lancet, 1977, 2, pp. 343 ss.

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- vi sono precedenti di malattie insolite o di morti strane nei fratelli o

comunque in famiglia.

Le madri, inoltre, si presentano ben diverse dalla classica figura della madre

maltrattante o incurante: in questi casi si tratta di madri che richiedono

continuamente accertamenti o interventi perché, all'apparenza almeno, sono

sollecite, premurose, ansiose per la salute dei figli. Questa pretesa sollecitudine, tra

l’altro, guadagnando alle madri una particolare considerazione da parte del personale

medico ed infermieristico, rende ancor più difficile scoprire prima, e credere poi, che

di madri abusanti si tratti.

Un’ultima notazione riguarda gli abbandoni dei neonati. Fra le “tradizionali”

forme di neonaticidio, neppure tanto mascherato, si collocava in passato

l’esposizione del neonato, cioè l’abbandono ad una sorte quantomeno densa di

incognite; di questa forma abbastanza comune di disfarsi dell’infante, magari di

imbarazzanti natali, si hanno esempi illustri, da Mosè ad Edipo, ma sicuramente a

molti altri bambini non è andata così bene e non hanno avuto il tempo di passare

alla storia (o al mito).

Vi erano differenze in funzione del genere, fino al punto che un egiziano di

epoca alessandrina scriveva alla moglie lontana che era gravida: “Quando partorirai,

se sarà un maschio, tienilo; se sarà una bambina, esponila”, e in Grecia, Posidippo,

autore del III secolo, affermava: “Un figlio lo alleva chiunque, anche se è povero;

una figlia, la si espone”14. Così, sono le bambine ad essere preferibilmente

abbandonate, accanto a mucchi di spazzatura, all’angolo di una strada, tutt’al più in

un vaso perché non siano cibo dei cani randagi. A partire dal Medioevo, l’assistenza

all’infanzia abbandonata diventa uno dei primi scopi delle istituzioni di carità, ma

ancora nel 1527 si riconosce che “le latrine risuonano del pianto dei bambini in esse

immersi”15, e intanto si registrano in alcune città italiane da cento a duecento

abbandoni all’anno. Il peggioramento delle condizioni delle classi popolari avutosi

con l’avvento dell’industrializzazione aggraverà la situazione; la seconda metà

dell’Ottocento vedrà una crescita degli abbandoni in tutta Europa, e per converso

alla fine del XIX secolo gli abbandoni cominceranno a scemare

contemporaneamente al miglioramento delle condizioni economiche, all’emanazione

delle prime leggi a tutela dei lavoratori, alle forme di assicurazione sociale. Nel

frattempo però, alla tradizionale motivazione della miseria come causa

dell’abbandono dei neonati si era aggiunta un altro fattore, la “infamia” legata alla

maternità in nubilato per le donne e allo status di illegittimo per il bambino.

14 C. Salles, I bassifondi dell’antichità, Milano, 1984. 15 L. DeMause, Storia dell’Infanzia, Milano, 1983.

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La grande innovazione che si era avuta nel frattempo era quella della “ruota”,

cioè un congegno che ruotava su di un perno collocato nel vano della finestra di un

istituto caritatevole, solitamente un convento; il bambino che si voleva

abbandonare, “esporre” come si diceva, si collocava sulla parte esterna, poi il

meccanismo veniva fatto ruotare, solitamente a questa rotazione era collegata una

campanella che avvertiva dell’arrivo del neonato, e chi stava all’interno poteva così

accoglierlo. Il marchingegno permetteva a chi abbandonava il bambino di

mantenere l’anonimato. In Italia, intorno alla seconda metà dell’Ottocento, si calcola

ci fosse un esposto ogni 500 abitanti16; perché la ruota venisse abolita bisognerà

attendere una legge del 1923.

Una personale ricerca17 ha riguardato 69 casi di abbandono di neonati come

riportati dal più diffuso quotidiano italiano dal 1995 al 2005. Stante il fatto che un

quotidiano non riporta necessariamente tutti gli episodi e ferma restando la presenza

di un numero oscuro, non si pretende che questi dati siano sicuramente

rappresentativi del fenomeno, ma alcuni dei risultati possono offrire notizie di un

certo interesse. Quanto ai luoghi di ritrovamento, chiese e conventi mantengono,

almeno in parte, la tradizione, segno della fiducia che regna nella virtù della carità dei

religiosi. I tempi però mutano, e così 2 neonati sono abbandonati rispettivamente in

un centro commerciale e in un supermercato, 5 in treno, autobus, stazioni

ferroviarie, e 3 in parcheggi delle autostrade. Dei 6 abbandonati in ospedale, 2 erano

affetti da malformazioni. La fiducia nella pietà altrui si estende anche ai laici, e ben 8

bambini sono lasciati presso abitazioni, davanti al portone, in ascensore, persino sul

davanzale di una finestra. La maggior parte dei piccoli, però, come accadeva in

passato, è lasciata per strada, in campi, nei parchi e, soprattutto, i neonati sono

buttati nei cassonetti: 12 casi rievocano quanto riportato sopra sulla condizione dei

bambini nell’antichità, e i risultati sono purtroppo quegli stessi, visto che la metà dei

piccoli morti della nostra casistica erano stati lasciati appunto nei cassonetti.

La madre viene individuata in più di un terzo dei casi, in genere perché si reca

in ospedale per le complicanze del parto. Quando si riesce a sapere qualcosa di lei si

apprendono notizie di estrema deprivazione e difficoltà: in un caso la famiglia, con

già altri tre figli, “risiedeva” in automobile, in un altro la donna aveva altri cinque

figli, in un altro ancora era malata di mente.

Pur considerando che in molti casi non abbiamo notizie di sorta, è certo che in

almeno 21 casi la madre è straniera. Come a proposito dell’infanticidio per

16 P. Galletto, La “ruota”, Roma, 1987. 17 I. Merzagora Betsos, A. De Micheli, Figlicidio e abbandono dei neonati, Società Italiana Formazione

Psichiatria Forense e Penitenziaria, X Convegno Nazionale di Studi: “Delitti in Famiglia”, Aversa, 26-28 Ottobre 2006.

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abbandono materiale e morale, assistiamo oggi in Italia al sempre maggiore ingresso

di straniere in condizioni di completa emarginazione, di povertà estrema, di totale

mancanza di risorse, di clandestinità, di autentica schiavitù, che non hanno saputo o

potuto trovare un’altra “soluzione” se non quella dell’abbandono del neonato.

3. L’omicidio di coppia.

L’omicidio di coppia rappresenta la tipologia prevalente degli omicidi in

ambito familiare, ed è un altro fenomeno di cui i media ultimamente si occupano

molto. In particolare si occupano di femminicidio18; posto che in media 7 su 10 delle

uccisioni delle donne è perpetrata in famiglia, e il più delle volte ad opera del partner

o dell’ex partner, omicidio di coppia e femminicidio divengono quasi sinonimi di

uxoricidio per mano del marito.

Anche questo fenomeno non è in crescita costante (ma neppure in

diminuzione), come forse l’insistenza mediatica ci induce a credere, ma naturalmente

l’obbrobrio rimane: anche se di femminicidio ce ne fosse uno solo, sarebbe

vergognoso. Inoltre bisogna tener conto delle altre forme di violenza contro le

partner che sono maggiormente coperte dal numero oscuro: la violenza fisica non

letale, la violenza sessuale, quella economica, quella psicologica (quest’ultima

sicuramente non appannaggio maschile). Relativamente agli omicidi possiamo

contare su dati sufficientemente attendibili, mentre non è così per questi altri tipi di

abuso. Abbiamo solo un dato per dir così “a contrario”: nel 2006 l’ISTAT ha

condotto una ricerca di vittimizzazione intervistando telefonicamente un campione

rappresentativo di donne fra i 16 e i 70 anni, da cui non solo risulta che 2 milioni e

938 mila Italiane sono state vittima di violenza fisica o sessuale da parte del partner

attuale o dell’ex partner nel corso della vita, ma soprattutto emerge che nella quasi

totalità dei casi -nel 93%- questi tipi di violenze non sono denunciate19.

Insomma, il fenomeno esiste ed è giusto che ci si preoccupi.

S’è detto che uxoricidio nella gran maggioranza dei casi significa uccisione

della moglie, quel che rileva poi è che la criminogenesi in quest’ultimo caso è

18 Cioè: “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una

sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Questa è la definizione di femminicidio del Devoto-Oli del 2009, e il termine si ritrova anche nello Zingarelli a partire dal 2010. Per le uccisioni vere e proprie alcuni preferiscono il termine “femicidio”.

19 Istat, La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia, Roma, 2007.

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diversissima rispetto a quella dell’uxoricidio in danno del marito. Le due tipologie

sono così sintetizzabili:

- quella del dominio e del possesso – più ancora della “vecchia” gelosia -

nell’ipotesi del marito che uccide la moglie;

- quella del costante maltrattamento da parte del marito che alla fine esita

in omicidio per travisata “difesa” in caso di uxoricidio della moglie in danno del

marito.

La differenza, oltre che motivazionale, è quantitativa: nel 2012, per esempio,

su 86 omicidi di coppia, in 73 casi era l’uomo che aveva ucciso la donna, né le cose

sono andate significativamente diverso negli anni precedenti.

In uno studio sui partner violenti20, costoro sono stati suddivisi in quattro

tipologie:

- coloro che hanno commesso il reato perché spinti dalla presenza di

malattia mentale;

- coloro che hanno commesso il crimine in condizioni assolutamente

eccezionali, che non sono inseriti in alcuna sottocultura, che non hanno

precedenti neppure di maltrattamento domestico, e che di solito si rammaricano

profondamente di quel che è accaduto;

- chi ha ucciso o comunque è stato violento sulla base di un serio

problema di dipendenza dalla partner e di patologia dell’attaccamento affettivo, e

che non riesce a concepire di poter vivere senza la partner. Questo spiega anche

la frequenza delle uccisioni per mano degli ex partner, spiega il fatto che il

momento di maggior rischio per la vittima sia quello in cui viene comunicata la

decisione di separarsi, spiega il fenomeno dello stalking;

- infine, sono quei casi in cui l’omicidio è il dramma finale di una lunga

teoria di maltrattamenti, prepotenze, violenze, accompagnate da una salda

sottocultura di discriminazione di genere e di sostegno alla violenza, che a sua

volta trae alimento dalla messa in atto di tecniche di neutralizzazione, cioè da

quelle auto-giustificazioni per il comportamento deviante che consentono al

soggetto di neutralizzare, appunto, il conflitto con la morale sociale e dunque il

rimorso. Benché in molti casi non vi siano informazioni, i dati disponibili

segnalano un’elevata frequenza di precedenti maltrattamenti in danno di quella

20 I. Merzagora Betsos, Uomini violenti. I partner abusanti e il loro trattamento, Milano, 2009.

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che sarà poi la vittima di omicidio, e inoltre indicano che in più dei due terzi dei

casi i pregressi maltrattamenti erano noti a terze persone, che i maltrattamenti si

protraevano da anni, che nel 44% erano stati denunciati, che in alcuni casi le

donne si erano rivolte a centri antiviolenza21.

Le due ultime tipologie non di rado sono mescolate, e comune ad entrambe

è l’elemento sottoculturale della discriminazione di genere: l’idea che in casa –e

forse non solo lì- occorra “farsi rispettare” (il che però di solito non prevede un

corrispondente rispetto della partner); l’adesione a ideologie “mascoline”,

l’opinione che la violenza sia un apprezzabile metodo per risolvere i problemi e

che gli uomini debbano esercitare un controllo sulle loro partner.

La sottocultura della discriminazione di genere trova spesso origine

nell’esempio familiare, e talora nella violenza assistita o nell’abuso subito in età

precoce secondo l’arcinoto – e forse un po’ logoro – concetto di “ciclo

dell’abuso”.

Circa le criminodinamiche, possiamo far riferimento alle “tecniche di

neutralizzazione”, cioè le “scuse” che ci si inventa quando si viola una norma: la

negazione della propria responsabilità, come nel caso in cui il soggetto sostiene di aver

agito in condizione di infermità mentale o di intossicazione alcolica; la minimizzazione

del danno provocato, una sorta di “ridefinizione” dell’atto per cui un’aggressione diviene

uno “scambio di opinioni”, o comunque “non le ho fatto molto male”; con la

negazione della vittima si giunge ad affermare che il pregiudizio arrecato alla vittima

non rappresenta un'ingiustizia, perché si tratta di una persona che merita il

trattamento subito: basti pensare alle aggressioni contro la moglie “infedele”; la

giustificazione morale, grazie alla quale il comportamento trova una sua scusante

nell’aver obbedito a motivazioni moralmente elevate. Nel caso dei mariti violenti per

questa giustificazione sono di solito invocati la Bibbia o il Corano, secondo cui –

nella versione di costoro- è stabilito che la donna debba sottomissione all’uomo;

l’etichettamento eufemistico, in cui si riduce la gravità del comportamento attraverso una

definizione benevola o comunque “accettabile” (per i partner violenti l’aver percosso

la donna diventa averle dato una lezione, l’averla colpita senza usare armi non è

averla veramente aggredita, la violenza è la risposta legittima ed appropriata al

comportamento viceversa “inappropriato” delle partner, eccetera); il confronto

vantaggioso, che consiste nel paragonare il proprio comportamento con altri più gravi

e in questo modo ridimensionarne la gravità (nel nostro caso: “tanti altri mariti sono

ben più violenti”); l’attribuzione di colpa alla vittima: è la donna che esaspera l’uomo, o

magari lo ha tradito e quindi merita la violenza.

21 EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014.

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4. La violenza contro gli ascendenti.

Venendo ai parenticidi e ai maltrattamenti dei genitori, il matricidio risulta

poco frequente fra gli omicidi dei familiari in quasi tutte le casistiche (tra il 2000 e il

2012 in Italia costituisce il 12% di tali delitti), e trova spesso motivazioni

psicopatologiche.

Ancora inferiore la percentuale di parricidio. Stridenti contrasti di ruoli sono

alla base dei modelli definiti “parricidio riparatore”, in cui il padre è ucciso per aver

fatto sì che fossero vilipesi i valori morali della famiglia, e “delitto liberatorio”, dove

il padre viene ucciso in quanto ostacolo al raggiungimento o alla conservazione della

felicità. Qualche volta la felicità può, banalmente, consistere nella disponibilità

economica, come nel caso di Giovanni Rozzi che dichiarerà: “L’idea di uccidere mio

padre è maturata per un mio desiderio di libertà nella gestione della mia vita e

nell’amministrazione dei miei beni […] Dopo la sua morte li avrei gestiti io senza

nessuna costrizione”22. O come nel caso di Pietro Maso, in cui i due genitori

vennero “barbaramente trucidati”23 dal loro figlio in correità con tre amici; quanto ai

motivi, la sentenza sottolinea l’inquietante trivialità e nel contempo la inconsueta

“normalità” ambientale, almeno rispetto allo stereotipo che vorrebbe il delitto fiorire

in ambienti di miseria (ma la miseria non è solo economica): “Il crimine viene

pensato ed ideato in un contesto relazionale, di apparente benessere senza

conflittualità, condizioni queste invero normalmente assenti negli altri omicidi

domestici”24.

Comunque di figlicidi, di uxoricidi, di parenticidi si sente (fin troppo) parlare,

mentre la categoria più negletta è quella degli anziani, insomma dei nonni.

Consultando la letteratura scientifica, soprattutto criminologica ma persino

geriatrica, la sproporzione fra gli scritti stranieri e quelli italiani in materia è

desolante, e fa pensare a quel che si poteva affermare fino a non molti decenni fa in

tema di abusi ai bambini. Anzi, lo squilibrio fra gli scritti che riguardano il

maltrattamento dei bambini e quelli che concernono gli abusi nei confronti degli

anziani fa immaginare un Paese popolato da giovani e spopolato da anziani,

esattamente all’opposto di quel che avviene in termini demografici da noi, dove gli

ultrasessantacinquenni sono oramai più del 20% degli Italiani, e sono quattro volte

più numerosi dei minori di 4 anni.

22 P. De Pasquali, Figli che uccidono, Catanzaro, 2002. 23 Corte di Assise di Appello di Venezia, Sezione II, 30 aprile 1993, estensore Lanza. L'espressione è

nella sentenza. 24 Corte di Assise di Appello di Venezia, Sezione II, 30 aprile 1993, estensore Lanza.

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Non si vuol fare certo fare i laudatores tempori acti e mitizzare le famiglie di

una volta, ma oggigiorno il problema è complicato dall’allungarsi della vita, ed in

particolare dal protrarsi di essa pur in presenza di malattie, fisiche o psichiche, che

rendono l’anziano dipendente e bisognoso.

Come s’è anticipato, si può paragonare questo fenomeno a quello del child

abuse per l’essere stato per lungo tempo ignorato e per il vasto numero oscuro, e

appunto in analogia alla “battered child syndrome”, alcuni Autori lo hanno chiamato

“granny battering” o “battered old person syndrome”. Però, le analogie con il child abuse non

andrebbero sopravvalutate, e il fatto di distinguere fra la condizione di dipendenza

dell’infanzia e quella, invece, di capacità e responsabilità dell’anziano evita una

stigmatizzazione di quest’ultimo come soggetto a cui si debba presuntivamente

prestare tutela.

Un primo modello teorico che cerca di spiegare il maltrattamento dell’anziano

è il “modello situazionale”, secondo cui vi sarebbero una serie di condizioni

favorenti il fenomeno, vuoi fattori legati alla vittima stessa (dipendenza fisica e

psichica, problemi di salute e di personalità), oppure fattori strutturali (difficoltà

economiche, isolamento sociale, problemi ambientali), o fattori connessi alla

persona che ha in carico l’anziano (problemi esistenziali, abuso di sostanze,

precedenti esperienze di socializzazione secondo modelli di violenza).

Secondo il modello teorico del maltrattamento degli anziani fondato

sull’interazionismo simbolico, sorgerebbe un conflitto di ruolo, sia nella vittima che

nell’autore dell’abuso, per la difficoltà di conciliare l’immagine dell’anziano quale è

ora e com’era in passato, e ciò per la perdita di potere, di efficienza, di prontezza.

L’esempio dell’anziano affetto da demenza esemplifica drammaticamente tale

mutamento e dunque il conflitto interattivo e simbolico, ma anche senza giungere a

questi estremi, la sensazione di pena ma persino di rabbia che ci coglie quando

vediamo i nostri genitori declinare è un’altra dimostrazione calzante.

Fra i tipi di abuso attivo sono descritti:

- l’abuso fisico;

- psicologico;

- sociale ed ambientale;

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- materiale o economico25.

L’abuso fisico è dato, com’è intuitivo, dall’atto che comporta danno o dolore

fisico, e gli esempi sono schiaffi, percosse, spintoni, bruciature, tagli, contenzioni

superflue o attuate con strumenti inadeguati, compresa l’eccessiva somministrazione

di farmaci magari al solo scopo contenitivo.

Fra le forme di abuso psicologico si indicano le umiliazioni (suscitare

vergogna, mettere in ridicolo, rifiutare), gli insulti, le intimidazioni, le minacce.

Questo tipo di abuso sarebbe più frequente di quello fisico, ma non meno nocivo.

Il maltrattamento “sociale” può consistere nell’isolamento, nel cattivo uso

delle risorse di vita e abitative, fino all’abbandono.

L’abuso o sfruttamento economico si verifica quando vengono tolti all’anziano

denaro o beni, e le sue risorse economiche sono usate per profitto altrui26.

Fra gli esempi di maltrattamento economico e sociale vi è anche il costringere

l’anziano a negozi giuridici che non vorrebbe stipulare o, forma insidiosa ma certo

non sconosciuta anche da noi, l’eccesso superfluo di tutela giuridica (interdizione).

Una forma di “esclusione” particolare è costituita dalla penalizzazione dei

nonni nei casi di separazione o divorzio dei figli, con conseguente interruzione del

rapporto coi nipotini. La Giurisprudenza ha più volte affermato il “diritto di visita

dei nonni” e ribadito l’importanza di un’adeguata tutela del vincolo esistente tra

nonni e nipoti27.

Fra le forme di abbandono, infine, è da segnalare il fenomeno delle c.d. “morti

solitarie”, cioè i decessi per cause naturali di persone sole, scoperti dopo un certo

lasso di tempo. In proposito è da ricordare che, secondo i dati dell’ultimo

censimento, gli anziani rappresentano più della metà delle persone che vivono sole.

Una ricerca ha analizzato i casi di anziani rinvenuti morti dal 1992 al 2004. Si è

trattato di 90 anziani; molti di essi vivevano soli, spesso in condizioni disagiate,

abbandonati perché infermi, affetti da svariati disturbi, lontani da parenti che solo

raramente si sinceravano delle loro condizioni28.

25 I. Merzagora, Il maltrattamento degli anziani in famiglia, in: Cendon P. (a cura di), Trattato della

responsabilità civile e penale in famiglia, volume III, Padova, 2004, pp. 1821-1839. 26 R. Pasqualini, C. Mussi, Come riconoscere e prevenire l’abuso degli anziani, in Giornale di Gerontologia, 2001,

49, pp. 42 ss. 27 Cass. Civ., settembre 2006; Cass. Civ., giugno 1998; Corte di Appello di Lecce, maggio 2002. 28 A. De Micheli, I. Merzagora Betsos, Comunicazione presentata al XXI Convegno Nazionale della Società

Italiana di Criminologia, Gargnano del Garda, 2007.

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Chi ha avuto a che fare con degli anziani indementiti o anche solo non

autosufficienti sa l’esasperazione a cui i poveretti possono condurre chi li assiste, ed

infatti fra le condizioni a rischio sono citate soprattutto la demenza, il morbo di

Parkinson, i disturbi cerebrovascolari o di altro tipo che comportino difficoltà di

comunicazione, immobilità, incontinenza.

Le donne, soprattutto se ultraottantenni, sono maggiormente a rischio di

abuso, il che è dovuto anche al fatto che vi sono più donne che uomini di quella età.

Quanto alle caratteristiche di chi compie l’abuso, si tratta soprattutto di coloro

che vivono con la vittima e che hanno dovuto lasciare il lavoro per assisterla. Si

tratta di figli o nipoti, ma anche di coniugi29.

Un altro fattore preoccupante è la difficoltà da parte del medico di riconoscere

la violenza dovuta dal fatto che negli anziani i segni dell’abuso, comunque aspecifici,

possono essere mascherati dalla presenza di patologie concomitanti.

Se molte delle vittime non chiedono aiuto o non denunciano gli abusi per

vergogna, per timore di rappresaglie, o semplicemente per affetto verso l’autore o gli

autori della violenza, ostacoli all’emersione del fenomeno del maltrattamento

dell’anziano sono i problemi specifici della vecchiaia, fisiologica o patologica, quali

l’isolamento sociale o i deficit cognitivi.

Il numero oscuro, e su ciò concordano tutti, è dunque sicuramente alto. Lanza

ricorda che nel 1988 in Italia vi erano stati 8.646 incidenti domestici con esito

mortale, nel 75% dei quali la vittima contava più di 64 anni, e osserva: “tale cifra

deve anche porre un piccolo problema criminologico, essendo ragionevole pensare

che qualche riferito 'incidente mortale domestico' sia invece frutto di un'azione

criminosa di qualche familiare della vittima, in qualche modo poi protetto dagli altri

membri del gruppo [...]. Per suggerire un’immagine quantitativa del fenomeno

stesso, basti pensare che se si ipotizzasse che solo il 5 per mille dei morti 'anziani'

per incidente domestico debba l'inizio della catena causale che ha poi prodotto

l'evento letale all'azione illecita di un familiare (una spinta, un tentativo di percosse o

di lesioni etc.), il valore degli omicidi domestici aumenterebbe subito in valore

assoluto di 40 unità all'anno”30.

Come per le altre forme di violenza in famiglia, l’unico dato certo riguarda gli

omicidi, e come per i femminicidi l’omicidio degli anziani è nella maggior parte dei

29 A.C. Homer, C. Gilleard, Abuse of Elderly People by their Carers, in British Medical Journal, 1990, 301, pp.

1359 ss. 30 L. Lanza, Gli omicidi in famiglia, Milano, 1994, pp. 104-105.

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casi omicidio in famiglia. Secondo tradizione, le vittime sono soprattutto donne, gli

autori soprattutto uomini. Nel 2012 – ultimo anno per il quale sono a disposizione i

dati EU.R.E.S. – si è registrato il più elevato numero di ultrasessantacinquenni uccisi

dell’ultimo decenni, con una percentuale del 18,6% sul totale degli omicidi31.

Un fenomeno non esclusivo ma abbastanza tipico dell’omicidio fra anziani è

quello dell’omicidio-suicidio detto “pietatis causa”, in cui uno dei coniugi –quasi

sempre il marito- oramai anziano ed incapace di assistere l’altro, a sua volta malato e

non autosufficiente, lo uccide e si uccide, al termine di una lunga vita magari

trascorsa nell’amore e nella condivisione32.

5. Conclusioni.

In conclusione ci si aspetterebbe forse la risposta alla domanda sul perché

della violenza proprio là dove sarebbero viceversa da ritrovarsi amore e solidarietà.

E’ però da ribadire che questi fenomeni sono la “patologia” e non la fisiologia delle

relazioni familiari; sono eccezioni, non regole. Le relazioni familiari sono piuttosto

rappresentate dalle parole della Relatio del Sinodo dei Vescovi là dove cita la

“generosa fedeltà” con cui tante famiglie rispondono alla loro missione con gioia,

anche di fronte ad ostacoli e sofferenze. Un primo “perché” dunque non riguarda

tanto la violenza, quanto l’attenzione anche scomposta ad essa, soprattutto nella sua

forma più estrema, quella dell’omicidio.

Per cominciare, una risposta molto ovvia: ancorché si sappia da sempre - dal

fratricidio commesso dal primo uomo nato da donna e poi via via attraverso la saga

degli Atridi fino all’oggi -, che la famiglia non è sempre il luogo dell’amore e della

sicurezza, si sente odore di tradimento quando si sa che qualcuno è stato colpito

proprio nel luogo dove si aspettava riparo, che è stato oggetto di tanto odio là dove

avrebbe dovuto esserci amore.

Un’altra risposta alla domanda sull’eccesso di allarme sociale riguarda il

supposto aumento delle violenze in famiglia, ma già s’è detto, dati alla mano, che ciò

non si dà. Se non che, grazie ai mezzi di comunicazione, ogni episodio ci viene

ammannito ripetutamente nel corso della giornata, e di ognuno di questi fatti si ha

notizia più volte: al momento della scoperta, poi quando viene individuato un

sospetto autore, e poi ancora quando sono celebrati i processi. Il fatto magari è uno

solo, ma l’impressione che se ne ricava è multipla.

31 EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014. 32 I. Merzagora Betsos, L. Pleuteri, Mi voglio uccidere e ti porto con me; Ti devo uccidere ma vengo con te, in

Rivista Italiana di Medicina Legale, 2004, 3-4, pp. 603 ss.

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Altro motivo che potrebbe essere alla base dell’inquietudine sociale è quello

della – reale o apparente - normalità sociale e psicologica di taluni degli assassini

familiari: talora si tratta di delitti che germinano in un humus che si prospetta di

assoluta normalità.

Pietro Maso, il ragazzo di “buona famiglia” privo di eclatanti sintomi

psichiatrici assieme a tre amici altrettanto “normali” ha ucciso con modalità efferate

entrambi i genitori. In una delle consulenze psichiatriche, dopo una lunga disamina

della personalità di uno dei soggetti, della storia di vita, dei suoi atteggiamenti,

dell’ambiente sociale in cui i protagonisti vivono, il consulente con semplicità e

chiarezza conclude: “la normalità è possibile anche di fronte al delitto più

efferato”33. A undici anni di distanza dal delitto, d’altro canto, Maso dirà della

propria famiglia nel corso di un colloquio con chi scrive: “A parte quello che ho

fatto io, tutto nella norma. Una famiglia come le altre [sic]”34.

Ma forse sul termine “normalità” molto ci sarebbe da disquisire, ed anche sui

termini – che oramai tutti percepiamo come logori, inattuali, posticci - di “bravi

ragazzi”, di “insospettabili”, e così via.

La “normalità”, insomma, non è sinonimo di convenzionalità e non è

apparenza.

Per venire ora al “perché” della violenza in famiglia, occorre subito ricordare

che i fenomeni delittuosi non hanno quasi mai una spiegazione unica, che vige in

criminologia la regola della multifattorialità. I fattori ambientali, quelli economici,

culturali, psicologici, talora psicopatologici concorrono, di volta in volta con

diverso peso, nel rendere conto di un fenomeno. D’altra parte lo si è potuto

constatare nella disamina dei vari tipi di omicidio in famiglia, effettuando la quale

motivazioni e cause sono già state analizzate; qui si tratta solo di alcune

puntualizzazioni.

Proprio a proposito della famiglia, una delle spiegazioni della criminalità in

generale che oggi va per la maggiore, soprattutto nei quei talk show, è quella de “la

colpa è della famiglia”. Da un lato è ovvio –certo, ognuno di noi è impastato

(anche) di quel che gli trasmettono in famiglia, e certo il “ciclo dell’abuso” può

essere un motore potente-, ma allora dovremmo poi imputare le eventuali

inadeguatezze e lacune della famiglia ai genitori dei genitori, e poi ai genitori dei

genitori dei genitori, e via via in una catena che può interrompersi solo a Caino.

33 Consulenza per il P.M. a firma del professor Vittorino Andreoli, pp. 165-166. 34 I. Merzagora Betsos, A. Bramante, F. Tosoni, L’omicidio dal punto di vista criminologico e psicopatologico

forense, in G. Gulotta, I. Merzagora Betsos (a cura di), L’omicidio e la sua investigazione, Milano, 2005, pp. 93-174.

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Soprattutto però, la famiglia, qualunque famiglia, non risiede in un vacuum

sociale, risente dello spirito dell’epoca, si arrabatta a cambiare con i tempi che

cambiano. Per evitare i luoghi comuni, occorre pur dire che la colpa - rectius la

causa - è anche della società, che poi vuol dire che la colpa è di tutti noi perché

tutti partecipiamo al sociale e portiamo dunque la corresponsabilità del male (e del

bene).

Anche le affermazioni sulla colpa della società e sulla crisi dei valori che,

almeno secondo autorevoli osservatori ed “opinionisti”, l’attuale società sta

patendo paiono trite, stantie, pigri luoghi comuni euristicamente nulli. Se però le si

riempie di contenuti forse qualcosa suggeriscono.

In un articolo di alcuni anni or sono, Mantovani fornisce molte, corrosive,

lucide chiavi di lettura anche per questa criminalità, e per la “sorprendente sorpresa

degli ormai quotidiani massacri intrafamiliari”: vale la pena di riprenderle. Egli

denuncia “l’inappetenza di valori” indotta dalle ideologie materialistiche, la cui

sovrana legge di mercato rende tutto possibile, con una cultura che contiene

l’imperativo della “sostituzione di ciò che piace a ciò che è”; la “maggior felicità

propria” come criterio unico di valutazione ignorando qualsiasi solidarietà e – Dio

non voglia! - sacrificio; l’iperstimolazione illimitata delle mete che incoraggia

appunto indipendentemente da quanto la norma condanna, che fa sì che “anziché

desiderare ciò che è buono, si considera buono ciò che è desiderabile”, fino all’ “io

uccido chi voglio: questo è un paese democratico”35.

Ideologicamente lontano, ma forse meno di quanto sembri, così scriveva

Pasolini, qualche decennio or sono: “il nuovo edonismo con cui il potere reale

sostituisce ogni altro valore morale del passato”; “Si può dunque affermare che la

‘tolleranza’ della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle

repressioni della storia umana. […] i beni superflui rendono superflua la vita”36.

Con le parole del parricida Pietro Maso nella sua confessione ai Carabinieri:

“Nel novembre del 1990 mi è venuto in mente di condurre una vita brillante e

quindi mi servivano molti soldi. Non volevo lavorare. Per avere questi soldi l’unica

soluzione possibile era quella di avere subito l’eredità che mi spettava dai genitori

qualora fossero morti. Mi sarebbe piaciuto di averla intera dovendo così essere

costretto [sic] ad uccidere anche le mie sorelle”37.

35 F. Mantovani, Criminalità sommergente e cecità politico-criminale, in Rivista Italiana di Diritto e

Procedura Penale (1999), p. 1201 ss. 36 P. Pasolini, Scritti corsari, ed. 2001, Milano. 37 P. De Pasquali, Figli che uccidono, Catanzaro, 2002, p. 98.

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Ebbene, forse alcune cose si spiegano.

Keywords: domestic violence; filicide; femicide; maltreatment of the elderly.

Abstract: This paper examines the domestic violence phenomenon, focusing mainly on murders,

analyzing its motivations, quantitative and qualitative aspects, and perceiving filicides, femicides and

violence against the elderly. Statistical data are provided to refuse the idea of an increasing number

of domestic violence episodes nowadays. Moreover, the Author talks over some possible

explanations, useful to understand the phenomenon and the social distress it causes.