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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006 Per uno sport che aiuta a crescere, 'L’Approccio Centrato sull'Atleta" Loretta Raffuzzi, Nancy Inostroza, Barbara Casadei 1. La dimensione educativa dello sport 1.1. Premessa E' ormai ampiamente riconosciuto come la pratica sportiva possa avere rilevante influenza nello sviluppo del giovane, nel promuovere la sua formazione fisica, psichica, sociale e morale. Lo sport rappresenta un mezzo per sviluppare caratteristiche positive quali la capacità di affrontare e superare difficoltà, la consapevolezza delle proprie possibilità, l'autonomia, l'autostima, l'attitudine a collaborare con gli altri. La pratica sportiva può offrire un contesto educativo che, al pari di altri ambiti quali la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, facilita il percorso di crescita degli adolescenti promuovendo uno stato di benessere psicofisico e ponendosi come fattore antagonista al disagio, alla devianza, alla tossicodipendenza. Le potenzialità dello sport non si realizzano però in maniera automatica: sono le figure adulte (genitori, allenatori, dirigenti sportivi) e l'esperienza di squadra che fanno sì che l'attività sportiva offra al giovane un contesto educativo efficace. Numerosi studi hanno evidenziato come la qualità dell'esperienza sportiva dei giovani atleti sia fortemente influenzata dall'allenatore, in 1

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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2006

Per uno sport che aiuta a crescere, 'L’Approccio Centrato sull'Atleta" Loretta Raffuzzi, Nancy Inostroza, Barbara Casadei

1. La dimensione educativa dello sport

1.1. Premessa E' ormai ampiamente riconosciuto come la pratica sportiva possa avere

rilevante influenza nello sviluppo del giovane, nel promuovere la sua formazione fisica, psichica, sociale e morale.

Lo sport rappresenta un mezzo per sviluppare caratteristiche positive quali la capacità di affrontare e superare difficoltà, la consapevolezza delle proprie possibilità, l'autonomia, l'autostima, l'attitudine a collaborare con gli altri.

La pratica sportiva può offrire un contesto educativo che, al pari di altri ambiti quali la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, facilita il percorso di crescita degli adolescenti promuovendo uno stato di benessere psicofisico e ponendosi come fattore antagonista al disagio, alla devianza, alla tossicodipendenza.

Le potenzialità dello sport non si realizzano però in maniera automatica: sono le figure adulte (genitori, allenatori, dirigenti sportivi) e l'esperienza di squadra che fanno sì che l'attività sportiva offra al giovane un contesto educativo efficace.

Numerosi studi hanno evidenziato come la qualità dell'esperienza sportiva dei giovani atleti sia fortemente influenzata dall'allenatore, in

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particolare dalla sua personalità e dalle sue modalità di relazione.

In età adolescenziale, quando i modelli genitoriali vengono criticati, Distruttore sportivo può facilmente diventare un adulto di riferimento con cui il giovane si identifica e col quale intende relazionarsi anche per problemi o aree tematiche non strettamente connesse con la disciplina sportiva.

Per questo è necessario che l'educatore sportivo (definizione questa che meglio esplicita il ruolo dell'allenatore, non riducibile ad una mera competenza tecnica) sia sempre più consapevole dell'importanza che la sua persona può rivestire nella vita del giovane atleta, nella formazione della sua personalità, nella partecipazione alle attività e nella permanenza all'interno del gruppo sportivo.

Gli allenatori possono diventare pertanto validi interlocutori nelle azioni di promozione della salute e del benessere degli adolescenti qualora possano beneficiare di un iter formativo specifico che sappia valorizzare e potenziare il loro ruolo: l'educatore sportivo a tal fine deve possedere strumenti che lo mettano in grado di proporsi, in situazioni specifiche e laddove necessiti, come soggetto interlocutore rispetto a varie problematiche giovanili (genitori, scuola, amici, partner, sessualità, droghe). Ciò non tanto perché egli debba fornire risposte specialistiche a problematiche complesse e non di sua competenza, quanto piuttosto perché possa individuare ed accogliere la richiesta di dialogo e di aiuto, ascoltandola, valorizzandola per eventualmente inviarla o accompagnarla nel contesto di competenza.

1.2. Le potenzialità dello sport

Praticare uno sport nel periodo dell'infanzia e dell'adolescenza, ma anche in altri momenti del ciclo vitale, comporta una serie di benefici che promuovono il benessere delle persone a partire dalla salute fisica per arrivare alla serenità psicologica e relazionale. Quando un adolescente si misura con i compiti di sviluppo che la vita gli pone davanti, deve saper mobilitare le abilità cognitive, emotive e relazionali a sua disposizione che gli permettono di affrontare, in modo efficace, le sfide e le richieste del mondo circostante. Una crescita tumultuosa caratterizza solo una parte degli adolescenti mentre, per la maggioranza di essi, si osserva una crescita continuativa, senza particolari crisi, o una crescita intermittente, dovuta a difficoltà episodiche. (Offer e Offer, 1975)

Nel percorso di crescita i giovani possono godere della presenza di fattori protettivi che li mettono parzialmente al riparo da problemi quali la sofferenza psichica acuta, i comportamenti tossicomanie! e devianti, la marginalità sociale. Lo studio dei fattori protettivi impegna molte delle energie degli esperti di prevenzione primaria e di educazione alla salute poiché l'incremento di questi fattori contribuisce al miglioramento della qualità della vita, alla promozione di relazioni sociali basate sulla solidarietà e alla diffusione di una cultura di pace.

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L'analisi dei fattori protettivi ha portato a distinguerli in tre livelli: individuali, familiari e comunitari. I fattori protettivi a livello individuale sono il possedere un'immagine di sé positiva e competente, la disposizione ottimistica rispetto alla vita, il saper stare insieme agli altri, la riuscita scolastica e professionale, la percezione di poter incidere sugli eventi. A livello familiare sono fattori di protezione l'avere genitori o parenti psicologicamente equilibrati, in grado di dare sostegno, vicinanza emotiva, capaci di offrire valori chiari e possibilità di confronto.

I fattori protettivi a livello sociale sono l'inserimento in un contesto ambientale e relazionale sufficientemente sano, il rispetto di norme e codici che regolamentano gli scambi fra le persone e la vita della comunità, la presenza di servizi, l'opportunità di aggregazione e partecipazione attiva alla vita comunitaria.

La pratica sportiva, lungi dall'essere una panacea per tutti i mali, ha una valenza pedagogica e sociale così ampia da risultare un elemento di rinforzo di alcuni dei fattori protettivi descritti. Lo sport, infatti, può svolgere un ruolo importante nella costruzione di una positiva immagine di sé, di una disposizione ottimistica verso il futuro, di uno sviluppo del senso di autoefficacia. Può favorire la socializzazione facilitando le relazioni amicali e quelle con adulti capaci di offrire dialogo, comprensione, aiuto. Può infine rendere capaci le persone di rispetto di codici e norme precostituite, di interazioni efficaci con gli altri, di assunzione di ruoli complementari e di reciproco aiuto.

Perché le potenzialità dello sport si realizzino è necessario che gli allenatori, i genitori, i dirigenti sportivi, i campioni, i politici, i governi e gli atleti stessi si impegnino a fare della pratica sportiva un insieme di esperienze positive, felici, edificanti. Laddove si realizzi l'incontro ideale tra una società sportiva connotata da un serio impegno etico, con dirigenti ed allenatori motivati al lavoro con i giovani anche sul piano educativo, in un contesto locale attento alle politiche giovanili, è assai probabile che la pratica sportiva sia un fattore di promozione per lo sviluppo fisico, psichico, sociale e morale dei giovani atleti.

1.3. Il rapporto positivo con il corpo

Uno dei primi compiti di sviluppo che i ragazzi si trovano ad affrontare quando entrano nella fase adolescenziale è quello dell'elaborazione di una nuova immagine del proprio corpo. La difficoltà principale nell'espletare questo compito è dovuta alla rapidità con cui avvengono i cambiamenti puberali. Il corpo può attraversare momenti di sviluppo disarmonici tali da creare nel giovane un certo livello di insoddisfazione ed un senso di goffaggine. I giovani di età compresa fra i 12 e i 14 anni mostrano più frequentemente di altri la preoccupazione per i cambiamenti corporei in atto e per quello che sarà l'esito finale. Il ritmo e gli scatti di crescita relativi alla statura, alle forme e al peso sono soggetti a forti variazioni da persona a persona, oltre che tra maschi e femmine, e costituiscono un elemento di forte

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impatto nelle relazioni interpersonali. (Cicognani eZani, 2003)

II bisogno di una identità corporea soddisfacente, che fornisca un senso di adeguatezza e accettabilità, spinge a fare sul corpo un investimento nuovo e a sottoporlo ad un accudimento esemplare. Tatuaggi, pearcing, jeans tagliuzzati, capelli colorati o rasta possono gratificare la persona che si percepisce più adeguata rispetto ai criteri di bellezza emergenti. Ma quando neanche attraverso monili ed abbigliamento specifici i giovani si percepiscono adeguati allora può arrivare una grande inquietudine. Si passa così dai corpi esibiti ai corpi nascosti, dal look eccentrico agli abiti larghi ed informi, da una cura meticolosa ed ossessiva ad una trascuratezza totale. Il corpo può essere vissuto come un nemico, responsabile degli insuccessi amorosi e relazionali e può diventare il palcoscenico nel quale si palesa il disagio psichico. I disturbi del comportamento alimentare, gli atti di autolesionismo o l'assunzione di droghe sono espressione di una sofferenza profonda che si esprime attraverso la sfera corporea. Anche laddove non ci siano quadri clinici gravi, si possono trovare spesso adolescenti che collocano le loro ansie a livello corporeo e finiscono per attribuire ad un difetto o ad una imperfezione fisica un significato abnorme, arrivando sempre più spesso a richiedere interventi di chirurgia estetica.

La pratica sportiva può facilitare un rapporto positivo con il proprio corpo prima di tutto sul piano della cura e dell'igiene. L'atleta viene educato a difendere e potenziare lo stato di salute psicofisico e a vivere il corpo come un amico, un alleato.

Lo sport garantisce lo sviluppo dell'apparato muscolo - scheletrico, facilita l'assunzione di regimi alimentari corretti, la ricerca di un peso ideale e l'astensione dall'uso di sostanze nocive alla salute, propone cicli di attività - riposo adeguati ad una buona forma fisica e ritmi di allenamento con una progressione idonea ad evitare un sovra sforzo. Per i bambini può essere molto utile usufruire di una fase preliminare di orientamento sportivo, nella quale svolgere un lavoro globale sul corpo che faciliti uno sviluppo armonico e renda possibile un approccio a tutte le discipline.

In età evolutiva la specificità di uno sport deve peraltro salvaguardare sempre il buon funzionamento di tutto l'assetto corporeo. Con la pratica sportiva l'adolescente può imparare a correggere una certa disarmonia dei movimenti e raggiungere un buon coordinamento motorio. Tutte le azioni sportive ben condotte procurano un forte senso di piacere e di soddisfazione che incrementa la percezione di una armonia corporea. L'abilità tecnica nello sport si esprime principalmente attraverso la sfera motoria e dunque la gestione del proprio corpo: i risultati positivi aumentano la percezione di adeguatezza ed il senso di autoefficacia.

L'autostima per un neoatleta è basata su una considerazione positiva della dimensione corporea che si realizza qualora egli senta di possedere i requisiti per appartenere alla disciplina sportiva praticata (ad esempio l'altezza giusta, la potenza o l'agilità necessarie). Le capacità mentali intervengono poi per attivare al meglio tutte le componenti emotive che permetteranno il controllo efficace della corporeità. Quando il processo di apprendimento di una disciplina sportiva è in fase più avanzata, la

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percezione della sfera corporea e di quella psichica saranno sempre meno disgiunte ed il senso di autoefficacia dell'atleta sarà sempre più riferibile alla competenza posseduta, vale a dire all'insieme di doti fisiche e mentali.

L'adolescente che fa sport ha meno occasioni di fare un investimento negativo sulla propria corporeità rispetto ai coetanei che non praticano alcuna disciplina sportiva poiché è sollecitato a considerare il corpo un "oggetto" meritevole d'amore. Talvolta purtroppo il bisogno di misurarsi con gli altri può spingere l'atleta ad aumentare in modo improprio il rendimento fisico anche con l'uso di sostanze e farmaci assunti senza prescrizione medica: in questi casi il corpo diventa il ricettacolo di sentimenti negativi poiché l'atleta non riesce ad accettare il limite o l'insuccesso. Anche l'infortunio può far sì che si sviluppino sentimenti ambivalenti rispetto al corpo che "ha tradito" l'atleta. Una serie ripetuta di infortuni peraltro deve far riflettere: forse il giovane allievo sta comunicando qualcosa attraverso un corpo che "si rompe" troppo spesso. Ci sono infatti atleti che subiscono forti pressioni rispetto al successo sportivo e che sviluppano un senso di inferiorità rispetto alle richieste esterne: questi giovani possono esporsi all'infortunio nell'intento di difendersi dal rischio di giudizio negativo sulle loro prestazioni. E' necessario che gli allenatori siano in grado di valutare eventi negativi reiterati nel tempo riguardanti la sfera corporea, poiché possono essere espressione di un malessere o di un disagio che il giovane non riesce a comunicare in altro modo.

1.4. Il benessere psicologico

Lo sport è un fattore di protezione rispetto al disagio psicologico per numerosi motivi che appartengono alla pedagogia intrinseca della pratica sportiva. Ogni sport presuppone e facilita una buona relazione con la realtà esterna poiché impone l'adeguamento alla dimensione oggettiva della disciplina e la capacità di relazione e collaborazione con altre persone. Concorre alla costruzione di caratteristiche positive di personalità quali la consapevolezza delle proprie potenzialità, la forza di carattere e la determinazione, la capacità di misurarsi con gli altri e di affrontare le difficoltà.

Nella pratica sportiva il risultato si raggiunge con uno sforzo assiduo ed un impegno costante. Non è possibile avere "tutto e subito", il cammino è fatto di piccoli passi, uno dopo l'altro. L'allenamento diventa il paradigma per il raggiungimento degli obiettivi personali per i quali occorre avere pazienza, capacità di attesa e forte motivazione. Il successo non è un miracolo ma un progetto da perseguire in una dimensione temporale abbastanza ampia: per questo motivo l'atleta è costretto a superare il "principio del piacere", che spinge a pretendere una soddisfazione immediata ai propri desideri, per adeguarsi al "principio di realtà" che insegna ad attendere il momento e a costruire le condizioni perché il bisogno trovi una risposta.

La capacità di attesa, il sacrificio, la costanza, la proiezione nel futuro sono qualità mentali di una personalità forte ed equilibrata. Numerose

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ricerche sociologiche hanno dimostrato che la personalità dei soggetti tossicodipendenti o devianti sono fragili proprio rispetto a queste caratteristiche. Lo sport promuove l'empowerment e facilita la percezione di poter incidere in modo positivo sugli eventi esterni, diventando protagonisti della propria vita. L'atleta matura la consapevolezza di poter raccogliere domani ciò che semina oggi e sa che, per arrivare al successo, il caso e la fatalità hanno un ruolo molto esiguo rispetto all'impegno e alla volontà. (Zani e Pombeni,1997)

Un'altra importante caratteristica psicologica che la pratica sportiva insegna è la tolleranza alla frustrazione. Di fronte ad un insuccesso è necessario rielaborare le emozioni negative, comprendere il perché e le responsabilità di quanto è accaduto, ritrovare la motivazione per proseguire il lavoro ed intensificare lo sforzo. Qualora la persona non abbia imparato a tollerare la frustrazione è molto probabile che, di fronte ad un fallimento, sia portata a rinunciare al progetto costruito fino a quel momento senza verificare se ha ancora valore e possibilità di essere realizzato. Può succedere che la pratica sportiva stessa sia fonte di frustrazione qualora risulti noiosa, troppo faticosa, unicamente indirizzata al risultato, premurosa solo verso i potenziali campioni ed impietosa verso gli sconfitti. In questo caso l'abbandono dei giovani è una risposta comprensibile e giustificata che mette in discussione il mondo dello sport dal momento che non è in grado di rendere la pratica sportiva un'esperienza gratificante.

Un'ulteriore dimensione psichica positiva che facilmente si ritrova nello sportivo è la capacità di autosostegno e dialogo interno di incoraggiamento. In una situazione di stress da gara o in un momento di difficoltà, all'atleta viene insegnato a spronarsi, a darsi coraggio, a continuare a sperare e a non perdere la consapevolezza del proprio valore. Questa abilità è di fondamentale importanza soprattutto in adolescenza quando si è portati ad estremizzare il significato di un errore o di un fallimento.

Infine l'attività sportiva facilita l'espressione della dimensione ludica creando innumerevoli occasioni di divertimento e gioco che regalano sorrisi, emozioni positive, piacere di stare con gli altri. Quanto più piccoli sono i giovani atleti tanto più lo sport deve essere libertà motoria ed espressiva, deve assomigliare al gioco e deve insegnare cose nuove in modo divertente.

1.5. La dimensione sociale ed etica

Tutti gli sport, anche quelli individuali, favoriscono il processo di socializzazione e quindi la capacità di convivere con altre persone entrando in una relazione di rispetto e reciprocità. Gratificano altresì il bisogno dei giovani di visibilità e protagonismo, offrendo l'occasione per essere in primo piano, per emergere ed essere apprezzati.

Nel praticare una disciplina sportiva i ragazzi escono dall'ambiente familiare ed entrano in un nuovo contesto dove potranno fare altre esperienze, conoscere un nuovo mondo, sempre all'interno di una situazione protetta e di alto valore educativo. Per esempio, per vivere l'appartenenza

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alla squadra, dovranno imparare a rispettare l'autorità dell'allenatore e sostenere il confronto con coetanei, misurandosi con i pregi e i difetti altrui. E' necessario adattarsi al ruolo che risulta più efficace per il gruppo e non agire con l'unico scopo di emergere sugli altri. Le mansioni dei singoli sono sempre complementari e ciascun atleta deve diventare consapevole dell'interdipendenza reciproca e del valore dell'impegno di tutti per raggiungere l'obiettivo. Il contributo che ciascuno può dare non è tutto ma è prezioso.

All'interno del proprio gruppo è importante imparare a comunicare, ad intendersi., ad avere fiducia nei compagni e nel mister, a collaborare ed essere solidali gli uni con gli altri. E' necessario che gli atleti, con l'aiuto dell'allenatore, sappiano parlare dei problemi o dei conflitti con un linguaggio costruttivo, privo di offese e di giudizi e teso a ricercare una soluzione reale alle difficoltà. La capacità comunicativa può essere un obiettivo finale di un percorso di crescita della squadra ma deve essere un requisito di partenza per l'educatore sportivo.

La particolarità straordinaria del gruppo, come entità diversa dalla semplice somma dei componenti, è che l'entusiasmo per la vittoria o per un traguardo raggiunto si moltiplica per il numero degli atleti, mentre il peso di una sconfitta viene suddiviso, o meglio condiviso, tra i partecipanti. Fare esperienza di squadra, di condivisione e di sostegno reciproco insegna ai ragazzi a non chiudersi e a cercare aiuto nei momenti di difficoltà. Se un giovane ha fatto esperienza di quanto sia importante non essere solo e di quanto sia utile affidarsi a qualcuno che sa dare conforto, potrà acquisire la capacità di chiedere aiuto nei momenti di difficoltà e di crisi. Lungi dall'essere segno di debolezza, il farsi aiutare è un'abilità sociale molto importante che denota equilibrio psichico. E' una competenza che la persona impara all'interno dei gruppi in cui vive e che gli adulti possono insegnare ai ragazzi nel percorso educativo.

L'obiettivo di ogni disciplina sportiva non è soltanto quello di incrementare le capacità tecniche e motorie degli atleti ma anche quello di favorire l'apprendimento di norme, regole e modelli di comportamento che saranno sperimentati in modo costante sia in allenamento che in gara.

In questo modo lo sport facilita l'acquisizione dei principi basilari del vivere civile: nella società umana ci sono leggi e codici da rispettare per il bene e l'utilità comune. Nessun individuo è libero di fare ciò che vuole e contravvenire ai limiti stabiliti significa andare incontro a sanzioni specifiche o restrizioni della libertà personale. Le regole di gara, di partita o le norme che regolano una disciplina specifica insegnano proprio questo in modo paradigmatico: l'atleta può giocare e competere nella misura in cui rispetta i codici prestabiliti. Al di fuori di essi, le doti personali ed i risultati non hanno senso. L'osservanza della disciplina può facilmente evolvere nell'autodisciplina facilitando il rispetto degli altri, la gestione efficace delle istanze aggressive e la cooperazione.

Lo sport in questo senso è educazione alla legalità: non esiste attività sportiva senza arbitri, giudici di gara e regolamenti ed ogni atleta impara a dirigere il proprio comportamento entro confini stabiliti, acquisendo

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capacità di autocontrollo ed interiorizzando il senso del limite. Nella mente dello sportivo diventa sempre più chiaro ciò che si può fare e ciò che non si deve, ciò che è legittimo e ciò che è scorretto e sleale. Questo processo facilita lo sviluppo morale ed è particolarmente utile nel periodo dell'infanzia e dell'adolescenza poiché il giovane è chiamato a completare la formazione della propria coscienza e dimensione etica. (Varin, 1993)

Nella cultura sportiva il traguardo, la vittoria ed il successo sono obiettivi da ricercare senza imbrogli, senza barare, senza essere scorretti e danneggiare l'avversario. E' una cultura che, nella profondità dei valori etici che promuove, apre la strada alla condivisione, al sostegno reciproco, alla solidarietà, alla pace. Ogni persona lotta per raggiungere degli obiettivi insieme ad altre persone, insieme all'allenatore ed alla squadra ma anche insieme agli avversar!. Quanto più forte, energico e competitivo è l'antagonista, tanto più grande sarà un eventuale successo ed indimenticabile una meta raggiunta con lealtà.

2. L'Approccio Centrato sull'Atleta

2.1. Una professione da valorizzare

La professione di educatore sportivo dell'età evolutiva, essendo nella maggior parte dei casi poco remunerativa, viene scelta per passione e per amore. Questo sul piano umano è un grande vantaggio poiché presuppone una forte motivazione all'insegnamento della pratica sportiva ed un piacere profondo nel dedicarsi ai bambini e ai giovani.

In genere l'allenatore è stato a suo tempo un atleta e conosce la disciplina sportiva in prima persona: sa quali abilità occorre potenziare, comprende le difficoltà e la fatica che quello sport presuppone, possiede, nella sua mente, un progetto complessivo e graduale di insegnamento. La sua storia di atleta è costellata di pietre miliari costituite dalle gioie e dai traguardi raggiunti ma anche dalle sofferenze e dalle difficoltà sperimentate. Per questo motivo ha in genere una buona capacità di comprensione rispetto ai ragazzi che allena e pone attenzione ad evitare determinati errori che egli può aver subito in prima persona ad opera dei suoi allenatori.

L'aspetto di gratificazione più importante legato alla professione di educatore sportivo dell'età evolutiva è sicuramente quello del raggiungimento, da parte dei giovani atleti, di livelli tecnici sempre più buoni e di risultati positivi sul piano agonistico.

Per molti allenatori e allenatrici è fonte di soddisfazione anche la consapevolezza di svolgere un importante ruolo educativo nella vita dei giovani, di poter facilitare la crescita psicologica e relazionale dei propri atleti, lavorando all'interno di una dimensione ludica e creando continuamente un ambiente giocoso, dinamico, creativo.

Infine, un ulteriore aspetto positivo della professione è che, per essere un buon allenatore, è necessario aggiornarsi, svolgere corsi di formazione

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specifici, lavorare e confrontarsi con altri colleghi, adattarsi e mediare rispetto alle esigenze esterne e della società di appartenenza: tutto questo, per quanto faticoso e complesso, ha il vantaggio di spingere l'educatore sportivo a migliorarsi continuamente, a mettersi costantemente "in gioco".

Molti allenatori, pur essendo consapevoli del ruolo che svolgono rispetto ai loro atleti, sentono che la dimensione educativa e relazionale è fortemente penalizzata rispetto al ruolo tecnico che sono chiamati a svolgere e sul quale gravano spesso le pressioni delle società sportive. Alcune società infatti richiedono ai loro collaboratori un lavoro serrato sul piano tecnico, finalizzato alla qualità delle prestazioni agonistiche ed ai risultati da raggiungere nelle gare o nei campionati. Spesso gli allenatori più motivati riescono a gestire le pressioni della dirigenza in modo tale da lasciare spazio anche alla relazione interpersonale rispetto alla quale però, a volte si sentono impreparati. I ragazzi infatti consegnano all'educatore sportivo i problemi relativi a vari ambiti della loro vita confidando le difficoltà che vivono in famiglia, a scuola, con gli amici o con il partner. E' per questo motivo che sempre più allenatori sportivi richiedono la consulenza psicologica ai servizi per l'infanzia e l'adolescenza, dal momento che si trovano coinvolti in problematiche giovanili rispetto alle quali hanno bisogno di capire cosa è bene fare per aiutare un ragazzo in difficoltà. Peraltro occorre precisare che, a prescindere dalla buona volontà dell'educatore sportivo, quanto più è alto il livello tecnico e agonistico perseguito, tanto più si restringe lo spazio educativo e relazionale a disposizione dell'educatore. Sono le piccole società sportive, a dimensione locale e magari con una forte tradizione di presenza sul territorio, quelle che offrono il rapporto migliore tra istanze tecniche ed educative poiché sono in grado di coniugare risultati sportivi discreti con un serio impegno etico e sociale.

La professione di educatore sportivo non comporta soltanto aspetti gratificanti: le aree di fatica e frustrazione si possono collocare a vari livelli. Senza dubbio la prima è quella della mancanza di risultati sportivi positivi e quindi la gestione dei fallimenti e delle emozioni negative personali, degli atleti, delle loro famiglie e della società sportiva. E' facile in questi casi diventare il capro espiatorio rispetto ad un periodo negativo e sentirsi scaricare da più parti la responsabilità totale dei risultati mancati. Questo è ancor più vero in un contesto sociale che enfatizza la figura del campione e la vittoria come se fossero le uniche dimensioni accettabili dello sport. A questo riguardo, un'altra difficoltà dell'essere allenatori è proprio la gestione delle relazioni con i genitori degli atleti che possono arrivare ad interferire seriamente con il lavoro svolto qualora ritengano che al loro figlio non venga dato il giusto ruolo o riconoscimento. A volte ci sono padri o madri che hanno dimenticato il valore educativo dello sport e perseguono il risultato a tutti i costi come mezzo per un ambito riscatto sociale: in questo modo creano nei figli l'angoscia per un eventuale fallimento e la paura di deludere gli altri, sentimenti questi che spesso preludono all'abbandono dell'attività sportiva.

Altre volte la difficoltà di un allenatore si colloca a livello di gestione del gruppo squadra che può avere al suo interno dinamiche relazionali conflittuali o fenomeni di leadership negativa ad opera di uno o più atleti.

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Può anche accadere di trovare squadre o atleti impazienti, che si annoiano facilmente poiché non hanno capacità di attendere e vorrebbero emergere subito, senza però possedere la perseveranza per affrontare un percorso di allenamento prolungato nel tempo che li porterebbe ad avere abilità, gesti e movimenti adeguati e prestazioni corrette.

Infine il disagio per l'allenatore può essere causato dalla società a cui appartiene. Ci sono società sportive che vogliono prima di tutto il risultato agonistico poiché questo permetterà un aumento del numero degli atleti che si iscriveranno e garantirà introiti più cospicui. Ci sono altresì società povere, che non forniscono ai loro allenatori mezzi, strutture o attrezzature idonee alla preparazione degli atleti, tantomeno occasioni di aggiornamento e formazione.

A proposito dell'iter formativo, è molto importante che l'allenatore sia preparato non solo sul piano tecnico ma anche su quello didattico e pedagogico. Le competenze didattiche servono per strutturare le lezioni e gli allenamenti in modo sempre diverso, coinvolgente e stimolante. Le competenze pedagogiche possono dare all'educatore sportivo la capacità di ascoltare e comprendere gli atleti, di incoraggiarli e sostenerli nel loro percorso di crescita. Tutte le ricerche svolte hanno dimostrato che i ragazzi danno molta più importanza al rapporto umano piuttosto che al fattore tecnico e desiderano che l'allenatore instauri con loro una relazione positiva prima di tutto in quanto persone e poi come atleti. (Raffuzzi, Inostroza, Casadei, 2003).

II processo di valorizzazione dell'educatore sportivo deve diventare un obiettivo prioritario delle società sportive e degli enti di formazione e dovrebbe contemplare la creazione di un albo professionale specifico che tuteli e regolamenti questa professione.

2.2. Non solo allenatore

Quando un adulto incontra i bambini o gli adolescenti in ambito extrascolastico, ricreativo, sportivo, parrocchiale o culturale, deve avere la consapevolezza di essere un educatore e quindi un tramite, un anello di congiunzione tra i giovani e la società.

Questa persona ha pertanto il compito di accompagnare la crescita i ragazzi, di promuovere il loro inserimento nella comunità sociale, di facilitare l'assunzione di un ruolo di cittadinanza attiva.

Tutto questo diventa possibile se l'educatore sa costruire una dimensione di incontro autentico con i giovani, di dialogo basato innanzi tutto sulla capacità di accettarli, ascoltarli, di comprenderli, di infondere loro coraggio.

Per un adolescente avere vicino un adulto che sa valorizzarlo, significa poter imparare a fidarsi di se stesso e delle proprie capacità in modo da facilitare un livello di autostima sufficiente ad affrontare le situazioni della vita. Significa inoltre avere a disposizione una persona a cui fare riferimento per riflettere, ragionare, acquisire capacità di analisi delle situazioni e senso

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critico.

L'educatore ha l'opportunità di far emergere le potenzialità di ogni singolo ragazzo, di facilitare una maggior conoscenza di sé e la realizzazione del suo progetto di vita.

Egli ha una duplice responsabilità morale: di fronte ai giovani con cui si relaziona e di fronte alla collettività di cui rappresenta la parte adulta. I compiti educativi in molte circostanze vengono perseguiti attraverso un modo di essere spontaneo dell'educatore che, per fortuna, spesso si rivela efficace. E' importante però, laddove il contesto lo consenta, promuovere azioni educative pensate e scelte intenzionalmente per far sì che abbiano una ricaduta positiva prevedibile. Un comportamento spontaneo o impulsivo può avere un effetto casualmente positivo ma può anche assumere una valenza diseducativa e dare conseguenze negative: per esempio un'azione correttiva, che però venga interpretata dall'adolescente come un rifiuto della sua persona, può compromettere la relazione ed incidere negativamente sull'autostima.

La pratica sportiva può essere una esperienza umana di grande valore: perché ciò si realizzi è necessario che l'atleta sia il centro, il focus, il cuore di tutto il progetto educativo e l'educatore sia persona preparata, predisposta alle relazioni umane, capace di essere congruente e di comunicare accettazione ed empatia. Questo richiamo alla teoria rogersiana è fortemente intenzionale: l'intero percorso psicopedagogico che viene qui proposto sposa i principi fondamentali del pensiero di Rogers nell'intento di trasporli al mondo sportivo dell'età evolutiva, per dimostrare come essi siano altrettanto validi nel facilitare e promuovere la crescita globale della persona e l'espressione delle sue potenzialità umane ed atletiche.

Per questo motivo è debitamente definito "Approccio Centrato sull'Atleta".

Numerosi studi hanno evidenziato come la qualità dell'esperienza sportiva dei giovani atleti sia fortemente influenzata dalla personalità dell'allenatore e soprattutto dalle sue capacità relazionali prima ancora che da quelle tecniche. Altre ricerche hanno dimostrato come il disaccordo con il proprio allenatore sia una causa rilevante di abbandono della pratica sportiva. La ricerca svolta nelle Scuole Medie Superiori di Forlì nell'anno scolastico 2002/2003, ha evidenziato come tra i giovani di età compresa tra i quattordici ed i diciannove anni, un abbandono su cinque avvenga per motivi relazionali.

L'educatore sportivo è il perno su cui ruota l'esperienza del fare uno sport. Egli può essere eletto a modello di identificazione da molti degli atleti di cui si occupa poiché possiede caratteristiche idonee a rispondere ad uno specifico bisogno degli adolescenti: è un adulto che appartiene al contesto extra familiare, che vive con loro per numerose ore alla settimana, che ha qualcosa da insegnare di importante e piacevole, che ripone in loro aspettative positive, che discute le strategie, che rielabora gli insuccessi e si esalta insieme a loro per i traguardi raggiunti. E' un personaggio carismatico nella vita del giovane atleta ed è facile che egli tenda ad idealizzarlo poiché vede in lui una persona che ha già compiuto un percorso di vita che lo ha

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portato ad essere forte, sicuro di sé, stabile emotivamente, capace di affrontare i problemi quotidiani e le scelte che riguardano il futuro. Il processo di idealizzazione comporta il desiderio di

essere come il proprio allenatore o la propria allenatrice, il sogno di avere successo anche per farli felici, la speranza di ricevere i loro apprezzamenti e la loro stima, la voglia di non deluderli mai.

Esistono ricerche che hanno cercato di capire come i ragazzi descrivano l'allenatore ideale: il profilo che emerge è quello di una persona che si arrabbia meno di quanto fa l'allenatore reale, che non urla durante gli allenamenti e le gare, che incoraggia di più l'atleta che ha sbagliato, che sa dare spazio anche al divertimento e al piacere di stare insieme. ;

L'adolescente ha un'identità precaria ed il livello di autostima e valore personale sono molto legati alla considerazione positiva che gli offrono gli adulti di riferimento. Ciò che pensa un allenatore di un ragazzo può essere fondamentale per l'atleta stesso che può imparare ad avere fiducia nelle proprie potenzialità e costruirsi un'immagine di sé basata sull'autoefficacia. Se il mister o l'allenatore prestano attenzione ai bisogni di un atleta, egli sentirà di essere importante, se essi non lo ridicolizzano, né lo scherniscono di fronte ad un errore o ad una debolezza ma lo sostengono e lo incoraggiano, egli sentirà di poter andare avanti.

Se l'educatore sportivo saprà dare a ciascun atleta degli obiettivi concreti e raggiungibili, allora i più giovani potranno evitare di costruirsi false aspettative; se saprà riconoscere e valorizzare i traguardi raggiunti, anche i più semplici, potrà evitare che i ragazzi vivano nel desiderio illusorio di diventare a tutti i costi grandi campioni e subiscano poi quell'amara delusione che spesso porta all'abbandono della pratica sportiva.

2.3. L'Approccio Centrato sull'Atleta

Lo sport possiede una valenza educativa intrinseca che può concretizzarsi attraverso il fortunato incontro con un allenatore preparato sul piano tecnico e relazionale, con un team di grande spessore etico ed umano e con una società che si ponga l'obiettivo di facilitare la crescita globale dei giovani atleti. Lo sport infatti realizza le sue potenzialità educative e riesce ad essere un fattore protettivo rispetto al disagio giovanile, alla devianza ed alla tossicodipendenza solo grazie all'azione di persone concrete che si spendono in questa direzione. Non è vero che lo sport non fa male: una pratica sportiva esasperata può provocare danni fisici, psicologici e morali. Può condurre ad un profondo individualismo, può stimolare l'aggressività e la violenza, può facilitare comportamenti illeciti ed illegali. Per questo motivo è necessario difendere e sviluppare una concezione dello sport in età evolutiva che promuova lo sviluppo del potenziale umano.

L'Approccio Centrato sull'Atleta pone la persona al centro dell'esperienza sportiva e la mette al primo posto nella scala dei valori. Il risultato, la vittoria, la ricerca dei campioni, i soldi, il prestigio della società

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vengono dopo e non possono essere in contrasto con la tutela e la crescita psicofisica degli atleti. Lo sport è al servizio della persona e non viceversa. Essa deve trovare risposta ai suoi bisogni: il bisogno ludico e ricreativo in base al quale gli individui desiderano divertirsi mentre fanno sport, il bisogno sociale di aggregazione, per il quale vogliono stare in mezzo agli altri e fare amicizia, il bisogno di competere che si esprime nel desiderio di apprendere sempre meglio le abilità specifiche della disciplina prescelta, il bisogno di salute che trova espressione nel proposito di mantenere una buona forma fisica. (Raffuzzi, Inostroza, Casadei, 2003)

Ogni allenatore deve impiegare le proprie energie per sviluppare le qualità fisiche, psicologiche e relazionali dei bambini e degli adolescenti che allena e deve astenersi da tutto ciò che possa degradarle. Vincere è importante però non quanto lo sviluppo degli atleti, il loro benessere, la loro salute. Questi principi devono guidare il comportamento dei tecnici e le scelte dei dirigenti. Se un allenatore si trova nel dubbio rispetto ad una decisione da prendere o alla modalità con la quale affrontare una specifica situazione, deve porsi questa domanda: "qual è il bene dell'atleta?". In questo modo farà sì che qualsiasi scelta sia guidata da un amore profondo per i ragazzi che praticano sport.

L'allenatore che svolge la sua professione consapevole della forte valenza etica ed educativa che essa racchiude, non mette mai a repentaglio la salute fisica dei ragazzi che allena, non forza i ritmi di lavoro, non fa giocare gli infortunati, non emargina, né abbandona alcuno, non persegue mete al di sopra delle possibilità degli atleti.

Facilita lo scambio di relazioni positive: non alimenta reazioni violente né contro gli avversar!, né contro i giudici di gara e non favorisce scelte o azioni illecite ma anzi le critica apertamente. Non offende i ragazzi, né li deride o li umilia ma al contrario li sprona, li incoraggia, li ascolta. Non si occupa soltanto dei migliori ma fa sentire ciascun giovane importante e ricco di potenzialità. Non cerca il prestigio ed il successo personale, né svolge la sua professione in modo individualistico ma si relaziona in senso collaborativo con i colleghi, i dirigenti, i genitori degli atleti. Non si associa ad una politica sportiva finalizzata al solo interesse economico.

Vive la sua professione più come vocazione che come lavoro e rispetta profondamente tutti i ragazzi che incontra e che accompagna lungo il percorso formativo.

La pratica sportiva agonistica può coniugare competizione ed educazione soltanto se gli individui coinvolti scelgono liberamente e responsabilmente di sposare una filosofia dello sport con un forte spessore etico. Per questo motivo è tuttora profondamente valida l'opinione di Martens che ritiene indispensabile che ogni allenatore, all'inizio della sua professione, si ponga una serie di domande e faccia chiarezza sugli obiettivi che persegue. Anche ai dirigenti delle società sportive andrebbero posti una serie di quesiti che possano evidenziare se gli obiettivi ricercati sono anche educativi o meramente economici. E ancor più sarebbe importante che i genitori stessi avessero occasione di riflettere sul perché promuovono l'adesione ad uno sport, che cosa desiderano per i loro figli, che cosa si aspettano dal futuro.

Chi ricopre un ruolo educativo, chi crede nel proprio lavoro, chi desidera

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spendersi appieno per facilitare la crescita delle persone, deve trovare il coraggio di proporre ideali e principi etici chiari a tutela del valore dell'esistenza umana e della convivenza civile. Gli adulti della comunità educante hanno il compito di coltivare nei ragazzi la propensione alla relazione, all'amicizia, al bene comune; i genitori devono pretendere che gli educatori insegnino ai loro figli a vivere in una dimensione sociale; gli insegnanti, gli animatori e gli allenatori hanno il dovere di rivendicare la gestione dei loro compiti educativi; i giovani infine, hanno il diritto di stare insieme e di chiedere che siano fatte scelte per la tutela del loro benessere fisico, psichico e relazionale.

Tutto questo coinvolge fortemente l'ambito sportivo poiché un allenatore può insegnare il rispetto dell'avversario o la prevaricazione, un genitore può facilitare l'accettazione di norme comportamentali o la trasgressione, un atleta può comportarsi onestamente o barare. L'uno o l'altro modo di porsi non saranno indifferenti e funzioneranno da "imprinting" per le modalità future di comportamento all'interno dell'esperienza sportiva e della vita.

L'agonismo spinge l'atleta a dare il massimo di sé, ad estrinsecare tutte le sue potenzialità, a lavorare seriamente e costantemente. L'agonismo esasperato invece mette al primo posto il risultato ed al secondo la persona, da maggior valore alla vittoria piuttosto che all'atleta, fa sì che il valore personale sia proporzionale al traguardo raggiunto. In questo modo "se non vinci non vali nulla" e tutto ciò che può aiutarti a vincere diventa lecito, anche usare sostanze dopanti o prevaricare l'altro. La vittoria e la sconfitta sono le unità di misura che descrivono il valore di una prestazione e di un atleta.

I principi filosofici che guidano le azioni di un allenatore sono la cornice nella quale prenderà forma e colore l'esperienza sportiva dei giovani atleti. Ogni educatore sportivo ha una sua filosofia a prescindere dal fatto che ne sia consapevole e che abbia chiaro quali sono i valori che la animano. Martens, in modo semplice ma efficace, divide gli approcci filosofici in due categorie: quello centrato sulla vittoria e quello centrato sull'atleta. Nel primo il coach ricerca il successo, vuole il risultato ad ogni costo ed antepone questa meta all'interesse per lo sviluppo degli allievi. Deve dimostrare a se stesso ed agli altri di essere un ottimo allenatore e persegue un progetto autocentrato, nel quale non si domanda cosa può fare per i suoi ragazzi ma quanto loro possano dargli in termini atletici. Questo tipo di allenatore vive gli appuntamenti agonistici come delle sfide personali i cui esiti alimentano o mettono in crisi il livello della sua autostima. Si infiamma di gioia o di rabbia a seconda del risultato: non è mai diventato un educatore poiché non ha mai smesso di essere atleta e continua a competere tramite le gare dei suoi allievi.

2.4. Essere life coach

L'Approccio Centrato sull'Atleta si pone come obiettivo prioritario lo sviluppo dei bambini e degli adolescenti che praticano uno sport, la realizzazione delle loro potenzialità, l'acquisizione di una capacità atletica unita alla forza psichica, all'equilibrio emotivo e relazionale.

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L'allenatore che possiede questa filosofia rinuncia all'avido piacere della vittoria e ricerca una gratificazione più profonda e matura, anche se differita nel tempo: promuovere la crescita dei suoi giovani atleti costruendo il loro benessere fisico, psicologico e sociale.

L'educatore sportivo può essere una persona molto importante per gli adolescenti, un life coach o allenatore di vita, una figura di riferimento in grado di rispondere ai bisogni cognitivi, affettivi ed emotivi: una figura rispetto alla quale l'atleta sviluppa un "attaccamento".

L'attaccamento, secondo la teoria di Bolwby, si realizza a partire da uno stato di bisogno affettivo ed emotivo che un bambino o un ragazzo sperimenta e rispetto al quale cerca il contatto, il calore, il rifugio, la sicurezza, l'accoglienza da parte dell'adulto che svolge il ruolo di figura di riferimento. (Bolwby 1989). Qualora questo adulto sappia rispondere in modo efficace a questa richiesta, appagando le istanze di contenimento affettivo, funzionerà come "base sicura" cioè come spazio/luogo nel quale il bambino o il ragazzo si rilassa, si rasserena, si rifugia, si quieta, e ricomincia a guardarsi intorno con sguardo fiducioso, fino a staccarsi, a riprendere la via, ad esplorare nuovamente il mondo circostante e ad impegnarsi nei propri progetti. L'allenatore può essere scelto dagli atleti come figura di attaccamento ed essere utilizzato come base sicura: con la metafora del mare, egli è il porto tranquillo a cui approdare in caso di pericolo o stanchezza e da cui ripartire, riprendere il largo per compiere nuove esplorazioni.

Base sicura è l'adulto trasparente, che non usa maschere, che sa accogliere e accettare l'altro senza condizioni, che non giudica e non emette sentenze ma comprende appieno chi gli sta vicino senza confondersi con l'interlocutore, né perdersi nel suo stato d'animo. (Rogers 1983)

La persona che ignora o respinge stabilmente le richieste di vicinanza facilita un attaccamento di tipo "evitante", nel quale il bambino, o l'adolescente, impara a cavarsela da solo, a non chiedere aiuto poiché sa che riceverà un rifiuto e sa che l'altro non è disponibile a prendersi cura di lui. Questo bambino crescerà con l'idea di non essere amabile e con un forte senso di sfiducia rispetto agli altri.

Se invece l'adulto è imprevedibile, nel senso che a volte è disponibile a rispondere al bisogno di vicinanza e conforto e altre volte no ed ha atteggiamenti contraddittori ed incoerenti, facilita uno stile di attaccamento "resistente", nel quale il bambino e l'adolescente sono portati a non staccarsi dall'altro per paura di perderlo, ad avere una forte dipendenza da lui e a protestare e richiamare l'attenzione anche nel momento in cui l'altro è disponibile. Questo bambino crescerà con l'idea di essere amabile solo a condizione che sia sempre esattamente come l'altro vuole.

L'adulto che è disponibile a rispondere in modo positivo alla richiesta di vicinanza, che riconosce l'altro come soggetto degno di amore e di stima, che sa leggere i segnali di disagio e sa offrire una relazione di aiuto, facilita un attaccamento "sicuro" nel bambino e nell'adolescente: essi sapranno aspettare con fiducia la risposta dell'adulto, impareranno ad affrontare efficacemente i momenti di crisi, avranno un'idea di loro stessi come persone positive e degne di amore.

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Nella fase dell'adolescenza i ragazzi sperimentano una forte spinta verso l'esplorazione e non hanno più bisogno dello stesso accudimento da parte dei genitori come quando erano piccoli. In questo periodo la funzione fondamentale dell'attaccamento sembra essere quella di facilitare la regolazione emotiva, cioè la capacità far fronte in modo adeguato a tutte le emozioni ed i sentimenti che si sperimentano di fronte ai vari compiti di sviluppo. In situazione di forte stress, conflitto o sofferenza, i ragazzi tenderanno ancora a rivolgersi ai genitori per ricevere aiuto, vicinanza e protezione. Ma la forte spinta al superamento della dipendenza dalla famiglia, farà sì che in condizioni di crisi lieve o modesta essi facciano riferimento ai coetanei e agli adulti dei contesti extrafamiliari.

Gli educatori devono sapere che quello dell'attaccamento resta un bisogno fondamentale anche in adolescenza per questi motivi:

• i ragazzi ricercano ancora vicinanza e sostegno; • continuano ad adottare il comportamento di base sicura, esplorando più

liberamente il mondo circostante se beneficiano del sostegno affettivo dell'adulto;

• ricercano e ritornano alla base sicura in condizioni di minaccia o di sofferenza. Life coach è l'allenatore che, nel momento in cui i suoi atleti lo eleggono

a figura di attaccamento, sa funzionare come base sicura.

E' anche colui che offre agli atleti la possibilità di riflettere sugli eventi e di attribuire ad essi valore e significati. La capacità di pensare, di comprendere i propri stati d'animo, di rappresentarsi mentalmente i propri bisogni e le risposte che ad essi vengono date, è una competenza estremamente importante che Fonagy chiama "capacità metacognitiva" e che risulta essere un elemento fondamentale per la salute mentale. (Fonagy 1997)

Questa competenza nel bambino, e poi nell'adolescente, si sviluppa proprio attraverso la relazione significativa con un adulto in grado di comprendere i suoi bisogni e stati d'animo, le sue intenzioni, i suoi desideri e di gestirli o con una risposta immediata o con una risposta differita ma motivata. Se per la figura di riferimento i pensieri e le necessità di un adolescente sono importanti, egli stesso sarà portato a considerarli e a dare ad essi diritto di cittadinanza. Se poi anche le sue emozioni sono accolte, comprese e messe in parole da un genitore, da un insegnante o dall'allenatore, questo vuole dire che hanno un senso ed un valore.

Il processo di attribuzione del significato agli eventi di vita e di regolazione emotiva, se svolti correttamente grazie all'aiuto di persone mature ed equilibrate, sono un momento molto importante del percorso educativo poiché facilitano il rapporto corretto con la realtà ed evitano proiezioni e distorsioni che possono andare a scapito del positivo rapporto con se stessi e col mondo esterno.

Life coach è inoltre l'allenatore che insegna al proprio atleta l'importanza dell'atteggiamento con cui egli si relaziona a se stesso, agli altri, al compito atletico ed ai compiti che la vita gli pone innanzi. Un atteggiamento positivo permette alla persona di sentirsi protagonista della propria esistenza e di non subire gli eventi esterni come se fossero inevitabili e predeterminati. Permette anche di credere nel proprio valore, nella forza delle proprie azioni, 16

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nella capacità di affrontare stress e situazioni difficili. Permette infine di essere se stessi in modo sempre più completo, realizzando le potenzialità intrinseche, ampliando costantemente il bagaglio delle proprie competenze, abbandonando schemi comportamentali rigidi e difensivi. Permette in sintesi l'empowerment. Questo termine inglese connota sia un processo che un prodotto: è il risultato a cui si approda attraverso una serie di esperienze di apprendimento qualitativo che spingono l'individuo ad uscire da uno stato di difficoltà, a riconoscere ed integrare i diversi aspetti della propria personalità e scegliere le vie della autorealizzazione.

Il Life coach aiuta il proprio atleta a sentirsi "empowered", cioè capace di padroneggiare le situazioni, poiché si percepisce autoefficace, si sente in grado di scegliere comportamenti e strategie adeguati alle diverse situazioni e sente il desiderio di gestire i fattori che influenzano la sua prestazione. Egli può così gareggiare non per dimostrare a se stesso e agli altri quanto vale, né per essere qualcuno che sente di dover essere ma per rendersi più consapevole di chi è veramente, di quali sono i propri obiettivi e di qual è il proprio potere personale.

3. Contenuti e strategie dell'Approccio

Centrato sull'Atleta

3.1. Due competenze indispensabili per L’A.C.A.: relazionarsi e comunicare efficacemente

Nel lavoro con i bambini in età scolare e con gli adolescenti è facile costatare come i processi comunicativi e relazionali abbiano già prodotto caratteristiche di personalità evidenti riferibili al livello di autostima, di forza, di equilibrio interiore. Sappiamo però che essi non hanno ultimato il loro processo di formazione e ciò li rende ancora permeabili ai messaggi di accettazione, di stima e di amore e vulnerabili a quelli di sfiducia e disconferma. Per questo motivo l'educatore sportivo che allena ragazzi in età evolutiva ha il diritto ed il dovere di usufruire di percorsi formativi che approfondiscano la psicologia dell'infanzia e dell'adolescenza ed aumentino le sue competenze relazionali.

I bambini ed i ragazzi hanno bisogno di persone adulte che siano figure di attaccamento che consentano loro di prendere consapevolezza delle proprie caratteristiche e capacità, di individuarsi e connotarsi come persone uniche ed irripetibili, di costruirsi un concetto di sé positivo e duraturo, di interagire in modo efficace con i coetanei.

II successo o l'insuccesso vanno rielaborati insieme ai ragazzi e va loro spiegato il significato di un evento in modo tale che non diano

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interpretazioni errate a quanto succede: una vittoria non deve incrementare l'aspettativa narcisistica di essere sempre vincenti, così come una sconfitta non deve generare un senso di fallimento personale. Occorre saper riconoscere ed apprezzare un buon risultato anche se l'atleta non sale sul podio ma ha dato il meglio di sé e, parimenti, è necessario stimolare un maggior impegno di fronte ad una prestazione di livello inferiore rispetto a ciò che l'atleta può dare. L'allenatore che riesce a svolgere questo lavoro di analisi e discussione non perde il suo tempo anzi, aiuta i ragazzi a comprendere gli eventi e a rielaborare le emozioni sperimentate e fa sì che esse non interferiscano sulla prestazione tecnica e possano essere trasformate in nuova energia psichica.

L'esperienza sportiva deve poter iniziare bene soprattutto sul piano relazionale e comunicativo e, a prescindere dai risultati oggettivi, è importante che l'allenatore valorizzi l'impegno e l'energia profusi al fine di favorire la motivazione, l'apprendimento e l'entusiasmo agonistico. Un bambino o un adolescente che sviluppa un precoce senso di fallimento durante l'esperienza sportiva, può strutturare un basso livello di autostima personale ed un precario senso di autoefficacia riferibile a tutti compiti di sviluppo che deve affrontare. In questo processo la persona dell'allenatore ed il suo stile comunicativo hanno una grande importanza. Chiedendo a numerosi atleti che cosa li feriva di più rispetto a ciò che l'allenatore poteva fare o dire durante gli allenamenti, sono emerse molte frasi rimaste nella memoria dei ragazzi, su alcune delle quali vale la pena di riflettere: "non capisci niente", "sei un cretino", "è inutile che ti impegni, non farai mai strada", "con te io perdo il mio tempo", "sei una mozzarella", "mi hai deluso", "sei un peso per la squadra". (Raffuzzi, Inostroza, Casadei 2003) Anche se dette con ironia e per scherzo, queste sono comunicazioni che feriscono la persona e che possono compromettere la relazione interpersonale. Nella frase "tu non vali niente" non c'è solo il biasimo per un'azione sbagliata ma anche un messaggio fortemente svalutativo nei confronti della persona. Questo è un errore che nessun educatore, neanche quello sportivo, può permettersi. L'adulto che svolge un ruolo educativo deve possedere, o acquisire, un'adeguata sensibilità comunicativa verso i bambini e gli adolescenti di cui si occupa e deve essere consapevole di come il suo modo di porsi, di esprimersi, di dialogare influenza in modo positivo o negativo la qualità delle relazioni interpersonali e dei processi educativi. Comunicare in modo efficace significa costruire rapporti solidi, autentici, basati sul rispetto reciproco e sulla capacità di riconoscimento del valore della persona. Significa pensare prima di parlare, esprimere in maniera consapevole ed organizzata i propri sentimenti e pensieri ipotizzando in anticipo l'impatto emotivo e la reazione dell'altro rispetto ad ogni nostro messaggio. Comunicare in modo spontaneistico ed impulsivo significa dare sfogo allo stato emotivo di quel momento e liberarsi di esso attraverso la mera esternazione dei sentimenti: l'obiettivo in questo caso è egoistico e non certo educativo. Il ruolo educativo invece impone di pensare prima all'altro, di fare attenzione a non ferirlo, di provare a comprenderlo, di facilitare la sua apertura e capacità espressiva. (Gordon 1994)

Impone una serie di condizioni, o meglio una triade di condizioni, che

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sono di per se stesse in grado di agevolare il percorso di crescita. Sappiamo infatti che trasparenza, accettazione ed empatia sono in grado di mobilitare e riattivare le risorse vitali sia in ambito psicoterapico che scolastico: pensiamo che abbiano altresì un effetto positivo anche nell'ambito sportivo dell'età evolutiva.

L'allenatore che possiede doti umane e relazionali, spontanee o apprese, che somigliano alle tre condizioni di Rogers, facilita lo sviluppo dei giovani atleti e li rende più capaci di attualizzare le loro potenzialità umane ed atletiche.

Per esprimere un giudizio tecnico, un parere o una valutazione sul piano agonistico, l'educatore sportivo deve imparare a comunicare efficacemente, scegliendo le parole giuste in modo tale da ottenere un risultato positivo in termini educativi e non una banale squalifica dell'altro. Pertanto è sbagliato e dannoso dire "non vali niente" poiché chiude qualsiasi possibilità di ulteriore dialogo. E non è solo una questione di forma. Proviamo a pensare al tipo di risonanza che hanno, dentro di noi, frasi come queste: "hai sbagliato tutto!" oppure "questo esercizio per ora non ti riesce, riproveremo!"; "quando vai in tilt non ti sopporto" oppure "cerca di farmi capire cosa ti fa agitare"; "sei una vera delusione" oppure "potresti dirmi perché eri così poco concentrato?".

Le prime frasi comunicano disprezzo e disistima mentre la frase alternativa comunica senso di accettazione e predispone al dialogo. Il linguaggio dell'accettazione può non essere un requisito di partenza ed un educatore sportivo può doverlo imparare con un training specifico. E' comunque importante avere la consapevolezza che non si può barare e cioè non si può usare il linguaggio accettante se non si è in grado di provare una reale accettazione. Gli adolescenti sono particolarmente capaci di identificare gli atteggiamenti falsi ed incongruenti. A questo proposito conviene essere trasparenti ed esprimere i sentimenti che realmente si stanno provando piuttosto che ostentare falsi affetti. L'autenticità e la trasparenza sono qualità fondamentali che predispongono l'interlocutore ad assumere un atteggiamento sincero ed onesto. Per esempio dire: "in questo momento sono molto arrabbiato per come hai giocato ed ho bisogno di un po' di tempo per riflettere", oppure: "mi sento molto stanco perché devo ripetere sempre le stesse cose e mi pare di non essere ascoltato", comporta fare una operazione di trasparenza che esprime i sentimenti provati senza però offendere o mettere sotto accusa l'interlocutore. Quest'ultimo, in questo caso, deve avere diritto di replica per poter spigare al proprio allenatore perché si comporta così e come si sente: l'educatore a questo punto si sforzerà di entrare in ascolto empatico del proprio atleta.

Gli allenatori sono in genere molto più portati all'azione che non alla riflessione, al silenzio ed all'ascolto. Per questo motivo l'approccio che viene proposto può sembrare innaturale ma l'ambito sportivo è prima di tutto un ambito educativo. Godere della vicinanza di un adulto congruente, accettante ed empatico è una grossa fortuna per un giovane atleta poiché può fare l'esperienza di essere se stesso in tutta libertà, può sentirsi apprezzato per ciò che è, può percepirsi come persona positiva e degna di amore, può imparare ad esprimere emozioni e sentimenti, può condividere gioie e paure

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e non sentirsi solo, può assecondare la sua tendenza attualizzante.

3.2. Il piano di lavoro secondo L’A.C.A.

Ogni allenatore riceve un mandato specifico all'inizio del suo incarico che esprime le aspettative della società sportiva. Si avvicina a questo mandato con un bagaglio di obiettivi personali relativi all'impegno di lavoro. Incontra ben presto tutta una serie di speranze ed aspettative che gli atleti (e le loro famiglie) gli consegnano relativi all'esperienza sportiva. La risultante di tutte queste istanze dovrà essere metabolizzata e mentalizzata fino a diventare "un piano di lavoro che l'allenatore dovrà realizzare nel percorso assegnategli.

L'A.C.A. pone sicuramente molta attenzione alle competenze educative, comunicative e relazionali degli allenatori ma esige altrettanta cura e preparazione anche per gli aspetti tecnici: l'educatore sportivo deve padroneggiare la disciplina di cui si occupa e deve saperla insegnare. L'insegnamento, cioè la capacità di trasferire delle competenze, è una dote complessa che presuppone un ampio bagaglio di conoscenze psicopedagogiche. Attraverso queste competenze e conoscenze occorre declinare un piano di lavoro.

A questo proposito, per prima cosa, occorre mettere a fuoco il compito.

Nell'ambito sportivo i compiti possono essere infiniti e molto diversi tra loro e possono variare dal lavoro di avviamento di un gruppo di bambini ad una disciplina sportiva, ad un buon piazzamento di una squadra di adolescenti inserita in un campionato, al passaggio di un atleta ad una categoria agonistica superiore.

Il compito è più facile da portare a termine se alla base c'è una forte motivazione dell'educatore sportivo, un suo piacere nel trascorrere tempo con gli atleti, una vocazione per l'insegnamento di quello specifico sport, un desiderio profondo di attualizzare le potenzialità di ogni singolo allievo. Insegnare una disciplina sportiva ed allenare una squadra sono compiti che necessitano di un grande impegno umano e di una grande serietà, qualsiasi sia il livello agonistico a cui si fa riferimento.

L'allenatore, identificato il compito, dovrà predisporre un vero e proprio progetto, completo di tutte le sue fasi: l'analisi della situazione di partenza, la definizione degli obiettivi, la scelta dei contenuti e della metodologia, l'individuazione dei mezzi e degli strumenti necessari, la valutazione del lavoro svolto. Vediamole brevemente.

La prima fase di un progetto è l'analisi della situazione che, in questo caso, si riferisce ad un tempo di osservazione di ogni singolo atleta che porti ad una conoscenza approfondita di tutti, del cosa sanno e non sanno fare, delle loro potenzialità e limiti, della loro motivazione, capacità di attenzione, facilità di apprendimento e di concentrazione.

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Al termine di questa fase è necessario definire gli obiettivi in modo realistico e concreto. Con i ragazzi che iniziano un'attività sportiva, gli obiettivi sono legati all'insegnamento della disciplina, delle sue regole, dei suoi movimenti, delle abilità necessarie. Una volta acquisite le competenze di base si possono inserire gradualmente alcuni obiettivi di tipo agonistico. E' necessario valutare attentamente le difficoltà dei traguardi a cui si mira poiché darsi delle mete irraggiungibili, significa andare incontro ad una serie di frustrazioni e fallimenti: per contro lavorare su obiettivi troppo facili può comportare un sostanziale disimpegno da parte degli atleti. Qualsiasi obiettivo è dignitoso se parte da una considerazione realistica delle qualità presenti e spinge il singolo o la squadra ad utilizzare tutto il suo potenziale atletico e tutte le sue abilità. In questo senso la salvezza dalla retrocessione o la vittoria del campionato non hanno un valore etico diverso anzi, una squadra può arrivare a gioire profondamente di un risultato "umile" come la salvezza, laddove questa sia stata l'espressione di grande impegno, grinta, sostegno reciproco ed affiatamento.

Gli obiettivi possono essere divisi in obiettivi di risultato ed obiettivi di prestazione. I primi si riferiscono ai traguardi agonistici che si intendono raggiungere ed i secondi ai progressi fisici, mentali e tecnici degli atleti. Nei settori giovanili delle varie discipline sportive va data grande importanza al conseguimento degli obiettivi di prestazione, nella cui stesura, un allenatore deve identificare con precisione le abilità e le azioni che un atleta deve saper realizzare al termine di un piano di formazione. Gli obiettivi di risultato, che definiscono per esempio la posizione che una squadra deve ottenere al termine del campionato, sono da tradurre in obiettivi intermedi e specifici, comprendenti cicli di gare o singole partite, in modo tale che resti alto il livello di impegno e di motivazione che tendono spontaneamente a diminuire rispetto ad obiettivi a lungo termine.

La definizione dei contenuti implica che l'allenatore sappia cosa vuole che i suoi allievi imparino nel tempo in cui lavoreranno insieme. Può essere molto importante che tutti i contenuti vengano scritti all'interno di un programma da consegnare agli atleti, in modo che essi si sentano coinvolti e possano comprendere il senso delle attività che svolgeranno o chiedere eventuali spiegazioni. Così facendo chi per esempio fa calcio, può rendersi conto che imparare a palleggiare, o a stoppare, o a colpire di testa, o dribblare sono tutte abilità fondamentali che devono essere acquisite tramite un'applicazione costante e con esercizi ripetuti nel tempo affinchè possano diventare delle azioni automatiche. Se i ragazzi non vengono coinvolti nel piano didattico, potrebbero non capire e non accettare la ripetitività di determinati schemi di lavoro.

La metodologia per eccellenza è l'allenamento, attraverso il quale si sviluppa tutto il percorso di apprendimento di una disciplina. L'allenamento è un processo complesso all'interno del quale giocano un ruolo importante numerose variabili: quelle umane, educative e relazionali, quelle tecniche e didattiche, quelle sociali e ludiche. E' un percorso che si snoda nel tempo con una logica predeterminata dal piano di lavoro e che, per questo motivo, non può essere proposto in modo spontaneistico o deciso a caso ma deve essere pensato, studiato e pianificato. All'interno dell'allenamento devono

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realizzarsi quelle condizioni che consentono ad ogni atleta di crescere, di dare il meglio di sé, di realizzare le proprie potenzialità.

L'allenatore, per impostare in modo corretto un piano di allenamento, deve sapere come si sviluppa il processo di apprendimento di una disciplina sportiva e conoscerne le varie fasi. In primo luogo è necessario tenere presente che esistono tre momenti fondamentali: la scoperta, la conoscenza, il consolidamento.

La fase di scoperta è una fase molto delicata ed importante perché deve mettere in moto la curiosità dei discenti, la loro voglia di imparare e di sperimentarsi. In questo momento è indispensabile che l'allenamento abbia una forte componente ludica poiché la dimensione del gioco rende piacevole l'attività motoria che, se risultasse noiosa o ripetitiva, potrebbe compromettere la motivazione degli atleti.

La seconda fase è quella della conoscenza nella quale le nuove acquisizioni vengono sperimentate, i gesti atletici vengono vissuti, provati e riprovati e il lavoro motorio viene discusso e analizzato. L'allenatore osserva e valuta l'esecuzione di un'azione e l'atleta, ricevendo le informazioni di ritorno, corregge, aggiusta e migliora il gesto atletico: l'allenatore "vede", l'atleta " sente". La loro capacità di entrare in sintonia su questi due aspetti percettivi realizza un apprendimento più efficace. (Biccardi e De Simone 1984).

La terza fase è quella del consolidamento e consiste nell'interiorizzare gli insegnamenti ricevuti, nel padroneggiare gesti e tecniche al punto che possano diventare degli automatismi.

Il processo di apprendimento è facilitato dalla motivazione dell'atleta nel senso che, quanta più voglia ha di imparare e quanto più entusiasmo mette in allenamento, tanto più in fretta cresce e tanto più efficace risulta l'insegnamento stesso. La motivazione resta forte nel tempo se la pratica sportiva risponde ai bisogni fondamentali dei giovani di divertirsi, di migliorare il livello atletico, dì mantenere una buona forma fisica e di stare in mezzo agli altri.

Essa però può essere rinforzata attraverso precise scelte metodologiche:

• esercizi facili all'inizio del percorso di apprendimento, • molteplicità di proposte e giochi, possibilmente divertenti, • linguaggio semplice ed esemplificazioni pratiche, • rinforzo positivo (si sottolineano i progressi atletici piuttosto che gli

errori), • discussione di gruppo (si stimola l'autovalutazione e la correzione

reciproca).

Strettamente legata alla scelta degli obiettivi e dei contenuti è l'individuazione dei mezzi e delle attrezzature didattiche necessarie per attuare il piano di lavoro. E' utile censire i luoghi e gli strumenti a disposizione per tutto il percorso di allenamento al fine di verificare l'esistenza di condizioni materiali ottimali, o almeno sufficientemente idonee, ad un buon svolgimento delle attività didattiche e formative.

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Nel caso in cui si rilevino condizioni oggettive insufficienti è necessario che ciò sia illustrato e ben documentato alla dirigenza sportiva, in modo che provveda ad un tempestivo risanamento della situazione logistica e metta lo staff tecnico in condizione di portare avanti il progetto.

La valutazione del progetto deve avere una duplice direzione: verificare l'efficacia dell'attività didattica dell'allenatore, tramite l'autovalutazione, il feedback degli altri collaboratori tecnici, degli atleti e dei dirigenti sportivi e verificare il raggiungimento degli obiettivi da parte degli allievi e della squadra. Può differenziarsi in verifica di percorso, che viene svolta in itinere sia tramite riunioni, sia attraverso l'utilizzo di specifiche griglie d'osservazione dell'allenatore e degli atleti e verifica di processo, da attuarsi al termine di tutto il percorso didattico, formativo ed agonistico.

3.3. La vittoria secondo L’A.C.A.

Nella pratica sportiva agonistica la vittoria è certamente un evento esaltante che gratifica l'atleta e la squadra, che infonde entusiasmo e gioia, che ripaga i sacrifici e l'impegno dell'allenamento, che rinforza l'autostima del singolo e del gruppo.

Il bisogno di vincere però non è un bisogno spontaneo del bambino o dell'adolescente: in genere essi hanno la necessità di sentirsi riconosciuti e valorizzati in quanto individui capaci di conseguire dei risultati. Per loro il successo non è collegato con la vittoria in sé poiché, anche il solo fatto di aver superato un limite personale, offre una grande soddisfazione. La vittoria pertanto non è un obiettivo prioritario dei giovani atleti almeno fino a quando qualcuno non dice loro che devono vincere. I ragazzi che hanno alle spalle genitori ed allenatori che desiderano la vittoria a tutti i costi sono costretti a perseguirla per trovare risposta ai loro bisogni di sicurezza, di stima e di approvazione. Se essa sfuggirà loro, subiranno una ferita sul piano personale cominciando a temere di essere atleti, e poi persone, di scarso valore.

L'esperienza sportiva può essere impostata in modo tale che il giovane atleta trovi un'efficace risposta sia ai bisogni di riconoscimento e stima, sia a quelli di divertimento e competizione: in questo senso la variabile fondamentale è la relazione con l'educatore sportivo.

Ci sono allenatori che hanno alle spalle un trascorso sportivo deludente, dal quale inconsciamente devono riscattarsi e che, anche quando allenano bambini ed adolescenti, agiscono nella logica del "campionismo", ricercando unicamente la vittoria ed i futuri campioni. In questo modo alimentano il mito del campione che, purtroppo, ha un fascino particolare nella nostra società poiché incarna il modello dell'eroe che si affranca da povertà e da emarginazione sociale divenendo ricchissimo, pieno di fascino e di prestigio.

Fortunatamente la valenza educativa dello sport è orma; ampiamente riconosciuta e numerosi educatori sportivi, ma anche dirigenti e società, pongono al centro delle loro scelte non tanto la prestazione quanto la persona,

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il bambino, l'adolescente.

In questa ottica si fa strada una visione del "successo" inteso come massimo impegno adoperato per conseguire gli obiettivi. E dunque vittoria e successo non sono sinonimi: vincere è un obiettivo importante ma non è tutto. Una buona prestazione tecnica deve essere valorizzata anche se non è accompagnata da grossi risultati agonistici, così come lo sforzo e l'impegno devono sempre essere gratificati a prescindere dal fatto che esprimano o meno un grande talento atletico.

Alla luce di questa filosofia lo scopo dell'allenamento è la migliore prestazione possibile che un atleta può dare in quel momento particolare della sua vita e in quelle condizioni specifiche. L'avversario stesso non è più soltanto un altro atleta o un'altra squadra ma anche il limite personale, per superare il quale occorre impegnarsi con tutte le forze. L'educatore sportivo ha il compito di aiutare i ragazzi a dare il giusto significato alla vittoria e questo obiettivo paradossalmente, è quasi più difficile che trovare il senso della sconfitta. Infatti è necessario condividere l'entusiasmo e la gioia senza alimentare quella facile euforia che produce senso di onnipotenza e scarsa concentrazione. Negli sport di squadra occorre fare attenzione a non dare il merito del risultato ad un solo atleta; è importante saper riconoscere la situazione in cui l'elemento fortuna è stato favorevole; è necessario fare in modo che non si instauri l'abitudine mentale a vincere dopo una serie di ripetute vittorie, abitudine che fa sì che si dia per scontato il risultato positivo a scapito di un impegno concreto.

L'allenatore deve imparare a spiegare il risultato positivo in termini di realizzazione di buone performance e non in termini di valore personale degli atleti: pertanto è molto più corretto dire ad un ragazzo "oggi hai giocato alla grande, hai gareggiato benissimo" piuttosto che dirgli "sei un grande, sei un mito". Se il significato della vittoria finisce col legarsi strettamente al valore della persona, questa dovrà sempre vincere per continuare a valere. In questo modo all'atleta viene tolto sia il piacere di competere per esprimere se stesso, sia la percezione di possedere valore anche quando commette degli errori e fallisce un traguardo. Ogni ragazzo ha il diritto di gareggiare con l'unica preoccupazione di essere in buona forma e all'altezza delle proprie possibilità, non di vincere o di perdere. Un bambino o un adolescente libero dal pensiero di "dover vincere" vincerà più facilmente. E se anche non lo facesse ha il diritto di usufruire di tutti i vantaggi che l'esperienza sportiva può offrirgli in termini di sana crescita psicofisica e di possibilità di socializzazione.

Ci sono purtroppo società e tecnici che concepiscono la pratica sportiva come una sorta di "selezione naturale" nella quale chi non è all'altezza dei canoni standardizzati deve abbandonare. Ed infatti abbandona. Abbandona perché nessuno gli ha insegnato ad affrontare l'inganno che esiste dietro il mito del campione, nessuno gli ha detto che 10 sport non è una guerra e che le gare non sono battaglie, nessuno gli ha permesso di formulare una serie di aspettative realistiche in merito alla pratica sportiva prescelta, nessuno gli ha fatto sperimentare che lo sport è divertimento, gioco, salute e socializzazione.

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Un approfondimento specifico merita la cosiddetta "paura di vincere" che può essere il sintomo di una problematica psicologica seria che è necessario affrontare. Ci sono atleti infatti che, di punto in bianco, si rifiutano di gareggiare anche se fino a quel momento era andato tutto bene ed avevano ottenuto ottimi risultati. Ce ne sono altri che accettano la competizione ma durante la gara commettono costantemente errori banali che precludono loro la vittoria facendo arrabbiare allenatori e genitori che 11 accusano di farlo apposta. E forse è davvero così anche se il meccanismo può essere inconsapevole. E' alquanto controproducente obbligare questi atleti ad andare in gara o rimproverali per il loro comportamento. Occorre invece fermarsi, prendersi un tempo di riposo rispetto alle scadenze competitive e cercare di capire cosa sta succedendo. L'allenatore deve accompagnare l'atleta, talvolta anche la squadra, in un percorso introspettivo per il quale può anche chiedere l'aiuto di uno psicologo. Ci sono atleti che ad un certo punto della loro crescita sportiva non si sentono più all'altezza degli impegni agonistici e magari hanno vicino degli adulti che incalzano nel coinvolgerli in ulteriori scadenze. Ci sono ragazzi che dopo un certo numero di vittorie si fanno prendere da un sentimento di inferiorità rispetto alle loro stesse imprese ed hanno paura di non riuscire più a ripeterle. Ce ne sono altri che hanno il timore di infortunarsi ma non hanno il coraggio di dirlo. Ci sono giovani che vivono un forte conflitto con un genitore e che trovano un modo per punirlo disertando la competizione. Ed ancora, ci sono atleti che hanno il terrore di sbagliare perché questo significa per loro non valere nulla e preferiscono pertanto non misurarsi. Le cause di un momento critico vanno ricercate e comprese con disponibilità e pazienza: obbligare, giudicare e sanzionare non solo è inutile ma può aggravare il problema e preludere all'abbandono della pratica sportiva.

Per concludere il discorso sulla vittoria è opportuno considerare brevemente quella ottenuta in modo illecito, tramite la corruzione o l'uso di sostanze dopanti. E' molto importante far capire ai ragazzi che il risultato raggiunto in questo modo rappresenta una grande sconfitta per l'atleta, per i tecnici che hanno sostenuto l'inganno, per le società che, avallando queste pratiche, mostrano di avere unicamente interessi economici. Infine è una sconfitta per lo sport che vede mortificati tutti i valori educativi di cui è portatore.

3.4. La sconfìtta secondo L’A.C.A.

Aiutare gli atleti a dare significato ad una sconfitta ha un valore educativo immenso.

Nel momento in cui un atleta, o una squadra, perde una competizione sulla quale esistevano forti aspettative, si scatena una grossa delusione che può provocare un sentimento di frustrazione profonda e può generare un grande senso di insicurezza e smarrimento.

Una sconfitta è paradigma di un problema che la vita può mettere davanti: se si insegna agli atleti ad affrontare questo momento con coraggio, serenità e determinazione, si permette loro di riattivare la stessa grinta

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anche in tutte quelle situazioni personali, al di fuori dell'ambito sportivo, in cui si è chiamati a fare i conti con un evento negativo e frustrante. Per questo motivo è importante che l'allenatore si prenda un tempo per riflettere e discutere, con l'atleta e con la squadra, sulla sconfitta che si è appena subita. E' necessario far esprimere ai ragazzi tutti i sentimenti negativi che accompagnano l'evento senza scandalizzarsi, né censurare emozioni molto colorite come la rabbia nei confronti dell'arbitro o l'odio rispetto ad un avversario. Le emozioni che possono essere espresse, possono anche essere rielaborate e stemperate. Sono quelle soffocate che spesso conducono ad azioni aggressive e di vendetta. Una volta condivise le emozioni, deve essere fatta un'analisi obiettiva dell'evento in modo tale che si possano mettere a fuoco gli errori commessi. Non bisogna permettere che venga cercato un capro espiatorio, né che si attribuisca la colpa dell'insuccesso a qualche elemento del gruppo: se anche vi fosse stato l'errore plateale di un atleta, la squadra deve interrogarsi sul perché non è stata in grado di riassorbire o rimediare allo sbaglio. Sbaglio che peraltro, questo va sottolineato, chiunque può commettere in qualsiasi momento. L'educatore sportivo deve anche fare attenzione a che non si sviluppi un conflitto fra opposte fazioni all'interno della squadra: se questo accade occorre considerare l'ipotesi che la sconfitta sia stata solo l'occasione perché si manifestassero dinamiche interpersonali problematiche già presenti all'interno del gruppo e che è necessario affrontare.

Negli sport individuali il coach deve fare attenzione al fatto che la sconfitta non sia vissuta come un fallimento personale, né come una minaccia al proprio valore. Facilmente la prima reazione emotiva può essere quella di un crollo dell'autostima, di una perdita della motivazione e di una tendenza ad un minor impegno. Per questo motivo l'allenatore deve incoraggiare e consolare l'atleta, aiutandolo a contestualizzare l'evento, a ridimensionarlo, ad analizzarlo con spirito critico e realismo.

In se stessa una sconfitta non significa insuccesso poiché un atleta può non aver vinto ma aver dato una buona performance, può aver superato un limite ed essere migliorato rispetto allo standard delle prestazioni personali, può aver comunque raggiunto un obiettivo prestabilito. Una sconfitta paradossalmente può essere un buon insegnamento per chi ha la tendenza ad esaltarsi e può insegnare la "giusta umiltà" necessaria per continuare ad imparare e a migliorare. Un insieme di sconfitte costanti e prolungate nel tempo, invece, deve essere interpretato come segnale di crisi dell'atleta o della squadra. A questo proposito è necessario capire se le difficoltà sono interne alla persona (e/o al gruppo) o sono esterne. Le prime si riferiscono ad un "momento no" che attraversa l'individuo rispetto al quale occorre mettere a fuoco cause e rimedi: può trattarsi di un accumulo di stress e stanchezza, un periodo di tensione tra i compagni o con l'allenatore, una perdita di motivazione o altro ancora. Diversamente come fattore esterno, può esserci stata una errata valutazione degli obiettivi da perseguire e l'atleta può essere stato collocato all'interno di un percorso agonistico troppo difficile, nel qual caso occorre riformulare tutto il progetto.

Parlando di sconfitta occorre prendere in considerazione una specifica situazione che a volte causa molta frustrazione e sofferenza: quella in cui il

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podio sfugge per un soffio. Arrivare quarti talvolta è quasi peggio che arrivare ultimi poiché la medaglia o la coppa hanno un significato molto importante: testimoniano per sempre il risultato e fanno sì che di una gara resti un memoriale tangibile. E' per questo che si vedono atleti in lacrime, allenatori delusi e genitori arrabbiati. Gli adulti devono fare attenzione a rielaborare le emozioni che sperimentano senza infierire sull'atleta che ha già il suo carico emotivo da smaltire. Ed anzi devono poter sostenere il ragazzo spiegandogli che arrivare quarti significa che la qualità della performance è buona, che lo scarto con i primi non è troppo grande e che, con uno specifico piano di lavoro, si possono raggiungere miglioramenti tali da creare le condizioni per conquistare presto il podio.

3.5. La cultura di squadra secondo L’A.C.A.

"Quello che molti allenatori non capiscono e che impedisce loro di raggiungere il successo, è la loro incapacità di educare ad una corretta cultura di squadra. Invece, spendono tutte le loro energie per sviluppare abilità fisiche e pianificare le strategie più spettacolari per le competizioni alle quali si preparano". (Martens 1991, pag 75)

Per cultura di squadra Martens intende l'insieme delle relazioni positive ed il livello di benessere psicoemotivo che gli atleti, tra loro e con l'allenatore, sperimentano nello stare insieme. Egli ritiene che sia un elemento fondamentale sul quale ogni allenatore deve lavorare poiché è "l'architettura sociale" della squadra dalla quale dipende il rendimento degli atleti, il clima interpersonale efficace ed il successo di una formazione. Quando una squadra soffre di problemi o conflitti di tipo relazionale, per esempio quando il leader offende e denigra gli atleti, quando insorgono conflitti tra i membri della squadra e fra questi e l'allenatore, quando il lavoro atletico è troppo duro ed il clima all'interno del gruppo è fortemente competitivo, quando esistono sottogruppi in lotta tra loro, è molto probabile che il rendimento della squadra risulti nettamente inferiore alle potenzialità presenti e che si manifestino scontri e senso di insoddisfazione. I problemi relazionali non sono purtroppo risolvibili, a dispetto di quanto pensano alcuni allenatori, attraverso dettami di comportamento specifici ed atteggiamenti autoritari, o diniego dei problemi. Il leader ha la responsabilità non solo dell'ambito tecnico ma anche di quello psicologico e sociale, pertanto le sue competenze devono essere adeguate anche in questa direzione.

Nel momento stesso in cui si viene nominati allenatori di una squadra è necessario assumersi l'impegno complessivo che il ruolo presuppone, sia in ambito tecnico che in ambito socioeducativo. In quest'ultimo occorre promuovere la cultura di squadra con un paziente lavoro di promozione di relazioni positive.

Nella prima fase, quella della conoscenza reciproca, occorre facilitare la collaborazione e la solidarietà tra i componenti della squadra. Come?

• Facendo sì che ciascuno riconosca ed apprezzi i punti di forza dei

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compagni ed impari ad offrire aiuto e solidarietà nei punti deboli perché, per il bene del gruppo, è necessario che ciascuno cresca, migliori e dia il meglio di sé.

• Tenendo sotto controllo le istanze fortemente aggressive e competitive che spingono gli atleti ad un gioco individuale, tutto improntato sul desiderio di emergere e di farsi notare.

• Selezionando il capitano in modo che sia una persona apprezzata dal gruppo, intelligente, sicura di sé, capace di mediare e di assumere il ruolo di gregario del leader.

• Stimolando l'entusiasmo e l'autostima del gruppo attraverso il rinforzo delle prestazioni positive, specialmente quelle che necessitano della sinergia dell'intera squadra.

• Organizzando momenti di incontro ludici e di discussione informale (magari andando tutti insieme a mangiare una pizza) su eventuali problemi tecnici, o di organizzazione degli allenamenti, o di presa in esame del calendario agonistico, momenti durante i quali vengano valorizzati l'intervento e l'opinione di tutti.

Nella seconda fase, quella della presa in carico della squadra, è necessario fare in modo che ogni atleta sviluppi il senso di appartenenza al gruppo. Come?

• L'allenatore deve poter trasmettere ai ragazzi la percezione che tutti sono uguali, che hanno lo stesso valore personale, che ciascuno, nella propria unicità e diversità, è molto importante all'interno della squadra.

• L'allenatore deve altresì comprendere ed accogliere la diversità dei bisogni individuali che emergono, diversificando anche la risposta ad essi. Alcuni atleti infatti vanno spronati ad essere più attivi, altri più collaborativi, alcuni necessitano di una dose maggiore di fiducia in se stessi, altri hanno bisogno di spiegazioni semplici o di un clima relazionale calmo e sereno.

• All'inizio di ogni incontro l'allenatore deve chiedere ai suoi ragazzi come stanno, lasciare il tempo perché ciascuno risponda e permettere loro di distogliere l'attenzione da eventuali altri problemi o situazioni extra sportive, per concentrarsi sul "qui ed ora". Questo momento della durata massima di dieci / quindici minuti, lungi dall'essere superfluo, è equivalente alla fase di riscaldamento fisico e consente all'atleta di prepararsi mentalmente all'allenamento.

• L'allenatore deve organizzare e condurre in modo efficace le riunioni che precedono o seguono una gara. La disposizione ottimale dei partecipanti è quella a cerchio perché tutti i componenti del gruppo riescono a guardarsi. E' necessario preparare bene ogni incontro e fare una scaletta dei contenuti da affrontare o delle domande da porre ai ragazzi (per esempio: "quali obiettivi possiamo porci per la prossima gara?", "quali sono i nostri punti di forza e quali i punti deboli, e come sono i nostri avversari?", oppure "come abbiamo giocato?", "cosa abbiamo fatto bene e cosa non abbiamo fatto?"). Infine occorre lasciare spazio agli interventi di tutti ed impedire che qualcuno possa monopolizzare la discussione. Le riunioni sono momenti fondamentali del percorso di lavoro rispetto alle quali nessun atleta deve sentirsi esonerato. Il ruolo del leader in questi

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casi è quello di facilitatore della comunicazione. • L'allenatore deve esprimere il proprio parere alla fine della discussione,

dopo aver ascoltato e osservato tutti, stimolato a parlare anche i più timidi o taciturni, interrotto le eventuali divagazioni e ricondotto il gruppo al compito, valorizzato i vari interventi.

• L'allenatore può anche utilizzare ed inventare alcune attivazioni che aiutano il dialogo, il confronto, la discussione su temi importanti e la rielaborazione delle emozioni. Per esempio un gioco da proporre potrebbe essere: "se fossi io il mister.. " nel quale gli atleti devono dire come si comporterebbero rispetto a circostanze o eventi specifici; un altro potrebbe essere: "cosa mi porto a casa di questa partita..." nel quale occorre fare una valutazione personale sintetica di un evento agonistico; un altro ancora potrebbe essere: "offri tre pensieri al termine di questa esperienza, uno per il coach, uno per i compagni, uno per te".

La terza fase è quella della soluzione dei conflitti e prevede che vengano affrontate tutte le inevitabili divergenze o difficoltà che emergono all'interno del percorso di crescita di una squadra. L'evoluzione di un gruppo ha dei tempi fisiologici e dei periodi di maturazione specifici: la prima fase è quella della dipendenza dal leader, la seconda quella del conflitto, la terza quella dell'interdipendenza. Nella prima fase i componenti di un gruppo tendono a restare compatti sotto la guida dell'allenatore e a condividere opinioni e caratteristiche che facilitano l'accordo e l'accettazione reciproca. In seguito, dopo aver sperimentato l'appartenenza e aver compreso che la squadra offre un ambiente accogliente e sicuro, cominciano ad emergere le diversità di opinioni, le caratteristiche personali di ciascuno ed i primi contrasti. Conflitti e divergenze sono da considerarsi normali in questa fase di vita del gruppo poiché le persone stanno esprimendo un nuovo bisogno, quello di individuazione. E' però molto importante che il leader sia in grado di gestire correttamente le situazioni problematiche: deve pertanto affrontare con coraggio e trasparenza l'eventuale malessere degli atleti, i contrasti che insorgono tra i componenti della squadra o nei suoi confronti. Per fare questo egli può proporre dei momenti di incontro, utilizzando eventualmente l'occasione di una trasferta, nella quale ci sono tempi più lunghi ed un clima di maggiore disponibilità. Deve poi verbalizzare il problema in termini semplici e non giudicanti, lasciando quindi la parola agli atleti coinvolti. A questi viene chiesto di esporre il proprio punto di vista e le emozioni provate senza essere né offensivi, né arroganti. Può essere molto importante che in seguito si esprimano anche i ragazzi non coinvolti nel conflitto, i quali possono fare proposte serene ed efficaci per la risoluzione del problema. Possono anche essere utilizzate tecniche particolari che, pur non essendo magiche, possono aiutare a superare un momento di empasse: sono per esempio la già nota tecnica del problem solving o la tecnica del "mettersi nei panni dell'altro" (con la quale viene chiesto ai contendenti di fare una proposta di risoluzione del problema a partire dal trovarsi nella posizione dell'altro), o ancora la tecnica dei "mediatori" (con la quale vengono scelti due compagni estranei al conflitto per affrontare il contenzioso, mentre i diretti interessati osservano e al termine si esprimono sull'eventuale accordo raggiunto).

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Molti allenatori hanno la tentazione di risolvere i conflitti attraverso le loro decisioni personali e un atteggiamento impositivo non discutibile: in questo modo però privano il gruppo di una grande occasione di crescita, quella che deriva dal fare esperienza del superamento di un problema. Inoltre dimostrano di avere assai poca fiducia nelle risorse interne della squadra e non facilitano negli atleti la progressiva assunzione di responsabilità. Se non ci sono personalità particolarmente problematiche è probabile che la fase conflittuale sia facilmente superabile grazie ad un'efficace azione educativa dell'allenatore. Il momento evolutivo che seguirà sarà quello della interdipendenza, nel quale i componenti la squadra sapranno collaborare integrando la diversità e la specificità di ciascuno e considerandole fonti di ricchezza.

Purtroppo può succedere che un allenatore si debba occupare di ragazzi con buone potenzialità atletiche ma caratterialmente problematici, aggressivi o incapaci di vivere in gruppo. Talvolta la squadra è in grado di comprendere e tollerare le difficoltà caratteriali di un componente al fine di poter contare sulle sue prestazioni agonistiche. Spesso però questi problemi, così come un'alta conflittualità tra atleti che permane tale o si aggrava nel tempo, creano malessere e tensione ed incidono in modo negativo sulle qualità delle prestazioni. In questi casi l'allenatore deve esporre il problema ai dirigenti sportivi e concordare con loro eventuali scelte e strategie da adottare.

3.6. La gestione dei conflitti secondo L’A.C.A.

Quando si gestiscono i percorsi educativi rivolti agli adolescenti è necessario mettere in preventivo di trovarsi in situazioni di conflitto. L'adolescente sembra compiacersi delle nuove capacità logiche e di pensiero che possiede e apre volentieri lunghe discussioni sui temi più disparati. Inoltre il bisogno di individuarsi ed affermarsi come persona autonoma facilita le situazioni di disaccordo e di contrapposizione rispetto agli adulti e alle loro norme. I toni facilmente si accendono e lo scontro può inasprirsi al punto tale da compromettere la relazione interpersonale. Gli adulti hanno in genere una maggiore capacità di mediazione ed hanno imparato a non dire o fare cose spiacevoli di cui poi facilmente ci si pente. L'adolescente invece può vivere il conflitto come una lotta di potere dalla quale desidera uscire vincente. Sentirsi sconfitto dopo un'aspra contrapposizione può procurargli una ferita narcisistica ed un profondo senso di umiliazione. In queste situazioni il comportamento degli adulti è fondamentale per l'evoluzione positiva del conflitto.

Due errori che facilmente si commettono sono quelli di interrompere lo scontro o con una risposta di tipo autoritario o con una di tipo permissivo.

In entrambi i casi il conflitto viene sospeso, non risolto, poiché l'adulto da un lato impone il suo punto di vista e dall'altro ci rinuncia totalmente. La dinamica si gioca tutta sul piano della forza / debolezza e, per questo motivo, non ha una forte valenza educativa. L'adolescente infatti apprende che nelle situazioni di disaccordo deve cercare di vincere, altrimenti ne esce perdente, deve cercare di essere forte, altrimenti ne uscirà debole. Esiste però

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la possibilità di uscire da questo tranello comunicativo ed impostare il dialogo in modo tale che le persone possano ascoltarsi, rispettarsi, comprendersi, venirsi incontro e continuare ad avere una relazione positiva.

Anche in queste situazioni la competenza comunicativa dell'adulto è la variabile fondamentale.

Il dialogo infatti può essere impostato in modo tale che il conflitto generi un confronto costruttivo, porti ad un'azione di mediazione delle posizioni di partenza e raggiunga un accordo condiviso. Molti genitori o educatori non riescono a gestire in modo positivo le situazioni di disaccordo e scontro poiché temono che da esse ne derivi una rottura delle relazioni affettive.

Invece è necessario imparare a pensare al conflitto come ad una situazione comunicativa positiva, difficile ma non pericolosa: una situazione che possiede un grande valore educativo qualora sia vissuta in modo sereno e pacato. L'adulto ha la responsabilità di impostare la sequenza comunicativa in modo costruttivo con l'intento di facilitare la negoziazione. Invece di reagire alla provocazione dell'adolescente, l'educatore può andare incontro all'altro, senza offenderlo o aggredirlo, cercando di capire quali sono i suoi bisogni e le sue idee in merito al problema. Può esplicitare il suo desiderio di non arrivare allo scontro, di ricercare invece una reciproca comprensione rispetto alia quale si rende per primo disponibile ad ascoltare e prendere in considerazione le motivazioni del ragazzo.

Dopo aver ascoltato e preso in esame seriamente le opinioni dell'adolescente, l'educatore può in seguito esplicitare i suoi bisogni, le sue preoccupazioni o i suoi desideri e proporre una strategia di comportamento che accontenti entrambi. Non è detto che il giovane accetti la proposta ed allora viene invitato a far lui una ipotesi di compromesso che tenga presente i bisogni di tutti e due. Questo processo comunicativo talvolta è sorprendente poiché conduce a soluzioni creative ed originali che davvero risolvono il conflitto e danno ad entrambe le parti contendenti un buon livello di soddisfazione. La strategia proposta può sembrare un po' semplicistica: il "veniamoci incontro" usato dalle persone di buon senso. In realtà è molto difficile stare dentro al conflitto con un atteggiamento disponibile, costruttivo e responsabile. Non è affatto scontato per un educatore controllare la propria rabbia ed aggressività pur rimanendo assertivo. Anche per arrivare a possedere questo tipo di competenza può essere utile un percorso formativo.

L'esperienza di gestione efficace del conflitto ha una valenza educativa di estrema importanza poiché insegna molte cose: non è vero che o si vince o si perde ma le persone possono ascoltarsi e riconoscere che le ragioni dell'altro hanno senso di esistere. Possono cedere una parte delle loro convinzioni a vantaggio di una scelta che soddisfi entrambi e soprattutto possono fare l'esperienza che il conflitto ed il disaccordo non compromettono la relazione affettiva anzi, in un certo senso, la rafforzano.

Avere accanto un adulto capace di mediare i contrasti e di affrontare il conflitto in modo costruttivo può significare, per l'adolescente, avere a disposizione un interlocutore affidabile, al quale poter consegnare con serenità i propri bisogni e problemi nella certezza di essere ascoltato e preso

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in considerazione. Significa inoltre avere un modello positivo di adulto col quale identificarsi, dapprima imitandone il comportamento, poi facendo propria l'istanza di assertività personale unita all'amore e al rispetto per gli altri.

3.7. La gestione delle situazioni difficili secondo L'A.C.A.

Le persone che svolgono un ruolo educativo rispetto agli adolescenti possono essere chiamate ad affrontare situazioni complesse che presentano implicazioni di ordine morale, personale, psicologico, sociale e legale. I ragazzi infatti si confidano con l'adulto di riferimento, anche con il proprio allenatore o la propria allenatrice, e chiedono pareri ed opinioni sulle scelte che stanno per fare o rivelano esperienze negative e traumatiche. L'educatore in questi casi può accogliere la persona, ascoltarla, capire come e dove può ricevere aiuto ed accompagnarvela. Altre volte sono gli adulti stessi che si accorgono di un problema e che si chiedono cosa fare e come affrontare la situazione. Può essere molto importante possedere un livello minimo di informazioni riguardante alcune tematiche specifiche. Nel percorso formativo per educatori sportivi è necessario riservare uno spazio alla discussione delle "situazioni difficili". E possono essere definite tali quelle in cui un atleta chiede informazioni e pareri (o manifesta un disagio) sulla sessualità, sulle droghe, sui disturbi del comportamento alimentare, su situazioni di conflitto, violenza e maltrattamento. Nelle situazioni difficili in cui è l'atleta ad avere un problema, l'obiettivo dell'educatore deve essere quello di attuare un buon ascolto empatico al fine di convincere la persona a farsi accompagnare presso i Servizi o gli ambiti preposti ad affrontare quella situazione. Pertanto è opportuno che l'allenatore abbia acquisito le competenze relative alla capacità di instaurare una relazione di aiuto, evitando da un lato le barriere comunicative e dall'altro la presunzione di risolvere da solo problemi complessi.

Altre situazioni possono risultare difficili poiché comportano un problema serio per l'educatore o per l'intera società sportiva. Rientrano in questa categoria le situazioni in cui un atleta ha ripetuti comportamenti illeciti, oppositivi ed aggressivi.

In questi casi l'educatore sportivo può essere facilitato da una strategia educativa definibile delle "Tre A", o strategia delle azioni consecutive.

Nella prima azione occorre prendere in disparte l'atleta, spiegargli bene i termini del problema, cosa e perché risulta inaccettabile del suo comportamento ed invitarlo apertamente a non ripeterlo più.

Egli deve avere la possibilità di spiegare le ragioni della sua condotta sulla quale è importante aprire il dialogo ed il confronto: i significati infatti possono essere compresi ma va chiarito il confine tra un'azione lecita ed una illecita.

La correzione deve favorire il processo di autovalutazione della persona affinché possa assumere la piena consapevolezza e responsabilità del proprio comportamento e non adeguarsi passivamente ad una autorità

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esterna. A volte il feed-back di tutta squadra può far comprendere meglio la valenza di determinati atteggiamenti e può aiutare la presa di coscienza del disagio che provocano.

Il dialogo deve chiarire all'interlocutore il limite invalicabile del suo agire e le possibili conseguenze se questo viene oltrepassato. Se il comportamento in discussione può essere in qualche modo correlato ad un disagio che l'atleta riesce a percepire, l'educatore deve conseguentemente offrire aiuto. Il messaggio che occorre inviare può essere così sintetizzato: "il tuo comportamento è inaccettabile e ti invito a non ripeterlo più. Però capisco che in questo modo stai esprimendo un malessere per il quale vorrei darti una mano e fare qualcosa per te. Consentimi di aiutarti".

La seconda azione è quella della ammonizione. Ciascun educatore, ed anche l'educatore sportivo, è rappresentante di una istituzione a cui deve rispondere e che possiede norme e regole precise.

Dopo un errore che viola il codice dell'istituzione e dopo un primo tentativo di offerta di aiuto, si deve ammonire la persona in modo più ufficiale ed autorevole, previa comunicazione alla dirigenza, inviando un messaggio che abbia questo significato: "continuo a desiderare di aiutarti ma né io, né la società che rappresento, possiamo permetterti di ripetere azioni illecite che contravvengono palesemente alle norme che possediamo. Ti ammonisco a non assumere mai più i comportamenti indesiderati, ti rinnovo la nostra disponibilità per un eventuale aiuto e ti comunico che questo è l'ultimo richiamo".

Qualora neanche questa seconda azione abbia buon esito, la terza ed ultima scelta possibile è quella dell'allontanamento. Deve essere un'azione fatta non solo dall'educatore sportivo ma anche da almeno uno o due dirigenti. La scelta deve essere dettagliatamente spiegata e non deve in alcun modo essere comunicata con disprezzo o denigrazione per la persona. Occorre mettere in luce la logica educativa di questa azione ed esplicitare che all'interno di un contesto comunitario ci sono regole ben precise da rispettare per rendere possibile ed efficace la convivenza. Il messaggio che occorre esprimere può essere di questo tipo: "ci costringi a prendere un provvedimento doloroso ma è l'unico modo che ci resta per farti riflettere sulle tue azioni e facilitare la tua crescita. La sospensione durerà per ...(il periodo concordato). Trascorso questo tempo potrai chiedere la riammissione che verrà presa in esame solo alla luce di un tuo manifesto cambiamento". Lungi dall'essere una mera strategia punitiva, l'allontanamento, possibilmente temporaneo, talvolta è una sanzione che riesce ad innescare un processo di pensiero che facilita l’autovalutazione, l'autocritica e lo sviluppo di nuovi schemi comportamentali.

Conclusioni

Un numero crescente di società sportive si pone l'obiettivo di monitorare il benessere dei bambini e dei ragazzi che fanno sport anche attraverso la consulenza di psicologi dell'età evolutiva.

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La psicologia dello sport dell'età evolutiva, opera al di fuori della logica del "campionismo", non ricerca unicamente le tecniche di miglioramento della prestazione, ha il compito di valutare che siano promosse nell'ambiente sportivo le condizioni che facilitano la crescita delle persone. Ha l'obiettivo di promuovere il benessere fisico, psichico e relazionale dei giovani atleti.

Pertanto verifica lo stato di forma fisica, l'adeguatezza del piano di allenamento individualizzato, il ritmo attività - riposo, il percorso di infortunio.

Osserva lo stato psicologico dei ragazzi valutando il piacere ludico delle attività svolte, la comprensione e condivisione del piano di lavoro, la gestione delle emozioni, il livello di autostima e di aspettative, il superamento dei momenti di crisi.

Infine analizza le relazioni che gli atleti instaurano tra loro e con l'allenatore, promuovendo interazioni positive.

Molti psicologi che offrono la loro consulenza alle società sportive, lavorano anche con i genitori degli atleti affinché possano trovare una forma efficace di sostegno dell'esperienza sportiva del figlio, evitando atteggiamenti ostacolanti, aspettative troppo alte o identificazioni disfunzionali. Talvolta gli adulti sono le prime vittime della logica del campionismo, del successo a tutti i costi e del desiderio di riscatto sociale tramite l'esperienza sportiva. Il loro forte investimento emotivo sulla carriera atletica del figlio li porta a seguirlo passo dopo passo con grande slancio: questo entusiasmo può essere un elemento di forte stimolo per i ragazzi che sono portati a dare il massimo anche per rispondere alle aspettative genitoriali. La motivazione dei genitori però può trasformarsi in un ossessionante richiamo all'eccellenza, in una eterna scontentezza per risultati considerati scarsi, in un sostituirsi all'allenatore nella guida tecnica ed in punizioni o castighi in seguito a prestazioni scadenti. Tutto questo è estremamente negativo poiché può fare della pratica sportiva un'esperienza che produce disagio e malessere.

Il desiderio di competere, di gareggiare, di misurarsi con gli altri e con se stessi sembra essere una tendenza profonda, un bisogno antico che trova le sue radici nella lotta per la sopravvivenza dei primi esseri umani. Questo desiderio si esprime in tutti gli ambiti di vita di una persona e può manifestarsi attraverso stili comportamentali competitivi ma onesti, rispettosi degli altri e delle leggi o attraverso modalità più subdole, violente ed immorali.

L'ambito sportivo è quello che formalmente garantisce al bisogno di competere una espressione libera e corretta sul piano etico poiché soggetta a regole e dettami specifici. In questo senso, come è già stato ribadito, lo sport ha una forte valenza educativa intrinseca, propedeutica alla convivenza pacifica ed alla reciproca accettazione. Se la pratica sportiva diventa il contenitore di esperienze personali e sociali positive ed edificanti, lo sport realizza in pieno il suo "karma" che è quello di essere al servizio della persona umana e della solidarietà tra i popoli.

Questa concezione dello sport può sembrare utopistica ed un po' troppo

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idealista, soprattutto se confrontata con la cronaca che incessantemente evidenzia la dimensione negativa del mondo sportivo, ma è la sola che valga la pena di essere ricercata, pretesa e difesa. E' la sola che possa essere matrice dell'Approccio Centrato sull'Atleta.

A tutti coloro che sentono di voler sposare questa filosofia lasciamo, oltre che tutto il nostro affetto, un decalogo con il quale confrontare sempre, al termine di ogni giornata di lavoro in qualità di allenatore, o meglio di educatore sportivo, le proprie azioni quotidiane.

"Carta dei diritti dei giovani che praticano sport"

• Diritto a praticare lo sport e a sceglierlo liberamente. • Diritto ad essere rispettati come persone e come atleti. • Diritto a vivere una valida esperienza educativa. • Diritto ad esprimere la propria personalità e le proprie doti e caratteristiche. • Diritto ad un ambiente che tutela la salute fisica, psicologica e sociale. • Diritto a comprendere e a partecipare al progetto di formazione sportiva. • Diritto ad avere relazioni interpersonali positive. • Diritto a divertirsi. • Diritto a crescere e a migliorare le proprie prestazioni. • Diritto a competere, a vincere, a perdere.

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