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    Il libro

    Finite le superiori, Allyson parte dalla Pennsylvania per un tour in Europa, insieme alla migliore

    amica Melanie.Non sa ancora che l’amore, quello che fa perdere la testa e sconvolge ogni sicurezza,

    diventerà il suo compagno di viaggio. A Stratford-upon-Avon, il paese di Shakespeare, conosce

    infatti Willem, affascinante ragazzo olandese, che recita in una rappresentazione underground

    della Dodicesima notte. Fra i due scocca la scintilla… e Willem propone ad Allyson di seguirlo a

    Parigi per trascorrere un giorno e una notte insieme. Lei, per la prima volta nella sua vita,

    decide di seguire l’istinto e provare, finalmente, a scoprire un’altra se stessa. Ma il mattino

    dopo si ritrova sola. Willem è scomparso. Che fine ha fatto? Era amore o l’ennesima illusione

    sul palcoscenico della vita?

    La storia di Per un giorno d’amore continua nel romanzo Per un anno d’amore.

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    L’autore

    GAYLE FORMAN

    Giornalista freelance, si occupa da sempre di giovani e tematiche giovanilistiche. Con ilmarito Nick ha compiuto un viaggio intorno al mondo, grazie al quale ha raccolto un

    patrimonio di esperienze e informazioni che sono confluiti nei suoi libri. Ha vinto, fra gli altri, il

    prestigioso premio NAIBA Book of the Year Awards e l’Indie Choice Honor Award. La

    scrittrice vive a Brooklyn con il marito e due figlie, di cui una adottiva. Il suo precedente

    romanzo Resta anche domani diventerà presto un film.

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    GAYLE FORMAN

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    traduzione di Alessandra Orcese

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     A Tamar, mia sorella, compagna di viaggio e amica

    che, tra l’altro, se n’è andata a sposarsi il suo olandese

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    Il mondo è tutto un palcoscenico, e uomini e donne, tutti, sono attori;

    hanno proprie uscite e proprie entrate;nella vita un uomo interpreta più parti…

    W. Shakespeare, Come vi piace, atto II, scena  VII

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    Parte prima

    UN GIORNO

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    CAPITOLO UNO

     AGOSTO

    Stratford-upon-Avon, InghilterraE se Shakespeare si fosse sbagliato?

    Essere… o non essere. È il problema. È il monologo più famoso dell’Amleto,forse il più noto di tutti i testi di Shakespeare. Ho dovuto imparare a memorial’intero brano per il corso di letteratura inglese nel terzo anno delle superiori, e mi

    ricordo ancora ogni singola parola. All’epoca, però, non ci avevo riflettuto molto.L’unica cosa che mi interessava era imparare bene ogni battuta e prendere unbuon voto. E, tuttavia, se Shakespeare – e Amleto – si fossero posti la domandasbagliata? E se il vero dilemma non fosse “essere” ma “come essere”?

    Il fatto è che forse non mi sarei mai posta un simile problema – quello di come

    essere – se non fosse stato per Amleto. Forse avrei continuato a essere la stessa

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    i T dd A lt l d t tti li lt i i l l ittà

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    ramanzina a Todd. A volte la sera, quando tutti gli altri gironzolano per la città,mi dice che dovrebbe lamentarsi di lui con la sede centrale dell’agenzia. Però nonsembra che poi lo faccia davvero; secondo me perché, quando lei lo rimprovera,lui le fa gli occhi dolci. Anche a Miss Foley. Soprattutto a Miss Foley.

     — Credo che inizi alle sette — rispondo a Melanie. Guardo l’orologio, altro

    regalo ricevuto per il diploma. È d’oro massiccio e ha inciso sul retro della cassaBuon viaggio!”. Pesa parecchio intorno al mio polso sudato. — Ora sono le sei e

    mezzo. — Accidenti, ai britannici piace proprio tanto mettersi in fila. Fare la coda. O

    come lo vuoi chiamare. Dovrebbero prendere lezioni dagli italiani, che si

    ammucchiano e sgomitano. O forse sono gli italiani che dovrebbero prenderlezioni dai britannici. — Melanie si aggiusta la minigonna – la chiama la suagonna-bendaggio” – e si sistema la camicetta. — Dio, Roma! Mi sembra di

    esserci stata un anno fa.Roma? Era sei giorni fa? O sedici? Tutta l’Europa si è trasformata in un vortice

    indistinto di aeroporti, autobus, palazzi antichi e menu a prezzo fisso, composti dipollo cucinato in salse di vario genere. Quando i miei mi hanno offerto questoviaggio come regalone post-diploma sono stata un po’ riluttante all’idea dipartire. Ma la mamma mi aveva assicurato che si era informata bene: la TeenTours! era molto quotata, famosa per la sua componente educativa di alto livellocosì come per l’attenzione con cui si prendeva cura degli studenti durante il

    viaggio. Si sarebbero ben presi cura di me. «Non sarai mai sola» mi avevano

    i i i E i t l t i h M l i

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    promesso i miei. E poi, naturalmente, veniva anche Melanie. Avevano ragione. So che tutti gli altri si lamentano del vigile occhio di falco che

    Miss Foley ci tiene puntato addosso, ma io apprezzo il fatto che stia sempre lì acontarci, e anche che disapprovi le escursioni notturne nei bar del posto, sebbenela maggior parte di noi abbia raggiunto l’età legale per bere alcolici in Europa.

    Non che da queste parti qualcuno sembri preoccuparsi di questo dettaglio.Io in giro per i bar non ci vado. Di solito torno nella camera d’albergo, che

    Melanie e io condividiamo, e guardo la tele. Si trova quasi sempre uno di queifilm americani che, a casa, di solito vediamo insieme nei fine settimana, incamera sua o nella mia, con la compagnia di un bel po’ di popcorn.

     — Mi sto arrostendo qua fuori — geme Melanie. — Fa ancora caldo come ametà pomeriggio.Guardo in su. Il sole è bollente e le nuvole attraversano il cielo in corsa. Mi

    piace quando vanno così veloci, senza alcun ostacolo che le trattenga. Si capiscedal cielo che l’Inghilterra è un’isola. — Almeno non diluvia come quando siamoarrivate.

     — Hai un elastico? — mi chiede Melanie. — Ah, è vero, certo che no.Scommetto che i tuoi capelli adesso ti piacciono.

    La mano mi va alla nuca che sento ancora strana, insolitamente esposta. Ilviaggio di Teen Tours! è partito da Londra e, il secondo pomeriggio, ci hannolasciato un paio di ore libere per fare shopping, che suppongo si possa

    considerare un’attività culturale. Lì Melanie mi ha convinta a tagliarmi i capelli a

    caschetto Faceva parte del progetto “riconversione pre università” che mi aveva

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    caschetto. Faceva parte del progetto “riconversione pre-università”, che mi avevaillustrato durante il volo verso l’Europa: «Nessuno all’università saprà cheeravamo automi a tecnologia avanzata. Voglio dire, siamo troppo carine peressere apprezzate solo per il nostro cervello, e in più all’università saranno tuttipiuttosto svegli. Perciò noi saremo carine e intelligenti. Una delle due cose non

    escluderà l’altra.»Per Melanie, a quanto pare, “riconversione” voleva dire far fuori metà dei soldi

    a sua disposizione in un nuovo guardaroba a basso prezzo da Topshop eaccorciarsi il nome da Melanie a Mel; cosa che non mi ricordo mai, per quanticalci sotto il tavolo mi dia ogni volta. Quanto a me, si era trattato del taglio di

    capelli che lei mi aveva convinto a fare.Mi sono spaventata, quando mi sono vista. Da che ho memoria, i miei capellisono sempre stati neri e lunghi, a ciocche lisce, e quella ragazza che mi fissavadallo specchio del parrucchiere non mi somigliava per niente. All’epoca eravamoin viaggio solo da due giorni e io avevo lo stomaco stretto per la nostalgia dicasa. Volevo essere di nuovo nella mia stanzetta, con le familiari pareti color

    pesca e la mia collezione di orologi vintage. Mi sono chiesta se sarei mai riuscitaad affrontare l’università, visto che non ero neppure in grado di affrontare questo.

    Ora però mi sono abituata al nuovo taglio e la nostalgia di casa è quasipassata e, anche se così non fosse, ormai il viaggio sta per finire. Domani quasitutti saliranno su un pullman che porta dritto all’aeroporto, per imbarcarsi sul volo

    di ritorno. Melanie e io invece prenderemo un treno fino a Londra per trascorrere

    tre giorni con sua cugina Lei vuole tornare dal parrucchiere che mi ha tagliato i

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    tre giorni con sua cugina. Lei vuole tornare dal parrucchiere che mi ha tagliato icapelli per farsi tingere una ciocca di rosa, e poi andremo nel West End, la zonadei teatri, a vedere il musical Let It Be. Domenica un volo ci riporterà negli StatiUniti e, poco dopo, inizieremo l’università, io vicino a Boston e Melanie a New York.

     — Liberate Shakespeare! Alzo gli occhi. Un gruppo composto da una decina di persone si sposta su e giù

    lungo la coda, porgendo volantini dai colori fosforescenti. Si capisce subito chenon sono americani: niente scarpe da ginnastica bianche o pantaloncini contasche ovunque. Sono tutti incredibilmente alti e snelli: insomma, hanno un

    aspetto diverso. Come se anche la loro struttura ossea fosse straniera. — Ecco, prendo uno di questi. — Melanie allunga la mano per afferrare unvolantino e si sventola sul collo.

     — Cosa c’è scritto? — le chiedo, osservando il gruppetto di persone. Qui, nellaturistica Stratford-upon-Avon, risaltano come papaveri rosso fuoco in un campoverde.

    Melanie getta uno sguardo al foglietto e arriccia il naso. — Guerrilla Will?Una ragazza con il tipo di ciocche color magenta, che Melanie vorrebbe farsi, ci

    avvicina. — È Shakespeare per le masse.Sbircio il volantino. C’è scritto: Guerrilla Will. Shakespeare senza confini.

    Shakespeare senza freni. Shakespeare senza pagare. Shakespeare per tutti.

     — Shakespeare senza pagare? — legge Melanie.

    Già ribatte la ragazza dai capelli color magenta con un forte accento

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     — Già — ribatte la ragazza dai capelli color magenta con un forte accentoinglese. — Fuori dalle logiche del profitto. Così come avrebbe voluto il Maestro.

     — Secondo te non voleva vendere biglietti e ricavare un profitto dai suoispettacoli teatrali? — Non sto cercando di provocare, ma mi viene in mente quelfilm, Shakespeare in love, in cui lui aveva sempre debiti con qualcuno.

    La ragazza alza gli occhi al cielo e io comincio a sentirmi stupida. Abbasso losguardo. Un’ombra mi copre, bloccando momentaneamente il riverbero del sole.Poi sento ridere. Guardo in su. Non riesco a distinguere la persona che ho difronte perché è stagliata contro la luce ancora molto intensa del pomeriggio. Mane sento la voce.

     — Credo che abbia ragione — dice. — Forse non è molto romantico essere unartista affamato, quando muori di fame per davvero.Sbatto un po’ le palpebre. I miei occhi si abituano alla luce e vedo che il tipo è

    alto, forse una trentina di centimetri più di me, e snello. I suoi capelli risplendonodi un centinaio di tonalità di biondo e gli occhi sono così scuri che sembrano quasineri. Devo piegare la testa all’indietro per vederlo bene e lui china la sua per

    incrociare il mio sguardo. — Ma Shakespeare è morto e dalla tomba non riscuote i diritti d’autore. Mentre

    noi, noi siamo vivi — stende le braccia, come ad abbracciare l’universo intero. —Cosa vai a vedere?

     — Amleto — rispondo.

     — Ah, Amleto. — Ha un accento così leggero da risultare quasi impercettibile.

    — Una serata come questa non si può sprecare per una tragedia — Mi fissa

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     — Una serata come questa non si può sprecare per una tragedia. — Mi fissa,come se la sua fosse una domanda. Poi sorride. — E neppure seduti al chiuso. Noifacciamo La dodicesima notte. All’aperto. — Mi porge un volantino.

     — Ci penseremo — ribatte Melanie con il tono di voce di quando fa la civetta.Il tipo alza una spalla e inclina la testa di lato, così che l’orecchio va quasi a

    toccare una clavicola molto spigolosa. — Come preferite — dice, anche se stafissando me. Poi se ne va a raggiungere il resto del suo gruppo.

    Melanie li guarda allontanarsi. — Ehi, perché non sono previsti nelleesplorazioni culturali di Teen Tours ? Questa sì che è un’esplorazione che fareivolentieri!

    Li osservo anch’io mentre vanno via e provo uno strano impulso. — Senti, iol’ho già visto Amleto.Lei mi scruta alzando le sopracciglia, depilate fino a disegnare una linea. —

     Anch’io. Era in televisione. Però… — Potremmo andare… a vedere quello. Voglio dire, sarebbe un’esperienza

    diversa. Un’esperienza culturale, che è il motivo per il quale i nostri genitori ci

    hanno mandate a fare questo viaggio.Melanie ride. — Ma guarda un po’ che mi diventi trasgressiva anche tu! E cosa

    diciamo al Nostro Impavido Condottiero? Pare che si stia lanciando in uno dei suoiconteggi.

     — Be’, che soffrivi molto per il caldo… — inizio.

    Mi fissa per un istante, poi in lei scatta qualcosa. Si passa la lingua sulle

    labbra sogghigna e fa gli occhi storti — Oh certo Ho una vera e propria

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    labbra, sogghigna e fa gli occhi storti. Oh, certo. Ho una vera e propriainsolazione. — Infine Melanie si rivolge a Paula, che è del Maine e che stadiligentemente studiando una guida turistica. — Mi gira la testa.

     — Fa molto caldo — risponde Paula, annuendo comprensiva. — Dovresti bere. — Credo che sto per svenire. Vedo delle macchie nere.

     — Non esagerare — le sussurro. — Creare un caso è la cosa migliore — mormora lei di rimando, perché ormai

    si sta divertendo. — Oh, mi sento svenire. — Miss Foley — chiamo.La signorina alza gli occhi dal foglio su cui sta controllando la sua lista di nomi.

    Si avvicina, con un’espressione così preoccupata che mi sento in colpa per labugia. — Credo che Melanie, voglio dire, Mel, abbia un colpo di calore. — Stai male? Non ci dovrebbe volere molto ormai. Dentro il teatro farà fresco.

     — Miss Foley parla uno strano ibrido di anglicismi con accento del Midwest, chetutti imitano e deridono perché lo trovano pretenzioso. Io invece credo che siasolo perché lei vive nel Michigan, ma passa un mucchio di tempo in Europa.

     — Mi viene da vomitare — insiste Melanie. — E non ci tengo proprio a farlodentro lo Swan Theatre.

    La faccia di Miss Foley si contorce dal disgusto, ma non capisco se è per l’ideadi Melanie che vomita dentro lo Swan o per il fatto che sia stata usatal’espressione “vomitare” in prossimità della Royal Shakespeare Company. — Oh,

    santo cielo. Sarà meglio che ti riaccompagni in albergo.

    — Posso andarci io — dico

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      Posso andarci io dico. — Davvero? Oh, no. Non potrei permetterlo. Tu devi vedere Amleto. — Davvero, va bene. L’accompagno io. — Niente da fare! Scortarla è una mia responsabilità. Non posso imporre un

    simile fardello sulle tue spalle. — Dall’espressione del suo viso teso intuisco che

    sta lottando contro se stessa. — Non è un problema, Miss Foley. Ho già visto Amleto altre volte e l’albergo è

    solo dall’altro lato della piazza. — Davvero? Sarebbe gentile da parte tua. Non ci crederai, ma in tutti questi

    anni non sono mai riuscita a vedere Amleto recitato dalla Royal Shakespeare

    Company.Melanie emette un piccolo gemito a effetto. Io le appioppo una lieve gomitata.Sorrido alla signorina. — Be’, in tal caso non se lo deve perdere.

    Lei annuisce solennemente, come se stessimo discutendo di affari seri, tipol’ordine di successione a un trono o cose del genere. Poi mi porge la mano.— Èstato un vero piacere viaggiare con te, Allyson. Mi mancherai. Se solo ci fossero

    un po’ più giovani uguali a te al giorno d’oggi. Sei davvero… — Fa una pausa percercare la parola giusta. — Davvero una brava ragazza.

     — Grazie — rispondo in automatico. Ma il suo complimento mi lascia un sensodi vuoto. Non so se è perché sembra la cosa più carina che poteva dire di me, operché in questo momento non mi sto esattamente comportando da brava

    ragazza.

    — Brava ragazza mia nonna — ride Melanie una volta che ci siamo allontanate

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      Brava ragazza mia nonna ride Melanie una volta che ci siamo allontanatedalla coda e può smettere di far finta di barcollare.

     — Sta’ zitta. Non mi piace raccontare balle. — Be’, te la cavi bene però. Potresti avere anche tu una promettente carriera

    di attrice, se vuoi il mio parere.

     — Al momento non voglio il tuo parere. Allora, dov’è questo posto? — esaminoil volantino. — Canal Basin. Che diavolo è?

    Melanie tira fuori il cellulare che, al contrario del mio, funziona anche inEuropa. Apre il navigatore. — A quanto pare è un bacino sul canale.

    Pochi minuti dopo arriviamo a una banchina su un canale. Sembra carnevale,

    c’è un sacco di gente che gironzola. Chiatte ormeggiate lungo la riva e barche chevendono di tutto, dai gelati ai quadri. Quello che non c’è affatto è un teatro. Néun palcoscenico. Né sedie. Né attori. Guardo di nuovo il volantino.

     — Forse si trova sul ponte? — si chiede Melanie.Torniamo indietro fino all’arcuato ponte medievale, ma lo scenario è lo stesso:

    turisti come noi, che girovagano nella calda serata.

     — Hanno detto che era stasera, no? — domanda Melanie.Ripenso a quel ragazzo dallo sguardo incredibilmente scuro, che dice che

    questa serata è troppo bella per una tragedia. Ma se mi guardo intorno qui nonc’è traccia di spettacolo, è evidente. Probabilmente era uno scherzo. Voleva soloprendere in giro i turisti sprovveduti.

     — Andiamo a comprarci un gelato, così la serata non è del tutto sprecata —

    propongo.

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    propongo.Siamo in coda per il gelato quando sentiamo un rumore: chitarre acustiche e

    un riecheggiare ritmico di bonghi. Mi si rizzano le orecchie e il mio sonar si mettein azione. Salgo in piedi su una panchina lì accanto per dare un’occhiata in giro.Non è come se d’incanto fosse comparso un palco, ma c’è una folla, anche

    piuttosto nutrita, che si è appena materializzata sotto un gruppetto di alberi. — Credo stia per iniziare — dico, afferrando la mano di Melanie. — Ma… il gelato… — si lamenta lei. — Dopo — la blocco, trascinandola verso l’assembramento. — Se musica è d’amore l’alimento, oh, seguitate a suonare.

    Il tipo che recita la parte del Duca Orsino non somiglia ad alcun attoreshakespeariano che abbia mai visto in vita mia, salvo forse a quelli della versionecinematografica di Romeo+Giulietta con Leonardo DiCaprio. Alto, di colore e con idreadlock, è vestito come una star del glam-rock, ovvero aderenti pantaloni invinile, scarpe a punta e una canotta di rete che ne fa risaltare il petto muscoloso.

     — Abbiamo proprio fatto la scelta giusta! — mi sussurra all’orecchio Melanie.

    Mentre Orsino recita il suo monologo d’apertura accompagnato dalla musica dichitarre e bonghi sento un brivido strisciarmi su per la schiena.

    Guardiamo tutto il primo atto, rincorrendo gli attori lungo la banchina delcanale. Quando si spostano ci spostiamo anche noi, cosa che ci fa sentire partedello spettacolo. Forse è questo che lo rende tanto diverso. Shakespeare l’ho già

    visto altre volte. Rappresentazioni scolastiche e qualche allestimento del

    Philadelphia Shakespeare Theatre. Ma mi ha sempre dato l’impressione di sentir

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    p p p precitare in una lingua straniera che non capivo bene. Dovevo sforzarmi perseguire le battute e, la metà delle volte, finivo per leggere e rileggere ilprogramma come se potesse trasmettermi una comprensione più profonda deltesto.

    Questa volta, invece, è un attimo. È come se le mie orecchie entrassero subitoin sintonia con l’idioma desueto e mi sento assorbita completamente dalla storia,come quando guardo un film, e mi faccio coinvolgere. Orsino langue per la gelidaOlivia, e io percepisco nelle viscere lo stesso spasimo che ho provatoinnamorandomi di ragazzi per i quali ero invisibile. E quando Viola piange suo

    fratello comprendo la sua solitudine. Quando poi s’innamora di Orsino, che lacrede un uomo, la situazione è buffa, ma anche commovente.Lui non compare fino al secondo atto. Recita il ruolo di Sebastiano, il fratello

    gemello di Viola, che si pensava morto. E la cosa ha senso perché, quandofinalmente arriva, anch’io sto cominciando a pensare che lui non sia mai esistito,e che io l’ho in qualche modo evocato.

    Mentre corre tra la boscaglia, inseguito dal suo fedele Antonio, anche noi loinseguiamo. Dopo un po’ mi faccio coraggio. — Andiamo più vicino — dico aMelanie. Lei mi afferra la mano e ci intrufoliamo in prima fila, proprio nelmomento in cui il buffone di Olivia va a cercare Sebastiano, i due litigano e diconseguenza il giovane lo caccia via. Subito prima, sembra che per un attimo il

    suo sguardo incroci il mio.

    Mentre la calura della giornata si diluisce nel tramonto e io sono risucchiata nel

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    gmondo illusorio di Illiria, mi pare di essere penetrata in uno strano spazioultraterreno dove tutto può succedere, dove le identità possono essere cambiatecome fossero scarpe. Dove qualcuno che si credeva morto può tornare in vita.Dove tutti ottengono il loro lieto fine. Mi rendo conto che è un po’ trito, ma l’aria

    è dolce e tiepida, gli alberi hanno chiome ricche e folte, i grilli cantano e, per unavolta, mi sembra che possa accadere.

    Lo spettacolo finisce, anche troppo presto. Sebastiano e Viola si ritrovano. Viola rivela a Orsino di essere una donna e, naturalmente, ora lui vuole sposarla.Olivia si rende conto che Sebastiano non è la persona che credeva di aver

    sposato, ma non le importa: lo ama lo stesso. I musicisti attaccano di nuovo asuonare mentre il buffone recita il monologo finale. Poi gli attori escono asalutare, e ciascuno aggiunge una nota un po’ buffa al suo inchino. Uno fa unacapriola. Uno finge di suonare la chitarra. Quando s’inchina Sebastiano, il suosguardo scandaglia il pubblico e si ferma proprio su di me. Fa il suo buffo mezzosorriso, pesca dalla tasca una delle monete di scena e me la lancia. È piuttosto

    buio e la moneta è piccola, ma l’acchiappo al volo e ora sembra che il pubblicobatta le mani anche a me.

    Con la moneta in mano, applaudo. Applaudo fino a che non mi bruciano ipalmi. Applaudo come se così potessi prolungare la serata, trasformare Ladodicesima notte nella Ventiquattresima notte. Applaudo per poter trattenere

    quella sensazione. E perché so cosa accadrà non appena smetto, la stessa cosa

    che mi succede quando finisco di vedere un film che mi è piaciuto molto e che mi

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    q pha fatto dimenticare me stessa: mi sembra di essere ricacciata indietro nella miarealtà e provo un senso di vuoto allo stomaco. A volte guardo di nuovo il filmdall’inizio, per illudermi che il mondo proiettato sullo schermo sia reale. Anche seso bene che non ha alcun senso.

    Ma stasera non c’è modo di ricominciare da capo. Il pubblico si disperde; gliattori se ne vanno. Gli unici del gruppo rimasti sono un paio di musicisti che fannogirare il cappello per raccogliere soldi. Pesco dal portafogli una banconota dadieci sterline.

    Melanie e io restiamo lì una accanto all’altra, in silenzio. — Uau — fa lei.

     — Già. Uau — concordo io. — È stato fantastico. Eppure io odio Shakespeare. Annuisco. — È una mia fantasia, oppure il tipo avvenente di quando eravamo in coda,

    quello che faceva Sebastiano, ci stava provando con noi?Con noi? Ma se la moneta l’ha lanciata a me. Oppure è solo che l’ho presa io?

    Perché non dovrebbe essere stata Melanie, con i suoi capelli biondi e lacanottiera di pizzo scollata, ad attirare la sua attenzione? Mel 2.0, come si èribattezzata: molto più attraente di Allyson 1.0.

     — Non saprei — rispondo. — E ci ha anche lanciato la moneta! A proposito, bella presa. Forse dovremmo

    andare a cercarli. Magari stare un po’ con loro.

     — Se ne sono andati.

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     — Sì, ma quelli sono ancora qui. — Fa un gesto verso i ragazzi che raccolgono isoldi. — Potremmo chiedergli dove si ritrovano dopo lo spettacolo.

    Scuoto la testa. — Dubito che gli interessi andare in giro con delle adolescentiamericane.

     — Non siamo mica stupide, e la maggior parte di loro non sembrava poi tantolontana dall’adolescenza. — No. E poi Miss Foley potrebbe venire a controllare come va. Dobbiamo

    tornare in albergo.Melanie alza gli occhi al cielo. — Ma perché fai sempre così?

     — Così come? — Dici sempre di no. Come se fossi contraria per principio all’avventura. — Non dico sempre di no. — Nove volte su dieci. Stiamo per iniziare l’università. Godiamoci un po’ la vita. — Io me la godo eccome — ribatto asciutta. — E finora non ti ha dato alcun

    fastidio.

    Melanie e io siamo amiche del cuore da quando la sua famiglia si è trasferitadue case più in giù della nostra, l’estate prima della seconda elementare. Daallora abbiamo sempre fatto tutto insieme: abbiamo cambiato i denti nello stessoperiodo, abbiamo avuto le mestruazioni nello stesso anno, addirittura i nostriprimi fidanzatini sono arrivati in tandem. Io ho iniziato a uscire con Evan qualche

    settimana dopo che lei ha cominciato a stare con Alex (che era il migliore amico

    di Evan), anche se lei e Alex si sono mollati a gennaio e, invece, io e Evan

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    abbiamo retto fino ad aprile. Abbiamo trascorso così tanto tempo insieme da sviluppare un linguaggio

    segreto, fatto di battute e sguardi che capiamo solo noi due. Abbiamo litigato unmucchio di volte, naturalmente. Siamo tutte e due figlie uniche, perciò ogni tanto

    ci comportiamo come fossimo sorelle. Una volta abbiamo addirittura rotto unalampada durante una lite. Però non è mai stato così come ora. Non sono neppuresicura di cosa voglia dire “così”. So solo che, da quando siamo in viaggio, lacompagnia di Melanie mi fa sentire come se stessi perdendo una gara a cui nonmi ero neppure accorta di partecipare.

     — Però sono venuta qui, stasera — sottolineo con tono teso e difensivo. — Eho mentito a Miss Foley. — Giusto? E ci siamo divertite un mondo! E allora perché non continuiamo?Scuoto la testa.Lei fruga nella borsa, tira fuori il telefono e scorre i messaggi. — Anche Amleto

    è appena finito. Craig dice che Todd ha portato la banda in un pub che si chiama

    Dirty Duck. Mi piace l’idea. “Uscite con noi” dice. “Ce la spassiamo.” Il fatto è che ci sono già andata con Melanie e tutto il gruppo una volta, circa

    una settimana dopo la partenza. A quel punto, loro erano usciti insieme in unpaio di occasioni. E anche se lei conosceva gli altri solo da una settimana – tantoquanto me – scambiava già con loro battute allusive che io non capivo. Ero

    rimasta lì seduta al tavolo stipato, con un bicchiere tra le mani, sentendomi come

    quel bambino sfortunato che deve cambiare scuola a metà dell’anno scolastico.è

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    Guardo l’orologio, che è scivolato sulla mano. Lo ritiro su, a coprire la bruttavoglia rossastra che ho sul polso fin dalla nascita. — Sono quasi le undici, edomani dobbiamo svegliarci presto per prendere il treno. Quindi, se non tidispiace, io riporto la ragazza contraria all’avventura nella sua stanza d’albergo.

     — Quando ho questo tono impettito sembro proprio mia madre. — Bene. Ti accompagno e poi vado al pub. — E se Miss Foley viene a controllare come stiamo?Melanie ride. — Dille che ho avuto un colpo di sole. Ma che ora il sole non c’è

    più. — Si avvia lungo la banchina in direzione del ponte. — Che c’è? Aspetti

    qualcosa?Mi volto a guardare l’acqua, i barconi, che ora si svuotano della calca delpomeriggio. Gli spazzini sono arrivati in forze. La giornata è finita: non torneràpiù.

     — No, non aspetto nulla.

    CAPITOLO DUE

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    Il nostro treno per Londra è alle otto e un quarto: idea di Melanie, così

    sfrutteremo al massimo il tempo per fare shopping. Ma alle sei, quando suona lasveglia, lei si tira il cuscino sulla testa. — Prendiamo il treno dopo — mugola. — No. È già tutto organizzato. Potrai dormire durante il viaggio. E poi hai

    promesso di essere giù alle sei e mezzo per salutare gli altri. — E io ho promessodi salutare Miss Foley.

    Trascino Melanie fuori dal letto e la ficco sotto la parvenza di doccia che c’è inalbergo. Le preparo un po’ di caffè solubile e parlo brevemente con mia madreche è rimasta sveglia fino all’una di notte, l’ora più adatta per comunicare con laPennsylvania. Alle sei e mezzo in punto scendiamo. Miss Foley, come sempre ineans e maglietta Teen Tours! , stringe la mano a Melanie. Poi avvolge me in un

    abbraccio ossuto, mi porge il suo biglietto da visita e mi dice di non esitare a

    chiamarla se ho bisogno di qualcosa mentre sono a Londra. Il suo prossimo giroi i d i fi ll t à h l i i ittà Q i di i i f

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    comincia domenica e, fino alla partenza, sarà anche lei in città. Quindi mi informache ha prenotato un taxi alle sette e mezzo per portarci alla stazione, domandauna volta di più se a Londra qualcuno ci verrà a prendere (sì, verrà qualcuno), miripete ancora che sono una brava ragazza… e mi mette in guardia contro i

    borseggiatori che potrei incontrare in metropolitana.Concedo a Melanie di infilarsi di nuovo a letto per una mezz’ora, e ciò significache salterà l’usuale maquillage e, alle sette e mezzo, carico entrambe sul taxi inattesa. Quando arriva il treno trascino a bordo i bagagli e trovo un paio di postiliberi. Melanie si accascia in quello vicino al finestrino. — Svegliami quandoarriviamo a Londra.

    La fisso per un attimo, ma lei si è rannicchiata contro il vetro e ha già chiusogli occhi. Sospiro, le sistemo la borsetta sotto i piedi e poso la mia felpa sul sedileaccanto al suo per scoraggiare ladri e vecchiacci concupiscenti. Poi mi dirigo versoil vagone ristorante. Ho saltato la colazione dell’albergo e adesso mi brontola lostomaco. Le tempie mi cominciano a pulsare per le prime avvisaglie di un mal di

    testa da fame. Anche se l’Europa è il continente dei treni, durante il viaggio non ne abbiamo

    preso nemmeno uno: solo aerei per le tratte più lunghe e pullman per spostarcitra una tappa e l’altra. Mentre passo da un vagone all’altro, le porte automatichesi aprono con un fruscio appagante e il vagone ondeggia dolcemente sotto i miei

    piedi. Fuori scorre veloce la campagna verde.

    Nel vagone ristorante passo in rassegna le deprimenti opzioni e finisco perdi i l f i tè l t ti ll’ t l li i

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    ordinare un panino al formaggio, un tè e le patatine all’aceto, per le quali ormaiho sviluppato una vera dipendenza. Prendo una lattina di Coca-Cola per Melanie.Metto il tutto in uno di quei contenitori di cartone e sto per tornare al mio postoquando uno dei tavolini accanto al finestrino si apre. Esito un istante. Dovrei

    tornare dalla mia amica. In fondo, però, lei sta dormendo e non gliene importanulla; perciò mi accomodo al tavolino e guardo il paesaggio. La campagnasembra così tipicamente inglese, tutta verde e ordinata, con le sue siepi direcinzione, le pecore a batuffolo che somigliano a nuvole e rispecchiano quelleperennemente presenti in cielo.

     — Una colazione molto confusa.Quella voce. Dopo che, ieri sera, l’ho ascoltata per quattro atti, la riconosco

    subito. Alzo gli occhi e lui è lì, un sorrisetto indolente sul viso che dà l’idea che si sia

    svegliato in questo preciso istante. — Confusa in che senso? — domando. Dovrei essere sorpresa ma, per qualche

    motivo, non lo sono. Devo soltanto mordermi il labbro per non sorridere troppo.Lui non risponde. Va al banco e ordina un caffè. Poi fa un cenno in direzione

    del mio tavolo. Io annuisco. — In tanti sensi — dice sedendosi di fronte a me. — È da espatriati

    d’oltreoceano con il jet lag.

    Guardo il panino, il tè e le patatine. — Un espatriato con il jet lag è così? Come

    metti insieme le due cose?Soffia sul suo caffè Semplice Prima di tutto non sono ancora le nove del

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    Soffia sul suo caffè. — Semplice. Prima di tutto non sono ancora le nove delmattino. Quindi, il tè ha senso. Ma il panino e le patatine? Quella è roba che simangia a pranzo. E non voglio nemmeno parlare della Coca-Cola. — Picchiettasulla lattina con un dito. — Vedi? I tempi sono tutti rimescolati. La tua colazione

    ha il jet lag. A quel punto sono costretta a ridere. — Le ciambelle avevano un aspettodisgustoso — mi giustifico indicando il bancone.

     — Decisamente. È per questo che io mi porto la colazione. — Fruga nella borsae comincia a tirar fuori qualcosa da un pezzo di carta oleata stropicciata.

     — Aspetta, anche quello ha tutta l’aria di essere un panino — dico. — Non esattamente. È pane con hagelslag. — Hac che? — Hach-el-slach. — Apre il panino per farmi vedere. Dentro c’è del burro con

    una specie di granella di cioccolato. — E dici che la mia colazione è confusa? Tu stai mangiando il dessert per

    colazione. — In Olanda a colazione si mangia questo. È molto tipico. Questo, oppureuitsmijter, che poi sarebbero uova fritte con il prosciutto.

     — Non me lo chiederanno all’esame, vero? Perché non so nemmeno da cheparte cominciare per pronunciarlo.

     — Aut-smi-ter. Possiamo esercitarci un po’, più tardi. Questo tuttavia mi porta

    al secondo punto: la tua è una colazione da espatriata. Però, ti prego, mangia.Posso parlare mentre mangi

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    Posso parlare mentre mangi. — Grazie. Sono felice che tu sia multitasking — dico. Poi mi metto a ridere. È

    stranissimo perché sta succedendo così, in maniera del tutto naturale. A quantopare sto flirtando, a colazione. E parlando di colazioni. — E poi, cosa intendi con

    espatriata? — Una che vive fuori dal suo Paese natale. Vedi, tu hai preso un panino. Moltoamericano. E il tè. Molto inglese. Ma poi prendi le patate fritte, o patatine, equelle potrebbero andar bene in tutti e due i casi, però le prendi all’aceto, cosamolto inglese, e le mangi a colazione, che ha proprio un che di molto americano.Più la Coca-Cola a colazione. Coca e patatine: è questo che mangiate a colazionein America?

     — E come fai a sapere che sono americana? — lo provoco. — Escludendo il fatto che eri in un gruppo di turisti americani e che parli con

    un accento americano? — Dà un morso al suo panino con l’hach-che-so-io e beveun altro sorso di caffè.

    Mi mordo di nuovo il labbro per non sorridere troppo. — Esatto. Escluso quello. — Erano gli unici indizi, certo. In realtà, non hai un aspetto particolarmenteamericano.

     — Davvero? — Apro il pacchetto di patatine e un acuto odore di acetoartificiale si spande nell’aria. Gliene offro una. La rifiuta e dà un altro morso al

    suo panino. — Che aspetto ha un’americana?

    Si stringe nelle spalle. — Bionda — dice. — Grosse… — mima le tette. —Lineamenti dolci Agita la mano davanti al viso Carina Come la tua amica

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    Lineamenti dolci. — Agita la mano davanti al viso. — Carina. Come la tua amica. — E io non sono così? — Non so perché faccio una simile domanda. Il mio

    aspetto lo conosco bene: capelli neri, occhi scuri, lineamenti marcati. Nientecurve e non molto in fatto di tette. La mia disinvoltura si spegne un po’. Si sta

    solo ingraziando me per poterci provare con Melanie? — No. — Mi osserva con quei suoi occhi. Ieri mi sembravano scurissimi ma, orache sono più vicina, vedo che possiedono varie tonalità: ci sono del grigio e delmarrone, e addirittura pagliuzze d’oro che danzano in quell’oscurità. — Sai a chiassomigli? A Louise Brooks.

    Lo fisso senza capire. — Non la conosci? La stella del cinema muto?Scuoto la testa. Il cinema muto non mi ha mai appassionato. — Era famosissima negli anni Venti. Americana. Un’attrice incredibile. — E non era bionda. — Vorrebbe essere una battuta, ma non lo sembra.Lui dà un altro morso al panino. Un pezzettino di cioccolato gli resta attaccato

    all’angolo della bocca. — Abbiamo un mucchio di bionde in Olanda. Vedo delbiondo quando mi guardo allo specchio. Louise Brooks era scura. Aveva questiocchi incredibilmente tristi, lineamenti molto definiti e gli stessi capelli che hai tu. — Tocca i suoi capelli, scarmigliati come ieri sera. — Le assomigli moltissimo. Tidovrei semplicemente chiamare Louise.

    Louise. Mi piace.

     — No. Non Louise. Lulù. Era il suo soprannome.Lulù Mi piace ancora di più

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    Lulù. Mi piace ancora di più.Mi porge la mano. — Ciao, Lulù, io sono Willem.Ha la mano calda e una stretta decisa. — Felice di conoscerti, Willem. Anche

    se potrei chiamarti Sebastiano, visto che stiamo adottando nuove identità.

    Quando ride, piccole rughe gli fioriscono intorno agli occhi. — No. PreferiscoWillem. Sebastiano è un po’… come dire… passivo, se ci pensi bene. Si sposa conOlivia, che in realtà vorrebbe rivedere sua sorella. Succede spesso inShakespeare. Le donne perseguono i loro scopi e gli uomini finiscono in baliadegli eventi.

     — Non so. Mi ha fatto piacere che tutti, ieri sera, abbiano avuto il loro lietofine.

     — Oh, è una bella favola, ma è solo questo: una bella favola. D’altronde,immagino che Shakespeare debba concedere ai personaggi delle sue commedie illieto fine, visto che nelle tragedie è tanto crudele. Voglio dire: pensa ad Amleto;o a Romeo e Giulietta. È quasi sadico. — Scuote la testa. — Sebastiano è a posto,

    ma non è realmente padrone del suo destino. Shakespeare accorda questoprivilegio al personaggio di Viola. — E tu, invece, sei padrone del tuo destino? — domando. E, di nuovo, mi

    ascolto e quasi non riesco a crederci. Quando ero piccola frequentavo la pista peril pattinaggio sul ghiaccio del quartiere. Nella mia immaginazione, mi sentivo

    capace di fare salti e piroette, ma quando mi avventuravo sui pattini riuscivo a

    malapena a tenere dritte le lame. Crescendo, la stessa cosa mi è successa con lepersone: nella mia mente sono coraggiosa e diretta ma quello che mi esce fuori

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    persone: nella mia mente sono coraggiosa e diretta, ma quello che mi esce fuorisembra sempre mite e compito. Anche con Evan, che è stato il mio ragazzo perquasi tutte le superiori, non sono mai riuscita a essere quella persona capace dipattinare, saltare e piroettare come avrei tanto desiderato. Oggi, a quanto pare,

    so pattinare. — Oh, no, no davvero. Io vado dove mi porta il vento. — Fa una pausa perrifletterci su. — Forse c’è un motivo per cui recito Sebastiano.

     — E ora, dove ti porta il vento? — chiedo, sperando che si trattenga a Londra. — Da Londra prendo un altro treno che mi porta in Olanda. Ieri sera è stata la

    fine della stagione per me.Mi affloscio. — Oh. — Non hai mangiato il tuo panino. Ti avverto che, qui, nei panini al formaggio

    ci mettono il burro. Quello finto, voglio dire. — Lo so. — Estraggo le fette di pomodoro ormai mollicce e tolgo un po’ del

    burro/margarina in eccesso con il tovagliolo di carta.

     — Sarebbe più buono con la maionese — mi dice Willem. — Solo se ci fosse il tacchino. — No. Formaggio e maionese è buonissimo. — Suona rivoltante. — Solo se non hai mai assaggiato una maionese come si deve. Ho sentito dire

    che quella che c’è in America non è la maionese giusta.

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    spalle e si lascia cadere nel sedile di fianco a Willem. — Bene. Chiamati comevuoi. Io vorrei solo avere una testa nuova.

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    vuoi. Io vorrei solo avere una testa nuova. — Non ha ancora fatto il callo ai postumi della sbronza — spiego a Willem. — Sta’ zitta — scatta Melanie. — Perché? Preferisci che dica che per te è una vecchia abitudine?

     — Sei davvero petulante stamattina. — Ecco. — Willem fruga nello zaino, ne estrae un tubetto bianco e fa cadereun paio di palline candide nel palmo di Melanie. — Mettile sotto la lingua per farlesciogliere. Tra poco ti sentirai meglio.

     — Che roba è? — domanda lei sospettosa. — È a base di erbe. — Sei sicuro che non sia una di quelle droghe pre-stupro? — Certo. Vuole farti perdere i sensi nel bel mezzo del treno — commento.Willem le mostra l’etichetta. — Mia madre è un medico naturopata. Le usa per

    le emicranie. Di certo non per stuprarmi. — Ehi, anche mio padre è un medico — intervengo. Anche se è l’esatto

    opposto di un naturopata: lui è uno pneumologo. Medicina occidentale fino almidollo.Melanie esamina le pillole per un attimo e finalmente se le mette sotto la

    lingua. Dieci minuti dopo, quando il treno entra sbuffando in stazione, il suo maldi testa sta già migliorando.

    Come per un silenzioso accordo sbarchiamo insieme dal treno: Melanie e io

    con i nostri trolley sovraccarichi e Willem con uno zaino di dimensioni contenute.Ci facciamo strada lungo il binario nel sole già cocente dell’estate, e poi nel fresco

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    Ci facciamo strada lungo il binario nel sole già cocente dell estate, e poi nel frescorelativo di Marylebone Station.

     — Veronica ha mandato un messaggio per avvertire che è in ritardo —m’informa Melanie. — Dice di incontrarci da WHSmith. Qualsiasi cosa sia.

     — È una libreria — spiega Willem indicando un punto dall’altra parte dell’atrio.L’interno della stazione è grazioso e ricoperto di mattoni rossi, ma resto un po’ delusa che non sia l’edificio imponente che mi aspettavo di trovare, con ilpannello di arrivi e partenze a lettere scorrevoli. Al suo posto c’è solo un monitortelevisivo che segnala gli orari di partenza. Vado a guardarlo da vicino. Ledestinazioni sono tutt’altro che esotiche: posti come High Wycombe e Banbury,che magari saranno anche molto carini, per quello che ne so. È sciocco, in fondo.Ho appena finito di fare il giro delle più grandi città europee – Roma, Firenze,Praga, Vienna, Budapest, Berlino, Edimburgo, e ora di nuovo Londra – e, perquasi tutto il viaggio, ho contato i giorni che mi separavano dal ritorno a casa.Non so proprio perché, così all’improvviso, dovrebbe prendermi il desiderio di

    vagabondare. — Cosa c’è che non va? — mi domanda Melanie. — Oh, speravo in uno di quei grandi pannelli delle partenze, come quelli che ci

    sono in certi aeroporti. — Ce n’è uno alla stazione centrale di Amsterdam — dice Willem. — Mi piace

    molto piazzarmi lì davanti e immaginare di poter scegliere un posto a caso e

    partire. — Davvero? In questo momento mi sta capitando la stessa cosa!

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    q p — Cosa? — domanda Melanie, studiando il monitor. — Non ti piace l’idea di

    andare a Bicester Nord? — Non è proprio eccitante quanto Parigi — le rispondo.

     — Ma dai! Non starai mica ancora recriminando per quella storia? — si rivolgea Willem. — Dopo Roma dovevamo andare a Parigi, ma i controllori di volo hannoindetto uno sciopero, le partenze sono state cancellate, e la città era troppolontana per arrivarci in pullman. È ancora arrabbiata per quello.

     — Scioperano sempre per qualcosa, in Francia — concorda Willem, con uncenno del capo.

     — Hanno sostituito Parigi con Budapest — spiego. — Mi è piaciuta, Budapest,ma non posso credere di essere così vicino a Parigi e di non andarci.

    Lui mi fissa pensieroso. Arrotola una cinghia dello zaino intorno al dito. — Allora vacci — dice.

     — Dove?

     — A Parigi. — Non posso. La tappa è stata cancellata. — Vacci ora. — Il viaggio è finito. E poi, probabilmente c’è ancora lo sciopero. — Puoi andarci in treno. Ci vogliono due ore, da Londra a Parigi. — Guarda il

    grande orologio sulla parete. — Potresti arrivare a Parigi per l’ora di pranzo. A

    proposito, laggiù fanno dei panini molto più buoni. — Ma… non parlo francese. Non ho una guida. Non ho neppure denaro

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    p g ppfrancese. Usano gli euro là, vero? — Accampo ragioni come se fossero quelle ilvero motivo per il quale non posso andare quando, in realtà, è come se Willemmi suggerisse di salire su un razzo diretto sulla Luna. Lo so che l’Europa è piccola

    e c’è gente che fa cose del genere. Ma io no.Mi sta ancora fissando, con la testa lievemente inclinata. — Non funzionerebbe — concludo. — Non so niente di Parigi.Willem lancia uno sguardo all’orologio sul muro della stazione. Poi, dopo una

    breve pausa, si volta verso di me. — Io la conosco bene, Parigi.Il mio cuore comincia a fare assurdi sobbalzi ma la mia mente, sempre

    razionale, continua a elencare le ragioni per cui la cosa non può funzionare. —Non so se ho abbastanza soldi. Quanto costa il biglietto? — Frugo nella borsa percontare il denaro che mi è rimasto. Ho qualche sterlina per superare il finesettimana, una carta di credito per le emergenze, una banconota da cento dollariche la mamma mi ha dato per le emergenze assolute, in caso la carta di credito

    non funzioni. Ma questa proprio non si può definire un’emergenza. E se utilizzassila carta, i miei genitori lo verrebbero a sapere e si preoccuperebbero.Lui infila una mano in tasca e ne estrae una manciata di valuta straniera. — Di

    questo non ti preoccupare. È stata un’estate proficua.Fisso le banconote che stringe in mano. Davvero farebbe una cosa simile?

    Portarmi a Parigi. E perché poi?

     — Abbiamo i biglietti per vedere Let it Be, domani sera — dice Melanie,assumendosi il ruolo di Voce della Ragione. — E partiamo domenica. E tua madre

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    g pdarebbe di matto. Davvero, ti ucciderebbe.

    Guardo Willem, ma lui si stringe nelle spalle, come se non potesse negare chesia vero.

    E io sto per lasciar perdere e ringraziarlo dell’offerta, poi però è Lulù aprendere in mano la situazione, perché mi giro verso Melanie e le dico: — Nonpuò uccidermi se non lo scopre.

    Lei fa un verso sprezzante: — Tua madre? Lo scoprirà di sicuro. — Non lo farà, se tu mi copri.Non dice nulla. — Per favore. Io ti ho coperto un sacco di volte in questo viaggio.Melanie sospira drammatica. — Ma io sono andata al pub. Non in un’altra

    nazione. — Hai appena finito di criticarmi perché non faccio mai colpi di testa di questo

    tipo.

     A quel punto non sa cosa rispondermi. Cambia tattica. — Come faccio acoprirti, se chiama sul mio cellulare per parlare con te? E lo farà di sicuro. Sai chelo farà.

    La mamma si è arrabbiata moltissimo perché qui il mio cellulare nonfunzionava. Ci avevano detto che era tutto a posto e, quando si è scoperto chenon era così, lei è andata su tutte le furie e ha chiamato la società di telefonia

    ma, a quanto pare, non c’era nulla da fare, era un problema di banda noncompatibile. Non è stato così grave, in fondo. Lei aveva una copia del nostro

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    itinerario e sapeva a che ora poteva chiamarmi al telefono dell’albergo in cuipernottavamo; e quando non ci riusciva chiamava sul cellulare di Melanie.

     — Potresti tenere il telefono spento, così parte la segreteria — suggerisco.

    Guardo Willem che ha ancora la mano piena di banconote. — Sei proprio sicuro divolerlo fare? Credevo che dovessi tornare in Olanda. — Anch’io. Ma forse i venti mi sospingono in un’altra direzione.Mi volto verso Melanie. A questo punto, la cosa dipende da lei. Scruta Willem,

    strizzando gli occhioni verdi. — Se stupri o uccidi la mia amica io uccido te.Lui fa un verso sprezzante. — Voi americani siete così violenti. Io sono

    olandese. Il peggio che le posso fare è investirla con la bicicletta. — Dopo esserti fumato una canna! — aggiunge Melanie. — D’accordo, forse c’è anche questa possibilità — ammette Willem. Poi mi

    guarda e un fremito mi attraversa. Ho davvero il coraggio di farlo? — Allora, Lulù? Cosa ne dici? Vuoi andare a Parigi? Per un giorno soltanto?

    È una follia. Non lo conosco neanche. Mi potrebbero scoprire. E quanto riusciròa vedere di Parigi in un solo giorno? Potrebbe andare tutto storto, in tanti modi. Èla verità. Lo so. Ma non modifica il fatto che ci voglio andare.

    Così, questa volta, invece di dire di no provo a fare una cosa diversa.Dico di sì.

    CAPITOLO TRE

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    L’Eurostar è un treno con il muso schiacciato, giallo e schizzato di fango e,quando riusciamo a salirci, sono già sudata e senza fiato. Da quando ho salutatoMelanie, scambiando rapide informazioni sui reciproci progetti e sul posto doveincontrarci domani, Willem e io non abbiamo fatto altro che correre. Fuori daMarylebone. Lungo le strade affollate di Londra e dentro la metropolitana, doveho litigato con il tornello d’ingresso che si è rifiutato di aprirsi per ben tre volte equindi finalmente lo ha fatto, per poi richiudersi di scatto sulla mia valigia

    facendo volare la targhetta di Teen Tours! sotto il distributore automatico deibiglietti. — Ora sono davvero clandestina — ho detto scherzando a Willem.Nella cavernosa stazione di St Pancras, Willem mi ha mostrato il pannello delle

    partenze con le lettere scorrevoli, prima di sgomitare fino alla fila per i bigliettiEurostar, dove ha esercitato tutto il suo fascino sull’addetta allo sportello percambiare il suo biglietto per l’Olanda con uno per Parigi e poi ha usato troppe

    delle sue sterline per comprare il mio. A quel punto siamo corsi a fare il check-inmostrando i passaporti. Per un attimo mi sono preoccupata del fatto che Willem

    ù è

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    vedesse il mio passaporto, che non appartiene a Lulù, ma a Allyson, cioè, nonsemplicemente a Allyson, ma a una Allyson di quindici anni e in piena crisiacneica. Ma non lo ha visto e siamo scesi in una sala d’aspetto futuristica, giusto

    in tempo per risalire e imbarcarci sul treno.Solo quando siamo finalmente seduti in treno, nei posti assegnati, riprendofiato e mi rendo conto di quel che ho fatto. Sto andando a Parigi. Con questosconosciuto.

    Fingo di darmi da fare con la valigia mentre lo guardo di sottecchi. Ha un visoche mi fa pensare a quegli accostamenti di vestiti con cui solo alcune ragazzeriescono a star bene: pezzi scompagnati che da soli non dicono niente, mainsieme funzionano a meraviglia. I lineamenti spigolosi sono forti, quasi taglienti,ma le labbra sono carnose e rosse, e le guance sono mele rosate abbastanza dafarci una torta. Ha un’aria insieme giovane e adulta, ispida e delicata. Non è belloalla maniera di Brent Harper, eletto “Il Più Bello” dell’ultimo anno di scuola, cioè

    in modo ovvio. Però non riesco a smettere di guardarlo. A quanto pare non sono la sola. Un paio di ragazze con gli zaini in spallapercorrono il corridoio, con quegli occhi scuri e un po’ appannati che sembranodire “Noi mangiamo sesso a colazione”. Nel passare, una di loro sorride a Willeme gli lancia una battuta in francese. Lui risponde, in francese, e l’aiuta a issare lavaligia sul portabagagli. Le ragazze si siedono dall’altra parte del corridoio, nella

    fila dietro di noi; la più bassa dice qualcosa e tutti ridono. Vorrei chiedere cos’hadetto ma, di colpo, mi sento tremendamente piccola e a disagio, come se fossi

    f l l d b b l d l G d l

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    stata confinata al tavolo dei bambini nel pranzo del Giorno del Ringraziamento.Se solo alle superiori avessi studiato francese. Volevo farlo, a quattordici anni,

    ma i miei genitori mi hanno convinta a scegliere il cinese. «Questo sarà il secolo

    della Cina; avrai migliori possibilità di competere se parli la loro lingua» mi avevadetto la mamma. “Competere per cosa?” mi ero chiesta. Però studio il cineseormai da quattro anni e lo riprenderò il mese prossimo, quando inizieròl’università.

    Sto aspettando che Willem si sieda ma, invece, lui guarda prima me poi leragazze francesi che, sistemati i loro bagagli, si stanno allontanando disinvoltelungo il corridoio.

     — I treni mi fanno venire fame. E tu non hai più mangiato il tuo panino — dice. — Andrò al vagone ristorante a procurare provviste. Tu cosa vorresti, Lulù?

    Lulù probabilmente vorrebbe qualcosa di esotico. Fragole ricoperte dicioccolato. Ostriche. Allyson è più un tipo da panino con il burro di arachidi. Non

    so cosa mi andrebbe. — Qualsiasi cosa va bene.Lo guardo allontanarsi. Prendo una rivista dalla tasca del sedile e leggo un po

    di notizie sul treno: il Tunnel della Manica è lungo cinquanta chilometri. È statoaperto nel 1994 e ci sono voluti sei anni per completarlo. La velocità massimadell’Eurostar è di trecento chilometri all’ora, che equivale a centottantasei miglia

    orarie. Se fossi ancora con Teen Tours! questo sarebbe il genere di nozioni stileTrivial Pursuit che Miss Foley ci leggerebbe da una delle sue schede. Metto via lai i t

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    rivista.Il treno comincia a muoversi, anche se in modo così dolce che solo quando

    vedo il marciapiede allontanarsi mi rendo conto che siamo partiti. Sento il fischio

    del locomotore. Fuori dal finestrino le imponenti arcate della stazione di StPancras salutano scintillando, poi ci tuffiamo in una galleria. Passo in rassegna ilvagone. Tutti hanno l’aria felicemente occupata: leggono riviste, scrivono sui loroportatili, mandano messaggi con il cellulare, parlano al telefono oppure con i lorocompagni di viaggio. Sbircio oltre lo schienale, ma di Willem non c’è traccia.Neppure le ragazze francesi sono ancora tornate.

    Riprendo in mano la rivista e scorro la recensione di un ristorante senza capireuna parola. Trascorrono altri minuti. Adesso il treno va più veloce e superaarrogante i brutti fabbricati industriali di Londra. Il conducente annuncia la primafermata e un controllore viene a ispezionare il mio biglietto. — C’è qualcuno qui? — chiede indicando il sedile vuoto di Willem.

     — Sì. — Ma le sue cose non ci sono. Non c’è alcun indizio che sia mai statoaccanto a me.Guardo l’orologio. Sono le dieci e quarantatré: quasi un quarto d’ora da quando

    abbiamo lasciato Londra. Pochi minuti dopo ci fermiamo a Ebbsfleet, una stazionemoderna ed elegante. Sale una folla di gente. Un uomo anziano con una valigettasi ferma vicino al posto di Willem, come se avesse intenzione di sedersi, poi

    controlla il suo biglietto e prosegue lungo il corridoio. Con un segnale diavvertimento, le porte si chiudono e ripartiamo di nuovo. Il paesaggio urbano diL d l i il t l d I l t di ti t ll Il t

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    Londra lascia il posto al verde. In lontananza, distinguo un castello. Il trenoinghiotte golosamente la campagna; mi immagino che lasci dietro di sé una sciadi terra smossa. Afferro i braccioli, conficcandoci le unghie come se fossi nella

    prima e infinita discesa delle montagne russe da voltastomaco su cui Melanieadora trascinarmi. Anche se il condizionatore è al massimo, una fila di gocciolinedi sudore m’imperla la fronte.

    Il nostro treno ne incrocia un altro che viene in direzione contraria, con unfragore improvviso dovuto allo spostamento d’aria. Sobbalzo sul sedile. Un attimodopo il convoglio ci oltrepassa a tutta velocità. Ho l’assurda sensazione che a

    bordo ci sia Willem. Cosa impossibile. Avrebbe dovuto fare una specie di fast-forward fino alla stazione successiva per poterci salire.

    Ma non è nemmeno detto che sia su questo treno.Guardo l’orologio. Sono venti minuti che è andato al vagone ristorante. Il treno

    non si era ancora staccato dal binario. Potrebbe essere sceso insieme a quelle

    ragazze, prima della partenza. Oppure all’ultima stazione. Forse era questo chegli stavano dicendo: “Perché non molli quella pallosa ragazza americana e vienicon noi?” 

    Non è su questo treno.È una certezza che m’investe con lo stesso fragore del convoglio che è passato.

    Ha cambiato idea. Su Parigi. Su di me.

    Quello di portarmi in viaggio è stato un gesto impulsivo, come acquistare glioggettini inutili che i supermercati espongono proprio accanto alle casse, così chetu ti ritrovi fuori senza neanche esserti reso conto di aver appena comprato una

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    tu ti ritrovi fuori senza neanche esserti reso conto di aver appena comprato unascemata.

    Poi un altro pensiero mi assale: e se fosse tutto calcolato? Prendi l’americana

    più sempliciotta che trovi e attirala su un treno, poi mollala lì e manda… che so…dei malintenzionati a derubarla? La mamma ha registrato una cosa del genere daun programma di giornalismo d’inchiesta. E se fosse per questo motivo che miguardava ieri sera? E se mi avesse cercato apposta, stamattina, sul treno daStratford-upon-Avon? Non avrebbe potuto scegliere una preda più facile. Ho vistoabbastanza documentari di Animal Planet per sapere che i leoni attaccano

    sempre le gazzelle più deboli.Eppure, per quanto irreale appaia, questa ipotesi in un certo senso contiene un

    fondamento rassicurante. Il mondo è di nuovo coerente. Almeno, così sispiegherebbe il motivo per il quale mi trovo su questo treno.

    Un oggetto non identificato mi cade sulla testa; è soffice e crocchiante ma,

    agitata come sono, mi fa sobbalzare.Poi ne arriva un altro. Raccolgo il proiettile: un pacchetto di patatine all’aceto. Alzo gli occhi. Willem ha il ghigno colpevole di uno svaligiatore di banche, per

    non parlare del bottino che gli colma le mani: una tavoletta di cioccolato, trecontenitori di bevande calde assortite, una bottiglia di succo d’arancia, incastratasotto un’ascella, e una lattina di Coca-Cola, sotto l’altra. — Scusa se ti ho fatto

    aspettare. Il vagone ristorante è all’altro capo del treno, non lo hanno apertofinché non siamo usciti dalla stazione e c’era già la coda. Poi non ero sicuro sepreferivi il tè o il caffè perciò te li ho presi tutti e due Dopo mi sono ricordato

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    preferivi il tè o il caffè, perciò te li ho presi tutti e due. Dopo mi sono ricordatodella Coca che stavi bevendo prima, e sono tornato indietro a prenderne una. Inpiù, sulla via del ritorno, sono andato a sbattere contro un belga piuttosto

    irritabile e mi sono versato il caffè addosso, così ho dovuto fare una deviazionefino al bagno, ma credo di aver peggiorato le cose. — Appoggia due delle tazze dicarta e la lattina di Coca sul tavolino del sedile aperto davanti a me. Indica i suoieans, che sfoggiano un’enorme macchia proprio sul davanti.

    Non sono il tipo che ride alle barzellette spinte o alle battute sulle scoregge.Quando Jonathan Spalicki ne ha mollata una alla lezione di fisiologia, l’anno

    scorso, e Mrs Huberman ha dovuto fare uscire la classe in anticipo perché tuttiridevano come degli scemi, l’insegnante mi ha addirittura ringraziato perché erostata l’unica a mostrare un minimo di autocontrollo.

    Perciò non è da me scompormi, solo per una macchia.Eppure, quando apro la bocca per informare Willem che in realtà non mi

    piacciono le bevande gassate e che la Coca di prima era per curare Melanie daldopo sbronza, l’unica cosa che ne esce è un singulto. E una volta che attacco aridere partono i fuochi d’artificio: rido a tal punto che mi manca il fiato. Le lacrimedi paura che minacciavano di sgorgare dai miei occhi ora hanno una buona scusaper inondarmi la faccia.

    Lui sospira e si guarda i pantaloni come a dire “Sì, sì, ho capito”. Agguanta una

    manciata di tovagliolini dal vassoio. — Non credevo che fosse tanto grave — sitampona i jeans. — Secondo te il caffè macchia?

    Le sue parole mi scatenano un’altra crisi di riso Willem resta lì in attesa con

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    Le sue parole mi scatenano un altra crisi di riso. Willem resta lì in attesa, conun paziente sorrisetto di sufficienza. È abbastanza cresciuto da stare allo scherzo.

     — Scusa — ansimo. — Non… ridevo… per le tue… braghe.

    Braghe! Nella sua lezione sulle differenze tra inglese britannico e ingleseamericano, Miss Foley ci aveva informato che gli inglesi definiscono braghe labiancheria intima e pantaloni i calzoni, e che dovevamo stare attenti a parlare dibraghe onde evitare equivoci imbarazzanti. E mentre ce lo diceva era rossa comeun peperone.

    Ora sono piegata in due. Appena riesco a raddrizzarmi vedo una delle ragazze

    francesi che torna indietro lungo il corridoio. Quando passa dietro a Willem gliposa una mano sul braccio e ce la lascia per un secondo. Poi dice qualcosa infrancese prima di infilarsi al suo posto.

    Lui non la guarda neppure. Invece si volta di nuovo verso di me. Nei suoi occhiscuri c’è un’espressione interrogativa.

     — Credevo che fossi sceso dal treno — la confessione scivola fuori con le bolledi champagne del mio sollievo.Oddio! L’ho detto per davvero? La crisi di riso si blocca per la sorpresa. Ho

    paura di guardarlo. Se prima non aveva intenzione di scendere dal treno elasciarmi qui, adesso di sicuro gliel’ho fatto venire in mente.

    Sento il sedile infossarsi quando Willem prende posto e, appena trovo il

    coraggio di sbirciare nella sua direzione, mi stupisco di scoprire che non haun’aria sorpresa o infastidita. Ha solo quel sorrisetto divertito e sornione sullelabbra

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    labbra.Comincia a spacchettare la roba da mangiare e tira fuori dallo zaino una

    baguette un po’ storta. Dopo aver imbandito i tavolini dei sedili mi fissa dritto

    negli occhi: — E perché avrei dovuto scendere dal treno? — domanda infine,canzonandomi con voce scherzosa.Potrei inventare una bugia: perché si era dimenticato qualcosa o perché si era

    reso conto che in realtà doveva proprio tornare in Olanda e non aveva il tempo dispiegarmelo. Qualcosa di assurdo ma meno incriminante. Però non lo faccio.

     — Perché avevi cambiato idea. — Mi aspetto disgusto, sorpresa, compassione;

    invece ha ancora l’aria divertita, anzi, forse adesso anche un po’ incuriosita. E iosento questa vampata inattesa, come se avessi preso una droga, un miopersonale siero della verità. Perciò gli spiattello anche il resto: — Per un attimoho anche pensato che questa storia fosse tutta una truffa e che mi avrestivenduto come schiava del sesso, o qualcosa del genere.

    Lo scruto, chiedendomi se non ho esagerato un po’. Ma lui sorride e siaccarezza il mento. — E come avrei fatto? — domanda. — Non so. Dovresti prima farmi perdere i sensi. Cos’è quella roba che usano?

    Cloroformio? Ne impregnano un fazzoletto, te lo premono sul naso e tu tiaddormenti.

     — Credo che succeda solo nei film. Probabilmente sarebbe più facile rifilarti

    una bevanda drogata, come sospettava la tua amica. — Ma me ne hai portate tre, e una non è neppure aperta. — Prendo la lattina

    di Coca — A proposito non bevo Coca-Cola

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    di Coca. A proposito, non bevo Coca Cola. — Allora il mio piano è fallito. — Fa un sospiro esagerato. — Peccato. Avrei

    potuto farmi un bel po’ di soldi, vendendoti al mercato nero.

     — Quanto credi che potrei valere? — domando, stupita di quanto velocementela paura si è trasformata in una buona scusa per flirtare.Lui mi scruta da capo a piedi, come per soppesarmi. — Be’, dipende da vari

    fattori. — Tipo? — L’età. Quanti anni hai?

     — Diciotto. Annuisce. — Misure? — Cinque piedi e quattro. Centoquindici libbre. Non so com’è con il sistema

    metrico decimale. — Qualche pezzo fuori posto, cicatrici o arti artificiali?

     — Ha importanza? — I feticisti. Pagano di più. — No. Niente arti artificiali o altro. — Poi mi ricordo della mia voglia, che è

    brutta quasi quanto una cicatrice, perciò in genere la nascondo sotto l’orologio.La tentazione che ho, però, è di mostrargliela, esponendo anche me stessa.Sposto l’orologio. — Ho questa.

    Lui la esamina, annuendo con il capo. Poi chiede, in tono casuale: — E seivergine?

    — Il dettaglio aumenta o diminuisce il mio valore?

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      Il dettaglio aumenta o diminuisce il mio valore? — Dipende dal mercato. — Sembra che tu sia molto informato sulla faccenda.

     — Sono cresciuto ad Amsterdam — dice, come se questo spiegasse tutto. — Quindi? Quanto valgo? — Non hai risposto a tutte le domande.Ho una sensazione davvero strana a quel punto, come se stessi tenendo la

    cintura di un accappatoio: posso stringerla di più… o lasciarlo cadere a terra. —No, non lo sono. Vergine.

    Lui annuisce e mi fissa in un modo che mi spiazza. — Sono sicura che Boris resterà deluso — aggiungo. — Chi è Boris? — Il malvivente ucraino che deve fare il lavoro sporco. Tu eri solo l’esca.Ora ride, inclinando il lungo collo all’indietro. Quando riprende fiato, dice: — In

    genere lavoro con i bulgari. — Puoi prendermi in giro quanto vuoi, ma c’era un programma in televisione suquesta faccenda. E non è che ti conosco proprio bene.

    Si blocca, mi fissa e poi attacca: — Venti. Un metro e novanta. Settantacinquechili, l’ultima volta che mi sono pesato. Questa — indica una cicatrice a zig-zagche ha sul piede. Poi mi guarda dritto negli occhi. — E, no.

    Mi ci vuole un minuto per capire che sta rispondendo alle stesse quattrodomande che ha fatto a me. Quando me ne rendo conto, sento una vampata dicalore salire dalla base del collo.

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    calore salire dalla base del collo. — In più, abbiamo fatto colazione insieme. Di solito, quelli con cui faccio

    colazione li conosco bene.

    Ora la vampata di calore è diventata un rossore vero e proprio. Cerco dipensare a qualcosa di spiritoso da ribattere. Ma è difficile essere spiritosa quandouno ti guarda a quel modo.

     — Credevi davvero che ti avrei mollato sul treno? — mi chiede.La domanda è stranamente discordante dopo tutte quelle battute su mercato

    nero del sesso. Ci penso un po’. Credevo davvero che lo avrebbe fatto?

     — Non so — rispondo. — Forse stavo andando un po’ nel panico perché fareuna cosa impulsiva come questa non è da me.

     — Ne sei proprio sicura? — domanda. — Dopo tutto, sei qui. — Sono qui — ripeto. E lo sono. Qui. Su un treno per Parigi. Con lui. Lo guardo.

    Ha di nuovo quel mezzo sorriso, come se in me ci fosse qualcosa che non smette

    mai di divertirlo. E forse per quello, o per il movimento del treno che mi culla, oper il fatto che non lo vedrò mai più dopo questo unico giorno che passiamoinsieme, oppure perché una volta che hai aperto la botola della sincerità non c’èmodo di richiuderla. O forse semplicemente perché è ciò che voglio. Ma lasciocadere l’accappatoio a terra. — Ho pensato che fossi sceso dal treno perchétrovavo difficile credere che ci fossi sopra. Con me. Senza motivazioni nascoste.

    Questa è la verità. Avrò solo diciotto anni, ma mi pare già molto evidente cheil mondo è diviso in due gruppi: quelli che agiscono e quelli che guardano. Quelliai quali le cose accadono e noialtri, che andiamo avanti accontentandoci di ciò

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    ai quali le cose accadono e noialtri, che andiamo avanti accontentandoci di ciòche viene. Le Lulù e le Allyson.

    Non mi era mai venuto in mente che, fingendo di essere Lulù, potevo

    scavallare nell’altra colonna, anche se solo per un giorno.Mi giro verso Willem, per scoprire cosa ha da dire in proposito ma, prima chelui possa reagire, entriamo nel Tunnel della Manica e il treno piombanell’oscurità. Secondo le notizie che ho letto, in meno di venti minuti saremo aCalais e da lì, un’ora dopo, a Parigi. Ma, in questo momento, ho la sensazione chequesto treno non stia solo portandomi a Parigi, bensì in un posto completamente

    nuovo.

    CAPITOLO QUATTRO

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    Parigi

    Ci sono immediatamente dei problemi. Il deposito bagagli nell’atrio sotterraneodella stazione è chiuso: gli inservienti che devono passare le valigie ai raggi Xprima di metterle nel deposito sono in sciopero. Di conseguenza, tutte le cassettedi sicurezza automatiche abbastanza grandi da contenere la mia valigia sonooccupate. Willem dice che, non lontano da lì, c’è un’altra stazione dove possiamoprovare a lasciarla, ma se gli addetti sono in sciopero potremmo incontrare lostesso problema.

     — Me la posso semplicemente trascinare dietro. O buttarla nella Senna. — Stoscherzando, anche se mi attira, l’idea di abbandonare completamente le vestigiadi Allyson.

     — Ho un’amica che lavora in un nightclub qui vicino… — Fruga nello zaino e ne

    estrae un blocchetto di cuoio malconcio. Sto per fare una battuta chiedendo se èil suo libro nero, ma poi vedo i nomi, i numeri e gli indirizzi e-mail che ci sonoscarabocchiati sopra, lui prosegue: — Tiene la contabilità, perciò in genere il

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    p , p g , p gpomeriggio è lì. — E io mi rendo conto che è, effettivamente, un libro nero.

    Dopo aver trovato il numero che cercava tira fuori un cellulare antidiluviano e

    schiaccia un paio di volte il tasto d’accensione. — Niente batteria. Il tuo funziona?Scuoto la testa. — È inutilizzabile in Europa. Salvo che come macchinafotografica.

     — Possiamo andarci a piedi. È qui vicino.Ritorniamo verso le scale mobili. Prima di arrivare alle porte automatiche

    Willem si gira verso di me e chiede: — Sei pronta per Parigi?

    Con tutto quel problema del sistemare il bagaglio mi ero quasi dimenticata chelo scopo della faccenda è Parigi. Di colpo mi sento un po’ nervosa. — Spero di sì — rispondo in tono incerto.

    Usciamo dall’ingresso principale della stazione ed entriamo nel caldo torrido.Strizzo gli occhi, come per prepararmi a una delusione accecante. Perché la verità

    è che, in questo viaggio, praticamente tutti i posti che abbiamo visitato mi hannodeluso. Forse ho visto troppi film. A Roma avrei tanto voluto un’esperienza alla Audrey Hepburn in Vacanze romane, invece la Fontana di Trevi era affollata dituristi, c’era un McDonald’s alla base della scalinata di Piazza di Spagna e lerovine puzzavano di pipì di gatto per via di tutti i randagi che ci bazzicano. Lastessa cosa è accaduta a Praga, dove avrei desiderato un po’ dell’atmosfera

    bohémienne dell’Insostenibile leggerezza dell’essere. Ma non c’erano né artistileggendari né giovani che assomigliassero anche solo lontanamente a Daniel DayLewis. Ho visto un unico tipo dall’aria misteriosa che leggeva Sartre in un caffè,

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    p gg ,ma poi gli è squillato il cellulare e ha attaccato a parlare con un marcato accentotexano.

    E Londra. Melanie e io ci siamo completamente perse nella metropolitana perandare a visitare Notting Hill, ma l’unica cosa che abbiamo trovato è stata unazona lussuosa e residenziale piena di negozi costosi. Niente piccole librerieall’antica né gruppi di amici affettuosi con cui fare cene intime. Pareva quasi checi fosse un collegamento diretto tra la quantità di film che avevo visto ambientatiin una determinata città e il grado di delusione che mi provocava. E su Parigi ne

    ho visti un sacco, di film.La Parigi che mi accoglie fuori dalla Gare du Nord non è quella del cinema. Non

    ci sono né la Torre Eiffel né gli atelier di alta moda. C’è una strada qualsiasi, conuna serie di hotel e uffici di cambiavalute, intasata di taxi e autobus.

    Mi guardo intorno. Noto file e file di vecchi palazzi di un color grigio-

    marroncino. Il loro stile è uniforme e paiono fondersi l’uno nell’altro, con finestree poggioli aperti da cui sgorgano fiori. Proprio di fronte alla stazione, all’angolo didue strade, si fronteggiano due caffè. Nessuno dei due ha un’aria lussuosa, masono entrambi affollatissimi: la gente è ammassata intorno a tavolini rotondi conil piano di vetro, sotto tende e ombrelloni. Sembra così normale, eppure cosìtotalmente diverso.

    Willem e io cominciamo a camminare. Attraversiamo la strada e oltrepassiamouno dei caffè. C’è una donna seduta da sola a uno dei tavolini: beve un vinorosato e fuma una sigaretta, accucciato ai suoi piedi un piccolo bulldog ansante.

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    Quando le passiamo accanto il cane salta su e inizia ad annusare sotto la miagonna, attorcigliando se stesso e me nel guinzaglio.

    La donna deve avere circa l’età di mia madre, ma indossa una gonna corta edespadrillas con la zeppa con i lacci avvolti intorno alle gambe ben tornite. Districail guinzaglio sgridando il cane. Io mi chino a dargli una grattatina dietro l’orecchioe la donna dice una battuta in francese che fa ridere Willem.

     — Cos’ha detto? — chiedo, mentre ci allontaniamo. — Ha detto che il suo cane è come un maiale da tartufi quando si tratta di

    belle ragazze. — Davvero? — Mi sento avvampare di piacere. Il che è un po’ sciocco, visto

    che si trattava di un cane e in più non capisco bene cosa sia un maiale da tartufi.Willem e io costeggiamo un caseggiato pieno di sex shop e agenzie di viaggio

    per poi svoltare l’angolo di un boulevard dal nome impronunciabile, e per la prima

    volta capisco che boulevard è una parola francese e che a casa, negli Stati Uniti,tutte le grandi vie chiamate così sono soltanto strade affollate. Perché questo èun boulevard: un fiume di vita, ampio e grandioso, che fluisce incessante, conuna zona pedonale che corre al centro e, sopra la testa, alberi che si pieganograziosamente gli uni verso gli altri.

     A un semaforo rosso un ragazzo carino che indossa una tuta aderente e guida

    un motorino lungo la pista ciclabile si ferma a guardarmi, esaminandomi dallatesta ai piedi, finché quello dietro non gli suona per farlo spostare.Okay, è successo, diciamo, due volte in cinque minuti. È vero che il primo era

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    un cane, ma l’effetto che mi fa è notevole. Nelle ultime tre settimane è stataMelanie l’oggetto di fischi e commenti, risultato dei suoi capelli biondi e

    dell’abbigliamento provocante mi son detta io, un po’ acida. Una volta o due hoquestionato sulle donne-oggetto, ma Melanie ha alzato gli occhi al cielodichiarando che non era quello il punto.

    Mentre un senso di leggerezza mi fa fluttuare a un palmo da terra, mi chiedose forse non aveva ragione. Forse non è questione di avere un aspettoirresistibile per gli uomini, ma di sentirti come se un determinato posto ti

    notasse, ti strizzasse l’occhio e ti accettasse. È strano perché, fra tutti gli abitantidi tutte le città che ho visitato, avrei giurato che proprio per i parigini io sareirisultata invisibile. A quanto pare, non è così. A quanto pare, a Parigi non solosono capace di pattinare, ma addirittura potrei partecipare alle Olimpiadi!

     — È ufficiale! — dichiaro. — Adoro Parigi!

     — Hai fatto in fretta. — Quando lo sai, lo sai. È appena diventata la città che preferisco al mondo. — Tende a fare quell’effetto. — Dovrei aggiungere che non c’è stata molta competizione, visto che la

    maggior parte dei posti che abbiamo visitato non mi sono piaciuti.Di nuovo, mi esce spontaneo. A quanto pare, quando hai a disposizione un

    solo giorno puoi dire qualsiasi cosa senza preoccuparti delle conseguenze. Questoviaggio è stato un disastro. Che bello poterlo finalmente dire a qualcuno. Perchénon potrei dirlo ai miei genitori, che hanno pagato per quello che, secondo loro,

    ù

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    doveva essere “il viaggio più importante della mia vita”. E non potevo dirlo aMelanie, perché per lei era davvero “il viaggio più importante della sua vita”; e

    tanto meno a Miss Foley, il cui compito era garantire che lo fosse. Ma è così. Hopassato le ultime tre settimane a cercare di divertirmi… e a non riuscirci. — Mi sa che, forse, viaggiare è un talento, come fischiare o danzare —

    continuo. — Alcuni ce l’hanno, per esempio tu. Voglio dire, da quanto tempoviaggi così?

     — Due anni — risponde.

     — Due anni con delle pause?Scuote il capo. — È da due anni che non torno in Olanda. — Davvero? E dovevi tornarci proprio oggi? Dopo due anni? Alza le braccia in aria. — Che differenza fa un giorno in più, dopo due anni?Immagino che per lui ne faccia poca. Ma per me, forse, è diverso. — Questo

    dimostra ciò che ho appena detto. Hai un talento per viaggiare. Io non sonosicura di averlo. Continuo a sentir parlare di come viaggiare ti apra nuoviorizzonti. Non so nemmeno bene cosa voglia dire ma, per quanto mi riguarda,non ha aperto proprio niente perché non sono capace di farlo.

    Resta in silenzio per un po’, mentre attraversiamo un lungo ponte istoriato digraffiti che si allunga sopra una quantità di binari ferroviari. Poi dice: — Viaggiare

    non è una cosa che uno sa fare. È una cosa che uno fa. Come respirare. — Non credo. A respirare me la cavo bene. — Ne sei sicura? Ci hai mai pensato davvero?

    b bil iù di i l i i d è l C i l i

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     — Probabilmente più di tanti altri. Mio padre è pneumologo. Cura i polmoni. — Quel che intendo dire è: hai mai pensato a come lo fai? Giorno e notte?

    Mentre dormi. Mentre mangi. Mentre parli. — No, non tanto. — Pensaci ora. — Come si fa a pensare a come respirare? — Eppure, d’improvviso lo faccio. Mi

    perdo a considerare il respiro, il meccanismo che lo provoca, il motivo per cui ilmio corpo lo sa fare anche se sto dormendo, o piangendo oppure ho un attacco di

    singhiozzo. Cosa succederebbe se all’improvviso il mio corpo se ne dimenticasse?E, guarda caso, in questo preciso momento il mio respiro si fa più affannoso,come se stessi andando in salita, anche se sto camminando nella parte in discesadel ponte.

     — In effetti, a pensarci è strano.

     — Visto? — dice Willem. — Ci hai pensato troppo. La stessa cosa succede con iviaggi. Non puoi rimuginarci troppo se no diventa un lavoro. Ti devi arrendere alcaos. Agli incidenti casuali.

     — Cioè, devo buttarmi sotto un autobus per divertirmi?Ridacchia. — No, non quel genere d’incidenti: le piccole cose che avvengono

    per caso. A volte sono insignificanti; a volte cambiano tutto.

     — Suona molto Jedi. Puoi essere più preciso? — Un ragazzo dà un passaggio a una ragazza che fa l’autostop in un Paeselontano. Un anno dopo lei resta senza soldi e finisce per bussare alla sua porta.S i i d i I id ti li

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    Sei mesi dopo, si sposano. Incidenti casuali. — Per caso hai sposato un’autostoppista?Il suo sorriso si spiega come una vela. — Ti sto facendo degli esempi. — Dimmene uno reale. — Come sai che non è reale? — mi stuzzica. — Okay, questo mi è successo

    davvero: l’anno scorso ero a Berlino. Ho perso il treno per Bucarest e al suo postone ho preso uno per la Slovacchia. Mi sono trovato a viaggiare con un gruppoteatrale; uno dei ragazzi si era appena rotto una caviglia e avevano bisogno di un

    sostituto. Nelle sei ore del viaggio verso Bratislava ho imparato la sua parte.Sono rimasto con il gruppo fino a che la caviglia non è guarita e poi, qualchetempo dopo, ho incontrato alcuni membri di Guerrilla Will. Cercavanodisperatamente qualcuno che fosse in grado di recitare Shakespeare in francese.

     — E tu eri in grado?

     Annuisce. — Sei una specie di genio poliglotta? — Sono solo olandese. Così sono entrato a far parte di Guerrilla Will —

    schiocca le dita — e adesso faccio l’attore.Resto sorpresa. — Avevi l’aria di farlo da parecchio tempo. — No, è solo un caso, una faccenda temporanea. Finché il prossimo incidente

    non mi spedirà in una nuova direzione. È così che funziona la vita.Nel mio petto qualcosa accelera. — Sei proprio convinto che funzioni così? Chela vita possa cambiare di punto in bianco?

    S i t h d i ti i i t

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     — Sono convinto che accadano cose in continuazione, ma se non sei tu ametterti nella loro traiettoria te le perdi. Quando viaggi ti esponi. Non è semprepiacevole. A volte è terribile. Ma altre volte… — alza le spalle e fa un gesto aindicare Parigi, poi mi lancia un’occhiata di sbieco. — Non è affatto male.

     — Basta che non ti fai investire da un autobus — concludo.Ride. Poi mi dà ragione. — Basta che non ti fai investire da un autobus —

    ripete.

    CAPITOLO CINQUE

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     Arriviamo al locale notturno dove lavora l’amica di Willem; sembra deserto, maquando lui bussa alla porta ci apre un uomo alto, dalla pelle così scura da

    sembrare blu. Willem gli parla in francese e, un attimo dopo, lui ci fa entrare inuna grande stanza umida dove ci sono un piccolo palcoscenico, uno strettobancone e un gruppetto di tavolini con le sedie impilate sopra. Willem e ilGigante conferiscono un altro po’ in francese; poi lui si volta verso di me.

     — A Céline non piacciono le sorprese. Forse è meglio se prima scendo io da

    solo. — Certo. — Nella penombra silenziosa la mia voce ha un suono metallico e miaccorgo di sentirmi di nuovo nervosa.

    Willem si dirige a una scala sul fondo del locale. Il Gigante riprende il suolavoro, mettendosi a lustrare bottiglie dietro il bancone del bar. È evidente chenon è informato del fatto che Parigi mi adora. Io mi siedo su uno degli sgabelli al

    banco. Ruotano tutto intorno, come quelli di Whipple, il gelataio da cui andavocon i miei nonni. Il Gigante mi ignora, perciò io giro un po’ in un verso un ponell’altro. Poi, mi sa che prendo troppa velocità: comincio a vorticare e lo sgabellosi stacca dalla base

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    si stacca dalla base. — Oh, merda! Ahi!Il Gigante esce da dietro il bancone e si avvicina a me che sono spalmata per

    terra. Ha in faccia un’espressione di assoluta indifferenza. Tira su lo sgabello e loriavvita al suo posto, poi torna dietro al bar. Io rimango per un attimo sulpavimento, chiedendomi se è più umiliante stare lì o risalire sullo sgabello.

     — Americana?Da cosa si capisce? Dal fatto che sono goffa? E i francesi non lo sono mai,

    goffi? In verità io sono piuttosto aggraziata. Ho studiato danza per otto anni.Dovrei dirgli di aggiustare quello sgabello prima che qualcuno gli faccia causa.No, se dico una cosa del genere suonerò davvero americana.

     — Da cosa lo capisci? — Non so perché mi prendo la pena di chiederglielo. Dalmomento stesso in cui l’aereo è atterrato a Londra è come se avessi un’insegna

    al neon che mi lampeggia sopra la testa:TURISTA, AMERICANA, FORESTIERA

    . Ormai,dovrei averci fatto l’abitudine. Però, dall’arrivo a Parigi mi sembrava che si fosseun po’ attenuata. Evidentemente no.

     — Il tuo amico mi ha detto — spiega. — Mio fratello vive a Roché Estair. — Ah! — E io dovrei sapere dove si trova? — È vicino a Parigi?Ride, una profonda risata di pancia. — No. È a New York. Vicino al grande lago.

    Roché Estair? — Ah! Rochester. — Sì. Roché Estair — ripete. — È molto freddo lassù. Molta neve. Mio fratello sichiama Aliou Mjodi. Magari lo conosci…

    Scuoto la testa Io vivo in Pennsylvania vicino a New York

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    Scuoto la testa. — Io vivo in Pennsylvania, vicino a New York. — Molta neve in Pensivania?Trattengo una risatina. — Sì, ce n’è parecchia in Pennsylvania — rispondo,

    sottolineando la pronuncia. — Ma non quanto a Rochester.Rabbrividisce. — Troppo freddo. Soprattutto per noi. Abbiamo sangue

    senegalese nelle vene, anche se siamo nati tutti e due a Parigi. Ora però miofratello studia computer a Roché Estair, all’università. — Il Gigante sembraandarne molto fiero. — Non gli piace la neve. E dice che, in estate, le zanzare

    sono grandi come quelle del Senegal.Rido.La faccia del Gigante si apre in un sorriso da zucca di Halloween. — Da quanto

    sei a Parigi?Guardo l’orologio. — Ci sono da un’ora e ci starò per un giorno.

     — Un giorno? E perché sei qui? — indica il locale.Gli mostro la valigia. — Ci serve un posto per depositare questa. — Portala di sotto. Non devi perdere il tuo unico giorno qui dentro. Quando il

    sole splende, te lo lasci splendere addosso. La neve è sempre lì in agguato. — Willem mi ha detto di aspettare, perché Céline… — Pfff. — M’interrompe, sventolando una mano. Esce da dietro il bancone e si

    carica con facilità la mia valigia su una spalla. — Vieni, te la porto giù.In fondo alla scala c’è un corridoio buio, zeppo di casse, amplificatori, cavi eproiettori. Si sente qualcuno bussare alla porta di sopra e il Gigante torna su,dicendomi di lasciare il bagaglio nell’ufficio

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    dicendomi di lasciare il bagaglio nell ufficio.Ci sono un paio di porte perciò mi avvicino alla prima e busso. Si apre su una

    stanzetta con una scrivania di metallo, un vecchio computer e una pila di carte.C’è lo zaino di Willem, ma lui no. Torno nel corridoio e sento la voce di una donnache parla velocemente in francese, e poi la voce di lui, che risponde languida.

     — Willem — chiamo. — Ci sei?Lui risponde qualcosa ch