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Anni di plastica
Rifiuti, oggetti abbandonati, scarti che per quanto si tenti di ignorarli, nasconderli e scansarli pervadono le nostre vite di
cittadini-consumatori. Dalle strade delle città ai sentieri naturali, dalle zone industriali alle spiagge, dai corsi d’acqua al
mare poggiano quei beni scartati, ora spazzatura. La moderna società usa-e-getta somiglia sempre di più a Leonia, la
città invisibile di Calvino, che “rifà se stessa tutti i giorni”, dove si è portati ad acquistare di continuo “cose nuovi
fiammanti” e a buttare via “i resti di ieri” con altrettanta regolarità e leggerezza. Spazzatura disordinata che si ammucchia
su spazzatura vecchia. A volte talmente fine e piccola che non è percepibile ad occhio nudo. Rottami orbitano nello
spazio confondendo il cielo; mari lontani su cui si formano isole, resort senza stelle, di spazzatura. Distanza che non è e
non deve essere sufficiente a mantenerci indifferenti ad un problema che cresce nel tempo.
Rifiuti abbandonati agli argini dei fiumi (Foto E. Turicchia)
Rifiuti abbandonati lungo il corso d’acqua (Foto E. Turicchia)
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Il cercatore di conchiglie La temperatura mite spinge a dirigersi verso il mare. D’istinto, il curioso cercatore, passeggiando sul bagnasciuga,
abbassa lo sguardo per vedere quali conchiglie siano state posate dalle onde, ma respirando l’orizzonte, finito il
romanticismo dell’attimo, si accorge di quanta spazzatura vi si trova. Mozziconi di sigarette, scarpe, bottiglie, vetro,
polistirolo, sacchetti di platica, boe sono solo alcuni esempi. Qualsiasi materiale solido abbandonato, scartato o perso in
ambiente marino e costiero è definito rifiuto marino. Esso è una forma di inquinamento non confinata a quello che si può
trovare passeggiando sulla spiaggia, ma che tocca tutti gli oceani assumendo diversi status: rifiuti galleggianti che
solcano le onde, altri che, come meduse, si lasciano trasportare dalle correnti lungo la colonna d’acqua e infine quelli
che sul fondo costituiscono un abbraccio soffocante.
Esempi di rifiuti che si possono trovare su una spiaggia (Foto E. Turicchia)
Inquinamento degli oceani (What lies under Foto F. Rizkiyanto 2011)
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Si tende a credere che i maggiori responsabili della spazzatura presente in mare siano le industrie ittiche e di spedizione.
In realtà solo il 20% degli oggetti trovati può essere collegato direttamente a fonti “d’alto mare” come navi da pesca, navi
da carico o da diporto. Il restante 80% deriva dalla terraferma: si tratta dei rifiuti abbandonati sulle spiagge, di quelli
provenienti da scarichi industriali e agricoli, derivanti da una cattiva gestione dei rifiuti.
La plastica come un diamante Per produrre una bottiglia di plastica ci vogliono ore o giorni a seconda di quando facciamo partire il cronometro del
processo produttivo. Ma quanto tempo trascorrerà prima che un oggetto abbandonato nell’ambiente marino si degradi?
Per una bottiglia o un sacchetto di plastica ci vogliono addirittura centinaia di anni.
Un bicchiere di plastica impiegherà centinaia di anni prima di degradarsi (Foto E. Turicchia)
La parola plastica è usata per descrivere una serie di composti artificiali di diversi colori, forme e dimensioni. Le materie
plastiche sono, infatti, dei polimeri, ossia lunghe catene di molecole, derivanti dal petrolio. Esse hanno caratteristiche,
quali la malleabilità, la durabilità, la leggerezza e l’economicità, che le hanno rese un materiale diffuso e apprezzato.
Tuttavia la leggerezza e la durabilità dal punto di vista ambientale rappresentano una minaccia. La leggerezza permette
alla plastica di galleggiare e lasciarsi così trasportare dalle correnti e dal vento. La durabilità invece è legata al processo
di degradazione. I rifiuti galleggianti di origine biologica sono sottoposti a biodegrazione. Immaginiamo di addentare una
mela in una calda giornata estiva in barca. Finito lo spuntino può capitare che il torsolo cada involontariamente in mare.
Quel torsolo navigherà dai 3 ai 6 mesi prima di biodegradarsi. La plastica di origine petrolchimica anziché biodegradarsi,
si fotodegrada, fatta eccezione per la bioplastica, plastiche che non derivano dal petrolio ma da materie prime rinnovabili
e/o biodegradabili (per esempio da amido di mais, grano o patate). La fotodegradazione è un processo in cui la luce
solare rompe la plastica in pezzi sempre più piccoli, da chicchi di riso a schegge così minute che è necessario un
microscopio per poterle vedere. Per esempio, cosa succede se si lasciano le mollette per il bucato appese al filo per
stendere? Col passare del tempo si osserva che la plastica, di cui sono composte, prima si schiarisce, per poi rompersi
per effetto della luce solare e delle intemperie. La plastica di dimensioni minori a 5 millimetri è definita microplastica.
Esistono due categorie principali di microplastiche: i frammenti di piccole dimensioni che si sono staccati da pezzi più
grandi, come le bottiglie di plastica, tramite la fotodegradazione e l’azione meccanica delle onde; e le piccole sferette di
plastica che vengono aggiunte a prodotti cosmetici con la finalità di dermoabrasione leggera, il famoso scrubs. Diverse
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case cosmetiche negli ultimi anni sono state sensibilizzate su questa problematica e hanno bandito l’uso delle microsfere
nei loro prodotti.
Microplastiche (Foto SEA2 S. Moret)
Microsfere (Foto 5 Gyres Insitute)
Quindi, la possibilità di galleggiare unita ai lunghi tempi di degradazione rendono la plastica persistente ed impattante
per l’ambiente. Le materie plastiche ormai sono presenti in tutti gli oggetti che usiamo quotidianamente, la produzione
mondiale è di circa 200 milioni di tonnellate l’anno. Un numero difficile da comprendere, ma se si pensa che un camion a
pieno carico pesa circa 20 tonnellate, ci vorrebbero 10 milioni di camion per arrivare a un peso tale! Ipotizzando poi una
lunghezza di 12 m per questi camion, mettendoli in fila uno dietro l’altro potremmo compiere quasi 3 volte il giro della
Terra! Cosa ce ne facciamo di tutta questa plastica? Circa metà della plastica prodotta è destinata alla produzione di
articoli monouso o imballaggi che vengono buttati entro un anno. Una volta nell’ambiente bottiglie e sacchetti non
biodegradabili richiedono dai 100 ai 1000 anni per decomporsi a seconda delle dimensioni e delle condizioni ambientali
in cui si trovano. Ogni anno vengono consumati nel mondo da 500 a 1000 miliardi di sacchetti che sono stati usati per
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una media di 10-20 minuti. Molti paesi hanno messo al bando l’utilizzo di sacchetti di plastica monouso non
biodegradabili e stanno favorendo l’uso di sacchetti realizzati con bioplastiche.
Stima dei tempi di degradazione di alcuni oggetti in mare (Riproduzione E. Turicchia)
L’isola che c’è Peter Pan viveva in un’isola dove si resta sempre fanciulli, per arrivarci bisogna seguire la seconda stella a destra poi
dritto fino al mattino. Nel Pacifico esiste invece un’Isola di rifiuti, divisa in due blocchi, tutt’altro che magica. La sua
presenza fu ipotizzata nel 1988 dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), ma fu l’oceanografo
americano Charles Moore ad imbattersi per primo nella Grande chiazza di rifiuti del Pacifico rientrando da una regata
nelle Hawaii. L’isola di rifiuti anche detta zuppa di plastica è tenuta insieme dal Vortice Subtropicale del Nord Pacifico,
una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale tra l’Asia e gli Stati Uniti. Al centro di questo vortice i
rifiuti galleggianti, provenienti principalmente dalla terraferma, trovando una zona relativamente di quiete, si aggregano
tra loro e stazionano in una vasta area del Pacifico, formando un enorme accumulo di spazzatura. La sua estensione
non è certa, non ha confini fisici rigidi e non è possibile una rilevazione aerea o via satellite poiché è composta per l’80%
di piccole particelle di plastica, le microplastiche, in sospensione o appena sotto la superficie dell’acqua. Le stime della
dimensione dell’isola, ricavate attraverso la raccolta di campioni, variano da una superficie maggiore della penisola
Iberica a una maggiore di due volte quella degli Stati Uniti. Le concentrazioni massime di plastica in superficie
raggiungono quota 1 milione di pezzi per chilometro quadrato. Un team di ricercatori della Sea Education ha stimato nel
2012 che il peso della grande chiazza di rifiuti si aggiri sulle 21.000 tonnellate, come ben 132 aerei Boing 747!
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Vortice subtropicale del Nord Pacifico con evidenziate le zone di accumulo di rifiuto (Crediti NOAA)
Rifiuti galleggianti (Crediti Goldstein M et al., MarBio, 2014)
Lo stato dell’arte La plastica è stata inventata nella seconda metà dell’Ottocento e la sua diffusione di massa è avvenuta negli anni ’50, del
secolo scorso ma la scienza che studia i rifiuti in mare è relativamente giovane e molte domande restano ancora senza
risposta. Nel giugno 2014 l’ecologo marino Andreas Cózar e il suo team hanno completato la prima mappa dei rifiuti negli
oceani. Non esiste solo un’isola di spazzatura, ma in corrispondenza dei cinque principali vortici subtropicali si
accumulano decine di migliaia di tonnellate di rifiuti in plastica. Le correnti oceaniche infatti funzionano come nastri
trasportatori convogliando i rifiuti verso i rispettivi nuclei dei vortici dove si contano milioni di pezzi di plastica per
chilometro quadrato. I ricercatori hanno mappato queste isole e rilevato milioni di pezzi di plastica. Tuttavia, si sono
accorti che i conti non quadravano poiché dovevano esserci più pezzi di plastica galleggiante rispetto a quelli
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effettivamente rilevati. Dove sia al momento la plastica mancante è una domanda senza risposta, ma quattro sono le
ipotesi che gli autori formulano: potrebbe essersi depositata a riva, ridotta a particelle così microscopiche da non essere
stata raccolta, depositata in profondità per effetto del biofouling (deposito e accumulo di organismi viventi, unicellulari o
pluricellulari, su una superficie) o infine potrebbe essere stata ingerita dagli organismi marini e quindi entrata nella catena
alimentare. Anche l’effetto che questa plastica avrà nell’ecosistema oceanico rimane un problema aperto.
Mappa mondiale della concentrazione dei rifiuti plastici superficiali ( Crediti Cózar A et al., PNAS, 2014)
Rifiuti plastici (Foto J. Reisnerr)
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Bocconi indigesti Aggrovigliamento e ingestione sono due dei principali tipi di danno diretto agli organismi marini causati dai rifiuti in mare.
L’aggrovigliamento e il conseguente intrappolamento possono accadere per caso o perché l’animale è attratto da un
oggetto come parte del suo comportamento naturale: curiosità, ricerca di cibo o riparo. L’animale può riportare difetti di
crescita o motori, ferite o restare intrappolato perché non in grado di ritrovare la via di uscita. Reti abbandonate (ghost
nets - reti fantasma) trasportate alla deriva dalle correnti a mezz’acqua o sul fondo continuano a catturare pesci e
diventano trappole per i mammiferi e le tartarughe marine in cerca di cibo.
Le reti da pesca abbandonate possono essere una minaccia non solo
per i pesci ma anche per mammiferi e rettili marini (Foto NOAA)
L’ingestione di rifiuti invece avviene perché generalmente gli animali li confondono per cibo. Le tartarughe marine per
esempio sono ghiotte di meduse. Le vedono danzare delicate nell’acqua e non possono resistere ad un tale boccone.
Ma un sacchetto di plastica fluttua proprio come farebbe una medusa diventando una potenziale minaccia per la vita
della tartaruga. L’ingestione di un sacchetto infatti può occludere l’intestino e nei casi più gravi portare alla morte
dell’esemplare.
Somiglianza tra sacchetto di plastica e medusa (Foto NOAA)
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Un sacchetto di plastica in mare può essere facilmente confuso con una medusa (Crediti foto ignoti)
Inoltre, le microplastiche possono essere confuse con pesci allo stadio larvale, uova, piccoli granchi. Pesci e uccelli le
mangiano per errore. Piccole plastiche possono accumularsi nel tratto digerente provocando una fasulla sensazione di
sazietà nell’animale che non è più stimolato a procacciarsi il cibo con conseguente malnutrizione. I piccoli pesci inoltre
sono un anello importante della catena alimentare. Da un lato essi si cibano involontariamente di plastica e dall’altro
sono fonte di cibo per predatori più grandi. La plastica così si trasferisce lungo la rete trofica.
Tartaruga marina mentre mangia plastica (Crediti foto ignoti)
Ulteriori danni all’ambiente marino ed ai suoi abitanti sono provocati da quella spazzatura che rovina l’habitat costiero. Le
reti fantasma possono dragare il fondo, per esempio i reef corallini, perturbando la flora e la fauna che in esso vive. In
acque basse, i rifiuti impediscono in parte ai raggi solari di penetrare inibendo il processo fotosintentico di piante e alghe.
I materiali plastici possono poi accumulare inquinanti come i PCB (policlorobifenili, inquinanti persistenti caratterizzati da
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una bassa solubilità in acqua) ad alte concentrazioni, da 100.000 a 1.000.000 volte maggiori dei livelli riscontrati in acqua
di mare. È stato rilevato infine che i materiali fluttuanti sono spesso colonizzati da altri organismi come piccoli crostacei,
alghe e batteri. Le correnti oceaniche li trasportano in aree dove sono assenti facendosi così vettori di specie aliene
(specie vivente che colonizza un territorio diverso dal suo areale).
A cura di Eva Turicchia