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1 CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Osservatorio Strategico 2018 N. 2

Osservatorio Strategico - Ministry of Defence · Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce, nell’ambito e per conto della Difesa,

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CENTRO ALTI STUDI

PER LA DIFESA

CENTRO MILITARE

DI STUDI STRATEGICI

Osservatorio

Strategico 2018

N. 2

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Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce,

nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette

di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili

per dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi

che le Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale, si pongono in tema di sicurezza e

difesa.

La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di

svolgere un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza

scientifica interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto

culturale favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle problematiche di difesa e

sicurezza, sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di riferimento.

Più in dettaglio, il Centro:

effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;

sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri

ed Amministrazioni Pubbliche;

forma ricercatori scientifici militari;

promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;

pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.

Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze

conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni

il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e

difesa.

Il CeMiSS svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che sono

lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.

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OsservatorioStrategico

2018N. 2

CENTRO ALTI STUDIPER LA DIFESA

CENTRO MILITAREDI STUDI STRATEGICI

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Osservatorio StrategicoAnno XX numero II - 2018

NOTA DI SALVAGUARDIA

Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dei singoli autori, e non quello delMinistero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessiappartengono.

NOTE

Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file .PDF) e nel formato E-Book(file .epub) al seguente link:http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/OsservatorioStrategico/Pagine/default.aspx

Osservatorio Strategico 2018

Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

DirettoreCA. Arturo FARAONE

Vice Direttore Capo Dipartimento Monitoraggio StrategicoCol. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Marco Francesco D’ASTA

Progetto graficoMassimo Bilotta - Roberto Bagnato

AutoriClaudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Francesca Citossi, Marco Cochi, Raffaella Di Chio, Fabio Indeo, Gianluca Pastori, Luca Puddu, Paolo Quercia

Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

Centro Militare di Studi StrategiciDipartimento Monitoraggio Strategico

Palazzo SalviatiPiazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

tel. 06 4691 3204 - fax 06 6879779e-mail [email protected]

Chiuso ad gennaio 2019 - Stampato ad gennaio 2019

ISBN 978-88-99468-88-0

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Osservatorio StrategicoIndice

Euro/Atlantica (USA-NATO-Parteners) 8Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per l’Europa?Gianluca Pastori

Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico 13L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di LeadershipClaudio Catalano

Balcani e Mar Nero 20Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione del conflitto russo – ucraino?Paolo Quercia

Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele 26Israele ed Egitto: la soluzione per gli attacchi da Gaza passa dalla Siria. Tunisia: un difficile contrasto al terrorismo.Claudio Bertolotti

Sahel e Africa Subsahariana 30Origini e sviluppi della crisi nella regione anglofona del CamerunMarco Cochi

Corno d’Africa e Africa Meridionale 36La guerra all’Al Shabaab in Kenya e SomaliaLuca Puddu

Russia, Asia centrale e Caucaso 44La conferenza di pace sull'Afghanistan: il “regionalismo” russoFabio Indeo

Asia meridionale ed orientale 50Corea del Nord: nuovi ostacoli allontanano la distensionedi Claudia AstaritaClaudia Astarita

America Latina 54La risposta agli effetti del cambiamento climatico nell’America Latina nel quadro della cooperazioneinternazionaleRaffaella Di Chio

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Area Tematica

La sfida del cambiamento climatico

Euro/Atlantica (USA-NATO-Parteners) 59Gianluca Pastori

Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico 61Claudio Catalano

Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele 63Claudio Bertolotti

Sahel e Africa Subsahariana 65Marco Cochi

Golfo Persico 67Francesca Citossi

Corno d’Africa e Africa Meridionale 69Luca Puddu

Russia, Asia centrale e Caucaso 72Fabio Indeo

Asia meridionale ed orientale 76Claudia Astarita

Sotto la lente

Movimenti di popolazione e questioni di sicurezza nel contesto dell’accesso dei Paesidei Balcani Occidentali all’area Schengen 79Paolo Quercia

Lista degli acronimi 81

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Osservatorio

Strategico

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Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) Gianluca Pastori

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 8

Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per

l’Europa?

Le elezioni statunitensi di midterm dello scorso 6 novembre non sono state, per molti aspetti,

l’evento traumatico che da alcune parti era stato pronosticato. Come era prevedibile, il Partito

democratico è riuscito a conquistare una maggioranza significativa alla Camera dei rappresentanti,

strappandola ai repubblicani che la detenevano dal voto di midterm del 2010. Di contro, il Partito

repubblicano è riuscito a consolidare la già problematica presa sul Senato, delineando così uno

scenario di “governo diviso” (“divided government”) potenzialmente foriero di una rinnovata

instabilità. L’attesa “onda blu” non sembra, quindi, essersi manifestata anche se la consultazione ha

confermato, sotto molti aspetti, il carattere di un referendum pro o contro l’attuale Presidente che

diversi osservatori le avevano attribuito alla vigilia. Al momento, non è ancora possibile quantificare

con esattezza l’entità del successo democratico, dal momento che diversi seggi risultano ancora

contestati. Come accaduto anche in passato, in diversi Stati è stato, infatti, necessario procedere al

riconteggio dei voti, sia per gli organi federali, sia per quelli locali. L’ultimo seggio del Senato è stato

confermato solo il 28 novembre, in Mississippi, a vantaggio della repubblicana Cindy Hyde-Smith,

candidata nell’elezione speciale destinata a confermarne il ruolo di sostituto al posto lasciato vacante

per motivi di salute dal predecessore, Thad Cochran.

Con la conferma della Hyde-Smith, gli equilibri del Senato sono, quindi, oggi, di 53 a 47 a

favore del Partito repubblicano, che prima del voto, dopo il risultato a sorpresa delle suppletive in

Alabama del dicembre 2017 (in cui il democratico Doug Jones aveva superato il rivale repubblicano

Roy Moore in una delle tradizionali roccaforti del Grand Old Party), deteneva una risicata

maggioranza di 51 a 49. E’ un risultato che consolida non soltanto il partito ma – a detta di vari

osservatori – anche il Presidente, alla cui linea “dura”, soprattutto in materia d’immigrazione e

cittadinanza, sarebbe da attribuire gran parte del merito del successo. Nei primi due anni alla Casa

Bianca, Donald Trump ha dovuto, infatti, scontrarsi in varie occasioni con la freddezza (se non

l’aperta opposizione) della maggioranza repubblicana in Congresso. La figura carismatica dell’ex

Senatore dell’Arizona John McCain, morto lo scorso agosto, più volte candidato alla presidenza e

forte critico delle posizioni trumpiane, rappresentava una sorta di catalizzatore di questa

opposizione, che, tuttavia, non si esauriva nella sua figura. Solo gradualmente, la posizione del

Presidente all’interno nel partito si è consolidata, promuovendo quella che, negli scorsi mesi,

l’influente testata Politico ha definito come la nascita di un “nuovo Partito repubblicano”.

Il voto di novembre ha quindi confermato solo in parte le attese. Se il successo democratico

alla Camera dei rappresentanti, unito a quello per la corsa ai seggi governatoriali (in questa corsa, i

candidati democratici hanno sottratto sette Stati al controllo repubblicano senza perderne alcuno,

anche se, al momento, la maggioranza degli Stati – 27 a 23 – resta in mano al Grand Old Party), ha

confermato la forza complessiva del partito, lo scacco subito al Senato ha messo, infatti, in luce

come il sistema politico statunitense rimanga fortemente polarizzato e come, anzi, questa

polarizzazione sembri destinata a crescere. Lo scarto ridotto di alcuni successi (in Florida, ad

esempio, i candidati repubblicani al Senato e al seggio di Governatore, Rick Scott e Ron DeSantis,

hanno vinto i loro scontri con un vantaggio, rispettivamente, di soli 0,2 e 0,4 punti percentuali sugli

avversari democratici Bill Nelson e Andrew Gillum) non migliora le cose, lasciando prevedere una

lotta accesa e il rischio concreto di contestazioni per la tornata del 2020.

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Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners)

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 9

E’ indicativo il fatto che, già nei giorni immediatamente successivi il voto, il tema del “gerrymandering”

(la ridefinizione dei collegi elettorali in modo da favorire una delle parti) abbia ripreso ad attirare

l’attenzione dei politici e degli osservatori, proprio in vista dell’appuntamento del 2020.

Egualmente ambigue sono le ricadute del voto sul piano internazionale. Anche a questo

proposito, la questione ha cominciato ad attirare l’attenzione degli osservatori già da diverse

settimane, soprattutto per l’impatto che il cambiamento degli equilibri politici interni potrebbe avere

sulla postura generale degli Stati Uniti, che sotto la nuova amministrazione sembrano avere

accentuato i propri tratti unilateralisti sia nel rapporto con gli alleati, sia in quello con le organizzazioni

internazionali. Per la loro natura di referendum pro o contro Trump, le elezioni di novembre hanno

trovato facile inquadramento nel più ampio dibattito riguardo al l favore che sembrano avere

incontrato le forze c.d. “populiste” sulle due sponde dell’Atlantico e non solo. A questo proposito,

occorre tuttavia osservare come sia difficile parlare di “populismo”, nel significato che il termine ha

assunto in Europaper una figura come quella di Donald Trump, che riflette, più che altro, tratti

jacksoniani solidamente radicati nella cultura politica USA. Allo stesso modo, è difficile tracciare un

paragone diretto fra Donald Trump e i leader “populisti” europei (fra l’altro molto diversi fra loro) o,

ancora di più, con figure che gli sono state, spesso arbitrariamente, accostate come il Presidente

filippino, Rodrigo Duterte, o il neo-eletto Presidente brasiliano, Jair Bolsonaro.

Da questo punto di vista, anche se nel dibattito elettorale i temi internazionali non hanno

sollevato particolare interesse, i buoni risultati conseguiti dalla “linea presidenziale” non potranno

essere privi di ricadute. La scelta del candidato Trump di puntare, a suo tempo, su una politica

“America first” rispecchia una convinzione ampiamente diffusa nell’opinione pubblica statunitense e

una linea di condotta seguita -- seppure in modo più “soft”, soprattutto nei toni – da diverse

amministrazioni precedenti. Il voto di novembre non ha apertamente sconfessato questa politica,

anche se da alcune parti è stato rilevato come l’arrivo alla Camera dei rappresentanti di candidati

definiti “radicali” potrebbe avere conseguenze sulla posizione di Washington rispetto a specifici

dossier, in particolare quelli legati al Medio Oriente. Di contro, il consolidamento della posizione

repubblicana al Senato potrebbe dare forza a una volontà di disimpegno che il Presidente ha

espresso in diverse occasioni, anche se – nonostante la morte di McCain e l’uscita di scena del

Senatore del Tennessee Bob Corker, già presidente della Commissione affari esteri e forte critico

delle posizioni trumpiane -- le prospettive di quanti sono favorevoli a una robusta presenza

statunitense “sulla scena del mondo” continuano ad essere ampiamente rappresentate.

Fra gli esponenti di questa corrente, il voto di novembre ha, infatti, riconfermato il veterano

Lindsey Graham in South Carolina, Senatore dal 2003 e considerato il più probabile successore al

ruolo ricoperto sino a poco tempo fa da John McCain; Marco Rubio in Florida, Senatore dal 2011,

già sfidante di Trump nelle primarie del 2016 e tradizionalmente favorevole a una politica “attiva” di

Washington verso Cuba e Venezuela; Tom Cotton in Arkansas, Senatore dal 2015, e il “libertarian”

Rand Paul in Kentucky, Senatore dal 2011, anch’egli sfidante di Trump nel 2016 per la nomination

repubblicana e tradizionalmente considerato vicino alle posizioni del Tea Party. Vale comunque la

pena di osservare come tutte queste figure -- nonostante divergenze su aspetti specifici -- abbiano

spesso saputo trovare, in passato, punti di convergenza con la Casa Bianca e come, quindi, la loro

presenza nel nuovo Senato non costituisca “a priori” un ostacolo al perseguimento delle politiche

presidenziali. Non sembra un segno di particolare difficoltà nemmeno la convergenza bipartisan

emersa in Senato alla fine di novembre intorno alla richiesta (approvata con una maggioranza di 63

voti a 37) di sospendere il sostegno statunitense alla campagna militare a guida saudita in corso in

Yemen, anche al fine di segnalare una presa di distanza da Riyadh dopo l’uccisione, agli inizi di

ottobre, del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.

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Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per l’Europa?

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 10

Ovviamente, ciò non significa che tutto proseguirà come prima. Con ogni probabilità, il nuovo

Congresso riporterà al centro della scena il tema delle presunte ingerenze russe nelle elezioni del

2016, tema che rappresenta un tradizionale nervo scoperto della Casa Bianca. Negli scorsi mesi,

inoltre, la minoranza democratica ha dedicato particolare attenzione al ruolo che altri Paesi

potrebbero giocare nell’influenzare le scelte interne degli Stati Uniti, al tema dei diritti umani, al ruolo

degli USA nella loro promozione (anche in risposta alle posizioni assunte dall’amministrazione su

tali questioni), al rilancio del Dipartimento di Stato come luogo privilegiato per la produzione della

politica estera nazionale, ai temi globali legati al cambiamento climatico e ai rapporti commerciali

con i partner continentali (Canada e Messico) e con quelli dell’Asia-Pacifico. Sono tutte questioni

destinate a riaffiorare nel dibattito politico e che, in alcuni casi, rischiano di portare allo scontro con

l’amministrazione e con la maggioranza in Senato. Altra possibile fonte di scontro è rappresentata

dalla volontà espressa da vari esponenti democratici di portare “maggiore trasparenza” nelle attività

del Pentagono e del Dipartimento della Difesa e di sottoporre a puntuale scrutinio le decisioni prese

dell’amministrazione, fra l’altro, in tema di impiego delle forze.

È bene comunque osservare come – a eccezione (forse) della questione delle presunte

ingerenze russe – si tratta soprattutto di temi di portata simbolica, che non toccano il “cuore” delle

politiche presidenziali, né indeboliscono davvero la capacità della Casa Bianca di portare avanti la

sua agenda. Ciò vale anche sul punto – apparentemente più delicato – delle politiche commerciali,

da tempo cavallo di battaglia di Donald Trump. Fra il Presidente e diversi esponenti del Partito

democratico esiste, infatti, una sostanziale convergenza di vedute rispetto alla necessità di difendere

il “lavoro statunitense”, se necessario con l’adozione di politiche protezionistiche e di interventi tesi

a limitare i processi di delocalizzazione. Questa convergenza si è espressa in passato (ad esempio,

all’epoca della denuncia da parte del Presidente della Trans-Pacific Partnership) ed è riemersa

recentemente, in occasione dello scontro verbale fra il Presidente e i vertici di General Motors sulla

decisione dell’azienda di Detroit di chiudere nel breve periodo una serie di impianti in territorio

statunitense. A conferma – ancora una volta – di come né la maggioranza democratica alla Camera

dei rappresentanti, né quella repubblicana al Senato costituiscano dei blocchi compatti e di come

l’attuale stato di cose lasci alla presidenza ampi spazi di manovra.

A margine di tutto ciò si colloca il capitolo dei rapporti con l’Europa. In campagna elettorale, la

questione non ha raccolto particolare interesse, né il nuovo Congresso sembra destinato a

modificare in maniera significativa tale stato di cose, a conferma di una tendenza che pare essersi

consolidata negli ultimi anni. Al contrario, la posizione di quanti sostengono la necessità di un più

stretto rapporto fra le due sponde dell’Atlantico sembra essersi indebolita, da un lato a fronte del

rafforzarsi della corrente “trumpiana” in Senato, dall’altra dell’enfasi posta sui problemi interni dalla

maggioranza democratica alla Camera dei rappresentanti. Nonostante l’accordo sui dazi raggiunto

lo scorso luglio, il tema dei rapporti commerciali fra le due sponde dell’Atlantico rimane spinoso e i

negoziati in corso potrebbero riservare sorprese, soprattutto a causa delle divergenze esistenti

intorno al settore agricolo e quello automotive, dove le posizioni delle parti rimangono distanti.

Segnali di tensione sono affiorati in modo evidente a ottobre, quando la “reciproca intransigenza” ha

condotto a una situazione di sostanziale stallo, e anche se la fase acuta della crisi sembra essere

stata superata, sul tavolo negoziale continua a pesare la minaccia di nuovi dazi sull’import di vetture

europee, ventilata dalla Casa Bianca e guardata con favore dai sindacati USA.

Le cose non vanno meglio sul piano politico. La decisione di Washington di uscire dall’accordo

sul nucleare iraniano (JCPOA – Joint Comprehensive Plan of Action) e di reintrodurre le sanzioni

contro Teheran che erano state rimosse negli scorsi anni ha aperto un nuovo fronte di scontro, anche

a causa della riattivazione dei provvedimenti secondari sospesi nel gennaio 2016, che colpiscono

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Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners)

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 11

quanti – anche fuori dagli Stati Uniti – intrattengano diversi tipi di rapporti economici e commerciali

con la Repubblica islamica. Lo scorso maggio, la decisione dell’amministrazione di trasferire a

Gerusalemme la sede dell’ambasciata USA in Israele è stata accolta, in Europa, da critiche

pressoché unanimi, seppure diverse nei toni da Paese a Paese. Anche il già ricordato “affaire

Khashoggi” ha visto la Casa Bianca e gli alleati europei schierarti su fronti opposti, con la Germania

fra le prime a sospendere le forniture di armi al governo di Riyadh dopo la morte del giornalista

dissidente. La natura strutturale di queste fratture è stata evidenziata, fra gli altri, da Charles

Kupchan, secondo cui, nelle crisi precedenti, [Stati Uniti ed Europa] si dividevano sui mezzi.” Questa

è la prima volta in cui si dividono sui fini” (“During previous rifts, they parted company over means.

This is the first time they are parting company over ends”).

La profondità di questa frattura è ancora tutta da verificare. Nonostante le divergenze, Europa

e Stati Uniti condividono interessi e priorità che è difficile sottovalutare. La comune appartenenza

all’Alleanza Atlantica e alla NATO, per quanto soggetta anch’essa a tensioni, garantisce, inoltre, la

condivisione di un foro che, in diverse occasioni, ha agito da “camera di compensazione” delle

rispettive posizioni. Si tratta di capire quanto questo foro potrà continuare a fornire un contributo

valido di fronte al progressivo distanziarsi delle priorità di sicurezza degli alleati. Lo scorso 12

novembre, al rientro dalla visita in Europa compiuta in occasione del centenario della fine della Prima

guerra mondiale, il Presidente Trump ha rilanciato per l’ennesima volta le sue critiche all’“iniqua”

distribuzione degli oneri per la sicurezza comune. Nonostante la visibilità assunta, il tema della

“divisione del fardello” (“burden sharing”) non è, tuttavia, quello centrale. Piuttosto, le recenti difficoltà

del rapporto Stati Uniti-Europa sembrano riflettere l’attuale insoddisfazione di Washington per un

multilateralismo percepito come non più “pagante”. Una posizione che ha trovato riflesso, ad

esempio, anche nelle critiche rivolte dalla Casa Bianca ad altre organizzazioni internazionali, prime

fra tutte le Nazioni Unite e le varie agenzie che a queste si legano.

Difficilmente i nuovi equilibri congressuali potranno influire a un livello così profondo. Piuttosto,

una delle priorità sembra essere quella di fissare subito i paletti legislativi che delimiteranno il campo

delle prossime elezioni. L’ambizioso “H.R. 1”, anticipato alla fine di novembre e del quale il

Congresso comincerà a discutere a gennaio 2019, non sembra avere speranze di approvazione da

parte del Senato né di ratifica da parte della Casa Bianca; tuttavia, la sua lettura fornisce indicazioni

importanti sulla direzione in cui sembra incamminato il Partito democratico. Unica significativa

eccezione appare la posizione del Senatore del Massachusetts Elizabeth Warren (già indicata come

possibile “ticket” di Hillary Clinton nella campagna del 2016 e vista da più parti come un eventuale

concorrente alla prossima corsa presidenziale), che, insieme a quella esposta da Bernie Sanders

nel discorso tenuto lo scorso 9 ottobre alla Johns Hopkins University, fornisce, al momento, la cosa

più simile a una piattaforma di politica estera. In entrambi i casi, si tratta soprattutto di tentativi di

tracciare – in una prospettiva “liberal” – una forma di connessione fra politica estera e politica interna.

Essi offrono, comunque, materiale per un dibattito che, in vista dell’appuntamento elettorale del

2020, dovrà essere affrontato nel prossimo futuro.

A breve si apriranno, infatti, i giochi per le nomination presidenziali. Già negli scorsi mesi ci

sono state le prime manifestazioni di interesse, sul fronte repubblicano da parte di Bob Corker, del

Governatore del Maryland, Larry Hogan; del Governatore dell’Ohio e candidato alla presidenza nel

2000 e nel 2016, John Kasich, e di Bill Kristol, già capo dello staff del Vicepresidente Dan Quayle

ed eminente figura dell’ambiente neoconservatore negli anni di George W. Bush. Sul fronte

democratico, diviso dalla frattura “centristi”/“progressisti” rispecchiata dal confronto Clinton/Sanders

nel 2016, sono circolati -- oltre ai nomi dei già ricordati Warren e Sanders e di un buon numero di

figure delle professioni, dello sport, dello spettacolo e della società civile -- quelli dell’ex

Vicepresidente, Joe Biden; dell’ex Segretario di Stato, John Kerry; dell’ex sindaco di New York,

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Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per l’Europa?

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 12

Michael Bloomberg, e di una lunga lista di Rappresentanti e di Senatori di varie parti del Paese, fra

cui la “stella nascente” del partito in Texas, Robert “Beto” O’Rourke. In futuro, la rosa dei possibili

candidati è destinata a sfoltirsi. La corsa, tuttavia, è partita, come ha dimostrato anche il modo in cui

il Presidente e i suoi avversari hanno affrontato il voto di novembre, e rischia di esacerbare le tensioni

che hanno punteggiato i mesi scorsi, proprio come, anche in questo caso, l’esperienza del voto di

midterm pare avere confermato.

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Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico Claudio Catalano

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 13

L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

Nel corso del Consiglio Europeo straordinario a Bruxelles, il 25 novembre 2018, si è giunti a

un accordo sulla Brexit tra i 27 Stati Membri dell’Unione Europea (UE) e il Regno Unito. Il

raggiungimento di un accordo tecnico per i negoziati tra UE e Regno Unito è stato annunciato quasi

a sorpresa dal primo ministro britannico Theresa May, il 13 novembre 2018, che il giorno successivo

lo ha illustrato al Parlamento britannico in vista del Consiglio Europeo straordinario tenutosi il 24

novembre 2018.

L’accordo consiste in un Withdrawal Agreement (WA) di 585 pagine, come base per un futuro

trattato, e una dichiarazione politica di 26 pagine sulle relazioni future.1

Gli accordi hanno stabilito un periodo di transizione per l’applicazione della Brexit

(Implementation Period) che va fino al 1 gennaio dicembre 2021. Durante questo periodo verrà

mantenuta l’unione doganale.

I tre punti principali per il negoziato, lo status dei cittadini europei, il “divorce bill” e lo status dei

confini irlandesi hanno trovato una soluzione nel Consiglio Europeo.

Riguardo ai diritti dei cittadini comunitari residenti in UK è stabilito che avranno gli stessi diritti

di cui godono attualmente fino alla fine del periodo di transizione e saranno sottoposti alla

giurisdizione della Corte di Giustizia dell’UE per almeno 8 anni. UK accetta anche di applicare

l’interpretazione di norme comunitarie della Corte di Giustizia dell’UE oltre il periodo di transizione.

Riguardo il “Divorce Bill”, il conto che UK deve pagare per onorare tutti gli impegni su bilancio, fondi

e programmi europei in quanto Stato Membro UE è stato fissato in una cifra variabile compresa tra

i 35 e 39 miliardi di sterline, molto inferiore rispetto ai 60 miliardi richiesti inizialmente dalla

Commissione Europea. La questione dei confini irlandesi ha trovato una soluzione che sarà descritta

nel prossimo paragrafo.

Gli accordi raggiunti dovranno essere approvati dalla Camera dei Comuni che avrebbe dovuto

votare il Withdrawal Agreement (WA) l’11 dicembre 2018, votazione poi spostata al 15 gennaio 2019.

Tuttavia, il governo May sembra non avere in Parlamento la maggioranza necessaria per

l’approvazione e due viceministri e due ministri, il ministro per gli affari europei e la Brexit, Dominic

Raab, e il ministro del lavoro, Esther McVey, si sono dimessi per protesta contro l’accordo. Da questo

punto di vista, la strada per il primo ministro May sembra essere ancora tutta in salita.

Le questioni geopolitiche legate alla Brexit

La Brexit ha aperto il “vaso di Pandora” riproponendo questioni geopolitiche che erano ormai

superate in Europa, oltre alla riapertura della questione dell’Irlanda del Nord, i possedimenti

britannici a Gibilterra e Cipro, retaggi della strategia imperiale marittima “hubs and spokes”, sono

stati posti in discussione dopo secoli.

Il Regno Unito è stato messo all’indice da parte di alcuni Stati Membri come l’Irlanda, la

Francia, la Spagna e Cipro che hanno sollevato questioni territoriali piuttosto spinose da risolvere,

che hanno richiesto uno sforzo anche d’ngegno da parte britannica.

Per risolvere la questione irlandese, è stato creato un legally operative Backstop in base al

quale, in caso di mancato accordo sui confini irlandesi entro il periodo di transizione, il Regno Unito

rimarrà nell’unione doganale per ulteriori 21 mesi, sia per evitare la creazione di un “hard border”

con la Repubblica d’Irlanda, sia per assicurare le comunicazioni marittime nord-sud, sia, e

1 Withdrawal Agreement e dichiarazione politica sono scaricabili dal sito del governo britannico:

https://www.gov.uk/government/publications/withdrawal-agreement-and-political-declaration

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Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 14

soprattutto, per rispettare gli accordi del “Venerdì Santo” (Good Friday) del 1998 che avevano

stabilito frontiere flessibili per porre fine alla guerra civile. Il mancato rispetto dell’accordo del Good

Friday avrebbe potuto dare fuoco alle polveri, riaccendendo le tensioni tra unionisti e cattolici.

Saranno anche attivate clausole di salvaguardia speciale per l’Irlanda del Nord.

Il presidente francese, Emmanuel Macron, considerando la soluzione del legally operative

Backstop, ha sollevato la questione delle attività di pesca, richiedendo l’accesso alle acque territoriali

del Regno Unito per i pescatori francesi, in base al mantenimento temporaneo dell’unione doganale.

La Spagna ha sollevato la questione di Gibilterra, poiché il promontorio su cui sorge la Rocca

che domina l’omonimo stretto è dominio della corona britannica dalla pace di Utrecht del 1713, che

mise fine alla guerra di successione spagnola.

L’art.182 del WA prevede un Protocollo su Gibilterra come parte di un pacchetto di accordi

previsti anche dalla dichiarazione politica.

A tale riguardo l’art.184 del WA sui negoziati per la relazione futura stabilisce:

“The Union and the United Kingdom shall use their best endeavours, in good faith and in full

respect of their respective legal orders, to take the necessary steps to negotiate expeditiously

the agreements governing their future relationship referred to in the political declaration of

25/11/ 2018 and to conduct the relevant procedures for the ratification or conclusion of those

agreements, with a view to ensuring that those agreements apply, to the extent possible, as

from the end of the transition period.”

L’art.184 del WA su Gibilterra, sarebbe stato inserito da dopo la dichiarazione del ministro

degli esteri spagnolo, Josep Borrell, al comitato Articolo 50 del Consiglio “Affari Generali” dell’UE.

Per questo motivo, fin dal 19 novembre 2018, la Spagna ha bloccato il negoziato tra il Regno

Unito e gli Stati Membri dell’UE, chiedendo la soluzione della questione di Gibilterra. Alla fine la

situazione è stata sbloccata nel Consiglio Europeo e si è pervenuti al WA e alla dichiarazione politica,

solo dopo che la Spagna ha ricevuto la promessa che il destino della Rocca non sarà legato al WA,

ma sarà regolato attraverso un accordo separato negoziato esclusivamente tra Spagna e Regno

Unito.2

Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk e il presidente della Commissione Europea,

Jean-Claude Juncker, hanno dovuto mettere per iscritto la promessa alla Spagna, affinché gli

spagnoli abbandonassero l’intenzione di porre il veto. Tuttavia, gli spagnoli hanno ottenuto delle

dichiarazioni politiche sull’interpretazione dell’art.184 WA, una “vittoria di bandiera” perché il WA e

la dichiarazione politica non sono state modificate.3

Un protocollo specifico del WA, come previsto dall’art.182 del WA, si applica alla Sovereign

Base Areas (SBA) britanniche, Akrotiri e Dhekelia a Cipro, che è uno Stato Membro dell’UE. Lo

status delle basi è regolato da un accordo del 1960, modificato all’atto dell’adesione di Cipro all’UE.

Secondo il protocollo annesso al WA, le basi britanniche a Cipro sono parte dell’unione doganale e

i traffici di persone e beni devono transitare per gli aeroporti e i porti ciprioti, poiché il Regno Unito

ha anche il divieto di stabilire aeroporti o porti civili, anche all’interno delle sue strutture che possono

perseguire esclusivamente attività militari e non commerciali. I beni britannici importati o esportati

nelle basi sono autorizzati solo per beni di uso militare o ufficiale, ovvero per il bagaglio individuale

del personale britannico delle basi e sono sottoposti ai comuni controlli di dogana. Cipro può

applicare anche l’Iva all’interno delle basi.

In ogni caso, il Regno Unito si trova ad arretrare rispetto ai privilegi di cui ha goduto finora.

2 Vedi i documenti preparati dal governo britannico per il Memorandum of understanding

https://www.gov.uk/government/publications/eu-exit-negotiations-gibraltar-memoranda-of-understanding 3 Beatriz Rios “Spain strikes last-minute deal on Gibraltar and unlocks Brexit deal” in Euractiv, 25 novembre 2018

https://www.euractiv.com/section/uk-europe/news/spain-strikes-last-minute-deal-on-gibraltar-and-unlocks-brexit-deal/

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L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 15

Le implicazioni per la difesa

Per la Politica Comune di Sicurezza e Difesa (PCSD) sarà negoziato un accordo specifico che

abrogherà gli obblighi UK derivanti dal Trattato UE in materia di difesa, secondo l’art.127 WA. Per

la cooperazione militare nella PCSD si pensa di stabilire una cooperazione “scalabile”.4

In base agli art.75 e 76 del WA, le regole degli appalti pubblici derivanti dal diritto europeo,

inclusa la direttiva 2009/81/CE per gli appalti della difesa, continueranno ad applicarsi fino al termine

del periodo di transizione e per le commesse assegnate durante questo periodo, senza pregiudizio

per normative UE o UK su dogane, servizi, riconoscimento dei titoli professionali e proprietà

intellettuale. In caso di mancato accordo oltre il periodo di transizione, si applicherà comunque il

GPA del WTO.

Secondo l’art.4 dell’allegato 2 del WA, il regime dei trasferimenti per la difesa derivante dalla

direttiva 2009/43/EC si applicherà all’unione doganale, prevista dall’allegato 2 del WA. L’UE dovrà

informare UK di ogni iniziativa presa nei trasferimenti di beni militari. Sei mesi prima della fine del

periodo di transizione il Joint Committee UK-UE dovrà adottare le relative procedure di applicazione.

Secondo art 122 del WA, UK continuerà a far parte e versare i fondi a tutte le agenzie UE in

materia di difesa, inclusa l’EDA, fino al 31 dicembre 2020.

La dichiarazione politica suggerisce la continuazione della collaborazione nella EDA attraverso

un “administrative arrangement” e la partecipazione di enti qualificati UK a progetti del Fondo

Europeo per la Difesa e la partecipazione di UK a progetti della Cooperazione Strutturata

Permanente (PESCO) su invito del Consiglio UE in formato PESCO. È prevista anche la

collaborazione nella cyber security e nello spazio.

Secondo i britannici, le capacità militari e di intelligence permetteranno al Regno Unito di avere

un ruolo maggiore al di fuori dell’UE e della PCSD.

Il primo ministro May sembra aver sottolineato il ruolo che avrà la Royal Navy per un Regno

Unito fuori dall’UE:

“As Britain steps up to forge a new, positive, confident role for our country on the global stage,

the Royal Navy will play an important part in our vision – pursuing our objectives of security on

land and on sea and helping to ensure the free flow of international trade.”5

Royal Navy tornerà ad avere quel ruolo di forza di spedizione che aveva durante l’Impero

Britannico, fino alla seconda Guerra mondiale e alla decolonizzazione. Fino alla prima guerra

mondiale, la flotta mercantile e la Royal Navy assorbivano il 50% del Pil britannico.

In un articolo per il Financial Times, il deputato conservatore Tom Tugendhat ha sottolineato

la necessità di prioritizzare gli investimenti navali, perché la Royal Navy è “troppo piccola per poter

fare la differenza” e perché le unità navali sono qualcosa di più di semplici sistemi d’arma:

“(le unità navali) permettono di condurre intelligence e diplomazia (..) costruiscono alleanze e

relazioni a vantaggio sia del commercio, sia della difesa.”6

A tal fine, l’on. Tugendhat raccomanda di raddoppiare il numero di fregate tipo 26 da otto a16

per sostenere l’industria cantieristica britannica.

Tuttavia, non è così realistico che la rievocazione dell’Impero britannico attraverso la

ricostituzione della flotta navale sia una strada percorribile nel XXI° secolo, considerato che il Regno

Unito rischia oggi di perdere anche Gibilterra, uno degli ultimi retaggi dell’epoca imperiale.

4 Cfr. Documento del governo britannico: “EU Exit Assessment of the security partnership” Cm 9743, 28 novembre

2018 http://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/759760/28_November_EU_Exit_-_Assessment_of_the_security_partnership__2_.pdf

5 Ministry of Defence “Brexit: The impact on the Defence industry” in Defence Online https://www.contracts.mod.uk/do-

features-and-articles/brexit-the-impact-on-the-defence-industry/

6 Citato in Defence Online

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Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 16

Il Regno Unito, però, potrebbe mantenere la leadership nell’industria aeronautica con il Team

Tempest. Secondo la UK Combat Aircraft Strategy, pubblicata a luglio 2018, il programma

d’investimento Future Combat Air System Technology Initiative (FCAS IT) è la risposta del Regno

Unito alla Brexit, per mantenere l’edge tecnologico nella difesa.

Ciò considerando anche che il programma SCAF sta soffrendo limiti nella cooperazione

franco-tedesca, tanto che la Francia ha deciso di mantenere il finanziamento annuo di € 25 milioni

per lo studio franco-britannico Future Combat Air System (FCAS) sul velivolo da combattimento

senza pilota (UCAV) e potrebbe decidere di abbandonare lo SCAF e aderire al Tempest se le

controversie con i tedeschi non troveranno presto soluzione.7

Il Tempest potrebbe divenire dal 2040, il successore del caccia da difesa aerea Eurofighter

Typhoonper e affiancare quindi il Lockheed Martin F-35 nelle linee caccia del Regno Unito e

potenzialmente di altri paesi che hanno una linea caccia basata su Eurofighter e F-35, come l’Italia.

Allo stesso modo come complemento del F-35, il Tempest, potrebbe essere adottato anche dai paesi

NATO che hanno deciso di fare proprio il caccia americano come Belgio, Paesi Bassi, Norvegia e

potenzialmente la Turchia, ma potrebbe essere adottato anche da paesi non NATO, interessati al

progetto tecnologico Tempest, come la Svezia e il Giappone.

Se lo SCAF fallirà, salirà sul carro del Tempest, anche la Francia, mentre la Germania deve

trovare però una soluzione temporanea tra Eurofighter e F-35 per sostituire il Tornado e la Spagna,

che ufficialmente oggi sta aderendo allo SCAF e non intende acquistare il F-35.

Analisi, valutazioni e previsioni

Il voto alla Camera dei Comuni per l’approvazione di WA e dichiarazione politica è stato fissato

per il 15 gennaio 2019. In caso di approvazione del WA, le norme applicative di ricezione

nell’ordinamento UK dovrebbero essere approvate prima del 29 marzo 2019 per avere efficacia

giuridica. Il WA sarà sottoposto anche al Constitutional Reform and Governance Act del 2010.

Tuttavia, il governo conservatore sembra non avere la maggioranza necessaria per

l’autorizzazione. Almeno 91 deputati conservatori voteranno contro, mentre i 10 deputati del partito

unionista nord-irlandese (DUP), che garantisce al governo May la maggioranza ai Comuni, sono

contrari alla modifica della situazione in Irlanda del Nord e il leader del DUP, Arlene Foster, ha

dichiarato che il partito vorrebbe anche rivedere l’accordo di governo con i conservatori. È contrario

anche lo Scottish National Party, mentre i laburisti di Jeremy Corbyn sono contrari al WA e

propongono un secondo referendum.

Secondo il Sunday Telegraph, alcuni politici conservatori “soft Brexiteers”, come il ministro

dell’economia e finanze Philip Hammond, avrebbero ideato un “piano B” alternativo, in caso il WA

fosse bloccato in Parlamento. Il piano B consisterebbe in un accordo per uno status di associazione

del Regno Unito alla UE simile a quello della Norvegia e una estensione del periodo di transizione.8

La Norvegia partecipa allo Spazio economico europeo (SEE), ha accesso al mercato unico, al

passaporto europeo, ha accesso ai fondi di ricerca per formazione e per l’impresa (Horizon 2020,

Erasmus, Galileo etc.), ma contribuisce al bilancio comunitario. L’accesso al mercato unico

presuppone l’obbligo di recepimento delle regole comunitarie, ma permette un limitato potere

d’influenza dato dalla consultazione nel proprio processo decisionale.

7 Cfr. Claudio Catalano “l’addio del cancelliere Merkel: l’Europea in cerca di leadership” OSS 1 2018. Jean-Charles

Larsonneur “Avis fait au nom de la Commission de la défense nationale et des forces armées sur le projet de loi de finances pour 2019 (n° 1255) Tome VII, Défense Équipement des Forces – Dissuasion N° 1306” Assemblée Nationale Constitution du 4 Octobre 1958, XV legislature, registrato il 12 ottobre 2018. http://www.assemblee-nationale.fr/15/budget/plf2019/a1306-tVII.asp#P128_11349

8 Edward Malnick, Harry Yorke e Peter Foster, “Secret 'Plan B' for Brexit: Cabinet and EU plot 11th-hour alternatives to Theresa May’s deal” in Sunday Telegraph, 24 novembre 2018 http://www.telegraph.co.uk/politics/2018/11/24/cabinet-eu-plot-11th-hour-alternatives-theresa-mays-deal-leaders/

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L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 17

Il modello Norvegia presuppone la libera circolazione delle persone, ovvero l’immigrazione di

altri cittadini europei (non extracomunitari), una delle motivazioni principali per cui i cittadini britannici

hanno votato per la Brexit. Inoltre, subire le normative europee, senza avere voce in capitolo, è

un’ipotesi che gli “hard Brexiteer”, ma anche gran parte dell’opinione pubblica britannica trova

inaccettabile.

È poco raccomandabile anche l’opzione di dimissione del governo May ed eventuali elezioni

anticipate, che creerebbe più instabilità.

Proprio riguardo l’instabilità economica, il 28 novembre 2018 è stato pubblicato il rapporto della

Banca d’Inghilterra circa gli scenari sulla stabilità monetaria e finanziaria per la Brexit, in risposta

alla richiesta della commissione tesoro della Camera dei Comuni. Il rapporto illustra deglalcuni

scenari fino a cinque anni, ma non delle stime o previsioni precise, anche sulla base

dell’osservazione dei fenomeni economici verificatisi dopo il referendum del giugno 2016, con la

caduta della Sterlina, l’aumento dell’inflazione e la diminuzione della produttività. La Brexit

porterebbe a ostacoli al commercio e agli investimenti diretti esteri nel Regno Unito, la Sterlina

verrebbe ulteriormente svalutata per far fronte al calo della produttività e questa svalutazione

avrebbe effetti inflattivi sui prezzi al consumo, dovuti anche ai dazi e tariffe commerciali sui beni

importati. L’incertezza finanziaria e monetaria aumenterebbero anche il tasso di disoccupazione.

Non esistendo casi precedenti, gli effetti della Brexit possono essere studiati solo come effetti opposti

e simmetrici a quelli dei modelli di integrazione economica e commerciale, ovvero il contrario della

formazione del mercato unico europeo.

Il problema principale è che le imprese, che fungono da catena di trasmissione dell’economia

reale e del commercio, non hanno sviluppato modelli di business per affrontare la Brexit, né esistono

a priori tali modelli. Una quasi certezza è che le catene di fornitura transnazionali affronteranno costi

extra-dovuti ai dazi e alle tariffe commerciali e i tempi saranno dilatati dalle procedure doganali.

La Banca d’Inghilterra ha predisposto scenari sia nel caso di approvazione del WA; sia nel

caso di “no deal disruptive” sia in un “no deal disorderly”.

Nel caso di “no deal disruptive” con l’interruzione dell’unione doganale sarebbero introdotti

istantaneamente dazi e tariffe doganali, in assenza di un accordo, il Regno Unito manterrebbe le

normative derivate dall’UE e riconoscerebbe gli standard UE, ma l’UE non riconoscerebbe un

principio di reciprocità al Regno Unito.

Nel caso di “no deal disorderly”, il Regno Unito perderebbe i diritti relativi agli accordi

commerciali tra UE e paesi terzi, le frontiere non sarebbero in grado di assicurare i controlli doganali

e vi sarebbero ripercussioni anche sulla tenuta della Sterlina.

Gli effetti sul Pil sono illustrati nel seguente grafico della Banca d’Inghilterra:9

9 Bank of England “EU withdrawal scenarios and monetary and financial stability, A response to the House of

Commons Treasury Committee” pubblicato il 28 novembre 2018 https://www.bankofengland.co.uk/report/2018/eu-withdrawal-scenarios-and-monetary-and-financial-stability

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Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 18

Si spera che gli effetti dovuti ad un “no deal” possano spaventare e convincere i deputati a

votare il WA.

Lo scenario “no deal” non è al momento ancora scongiurato, in tal caso non si applicherebbe

il WA, il Regno Unito sarebbe fuori dal mercato unico e dall’unione doganale, tutta la normativa

britannica di derivazione UE dovrebbe essere rivista dal Parlamento e si creerebbe un confine fisico

tra il Regno Unito e gli Stati Membri UE, con la reintroduzione di tariffe doganali. Inoltre, un serio

problema sarebbe il ripristino di “hard border” con l’Irlanda e la non conformità agli accordi Good

Friday.

Le implicazioni per la difesa del “no deal” presuppongono che il Regno Unito esca da tutte le

strutture e le operazioni militari della UE, inclusa l’EDA e non possa partecipare, a meno di invito

formale da parte dell’UE, ai progetti dell’EDA, ai fondi europei per la difesa né alla PESCO. Il Regno

Unito dovrebbe finanziare con fondi nazionali anche la ricerca militare, non potendo più usufruire dei

fondi europei per la ricerca di cui era il principale beneficiario nell’UE. La partecipazione del Regno

Unito a NATO, ONU e OSCE rimarrebbero l’unico forum comune con l’UE e la cooperazione militare

con gli Stati Membri UE avverrebbe su base bilaterale.10 Si ricorda, che per la cooperazione militare

tra Francia e Regno Unito è tuttora in vigore il Trattato di Lancaster House del 2010.

Secondo gli “Hard Brexiteers” lo scenario “No deal”, con una totale cesura dei rapporti UE-UK,

sarebbe forse più semplice e chiaro per UK invece di una totale riorganizzazione dei rapporti con

UE e permetterebbe anche a UK di voltare pagina più velocemente e avviare accordi commerciali

con Stati Uniti, Australia, Arabia Saudita, Giappone e le altre potenze extraeuropee.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che sostiene le posizioni degli “Hard Brexiteers”

sostiene che il WA rende più difficile le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Regno Unito.

10 Cfr. EU security partnership cit.

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L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 19

La corte suprema scozzese ha richiesto alla Corte Europea di Giustizia di Strasburgo, il 27

novembre, una sentenza interpretativa sull’art.50 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) sulla

possibilità di revoca del processo di uscita.11 Un’ipotesi suggerita in Italia del Prof. Giuliano Amato,

che era stato tra gli estensori del testo del trattato durante la Convenzione di Roma.

In ogni caso, per togliere ogni alibi ai deputati britannici, il primo ministro May sostiene che

l’intesa raggiunta al Consiglio Europeo sia l’unica sul tavolo. Considerata la scadenza del 29 marzo

2019, ogni altra opzione, come un secondo voto alla Camera dei Comuni o l’indizione di un secondo

referendum, non è percorribile perché ormai si è fuori tempo massimo.

L’accordo dovrebbe essere approvato anche dal Parlamento Europeo a inizio 2019, per essere

in vigore alla data ufficiale della scadenza della Brexit.

Tuttavia in caso di “no deal” non tutto potrebbe essere perduto e, anzi, il Regno Unito potrebbe

raggiungere un accordo sul modello Norvegia, in maniera molto semplice e lineare. La “modesta

proposta” sarebbe la seguente: con il “no deal” il Regno Unito esce dall’UE, sotto tutti i punti di vista,

a questo punto può aderire all’EFTA (European Free Trade Association), organizzazione che fondò

e di cui fu membro fino all’adesione alla Comunità Europea nel 1972. In quanto Stato partecipante

all’EFTA, il Regno Unito potrebbe negoziare un accordo di associazione al SEE, come hanno fatto

Islanda, Liechtenstein, Norvegia o Svizzera. Di fatto il modello “Norvegia” caro ai “Soft Brexiteers”

uscirebbe dalla porta e rientrerebbe dalla finestra, garantendo al Regno Unito una valida uscita

dall’UE, ma continuando a godere della partecipazione al SEE e di fatto al mercato unico, una

soluzione “win-win” per Regno Unito e UE.

11 “Exit Brexit? EU’s top court rules if this is legally possible” Euractiv, 26 novembre 2018

https://www.euractiv.com/section/uk-europe/news/exit-brexit-eus-top-court-rules-if-this-is-legally-possible

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Balcani e Mar Nero Paolo Quercia

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 20

Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione

del conflitto russo – ucraino?

A partire alla primavera 2018, una crescente tensione si è registrata tra Russia e Ucraina nella

parte Nord-orientale del Mar Nero, lungo lo stretto di Kerch che dà accesso al Mare di Azov. Al di là

del valore strategico di quest’area legato al conflitto russo – ucraino sul Donbass e sulla Crimea, il

Mare di Azov riveste un significato particolare per via degli interessi economici, tanto per Mosca,

quanto per Kiev. Per la Russia, su questo mare interno vi è la foce del fiume Don, una fondamentale

via di trasporto marittimo collegata con le maggiori aree industrializzate del Paese. Per l’Ucraina i

porti del Mare di Azov – che hanno sempre rivestito un’importanza per la vicinanza alle aree

carbonifere e industriali del bacino del Donbass e come canale di esportazione del grano – hanno

perso traffico commerciale a causa del conflitto nell’hinterland, in particolar modo il porto di

Mariuopol, ma hanno ulteriormente incrementato il proprio valore strategico dopo la perdita del

controllo della Crimea e dunque del porto di Sebastopoli.

L’area, nonostante le tensioni che si sono registrate agli inizi del conflitto attorno alla città

portuale di Mariuopol, è sostanzialmente rimasta lontana dal baricentro delle tensioni militari dopo il

2014, ma ovviamente la striscia costiera dell’Ucraina è sotto pressione strategica per l’ampliamento

della costa del Mar Nero sotto controllo russo, in Crimea e nella regione di Donetsk. La situazione

si è ulteriormente deteriorata a partire dalla primavera di quest’anno con la decisione da parte russa

di realizzare il ponte sullo stretto di Kerch che unisce la penisola di Crimea con la Russia. I porti di

Mariupol e di Berdyansk, difatti, dipendono totalmente dal transito attraverso lo stretto di Kerch.

Le aree di conflitto tra Ucraina e Russia nel Mare di Azov secondo una fonte ucraina, www.liveuamap.com

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Balcani e Mar Nero

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 21

Anche per Mosca il controllo degli stretti ha un valore strategico, non solo come strumento di

pressione economica sull’Ucraina, perché il Mare di Azov rappresenta un’importante via di trasporto

marittimo che collega Mosca e le aree più industrializzate della Russia con il Mar Nero e dunque con

il Mediterraneo. Il Mar di Azov rappresenta dunque la principale porta di accesso dello sviluppato

sistema di trasporto fluviale interno russo che collega la Russia centrale, gli Urali e l’Asia centrale

con il Mediterraneo orientale e con l’Europa centrale attraverso il sistema di comunicazione Mar

Nero – Danubio. Il Mare di Azov è lo sbocco del fiume Don che a sua volta è parte di un più

importante sistema di trasporto fluviale collegato – attraverso il canale Volga/Don costruito negli anni

cinquanta – con il fiume Volga, il più grande fiume europeo e importantissimo corridoio di trasporto

fluviale russo.

Uno scivolamento delle tensioni russo – ucraine dalla terra verso il mare è iniziato ad affiorare

agli inizi del 2018, in particolare in concomitanza con l’avvio della costruzione da parte russa del

ponte sullo stretto di Kerch che unisce la Crimea con la Russia.

Un ponte strategico e i rischi di marittimizzazione del conflitto ucraino

Nel mese di maggio, imprese russe hanno portato a termine la costruzione della parte stradale

del ponte sullo stretto che è stato aperto al traffico e nominato “Ponte della Crimea”. L’Unione

Europea ha condannato la realizzazione dell’opera, inserendo nella propria lista di sanzioni le 6

aziende russe che avevano completato il progetto. La realizzazione dell’opera, contestata da Kiev e

dalla UE, ha prodotto un aumento della tensione per il timore ucraino che essa potesse esse

utilizzata per bloccare il transito delle proprie navi dal Mar Nero al Mare di Azov. Ovviamente la

costruzione del ponte non va vista solo dal punto di vista marittimo, ossia come una restrizione

ulteriore del choke point dello stretto di Kerch, ma anche come un’infrastruttura chiave per il supporto

logistico/militare alla Crimea e come un canale di supporto vitale per acqua e gas verso la

popolazione e l’industria della penisola, visto che le forniture da parte di Kiev verso la Crimea sono

state interrotte dopo l’annessione russa.

Concentrandosi solamente sul valore strategico dell’opera dal punto di vista del traffico

marittimo verso i porti dell’Ucraina, è importante considerare che la costruzione del ponte di Kerch

ha creato una ulteriore restrizione della tipologia di navi in grado di passare lo stretto, non

particolarmente nella larghezza quanto nella altezza della campata del ponte.

Le dimensioni del ponte, difatti, creano un ulteriore vincolo di transito rispetto allo stretto e non

consentirebbero il passaggio del naviglio medio più grande, come lo standard Panamax che, pur

non rappresentando la maggioranza del traffico verso i porti ucraini, potrebbe avere un impatto

importante sul valore delle merci movimentate in questi porti. Secondo le autorità portuali ucraine,

questo tipo di navi genererebbero oltre il 40% del fatturato dei porti del Mare di Azov. Le autorità

portuali ucraine sostengono, ad esempio, che solo i provvedimenti di chiusura dello stretto (fino a

72 ore), adottati durante il periodo della costruzione del ponte, abbiano già comportato un danno

economico stimabile in 20 milioni di dollari, mentre più difficile da stimare è il danno economico di

lungo periodo causato dalla grandezza della infrastruttura. È comunque verosimile che le navi più

grandi che servivano i porti ucraini del Mare di Azov dovranno essere sostituite con navi più piccole

con trasbordi che aumentano i costi della logistica, sia in entrata che in uscita.

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Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione del conflitto russo – ucraino?

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 22

Immagine tratta dal sito ufficiale russo del progetto del Ponte sullo stretto di Kerch www.most.life

Ci appare tuttavia che la vulnerabilità più rilevante per il sistema economico ucraino del Mare

di Azov, anche dopo la costruzione del ponte, non sia tanto quella fisica legata alla nuova

infrastruttura – che ha comunque un impatto – quanto quella “politica”, legata alle differenti forme di

contingentamento, rallentamento e blocco del traffico che le autorità russe possono porre in essere

a danno del transito dal Mar Nero al Mare di Azov. Questo anche in virtù del fatto che la struttura

del ponte rappresenta una limitazione fisica nota, per superare la quale possono essere studiate

opportune contromisure – che ovviamente hanno un costo. Ma per un flusso economico e

commerciale, il costo più alto è quello dell’imprevedibilità degli ostacoli che possono produrre uno

scorrimento a singhiozzo per numerosi motivi: da ispezioni capillari per motivi di sicurezza o

ambientali, a code e attese per il pilotaggio delle navi attraverso lo stretto. Prima dell’annessione

della Crimea da parte russa, questi problemi non si ponevano in quanto la situazione era inversa e

il passaggio dello stretto di Kerch avveniva nella parte ucraina della linea di delimitazione delle acque

territoriali ed era pertanto Kiev a gestire l’attraversamento e il pilotaggio delle navi attraverso lo

stretto (riscuotendone anche i diritti). Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo l’annessione e controllo

della Crimea da parte di Mosca: ora la gestione del transito in entrata e in uscita è regolato dalle

autorità di Mosca (la polizia di frontiera terreste e marittima russa è tornata ad essere, dal 2003, un

ramo del FSB, i servizi di sicurezza russi). Ovviamente l’atteggiamento delle autorità russe sul

transito delle navi ucraine attraverso lo stretto muta con il mutare dei rapporti politici e delle tensioni

tra Kiev e Mosca, producendosi in costi diretti e indiretti per l’economia dei trasporti del Mare di Azov.

Ai costi diretti dei ritardi e degli ostacoli va a sommarsi anche l’incremento dei costi assicurativi per

via di un aumento del rischio politico.

La questione travalica, ovviamente, il solo ambito dello stretto di Kerch e si estende più in

generale alla problematica estremamente complessa dei contenziosi marittimi nel Mar Nero e nel

Mare di Azov, in corso e potenziali, tra Russia e Ucraina, al punto che potrebbe quasi parlarsi di un

frozen conflict economico tra i due Paesi, in cui la particolarità dell’ambiente marittimo, l’orografia

delle coste, i meccanismi di funzionamento degli scambi marittimi e il diritto del mare creano un mix

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Balcani e Mar Nero

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 23

potenzialmente esplosivo in grado di danneggiare in particolare gli interessi economici e marittimi

dell’Ucraina. Sono praticamente infinite le occasioni per bloccare o ritardare significativamente il

traffico commerciale verso i porti del Mare di Azov al punto da renderlo incerto e non affidabile: dalle

ispezioni ripetute e prolungate, alle norme ambientali, alle procedure di transito lungo i choke points,

alle esercitazioni militari, alle interdizioni di accesso, alla ipotizzabile proclamazione di una Zona

Economica Esclusiva. La questione era già emersa dopo il conflitto del 2014, al punto che nel 2016

Kiev aveva aperto una disputa giuridica con Mosca, deferendo a una Corte arbitrale la decisione sui

propri diritti sulle risorse naturali della zona economica esclusiva al largo della Crimea, nel Mar Nero

e nel Mare di Azov, includendovi anche l’illegalità dell’iniziativa russa di costruire unilateralmente un

ponte nello Stretto di Kerch.

Fino agli inizi del 2018, i russi hanno mantenuto un approccio non orientato verso un’escalation

dell’annessione con l’Ucraina nella dimensione marittima, consentendo alle navi di Kiev il transito

verso il Mare di Azov senza particolari restrizioni.

Come detto, tuttavia, dalla primavera del 2018, le tensioni sono notevolmente aumentate tra i

due Paesi con il tentativo di Mosca di ribadire il suo controllo dello spazio marittimo nel Mare di Azov,

anche attraverso la costruzione del ponte sullo stretto di Kerch. In ciò favorita dall’inesistenza della

flotta militare ucraina che, già modesta, ha visto la defezione dei 4/5 delle sue navi verso la Russia

durante la crisi del 2014, e dai meccanismi degli equilibri del potere marittimo garantiti dalla

convenzione di Monteaux degli inizi del novecento, che fa del Mar Nero un co-dominio strategico

turco – russo. In parallelo Kiev ha iniziato a spostare l’attenzione verso un allargamento del confronto

militare nello spazio marittimo del Mare di Azov, puntando probabilmente al rafforzamento delle

proprie capacità militari navali in questo mare interno, e avviando la costruzione di una nuova base

navale nel Mare di Azov, presso il porto di Berdiansk. Le prime due unità navali, due motocannoniere

classe Gyurza-M (Kremenchuk e Lubny) sono state costruite nei cantieri Kuzna on Ribalsky di Kiev

(posti sul fiume Dnepr e fino al 2017 denominati Leniskaya Kuznya) e trasportate nel Mare di Azov

via terra ai primi di settembre. Ad esse si sono aggiunte, a fine settembre, due altre navi militari, la

U-500 Donbass, una vecchia unità di supporto trasformata in nave Comando, e il rimorchiatore

militare Korets. Queste ultime due navi militari hanno attraversato lo stretto di Kerch il 23 settembre

sotto il controllo e la scorta dalle autorità russe, rispettando le procedure di transito introdotte da

Mosca. Esse sono le prime navi militari ucraine che transitano dal Mar Nero nel Mare di Azov dopo

il conflitto del 2014 e dopo la costruzione del ponte sullo stretto.

La situazione è invece precipitata due mesi dopo, il 25 novembre, quando un secondo

convoglio composto da un rimorchiatore militare e altre due motocannoniere ucraine classe Gyurza-

M (Nikopol e Berdyansk) hanno cercato di attraversare lo stretto di Azov senza richiedere

l’autorizzazione al transito alle autorità russe, provocando l’intervento della guardia costiera del FSB

che, dopo un breve conflitto a fuoco, ha catturato il rimorchiatore e le due navi militari di scorta. In

seguito all’incidente, 24 militari ucraini sono stati arrestati, alcuni dei quali feriti. Secondo le autorità

di Mosca le navi ucraine erano entrate illegalmente nelle acque territoriali russe senza rispettare gli

ordini delle autorità dei guardia coste russi.

Conseguenze dell’incidente, valutazioni e conclusioni

L’incidente marittimo di fine novembre nello stretto di Kerch ha prodotto una forte reazione da

parte del governo ucraino che ha messo le forze armate in massima allerta e ha introdotto la legge

marziale per 30 giorni nelle aree del Paese che potrebbero essere interessate da un eventuale

conflitto con Mosca (10 delle 24 regioni del Paese). È stato anche emesso un visa ban per i cittadini

maschi russi tra i 16 ed i 60 anni. Da par suo Putin ha accusato l’Ucraina di una deliberata

provocazione militare e le navi e gli equipaggi della marina ucraina sono ancora sotto arresto in

Russia.

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Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione del conflitto russo – ucraino?

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 24

Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha attivato un’attività diplomatica di mediazione tra Kiev e

Mosca, essendosi il presidente russo Putin rifiutato di parlare telefonicamente con il presidente

ucraino Poroshenko.

Il presidente americano Trump si è trovato costretto ad annullare il previsto incontro con il

presidente russo al margine del G20, senza accusare in modo particolare nessuna delle due parti,

ma richiedendo la liberazione dell’equipaggio ucraino. In seguito all’incidente le autorità russe hanno

provveduto a bloccare lo stretto con una petroliera posta lungo tutta l’apertura del ponte,

interrompendo per qualche giorno il traffico commerciale tra Mar Nero e Mare di Azov, dimostrando

la loro capacità di produrre un importante danno economico all’ucraina senza la necessità di ricorrere

allo strumento militare. L’Ucraina, difatti, trae una parte importante del bilancio dello Stato

dall’economia marittima delle regioni del Mare di Azov, che Mosca ha sotto controllo economico

detenendo le chiavi di entrata e di uscita da questo mare interno. In caso di rinnovata crisi Mosca

potrà nuovamente avvalersi delle sue capacità di blocco economico della regione con il duplice

obiettivo di danneggiare le capacità militari di Kiev e di dimostrare alla popolazione delle regioni

costiere sul Mar di Azov la loro dipendenza economica dalla volontà di Mosca.

Il transito ripreso nello stretto di Kerch dopo la crisi di fine novembre. fonte: MarineTrafic

Infine, come bilancio di questa piccola crisi, va sottolineato come le reazioni internazionali

siano state piuttosto misurate e la maggior parte dei Paesi terzi si sono posizionati per una

descalation della tensione e per chiedere alla Russia di ristabilire il libero accesso alle acque del

Mare di Azov alle navi ucraine, cosa che i russi hanno fatto. La posizione americana è stata più

articolata. Più neutrale quella del presidente Trump, più assertiva quella dell’ambasciatore

americano presso le Nazioni Unite Nikki Haley, che alle Nazioni Unite ha ricostruito la vicenda in

maniera favorevole all’Ucraina, dando la colpa dell’incidente alla Russia e affermando che gli USA

manterranno le sanzioni attualmente in essere contro Mosca e che episodi come l’incidente del 25

novembre rappresentano un abuso e che producono un deterioramento delle relazioni con gli USA.

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Balcani e Mar Nero

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 25

Anche in questi termini, tuttavia, la reazione americana può considerarsicomplessivamente

moderata. Leggermente più critica la dichiarazione del rappresentante inglese presso le Nazioni

Unite che – tra l’altro – ha definito le azioni di Mosca al pari di un’aggressione economica contro

l’Ucraina.

Analisi, valutazione e conclusioni

Complessivamente ci appare che l’incidente non vada classificato come uno scontro militare

quanto piuttosto come un conflitto giuridico/economico con cui Kiev ha cercato di effettuare

l’attraversamento dello stretto di Kerch senza richiedere il permesso alle autorità russe, perseguendo

l’obiettivo di ristabilire una propria libertà di circolazione attraverso gli stretti e disconoscendo

l’autorità che de facto Mosca ha assunto nel controllarne il transito; ciò ha attivato la violenta reazione

di Mosca che ha dovuto pagare un piccolo prezzo di immagine internazionale. Allo stesso tempo,

però, Kiev ha mostrato la sua vulnerabilità sia economica che militare, che Mosca può sfruttare nel

caso in cui l’Ucraina tenti di rimettere in discussione il controllo russo della penisola della Crimea.

L’esercizio del rigido controllo dell’accesso al Mare di Azov non rappresenta per Mosca solo

l’affermazione della propria conquistata sovranità sulla penisola della Crimea e sulle sue “acque

territoriali”, ma risponde anche a un preciso significato di condizionamento economico e

commerciale della vicina Ucraina. Mosca non ha interesse ad attuare una strategia di

“strangolamento” economico dei porti dell’Ucraina, ma piuttosto quello di mantenere il controllo

tattico dell’accesso, consentendolo o bloccandolo a seconda di come si muove, agisce e reagisce il

governo di Kiev sia nel Mare di Azov ma, potenzialmente, anche sul più ampio teatro del conflitto

nel Donbass. In questo senso lo scontro marittimo di fine novembre tra Mosca e Kiev va

probabilmente interpretato come una reazione/segnale russo all’Ucraina rispetto ai tentativi di

spostare la conflittualità sul terreno marittimo costruendo una nuova base navale nel Mare di Azov

e di concentrarvi assetti militari leggeri e rapidi.

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Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele Claudio Berttolotti

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 26

Israele ed Egitto: la soluzione per gli attacchi da Gaza passa dalla

Siria. Tunisia: un difficile contrasto al terrorismo.

Dopo una serie di lanci di razzi su Israele, il 27 ottobre il Movimento Jihad islamico – fazione

militante che opera nell’area di Gaza governata da Hamas e che ha stretti legami con l'Iran e la Siria

– ha temporaneamente interrotto gli attacchi in seguito alla mediazione dell’Egitto. L’Egitto, infatti, è

intenzionato a perseguire l'obiettivo di una “riconciliazione palestinese” tra Hamas e

l'amministrazione della West Bank, in Cisgiordania, retta dal Presidente dell’Autorità nazionale

palestinese riconosciuto a livello internazionale, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha perso il controllo

di Gaza nel 2007. Una mediazione fortemente voluta dal presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi,

anche interessato all’apertura di un dialogo con Israele, che è naufragata di fronte a un’“escalation

controllata” di violenza funzionale ai due contendenti sul piano politico interno.

Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, sono stati lanciati 34 razzi contro Israele. Il sistema israeliano

di difesa missilistica Iron Dome, dislocato su tutto il territorio per intercettare i missili che giungono

da Gaza, ne ha fermati 13, due sono esplosi a Gaza e il resto è caduto in spazi aperti nel sud di

Israele. Il confronto è seguito alle sanguinose proteste del giorno precedente – ma avviate il 30

marzo scorso con le manifestazioni di massa ai confini israeliani – durante le quali le forze israeliane

hanno ucciso quattro arabi palestinesi e provocato il ferimento di una trentina che, nell’ambito

dell’iniziativa “marcia del ritorno”, protestavano e tentavano di superare il recinto perimetrale che

divide Gaza da Israele.

Nell’acceso scambio di accuse tra le parti, Hamas – il principale gruppo militante che controlla

Gaza, indicato come gruppo terrorista da Israele, Stati Uniti e Unione Europea e che ha per obiettivo

principale la “distruzione di Israele” – ha accusato gli israeliani di ricorrere all'escalation militare "per

eludere gli obblighi" di un cessate il fuoco e, se da un lato ha chiesto che venisse sospeso il blocco

israeliano-egiziano su Gaza, ha anche continuato a minacciare Israele attraverso il lancio di razzi.

Sebbene il Movimento Jihad islamico agisca spesso indipendentemente da Hamas, Israele ha

accusato quest’ultimo, che governa Gaza dal 2007, di essere il responsabile degli attacchi che sono

stati lanciati dalle aree sotto il suo controllo. Israele ha inoltre accusato Hamas di usare le grandi

manifestazioni di protesta come copertura per infiltrazioni e attacchi al confine israeliano, mettendo

in pericolo la vita dei giovani manifestanti palestinesi.

Sul piano operativo, la reazione israeliana agli attacchi del 26-27 ottobre si è concretizzata in

azioni di bombardamento aereo mirato contro 80 obiettivi terroristici a Gaza, – inclusi campi di

addestramento, strutture per il deposito di armi e un edificio della sicurezza di Hamas - mentre, sul

piano politico, Israele ha accusato le forze iraniane delle “Guardie della Rivoluzione” Al Quds

schierate in Siria in supporto diretto alle azioni contro Israele; accuse che hanno aggiunto una nuova

dimensione al confronto tra Israele e i militanti di Gaza, perché l’apertura di un nuovo fronte in Siria

potrebbe trascinare Israele in un confronto aperto con le forze armate iraniane e di Hezbollah, a cui

si unirebbe l’incognita dei sistemi antiaerei russi S-300 ed S-400 (questi ultimi operativi dalla base

navale di Tartus in seguito all’abbattimento dell’aereo russo avvenuto a settembre) recentemente

schierati in aggiunta ai vecchi S-125 ed S-200 in dotazione alle forze siriane1.

1 Russia claims Syria air defences shot down 71 of 103 missiles, The Guardian, 14 aprile 2018, in

https://bit.ly/2EMdQ1c.

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Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 27

Il successivo 11 novembre Israele ha avviato un’operazione con forze speciali in territorio

palestinese – a Khan Younis, nel sud di Gaza – che ha portato alla morte di sette esponenti di

Hamas, tre di alto livello, tra i quali Nour al-Din Muhammad Salama Baraka, un comandante delle

Brigate Izzedin al-Qassam, un caduto tra gli israeliani, un ufficiale delle forze speciali, e un ferito.

All’azione israeliana è seguita l’immediata reazione palestinese con il lancio, in meno di 24 ore, di

oltre 400 razzi “Qassam” diretti verso le città di Sderot, Be’er Sheva, Ashdod e Ashqelon; un

centinaio sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, mentre l’aviazione israeliana ha compiuto

circa 150 attacchi, colpendo postazioni di Hamas e di altri gruppi palestinesi tra Rafah, Gaza e Khan

Younis. L’esercito ha rafforzato e messo in “stato di allarme” le unità corazzate e di fanteria

dispiegate nel sud del paese (area di Sderot).

Hamas ha, infine, posto la questione all’attenzione mediatica, chiedendo l’apertura di

un’inchiesta internazionale.

Analisi, valutazioni, previsioni

Dal punto di vista di Israele, la sicurezza a livello regionale è minata dall’attivismo delle forze

iraniane dispiegate in supporto a Damasco. Pertanto, la reazione israeliana potrebbe non “essere

limitata geograficamente" alla striscia di Gaza2, ma potrebbe essere estesa colpendo le forze

iraniane dispiegate in Siria e a quelle libanesi di Hezbollah e di altre milizie sciite impegnate a

sostegno del presidente Bashar al-Assad nella guerra civile iniziata nel 2011. Un supporto iraniano

a Damasco che potrebbe trasformarsi in una presenza stabile, una presenza stabile di unità militari

iraniane, o ad esse associabili, è ciò che più preoccupa Israele.

È evidente quanto la situazione che gravita attorno alla “questione palestinese”, per quanto

ormai di secondaria importanza per la maggior parte degli storici supporter, continui a rappresentare

un’opportunità per gli equilibri a livello regionale. Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia,

Qatar e Iran sono player regionali interessati, a diverso titolo, ad acquisire vantaggio e capacità di

influenza sui dinamici quanto variabili equilibri medio e vicino-orientali. Non stupisce dunque il ruolo

giocato dall’Egitto che, al fine di guidare un processo di pacificazione per la striscia Gaza, il 31

ottobre ha inviato i propri funzionari intelligence per incontrare i rappresentanti delle due fazioni;

l'ultimo di un giro di consultazioni “diplomatiche”.

Un dialogo che si è dimostrato difficile fin dal primo momento, come dimostrato

dall’atteggiamento di Hamas, il cui leader Yahya Sinwar ha dichiarato «che nessun dialogo con

l’occupante Israele può essere avviato»3; dialogo che, al di là delle parole, ha visto sedersi al tavolo

delle trattative l’Egitto, il Qatar e l’ONU con l’intento dichiarato di porre termine al blocco di Gaza e

ristabilire il controllo dell’Autorità nazionale palestinese4. Dai colloqui era derivata, sebbene per un

arco temporale limitato a poche ore, l’apertura dei passaggi di frontiera di Rafah e Erez, l’invio di

aiuti umanitari e fondi economici pari a 15 milioni di dollari – prevalentemente fondi del Qatar

destinati agli stipendi arretrati degli impiegati pubblici di Gaza5.

Accuse reciproche e altri problemi di fondo hanno portato Israele e Hamas a impantanarsi in

una spirale di violenza che ha causato tre guerre nell'ultimo decennio. Una situazione che rimane

apparentemente irrisolvibile6.

Hamas, nel corso degli anni, ha accumulato un vasto arsenale di razzi e altre armi che, anche

insieme ad altri gruppi armati palestinesi, ha utilizzato prevalentemente contro obiettivi civili

israeliani, in parte sfruttando una fitta rete di tunnel sotterranei per penetrare all’interno di Israele e

2 Akram F. Federman J., After Gaza strikes, Israel threatens Iranian forces in Syria, in https://bit.ly/2PIgaRt. 3 Khoury J., Hamas Chief in Gaza: 'There Is No Deal or Understandings' With Israel, in https://bit.ly/2Dj2lRO. 4 Ibidem. 5 Dentice G., Israele-Hamas: tregua senza pace, Commentary Ispi, in https://bit.ly/2qUS4UB. 6 Goldenber T., Underlying issues keep Israel, Hamas locked in violent loop, Associated Press, 13 Novembre 2018, in

https://bit.ly/2TqAm8w.

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Israele ed Egitto: la soluzione per gli attacchi da Gaza passa dalla Siria. Tunisia: un difficile contrasto al terrorismo.

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 28

condurre azioni terroristiche; tunnel costruiti utilizzando parte degli aiuti della Comunità

internazionale al popolo palestinese per la ricostruzione di Gaza. Al di là delle capacità militari, –

comunque limitate – Hamas è in difficoltà per una grave crisi economica e per la sfida lanciata dagli

altri gruppi jihadisti radicali palestinesi, tra i quali il citato Jihad islamico, i Comitati di resistenza

popolare, ma anche lo stesso braccio armato di Hamas e le Brigate Izzedin al-Qassam, in fase di

aperta contestazione alla leadership del gruppo dirigente di Hamas.7 Inoltre Sinwar, al pari del leader

israeliano Benjamin Netanyahu, ha bisogno di dimostrare la propria disponibilità a una soluzione

senza apparire debole, sia di fronte alla propria base, sia agli israeliani e al contempo non può o non

vuole scontrarsi con i supporter arabi stranieri che potrebbero cessare di sostenerne la causa.

Israele, da parte sua, riconosce che la situazione economica a Gaza rischia di sfociare in una

crisi umanitaria, ma rimane ferma sulle proprie posizioni: nessuna risoluzione politica potrà essere

raggiunta finché Hamas, che ha rifiutato di disarmarsi o rinnegare l’opposizione a Israele, sarà al

potere.

Dall’altro lato, l’Autorità nazionale palestinese. Ad aggravare la situazione è stata l’annosa

frattura tra la fazione Fatah di Hamas e Mahmoud Abbas. I tentativi di riconciliazione tentati negli

anni sono ripetutamente falliti, lasciando i palestinesi divisi tra governi rivali in Cisgiordania e Gaza;

tentativi infranti sullo scoglio del rifiuto di Hamas di disarmare i propri militanti.

Ciò di cui Abbas ha timore è che un accordo politico possa portare alla separazione formale tra Gaza

e West Bank, a vantaggio di Hamas. Nel tentativo di isolare Hamas dal suo elettorato e dal consenso

generale, Abbas, da un lato, ha avviato una politica di riduzione dei salari dei dipendenti governativi

a Gaza e ha tagliato i sussidi per il carburante per pagare l'elettricità. Dall’altro lato, ha contrastato

una serie di iniziative internazionali volte a riabilitare Gaza, nel timore che ciò potesse aiutare

Hamas. Tali misure, sommate al blocco decennale, hanno provocato una crisi economica e sociale

di Gaza e spinto un sempre più disperato Hamas ad alimentare ed organizzare le proteste di massa

ai confini con Israele.8

Terrorismo in Tunisia e riforma delle forze di sicurezza

Il 29 ottobre, un attacco terroristico ha colpito il cuore della città di Tunisi: una donna si è fatta

esplodere in avenue Habib Bourguiba, vicino al Ministero degli Interni e all'ambasciata di Francia,

ferendo venti poliziotti e sei civili. L'attacco suicida è stato portato a termine da Mouna Guebla9,

30anni, disoccupata con una laureata in economia aziendale, legata al gruppo Stato islamico e

indottrinata all’uso degli esplosivi attraverso il Web.

Un’azione che segue numerosi altri attacchi terroristici, tra cui quello del 2015 al museo

nazionale del Bardo, che ha provocato la morte di 24 persone e il ferimento di altre 45; e ancora,

sempre nel 2015, il massacro di Sousse con 38 vittime e l'attentato contro le guardie presidenziali.

Quest'anno, il 7 luglio, sei agenti di polizia sono stati uccisi ad Ain Soltane, Jendouba, nel nord-ovest

del Paese. Episodi che, tra i tanti, sono la manifestazione violenta di un crescente fenomeno jihadista

che fa della Tunisia il paese musulmano maggior “contributore” di foreign fighter per lo Stato islamico

in Siria, Iraq e Libia.

Una situazione di sicurezza precaria che ha portato a uno stato di emergenza che ha inflitto

un duro colpo alla fragile democrazia del Paese. L'attacco suicida, di natura improvvisata e di portata

limitata, da un lato, non ha influito sulla vita quotidiana dei tunisini, che vivono in uno stato di

emergenza dal 2015 e sono abituati alla notizia di attacchi mortali; dall’altro lato, ha messo in

evidenza come l'apparato di sicurezza tunisino sia sempre più in difficoltà nel gestire efficacemente

7 Dentice G., Israele-Hamas…, cit. 8 Goldenber T., Underlying issues keep Israel…, cit. 9 Tunisia minister: Woman bomber pledged allegiance to IS, Associated Press, 19 novembre 2018, in

https://bit.ly/2Bp8WsG.

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Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 29

l'instabilità interna a causa di un fenomeno che interessa non solo la Tunisia, ma tutto il Nord Africa10

e che si somma a dinamiche di contestazione politica e sociale.

Analisi, valutazioni, previsioni

È in discussione la capacità di controterrorismo dello Stato? Mentre la vita nella capitale è

tornata alla normalità, dopo un paio di giorni dall'attentato, l'attacco ha fatto emergere le perplessità

dei tunisini riguardo alle capacità di contro- e anti-terrorismo dello Stato. Un attacco mal pianificato

e improvvisato che è riuscito a ferire 20 persone nel cuore della capitale ha portato l’opinione

pubblica a chiedersi se le forze di sicurezza tunisine sono pronte ad affrontare altre e più gravi

minacce per il paese11.

La famosa avenue Habib Bourguiba, dove si è verificato l'attentato suicida, non è solo il cuore

politico e culturale di Tunisi, ma ospita anche il quartier generale del ministero degli Interni. Dall'inizio

dello stato di emergenza, iniziato nel 2015, la presenza di agenti della sicurezza nell'area è evidente,

con pattuglie di polizia ad ogni angolo e agenti in borghese pronti a intervenire. L’attacco ha così

sollevato numerosi interrogativi, non solo sulle capacità delle forze di sicurezza, ma anche

sull'efficacia di una crescente attività di polizia nell’azione di contro-terrorismo.

Tale riflessione si inserisce in un più ampio dibattito sulle forze di polizia, l’esercito e l’intero

settore della sicurezza la cui riforma, sebbene sia stata una delle principali richieste nel post-

rivoluzione del 2011, non è stata ancora avviata. Una richiesta di riforma che proviene sia da parte

delle forze di sicurezza, in chiave securitaria e rafforzativa, sia da parte delle società civile, in

un’ottica di ridimensionamento dei poteri concessi a militari e poliziotti.

Da una parte, una denuncia Human Rights Watch accusa di un crescendo nel numero di arresti

arbitrari, torture e uccisioni extragiudiziali di manifestanti e sostenitori dell'opposizione da parte di

agenti di polizia12 – accuse fermamente respinte dalle autorità.

Dall’altra parte, l’attacco del 29 ottobre è stata un’occasione per le autorità tunisine per

reiterare la richiesta di ulteriori poteri per le forze di sicurezza, in un’ottica di contrasto al terrorismo

e ai disordini politici e sociali. Oltre a chiedere nuove e più intrusive misure di sicurezza, il presidente

tunisino Beji Caid Essebsi ha anche chiesto la rapida adozione di un disegno di legge molto

discusso, e da più parti contestato, intitolato "Repressione degli attacchi contro le forze armate" che

esonererebbe le forze di sicurezza dalla responsabilità penale e sanzionerebbe in maniera molto

severa l’offesa ai poliziotti. Il presidente dell'Assemblea parlamentare, Mohamed Naceur, ha

espresso il proprio sostegno all'adozione del controverso progetto di legge e ha insistito affinché le

forze di polizia siano maggiormente tutelate.

Al contrario, la società civile tunisina e i gruppi per i diritti umani sembrano convinti che

l'adozione della legge possa essere un ulteriore colpo inferto alla debole democrazia e non otterrà

altro che la legalizzazione dell'impunità della polizia. A luglio, la direttrice tunisina di Human Rights

Watch, Amna Guellali, ha dichiarato che la legge trasformerebbe i membri delle forze di sicurezza

in "super cittadini": «nessuno potrebbe più criticarli, filmarli, mettere in discussione il loro

comportamento arbitrario o chiedere giustizia quando usano la forza in maniera ingiustificata»13.

Con l’attacco a Tunisi del 29 ottobre l’approvazione del disegno di legge sembra molto più

probabile.

10 Omar Safi, Terrorism in Tunisia and how it's evidence of an increasingly unstable North Africa, The Conversation, 13

novembre 2018, in https://bit.ly/2TqooM6. 11 Haythem Guesmi, How not to solve Tunisia's extremism problem, Al_Jazeera, 13 novembre 2018, in

https://bit.ly/2PFgGQ6. 12 Haythem Guesmi, How not to solve…, cit. 13 Ibidem.

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Sahel e Africa Subsahariana Marco Cochi

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 30

► Nell’ottobre 2016 le rivendicazioni di avvocati e insegnanti anglofoni contro la supremazia del

sistema legislativo ed educativo francofono, che discrimina le provincie abitate dalle minoranze di

lingua inglese, hanno innescato una serie di proteste, che hanno dato origine alla più grave crisi che

ha colpito il Camerun dal tempo dell’indipendenza. Il governo ininterrottamente guidato da 36 anni

dal presidente Paul Biya, ha schierato contro gli attivisti anglofoni, che rivendicano la secessione da

Yaoundé, anche le truppe scelte del Battaglione di intervento rapido, impiegate nella lotta ai jihadisti

nigeriani di Boko Haram. Nel conflitto si contano già centinaia di morti, sia fra i civili che fra i militari,

436mila sfollati e 30mila civili in fuga verso la Nigeria.

Origini e sviluppi della crisi nella regione anglofona del Camerun

La crisi che da più di due anni affligge le provincie anglofone del Camerun ha avuto inizio con

uno sciopero indetto da un consorzio di avvocati, che l’11 ottobre 2016 ha chiamato a raccolta i suoi

iscritti per protestare contro l’utilizzo del francese nei tribunali locali e la scarsa conoscenza delle

procedure anglosassoni da parte dei colleghi francofoni. Nessuno però poteva prevedere che la

contestazione avrebbe rilanciato le spinte secessioniste nelle due provincie abitate dalla minoranza

di lingua inglese, che rappresenta il 20% dei quasi venticinque milioni di abitanti del Paese africano1.

Le prime avvisaglie della ribellione hanno cominciato a manifestarsi nei giorni seguenti

quando, alla mobilitazione forense, si è unito anche il sindacato degli insegnanti che lamentava la

presenza di troppi professori di lingua francese nel sottosistema scolastico-educativo anglofono. Alla

protesta dei docenti hanno aderito anche gli studenti, ai quali è stato chiesto di non entrare in aula

finché le rivendicazioni non fossero state prese in considerazione dal governo.

Dalle pacifiche manifestazioni di piazza si è arrivati ben presto alle violenze, che hanno

raggiunto un punto di non ritorno tra il 21 e il 22 novembre 2016. In questi due giorni a Bamenda,

capitale della provincia anglofona del Nord-ovest, durante un sit-in sono scoppiati dei tumulti sedati

dalle forze dell’ordine che hanno aperto il fuoco sulla folla. Alla fine, la polizia ha ucciso un attivista

anglofono e ha ferito dieci persone, oltre ad arrestare più di cento manifestanti2.

Trascorsi più di due anni, il dissenso e la ribellione sono dilagati in entrambe le provincie del

Nord-ovest e del Sud-ovest, mentre le manifestazioni di piazza si sono trasformate nella più grave

crisi che ha colpito il Camerun dal tempo dell’indipendenza.

Secondo i dati raccolti all’inizio dello scorso ottobre dall’International Crisis Group, la violenta

repressione, condotta dai militari durante gli scontri con i diversi gruppi secessionisti, ha provocato

la morte di circa 500 civili e di centinaia di insorti3, mentre negli attacchi armati ad opera dei ribelli

hanno perso la vita almeno 185 membri dei servizi di sicurezza4. Molto critica è anche l’emergenza

umanitaria prodotta dalla crisi che, secondo recenti stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il

Coordinamento degli affari umanitari e l’Alto commissariato per i rifugiati, ha provocato 436mila

sfollati interni e costretto oltre 30mila civili a cercare rifugio in Nigeria5.

1 www.worldometers.info/world-population/cameroon-population/ 2 Bamenda protests: Mass arrests in Cameroon, in «BBC News», 23 novembre 2016. www.bbc.com/news/world-africa-

38078238

3 International Crisis Group, Africa Briefing n. 142, Cameroon: Divisions Widen Ahead of Presidential Vote, 3 ottobre

2018. https://d2071andvip0wj.cloudfront.net/b142-cameroon-divisions-widen.pdf

4 International Crisis Group, Africa Briefing n. 142, Cameroon: Divisions Widen Ahead of Presidential Vote, cit. 5 www.unhcr.org/en-us/news/briefing/2018/11/5be551224/fleeing-violence-cameroonian-refugee-arrivals-nigeria-pass-

30000.html

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Sahel e Africa Subsahariana

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 31

L’instabilità ha inciso anche sulla sicurezza alimentare delle aree anglofone, con circa mezzo milione

di persone che si trovano a dover affrontare una grave emergenza6.

Un recente report di Human Rights Watch (HRW) ha rilevato che sia le forze governative che

i separatisti armati hanno commesso gravi violazioni nei confronti di civili nella parte occidentale del

Paese7. Tra i vari abusi segnalati nel rapporto sono compresi rapimenti e uccisioni da parte dei

separatisti, che hanno anche sequestrato studenti e ordinato la chiusura di alcune scuole. Di contro,

i soldati camerunesi hanno risposto agli attacchi con brutali ritorsioni, incendiando interi villaggi,

uccidendo civili, arrestando e torturando sospetti separatisti nella regione anglofona8.

Per avere un’idea più precisa del livello raggiunto dallo scontro, è importante osservare che

per reprimere la rivolta il governo di Yaoundé ha mobilitato il Battaglione di intervento rapido (BIR),

un’unità d’élite dell’esercito camerunense impiegata nella lotta ai jihadisti nigeriani di Boko Haram.

I soldati del BIR sono stati accusati di aver perpetrato gravi violazioni nei confronti della popolazione

civile della regione meridionale del Camerun e secondo quanto riportato da un sacerdote cattolico

di Bamenda, sarebbero responsabili della morte di centinaia di bambini9.

La drammatica evoluzione della crisi è visivamente tangibile nel gran numero di videoclip

ampiamente condivisi sui social media, alcuni dei quali sono stati analizzati dalla BBC Africa Eye10.

I filmati, talvolta confusi e difficili da verificare, mostrano villaggi dati alle fiamme, esecuzioni e torture.

Ad alimentare il conflitto c’è anche un’accesa retorica, che ha visto dapprima i militari etichettare i

separatisti anglofoni come “terroristi”, che a loro volta hanno accusato l’esercito di aver orchestrato

un “genocidio” per sterminare la popolazione anglofona.

La genesi della crisi

Una prima disamina della questione pone in risalto che il problema è fondamentalmente legato

alla discriminazione della popolazione di lingua inglese, ma alle origini di questa grave crisi c’è molto

più che una divisione linguistica. Il conflitto in atto ha radici lontane che risalgono all’epoca delle

spartizioni coloniali quando, in base a quanto stabilito nella Conferenza di Berlino del 1884-85, il

Camerun divenne una colonia della Germania.

Dopo la firma di un accordo siglato nel marzo 1916 a Londra, l’ex possedimento tedesco fu

diviso assegnando la parte meridionale e settentrionale, equivalente a un quinto del suo territorio,

alla Gran Bretagna, mentre nel 1919 il resto del Paese venne interamente affidato alla Francia11.

Nel 1922, la Società delle Nazioni di Ginevra conferì ai due Stati europei il mandato sulle rispettive

zone amministrative, che nel 1946 fu rinnovato dalle Nazioni Unite.

Il primo gennaio 1960, la parte amministrata dalla Francia ottenne l’indipendenza diventando

la Repubblica del Camerun. All’indipendenza, fece seguito un referendum per mezzo del quale il

primo ottobre 1961 la zona settentrionale della colonia decise di essere assimilata dalla Nigeria,

mentre la regione meridionale di lingua inglese votò per unificarsi con la controparte francese.

Nacque così la Repubblica federale del Camerun, all’interno della quale gli anglofoni e i francofoni

avrebbero avuto gli stessi diritti, mentre le loro differenze sarebbero state rispettate e rappresentate

6 P. Le Roux, A. Boucher, Growing Instability in Cameroon Raises Fundamental Questions about the State, Africa Center

for Strategic Studies, 26 ottobre 2018. https://africacenter.org/spotlight/growing-instability-cameroon-raises-

fundamental-questions-about-state/

7 Human Rights Watch, Cameroon: Killings, Destruction in Anglophone Regions. Government and Separatists Abuse

Civilians, 19 luglio 2018. www.hrw.org/news/2018/07/19/cameroon-killings-destruction-anglophone-regions

8 Ibidem 9 233 Ambazonian children killed by the Rapid Intervention Battalion in three months, in «Cameroon Intelligence Report»,

20 novembre 2018. www.cameroonintelligencereport.com/233-ambazonian-children-killed-by-the-rapid-intervention-

battalion-in-three-months/

10 www.youtube.com/watch?v=ct_SLnAGDuM&t=144s&list=PLajyiGz4JeyO2qgCvioQO-BzP1XCajJqt&index=6 11 V. J. Ngoh, The Political Evolution of Cameroon, 1884-1961, Portland State University (1979). Dissertations and

Theses. Paper 2929. https://tinyurl.com/y9ywo2l2

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Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 32

all’interno delle istituzioni camerunesi. Il risultato del referendum del 1961 fu anche legittimato dalla

risoluzione 1608 adottata nella quindicesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni

Unite12, che secondo i separatisti non è mai stata applicata nei termini dovuti dal governo federale

del Camerun.

In sostanza avvenne che le aree ex-francesi ed ex-inglesi si costituirono in una federazione

bilingue, che mantenne una certa autonomia regionale fino al maggio 1972, quando l’allora

presidente Ahmadou Ahidjo indisse un nuovo referendum per abolire il federalismo e introdurre un

sistema di potere sempre più centralista, che sostituì lo Stato federale con uno Stato unitario, che

assunse il nome di Repubblica Unita del Camerun, lasciando la capitale a Yaoundé.

La proclamazione dello Stato unitario comportò anche l’eliminazione di una delle due stelle a cinque

punte dalla bandiera nazionale, che rappresentava la regione anglofona.

Le successive riforme costituzionali iniziarono a offuscare le caratteristiche bilingue e

biculturali del Paese, che peggiorarono dopo l’avvento alla presidenza nel novembre 1982 dell’allora

primo ministro Paul Biya, convinto sostenitore delle misure che promuovevano la centralizzazione

dell’ex colonia anglo-francese. Pochi mesi dopo la sua elezione, Biya decise di dividere la regione

di lingua inglese in due province: Nord-ovest e Sud-ovest.

Inoltre, per effetto della revisione dell’articolo 1 della Costituzione, in base alla legge 84/1

adottata il 4 febbraio 1984 dall’Assemblea Nazionale del Camerun, venne eliminato l’aggettivo

qualificativo Unita dal nome del Paese, che si sarebbe nuovamente chiamato Repubblica del

Camerun13.

Ahidjo e Biya sono stati dunque i due artefici delle politiche che hanno indirizzato il Paese

africano verso un apparato di governo basato sulla centralizzazione e sull’assimilazione, che gestito

in maniera superficiale ha portato la minoranza anglofona a sentirsi politicamente, culturalmente ed

economicamente assimilata dal sistema francofono.

12 https://documents-dds-ny.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/198/23/IMG/NR019823.pdf?OpenElement 13 http://www.cvuc-uccc.com/minat/textes/22.pdf

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Nel corso degli anni, la centralizzazione si è progressivamente rafforzata, restringendo lo

spazio democratico e le libertà individuali. Nel frattempo, l’emergere di movimenti politici anglofoni

non ha impedito la predominanza dei riferimenti culturali francesi, che ha contribuito ad alimentare

un crescente senso di perdita d’identità e di appartenenza nella minoranza anglofona. Quest’ultima

ha ripetutamente cercato di protestare contro questa deriva, ma il governo è rimasto fermo

nell’adozione delle sue politiche che hanno marginalizzato la popolazione di lingua inglese. Come

dimostrato dal fatto che nel 2017, su 36 ministri, solo uno era anglofono, mentre il presidente del

Senato, il presidente dell’Assemblea nazionale, il primo presidente della Corte Suprema e il

presidente del Consiglio costituzionale erano tutti di lingua francese.

La mancanza di rappresentanza ha accresciuto il rancore tra i giovani delle due provincie di

lingua inglese, che sono diventati sempre più sensibili al problema e attraverso i social media hanno

trovato una potente cassa di risonanza per le loro recriminazioni. La combinazione di questi elementi

e la persistente indifferenza del governo nel riformare le politiche centraliste adottate quasi mezzo

secolo prima, ha ulteriormente marcato le divisioni e incoraggiato le spinte secessioniste, che hanno

dato origine alle proteste del 2016.

La radicalizzazione dello scontro

La crisi attuale è dunque la preoccupante ripresa di un vecchio problema, che sta causando

una condizione di elevata instabilità nel Paese dell’Africa occidentale. Un’instabilità alimentata dalla

chiusura di Yaoundè, che fin dal principio ha vietato con ogni mezzo qualsiasi forma di dissenso.

Come il blocco della connessione ad internet nelle due provincie, che da gennaio ad aprile 2017 ha

oscurato le comunicazioni con l’esterno, in special modo con la diaspora camerunense, molto

coinvolta nella questione e dotata di risorse.

Tutto ciò ha alimentato ulteriori proteste nella regione e prodotto la radicalizzazione dello

scontro da parte di molti attivisti, che hanno scelto la strada della lotta armata per ottenere la

secessione raccogliendo larghi consensi, fino ad imporsi con fermezza alla guida della rivolta.

C’è inoltre da rilevare che la pesante repressione delle forze di sicurezza camerunesi e le

numerose perdite subite dai separatisti hanno contribuito a rafforzarne la determinazione. Va però

precisato, che queste frange estremiste hanno incendiato scuole ed edifici amministrativi, fino ad

esercitare una deriva autoritaria nei confronti dei residenti dei centri urbani più popolati delle aree

anglofone, ai quali in determinati giorni hanno proibito di circolare liberamente, minacciando violente

ritorsioni contro chiunque contravvenisse al divieto.

Una data che segna un punto di non ritorno nello scontro in atto con il governo centrale di

Yaoundé è il primo ottobre 2017, 56esimo anniversario dell’unificazione del Camerun. In occasione

della simbolica ricorrenza, i leader della protesta, riuniti sotto la sigla del Consiglio nazionale del

Camerun meridionale (SCNC), hanno autoproclamato l’indipendenza delle due province anglofone

dal resto del Paese, dando vita alla della Repubblica di Ambazonia14.

La decisione è stata accompagnata dalla nomina di un presidente, Sisiku Ayuk Tabe, che

dall’esilio ha formato il primo governo. Nella regione anglofona si sono poi formati vari gruppi armati

come le Forze di difesa dell’Ambazonia (ADF), braccio militare del Consiglio di Governo

dell’Ambazonia, le Forze di difesa del Camerun meridionale (SOCADEF) e il Consiglio di Autodifesa

dell’Ambazonia che comprende le Tigri dell’Ambazonia, i Manyu Ghost Warriors, le Milizie Vipers, le

Forze di difesa del Camerun meridionale (SCDF) e l’Esercito di restaurazione dell’Ambazonia (ARA).

14 Il nome Ambazonia è stato coniato nel 1984 da un gruppo di cittadini dell’ex Territorio Fiduciario delle Nazioni Unite

del Camerun meridionale, guidato da Gorji Dinka, un capo ancestrale del popolo di Widikum, che accusava il primo

presidente del Camerun, Ahmadou Ahidjo, di avere ritirato unilateralmente la Repubblica del Camerun dall’unione

creata nel 1961. Il termine ha un’origine geografica riferibile alla baia di Ambas, situata sulla costa del mare

direttamente di fronte all’isola equatoguineana di Bioko e considerata il confine naturale tra il Camerun di lingua

francese e il Camerun meridionale.

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Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 34

Oltre ad altre formazioni minori, come le Forze di Ambaland, che lo scorso 4 novembre hanno

rivendicato il sequestro di 79 studenti in una scuola secondaria presbiteriana nei pressi di Bamenda.

I separatisti armati combattenti sarebbero in tutto qualche centinaio, ma ciò nonostante sono

stati in grado di influire sul regolare svolgimento delle elezioni presidenziali dello scorso 7 ottobre

nella provincia sud-occidentale, ma soprattutto in quella del Nord Ovest, dove le violenze hanno

costretto le autorità locali a chiudere un notevole numero di seggi elettorali, determinando una bassa

percentuale di affluenza alle urne.

La proposta di una Conferenza generale anglofona

Tuttavia, nel protrarsi della crisi si registrano tentativi di apertura al dialogo, come l’appello

dello scorso settembre, che l’arcivescovo di Douala, Samuel Kleda, presidente della Conferenza

episcopale nazionale, il Reverendo Fonki Samuel Forba, leader del Consiglio delle Chiese

protestanti, e lo Sceicco Oumarou Malam, guida del Consiglio superiore islamico del Camerun,

hanno rivolto agli attori del conflitto per limitare le violenze e pacificare le provincie anglofone.

L’appello però non ha sortito l’effetto sperato e lo scorso primo ottobre, l’esecutivo di Yaoundé ha

imposto una serie di nuove misure restrittive volte a prevenire nuove manifestazioni nelle province

anglofone.

Nel tentativo di avviare un costruttivo dialogo nazionale per trovare una soluzione alla

questione anglofona, i tre leader religiosi hanno inoltre proposto l’organizzazione di una Conferenza

generale anglofona a Buea, capitale della provincia del Sud-ovest.

La conferenza inizialmente avrebbe dovuto tenersi il 29 e il 30 agosto, ma è stata rinviata dal

Comitato organizzatore al 21 e al 22 novembre per consentire una migliore preparazione dei lavori

e garantire la presenza di tutte le parti interessate15. Ma dopo che il 19 novembre gli organizzatori

hanno annunciato un nuovo rinvio dovuto alla mancata autorizzazione da parte delle autorità locali,

non sembra certo che la conferenza avrà luogo16. Sebbene la maggior parte dei leader filo-

federalisti, fautori del decentramento, e dei membri della società civile siano a favore dello

svolgimento dell’incontro, le difficoltà di far sedere intorno a un tavolo il governo e i leader separatisti

appaiono sempre più evidenti.

Analisi, valutazioni e previsioni

Il processo di pace per arrivare a una soluzione della crisi nella regione meridionale del

Camerun sembra incontrare molti ostacoli, prevalentemente incentrati sulla ipotetica forma di

governo, federale o decentralizzata, da instaurare nella zona anglofona, senza contare il cospicuo

numero di attivisti che invocano la secessione da Yaoundé. Inoltre, rimane sempre il nodo della

rappresentanza della minoranza di lingua inglese nelle decisioni politico-economiche del Paese,

oltre alla formale ammissione da parte del governo delle discriminazioni e delle ingiustizie subite nei

decenni dagli anglofoni.

C’è anche da evidenziare che il quasi ottantaseienne presidente Paul Biya, tornato lo scorso

ottobre per la settima volta alla guida del Paese, e i leader del suo partito, l’Unione democratica del

popolo camerunese (RDPC), pur avendo più volte affermato di essere «pronti al dialogo» con i

separatisti, finora non sono riusciti a offrire un percorso valido e concreto per uscire dallo stallo

politico e militare prodotto dalla crisi.

Peraltro, l’incertezza sulla possibilità di tenere una Conferenza generale anglofona dimostra

che il dialogo tra le parti in conflitto è ancora una prospettiva lontana, che dovrebbe essere resa

15 International Crisis Group, Cameroon: Proposed Anglophone General Conference Deserves National and International

Support, 17 settembre 2018. https://d2071andvip0wj.cloudfront.net/17sept18-cameroon-english.pdf

16 Cameroon: Anglophone General Conference postponed again, in «Journal du Cameroun», 20 novembre 2018.

https://tinyurl.com/y8cbx4db

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Sahel e Africa Subsahariana

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 35

possibile da una maggiore apertura del governo alle rivendicazioni di maggiore autonomia della

popolazione anglofona. Infine, l’urgenza di trovare nel breve termine una soluzione alla crisi va

considerata anche nella recessione economica che ne è seguita, che secondo l’Associazione degli

industriali del settore privato in Camerun (GICAM), ha prodotto alle aziende locali una passivo di

oltre 410 milioni di euro, oltre alla perdita di 6.500 posti di lavoro nel settore formale17.

17 Les conséquences de la crise anglophone sur l’économie du Cameroun, in «Camer.be», 19 settembre 2018.

www.camer.be/70292/12:1/cameroon-les-consequences-de-la-crise-anglophone-sur-leconomie-du-cameroun.html

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Corno d’Africa e Africa meridionale Luca Puddu

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 36

La guerra all’Al Shabaab in Kenya e Somalia

La visita in Italia del presidente federale somalo, Mohamed Abdullahi Mohamed, tra il 20 e il

22 novembre, è stata l’occasione per rilanciare i rapporti tra Mogadiscio e Roma e fare il punto sullo

stato della cooperazione in ambito militare, a cui l’Italia contribuisce attraverso l’European Union

Training Mission (EUTM) a Mogadiscio. L’importanza della lotta all’Al Shabaab e della

stabilizzazione del Corno d’Africa è stata ribadita da un altro evento che, negli stessi giorni della

visita di Mohamed, ha interessato il governo italiano: il rapimento della cooperante Silvia Romano,

sequestrata da un gruppo armato in Kenya. L’osservatorio si propone d’indagare sullo stato del

processo di pace in Somalia e sui progressi compiuti contro il movimento Al Shabaab, tanto nella

Somalia centro-meridionale che in Kenya, dove l’organizzazione continua a mantenere una rete

radicata sul territorio.

Somalia

Il viaggio del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed in Italia, tra il 20 e il 22 novembre, è

stato parte di una più ampia navetta diplomatica volta a mobilitare supporto internazionale per la

causa del governo federale. Pochi giorni prima di Roma, Abdullahi Mohamed aveva toccato Istanbul

per un incontro con il presidente turco Erdogan, il quale aveva dato rassicurazioni sull’impegno della

Turchia a sostenere la ricostituzione di una forza navale e di guardiacoste. All’indomani del viaggio

italiano, il capo di stato somalo è invece atterrato a Kampala, dove si è intrattenuto con il presidente

Museveni per discutere dell’impegno ugandese all’interno della missione dell’Unione Africana in

Somalia (AMISOM). Il futuro di AMISOM e degli aiuti militari della comunità internazionale è oggi il

principale elemento di criticità per il processo di pace in Somalia. La decisione delle Nazioni Unite

di estendere il mandato della missione fino al maggio 2019, contestualmente a una graduale

riduzione delle truppe impiegate sul terreno, ha allontanato lo spettro di un trapasso immediato di

poteri a favore delle poco organizzate forze armate somale, ma non ha sciolto i nodi di una riforma,

quella del settore della sicurezza, che ancora stenta a decollare1.

Una delle cause primarie della mancata attuazione della riforma è attribuibile ai difficili rapporti

tra governo federale e amministrazioni regionali, ormai improntati all’aperto conflitto istituzionale. Le

frizioni emerse nel corso del 2017, a seguito dei tentativi delle regioni d’intraprendere un corso di

politica estera autonomo e stipulare degli accordi internazionali con gli Emirati Arabi Uniti senza

passare da Mogadiscio, hanno raggiunto l’apice all’indomani della riunione di Chisimaio dell’8

settembre 2018, quando i presidenti degli stati federati hanno denunciato la fine di ogni rapporto di

collaborazione con l’amministrazione federale2. Al centro della disputa rimane la vexata quaestio del

potere di nomina della leadership militare e il trasferimento delle risorse finanziarie verso gli enti

locali; la redistribuzione logistica delle divisioni dell’esercito somalo in base alla nuova mappa

amministrativa federale ha creato, in alcuni casi, dei cortocircuiti istituzionali. Esemplare è il caso

della diatriba tra governo federale e amministrazione del Jubbaland per la scelta del nuovo

comandante della 43esima divisione di stanza a Chisimaio.3 L’assenza di una struttura di comando

centralizzata continua a inficiare l’efficienza del dispositivo di sicurezza anche nella capitale, dove

la presa delle istituzioni è teoricamente più forte.

1 United Nations Security Council Recolution 2431 (2018). https://www.un.org/press/en/2018/sc13439.doc.htm 2 International Crisis Group, “The United Arab Emirates in the Horn of Africa”, Middle East Briefing 65, November 2018. 3 UN Security Council, Letter dated 7 November 2018 from the Chair of the Security Council Committee pursuant to

resolutions 751 (1992) and 1907 (2009) concerning Somalia and Eritrea addressed to the President of the Security Council, p. 33.

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Corno d’Africa e Africa meridionale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 37

Qui continuerebbe a operare, secondo il Monitoring Group, una divisione “14 ottobre” beneficiaria di

finanziamenti privilegiati e alle dirette dipendenze dell’ufficio di presidenza, che ne avrebbe fatto uso

per operazioni particolarmente delicate, come l’occupazione della base militare evacuata dagli

Emirati Arabi.

L’imminenza delle elezioni per il rinnovo dei parlamenti e degli esecutivi degli stati regionali

non ha contribuito a stemperare queste tensioni. Nel Galmudug, il presidente regionale uscente ha

accusato un gruppo di senatori inviati da Mogadiscio d’indebite interferenze nell’arena politica locale,

chiedendone l’allontanamento. La situazione più delicata si registra nello stato regionale del South

West, snodo strategico della guerra all’Al Shabaab. Le elezioni locali, inizialmente previste per il 5

novembre, sono state ripetutamente spostate a causa delle accuse di brogli e irregolarità avanzate

dai diversi candidati, tanto da provocare le dimissioni del presidente della commissione elettorale e

del presidente regionale in carica Sheikh Sharif Hassan. In entrambi i casi, le decisioni erano state

motivate con i tentativi del governo federale di influire sull’esito del voto.

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La guerra all’Al Shabaab in Kenya e Somalia

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. I 38

La tornata elettorale ha infine avuto luogo il 19 dicembre con la vittoria dell’ex ministro federale per

l’energia Lafta-Garen, fortemente sostenuto da Mogadiscio. Il successo di Lafta-Garen è stato però

oscurato dall’arresto di un altro candidato: l’ex portavoce dell’Al Shabaab, Mukhtar Robow, rientrato

nei ranghi governativi nel 2017 e forte di un ampio sostegno popolare in quanto rappresentante di

spicco di uno dei clan maggioritari dell’area. La candidatura di Robow era stata inizialmente

osteggiata dal governo federale, ma il via libera dato dalla commissione elettorale del Southwest e

l’endorsement ricevuto da una serie di candidati minori aveva elevato l’ex comandante ribelle a

grande favorito, tanto da fargli guadagnare l’attenzione dello stesso ambasciatore britannico4.

Gli exit poll sono stati però rovesciati manu militari pochi giorni prima delle elezioni dalle forze di

polizia federali, le quali hanno arrestato Robow a Baidoa in collaborazione con le truppe etiopiche

di stanza nel Paese. L’arresto di Robow e la successiva repressione delle manifestazioni per il suo

rilascio rappresentano in quest’ottica un serio ostacolo alla prosecuzione del processo di pace: non

solo la sua detenzione va a incidere negativamente sulla futura disponibilità di altri capi della

guerriglia a deporre le armi e partecipare pacificamente al rito democratico, ma incrina in maniera

significativa i rapporti tra le istituzioni federali e uno dei sotto-clan piu importanti della Somalia

centrale, i Leysan. D’altra parte, l’episodio è paradigmatico della volonta di Mohammed Abdullahi

Mohammed di proseguire nel percorso di centralizzazione politica in atto, anche al costo di minare

le regole del nuovo ordinamento istituzionale somalo. Il coinvolgimento delle truppe etiopiche

nell’operazione e all’infuori del mandato della missione dell’Unione Africana rappresenta da ultimo

un segnale della determinazione di Addis Abeba a sostenere il presidente federale somalo senza se

e senza ma, anche al prezzo di sfidare la volonta di altri partner AMISOM come Kenya e Uganda5.

La data del ritiro di AMISOM, ora prevista per la primavera 2019, e la capacità delle forze

armate somale di prendere in carico le operazioni contro-insurrezionali sono un altro nodo di cruciale

importanza per le prospettive di stabilizzazione del teatro somalo. La resilienza dell’Al Shabaab è in

parte il risultato del complesso quadro politico regionale e della difficoltà a controllare il sistema di

contrabbando di armi ed esplosivi lungo l’asse yemenita, che influisce sul costo-opportunità dello

strumento militare per sfidare lo status quo6. La campagna di amnistia lanciata dal presidente

federale dal 2017 aveva finora registrato alcuni successi, senza però riuscire a destrutturare

l’organizzazione del movimento. Mukhtar Robow era stato l’ufficiale di più alto grado ad

abbandonare la violenza armata: la sua defezione aveva consentito di guadagnare alla causa alcune

decine di combattenti dell’organizzazione affiliati al clan Leysan, alleggerendo la pressione sulle

forze armate somale nelle regioni centrali del Bay e Bakool.7 Ciò non aveva però impedito ai ribelli

di continuare a mettere a segno una serie di attentati contro le truppe AMISOM e le installazioni

governative tanto nella capitale che nei centri urbani minori, oltre a mantenere il controllo di vaste

aree dell’entroterra rurale. Gli eventi di dicembre a Baidoa, tuttavia, potrebbero sancire la fine dei

progressi in questa direzione.

L’epicentro delle violenze continua ad essere concentrato nei dintorni della capitale. Il 9

novembre, un commando di quattro terroristi ha assaltato l’hotel Salafi, dinanzi ad una delle principali

sedi di polizia di Mogadiscio, provocando più di 50 vittime. A questo attentato ha fatto seguito

l’esplosione di un’autobomba il 24 novembre, con un bollettino finale di decine tra vittime e feriti.

4 https://twitter.com/HarunMaruf/status/1066728363140816896 5 Arrest of ex-Shabaab-leader-turned-politician sparks deadly clashes in Somalia, France 24, 15 December 2018. See:

https://www.france24.com/en/20181215-somalia-arrest-ex-shabaab-leader-politician-deadly-clashes 6 UN Security Council, Letter dated 7 November 2018 from the Chair of the Security Council Committee pursuant to

resolutions 751 (1992) and 1907 (2009) concerning Somalia and Eritrea addressed to the President of the Security Council, p. 3.

7 UN Security Council, Letter dated 7 November 2018 from the Chair of the Security Council Committee pursuant to resolutions 751 (1992) and 1907 (2009) concerning Somalia and Eritrea addressed to the President of the Security Council, p. 28.

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Corno d’Africa e Africa meridionale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 39

Un’altra operazione di una certa rilevanza si è registrata a Baidoa, il 19 novembre, quando un

commando armato ha assaltato un convoglio AMISOM con l’ausilio di due ordigni improvvisati. Il

fatto che gli obiettivi dell’Al Shabaab siano tanto le truppe dell’AMISOM che influenti personalità

locali suggerisce il tentativo di perseguire un duplice scopo: mettere pressione sui Paesi che

contribuiscono alla missione militare e riaffermare le prerogative di controllo e tassazione del

territorio dopo la ritirata degli ultimi anni. Un rapporto recente del Monitoring Group ha, ad esempio,

evidenziato come l’Al Shabaab sia in grado di imporre un sistema di tassazione omogeneo anche in

quei territori evacuati negli ultimi anni e oggi controllati in maniera solo sporadica. In quest’ottica può

leggersi l’attentato contro un funzionario di una compagnia di telecomunicazioni al mercato di

Bakara, area della capitale tradizionalmente nevralgica per l’economia locale.8

Un discorso simile vale anche per gli altri attentati messi a segno dall’Al Shabaab

nell’entroterra somalo. Il 25 novembre, un commando armato composto da due kamikaze si è fatto

esplodere nella città di Galkayo, capoluogo putativo della provincia del Mudug e controllata

congiuntamente dalle forze armate degli stati regionali del Galmudug e del Puntland. L’obiettivo dei

terroristi era in questo caso un centro di preghiera locale, il cui Imam era stato messo sotto il tiro

dell’organizzazione per l’utilizzo di pratiche ritenute contrarie all’ortodossia dell’Islam9. Altri episodi

di violenza si sono registrati nella provincia meridionale del Gedo, dove un notabile del luogo è stato

decapitato da un gruppo armato apparentemente riconducibile all’insorgenza islamista. Sempre nel

Gedo, l’Al Shabaab aveva d’altronde dato notizie di sé il 9 novembre in occasione di un’offensiva

coordinata contro una base militare delle forze keniote operanti sotto l’ombrello di AMISOM.

Un altro teatro di operazioni dell’organizzazione è la Somalia settentrionale, zona in cui

continua l’escalation di violenza nei dintorni della capitale commerciale Boosaso. Il 20 Novembre,

un commando armato ha reclamato l’attacco a una pattuglia di soldati nei pressi della città, mentre

alcuni giorni più tardi è stato gravemente ferito il vice-presidente della locale Corte Suprema.

Quest’ultimo episodio è paradigmatico del delicato equilibrio in cui si trovano ad operare le forze

armate del Puntland, nonché del radicamento dell’Al Shabaab nel tessuto sociale locale. L’uccisione

del giudice supremo è infatti legata al caso di Hussein Tahlil, comandante dell’Al Shabaab

condannato a morte dalla corte di Boosaso per il coinvolgimento in un attacco terroristico a Galkayo,

il 14 novembre, ma rilasciato tre giorni più tardi su espresso ordine del presidente puntino Gaas,

dopo che le autorità dell’area avevano sollevato il rischio di possibili scontri tra clan in caso di

esecuzione della sentenza10.

La risposta dell’apparato militare somalo e dell’alleato statunitense continua e si incentra su

una campagna di attacchi al suolo attraverso l’utilizzo di droni. Nel mese di Novembre sono stati

condotti diversi bombardamenti nelle regioni centrali del Paese, con un bollettino finale di alcune

decine di vittime tra i combattenti ribelli.11 Parallelamente, continuano i preparativi per l’offensiva

congiunta delle truppe AMISOM e dei reparti della 27esima divisione dell’esercito somalo

nell’HirShebelle. L’escalation militare è, in parte, il risultato del perdurare delle attività dell’Al

Shabaab nell’area: proprio nell’HirShebelle, il movimento ha condotto una serie di attentati contro le

forze armate somale nel mese di Novembre, colpendo anche due deputati dell’assemblea

regionale12.

8 https://twitter.com/HarunMaruf/status/1063075078651473920 9 Somalia: Sufi scholar, followers killed in al-Shabab attack, Al Jazeera, 26 November 2018. See:

https://www.aljazeera.com/news/2018/11/somalia-sufi-scholar-followers-killed-al-shabab-attack-181126053348923.html

10 Somalia: Puntland President Frees Terrorist Awaiting Execution, Garowe Online, 18 November 2018. See: https://www.garoweonline.com/en/news/puntland/somalia-puntland-president-frees-terrorist-awaiting-execution

11 https://goobjoog.com/english/three-u-s-strikes-in-two-days-kill-44-shabaab-militants/; https://www.africom.mil/media-room/pressrelease/31351/al-shabaab-degraded-by-u-s-federal-government-of-somalia

12 Somalia: at least 10 Soldiers Killed in Al Shabaab Ambush, Garowe Online, 25 November 2018. See: https://www.garoweonline.com/en/news/somalia/somalia-at-least-10-soldiers-killed-in-al-shabab-ambush

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La guerra all’Al Shabaab in Kenya e Somalia

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. I 40

Il radicalismo di matrice islamica in Kenya

Nel corso degli ultimi dieci anni il raggio d’azione dell’Al Shabaab si è gradualmente diffuso

dalla Somalia ai Paesi confinanti, nel quadro di una consapevole strategia di regionalizzazione

dell’insorgenza volta a punire quei Paesi rei di contribuire alla missione AMISOM. Il Kenya ha subito

l’iniziativa più di altri stati dell’area, tanto per ragioni di contiguità geografica che per la presenza di

una nutrita comunità somalofona all’interno dei propri confini.

L’attività di proselitismo dell’Al Shabaab in Kenya inizia intorno al 2007, in concomitanza con

l’affermarsi del movimento quale principale referente dell’opposizione alle truppe d’occupazione

etiopiche dopo la caduta dell’Unione delle Corti Islamiche a Mogadiscio. Inizialmente, la presenza

di cellule terroristiche viene trascurata dalle autorità di Nairobi, consentendo ad alcuni Imam locali

legati all’organizzazione di muoversi liberamente all’interno del territorio nazionale per creare i primi

gruppi di contatto e raccogliere donazioni per lo sforzo bellico in Somalia.13 Dopo il 2011 le procedure

di reclutamento si trasformano, passando attraverso cellule locali dotate di un proprio radicamento

autonomo come Al-Hijra. Quest’ultima fa ricorso a strumenti di propaganda innovativi in lingua

swahili per mobilitare supporto alla causa del conflitto nella Somalia meridionale e, a partire dal

2012, della “guerra santa” contro il governo di Nairobi14. Il repertorio dell’organizzazione fa leva sul

senso di marginalizzazione percepito dalle province del nord-est somalo-keniota e dalle comunità

musulmane lungo la costa, storicamente contrapposte a un governo centrale dominato da gruppi

dirigenti di etnia Kikuyu e religione cristiana.

La risposta del dispositivo di sicurezza del Kenya al diffondersi dell’attività di Al Hijra ha finora

provocato risultati contraddittori. L’operazione Usalama Watch nella primavera 2014, ad esempio, si

risolse nell’arresto di circa 4000 sospettati di affiliazione al network di matrice terrorista, ma le

modalità arbitrarie di detenzione e il fatto che la gran maggioranza degli arrestati fossero di etnia

somala contribuì ad aggravare il senso di persecuzione nelle comunità somalo-keniote del nord-est,

a tutto favore della retorica dell’Al Shabaab. Gli attacchi che si susseguirono lungo la costa keniota

nell’estate e autunno del 2014 confermarono questi timori: tanto l’attacco a Mpeketoni del luglio 2014

che le aggressioni successive in altri piccoli villaggi nelle contee di Lamu e Malindi vennero

presentati come una vendetta per l’occupazione di terre musulmane da parte di coloni cristiani,

mescolando così l’elemento religioso con le storiche rivendicazioni anti-Kikuyu di alcuni gruppi etnici

kenioti lungo la costa15. L’attacco del 2 aprile 2015 contro il campus dell’università di Garissa, nel

Kenya nord-orientale, ha in qualche modo sancito l’inizio di una nuova strategia di contenimento del

fenomeno jihadista da parte di Nairobi. Preso atto dei contraccolpi negativi di un approccio

esclusivamente securitario, il governo centrale ha da allora virato verso un maggior coinvolgimento

delle autorità locali nella lotta al fenomeno terrorista, devolvendo maggiori risorse finanziarie per

disinnescare il circolo vizioso tra disoccupazione giovanile e adesione alla causa jihadista. Questa

strategia si è rivelata particolarmente proficua nella contea di Mombasa, dove gli attacchi sono andati

gradualmente scemando a partire dal 2015.

Una traiettoria simile si è registrata in quello che è stato tradizionalmente il principale proscenio

di attività dell’Al Shabaab in Kenya: le province nord-orientali a maggioranza somala. Anche qui, il

coinvolgimento delle autorità locali nella gestione delle strategie di contro-insorgenza e il

potenziamento dei centri di preghiera più moderati hanno diminuito i tassi di reclutamento tra i

giovani del luogo, mentre la creazione di un nuovo corpo di polizia di riserva, deputato ad assistere

le forze armate ufficiali, ha migliorato la capacità di pattugliamento del territorio16.

13 International Crisis Group, “Kenyan Somali Islamist Radicalisation”, Africa Policy Briefing, 85, 25 January 2012. 14 David Anderson, Jacob McNight, “Understanding Al Shabaab: clan, Islam and insurgency in Kenya”, Journal of

Eastern African Studies, 9, 3, 2015. 15 David Anderson, Jacob McNight, “Understanding Al Shabaab”, p. 548. 16 International Crisis Group, “Al Shabaab Five Years After Westgate: Stille a Menace in East Africa”, Africa Report

26521 September 2018, p. 14.

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Corno d’Africa e Africa meridionale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 41

La capacità dell’Al Shabaab di condurre operazioni armate e reclutare adepti tra le comunità somalo-

keniote lungo la frontiera internazionale è in parte addebitabile al retaggio storico dei rapporti centro

periferia nel nord-est. Sin dall’indipendenza del Kenya, quest’area ha ospitato popolazioni mobili e

restie a rispettare le costrizioni imposte dal confine internazionale, generando un senso di

alienazione alle normative sulla mobilità decise a Nairobi. La contiguità etnica con lo stato somalo

al di là della frontiera diede, inoltre, vita a un diffuso sentimento di sostegno alla causa della guerriglia

secessionista nel corso degli anni ’60 e ’70. In risposta, il governo keniota adottò delle strategie di

repressione iscritte nella storia coloniale del Paese, contraddistinte dal ricorso a sanzioni collettive

contro intere comunità sospettate di vicinanza ai ribelli17. In buona parte, le tecniche odierne di

contrasto alla guerriglia nel nord-est sono le medesime: il discorso securitario legato alla repressione

del terrorismo di matrice islamista ha legittimato il ricorso a punizioni di tipo collettivo contro intere

comunità, ree di ospitare o aver ospitato individui afferenti all’Al Shabaab o suoi epigoni. Ciò si evince

anche da alcune testimonianze sulle operazioni condotte in queste settimane dal dispositivo di

polizia di Nairobi per rintracciare i potenziali rapitori della cooperante italiana: gli abitanti del villaggio

di Matolani, nella contea di Lamu, hanno denunciato il rastrellamento dell’intera comunità da parte

dell’esercito keniota, chiedendo che la caccia ai colpevoli non si traducesse in una condanna acritica

della collettività locale.18

Il controllo dei territori a cavallo tra Kenya e Somalia è cruciale per l’approvvigionamento

finanziario dell’Al Shabaab. Negli ultimi dieci anni, l’organizzazione ha costruito buona parte delle

sue fortune sull’acquisizione nel 2007 della strategica città portuale di Chisimaio, da cui transita

buona parte del commercio di contrabbando tra Kenya e Somalia. La perdita di Chisimaio nel 2012

rappresentò un durissimo colpo per le finanze del movimento, che si vide costretto a spostare il

baricentro della propria attività lungo il tragitto transfrontaliero terrestre, entrando così in rotta con i

trafficanti somalo-kenioti impegnati nel commercio di contrabbando. Ancora oggi, secondo le stime

del Monitoring Group, il movimento islamista continuerebbe a fruire in maniera imponente dei traffici

illegali di legname e carbone attraverso il porto di Chisimaio, seppur indirettamente. Ingenti somme

sarebbero raccolte ogni giorno sotto forma di estorsioni a commercianti e migranti grazie ad un

intricato sistema di dogane lungo le arterie stradali minori nell’entroterra19.

17 Hannah Whittaker, “Legacies of Empire: State Violence and Collective Punishment in Kenya’s North-eastern

province, 1963—present”, The Journal of Imperial and Commonwealth History, 43, 4, 2015.

18 Kenya: Wife of Suspect in Italian's Abduction Arrested in Garsen, Daily Nation, 26 November 2018. See: https://allafrica.com/stories/201811260007.html

19 UN Security Council, Letter dated 7 November 2018 from the Chair of the Security Council Committee pursuant to resolutions 751 (1992) and 1907 (2009) concerning Somalia and Eritrea addressed to the President of the Security Council, p. 5.

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La guerra all’Al Shabaab in Kenya e Somalia

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. I 42

Da un punto di vista più prettamente militare, la prosecuzione di un’insorgenza a bassa

intensità nella contea keniota di Garissa è incentivata dalla presenza di un rifugio naturale, quale la

foresta di Boni, che si snoda attraverso il confine internazionale. È a questo scopo che, dal 2015,

l’esercito keniota ha lanciato l’operazione Linda Boni, con l’obiettivo di ripulire l’area dalla presenza

di combattenti operanti sotto le bandiere dell’Al Shabaab. I risultati della missione sono stati finora

positivi, sebbene lungi dal prevenire periodici attentati contro le forze armate keniote o sradicare la

presenza del gruppo armato nelle zone forestali. In alcuni casi, tuttavia, l’opera di pattugliamento si

è rivelata utile a prevenire nuovi attentati in grande stile, come quello nel centro commerciale di

Nairobi nel 2013. All’inizio del 2018, ad esempio, la polizia keniota ha catturato un veicolo militare

con a bordo una partita di armi leggere ed esplosivi, presumibilmente destinati ad un attacco suicida

in territorio keniota20. Ulteriori progressi si sono registrati nelle ultime settimane. Il 19 novembre, le

forze keniote hanno annunciato l’uccisione di un gruppo di ribelli e il sequestro di un piccolo arsenale

probabilmente destinato a futuri attentati sul territorio nazionale21.

Analisi, valutazioni e previsioni

I progressi registrati in questi anni nel contenimento dell’Al Shabaab in Somalia non sono stati

sufficienti a debellarne il radicamento sul territorio. La natura talvolta opportunistica dell’affiliazione

al movimento rende impossibile la sua definitiva sconfitta in assenza di un maggior controllo sui

flussi di armi importate nella penisola e di un autentico processo di riconciliazione nazionale.

Le frizioni tra stati regionali e governo federale e le tensioni inter-claniche nella Somalia centrale

rappresentano, in quest’ottica, un’opportunità per il gruppo armato, che nelle ultime settimane ha

20 UN Security Council, Letter dated 7 November 2018 from the Chair of the Security Council Committee pursuant to

resolutions 751 (1992) and 1907 (2009) concerning Somalia and Eritrea addressed to the President of the Security Council, p. 4.

21 Kenya: Four Al-Shabaab Militants Killed in Linda Boni Operation, Daily Nation, 19 November 2018. See: https://allafrica.com/stories/201811200302.html

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Corno d’Africa e Africa meridionale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 43

messo a segno un numero crescente di attentati sfruttando le deficienze del sistema di sicurezza

governativo e la presenza di fiancheggiatori in loco. La ripresa delle attività dell’Al Shabaab in

Somalia avrebbe ripercussioni immediate dall’altra parte del confine, dove il movimento continua a

mantenere una radicata presenza nonostante i risultati segnati dall’esercito keniota. L’attuale

schieramento politico nella disputa tra stati regionali e governo federale svela una contraddizione

intrinseca alla proiezione di politica estera di Nairobi nel teatro somalo. Il Jubbaland, stato regionale

creato con il sostegno militare e diplomatico del Kenya al fine di creare una zona cuscinetto a

protezione del confine, è oggi in prima fila nel sostenere le istanze delle regioni contro

l’intraprendenza di Mogadiscio. Il cortocircuito istituzionale in Somalia rischia di rivelarsi un

boomerang per le ambizioni di pacificazione della frontiera nord-orientale e ritardare ulteriormente

la transizione di potere da AMISOM alle forze armate somale.

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Fabio Indeo

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 44

La conferenza di pace sull'Afghanistan: il “regionalismo” russo

La pacificazione e la stabilizzazione dell'Afghanistan è stato il principale argomento di

discussione affrontato dagli attori regionali convenuti a Mosca per la conferenza di pace

sull'Afghanistan: la partecipazione di una delegazione Taliban, oltre a rappresentare un elemento di

novità, contribuisce a delineare lo sforzo geopolitico della Russia volto a inquadrare il dossier afgano

in una dimensione regionale. Eliminare la minaccia destabilizzante rappresentata dallo Stato

Islamico costituisce un obiettivo condiviso da Russia, Cina e le altre nazioni confinanti con

l'Afghanistan, in modo da poter promuovere una rinnovata cooperazione economica e politico-

securitaria su nuove basi.

La dimensione regionale della politica estera moscovita verso l'Afghanistan

Il 9 novembre, la Russia ha ospitato a Mosca la conferenza di pace sull'Afghanistan, alla quale

hanno partecipato le tre repubbliche centroasiatiche che confinano con questa martoriata nazione -

Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan - Pakistan, Iran e Cina. A dare una grande rilevanza a questa

iniziativa è stata la volontà di Mosca di coinvolgere e ottenere la partecipazione di esponenti dei

Taliban e di una delegazione afgana dell'Alto Consiglio per la Pace (HPC), mentre nessun esponente

ufficiale del governo di Kabul ha partecipato ai lavori, non condividendo l'apertura moscovita nei

confronti dei Taliban.1

Nel discorso inaugurale, il Ministro degli Esteri russo Lavrov ha sottolineato che la finalità

dell'evento era quello di creare le condizioni favorevoli per stimolare un dialogo tra le diverse

componenti nazionali afgane, con l'obiettivo di raggiungere un accordo nazionale condiviso, ovvero

una soluzione politica che preveda il coinvolgimento delle varie fazioni in conflitto.2

Ciononostante, il governo di Kabul ha ufficialmente preso le distanze dall'evento, sottolineando

come la partecipazione della delegazione HPC fosse non in rappresentanza governativa.

Il presidente afgano Ghani, infatti, teme che un progressivo riconoscimento internazionale conferisca

legittimità al movimento Taliban, con una progressiva marginalizzazione ed esautorazione delle

forze politiche nazionali ufficialmente riconosciute.3

E' interessante rilevare come il coinvolgimento della Cina e delle nazioni confinanti con

l'Afghanistan abbia messo in chiara evidenza la dimensione regionale di questo sforzo diplomatico

intrapreso dalla Russia, che ha veicolato la forte preoccupazione espressa da questi stati sulla

tenuta dell'architettura di sicurezza regionale per il persistere di minacce destabilizzanti che inficiano

sul successo e sulla realizzazione dei vari progetti infrastrutturali, economici ed energetici e sulle

embrionali forme di cooperazione regionale.

In sostanza, è emersa la volontà di Putin di legittimare la Russia nella funzione di principale

attore regionale in ambito securitario, interpretazione che spiega la definizione di questa conferenza

di pace come un format di consultazione promosso da Mosca al fine di "coordinare lo sviluppo di un

1 Stephen Blank, Russia’s Peace Conference on Afghanistan: What Does It Mean?, Eurasia Daily Monitor Volume: 15

Issue: 162, November 13, 2018,https://jamestown.org/program/russias-peace-conference-on-afghanistan-what-does-it-mean/

2 The Ministry of Foreign Affairs of Russia Federation, Foreign Minister Sergey Lavrov’s remarks at the second meeting of the Moscow format consultations on Afghanistan, Moscow, November 9, 2018, http://www.mid.ru/en/press_service/video/-/asset_publisher/i6t41cq3VWP6/content/id/3403878

3 Ayesha Tanzeem, Afghan Government Distances Itself From Moscow Conference, VOA News, November 09, 2018,

https://www.voanews.com/a/afghan-government-distances-itself-from-moscow-conference/4651819.html

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 45

inclusivo dialogo intra-afgano che conduca a promuovere un processo di riconciliazione nazionale e

una pacificazione in tempi brevi per alleviare le sofferenze dello stato afgano".4

Si assiste quindi a una riproposizione, in chiave russa e regionale, del format 6+3 - che aveva

avuto nel primo Presidente dell'Uzbekistan Karimov il maggior sostenitore – e che originariamente

coinvolgeva in un forum di dialogo e consultazione le sei nazioni confinanti con l'Afghanistan

assieme a Russia, Stati Uniti e NATO per promuovere il dialogo di pace tra Afghanistan e Taliban.

La “regionalizzazione” della politica russa nei confronti dell'Afghanistan ha determinato

l'evoluzione di questo format secondo logiche differenti, con la sostanziale esclusione degli Stati

Uniti, la cui influenza geopolitica appare molto marginale a seguito della decisione di ripensare la

presenza militare della NATO in Afghanistan dopo il 2014. Mosca si pone quindi come promotrice di

un’iniziativa multilaterale, che coinvolge nel dialogo Cina e Pakistan (tra loro alleati), come attori di

rilievo, e le repubbliche centroasiatiche;5 la Russia cerca a tal fine di cementare la proficua

partnership politica-energetico-diplomatica con Pechino, mantenendo allo stesso tempo la

tradizionale "divisione del lavoro" nella regione centroasiatica, con Mosca garante della sicurezza e

la Cina come principale partner economico.6

Sin dalla prima conferenza regionale sull'Afghanistan patrocinata dalla Russia nel 2016,

emergeva la condivisa preoccupazione riguardo alla “filiale” afgana dello Stato Islamico (il velayat

Khorasan), in quanto seria minaccia per la stabilità regionale, e la necessità di promuovere con forza

un processo di riconciliazione nazionale e riappacificazione attraverso il coinvolgimento dei Taliban.7

La ratio della strategia di Mosca è quella di stabilire e mantenere canali di comunicazione con i

Taliban moderati, anche se la posizione ufficiale del governo russo è quella di riconoscere la

legittimità dello stato afgano, del governo di unità nazionale e delle forze armate afgane.8 Questo

approccio si è rafforzato a partire dal 2016, proprio a causa della crescente preoccupazione per la

presenza e l'attivismo dei militanti legati allo Stato Islamico presenti in Afghanistan, che rischiano di

soppiantare i Taliban palesandosi come una minaccia di difficile contenimento.

L'inconciliabile divergenza ideologica che contrappone i Taliban (che perseguono obiettivi

nazionali finalizzati alla creazione di un Emirato Islamico dell'Afghanistan) versus gli obiettivi

transnazionali dei jihadisti legati a Daesh spinge Mosca a considerare i militanti afgani come un

opzione migliore rispetto a un eventuale presa del potere dello Stato Islamico, che graverebbe come

una minaccia sull'intera regione sino a intaccare, teoricamente, i confini meridionali della Russia,

oltre a incidere negativamente sullo sviluppo e sulla cooperazione economico-commerciale

transregionale.9

Questa combinazione tra esigenza di stabilità regionale e ragioni di realpolitik ha caratterizzato

l'azione anche di Cina e Uzbekistan, favorevoli al dialogo con i Taliban, in quanto l'Afghanistan -

pacificato e stabile - si configura come crocevia dei corridoi di trasporto economico-commerciali che

rientrano nella Belt and Road Initiative e che di fatto permetteranno a Tashkent e Pechino di

raggiungere i porti sull'Oceano Indiano in condizioni di sicurezza, ovvero con la garanzia del transito

regolare senza interruzioni in condizioni di sicurezza e stabilità.

4 The Ministry of Foreign Affairs of Russia Federation, Foreign Minister Sergey Lavrov’s remarks at the second meeting

of the Moscow format consultations on Afghanistan, Moscow, November 9, 2018,

http://www.mid.ru/en/press_service/video/-/asset_publisher/i6t41cq3VWP6/content/id/3403878 5 Ekaterina Stepanova, Russia's Afghan Policy in the Regional and Russia-West Contexts, Études de l'IFRI, Russie. Nei.

Reports 23, May 2018, 6 Fabio Indeo, The role of Russia in Central Asia security architecture, OSCE Academy Policy Brief 48, 2018, p.5 7 Ekaterina Stepanova, Russia's Afghan Policy in the Regional and Russia-West Contexts, Études de l'IFRI, Russie. Nei.

Reports 23, May 2018, p.13 8 Ibidem p. 29 9 Fabio Indeo, La minaccia dello Stato Islamico nello spazio post sovietico: un fenomeno sotto controllo?, CeMiSS

Osservatorio Strategico, Anno XX numero I – 2018, p. 86

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La conferenza di pace sull'Afghanistan: il “regionalismo” russo

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 46

Per quanto concerne l'Uzbekistan, nel marzo 2018 la repubblica centroasiatica ha organizzato

una conferenza internazionale sull'Afghanistan, alla quale parteciparono il Presidente afgano Ghani

ed esponenti del suo governo, mentre i Taliban declinarono l'invito. Ad agosto invece, il ministro

degli esteri uzbeko Kamilov ha organizzato e ospitato a Tashkent una delegazione di Taliban, con i

quali è stato avviato un dialogo per promuovere la pace e la stabilizzazione della regione,

richiedendo il loro impegno in tal senso anche per proteggere le infrastrutture intra-regionali di

trasporto e di trasmissione di energia elettrica esistenti e future.10 Infatti l'Uzbekistan è l'unica

nazione centroasiatica a poter vantare un collegamento ferroviario con l'Afghanistan, la linea

Termez-Hairaton-Mazar I Sharif (in gran parte finanziata e costruita con il supporto finanziario degli

Stati Uniti nel 2009, nell'ambito dell'implementazione del Northern Distribution Network ideato per

garantire il regolare approvvigionamento delle truppe NATO impegnate nel teatro di guerra afgano),

oltre a garantire regolari forniture di energia elettrica ed essere un partner economico-commerciale

di rilievo.11

Rispetto ad altre iniziative multilaterali (ad esempio il gruppo quadrilaterale promosso dalla

Cina, che include Pakistan, Afghanistan e Tagikistan) o meramente bilaterali, il format di dialogo

regionale lanciato dalla Russia si caratterizza positivamente per la sua dimensione inclusiva,

coinvolgendo sostanzialmente tutti gli attori regionali che gravitano attorno all'Afghanistan e la

fazione dialogante dei Taliban in un forum di dialogo.

Eventi:

TurkStream, verso l'apertura del corridoio meridionale russo. La cerimonia di inaugurazione

per il completamento del tratto offshore del gasdotto TurkStream, tenutasi a Istanbul il 19

novembre, costituisce un ulteriore tassello che cementa le relazioni strategiche tra la Russia e la

Turchia. La realizzazione del gasdotto sottomarino - lungo 930 km - che attraversa il Mar Nero,

collegando la città russa di Anapa a quella turca di Kiyikoy, rappresenta un significativo passo in

avanti nel completamento del TurkStream: nel corso della cerimonia, il presidente turco Erdogan

ha ribadito che i lavori per la realizzazione delle condutture terrestri (180 km di lunghezza)

termineranno alla scadenza prevista ovvero alla fine del 2019.12

Dopo un radicale deterioramento delle relazioni - a seguito dell'abbattimento ad opera delle forze

armate turche di un aereo da guerra russo che sorvolava la Siria nel novembre 2015 - la

cooperazione russo-turca appare ora solida e ben strutturata, non solo sul piano energetico ma

anche su quello militare; oltre a collaborare sul dossier siriano, l'acquisto da parte di Ankara di un

sistema di difesa aereo di fabbricazione russa dimostra lo sviluppo di una proficua partnership

militare.13

La costruzione del gasdotto è cominciata nel maggio del 2017; il progetto iniziale - realizzare 4

linee con una capacità complessiva pari a 63 miliardi di metri cubi (Gmc) di gas russo trasportati

ogni anno sui mercati europei sono stati ridimensionati e ora Gazprom prevede la realizzazione

di due condotte con una capacità di 15,75 Gmc ciascuna, la prima delle quali destinata ad

10 Taliban holds talks in Uzbekistan, Eurasianet, August 13, 2018, https://eurasianet.org/taliban-holds-talks-in-uzbekistan 11 Richard Weitz, Uzbekistan's New Foreign Policy, Silk Road Paper, January 2018, pp. 18-19,

https://silkroadstudies.org/resources/pdf/SilkRoadPapers/1801Weitz.pdf 12 Putin, Erdogan launch TurkStream, Natural Gas Europe, November 19, 2018,, https://www.naturalgasworld.com/putin-

erdogan-launch-turkstream-66060?utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter%20November%20Template%20-%20November%2020%202018&utm_content=Newsletter%20November%20Template%20-%20November%2020%202018+CID_1d5be71ab937b9e5d5c287acefca7d19&utm_source=Campaign%20Monitor&utm_term=PUTIN%20ERDOGAN%20LAUNCH%20TURKSTREAM

13 Turkey in talks with Russia on other technical issues in addition to S-400 systems, Tass Russian Agency, June 13,

2018, http://tass.com/defense/1009379

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 47

alimentare esclusivamente il mercato turco mentre la seconda soddisferà i consumi energetici

dell'Europa orientale e sud-orientale.14

Il presidente Putin ha sottolineato come il progetto miri a rafforzare la sicurezza energetica

europea e non è stato concepito contro gli interessi di nessuno: in realtà, l'apertura di questa rotta

energetica servirà a compensare la riduzione del transito di gas russo attraverso l'Ucraina

(delineando quindi un riorientamento delle rotte d'esportazione russe), garantendo alla UE

forniture regolari e crescenti, vanificando allo stesso tempo il perseguimento di una

diversificazione delle rotte d'approvvigionamento, che nella strategia di sicurezza energetica

europea dovrebbe implicare la riduzione delle importazioni di gas naturale dalla Russia che

attualmente coprono il 30% della domanda europea.15

In realtà, questo corridoio d'approvvigionamento meridionale appare avere anche una finalità

geopolitica in quanto ricalca il tracciato del precedente gasdotto South Stream, la cui

realizzazione venne accantonata per le osservazioni negative della Commissione Europea; in

sostanza rafforza l'influenza delle importazioni russe sui mercati europei. Gazprom infatti ha

deciso che la seconda linea del gasdotto (quella dedicata ai mercati europei) attraverserà

Bulgaria, Serbia, Ungheria e Slovacchia: in questo senso il governo ungherese ha siglato un

accordo con Gazprom, a luglio 2018, per poter beneficiare dei volumi di gas trasportati dal

TurkStream.16

Rogun e il potenziale idroelettrico del Tagikistan. L'inaugurazione della centrale idroelettrica

di Roghun in Tagikistan - realizzata dalla compagnia italiana di costruzioni Salini-Impregilo -

costituisce un notevole successo per questa repubblica centroasiatica, geograficamente

circondata dai monti, economicamente molto povera e priva di riserve di idrocarburi, a differenza

dei vicini Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan.

Quando verrà completata, Rogun, con i suoi 335 metri d'altezza, sarà la diga più alta al mondo:

grazie a sei turbine, Rogun sarà capace di produrre l'equivalente dell'energia elettrica generata

da tre centrali nucleari, raddoppiando la produzione annuale tagica di elettricità.

Dopo quarant'anni, il progetto inizialmente concepito in epoca sovietica ha finalmente preso

forma: dopo l'indipendenza del 1991, la sua realizzazione è diventato motivo di orgoglio

nazionale, un cavallo di battaglia dell'attuale presidente Rahmon.17 Tuttavia, questo progetto

venne pervicacemente osteggiato dal precedente presidente uzbeko Karimov, che temeva sia

l'impatto ambientale devastante (nel caso di crollo della diga sull'invaso), sia l'eventualità che il

Tagikistan (a monte) controllasse il corso del fiume riducendo la disponibilità d'acqua per le

nazioni a valle come l'Uzbekistan, che invece necessitano di ingenti volumi d'acqua per la

coltivazione del cosiddetto “oro bianco”, il cotone. Il nuovo presidente uzbeko Mirziyoyev non si

è invece opposto alla sua realizzazione, condizionandone il completamento a una sorta di dialogo

regionale fondato sulla fiducia e sulla cooperazione tra le repubbliche centroasiatiche affinché

superassero le precedenti rivalità.

14 Gazprom, TurkStream, http://www.gazprom.com/projects/turk-stream/ 15 European Union Commission, European Energy Security Strategy, COMMUNICATION FROM THE COMMISSION TO

THE EUROPEAN PARLIAMENT AND THE COUNCIL, Brussels May 28, 2014, p.15, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52014DC0330&from=EN; British Petroleum, British Petroleum Statistical Review of World Energy 2018, p.34, https://www.bp.com/content/dam/bp/en/corporate/pdf/energy-economics/statistical-review/bp-stats-review-2018-full-report.pdf

16 Sebastiano Torrini, Gazprom ha deciso: per il Turkish Stream scelta l’Europa dell’Est, Energia Oltre, 22 Novembre 2018, https://energiaoltre.it/turkish-stream-5/

17 Farangis Najibullah, Tajikistan's Roghun Dam, Which For Years Generated Only Controversy, Begins Producing Electricity, Radio Free Europe/Radio Liberty, November 16, 2018, https://www.rferl.org/a/tajikistan-s-roghun-dam-

which-for-years-generated-only-controversy-begins-producing-electricity/29604412.html

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La conferenza di pace sull'Afghanistan: il “regionalismo” russo

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 48

Con il completamento di Rogun, il Tagikistan sarà in grado di produrre 13 miliardi di kWh

aggiuntivi di elettricità che gli consentiranno di raggiungere l'autosufficienza energetica -

soddisfacendo la domanda interna - prodotta da una fonte non inquinante - e legittimare la

nazione come esportatrice di energia elettrica - per tutti i 12 mesi dell'anno: infatti, sino a oggi la

repubblica tagika esporta elettricità verso Afghanistan e Uzbekistan durante i mesi estivi, ma

importa elettricità d'inverno.18

L'avvio della centrale idroelettrica di Rogun permetterà anche la realizzazione dell'ambizioso

progetto Central Asia South Asia 1000 (CASA 1000), fortemente supportato dagli Stati Uniti

qualche anno fa, per realizzare una rete di distribuzione di energia idroelettrica prodotta da

Tagikistan e Kirghizistan, capace di soddisfare la crescente domanda di energia in Asia

meridionale e di ergere queste due repubbliche centroasiatiche al ruolo di esportatori di energia.

A tal proposito la compagnia elettrica nazionale afghana, Breshna Sherkat, ha dichiarato la

volontà di realizzare la sezione afgana del progetto, iniziando i lavori entro i prossimi due mesi in

modo da rendere verosimilmente il progetto operativo entro il 2020.19

OTSC: alla ricerca di un nuovo segretario. Le nazioni che fanno parte dell'Organizzazione del

Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) si sono incontrate nella capitale kazaka Astana con il

chiaro obiettivo di trovare un nuovo segretario dopo l'incriminazione del precedente segretario,

l’armeno Khachaturov - richiamato ufficialmente in patria il 2 novembre – e accusato di aver

represso duramente le manifestazioni di piazza successive alle elezioni del 2008.20

In realtà la decisione è stata posticipata dai capi di stato OTSC al prossimo summit in programma

a dicembre, ma questo riflette la mancanza di un accordo e evidenzia lo scontro sotterraneo che

sta opponendo i membri di questo blocco militare securitario. Infatti, l'Armenia spinge per

nominare un sostituto di Khachaturov, che manterrà la carica sino al 2020 per poi essere sostituito

- seguendo il normale avvicendamento - da una personalità indicata dalla Bielorussia. Minsk,

invece, si oppone a questa interpretazione, reclamando sin da subito la carica di nuovo

segretario. Questa posizione appare supportata dal presidente kazako Nazarbayev che si appella

a quanto previsto dalla carta costitutiva dell'OTSC.21

Ad inasprire la posizione armena contribuisce anche la notizia diffusa dal giornale russo

Kommersant che Nazarbayev intendeva invitare il presidente azerbaigiano Aliyev al summit, in

qualità di osservatore, - l'Azerbaigian non è membro OTSC, ma da tempo si rincorrono voci di

un avvicinamento strategico di Baku alla Russia e alle istanze OTSC - invito al quale era

favorevole pure la Bielorussia.22

In attesa del summit in programma a San Pietroburgo, il permanere della distanza tra le due

divergenti posizioni potrebbe risolversi con una soluzione intermedia, ovvero confermare l'attuale

reggente, il russo Valeriy Semerikov, come segretario a interim del OTSC sino alla scadenza

naturale del 2020 o sino al raggiungimento di una - al momento - improbabile intesa.

18 Sara Huzar, Rogun Hydropower Plant: An Opportunity for Connectedness, Caspian Policy Center, November 21, 2018,

http://www.caspianpolicy.org/energy/rogun-hydropower-plant-an-opportunity-for-connectedness/ 19 Haidarshah Omid, Construction Of CASA-1000 To Start Within Two Months: DABS, Tolo News, October 31, 2018,

https://www.tolonews.com/business/construction-casa-1000-start-within-two-months-dabs 20 Joshua Kucera, Armenia appears in danger of losing CSTO leadership position, Eurasianet, November 9, 2018,

https://eurasianet.org/armenia-appears-in-danger-of-losing-csto-leadership-position 21 Ibidem 22 Ильхам Алиев был готов принять участие в саммите ОДКБ в Астане в качестве гостя, Kommersant,

November 8, 2018, https://www.kommersant.ru/doc/3793769

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 49

Venti di guerra nel Mare d'Azov?

L'intervento della marina russa che ha intercettato e colpito tre navi da guerra ucraine che

attraversavano lo stretto di Kerch – nel mare di Azov – per recarsi al porto ucraino di Mariupol fa

presagire nuove tensioni nelle relazioni tra Russia,Ucraina e comunità internazionale. La comunità

internazionale ha espresso una condanna unanime delle azioni russe. Anche la UE ha condannato

la Russia, sollecitandola a ristabilire il libero passaggio sullo stretto e ridurre le tensioni

immediatamente.

Circa un mese fa, il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione sulla situazione nel Mare

d'Azov, avvertendo Mosca di non portare avanti una militarizzazione di questo tratto del Mar Nero e

garantire la libertà di navigazione.23

Russia e Ucraina si scambiano reciproche accuse: Mosca sostiene la necessità di mantenere

un controllo rigido in questo tratto del Mar Nero per ragioni di sicurezza, linea alla quale si oppone

Kiev, che accusa la Russia di osteggiare il traffico marittimo-commerciale danneggiando l'economia

ucraina.

Questo atteggiamento della Russia appare destinato a produrre un ulteriore irrigidimento della

posizione della UE nei confronti della Russia, considerato anche che a dicembre i paesi europei

voteranno per il rinnovo delle sanzioni economiche, oltre all'esistenza di dossier aperti come quello

inerente la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2.24

Analisi, valutazione e previsioni

I risultati e i potenziali effetti dell'approccio russo nei confronti del Taliban andranno valutati

nel lungo periodo: in termini di realpolitik, il riconoscere legittimità a questo movimento e incoraggiare

una loro inclusione nel processo decisionale potrebbe condurre a un nuovo periodo di stabilità nella

regione, obiettivo che molti attori locali (Uzbekistan, Cina, Russia, Kazakhstan, Pakistan)

perseguono.

Occorre altresì considerare che l'apertura russa non appare motivata soltanto da ragioni

geopolitiche, ma si configura come espressione di una condivisa preoccupazione che si rileva sul

piano regionale nel dover fronteggiare la minaccia del terrorismo jihadista, il narcotraffico, un

potenziale flusso intra-regionale di rifugiati.

In ambito energetico, l'avvio del progetto Rogun in Tagikistan costituisce un nuovo e

importante tassello nella realizzazione di una rete di distribuzione energetica regionale, che appare

oggi realisticamente percorribile nel rinnovato clima di fiducia e cooperazione instauratosi tra i

presidenti delle repubbliche centroasiatiche. La portata strategica del gasdotto TurkStream andrà

valutata nel momento in cui entrerà in attività anche il gasdotto Transadriatico, bretella finale del

Corridoio Energetico Meridionale promosso dalla UE. Allo stato attuale, le importazioni russe

previste attraverso questo alternativo corridoio meridionale d'approvvigionamento costituiranno un

grande ostacolo alla strategia di diversificazione energetica europea.

Essendo trascorsi pochi giorni dall'avvenimento, lo scenario sul Mar Nero, legato alla

contrapposizione tra Russia e Ucraina, si presenta intricato e gli sviluppi appaiono imprevedibili.

L'auspicio è che le parti in causa trattino al fine di stemperare le tensioni, con il supporto della

comunità internazionale e della UE in primis, nella funzione di mediatori, in modo da disinnescare

una condizione di latente conflittualità che rischia di diventare realmente pericolosa sul piano

regionale.

23 Ihor Kabanenko, Strategic Implications of Russia and Ukraine’s Naval Clash on November 25, Eurasia Daily Monitor

Volume: 15 Issue: 167, November 28, 2018, https://jamestown.org/program/strategic-implications-of-russia-and-ukraines-naval-clash-on-november-25/

24 Eleonora Tafuro Ambrosetti, Russia Ucraina, lo scontro si sposta in mare, ISPI Commentary, 27 Novembre 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/russia-ucraina-lo-scontro-si-sposta-mare-21645

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Asia Meridionale e Orientale Claudia Astarita

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 50

Corea del Nord: nuovi ostacoli allontanano la distensione

Più passa il tempo, più la strada della distensione lungo la Penisola coreana si conferma in

salita. Nel mese di novembre ha creato scompiglio un articolo pubblicato dal New York Times, che

ha denunciato l’esistenza di 16 basi missilistiche attive in Corea del Nord. Lo scoop del quotidiano

statunitense si è basato sulle rivelazioni del think tank “Center for Strategic and International Studies”

che, appunto, imperniandosi sulle informazioni ricavate da immagini satellitari recentemente

acquisite, confermerebbero come il regime stia continuando a produrre missili balistici, convenzionali

e nucleari, in una serie di nuove basi sparse su tutto il territorio.1 Il New York Times ha ripreso lo

studio per sottolineare il “grande inganno” di un regime che dopo i colloqui di Singapore dello scorso

giugno si era formalmente impegnato con il Presidente Donald Trump sulla denuclearizzazione e

aveva voluto confermare l’attendibilità della parola data, smantellando il sito di lancio di Punggye-ri

a maggio.

Immediate le reazioni della comunità internazionale, che si è subito ritirata su posizioni più

attendiste e meno favorevoli al compromesso. Per quanto l’articolo del New York Times abbia

apertamente criticato Trump per essere stato troppo superficiale nell’affermare che la situazione

nordcoreana fosse ormai sotto controllo. In realtà il presidente non ha mai messo in discussione la

necessità di mantenere la linea dura nei confronti di Pyongyang e di non piegarsi all’idea di allentare

le sanzioni economiche prima che Kim Jong-un dimostri coi fatti la volontà di procedere alla

progressiva denuclearizzazione del paese.

Parlare di “inganno” è stato fuorviante per almeno due motivi. Anzitutto, come ha messo in

evidenza Giulia Pompili su “Il Foglio”, non si può parlare formalmente di inganno visto che “non c’è

mai stato un accordo”.2 In secondo luogo, come aveva già rivelato nel corso di un’intervista a

Panorama il geologo Fabio Capitanio, professore associato della School of Earth, Atmosphere and

Environment della Monash University di Melbourne in Australia, commentando lo smantellamento

del poligono nucleare di Punggye-ri scrisse: “tecnicamente, distruggere un poligono nucleare

significa semplicemente smettere di usarlo”.3 Il che significa che già a maggio erano sorti dubbi sulla

possibilità che Kim Jong-un potesse decidere di “individuare un altro spazio in cui eseguire nuovi

test”, ma, sempre secondo il professore australiano, qualora questo fosse successo lo avremmo

scoperto subito visto che “esistono oggi dei rilevatori che aiutano a capire se le onde sismiche che

seguono un’esplosione sono state sprigionate da un terremoto oppure da un’esplosione nucleare”.

Ancora, sempre “Il Foglio” ha confermato come, negli stessi giorni, la stampa nordcoreana non

solo ha ufficializzato (quindi non nascosto) di aver testato il 16 novembre “un’arma tattica

ultramoderna destinata alla difesa corazzata del territorio nazionale”, ma ha anche pubblicato sul

principale quotidiano locale, il Rodong sinmun, la fotografia di Kim Jong-un in visita al sito del test.

Un’immagine che, per quanto giustificabile come “strumento di propaganda” per mantenere il

consenso sull’idea di una Corea “militarmente forte e indipendente in patria”, di fatto conferma quella

visione secondo cui il compromesso sul nucleare coreano non possa essere trovato su una narrativa

basata sulla denuclearizzazione completa, verificabile e irreversibile, e compromette ancora più

1 David E. Sanger, William J. Broad, “In North Korea, Missile Bases Suggest a Great Deception”, The New York Times,

12 novembre 2018, https://www.nytimes.com/2018/11/12/us/politics/north-korea-missile-bases.html 2 Giulia Pompili, “Fidarsi o no della Corea del nord? Non c’è alcun inganno da parte di Pyongyang perché non c’è mai

stato un accordo”, Il Foglio, 17 novembre 2018. 3 Claudia Astarita, “Perché la Corea del Nord sta smantellando il poligono nucleare di Punggye-ri”, Panorama.it, 22

maggio 2018, https://www.panorama.it/news/esteri/perche-la-corea-del-nord-sta-smantellando-il-poligono-nucleare-di-punggye-ri/.

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Asia Meridionale e Orientale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 51

seriamente l’immagine di partner serio e affidabile che la Corea del Nord sembrava aver cercato di

costruire fino ad oggi.

Dell’arma tattica testata non si sa nulla, se non che il progetto in questione sia stato avviato

da Kim Jong Il, il padre dell’attuale leader. Secondo gli esperti potrebbe trattarsi o di un nuovo

sistema di artiglieria, o di un missile tattico a corto raggio, o ancora di un missile anticarro. Ipotesi,

queste, formulare sulla base della composizione della delegazione che ha assistito, assieme a Kim

Jong-un, al test: Kim Jong-sik e Ri Pyong-chol, i responsabili del programma missilistico

nordcoreano, e Pak Jong-chon, il capo del Comando d'artiglieria dell'esercito popolare nordcoreano.

L’unica certezza che abbiamo, che è comunque una certezza molto relativa vista la fonte da cui

proviene, le autorità nordcoreane, è che non si tratti di un’arma strategica a scopo offensivo.

Con la Cina che continua a mantenere una posizione fin troppo defilata, limitandosi quasi ad

osservare passivamente gli sviluppi della crisi, diventa ancora più importante per provare ad

immaginare come potrà evolvere la situazione fare riferimento alle reazioni della Corea del Sud,

paese che fino ad oggi ha puntato sul dialogo, la comprensione reciproca, e la collaborazione basata

su piccoli passi per mantenere aperto un canale ufficiale di comunicazione tra le due sponde della

penisola da utilizzare per riportare stabilità, rispetto e fiducia reciproca tra due nazioni formalmente

in confitto dagli anni ’50.

Le possibili interpretazioni del test del 16 novembre

Prima di formulare nuove ipotesi di realistici scenari futuri, è importante ragionare sul

significato e l’impatto dell’ultimo test nordcoreano.

Gli esperti al momento si dividono su due linee interpretative. Secondo il centro di ricerca

sudcoreano “Asan Institute for Policy Studies” Kim Jong-un sta, da un lato, lavorando sulla

modernizzazione dell’esercito nordcoreano. Del resto, all’inizio dell’anno il leader aveva confermato

l’intenzione di “perfezionare l'industria militare locale attraverso la scienza e la tecnologia di ultima

generazione”. Allo stesso tempo, il regime ha bisogno di rassicurare le forze armate e la popolazione

sulla razionalità delle sue scelte tattiche in merito alla denuclearizzazione. E’ possibile che la strada

dello smantellamento dell’arsenale nucleare (sempre ammesso che verrà mai completato) possa

sembrare agli occhi del paese più praticabile se, nel frattempo, verranno potenziati tutti gli altri settori

delle forze armate.

La seconda linea interpretativa vede invece in questo esperimento la volontà di inviare un

segnale forte sia alla Corea del Sud che agli Stati Uniti. E’ ormai evidente che i colloqui USA-DPRK

stiano di nuovo attraversando un momento di grande difficoltà. Pyongyang non ha apprezzato ne’ la

recente cancellazione della visita a New York del proprio Capo negoziatore Kim Yong Chol, ne’ la

decisione dei due paesi di organizzare nuove esercitazioni militari congiunte, anche se su scala

ridotta, le prime dal vertice di Singapore del 12 giugno4. L’esercitazione, denominata “Korea Marine

Exercise Programme” è iniziata il 5 novembre ed è terminata nell’arco di due settimane, dopo il

completamento di 11 sessioni di addestramento congiunto5. Confermano l’attendibilità di questa

lettura le recenti dichiarazioni del Direttore dell'Istituto degli Studi Americani del Ministero degli Esteri

nordcoreano, che ha esplicitato la possibilità che il regime abbandoni l’idea di concentrarsi

esclusivamente sullo sviluppo economico del paese a fronte del rinnovato atteggiamento, ritenuto

arrogante e intransigente, assunto dagli Stati Uniti, in particolare per quel che riguarda il nodo delle

sanzioni verso Pyongyang.

4 Per quel che riguarda le esercitazioni militari, Pyongyang si è lamentata anche di quelle organizzate d Stati Uniti e

Giappone, le “Keen Sword 2019”, conclusesi a inizio novembre e che hanno coinvolto la Marina e l’Aeronautica USA e le Forze di Autodifesa giapponesi, cui il regime ha attribuito una forte impronta anti-coreana.

5 Non si sa invece ancora nulla di quale sarà il destino di altre due esercitazioni, generalmente condotte su una scala molto più ampia, la “Key Resolve” e la “Foal Eagle”, che in genere vengono organizzate a febbraio e marzo, sempre in Corea del Sud.

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Corea del Nord: nuovi ostacoli allontanano la distensione

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 52

Corea del Sud: perché il dialogo deve rimanere prioritario

Le informazioni contenute nel rapporto ripreso dal New York Times e l'eco mediatica suscitata

dallo stesso contrastano così profondamente con la narrativa ufficiale sudcoreana, incentrata sul

“engagement”, che il governo ha deciso di rispondere alle critiche ricevute con un comunicato

ufficiale in cui ha dichiarato apertamente che “le intelligence sudcoreana e statunitense erano da

tempo al corrente dell’esistenza di tali siti”. Ancora, Seul ha voluto precisare che la scoperta in

questione non rappresentava alcuna violazione degli accordi presi con Pyongyang, dal momento

che lo smantellamento dei siti menzionati dalla testata americana non era mai stato incluso nel

pacchetto in discussione. Anche l’Agenzia Nazionale di Sicurezza e il Ministero della Difesa

sudcoreano hanno confermato di essere al corrente dei siti e dei rinnovati tentativi di Pyongyang sia

di sviluppare nuove armi sia di miniaturizzare le testate nucleari.

Per quanto il clamore mediatico creato dalla notizia abbia ulteriormente complicato il già

difficile equilibrio coreano tra la necessità di rafforzare la cooperazione sulla penisola e la necessità

di mantenere, se non aumentare, il coordinamento con gli Stati Uniti per evitare di fare passi indietro

sul fronte della distensione, stupisce come anche i media nazionali abbiano in maggioranza

sostenuto il punto di vista del Presidente Moon Jae-in.

Se i media conservatori hanno cercato di mettere in dubbio la lettura ottimista del governo,

quelli progressisti hanno preferito sottolineare come le foto satellitari utilizzate per mettere in cattiva

luce Pyongyang siano state scattate almeno tre mesi prima del famoso vertice di Singapore e che,

al di là di questo, non si può immaginare che il regime possa accettare di smantellare tutte le sue

basi “senza ottenere nulla in cambio”. Kim Jong-un, infatti, si è mostrato, è vero, possibilista sul

fronte della denuclearizzazione, ma è sempre stato molto chiaro sul fatto che quest’ultima sarebbe

stata graduale e calibrata su misure reciproche proporzionate che prevedessero “la creazione di un

nuovo rapporto con gli Usa e l'instaurazione di un regime di pace nella Penisola coreana”.

Anche sul fronte degli analisti lo scoop statunitense è stato trattato con grande scetticismo. Da

un lato è stato sottolineato come Kim Jong-un si sia formalmente impegnato solo sulla distruzione

del sito missilistico di Tongchang-ri e sull’eventuale smantellamento del sito nucleare di Yongbyon,

sempre a patto di ricevere in cambio “incentivi adeguati” da Washington. Ancora, è stato ricordato

come già nel suo discorso ufficiale del primo dell’anno, il leader nordcoreano si fosse effettivamente

impegnato a sospendere tutti i test nucleari e missilistici, ma avesse altresì annunciato la volontà di

autorizzare la produzione “di massa” dei tanti armamenti già testati con successo. Di fatto, la lettura

allarmista e accusatoria del New York Times è stata criticata in quanto responsabile di aver

contribuito a raffreddare ulteriormente un processo di distensione già sufficientemente complicato.

Analisi, valutazioni e previsioni

Valutare le evoluzioni degli equilibri lungo la penisola coreana è sempre molto difficile. Forse

il New York Times ha dato una lettura troppo negativa delle basi individuate nel rapporto del “Center

for Strategic and International Studies” e probabilmente l’eco mediatico della rivelazione è dipeso,

almeno al 50 per cento, dal fatto che la notizia sia stata pubblicata da uno dei più prestigiosi

quotidiani statunitensi, ma anche fidarsi di Kim Jong-un è sempre molto difficile. Del resto, tornando

alla presunta prova di onestà e impegno a favore della denuclearizzazione che il leader avrebbe

voluto manifestare smantellando il poligono nucleare di Punggye-ri, anche allora erano stati sollevati

molti dubbi in merito alla scelta di autorizzare solamente dei giornalisti e non dei tecnici ad assistere

alla “cerimonia”. Una scelta che il geologo Fabio Capitanio ha spiegato, sempre a Panorama, in

maniera molto semplice: "ad occhi esperti basta poco per calcolare a partire dalle dimensioni del

poligono l’effettiva capacità delle bombe nordcoreane, quindi è possibile che i tecnici non siano stati

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Asia Meridionale e Orientale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 53

coinvolti proprio per evitare che venissero a galla dettagli che fino ad oggi Pyongyang è riuscito a

nascondere”.6

Il dubbio su quanto ci si possa fidare della Corea del Nord inevitabilmente resta. Ciò che però

rende oggi lo scacchiere coreano ancora più instabile è l’apparente progressivo disallineamento tra

Seul e Washington. La crescente tensione tra i due protagonisti di questa difficile transizione è stata

indirettamente confermata dal palese sforzo fatto dal Presidente sudcoreano Moon Jae-in per

cercare sostegno per la sua strategia di distensione sia in Europa (con il viaggio di metà ottobre che

lo ha portato anche in Italia), sia nel Sud-est asiatico. Tuttavia, quello che interessa davvero capire

è se, e fino a che punto, Moon abbia la forza di portare avanti la sua linea in autonomia rispetto agli

Stati Uniti.

A fine novembre è stato pubblicato un interessante articolo sul Washington Post che ha

cercato di rispondere proprio a questo interrogativo.7 “Gli sforzi fatti da Seul per creare armonia e

fiducia reciproca tra le due Coree vengono vissuti con frustrazione di fronte alla consapevolezza che

le relazioni tra Pyongyang e Washington non stiano migliorando alla stessa velocità”, ha scritto

Simon Denyer. Anche se Seul non criticherebbe mai apertamente Washington per non gettare altra

benzina sul fuoco, la linea durissima di Donald Trump in Corea del Sud non piace più. Il rischio che

questa pressione continua possa prima o poi far saltare del tutto i negoziati, dal punto di vista della

Corea del Sud, è concreto.

A metà novembre il vice-presidente Michael Pence ha dichiarato, nel corso di un’intervista con

l’emittente NBC News, la “necessarietà” di organizzare un secondo faccia a faccia, tra Kim Jong-un

e Donald Trump, per definire un piano “verificabile” per confermare la localizzazione di tutti i siti

nucleari, al fine di permettere agli Stati Uniti di ispezionarli per poi distruggerli. Se Washington insiste

sulla necessità di voler vedere al più presto “risultati concreti” lo stesso fa Pyongyang, intendendo

però per risultati concreti un progressivo ammorbidimento della pressione americana, giudicata dal

sito di notizie DPRK Today come l’espressione di “un modo di pensare dell’epoca medievale, fondato

su un modello di interazione coercitivo, minaccioso e barbaro”.

Anche il Consigliere per la Sicurezza nazionale sudcoreano Chung Eui-yong è intervenuto in

questo dibattito, sottolineando come le “importantissime e fondamentali concessioni di Pyongyang”

potranno realizzarsi solo dopo aver ristrutturato il rapporto Stati Uniti-Corea del Nord, su una

narrativa di fiducia e non di sospetto reciproco.

La posizione di Washington, anche questo va riconosciuto, non è così incomprensibile: fidarsi

del regime nordcoreano è effettivamente difficile. Allo stesso tempo, tirando troppo la corda anche

Trump rischia di far saltare l’unica concreta possibilità di modificare gli equilibri strategici di una

penisola dal passato così turbolento.

Che fare, dunque? Ancora una volta, ad avere le idee più chiare è Seul, che ha iniziato a

suggerire di accettare una lenta, graduale e progressiva eliminazione delle sanzioni, proprio per

ricreare un clima più disteso e quindi più favorevole a eventuali concessioni. Del resto, uno scontro

frontale sarebbe controproducente per tutti. L’ammorbidimento, qualora dovesse davvero

smascherare un bluff di Kim Jong-un, potrebbe essere facilmente annullato con un tratto di penna,

se non, addirittura, con un tweet.

6 Claudia Astarita, op. cit. 7 Simon Denyer, “As clock ticks, South Korea looks for a leap of faith from Washington over North Korea”, The

Washington Post, 21 novembre 2018, https://www.washingtonpost.com/world/asia_pacific/as-clock-ticks-south-korea-looks-for-a-leap-of-faith-from-washington-over-north-korea/2018/11/20/ce640cc6-ebdd-11e8-9236-bb94154151d2_story.html?utm_term=.b8c4cfaa0adc

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America Latina Raffaella Di Chio

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 54

La risposta agli effetti del cambiamento climatico nell’America

Latina nel quadro della cooperazione internazionale

Gli effetti prodotti dal cambiamento climatico sono molteplici nell’area latino-americana, una

delle regioni più vulnerabili al fenomeno degli eventi meteorologici di rilevante portata che minano i

progressi maturati nel campo economico, agricolo e sociale dagli Stati in questione e all’incremento

del fenomeno dell’emigrazione climatica. Importante dunque analizzare le risposte di alcuni Paesi

dell’area nel quadro della cooperazione regionale e internazionale, alla luce degli obiettivi di

riduzione delle emissioni di CO2 posti dalla Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle

Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Le politiche intraprese da alcuni Stati latino-americani per fronteggiare gli effetti del

cambiamento climatico

L’America Latina è da sempre una delle regioni maggiormente colpite dagli effetti nocivi causati

dal cambiamento climatico, come uragani, piogge intense e aumento della temperatura, che molto

spesso modificano l’assetto territoriale delle zone agricole, provocando danni all’economia in termini

di infrastrutture, rendimento delle colture colpite, ritorno di malattie ormai debellate, deforestazione,

desertificazione, aumento della pressione demografica, contaminazione delle risorse idriche,

innalzamento del livello del mare. Combattere gli effetti del cambiamento climatico costituisce,

dunque, una sfida per i Paesi dell’America Latina, molti dei quali hanno adottato azioni concrete in

merito attraverso l'attuazione di politiche ambientali chiaramente orientate alla riduzione di questi

effetti, recependo quanto concordato nelle conferenze internazionali sull’ambiente (COP)1.

Dopo anni di conflitto in Colombia, il processo di pacificazione nazionale è accompagnato da

iniziative dirette a implementare lo sviluppo rurale sostenibile per creare nuove opportunità di lavoro.

Infatti, il governo ha lanciato il progetto “Colombia 2030: Sostenibile e in Pace” che affronta le

problematiche derivanti dalla questione climatica, lo sviluppo agricolo, la deforestazione, la

sostenibilità e le disuguaglianze sociali causate dal lungo conflitto2.

La Costa Rica invece ha attuato una politica volta a sviluppare le energie rinnovabili,

sfruttando le piogge e candidandosi a diventare, entro il 2021, in occasione del 200° anniversario

dell’indipendenza, il primo Pese latino-americano sostenuto interamente da energia rinnovabile. Il

progetto governativo prevede, tra l’altro, di riconvertire la compagnia petrolifera nazionale in un ente

statale di ricerca e sviluppo di combustibili alternativi, come l’idrogeno, il cui utilizzo è promosso nella

nuova normativa sull’efficienza energetica. Inoltre, l’Istituto Nazionale dell’elettricità ha acquistato,

con il prestito della BID, cento vetture elettriche che sostituiranno i mezzi alimentati a benzina o

diesel3. Nel Messico, è stato varato il “Programma Speciale sul Cambiamento Climatico (PECC

2014-2018)”, che ha come obiettivi: attenuare la vulnerabilità della popolazione e dei settori produttivi

e aumentare la sua resilienza e la capacità di recupero delle infrastrutture strategiche, conservare,

ripristinare e gestire in modo sostenibile gli ecosistemi, ridurre le emissioni di gas a effetto serra,

1 Cfr. lo studio della Banca interamericana di sviluppo (BID) “Come l'America Latina può alimentare il mondo. Un invito

all'azione per affrontare le sfide e creare soluzioni”, consultabile su: https://publications.iadb.org. 2 Secondo lo studio della BID, tale progetto dovrebbe durare 15 anni con un finanziamento di 1,9 miliardi di dollari. Il 5

febbraio del 2016, il presidente colombiano Juan Manuel Santos, in una sua visita a Washington ha affermato che “in Colombia abbiamo un’opportunità d’oro, senza disboscare possiamo produrre in modo sostenibile… In 15 anni tutto il mondo sarà in cerca di cibo ovunque a causa dell’aumento della popolazione, la Colombia è preparata”, cfr. https://www.lantidiplomatico.it/.

3 Cfr. quanto riportato da http://www.rinnovabili.it/energia/costa-rica-bandire-combustibili-fossili/.

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America Latina

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 55

tutelare la salute e il benessere, rendere le istituzioni forti e coordinate, promuovere strumenti efficaci

e una politica inclusiva sui cambiamenti climatici4. Infatti, il Messico, con l’emanazione nel 2012 del

“Climate Change Act”, era stato il primo paese in via di sviluppo, il secondo dopo la Gran Bretagna,

ad approvare una legge ad ampio raggio specificatamente dedicata al problema della lotta ai

cambiamenti climatici, con l’obiettivo di dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2050, oltre alla

previsione di politiche di incentivo delle fonti rinnovabili entro il 2024, l’adesione delle imprese a un

sistema su base volontaria per scambiare quote di emissione con i Paesi che hanno stretto accordi

con il governo, l’istituzione di un ente nazionale per l’ecologia e i cambiamenti climatici5.

Il Cile ha sviluppato il programma “Low Emissions Capacity Building Program (LECB)”,

nell’ambito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), e ha terminato positivamente

la seconda fase del progetto di ricerca “MAPS-Chile” finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas

serra per gli anni 2020, 2030 e 2050, attraverso un processo di ricerca e coinvolgimento

multisettoriale, il rafforzamento dei trasporti non motorizzati, l'efficienza energetica e una tassa sul

carbonio6.

Anche il Guatemala, uno dei dieci paesi più colpiti dagli eventi meteorologici estremi a causa

della posizione geografica tra due oceani7, ha adottato una politica energetica mirata a generare la

maggior parte di elettricità da energia rinnovabile entro il 2030 e ha approvato nel 2013 una legge

sui cambiamenti climatici ispirata a quella messicana, prevedendo lo sviluppo di sistemi di allerta

precoce per inondazioni e incendi, la raccolta dell'acqua piovana, ma soprattutto la riduzione delle

emissioni di carbonio. In Argentina non esiste una legge specifica sui cambiamenti climatici, ma

numerose leggi che promuovono la produzione e l'uso di fonti rinnovabili di energia, i biocarburanti,

l’energia dall'idrogeno8. Anche il Brasile ha stabilito una politica nazionale improntata alla tutela

ambientale emanando numerose leggi in materia come il c.d. “forest code”, sulla tutela delle risorse

boschive, lo smaltimento dei rifiuti soldi, la gestione delle zone costiere, lo sviluppo delle energie

rinnovabili. Lo stesso art. 225 della Costituzione brasiliana prevede un approccio globale alla materia

ambientale e stabilisce la responsabilità dei settori pubblico e privato per la protezione e la difesa

dell’ambiente verso le generazioni future. Questa disposizione è presente in numerose costituzioni

degli Stati latino-americani, fornendo una base giuridica per eventuali azioni legali di risarcimento

per danni ambientali9.

Non solo i Paesi succitati, ma in generale quasi tutti gli Stati della regione latinoamericana, pur

non avendo adottato leggi specifiche sulla lotta al cambiamento climatico, hanno tuttavia sviluppato

politiche volte alla riduzione delle emissioni di carbonio ed al potenziamento delle fonti di energia

rinnovabili cresciute più del 270% negli ultimi anni10.

4 Cfr. Versión de Difusión del Programa Especial de Cambio Climático 2014-2018, consultabile all’indirizzo:

www.gob.mx/cms/uploads/attachment/file/42488/Programa_especial_de_cambio_climatico_20142018_vdifusion.pdf. 5 Cfr. quanto riportato da: https://www.cmcc.it/it/economia-e-finanza-climatica/mexico-on-the-frontline-of-the-fight-against-

climate-change. 6 Cfr. https://cdkn.org/2012/08/chilie-embraces-planning-for-low-emissions-development/?loclang=en_gb. 7 Cfr. Global Climate Risk Index 2015. 8 Cfr. “CLIMATE CHANGE: A Comparative Overview of the Rights Based Approach in the Americas”, consultabile su:

http://www.oas.org/en/sedi/dsd/docs/climate_change.pdf. 9 “Tutti hanno il diritto ad un ambiente ecologicamente equilibrato, che è un bene comune ed essenziale per una sana

qualità della vita, e sia il governo che la comunità hanno il dovere di difenderlo e di preservarlo per le generazioni presenti e future”.

10 Cfr. “CLIMATE CHANGE: A Comparative Overview of the Rights Based Approach in the Americas”, consultabile su: http://www.oas.org/en/sedi/dsd/docs/climate_change.pdf.

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La risposta agli effetti del cambiamento climatico nell’America Latina nel quadro della cooperazione internazionale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 56

I cambiamenti climatici nelle relazioni tra l’America Latina le Organizzazioni Internazionali.

I cambiamenti climatici sono un tema importante nelle relazioni tra i paesi dell’America Latina

e le Organizzazioni Internazionali nell’ottica della cooperazione economica e dello sviluppo

sostenibile. La massima cooperazione su scala internazionale e regionale sembra essere lo

strumento più efficace per fronteggiare l’emergenza rappresentata dagli effetti provocati dal

cambiamento climatico. Infatti, l’argomento figura in primo piano nell’agenda dell’Unione europea

(UE) e l’azione per il clima è attuata tramite accordi commerciali bilaterali ed accordi di associazione,

nonché programmi e piani di azione che mirano a facilitare il commercio e gli investimenti nelle

tecnologie ambientali, a fornire il supporto per la gestione delle catastrofi, a sviluppare le capacità di

riduzione delle emissioni di CO211, a contrastare il fenomeno della deforestazione ed il degrado delle

foreste, a promuovere la conservazione delle risorse idriche e la ricerca scientifica, ad implementare

la cooperazione tra le rispettive imprese per l’elaborazione di proposte finanziariamente redditizie12.

Anche l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) ha un ruolo importante nella regione per la lotta

contro gli effetti del cambiamento climatico, avendo la regione ospitato anche tre delle Conferenze

delle parti nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici

(Argentina COP4, Messico COP16 e Perù COP20). Nella Dichiarazione di Santo Domingo per lo

sviluppo sostenibile delle Americhe del 2006, gli Stati membri hanno concordato iniziative concrete

e a lungo raggio da intraprendere nella lotta agli effetti del cambiamento climatico13. Il Dipartimento

per lo Sviluppo Sostenibile dell’OSA supporta gli Stati membri nella progettazione e attuazione di

politiche, programmi e progetti orientati all'interazione tra priorità ambientali, riduzione della povertà

ed obiettivi di sviluppo socio-economico, in quanto gli effetti nocivi causati dal cambiamento climatico

hanno nella regione impatti considerevoli sull’economia determinando l’aumento del fenomeno degli

spostamenti di popolazione dalle aree più colpite e con minore disponibilità di acqua. Si stima che

entro il 2050 circa 17 milioni di persone, che rappresentano il 2,6% della popolazione totale della

regione, potrebbero essere costrette a muoversi all’interno dei loro paesi per sfuggire agli effetti del

cambiamento climatico, se non si verificheranno le significative riduzioni di emissioni di gas

auspicate dai governi e dalla comunità internazionale14. Le Nazioni Unite, nell’ambito del programma

“Global Compact for Migration”, hanno avviato un processo per inserire gli effetti del cambiamento

climatico, come la siccità, la desertificazione, l’innalzamento del mare, tra le cause

dell’emigrazione15. Con tale iniziativa, che sarà formalmente approvata il 10 e l’11 dicembre di

quest’anno, durante la Conferenza di Marrakech, per la prima volta, la comunità internazionale

riconosce il legame tra migrazione e disastri provocati dal riscaldamento globale, assumendo

impegni al riguardo. L’Accordo è stato approvato da 192 Stati membri - tutti tranne gli USA, ma non

ha effetto vincolante, lasciando ai singoli governi libertà nell’approccio decisionale e legislativo.

11 Attraverso lo Strumento del Partenariato incluso nel bilancio dell'UE per il periodo 2014-2020 come mezzo per

finanziare l'azione esterna dell'Unione in materia. 12 Cfr. il programma regionale EUROCLIMA, il programma subregionale per l’America centrale, per il quale sono stanziati

35 milioni di euro, i programmi di cooperazione tecnica per gli investimenti nell’ambito del Fondo investimenti per l’America latina (LAIF) e il Fondo d’investimento per i Caraibi (CIF). Dati reperiti su: https://ec.europa.eu/clima/policies/international/cooperation/latin-america_caribbean_en.

13 Cfr. AG/DEC. 46 (XXXVI-O/06) “Declaration of Santo Domingo: Good Governance and Development in the Knowledge-Based Society”, adottata durante la 40° sessione ordinaria, 6 giugno 2006.

14 Cfr. il rapporto della Banca mondiale “Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration” reperibile all’indirizzo: https://openknowledge.worldbank.org/handle/10986/29461. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’ente scientifico di supporto alla Conferenza sul cambiamento climatico, entro il 2050 saranno oltre 200 milioni le persone costrette a spostarsi per i disastri causati dal clima.

15 Il “Global Compact for Migration”, è il primo negoziato intergovernativo, sotto l'egida delle Nazioni Unite, istituito allo scopo di affrontare tutti gli aspetti della migrazione internazionale in modo globale e completo. Cfr. https://refugeesmigrants.un.org/migration-compact.

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America Latina

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 57

Le Nazioni Unite svolgono inoltre un ruolo molto attivo in America Latina anche con il

programma “Reducing emissions from deforestation and forest degradation” (UN-REDD), istituito

nell’ambito della Convenzione sul Clima. Il Programma è fondato sul meccanismo di “premiazione”,

attraverso incentivi e finanziamenti da parte dei paesi industrializzati, della corretta gestione delle

risorse forestali dei Paesi in via di sviluppo. E’ un nuovo modo di limitare le emissioni di CO2 con il

pagamento di azioni o la creazione di fondi fiduciari per i paesi che impediscono il disboscamento

indiscriminato ed il degrado forestale e prediligono politiche di sviluppo sostenibile16.

16 Cfr. https://redd.unfccc.int/.

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Area Tematica

“La sfida del cambiamentoclimatico”

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Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) Gianluca Pastori

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 59

Nello spazio nordatlantico, l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi del cambiamento

climatico rimane alta, complice anche il frequente ripetersi di eventi metereologici estremi.

Un’elevata consapevolezza del fenomeno non coincide, tuttavia, necessariamente con una

maggiore consapevolezza dei rischi a questo connessi. Diversi studi attestano, in particolare, il

possibile emergere di processi di “normalizzazione del rischio” (risk normalization) in virtù del quale

gli individui – in particolare quelli più consapevoli dei rischi ambientali -- pongono in essere strategie

psicologiche volte a minimizzarne la portata. Un sondaggio condotto da Gallup negli Stati Uniti, ad

esempio, ha posto in luce già nel marzo 2017 come il 68% degli intervistati (il valore più alto mai

rilevato) fosse convinto che l’aumento delle temperature registrato nell’ultimo secolo fosse

essenzialmente dovuto all’azione dell’uomo e come il 62% fosse convinto che gli effetti negativi del

processo di riscaldamento globale fossero già percepibili. Tuttavia, meno della metà del campione

intervistato (42%) pensava che processo di riscaldamento globale potesse rappresentare anche --

nel medio periodo -- una minaccia concreta per sé o per il suo tenore di vita. Nonostante

un’accresciuta polarizzazione delle posizioni, questi risultati sono stati sostanzialmente confermati

dalle indagini ripetute dalla stessa Gallup nel corso del 2018.

Il tema rimane, comunque, divisivo. Oltre alla volontà annunciata di recedere dagli impegni

assunti con l’accordo di Parigi del 12 dicembre 2015 (volontà che, tuttavia, ai sensi dell’art. 28 dello

stesso accordonon potrà essere formalizzata prima del 4 novembre 2019, né concretizzata prima

del 4 novembre 2020), l’insediamento dell’amministrazione Trump ha portato a una serie di decisioni

in netto contrasto con le politiche ambientali precedenti. Fra le altre il cambio alla guida

dell’Environmental Protection Agency (EPA), abrogando il Clean Power Plan del 2015 (con una

decisione ratificata dalla Corte suprema nell’ottobre scorso); rimuovendo il cambiamento climatico

dall’elenco delle maggiori priorità per la sicurezza nazionale e dei termini "global warming" e "climate

change" dai siti ufficiali e dal lessico governativo e adottando misure per rilanciare i settori del petrolio

e del carbone, considerati danneggiati dalle precedenti misure di tutale ambientale. Recentemente

(novembre 2018), l’amministrazione ha inoltre espresso le sue critiche ai contenuti dell’ultimo

National Climate Assessment, all’interno del quale si afferma, fra l’altro, che: «Without substantial

and sustained global mitigation and regional adaptation efforts, climate change is expected to cause

growing losses to American infrastructure and property and impede the rate of economic growth over

this century».

Una conseguenza di queste scelte è stata quella di alimentare l’attivismo diffuso (“grassroots

activism”), un fenomeno che, fra alti e bassi, appare in crescita a livello globale e che potrebbe trarre

alimento dalle previsioni negative dell’International Energy Agency (IEA), secondo cui sia nel 2017,

sia nel 2018 si è registrato un aumento delle emissioni di CO2 anche in Europa. I movimenti “dal

basso” trovano inoltre spazio dentro le strategie ONU tese all’implementazione dell’accordo di Parigi.

L’accordo accoglie, infatti, con favore gli sforzi di tutti i soggetti interessati, anche non firmatari,

compresi quelli della società civile, del settore privato, delle istituzioni finanziarie, delle città e delle

autorità subnazionali, volti ad affrontare e rispondere ai cambiamenti climatici. L’assunto è che, nel

migliorare l'accesso alle informazioni sul clima, le organizzazioni della società civile possano fungere

da ponte tra istituzioni e opinione pubblica, che esse possano dare voce ai gruppi più vulnerabili,

garantendo il riconoscimento dei loro particolari interessi,che possano promuovere la responsabilità

attraverso l'esempio, garantire qualità e trasparenza e favorire l’adozione di approcci partecipativi e

inclusivi alla riduzione del rischio di catastrofi, partecipando al coordinamento inter-istituzionale a

livello locale e nazionale.

A livello europeo, l’azione comune si è concretizzata – dopo l’adozione delle prime iniziative

per il contenimento delle emissioni e il miglioramento dell’efficienza energetica, all’inizio degli anni

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Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners)

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 60

Novanta – nella definizione di un European Climate Change Programme (ECCP, 2000), base su cui

si sono inseriti successivamente i diversi interventi nazionali. L'attuale obiettivo dell'Unione e degli

Stati membri è di giungere a una riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del

1990, con uno sforzo da perseguire congiuntamente secondo le linee approvate dal Consiglio

europeo del 24 ottobre 2014. Tuttavia, riserve sono state sollevate riguardo sia il livello di ambizione

di questo impegno, sia la coerenza con cui esso è perseguito, riserve rafforzate dalle già citate

previsioni dell’IEA. Anche per questo, il 22 marzo scorso, il Consiglio europeo ha invitato la

Commissione a presentare entro i primi tre mesi del 2019 la proposta di una strategia a lungo termine

per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra a livello UE «in linea con gli impegni assunti

nell’accordo di Parigi e che tenga conto dei piani nazionali [già esistenti]». Obiettivo della

Commissione è di rilasciare il documento in vista della conferenza COP24 sul cambiamento

climatico (24th Conference of the Parties to the UN Framework Convention on Climate Change),

che si terrà a Katowice dal 2 al 14 dicembre 2018.

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Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico Claudio Catalano

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 61

Dal 2 al 14 dicembre 2018 si tiene Katowice, in Polonia, la 24° “Conferenza delle Parti” (COP)

per fare il punto sull’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici

(in Inglese: UN Framework Convention on Climate Change: UNFCCC) firmata a Rio de Janeiro nel

1992.1

Gli Stati Membri della UE, inclusa l’Italia sono parte dell’allegato I, che ha le norme più rigide

e si prefigge di riportare l’emissione di gas serra a livelli inferiori al periodo antecedente al 1990.

Nel caso non sia possibile, gli Stati Membri della UE possono acquistare crediti di emissione da altri

Stati Membri in base alla Direttiva 2003/87/CE.2

COP 24 dovrebbe essere dedicata all’applicazione dell’accordo di Parigi sul cambiamento

climatico3 adottato dalla COP 21 a Le Bourget il 12 dicembre 2015 e, soprattutto, alla riduzione delle

emissione dei gas serra, con documentazione preparata dal governo polacco, paese ospitante la

conferenza.

L’accordo di Parigi è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 4 ottobre 2016 e l’UE ha

depositato lo strumento di ratifica il 5 ottobre 2016, insieme ad alcuni singoli Stati Membri UE. L’Italia

ha ratificato individualmente gli accordi di Parigi l’11 novembre 2016.

Il Parlamento Europeo, a novembre 2018, ha votato il fondo Just Energy Transition Fund da

€4.8 miliardi nel bilancio dell’UE (2021-2027), per aiutare le regioni europee a ridurre l’uso del

carbone e di altre emissioni industriali inquinanti. La Brexit potrebbe rallentare l’applicazione degli

accordi di Parigi da parte della UE.

In realtà, è la Francia stessa ad avere i maggiori problemi nell’applicazione degli accordi sul

cambiamento climatico. L’incremento del prezzo della benzina e del gasolio in Francia, aumentati

rispettivamente del 14% e del 22% tra ottobre 2017 e ottobre 2018 con ulteriori rincari previsti dal

governo francese dal 1 gennaio 2019, rispettivamente di 6,5 centesimi di euro per il gasolio e 2,9

centesimi di euro per la benzina, ha scatenato la protesta spontanea dei cosiddetti gilet gialli (gilet

jaunes). I gilet gialli prendono il nome dai giubbotti catarifrangenti di emergenza, previsti per legge

e dal codice della strada come dotazione di emergenza per ogni vettura in Francia, Italia e altri Stati

Membri UE, indossati durante le proteste.

Dal primo giorno di protesta, il 17 novembre 2018, i gilet gialli hanno compiuto manifestazioni

di piazza anche di natura violenta, con un bilancio al 2 dicembre di quattro vittime (tra cui vittima

collaterale un’anziana signora colpita a Marsiglia da un lacrimogeno alla finestra della sua

abitazione) e più di 850 feriti, tra cui più di 150 agenti di polizia.

Il week end dell’1-2 dicembre ha visto una serie di manifestazioni di piazza violente agli

Champs Elysées a Parigi, con monumenti e negozi danneggiati, incluso l’arco di trionfo, e la

distruzione di proprietà privata con diverse auto date alle fiamme. Solo il 2 dicembre, almeno

136.000 persone hanno preso parte ai cortei in tutta la Francia. Considerato, il livello di pericolosità

delle manifestazioni, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha convocato una riunione di

emergenza sulla sicurezza del consiglio dei ministri.4

1 Sito ufficiale ONU https://unfccc.int/ 2 Direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 ottobre 2003 che istituisce un sistema per lo

scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2003:275:0032:0046:IT:PDF

3 Accordo di Parigi http://unfccc.int/files/essential_background/convention/application/pdf/english_paris_agreement.pdf 4 “France fuel protests: Macron holds urgent security meeting” BBC 2 dicembre 2018 https://www.bbc.com/news/world-

europe-46417991

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Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 62

Nella riunione non è stato proclamato lo stato di emergenza, mentre il leader della destra,

Marine Le Pen, presente alla riunione, ha messo in guardia il presidente Macron, sul fatto che

potrebbe essere il primo in 50 anni a far sparare sulla folla. Le Pen ha suggerito al presidente di

astenersi dai rincari dei carburanti.5

Il presidente Macron vorrebbe ancora aumentare il costo di benzina e gasolio, come misura di

mitigazione volta alla riduzione dei gas serra. Oltre a gravare sul costo della vita e sul potere di

acquisto dei consumatori francesi, il prezzo dei combustibili va a incrementare il costo dei trasporti

su gomma e, soprattutto, va ad influenzare nel lungo termine l’industria automobilistica francese,

che ad oggi, nonostante l’imposizione del divieto di utilizzo di motori diesel dal 2040, fa ancora largo

uso di auto con motore ad accensione spontanea (diesel).

Il movimento dei gilets jaunes chiede le dimissioni del presidente francese Macron.

Il 3 dicembre, il portavoce del movimento, Christophe Chalençon, nel recarsi al palazzo del Matignon

per un incontro con il governo, avrebbe chiesto le dimissioni del primo ministro Édouard Philippe,

suggerendone la sostituzione con il Generale de Villiers”, ex capo di stato maggiore della difesa

francese, che si dimise in una disputa con il presidente Macron sul taglio al bilancio della difesa.6

Le posizioni di Chalençon sono considerate reazionarie e islamofobe, per cui la componente

pacifista e di sinistra dei gilet gialli non si riconosce nelle sue affermazioni.

Le rivendicazioni dei gilet gialli vanno oltre i temi ambientali e il fenomeno si configura come

un movimento di protesta sulle condizioni sociali e di lavoro. Tra le 42 rivendicazioni presentate,

figurano anche l’aumento del Salaire Minimum Interprofessionnel De Croissance (SMIC), versione

francese del salario minimo, incrementato a 1.300 euro al mese e l’abbassamento dell’età

pensionabile a 60 anni. I gilet gialli verrebbero così ridimensionati a un fenomeno simile a quello dei

“forconi” di pochi anni fa in Italia.

La Francia non è nuova a questi fenomeni di protesta legati a temi sociali, che possono

diventare anche violenti, come è accaduto dal maggio 1968 in poi – da non dimenticare anche

esempi storici ben noti come la rivoluzione francese, la rivoluzione borghese del 1830 o la comune

di Parigi del 1870 – così come il movimento escargot (NDT lumache), di metà anni ’90, che nacque

come forma protesta degli autotrasportatori, ma subito assunse temi sociali più ampi.

5 “France fuel protests: 80-year-old woman killed in Marseille” BBC 3 dicembre https://www.bbc.com/news/world-

46429930 6 Angelique Negroni “Les gilets jaunes annulent leur rencontre avec le premier ministre” Le Figaro, 3 dicembre 2018

http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2018/12/03/01016-20181203ARTFIG00173-les-gilets-jaunes-sur-le-point-d-annuler-leur-rencontre-avec-le-premier-ministre.php

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Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele Claudio Berttolotti

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 63

L'area mediterranea come zona di transito

Il ruolo dell'area mediterranea è mutato nel corso degli ultimi due decenni assumendo sempre

più la connotazione di un’area di “attesa” e “transito” per migranti provenienti dall’area africana,

asiatica e mediorientale. Oltre alle ragioni sociali e politiche, e ai molteplici conflitti che sono causa

diretta dei fenomeni migratori, si aggiunge la questione del cambiamento climatico come elemento

importante in grado di influenzare questo fenomeno.

La relazione tra questi vari fattori è di fatto complessa: da un lato, i cambiamenti climatici e

ambientali sono le possibili cause alla base della migrazione, dall’altro, altri importanti fattori come

quelli sociali, economici e culturali hanno la capacità di aumentarlo, sebbene in molti casi possano

essere indipendenti tra loro. Inoltre, al pari dei fattori in grado di alimentare i flussi migratori, va

evidenziato come questi siano a loro volta in grado d’nfluire in maniera significativa sulle dinamiche

socio-politiche ed economiche del luogo di destinazione.

Date le premesse, e tenute in considerazioni le evoluzioni di un fenomeno migratorio sempre

in crescita, si rende sempre più evidente la crescente connessione tra cambiamenti climatici e

modelli migratori. A ciò vanno ad unirsi elementi dinamici quali l'instabilità, le competizioni strutturali

per l'accesso a risorse naturali sempre meno disponibili o accessibili e l'alto tasso di natalità che,

sommate al cambiamento climatico tendono a spingere sempre più singoli soggetti, o parti di

comunità, ad abbandonare il proprio luogo di residenza per cercare condizioni di vita migliori.

I paesi del Maghreb e del Mashreq, in particolare, sono costituiti da vaste aree desertiche e

sono esposti a radiazioni solari intense; una situazione potenzialmente predisposta a “crisi

strutturali”, anche a causa delle limitate riserve di acqua dolce che si somma a un livello di

precipitazioni annuali ridotto e a una produzione agricola che dipende in larga misura dal clima.

Infine, la già precaria situazione di approvvigionamento alimentare e l’elevato livello di importazioni

(in particolare per Algeria, Libia, Mauretania) sono aggravati dalla crescita della popolazione e dai

problemi ambientali dei vicini paesi dell’africa sub-sahariana, in cui il degrado sociale è in costante

peggioramento.

La possibile comparsa di rivalità interstatali per il controllo delle risorse idriche

Le correlazioni tra clima e conflitti interstatali sono complesse e dibattute. Tuttavia, come

abbiamo accennato, le conseguenze del cambiamento climatico in combinazione con altre

dinamiche sociali e politiche possono, in diversi modi, portare a nuovi conflitti o alimentarne di

esistenti. Concentrandosi su Maghreb e sul Mashreq, una ragione rilevante di potenziali conflitti

interstatali è rappresentata dall’accesso alle risorse idriche sotterranee.

Nel Maghreb oltre il 70 percento delle risorse idriche derivano dall’accesso a “bacini fossili”

sotterranei condivisi. Nei paesi dell’area, l’acqua sotterranea è la principale e, in molti casi, l'unica

fonte futura di acqua per soddisfare le crescenti esigenze alimentari e di sviluppo economico.

Esistono due principali sistemi acquiferi condivisi da diversi paesi del Maghreb, più un terzo

minore: il North Western Sahara Aquifer System (NWSA), meglio noto come SASS, per il suo nome

francese Système Aquifère du Sahara Septentrional (condiviso da Algeria, Libia e Tunisia) e il

Nubian Sandstone Aquifer System (NSAS), il più grande bacino acquifero fossile conosciuto al

mondo (condiviso da Ciad, Egitto, Libia e Sudan). Il terzo è il bacino di acque sotterranee

sedimentarie Iullemeden Aquifer System (IAS), un bacino del Sahel principalmente condiviso da

Mali, Niger, Nigeria e, marginalmente, Algeria.

La longevità di una falda acquifera non alimentata non è determinata solo dal volume e dal

flusso complessivo, ma anche dalla disponibilità delle tecnologie adeguate a raggiungere la massa

idrica a fronte della diminuzione del livello di acqua in conseguenza dell’estrazione intensiva e dei

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Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 64

cambiamenti climatici: l'effetto maggiormente critico è rappresentato dallo spostamento dell'acqua

da una parte della falda a un'altra; spostamento che, a causa della gravità, tende ad accelerare

quanto più si è in prossimità dei punti di estrazione. Quest'ultimo aspetto rappresenta una potenziale

fonte di conflitto tra stati che, in un’ottica di collaborazione finalizzata a mantenere buone relazioni,

tendono a stipulare accordi per la gestione dei bacini idrici condivisi, garantendone la sostenibilità

dello sfruttamento. Una condizione ottimale che pone le proprie basi sull'esistenza di stati forti con

buona capacità di governance come prerequisito essenziale alla prevenzione di conflitti tra le parti.

Il bacino di Iullemeden, il più piccolo dei tre sistemi di acquiferi, è il più soggetto a conflitti

poiché è una risorsa strategica estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici: una riduzione

del volume idrico o un accesso limitato all’acqua avrebbe come conseguenza diretta la diminuzione

della produttività agricola nelle aree a confine tra Mali, Niger, Nigeria.

Un ultimo elemento che non può essere trascurato è rappresentato dall’impatto dei

cambiamenti climatici sul settore energetico, in particolare sui produttori di petrolio e gas, che sono

grandi consumatori di acqua. La criticità è duplice: da un lato, la riduzione di disponibilità idrica limita

la capacità estrattiva, dall’altro, la ridotta disponibilità di acqua e il suo utilizzo a fini industriali ha

dirette ripercussioni sociali, politiche ed economiche a causa di un sempre più ridotto accesso da

parte delle popolazioni locali a fini alimentari e agricoli.

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Sahel e Africa Subsahariana Marco Cochi

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 65

«Nei prossimi trent’anni, i centri urbani africani, in rapida espansione, dovranno affrontare

enormi minacce derivanti dai cambiamenti climatici che potrebbero produrre effetti a catena, come

l’innalzamento dei tassi di criminalità e disordini civili».

L’allarmante conclusione è contenuta nell’Indice di vulnerabilità ai cambiamenti climatici

(CCVI), pubblicato lo scorso 14 novembre dalla società britannica di consulenza Verisk Maplecroft,

attiva nell’analisi dei rischi globali1. La graduatoria del 2018 ha evidenziato come tra le 234 città

considerate a “rischio estremo” per l’impatto del global warming ben 79 sono in Africa. Tra queste

sono comprese 15 capitali del continente come Luanda, Kinshasa, Addis Abeba e molti dei più

importanti hub commerciali della regione, tra cui Lagos, la più popolosa città della Nigeria, e Dar es

Salaam, la capitale economica della Tanzania.

Non stupisce che un numero così elevato di città africane vengano considerate ad alto indice

di rischio climatico, dopo che da tutte le Conferenze delle parti (COP) della Convezione quadro delle

Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC2) è più volte emerso che questo fenomeno

colpisce soprattutto i Paesi meno sviluppati e l’Africa in particolare3.

Lo attestano anche le stime degli esperti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento

climatico delle Nazioni Unite (IPCC), i quali hanno stabilito che l’Africa si scalderà una volta e mezzo

più rispetto alla media globale, con conseguenze devastanti4. Tra queste conseguenze, si evidenzia

la scomparsa ogni anno di quattro milioni di ettari di foreste africane, equivalente al doppio rispetto

al resto del mondo, oltre al restringimento del 50% dei ghiacciai in Uganda e a un’esponenziale

riduzione delle aree verdi in Senegal.

La gravità dello scenario è stata esaminata lo scorso ottobre dall’Istituto per gli studi sulla

sicurezza (ISS), con sede a Pretoria, che per i prossimi decenni prevede l’intensificarsi della siccità

in Africa sub-sahariana con un conseguente aumento delle carestie e della desertificazione, mentre

nelle aree aride e semi-aride i modelli delle precipitazioni atmosferiche diventeranno sempre più

irregolari5. Allo stesso tempo, l’innalzamento delle emissioni di CO2 altererà la chimica delle acque

marine, creando notevoli difficoltà nelle zone costiere, mentre le temperature medie estive superiori

ai 35°C diventeranno la norma6. Tutto ciò produrrà inondazioni e altri disastri naturali ad insorgenza

rapida con un elevato numero di vittime.

L’impatto del climate change nella macroregione sub-sahariana avrà ripercussioni negative

anche sull’insicurezza alimentare, che aumenterà in conseguenza della diminuzione della

produttività agricola e della crescente probabilità di migrazioni di massa.

Nella disamina dell’ISS viene anche evidenziata la stretta relazione tra riscaldamento globale

e aumento dei c onflitti in Africa, che di recente è stata accuratamente esaminata in un’indagine

1 www.maplecroft.com/portfolio/new-analysis/2018/11/14/84-worlds-fastest-growing-cities-face-extreme-climate-

change-risks/ 2 La United Nations Framework Convention on Climate Change, da cui l’acronimo UNFCCC, è un trattato ambientale

internazionale prodotto dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite, informalmente conosciuta come Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Il trattato è in vigore dal 1994 e punta alla riduzione delle emissioni dei gas serra

3 Per un riepilogo di tutte le Conferenze delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti

climatici si rimanda a S. del Bianco, COP sui cambiamenti climatici: la strada percorsa fino a oggi, in «Rinnovabili.it»,

6 novembre 2017. www.rinnovabili.it/ambiente/cop-sui-cambiamenti-climatici-la-storia-666/

4 www.ipcc.ch/ipccreports/tar/wg2/index.php?idp=378 5 L. Welborn, Climate change and poverty in Africa, Institute for Security Studies, 19 ottobre 2018.

https://issafrica.org/iss-today/climate-change-and-poverty-in-africa 6 Ibidem

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Sahel e Africa Subsahariana

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 66

scientifica pubblicata sulla rivista Science, nella quale emerge che dal 1980 al 2016, l’innalzamento

delle temperature in Africa sub-sahariana ha accresciuto dell’11% il rischio di guerre7. Nel momento

in cui l’edizione 2018 del Global Climate Risk Index, certifica che nel 2016 l’Africa è stata

ripetutamente colpita da eventi atmosferici estremi e che lo Zimbabwe, è il secondo tra i dieci Paesi

maggiormente colpiti a livello globale da questi eventi8.

Ad essere particolarmente interessata dagli effetti del climate change è anche l’area del Sahel,

da lungo tempo oggetto di monitoraggio da parte del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente

(UNEP), che alla fine del 2011 ha condotto un dettagliato studio nella vasta regione desertica.9

Il report realizzato attraverso un processo di mappatura del Centro di Geoinformatica dell’Università

di Salisburgo, identifica 19 punti chiave nei quali i cambiamenti climatici sono stati più intensi.

Tali punti sono prevalentemente concentrati nella parte centrale del Sahel (Niger, Burkina Faso,

Ghana) e nelle aree settentrionali (Togo, Benin e Nigeria). E in tutti questi Paesi la notevole

variazione delle condizioni climatiche ha influito negativamente sulla disponibilità delle risorse

naturali, da cui dipendono le popolazioni locali10.

In definitiva, da questi studi emerge che l’Africa è l’area più vulnerabile agli effetti del

cambiamento climatico, in special modo a causa dell’elevata e diretta connessione della sua

economia alle risorse naturali. Di conseguenza, appare illogico constatare che sia l’unico continente

ancora non industrializzato, che a livello globale ha contribuito solo al 4% dell’accumulo dei gas

serra.

Uno dei problemi più rilevanti della questione è insito nella debole capacità di risposta dei

governi africani nell’affrontare le sfide ambientali. Una debolezza monitorata in una recente indagine

coordinata dal Climate and Development Knowledge Network (CDKN), che ha preso in esame

l’intera area sub-sahariana riscontrando che i governi e le imprese di molti Paesi della regione non

si stanno impegnando in maniera efficace per arginare il fenomeno del global warming11. Dall’analisi

emerge un’insufficienza di competenze e di risorse economiche, che penalizzano la realizzazione di

progetti per la salvaguardia dell’ambiente, oltre al fatto di non prendere in considerazione le

informazioni sulle conseguenze climatiche a lungo termine12.

Per finanziare le misure di adattamento e mitigazione ai cambiamenti climatici, l’Africa conta

molto sul sostegno del Fondo verde per il clima (GCF), istituito nell’ambito della Convenzione quadro

delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) con l’obiettivo di sostenere i vulnerabili

Paesi in via di sviluppo nella riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e dei loro effetti

climalteranti. Sebbene i Paesi maggiormente sviluppati siano stati spesso piuttosto lenti nel

rispettare gli impegni finanziari per sostenere il GCF.

Ciò nonostante, costituisce già un grande risultato che il problema dei mutamenti climatici nei

Paesi africani sia ormai stabilmente integrato nella pianificazione a lungo termine dell’UNEP e di vari

organismi internazionali. Ma sarebbe ancora più proficuo, che per affrontare questa emergenza

globale l’Africa svolgesse un ruolo di maggior rilievo nelle attività decisionali di detti organismi.

7 T.A. Carleton, S.M. Hsiang, Social and economic impacts of climate, in «Science», 9 settembre 2016.

http://science.sciencemag.org/content/353/6304/aad9837

8 D. Eckstein, V. Künzel, L. Schäfer, Global Climate Risk Index 2018. Who Suffers Most From Extreme Weather Events?

Weather-related Loss Events in 2016 and 1997 to 2016, Germanwatch, novembre 2017.

https://germanwatch.org/sites/germanwatch.org/files/publication/20432.pdf

9 Report UNEP, Livelihood Security. Climate Change, Migration and Conflict in the Sahel, dicembre 2011.

https://postconflict.unep.ch/publications/UNEP_Sahel_EN.pdf

10 Ibidem 11 https://cdkn.org/future-climate-africa/#intro 12 Ibidem

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Golfo Persico Francesca Citossi

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 67

Secondo una ricerca del Massachusetts Institute of Technology del 2015, nel 2070 il Golfo

Persico potrebbe sperimentare ondate di calore e tassi di umidità che renderanno impossibile

viverci1. L’estate scorsa l’Iran ha registrato 128,7 gradi Fahrenheit (53,7 gradi Celsius) e nel 2016

Mitribah, in Kuwait, ha raggiunto 129.2 gradi2 (54˚C). Il team di ricerca del MIT ha determinato che,

se non verrà introdotto al più presto un limite alle emissioni, le temperature future – per Emirati Arabi

Uniti, Qatar, Arabia Saudita, Bahrein, Iran, Iraq, Kuwait, Oman e Asia sud occidentale - saliranno

oltre la soglia per l’umana sopravvivenza. Il rischio immediato dell’eccessivo calore e dell’alto tasso

di umidità supera quello dell’aumento del livello del mare.

L’Arabia Saudita non cesserà di esportare greggio, ma sta pianificando impianti solari vasti

200 volte quelli attuali per diversificare le fonti di energia.

Gli UAE sono l’unico paese del Golfo Persico che ha costituito un ministero dedicato al

cambiamento climatico. Abu Dhabi ha lanciato un programma proattivo per la transizione a una

green economy, taglio delle emissioni, limitazione del rischio e adattamento incrementale fino al

2050. Entro quella data il paese intende raddoppiare il contributo di energia pulita per raggiungere

la metà del totale, ridurre del 70% l’impatto dei combustibili fossili e risparmiare 700 miliardi di dollari.

L’innalzamento del livello del mare potrebbe minacciare il 90% delle infrastrutture sulla costa, ma

per il paese il rischio immediato è il calore.

Secondo Fahed Alhammadi, assistente al sottosegretario del Ministry of Climate Change and

Environment, anche eventuali malattie legate alla variazione delle temperature devono essere

tenute sotto controllo. Negli UAE tutte le abitazioni, anche le più remote, hanno accesso ininterrotto

alla fornitura di energia per l’aria condizionata; un codice per i green building assicura l’efficienza

energetica, mentre sistemi distrettuali di raffreddamento assicurano i servizi comuni riducendo della

metà il fabbisogno di edifici singoli. La domanda per i servizi di condizionamento triplicherà,

divenendo il settore primario per il consumo energetico.

L’Iraq è completamente trasformato: fiumi prosciugati, volatili scomparsi, siccità diffuse che

provocano l’abbandono dell’agricoltura da parte dei contadini, tempeste di sabbia sempre più

frequenti: ma la questione climatica non rientra fra le priorità3 del governo. L’attenzione è stata

catalizzata sinora dalla guerra allo Stato Islamico, il referendum per l’indipendenza del Kurdistan e

gli equilibri istituzionali all’indomani delle elezioni.

Secondo uno studio effettuato utilizzando i satelliti della NASA, i bacini dei fiumi Tigri ed

Eufrate dal 2003 al 2010 hanno perso 144 chilometri cubici di acqua, pari al volume dell’intero Mar

Morto. La riduzione è dovuta al pompaggio da falde sotterranee per far fronte alla diminuzione delle

piogge. La semplice prospettiva di scarsità d’acqua è un push factor nei conflitti: le dighe turche e

iraniane sul Tigri e l’Eufrate hanno sollevato le ire degli iracheni, già duramente colpiti dalla siccità.

Secondo Alireza Massah Bavani, professore associato at Department of Irrigation and Drainage

Engineering, University of Tehran, il Golfo Persico e il Mare dell’Oman sono collegati ad acque

1 “Searing heat could make countries in North Africa and along the Persian Gulf unlivable”, NBC News, August 12, 2018;

https://www.nbcnews.com/news/world/searing-heat-made-could-make-countries-north-africa-along-persian-n899921. 2 “Extreme heatwaves could push Gulf climate beyond human endurance, study shows”, The Guardian, 26 October

2015; https://www.theguardian.com/environment/2015/oct/26/extreme-heatwaves-could-push-gulf-climate-beyond-human-endurance-study-shows.

3 “Climate change is making the Arab world more miserable”, The Economist, May 31st 2018; https://www.economist.com/middle-east-and-africa/2018/05/31/climate-change-is-making-the-arab-world-more-miserable.

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Golfo Persico

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 68

internazionali come l’Oceano Indiano, il cui aumento di livello avrà delle conseguenze nell’area del

Golfo. Da una ricerca pubblicata sul Journal of Geophysical Rese risulta che il livello dell’Oceano

Indiano ha raddoppiato il ritmo dell’innalzamento rispetto al 20034.

In Iran l’impatto dei cambiamenti climatici è una delle ragioni alla base delle proteste popolari5.

L’ex Presidente Ahmadinejad aveva disposto sussidi per le fattorie a conduzione familiare in

difficoltà: alla proposta del Presidente Rouhani di tagliare i fondi si sono aggiunti altri manifestanti

alle proteste già in corso per l’aumento dei prezzi degli alimentari.

Una grave siccità che perdura da 14 anni, un ciclo iniziato negli anni Novanta6, la cattiva

gestione delle risorse idriche e l’avanzamento della desertificazione che provoca tempeste di sabbia

hanno peggiorato l’economia. Le proteste sono iniziate nelle province, tradizionalmente più

conservatrici e refrattarie ad esprimersi criticamente contro l’establishment. Anche l’Ayatollah Ali

Khameni nel 2015 ha richiamato l’attenzione su desertificazione, inquinamento e siccità che hanno

avuto un grave impatto sull’economia, la qualità della vita, i flussi migratori e quindi sulle elezioni

presidenziali dello scorso anno. La costruzione indiscriminata di dighe sui fiumi principali del paese

ha complicato la situazione idrica, in particolar modo per le zone rurali e le piccole città, colpendo le

classi più povere. Le classi medio-alte si possono permettere i condizionatori, mentre altri sono

costretti a lavorare con temperature molto alte per periodi prolungati di tempo; il cambiamento

climatico è un contributore di ineguaglianze. Inoltre, gli iraniani incolpano l’amministrazione Trump,

e il suo ritiro dall’accordo di Parigi sul clima, come causa degli effetti negativi sull’ambiente che sono

costretti a subire.

Per fronteggiare le conseguenze del cambiamento climatico i paesi di quest’area potrebbero

applicare diverse strategie: utilizzare coltivazioni resistenti ad alte temperature, razionalizzare

l’irrigazione, abbassare le temperature nelle aree urbane provocate da automezzi e riscaldamento

nelle abitazioni. Ma i governi hanno altre priorità e difficilmente concordano tra di loro sulla gestione

di corsi d’acqua e falde acquifere: in particolare Iraq e Siria, con un apparato infrastrutturale

devastato e le casse statali afflitte da debiti consistenti, dovranno fronteggiare problemi crescenti.

I gruppi sociali più svantaggiati soffrono in maniera sproporzionata degli effetti del

cambiamento climatico7, poiché le diseguaglianze sociali aumentano e innescano un circolo vizioso

che incrementa le possibilità di conflitto e di scontro inter e intra statuale.

4 “Climate change takes center stage: 42% of islands in southern Iran could be underwater in 50 years”, Teheran Times,

June 30, 2018; https://www.tehrantimes.com/news/424880/Climate-change-takes-center-stage-42-of-islands-in-southern.

5 “Climate Change May Have Helped Spark Iran’s Protests”, Scientific American, January 8, 2018; https://www.scientificamerican.com/article/climate-change-may-have-helped-spark-iran-rsquo-s-protests/.

6 “Protests in Iran: Their Motives and Meaning”, Wilson Center, January 10, 2018; https://www.wilsoncenter.org/event/protests-iran-their-motives-and-meaning.

7 N. Islam, J. Winkel, “Climate Change and Social Inequality”, DESA Working Paper No. 152, ST/ESA/2017/DWP/152, Department of Economic & Social Affairs, October 2017, https://www.un.org/esa/desa/papers/2017/wp152_2017.pdf.

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Corno d’Africa e Africa Meridionale Luca Puddu

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 69

Gli effetti del cambiamento climatico sono più acuti in quelle aree del globo dominate da

un’economia primaria, dove lo sfruttamento diretto dell’ambiente acquisisce una valenza

determinante ai fini della sussistenza locale. Ciò vale soprattutto per quei territori dove agricoltura,

pesca e pastorizia garantiscono i maggiori livelli di occupazione, acuendo la pressione sull’utilizzo

delle risorse e favorendo l’opzione migratoria. Uno sguardo rapido alla struttura economica dei Paesi

africani consente di inquadrare l’Africa orientale tra le aree del globo più esposte al fenomeno: in

Etiopia l’agricoltura continua a impegnare circa il 68% della popolazione; in Eritrea, tale percentuale

sfiora l’80%, mentre in Somalia, agricoltura e pastorizia danno lavoro direttamente o indirettamente

a circa l’85% della popolazione. I dati sopra descritti non devono essere interpretati in maniera rigida.

In Etiopia, ad esempio, la popolazione impiegata nell’agricoltura è diminuita in maniera sensibile

negli ultimi decenni grazie a una campagna di diversificazione economica incentrata sull’industria

tessile e agro-alimentare: ancora nel 1991, la percentuale di cittadini etiopici che dipendevano dal

settore agricolo per la propria sussistenza era superiore al 90%1. In Eritrea, l’agricoltura rimane

fondamentale in termini di livelli d’occupazione, ma occupa un ruolo sempre più marginale nel

computo del Prodotto Interno Lordo dopo l’inizio delle operazioni di sfruttamento delle miniere

aurifere2.

Le stime sulla portata effettiva del cambiamento climatico sui Paesi meno sviluppati rimangono

contraddistinte da incertezza. Alcuni studi statistici elaborati nel corso degli anni ‘2000 suggeriscono

un impatto negativo del riscaldamento globale e dell’inquinamento delle acque in quei Paesi

dell’Africa sub-sahariana che più dipendono dalla pesca per la propria dieta nazionale3. La Somalia,

da questo punto di vista, è una delle aree a più alto rischio, data anche la presenza consolidata di

imbarcazioni di Paesi terzi a largo delle coste somale e l’incapacità delle autorità locali di regolare

l’attività all’interno di un quadro di legalità. Un discorso simile vale per la produzione cerealicola.

Secondo alcune proiezioni, il riscaldamento globale sarà responsabile di una diminuzione

complessiva del 10% della produzione mondiale di mais nel 2055, ma con una distribuzione

dell’onere sbilanciata verso quei Paesi dove il settore agricolo presenta un più basso contenuto

tecnologico4.

Stabilire un legame causale tra cambiamento del clima e scarsità alimentare nel Corno d’Africa

è un esercizio delicato, data la lunga storia di calamità naturali nei bassopiani somalo-kenioti e

nell’altopiano etiopico. Proprio nell’altopiano le carestie sono state un fenomeno ricorrente,

svolgendo un ruolo cruciale nel regolare gli equilibri demografici e i cicli delle principali dinastie

politiche nel corso degli ultimi secoli5. Al netto di queste osservazioni, è innegabile come l’impatto

dei cambiamenti climatici sia stato percepito in maniera sempre più chiara nel corso degli ultimi

vent’anni, come dimostrano le conseguenze eccezionali del ciclone El Nino sui raccolti in Kenya,

Somalia ed Etiopia nel 2015, 2016 e 20176.

1 https://data.worldbank.org/indicator/SL.AGR.EMPL.ZS 2 https://www.ifad.org/web/operations/country/id/eritrea 3 Edward Allison et al., Vulnerability of national economies to the impacts of climate change on fisheries, Fish and

Fisheries, Vol. 10, No. 2, 2009. 4 Peter Jones, Philip Thornton, The Potential Impact of Climate Change on Maize Production in Africa and Latin

America in 2055, Global Environmental Change, Vol. 13, No. 1, 2003. 5 James McCann, A Great Agrarian Cycle? Productivity in Highland Ethiopia, 1900 to 1987, Journal of Interdisciplinary

History, Vol. 20, No. 3, 1990. 6 Temesgen Tadesse Deressa,Measuring the Economic Impact of Climate Change on Ethiopian Agriculture: Ricardian

Approach, World Bank Policy Research Working 4342, 2007; Paper, Oxfam Media Briefing, A Climate in Crisis: How Climate Change is making drought and humanitarian disaster worst in East Africa, January 2017.

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Corno d’Africa e Africa Meridionale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 70

Nella sola Somalia, la scarsità alimentare provocata da El Nino nel 2017 ha causato lo spostamento

di quasi un milione di rifugiati interni e posto 5,4 milioni di persone in stato di necessità di assistenza

umanitaria7. In Etiopia, secondo altri modelli previsionali, le temperature medie sarebbero destinate

a salire tra 1,4 e 2,9 gradi centigradi entro il 2050, causando una regressione annua del Prodotto

Interno Lordo stimata tra il 0,5 e il 2,5% all’anno8. Non tutte le crisi alimentari che hanno colpito il

Paese sono però addebitabili a circostanze esterne. Alcune grandi trasformazioni ambientali che

hanno interessato i bassopiani orientali e occidentali nel corso degli ultimi decenni sono

specificatamente riconducibili a interventi umani realizzati per modificare il corso dei fiumi e

promuovere schemi d’irrigazione o sfruttamento idro-elettrico. Questi ambiziosi progetti d’ingegneria

ambientale e sociale hanno da un lato consentito di trasformare la struttura economica locale in

maniera funzionale agli interessi fiscali e di controllo del territorio di Addis Abeba, ma con gravi

implicazioni di medio e lungo periodo sugli equilibri sociali e politici delle aree interessate. Nella valle

dell’Awash, stato regionale dell’Afar, le dighe e i sistemi d’irrigazione costruiti nella seconda metà

del ventesimo secolo per favorire la nascita di piantagioni del cotone e dello zucchero hanno

destrutturato l’economia pastorale fin lì dominante, modificando stili di vita e pratiche di gestione

delle risorse naturali9. Il paradosso di queste scelte è stato che, se da un lato la modernizzazione

economica delle aree pastorali è stata presentata come soluzione di lungo periodo alla violenza

armata che contraddistingue la competizione per il controllo dei pascoli, è invece emerso nel tempo

un nesso consequenziale tra conversione forzata all’agricoltura e aumento dei conflitti per l’accesso

alle fonti d’acqua10. Anche da un punto di vista strettamente economico, d’altronde, permangono dei

dubbi sulla sostenibilità delle politiche di sviluppo agro-industriale rispetto alla pastorizia in assenza

di ingenti sussidi pubblici11.

Misure di contenimento

Nel corso degli ultimi anni, la comunità internazionale ha iniziato a impegnarsi attivamente per

alleviare le conseguenze del cambiamento climatico globale, obbligandosi a stanziare 100 miliardi

di dollari entro il 2020 per il tramite del United Nations Framework Convention on Climate Change.

L’obiettivo dell’iniziativa è investire nei Paesi più vulnerabili per composizione dell’economia ed

esposizione al rischio ambientale, fornendo strumenti pratici e di consulenza per sensibilizzare

società e governi alle tematiche del clima. Tra i donatori che hanno adottato le politiche più incisive

per incorporare il cambiamento climatico nei loro programmi di cooperazione figurano la Banca

Mondiale, l’United Nations Development Program (UNDP) e il Dipartimento per lo Sviluppo

Internazionale britannico.

Nel caso specifico del Corno d’Africa, le organizzazioni non governative hanno svolto un ruolo

d’avanguardia nel sensibilizzare ai rischi del cambiamento climatico. Oxfam in particolare è stata tra

i sostenitori più vocali della necessità di una risposta congiunta dei governi della regione e della

comunità internazionale al fenomeno del cambiamento climatico. La risposta dei donatori esteri si è

materializzata soprattutto in misure di breve termine, quali l’assistenza alimentare d’emergenza alle

popolazioni più colpite dalle carestie.

7 World Bank Group, Federal Republic of Somalia: Systematic Country Diagnostic, Report no. 123807-SO, May 1 2018. 8 Belay Simane et al., Review of Climate Change and Health in Ethiopia: Gap and Analysis, Ethiopian Journal of Health

Development, Vol. 30, No. 1, 2016. 9 Ayele Gebre-Mariam, The Alienation of Land Rights among the Afar in Ethiopia, Nomadic Peoples, No. 34-35, 1994. 10 Simone Rettberg, Contested Narratives of Pastoral Vulnerability and Risk in Ethiopia’s Afar Region, Pastoralism, Vol.

1, No. 2, 2010 11; Roy Behnke, Carol Kerven, Counting the Costs: Replacing Pastoralism with Irrigated Agriculture in the Awash Valley,

north-eastern Ethiopia, IIED Cliamte Change Working Paper No. 4, 2013.

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La sfida del cambiamento climatico

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 71

Nel 2017, il ministero per lo sviluppo internazionale della Gran Bretagna ha destinato 110 milioni di

sterline agli aiuti alimentari per la Somalia, a cui devono aggiungersi altri 100 milioni stanziati allo

stesso scopo per il Sud Sudan.12 La missione UNDP, invece, ha assistito attivamente il governo

somalo nella redazione del “Somalia National Adaptation Program of Action to Climate Change”, il

documento quadro per contenere l’esposizione delle comunità più vulnerabili alla variabilità

climatica13. Nonostante la crescente sensibilità della comunità internazionale, tuttavia, va

sottolineato come gli strumenti messi a disposizione dai Paesi donatori non siano stati finora in grado

di incidere in maniera significativa, complice anche l’assenza di un sentire condiviso sulle modalità

attraverso cui gestire la problematica. Tanto nel caso dell’Etiopia che della Somalia, ad esempio,

alcuni pacchetti d’aiuto allo sviluppo già esistenti – come quelli destinati a soddisfare le esigenze di

assistenza umanitaria nelle aree più esposte al rischio carestia – sono stati ufficialmente rimodulati

nel corso del tempo per andare a mitigare anche i fenomeni del cambiamento climatico, senza però

mutare nella sostanza14.

Non tutte le strategie di contenimento del cambiamento climatico sono di natura esogena.

Un Paese in prima linea nel promuovere l’adattamento alle trasformazioni del clima è, ad esempio,

l’Etiopia, che attraverso il programma Climate Resilient Green Economy mira a creare un’economia

verde e resiliente al riscaldamento globale entro il 202515. Gli aiuti internazionali mirati a favorire

l’adattamento climatico rivestono una particolare rilevanza nel portafoglio dell’assistenza

internazionale dell’Etiopia: se, nel continente africano in generale, gli aiuti specificatamente legati a

questi temi rappresentano in media solo lo 0,5% del totale, nel caso etiopico questa percentuale

sale al 3% del totale. Le ragioni di fondo sono anche politiche: nel 2009, l’ex primo ministro Meles

Zenawi venne eletto coordinatore del Comitato dei Capi di Stato Africani sul Cambiamento Climatico,

a cui ha fatto seguito nel 2010 la sua nomina da parte dell’Unione Africana a coordinatore della

Conferenza Africana sul Cambiamento Climatico16. La traiettoria dell’Etiopia è paradigmatica di

come il tema del cambiamento climatico possa rappresentare anche un’opportunità, tramutando una

problematica sociale in uno strumento per ottenere visibilità diplomatica e legittimità politica tanto in

patria che all’estero.

12 International Development: written statement HCWS606 by Priti Patel, 20 April 2017.

https://www.parliament.uk/business/publications/written-questions-answers-statements/written-statement/Commons/2017-04-20/HCWS606/

13 Federal Republic of Somalia, Ministry of National Resources, National Adaptation Program of Action on Climate Change, April 2013. Vedi: https://unfccc.int/resource/docs/napa/som01.pdf

14 Nancy Peek et al., Ethiopia: a case study on adaptation aid and coordination efforts, p. 32-33. In C. Weaver, C. Peratsakis, Climate Change.

15 Zewdu Eshetu et al., Climate Finance in Ethiopia, Overseas Development Institute, London & Addis Ababa, 2014. 16 Nancy Peek et al., Ethiopia: a case study on adaptation aid and coordination efforts. In Catherine Weaver, C.

Peratsakis, Climate Change and Development in Africa, Working paper no. 5, March 2013.

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Fabio Indeo

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 72

Nello spazio ex sovietico si possono rilevare differenti approcci e iniziative volte a contenere

gli effetti nefasti innescati dal cambiamento climatico. Tuttavia, l'adozione di politiche nazionali

finalizzate a promuovere lo sviluppo sostenibile e a ridurre le emissioni inquinanti di gas serra

appaiono fortemente condizionate dalla volontà politica delle classi dirigenti e dal loro impegno nella

loro implementazione.

Russia

Nonostante la Russia sia il terzo produttore mondiale di petrolio e il secondo produttore al

mondo di gas naturale, ha dimostrato nel corso degli anni sensibilità e attenzione riguardo ai

cambiamenti climatici: dalle foreste ai ghiacci dell'Artico sono evidenti gli effetti del riscaldamento

globale nello sterminato territorio della Federazione Russa.

Mosca ha ratificato il Protocollo di Kyoto e ha firmato l'Accordo di Parigi sul Clima 2015.

Tuttavia, considerando che metà del bilancio del governo federale dipende dagli introiti derivanti

dalla vendita di idrocarburi, si comprende come la Russia debba attentamente valutare l'impatto di

politiche volte a ridurre le emissioni inquinanti legate all'energia fossile sull'economia nazionale.

Nonostante sia la quinta nazione al mondo per emissioni inquinanti e abbia aderito all'Accordo

di Parigi, in realtà potrà dare un contributo molto limitato al raggiungimento degli obiettivi prefissati,

ovvero tra il 2020 e il 2030, ridurre le emissioni dal 25 al 30% rispetto ai livelli del 1990, in quanto la

Russia è già sotto il livello del 30% rispetto al periodo di riferimento. Potenzialmente questa

condizione implica uno scenario paradossale, ovvero la possibilità per la Russia di incrementare le

emissioni di gas serra senza infrangere gli accordi 1

La Russia possiede variegate fonti di energia rinnovabile dislocate nel territorio; secondo le

stime detiene il maggior potenziale produttivo di energia eolica al mondo, oltre ad energia solare e

geotermica.2 Mosca si propone quindi di sviluppare una produzione di energie rinnovabili in quanto

riconosce le minacce del cambiamento climatico e la necessità di adattamento. L'utilizzo di energie

rinnovabili per la produzione di energia elettrica rappresenta l'obiettivo principale. Secondo le

politiche e i piani programmatici delle autorità russe, la quota delle rinnovabili dovrà coprire il 5% del

consumo totale di energia entro il 2030, anche se appare possibile - secondo l'Agenzia

Internazionale delle Energie Rinnovabili IRENA - aumentare questa quota all'11% nello stesso

periodo, con uno sviluppo fondato su investimenti pari a 300 miliardi di dollari sino al 2030 (in

sostanza una media di 15 miliardi all'anno).

L'energia idroelettrica - che attualmente copre 1/5 della produzione di energia elettrica della

Federazione - e la bioenergia per riscaldare gli edifici e nell'industria rappresentano le energie

rinnovabili con le maggiori potenzialità di sfruttamento3.

Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo del settore è dato dal fatto che gran parte delle

tecnologie moderne non sono prodotte in Russia e l'importazione di queste componenti risulta

costosa; un ragionamento analogo riguarda i costi necessari per realizzare le reti regionali e

1 Andrew Sabintsev, Russia and Climate Change: Bipolar Near the North Pole, International Immersion Program Papers.

65, 2017, pp. 4-7, http://chicagounbound.uchicago.edu/international_immersion_program_papers/65; Alexey Kokorin and Anna Korppoo, Russia’s Ostrich Approach to Climate Change and the Paris Agreement, CEPS Policy Insight No. 2017-40 / November 2017

2 S.V.Kiseleva, G.V.Ermolenko and O.S.Popel, Atlas of Renewable Energy Resources in Russia, University of Chemical

Technology of Russia, Moscow., 2015. 3 International Renewable Energy Agency, REMAP 2030 RENEWABLE ENERGY PROSPECTS FOR THE RUSSIAN

FEDERATION, IRENA Workin Paper, April 2017, http://www.irena.org/-

/media/Files/IRENA/Agency/Publication/2017/Apr/IRENA_REmap_Russia_paper_2017.pdf

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 73

nazionali di trasmissione, accentuati sia dalla vastità del territorio che dalla distanza esistente tra

centri di produzione e centri di consumo. Le sanzioni internazionali inoltre, hanno notevolmente

limitato gli investimenti internazionali e l'apporto di know how e tecnologie moderne per lo sviluppo

del settore.

Risulta però interessante analizzare gli effetti del cambiamento climatico anche sotto una

prospettiva differente, con finalità geopolitiche: secondo Putin, infatti, il riscaldamento globale e lo

scioglimento dei ghiacci nell'Artico produrrà effetti positivi per lo sviluppo economico regionale e

nazionale, in quanto consentirà di sfruttare i giacimenti enormi di gas e petrolio e di percorrere per

un numero maggiore di mesi all'anno le rotte marittime artiche, sviluppando quindi un traffico di navi

metaniere e petroliere dirette verso l'Europa o i mercati asiatici con una conseguente diversificazione

e riduzione della dipendenza dalle rotte terrestri d'esportazione.4

Asia centrale

Anche l'Asia centrale appare estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici: fenomeni

come l'innalzamento delle temperature, la riduzione della disponibilità d'acqua o le alluvioni sono

destinate a provocare danni enormi all'agricoltura - principale settore economico e fonte di

sostentamento nelle aree rurali - e ad inasprire tensioni e rivalità tra le varie comunità, soprattutto in

aree densamente popolate o sovrappopolate come la valle del Ferghana, condivisa tra Uzbekistan,

Kirghizistan e Tagikistan.5

Anche le aree montuose come il Pamir e la regione del Tien Shan sono fortemente vulnerabili

e gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire in termini di scioglimento dei ghiacciai e del

permafrost che distruggono gli ecosistemi esistenti.

Le cinque repubbliche centroasiatiche hanno firmato l'accordo sul clima di Parigi e si sono

impegnate nel perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Di conseguenza queste nazioni

hanno sviluppato strategie nazionali e piani d'azione volti a contenere gli effetti del riscaldamento

globale, ridurre le emissioni inquinanti e sviluppare un’economia a basso consumo di carbone.

Per quanto gli sforzi posti in essere in ambito nazionale appaiono importanti, l'approccio

regionale e la cooperazione transfrontaliera sembrano un’opzione maggiormente efficace per

rafforzare la capacità centroasiatica di contrapporre misure adeguate ed efficaci contro le sfide poste

dai cambiamenti climatici. Ad esempio l'accordo di cooperazione tra Tagikistan ed Afganistan per la

gestione delle risorse idriche del fiume Panj e soprattutto il Fondo Internazionale per il Salvataggio

del Mare d'Aral (IFAS) - bacino che prosciugandosi ha ridotto la sua estensione del 90% - coinvolge

tutte e cinque le repubbliche centroasiatiche in un forum permanente di discussione e di gestione

delle questioni regionali in materia ambientale.6

Parallelamente, vi è un crescente interesse per la produzione di energie da fonti rinnovabili, in

considerazione dell'enorme e variegato potenziale che connota la regione, anche se l'energia

idroelettrica rimane l'opzione predominante: il Kazakhstan vanta un enorme potenziale per la

produzione di energia eolica e solare, l'Uzbekistan su solare e biogas, mentre Kirghizistan e

Tagikistan possono sviluppare impianti idroelettrici di media e grande taglia e l'energia solare è una

risorsa per Tagikistan e Turkmenistan.

L'attenzione verso le energie rinnovabili è legata non soltanto a considerazioni di natura

climatico-ambientale, ovvero la riduzione delle emissioni inquinanti, ma è anche un modo per ridurre

4 Russia's Putin says climate change in Arctic good for economy, CBC, March 30, 2017,

https://www.cbc.ca/news/technology/russia-putin-climate-change-beneficial-economy-1.4048430 5 Stephen Chen, How climate change in Central Asia is threatening to spark regional conflict, South China Morning Post,

January 6, 2017, https://www.scmp.com/news/china/diplomacy-defence/article/2059862/how-climate-change-central-asia-threatening-spark

6 The Environment and Security Initiative (ENVSEC), Climate change and security in Central Asia, ENVSEC and OSCE,

November 9, 2017, pp. 53-57, https://www.osce.org/secretariat/355471?download=true

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La sfida del cambiamento climatico

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 74

la dipendenza dagli idrocarburi, attuare una diversificazione energetica e soddisfare la crescente

domanda interna di energia con fonti domestiche.

Il Kazakhstan è sicuramente la nazione leader in Asia centrale in materia di energie rinnovabili,

alle quali ha anche dedicato l'Expo 2017 ospitato ad Astana: la nazione ha dimostrato una crescente

attenzione ed impegno allo sviluppo dell'energia pulita, che consenta la transizione verso la green

economy - la transizione da una economia fossile ad una verde e sostenibile - per assicurare un

benessere energetico di lunga durata, slegato dal tradizionale sfruttamento degli idrocarburi.

Il Kazakhstan intende perseguire ambiziosi obiettivi nell'ambito dell'efficienza energetica e

della decarbonizzazione, come il raggiungimento della quota del 50% di energie rinnovabili

nell'”energy mix” entro il 2050, incrementare l'efficienza energetica nell'industria pesante - la maggior

responsabile di emissioni di CO2 - del 3% annuo e ridurre le emissioni di gas serra del 15% entro il

2050, tornando ai livelli del 1992. Per poter ricoprire il prestigioso ruolo di promotore dello sviluppo

e della diffusione dell'utilizzo di energie rinnovabili in Asia Centrale, il Kazakhstan dovrà

necessariamente incrementare la produzione di energia da fonti pulite modificando il mix energetico

alla base della produzione di energia elettrica. Secondo il piano nazionale per la green economy, la

quota delle rinnovabili sul totale della domanda di energia elettrica dovrà raggiungere il 3% nel 2020,

salire al 10% nel 2030 e raggiungere l'ambizioso obiettivo nel 2050.

La nazione presenta caratteristiche topografiche e geografiche privilegiate per lo sviluppo della

produzione di energia da fonti rinnovabili: l'impianto eolico di Yerementau a nord est di Astana nel

Kazakhstan centrale, con una capacità di generare 45 megawatts (MW) di energia, e la centrale

solare di Burnoye nella regione di Zhambyl (con una capacità iniziale di 50 MW) rappresentano il

fiore all'occhiello della politica energetica "verde" intrapresa dal presidente Nazarbayev, per la

realizzazione dei quali il Kazakhstan ha ottenuto supporto economico delle banche internazionali, in

primis la Banca Europea per la Ricostruzione e per lo Sviluppo.7

Anche l'Uzbekistan ha deciso di puntare sullo sviluppo dell'energia solare e in generale delle

rinnovabili. Il programma d'azione statale sulle energie rinnovabili lanciato dal presidente Mirziyoyev

nel maggio 2017 prevede investimenti per oltre 5 miliardi di dollari per finanziare 810 progetti nel

periodo 2017-2025. Si prevede che con la realizzazione di nuovi impianti solari e parchi eolici

l'apporto dell'energia solare e di quella eolica sul mix energetico passeranno da meno dell'1% a

rispettivamente 2,3% e 1,3 % entro il 2025.8

Caucaso

Anche le tre repubbliche del Caucaso meridionale sono esposte agli effetti del mutamento

climatico, in particolare ad inondazioni, frane e smottamenti che creano danni economici, vittime e

distruzione di infrastrutture.

Riguardo al rischio di inondazioni legato all'aumento delle temperature, di particolare interesse

appare la tematica dello scioglimento dei ghiacciai del Caucaso meridionale, fenomeno che riguarda

soprattutto la Georgia e in modo particolare il ghiacciaio di Tviberi nella regione dello Svaneti, uno

dei più estesi della nazione ma che, a causa del cambiamento climatico, ha ridotto la sua estensione

da un area di 43,1 kmq a soli 23 kmq.9

7 Ministry of Energy of the Republic of Kazakhstan, CONCEPT for transition of the Republic of Kazakhstan to Green

Economy, 2013, url: http://en.energo.gov.kz/assets/old/uploads/files/2016/12/Green%20Economy%20Concept_En.pdf; Fabio Indeo, EXPO 2017 e l'energia del futuro: una prestigioa vetrina internazionale, in “Il Lazio e la Green Economy. EXPO Astana 2017”, Sandro Teti Editore, Roma, 2017, pp. 55-67

8 Maksim Yeniseyev, Uzbekistan moves toward developing renewable energy sources, Central Asia News,

http://central.asia-news.com/en_GB/articles/cnmi_ca/features/2017/06/13/feature-01 9 The Environment and Security Initiative (ENVSEC), Climate Change and Security South Caucasus, Regional

Assessment Report, July 25, 2017, pp. 43,-48, https://www.osce.org/secretariat/331921?download=true

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Russia, Asia centrale e Caucaso

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 75

Azerbaigian, Georgia ed Armenia hanno firmato l'Accordo di Parigi sul clima: questa crescente

consapevolezza ha spinto le repubbliche del Caucaso meridionale ad adottare iniziative misure di

protezione e prevenzione dai disastri naturali e politiche ambientali.10

Soprattutto l'Armenia ha dimostrato un particolare impegno in tal senso, in quanto sin dal 2007

aveva approvato un programma nazionale per il risparmio energetico e le energie rinnovabili, mentre

Azerbaigian e Georgia hanno un approccio maggiormente cauto in materia.

L'Armenia ha individuato una serie di obiettivi da raggiungere in materia di impiego delle fonti

di energia rinnovabile, anche se poi gli sforzi sono diretti allo sviluppo dell'energia idroelettrica

attraverso la realizzazione di impianti di piccola taglia, nonostante disponga anche di altre fonti come

geotermico, solare ed eolico che avrebbero anche un impatto meno invasivo in materia di

cambiamento climatico.11

L'energia idroelettrica rappresenta la principale fonte di energia rinnovabile anche per

l'Azerbaigian, coprendo l'86% del totale. La posizione geografica di questa repubblica caucasica le

permetterà in futuro di sfruttare anche l'enorme potenziale di energia solare. Anche la Georgia

dipende in larga misura dal settore idroelettrico per la produzione di energia (92%): nel 2011 il

governo si poneva come obiettivo di soddisfare l'intera domanda di energia elettrica con centrali

idroelettriche.

A differenza dell'Azerbaigian, produttore ed esportatore di gas e petrolio, e dell'Armenia, quasi

totalmente dipendente dalle importazioni di idrocarburi dalla Russia, per la Georgia l'obiettivo

dell'indipendenza energetica e della sicurezza energetica acquistano un evidente significato

politico.12

10 Ibidem, p.2 11 Ibidem, p.34 12 Ibidem, pp. 35-36

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Asia Meridionale e Orientale Claudia Astarita

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 76

In base alle elaborazioni sul 2017 pubblicate dal Global Carbon Project, la Cina si conferma il

paese al mondo col maggio tasso d’inquinamento, con emissioni pari a 10.357 milioni di tonnellate

metriche all’anno. Poco meno rispetto ai quattro paesi che la seguono in classifica messi insieme,

ovvero Stati Uniti (5.414 milioni), India (2.274 milioni), Russia (1.617 milioni) e Giappone (1.237

milioni).

Oltre a mettere in evidenza l’enorme e sproporzionato contributo della Repubblica popolare

cinese all’inquinamento su scala globale, questi dati denunciano l’urgente necessità, in Asia, di

potenziare la lotta al cambiamento climatico con misure concrete.

All’inizio di ottobre, il Premier giapponese Shinzo Abe si è impegnato personalmente a

modificare radicalmente l’approccio nazionale al riscaldamento globale. “Il cambiamento climatico

minaccia la vita di tutte le generazioni, nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo. La situazione

sta degenerando, è necessario intervenire in maniera decisa e dobbiamo farlo in fretta”1, ha

dichiarato Abe ricordando come nel corso di una estate tragica hanno perso la vite centinaia di

persone in Giappone a causa di piogge torrenziali, allagamenti, terremoti e ondate eccezionali di

calore dovute, appunto, agli effetti del cambiamento climatico.

Che cosa significa, però, in concreto, combattere l’inquinamento con maggiore

determinazione? Tokyo ha dichiarato di voler potenziare l’utilizzo delle energie rinnovabili per

tagliare le emissioni del 26 per cento entro il 2030 e dell’80 per cento entro il 2050. Un obiettivo

molto ambizioso che, tuttavia, difficilmente potrà essere raggiunto puntando esclusivamente sulle

rinnovabili. Ancora, il paese si è impegnato a sfruttare meglio la Japan Climate Initiative, un network

di attori pubblici e privati, per coordinare gli sforzi necessari per portare avanti questa importante

transizione. Eppure, al momento, i dati raccontano di un aumento della percentuale di combustibili

fossili nell’energy mix nazionale (dal 10 per cento del 1990 sono arrivati al 31 per cento nel 2015), e

le proiezioni per il 2030 prevedono un ulteriore incremento al 56 per cento, con il nucleare fermo al

20-22 per cento e le rinnovabili in crescita al 22-24 per cento.

Infine, al di là della retorica, non è ancora stata approvata nessuna strategia nazionale per

contrastare gli effetti del cambiamento climatico, quindi l’urgenza di cambiare passo continua a non

essere confermata nei fatti.

Ancora più complessa è la situazione dell’India. Per quanto l’attuale leadership abbia rilanciato

una retorica molto positiva sulla necessità di mettere in atto strategie virtuose per contrastare

l’inquinamento (entro il 2030 non sarà più possibile vendere automobili a benzina o diesel in India,

il governo ha iniziato a distribuire sussidi a privati e aziende che installano turbine eoliche o pannelli

solari, ecc.), le sfide con cui deve confrontarsi la nazione sono enormi. L’India, infatti, oltre ad essere

già uno dei paesi più inquinati al mondo, è una nazione in via di sviluppo che deve necessariamente

portare avanti una delle più grandi e veloci transizioni che si siano mai verificate nella storia

dell’umanità. Si parla, infatti, di 200 milioni di nuovi abitanti che andranno ad affollare le aree urbane

del paese entro il 2030 ed è evidente come le infrastrutture che dovranno essere costruite per

ospitare queste persone faranno salire enormemente i tassi di inquinamento. Ci sono ancora almeno

240 milioni di indiani che vivono senza alcun acceso all’elettricità. Come ha sottolineato Samir Saran,

ricercatore dell’Observer Research Foundation di New Delhi, “Due terzi del paese sono ancora tutti

1 “Climate change can be life-threatening to all generations, be it the elderly or the young and in developed and

developing countries alike. The problem is exacerbating more quickly than we expected. We must take more robust actions. And swiftly”, Daniel Hurst, “Can Japan Be a Climate Change Leader?”, The Diplomat, 5 ottobre 2018, https://thediplomat.com/2018/10/can-japan-be-a-climate-change-leader/.

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Asia Meridionale e Orientale

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 77

da costruire. Il che vuol dire che il 16 per cento dell’umanità vorrà dedicare la vita a realizzare il

‘sogno americano’.

Se riusciremo ad aiutarli a realizzare il loro sogno senza distruggere il pianeta, bene. Altrimenti

distruggeremo l’India e distruggeremo anche il resto del mondo”.2 L’India ha una popolazione così

numerosa ed è ancora a un livello di sviluppo complessivo così limitato da renderla inevitabilmente

una potenza destinata a superare la Cina nella classifica delle nazioni più inquinanti del pianeta.

Il governo e la comunità internazionale ne sono perfettamente consapevoli. Tuttavia, nessun piano

strategico per gestire questa transizione in una maniera che possa essere meno dannosa per

l’ambiente (vale a dire promuovendo gli investimenti sul nucleare e sulle energie rinnovabili,

trasferendo in massa capacità tecnologiche utili a velocizzare questo processo, promuovendo

campagne informative per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in questa battaglia) è stato

messo a punto.

Diverso invece il caso della Cina che, essenzialmente per necessità, si è trasformata negli

ultimi anni da paese poco interessato a intervenire per contrastare il cambiamento climatico a

nazione sempre più sensibile a questa problematica. A dimostrare questo cambiamento di

percezione vi è non solo il sostegno dato da Pechino all’Accordo di Parigi sul clima, ma anche una

serie di iniziative “verdi” contenute nell’attuale Piano quinquennale, il 13esimo, che copre il periodo

2016-2020 e che prevede, tra le altre cose, che entro il 2030 la Cina riesca a produrre almeno un

terzo dell’energia nazionale con fonti rinnovabili. Anche in questo caso, dettagli precisi sulle singole

politiche cinesi non sono facilmente accessibili. Quello che sappiamo è che se da un lato il paese

sta potenziando enormemente l’utilizzo delle rinnovabili, è anche vero che il rallentamento

dell’economia ha prodotto una sovra capacità produttiva anche nel settore energetico che ha portato

a sprecare fino al 15 per cento dell’energia rinnovabile generata senza riuscire a tramutare questa

sovra capacità “pulita” in un incentivo per ridurre ulteriormente l’utilizzo di combustibili fossili.3

Una grossa differenza tra Cina, India e Giappone riguarda, infine, il modo in cui la popolazione

si rapporta al cambiamento climatico. A differenza di quello che potremmo aspettarci, sono i cinesi

ad essere oggi i più consapevoli dell’impatto reale del riscaldamento globale e di quanto sia

necessario che anche i singoli contribuiscano con le loro azioni e le loro abitudini ad interrompere

questa evoluzione. Ancora, pare che oltre il 70 per cento della popolazione sia disposto sia a pagare

una tassa in più per sostenere la lotta all’inquinamento sia a voler modificare le proprie abitudini per

salvare il pianeta. Per quanto l’affidabilità delle statistiche e dei sondaggi cinesi resti limitata, l’elevato

tasso di inquinamento e le difficoltà oggettive create dallo stesso stanno cambiando la percezione

della popolazione e la speranza è che questa evoluzione possa rendere la nuova strategia anti-

inquinamento cinese più efficace.4

2 “Two-thirds of India is yet to be built. So please understand, 16% of mankind is going to seek the American dream. If

we can give it to them on a frugal climate budget, we will save the planet. If we don’t, we will either destroy India or destroy the planet”, Damian Carrington and Michael Safi, “How India’s battle with climate change could determine all of our fates”, The Guardian, 6 novembre 2017, https://www.theguardian.com/environment/2017/nov/06/how-indias-battle-with-climate-change-could-determine-all-of-our-fates.

3 Ma Tianjie, “China's Ambitious New Clean Energy Targets”, 14 gennaio 2017, https://thediplomat.com/2017/01/chinas-ambitious-new-clean-energy-targets/.

4 Li Jing, “Does the Chinese public care about climate change?”, ChinaDialogue, 21 settembre 2018, https://www.chinadialogue.net/article/show/single/en/10831-Does-the-Chinese-public-care-about-climate-change-

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Sotto la lente

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Sotto la lente Paolo Quercia

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 79

Movimenti di popolazione e questioni di sicurezza nel contesto

dell’accesso dei Paesi dei Balcani Occidentali all’area Schengen

Cinque Paesi ( Serbia, Macedonia, Montenegro, Albania, Bosnia Erzegovina) su sei dell’area

dei Balcani Occidentali hanno raggiunto un accordo con l’Unione Europea per l’ingresso in Europa

senza il visto. Questo processo è stato avviato alcuni anni fa nella prospettiva di una completa

adesione dei Paesi della Regione all’Unione e della preparazione dei loro sistemi di polizia e

giudiziari a sopportare gli oneri di questo tipo di liberalizzazione. Per il momento sono circa 50.000

all’anno i cittadini dei Paesi della regione balcanica che tentano di accedere irregolarmente allo

spazio Schengen, mentre sono oltre 60.000 quelli che vi risiedono senza un valido titolo giuridico.

Molto elevate, ancorché in flessione rispetto a qualche anno fa, sono invece le domande di asilo

politico depositate dai cittadini dei Paesi dei Balcani Occidentali nel solo primo semestre 2018, oltre

20.000.

La maggior parte di questi dati sono deducibili dalle statistiche di Eurostat e sono contenute

nel report della Commissione Europa, pubblicato a fine 2018, sullo stato dell’attuale sospensione

della richiesta di visto tra i Paesi dei Balcani Occidentali e l’Unione Europea. Il rapporto riassume e

monitora lo status della liberalizzazione della circolazione con l’UE sulla base di 3 parametri: il

numero di persone respinte alle frontiere UE in quanto migranti irregolari; il numero di persone

soggiornanti nella UE irregolarmente; il numero di domande di asilo sottoposte ed accolte.

Per quanto riguarda l’Albania, la pressione migratoria irregolare sulle frontiere Schengen è

stata nel 2017 pari a 34.000 casi (numero di persone a cui è stato rifiutato l’ingresso ai confini, con

un aumento del 13%), mentre il tasso di riconoscimento del diritto di asilo è piuttosto basso, attorno

al 5%. Nel primo semestre del 2018 i dati appaiono essere tuttavia in flessione. Il numero di immigrati

irregolari presenti nell’Unione è invece pari a 37.000 persone, anch’esso in aumento rispetto al 2016.

In riduzione è invece l’allarmante fenomeno delle richieste di asilo politico da parte di cittadini

albanesi nell’Unione Europea, anche grazie alla collaborazione da parte delle autorità di Tirana. Nel

rapporto vengono toccati anche i due temi di sicurezza connessi alla libera circolazione delle

persone dall’Albania come la criminalità organizzata ed il fenomeno della radicalizzazione jihadista.

Quest’ultimo appare essere in flessione, in particolare per quanto riguarda, le partenze per i Paesi

della jihad, mentre la criminalità organizzata – su tutte il contrabbando di eroina lungo la rotta

Turchia/Balcani/Europa – continua a rappresentare un fenomeno costante.

Molto più bassi i valori per quanto riguarda la Macedonia, con un numero di tentativi di

ingresso irregolare nella UE di poche migliaia di persone (3.200 nel 2017), un dato che sarebbe in

aumento però nel corso del primo semestre del 2018. Il numero di persone illegalmente presenti in

Europa è comunque più elevato, pari a circa 6.500 persone. Particolarmente basso il numero di

domande di asilo politico con esito favorevole: su 3.800 domande presentate appena l’1,45% sono

state accolte. Criminalità organizzata legata al traffico di droga e di reperti archeologici e traffici di

essere umani lungo la rotta Grecia/Serbia rappresentano le principali preoccupazioni per quanto

concerne le attività criminali connesse ai flussi transfrontalieri.

Continua a mantenere dati piuttosto bassi la Bosnia Erzegovina, che nel 2017 ha visto 5.000

connazionali rispinti ad una frontiera Schengen e circa 4,000 residenti illegali, dati più o meno stabili

rispetto all’anno precedente. Appena il 5% è il tasso di accoglienza delle richieste di asilo politico

depositate da cittadini della Bosnia Erzegovina nella UE. Per quanto riguarda i collegamenti con la

criminalità organizzata, la BiH (Bosna i Hercegovina) è uno dei Paesi maggiormente collegati con i

reati contro il patrimonio connessi in Europa, oltre a rappresentare un hub per il traffico di esseri

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Balcani e Mar Nero

Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 80

umani, armi ed in parte droga. Il ritardo nell’avvio della cooperazione con Europol ha accresciuto,

fino al 2018, i rischi connessi con i movimenti illegali di persone attraverso il Paese.

Il Montenegro è invece uno dei Paesi della regione con una delle più basse pressioni

migratorie verso la UE della regione (545 persone respinte ai confini), appena 810 persone

illegalmente presenti nell’area Schengen e 530 domande di asilo depositate. A fronte a questi bassi

dati – comprensibili anche in virtù del fatto che il Paese è il meno popolato della regione – potrebbe

invece destare qualche preoccupazione la nuova legge approvata dal governo montenegrino che

introduce in maniera sperimentale per un triennio un cosiddetto investor citizenship scheme. Questi

progetti, diffusi in alcuni Paesi del mondo, prevedono la concessione della cittadinanza a cittadini

stranieri che fanno particolari investimenti economici approvati dal governo. L’aspetto di criticità di

questo schema è legato al valore particolarmente basso degli importi da investire, che si aggira su

una media di 350.000 euro, unito all’accordo visa free esistente con l’Unione Europea. Di fatto, con

un investimento di poche centinaia di migliaia di euro chiunque può ottenere accesso all’area

Schengen con un passaporto montenegrino ottenuto sulla base di un fattore economico su cui

l’Unione Europea non può influire. Le forme di criminalità presenti nel Paese e maggiormente

rilevanti per gli scambi di popolazione con l’Unione Europea sono il contrabbando di sigarette, il

traffico di droga e di esseri umani ed il riciclaggio di denaro.

La Serbia ha visto invece circa 8.000 cittadini respinti alle frontiere UE, 14.500 residenti

irregolari e 35.000 richieste di asilo politico registrate presso le autorità dei Paesi europei. Le

connessioni con la sicurezza sono legate, tra l’altro, all’alto numero dei crimini contro la proprietà

commessi in Europa da cittadini serbi, al fatto che cittadini serbi sono molto presenti tra le vittime

dello human trafficking verso l’Europa e alle attività di organizzazioni criminali che guidano il traffico

di eroina dall’Asia centrale verso l’Europa. Anche gli accordi Visa free sottoscritti da Belgrado con

Paesi extra europei per i quali non vigono regimi di Visa free con l’area Schengen sono, pur legittimi,

spesso fonte di un aumento dell’incertezza e dei rischi di sicurezza. A questo proposito il rapporto

della Commissione indica alcuni abusi da parte di cittadini indiani del regime di liberalizzazione dei

visti con la Serbia, in maniera simile a quanto avvenuto con cittadini iraniani. Questo accordo, firmato

nel agosto del 2017 è stato sospeso il 17 ottobre 2018 a causa degli “abusi” o effetti indesiderati. In

particolare l’alto numero di richieste di asilo politico in Serbia, ma soprattutto il fatto che molti dei

15.000 visitatori iraniani si siano poi inseriti nei flussi di immigrazione clandestina verso l’Europa.

Ciò ha portato a pressioni da parte dell’Unione per la chiusura dell’accordo, pena la cancellazione

del accordo di Visa free con la UE.

Dati sulla pressione migratoria irregolare dai Paesi dei Balcani Occidentali verso la UE

Paese Numero di

persone

respinte alla

frontiera

Schengen

(2017)

Numero di

persone

illegalmente

presenti nel

territorio

Schengen (2017)

Numero

richieste di

asilo politico

(1° semestre

2018)

Percentuale

accoglimento

domande di

asilo (2017)

Albania 34.000 37.000 12.600 5%

Serbia 8.070 14.665 3.460 3,23

Bosnia

Erzegovina

5.145 4.135 1.080 5,66%

Macedonia 3.200 6.500 2.360 1,45%

Montenegro 545 810 330 2,10%

Totali 50.960 63.110 19.830

Fonte: Eurostat

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Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 81

LISTA DEGLI ACRONIMI

Brexit: British Exit from the European Union

EFTA: European Free Trade Association

NATO: Organizzazione del Trattato Nord Atlantico

PESCO: Cooperazione Strutturata Permanente

PSDC: Politica di Sicurezza e Difesa Comune

SCAF: progetto franco-tedesco di Sistema da Combattimento Aeronautico Futuro

SEE: Spazio Economico Europeo

UCAV: Velivolo da combattimento autonomo o a pilotaggio remoto

UE: Unione Europea

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Stampato dalla Tipografia delCentro Alti Studi per la Difesa

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L’Osservatorio Strategico è uno studio che raccoglie analisi e report sviluppati dal Centro Militare

di Studi Strategici (CeMiSS), realizzati da ricercatori specializzati.

Le aree di interesse monitorate nel 2016 sono:

Europa Sud Orientale e Turchia;

Medio Oriente e Nord Africa (MENA);

Sahel e Africa Subsahariana;

Russia, Europa Orientale e Asia Centrale;

Cina;

India ed Oceano Indiano;

Pacifico (Giappone, Corea, Paesi ASEAN ed Australia);

America Latina;

Iniziative Europee di Difesa;

NATO e Rapporti Transatlantici;

Sotto la lente.

Gli elaborati delle singole aree, articolati in analisi critiche e previsioni, costituiscono il cuore

dell’“Osservatorio Strategico”.

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Area Tematica

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