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Ricerca CeMiSS 2008
Criminalità organizzata: costo implicito ed element o di rigidità nello sviluppo dell’economia italiana
Direttore della Ricerca
Dott.ssa Olimpia SCOPELLITI
Tema “libero”, ma non troppo!
Chissà in quanti provano la stessa rabbia e la stessa frustrazione di Italo1! Ma chi è Italo? Un grazioso pupazzetto, un fumetto, un logo? No, Italo è tutti noi, la parte sana dell’Italia che non riesce a decollare e ad uscire da un’impasse che dura da troppo tempo oramai. È l’economia di un Paese che conosce da sempre eccellenza e declino, difficoltà e ricchezza, emergenze croniche, è l’emblema di un Paese che sbaglia pur sapendo di sbagliare. Si dice che la nostra Terra (o l’Italia, qui) non sia un’eredità del passato, ma un prestito dal nostro futuro. Ne consegue che dobbiamo rispettarla e fare del tutto per consegnarla ai posteri nelle condizioni migliori, per non privarli dell’opportunità di fruirne. Al limite, in condizioni non peggiori di come l’abbiamo ricevuta dai nostri padri! La fruibilità di un simbolo come Italo è proprio quella di una comunicazione immediata, priva di orpelli, carica di un messaggio chiaro e semplice da veicolare ad un pubblico quanto più vasto possibile. Italo parla la lingua di tutti: di chi vuole vedere un alto profilo intellettuale condensato in un disegno, ma anche di un bambino che vede un pupazzo e che, ascoltando la sua storia, prova dispiacere perché vorrebbe che saltasse leggero, perché vorrebbe giocare a “caccia al tesoro” per trovare la chiave e liberare il suo amico. Italo è uno strumento educativo: se si limitasse a fotografare la realtà statica, non svolgerebbe alcuna funzione. Italo, al contrario, poiché sa dove trovare la chiave della sua libertà, orienta tutti i suoi sforzi per raggiungere l’obiettivo. In questo senso, ha qualcosa da comunicare a tutti, grandi e piccini, e li invita a non restare spettatori impotenti di fronte all’implosione/ impoverimento/ inaridimento/ involuzione del proprio futuro. Contro tutto questo, Italo ha un’espressione battagliera, se lo si osserva attentamente. Allora, interroghiamo Italo e impariamo ad ascoltare le sue risposte, le sue esigenze, le sue difficoltà. E facciamo altresì autocoscienza per comprendere quanti capitali restano non sfruttati e quante potenzialità sono sottovalutate, non sollecitate, quante idee rimangono senza persone coraggiose che le mettano in pratica.
1 L’ispirazione per l’immagine di Italo nasce da una ClipArt di Microsoft Office, ma la colorazione e il messaggio sono pienamente originali.
”Italo è un simpatico pupazzetto sgangherato. Non è perfetto, non è simmetrico, e a volte ha i contorni un po’ incerti. Veste un delizioso pigiamino a strisce… tricolore! Prova dei sentimenti e delle emozioni: l’espressione del suo volto è un po’ angosciata, confusa, ma anche indispettita. Il problema di Italo è una grossa palla al piede: un peso di piombo nero che gli impedisce di camminare e che lo obbliga a trascinarsi con fatica. Le sue gambe mingherline non riescono a sostenere un tale peso e sono malferme. Italo sa dove si trova la chiave che potrebbe aprire il lucchetto che lo tiene avvinto a quella palla al piede, ma è così appesantito da non riuscire a saltare per afferrarla…”
2
Abstract.
L’economia italiana è da tempo ingessata per una serie di ragioni: elevata pressione
fiscale, spesa pubblica eccessiva, questione salariale, crescita del livello dei prezzi e del
costo della vita, scarsa competitività nel settore hi-tech, declino nel livello culturale della
popolazione, scarsa sicurezza sul lavoro, stagnazione demografica, ripercussioni della
difficile congiuntura economica internazionale.
Ci sono costi sociali ed economici di lungo periodo che vengono incorporati nel sistema e
dei quali risulta sempre più difficile liberarsi: ne ricaviamo subito un’immagine icastica di
Paese “zavorrato ”. Fra i vari sintomi di appesantimento dell’economia, in questa ricerca
consideriamo la presenza della criminalità organizzata.
I costi, in questo modo, divengono insostenibili perché le occasioni mancate di sviluppo
lasciano dietro di loro una scia di “desertificazione”, un inaridimento del dinamismo e della
spinta all’innovazione. Nel lungo periodo, risulta mortificata l’intera funzionalità del sistema
economico.
Bisogna, pertanto, introdurre una buona dose di scientificità nell’analisi dal momento che
vi è urgenza di mettere a punto delle metodologie valutative che forniscano delle
concrete indicazioni di policy.
Il nostro viaggio inizia dai soldi e segue il percorso del denaro: quello sporco per come
viene ripulito ed introdotto nei circuiti finanziari legali; quello pubblico per come viene
distorto dagli obiettivi di crescita e di sviluppo cui è originariamente destinato; quello
estorto e prelevato in via parassitaria rispetto alle attività economiche lecite. L’obiettivo è,
dunque, quello di individuare i meccanismi attraverso i quali la criminalità organizzata
determina un’interferenza rispetto al sano sviluppo economico del Paese. Ci chiediamo,
cioè, se sia un elemento che ormai va purtroppo considerato come qualcosa di
strutturalmente incorporato nel funzionamento economico dell’Italia, alla luce della
tendenza alla “managerializzazione” dell’attività criminale e della sua progressiva mimesi
nella società.
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Executive summary.
Che cosa rende, ancora oggi, di estrema attualità parlare di “mafie” e di criminalità
organizzata? Che cosa fa sì che scrivere di questa piaga sia un’operazione editoriale di
sicuro successo?
Nel mare magnum delle immagini, delle notizie, dei nomi e dei fatti si è creato lo spazio
per un’informazione speculativa e di consumo, a volte distorta, a volte scomoda e
censurata. Strillata ma spesso rimasta inascoltata; allarmata e gonfiata oppure taciuta e
soffocata nel più assordante dei silenzi: un grande pentolone in cui c’è posto per tutto, di
tutti.
Com’è noto, però, il clamore e gli schiamazzi non aiutano a portare chiarezza né rigore
scientifico per comprendere in profondità i meccanismi di funzionamento ed evoluzione del
modus agendi di un universo sì parallelo ma non lontano dal mondo reale, dove anzi ha
messo radici sottili e ben ramificate ovunque.
Quanto oggi sia difficile discernere tra criminale e non è diretta conseguenza della
“promiscuità globale” in cui siamo immersi: aprire rotte e frontiere, collegare gli estremi
della Terra in tempo reale, facilitare la mobilità di “cose, capitali e persone”, ha
rappresentato una ghiotta opportunità anche per le organizzazioni criminali, ne ha
stimolato il parassitismo e la predatorietà, ha consentito loro di inserirsi progressivamente
nell’intero sistema.
La “liquidità ” di cui parla Z. Baumann è la metafora di una società divenuta permeabile,
fluida, destrutturata nei sentimenti, nelle azioni, nelle capacità e che, in questo senso,
perde anche nell’incisività delle proprie decisioni.
Più di altri, questo è il tempo delle risorse materiali limitate ma delle opportunità illimitate:
le organizzazioni criminali, in quanto fuori legge, possono approfittare senza scrupolo di
ogni chance – da qualunque parte provenga – e si fanno beffe delle risorse molto limitate
e vincolate di cui dispongono le forze deputate alla prevenzione/ repressione dei reati.
Non c’è rassegnazione nel constatare che la soluzione è ben lungi dal concretizzarsi,
bensì emerge la richiesta di un supplemento d’analisi, di uno sforzo di comprensione che
consenta di progettare alternative praticabili .
È un fatto che la mafia abbia una sua storia, una sua evoluzione costellata di strategie che
le hanno consentito di sopravvivere, di riprodursi, di allargare il ventaglio
dei propri interessi. Ha la forza di una secolare tradizione alle spalle, ha
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le sue leggi, i suoi “valori”, ma il rispetto del passato non si è trasformato in una gabbia,
cioè in un elemento “statico”, bensì in una risorsa che ne mantiene la coesione interna e
l’aderenza ad un patrimonio comune. Ciò nondimeno questo non ha interferito con lo
spirito imprenditoriale e la capacità di re-inventarsi per saper aggredire ogni spazio
d’interesse che la nuova economia ha aperto in così breve tempo a livello globale.
Parte da queste preliminari osservazioni un percorso di ricerca ed analisi decisamente
articolato che si andrà dipanando secondo un approccio economico supportato da
metodologie statistiche, senza perdere quello che può essere il contributo dell’apporto
storico-sociologico.
Questa analisi ha un punto di partenza ben preciso che s’inquadra in un contesto
specifico: l’interrogativo fondamentale, al quale si tenterà di dare una risposta, riguarda le
problematiche di efficienza ed efficacia nel settore della sicurezza, nella prospettiva di una
criminalità organizzata letta con gli occhi di chi la deve combattere, per capire come
affrontarla.
Come si darà conto nel prosieguo, è ormai acclarato che la criminalità organizzata
rappresenta una voce di costo supplementare ed aggiuntiva che è di ostacolo per lo
sviluppo socio-economico del Paese.
Numerosi studi empirici hanno incontestabilmente dimostrato che tale presenza illegale sul
territorio ha dei pesanti effetti distorcenti sulla concorrenza, sull’immagine della nostra
penisola percepita all’estero e, di conseguenza, sulla sua attrattività dal punto di vista della
convenienza degli investimenti.
Ci si potrebbe chiedere se c’è una data di nascita, una nazionalità, un fattore
scatenante per il sorgere della criminalità organizzata. Ma seguirebbe
immediatamente un altro interrogativo: quanto è utile sapere da quando esiste se ormai è
chiaro che c’è e si manifesta? È questione da storiografi, peraltro non ancora pacifica.
Il “quando” è più utile se posto in relazione ad altri elementi: il problema nasce quando si
ammette di averlo, quando si decide di affrontarlo, quando si comincia a modificare un
codice penale per accoglierne la definizione e prevedere delle pene, quando si decide di
elaborare una strategia preventivo-repressiva, quando si studiano gli effetti, le
contaminazioni e i danni prodotti dalla presenza della criminalità organizzata all’interno del
tessuto sociale di un Paese.
Il “che cosa” è anch’esso un problema tutt’altro che prossimo alla soluzione: il fenomeno
criminale ha cambiato faccia più e più volte. In tempi assai vicini a noi si assiste ad una
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fase di transizione che sta quasi “professionalizzando” il crimine, dandogli un volto sempre
più confondibile all’interno della società.
Il “come” si può ricostruire – purtroppo – sempre a posteriori: come si organizza, come
agisce, come si autoalimenta.
Il “perché” ha provato a spiegarcelo quasi 40 anni il prof. Gary Becker e l’ha rintracciato,
ad esempio, nell’equilibrio costi-benefici che un individuo o un gruppo raggiungono
attraverso la differenza tra il profitto ricavato con l’azione criminosa e il rischio di essere
scoperti e puniti.
Economica e razionale è la scelta; economico è lo scopo ultimo dell’azione criminale;
economici sono anche gli effetti di una capillare presenza della criminalità sul territorio.
Di conseguenza, economica sarà anche la prospettiva d’analisi, perché è chiaro che essa
incorpora e non prescinde dai nessi di causalità con gli aspetti socio-criminologici e
persino politici del fenomeno stesso.
Quale che sia l’origine o la caratteristica dell’organizzazione criminale, non si può fare
come se non ci fosse. E quindi bisogna “attrezzarsi”, nel senso che, una volta ammessa la
sua presenza, la si deve qualificare come uno svantaggio competitivo che affligge in varia
misura l’intera Italia, con catastrofiche proporzioni per il suo Mezzogiorno.
Per quanto ci è dato di conoscere, gli approcci alla criminalità organizzata di stampo
mafioso che si sono succeduti fino ad oggi hanno inquadrato la questione da un solo
punto di vista: la storia o la cronaca, la criminologia, gli affari. Sul business, poi, ci si è
frammentati tra usura, racket delle estorsioni, crimini finanziari, partecipazioni mafiose ad
imprese più o meno legali, traffico di droga, armi ed esseri umani.
Ci si è spinti sino a “stimare” il PIL mafioso, il giro d’affari annualmente realizzato, con
l’avvertenza che si tratta pur sempre di un fenomeno parzialmente sommerso, quindi
inconoscibile e pertanto congetturale.
In questo caso, invece, si tenterà un approccio “collect”, più ampio e stratificato, per
giungere ad una matrice di sintesi che consenta di apprezzare fino in fondo qual è
l’effettivo “peso-zavorra” con cui la criminalità organizzata ostacola il decollo economico
italiano.
È tutta colpa delle mafie? Ovviamente no. Nel senso che non può tacersi una congiuntura
economica internazionale assai problematica e non possono ignorarsi le altre carenze
strutturali del “sistema-Paese”, ma è altrettanto certo che la presenza pervasiva e diffusa
di un “mafia climate ” costituisce quantomeno un ulteriore svantaggio per l’Italia, essendo
in grado di sottrarre risorse strategiche per lo sviluppo territoriale e riuscendo, così, a
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scoraggiare gli investimenti ed affievolire il consolidarsi di uno spirito di “entrepreneurship”
radicato e condiviso.
Nelle more di queste osservazioni preliminari introduciamo un termine scelto in modo
tutt’altro che casuale: il monopolio . Questo è un elemento al quale sarebbe opportuno
dedicare una certa attenzione, perché consente di introdurre un’interpretazione molto
“manageriale” dell’affare mafioso, che ormai ha perso gran parte della sua connotazione
sacrale per sfociare in una questione di business, capace di sganciarsi persino dal
territorio originario.
D’altronde, la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese sono raggruppate sotto la più
ampia dicitura di organizzazione criminale, la quale sta semplicemente ad indicare che
determinati scopi illeciti vengono perseguiti attraverso metodi altrettanto illegali, in modo
sistematico e non occasionale, traendo forza dal fatto di essere strutturata ed
istituzionalizzata al proprio interno, quindi stabile.
Quanto di “tradizionale” sia rimasto nei comportamenti mafiosi è tutto da dimostrare e
valutare.
In Italia, il matrimonio è “a tre piazze ”: lo Stato, il mercato e la criminalità organizzata.
Tutti e tre a caccia di profitti, di rendite, di monopoli, con la non trascurabile differenza che
le varie mafie fanno uso della minaccia violenta, dell’intimidazione, del ricatto,
distinguendosi da un qualunque altro gruppo d’interesse o lobby.
Con l’ulteriore conseguenza che lo Stato non può arretrare dal confronto, non può sottrarsi
al dovere di reprimere il fenomeno e, nella scelta tra “burro” e “cannoni”, deve
obbligatoriamente bruciare delle risorse irrecuperabili.
Come si vede, dunque, sono molteplici i canali attraverso cui le organizzazioni criminali si
trasformano in pesanti zavorre:
� limitazione e distorsione della concorrenza,
� mortificazione dell’immagine del Paese, con conseguente ulteriore perdita di
occasioni d’investimento,
� spreco di risorse per la repressione e la garanzia della sicurezza.
Quella che ne deriva è una “contabilità” incredibilmente ricca e complessa, fatta di costi
diretti ed indiretti, pur sempre riconducibili alla presenza della criminalità.
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Per approfondire queste dinamiche, adotteremo un punto di vista variabile che ci porterà
ad immedesimarci ora nei meccanismi comportamentali ed operativi della criminalità
organizzata, ora nelle forme di interferenza che le attività economiche ed il mercato in
generale subiscono.
Per quanto riguarda, invece, lo Stato esauriremo il discorso in due tranches:
a) in questa parte introduttiva della ricerca tratteremo delle questioni di sicurezza
legate alle modalità repressive e ai costi di un’azione pubblica per la legalità;
b) dal capitolo 4 in poi, invece, ci occuperemo di rilanciare il settore della ricerca nel
campo degli studi sulla criminalità organizzata, elaborando un metodo d’analisi
“preventivo” volto ad individuare i settori economici più vulnerabili ed appetibili per
l’aggressione criminale. Da questo punto di vista, vi è un suggerimento implicito per
modificare e ridisegnare gli orientamenti di policy.
Introdurre subito le questioni legate alla sicurezza contribuisce ad identificare con
maggiore precisione il focus del nostro lavoro: di fronte alla denominazione del PON
“Sicurezza per lo sviluppo”, una ricerca intitolata “Criminalità organizzata: costo implicito
ed elemento di rigidità nello sviluppo economico italiano” potrebbe sembrare una “costola”
del Programma Operativo, quasi che presentasse una contiguità concettuale.
In realtà, la ricerca che presentiamo fornisce un’analisi che sta “a monte” del PON, perché
suggerisce metodi e non progetti da finanziare, studiando meccanismi , punti deboli ed
incongruenze del sistema italiano. La divergenza è piuttosto netta:
il PON ha come obiettivo la “produzione di sicurezza2” per realizzare
le condizioni ritenute catalizzatrici dello sviluppo economico.
In questo senso, la criminalità organizzata non viene analizzata a fondo in quanto se ne
ammette l’esistenza e tanto basta per giustificare l’azione di contrasto. L’attenzione,
quindi, si orienta tutta sul “come” combatterla nel modo più efficace possibile e con il
miglior impatto sociale.
Com’è noto, infatti, il concetto di “sicurezza” assume una connotazione peculiare se riferito
in particolare a determinate aree dell’Italia perché l’associazione mentale tra Sud e
sicurezza rimanda immediatamente – quasi automaticamente – alla presenza della
criminalità organizzata di stampo mafioso.
2 L’Autorità di Gestione del PON “Sicurezza per lo sviluppo – obiettivo Convergenza” 2007-2013 si esprime in questi termini: «Si rivela imprescindibile una globale azione di concertazione con tutti i soggetti – pubblici e privati – che possono fattivamente concorrere a “produrre” il bene sicurezza secondo una logica interdisciplinare, sinergica, tesa al “fare sistema” con tutte le componenti attive, siano esse le amministrazioni centrali o locali, le aziende e le filiere produttive e commerciali, ovvero le formazioni associazionistiche e di categoria».
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La nostra prospettiva è parzialmente diversa da questa impostazione e parte da una
definizione più accurata del termine “sicurezza”. Nel documento approvato dalla riunione
di Presidenza del Forum generale italiano per la sicurezza urbana nel giugno del 2005,
viene offerta una definizione di “politiche di sicurezza” soddisfacente: «Le politiche di
sicurezza riguardano l’intera popolazione, la qualità delle relazioni sociali e interpersonali,
la qualità dell’ambiente urbano, mentre le politiche criminali riguardano solo la prevenzione
e repressione di determinati comportamenti personali qualificati come reati. In sostanza, le
politiche criminali sono solo una parte, più o meno rilevante a seconda dei contesti, delle
politiche di sicurezza. L’equivoco nasce dal fatto che in Italia, anche per mancanza di
esperienze diverse, per politiche di sicurezza si finisce per intendere le sole politiche di
prevenzione e repressione della criminalità, tradotte in “sicurezza pubblica” o “pubblica
sicurezza”. In questo caso la lingua italiana non aiuta; chi parla francese o inglese ha due
diversi termini per indicare, da un lato, la sicurezza urbana in senso ampio, dall’altro quella
specifica che si riferisce all’azione della polizia contro la criminalità: securité e sureté in
francese, safety e security in inglese.»
Ci vuole molta prudenza nel considerare la sicurezza un “bene”, quasi
fosse un prodotto seriale che si compra e si vende.
La sicurezza non è una saponetta! Nel senso che non esiste una
formula chimica che dia le istruzioni per realizzarla. E non esisteranno mai mille sicurezze
della stessa forma, colore, prezzo, come una tavoletta di sapone.
Con questa metafora un po’ grossolana si vuole mettere in evidenza che ci sono equivoci
nei quali non bisogna incorrere: soprattutto negli ultimi anni si è assistito ad una notevole
espansione del mercato della sicurezza privata, fatto di vigilanti, telecamere a circuito
chiuso, allarmi sofisticati. In questo senso, la sicurezza è diventata un “prodotto” al quale
può accedere chi ha un reddito sufficiente, a scapito dei soggetti più deboli che ne
rimangono sprovvisti.
Assumere invece il bene della sicurezza come “bene pubblico” significa operare per la
tutela dei diritti di tutti. La sicurezza non è pertanto un “nuovo” diritto, ma lo stato di
benessere che consegue alla tutela dei diritti di tutti. Una sorta di rivoluzione copernicana:
il tema della sicurezza si converte pertanto dalle politiche volte a soddisfare “il diritto alla
sicurezza” a quelle orientate a garantire “la sicurezza dei diritti”3.
3 Massimo Pavarini, “Il governo del bene pubblico della sicurezza a Bologna”, 2005.
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La nostra ricerca suggerisce appunto come studiare un settore ed
evidenziarne le peculiarità per scegliere in anticipo come impedire
le possibili infiltrazioni criminali. L’impostazione da noi seguita, dunque, rappresenta in
qualche modo l’antecedente logico del PON. Inoltre, il nostro lavoro si concentra
esclusivamente sull’infiltrazione della criminalità organizzata all’interno delle attività
economiche lecite – siano esse private o pubbliche – trascurando tutti gli altri ambiti di
azione illecita da parte delle mafie, i quali giustificano la repressione e le politiche di
prevenzione programmate dal PON.
Sebbene alcuni termini come “analisi di contesto” e “valutazione ex-ante” siano utilizzati in
entrambe i lavori, essi hanno una valenza totalmente diversa: nel PON l’analisi di contesto
si limita a tracciare un quadro delle Regioni obiettivo Convergenza di tipo
macroeconomico e la valutazione ex-ante riguarda i profili di coerenza ed efficacia delle
azioni programmate.
Nel nostro lavoro, invece, l’obiettivo è quello di analizzare ogni singolo settore economico:
il metodo che illustreremo nel capitolo 4 comprende l’esame del contesto regionale come
primo step, ma in seguito giunge ad approfondire il singolo mercato considerato e a
contestualizzare persino i vari casi concreti. Di conseguenza, il livello di disaggregazione
dei dati e dell’ambito territoriale è di gran lunga diverso.
Un’ulteriore particolarità riguarda il fatto che, mentre nell’analisi di contesto del PON le
carenze economiche e le criticità criminali sono descrittivamente giustapposte, nel nostro
lavoro cerchiamo le superfici di contiguità e reciproca contaminazione introducendo il
concetto di “mercato grigio ” come area di mescolanza fra elementi leciti ed illeciti.
Un’ultima osservazione ci porta a suffragare il salto di qualità che questa ricerca tenta di
fare: leggendo le varie formulazioni dell’analisi SWOT riferite alle problematiche delle
Regioni meridionali ad alta presenza criminale, si percepisce una grave forma di miopia .
In altri termini, sembra mancare la giusta proiezione nel futuro di questi strumenti d’analisi:
il limite manifesto è quello di codificare la situazione presente, con un orizzonte temporale
di previsione arroccato nel breve periodo.
Dinamismo , flessibilità ed adattabilità si sono rivelati i connotati principali della
criminalità organizzata al cospetto dell’economia. Come evidenzieremo attraverso alcuni
esempi concreti, il livello di raffinatezza raggiunto nei metodi, la fluidità nel creare contatti
e relazioni in qualunque ambiente del pianeta sono gli elementi meno controllabili e
pertanto costituiscono le minacce più subdole per l’intero sistema.
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La complessità tecnologica e la crescente componente soft4 che caratterizzano già oggi
l’economia – e che in futuro saranno sempre più cospicue – sono ancora troppo poco
prioritizzate .
Una volta introdotto lo specifico contesto in cui si sviluppa questo lavoro di ricerca, ne
riassumiamo brevemente il piano dei contenuti.
Partendo dall’assunto che esiste una fondamentale differenza tra il concetto di “mafia” e
quello di “criminalità organizzata”, nel capitolo 1 si dedica un apposito spazio alla
definizione del fenomeno: attraverso la tassonomia di Dwight Smith e le distinzioni fatte
dal prof. C. Fijnaut, sono chiarite le caratteristiche dell’infiltrazione criminale nelle
attività economiche e si rende conto del fatto che gli elementi etnici di appartenenza
territoriale sono ingredienti fondamentali della mafia ma non si identificano con l’intero
universo della criminalità organizzata.
Nel secondo capitolo, si esamina la realtà albanese dal punto di vista delle interferenze
criminali con la transizione verso lo sviluppo economico dopo il crollo del regime
comunista. Come si vedrà, sembra essere un termine di paragone piuttosto efficace
soprattutto per quanto riguarda la vulnerabilità delle amministrazioni locali che
gestiscono finanziamenti volti al ripristino della legalità.
Il terzo capitolo descrive i meccanismi macroeconomici e microeconomici attraverso i
quali la presenza diffusa della criminalità organizzata sul territorio si trasforma in un costo
aggiuntivo per lo sviluppo economico. Viene analizzata l’evoluzione dei metodi operativi e
dei settori d’interesse per l’infiltrazione mafiosa, con riferimento sia alla singola azienda
che al circuito di reddito prodotto dall’intero sistema considerato. Di particolare pregio è
l’elaborazione del modello con cui spiegare le aree di cointeressenza tra economia e
criminalità: esso si rappresenta attraverso l’intersezione di due insiemi, vale a dire il
mercato nero dell’illecito e quello bianco delle attività pulite e lecite. Nell’area in cui si
sovrappongono i due mercati, nasce quello grigio in cui si combinano elementi leciti ed
illeciti, con una frontiera mobile che può espandersi e diventare sempre più invadente nei
confronti del mercato bianco.
Inoltre, si traccia il profilo della cd “mafia imprenditrice” e delle forme con cui il capitale
illecito penetra nell’economia e si sostituisce a quello lecito degli altri operatori pubblici e
4 Per componente soft intendiamo:
• gli orientamenti finanziari dell’economia globale, • l’interdipendenza dei mercati, • l’effetto domino che ogni fenomeno può innescare, • il progressivo allontanamento dall’economia reale e dalla sua componente hard, • l’allentamento dei legami territoriali di “cose, persone, capitali”.
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privati, attraverso la costruzione di una matrice McKinsey adattata alle caratteristiche della
criminalità: da un lato i legami di sangue e con il territorio, dall’altro lato gli interessi
suscitati dalla nuova economia globalizzata e moderna.
Al capitolo terzo è allegata una breve appendice storico-bibliografica: essa contiene le
recensioni dei testi di recente pubblicazione che affrontano l’universo della criminalità
organizzata dal punto di vista delle origini e della storia.
Il capitolo quarto, invece, inaugura una sorta di seconda parte della ricerca, con un
carattere più spiccatamente empirico. Dopo aver chiarito definizioni e meccanismi nei
primi tre capitoli, si è posta l’esigenza di non restare ancorati ad un profilo esclusivamente
compilativo: è stato perciò elaborato un metodo che consente di analizzare i vari settori
dell’economia secondo una struttura a strati (cipolla). Si parte da un inquadramento del
contesto generale dal punto di vista economico e criminale per poi definire gli aspetti
caratteristici del settore esaminato, comprese le vulnerabilità legislative e tutte le
debolezze che lo rendono aggredibile dalla c.o.
Dopo contesto e mercato, l’interesse va rivolto all’analisi dei singoli case-study, ossia le
esperienze di infiltrazione criminale di cui si abbia già conoscenza, per individuare gli
schemi comportamentali messi in atto dalle mafie.
L’assunto fondamentale di questo metodo consiste nella convinzione che sulla base delle
esperienze passate, sia possibile prevedere le azioni future da parte della criminalità
organizzata. Agendo in maniera tempistica sulle debolezze del sistema, si dovrebbe poter
impedire l’infiltrazione.
Il capitolo quinto presenta un approfondito esempio di applicazione del metodo preventivo
appena descritto: il settore prescelto è l’infiltrazione della criminalità organizzata all’interno
delle attività portuali di Gioia Tauro. Pertanto, il capitolo è strutturato come segue: una
prima parte descrive il contesto economico della regione calabrese in generale; una
seconda parte realizza lo “zoom” sull’area portuale di Gioia Tauro, raccontando le
specificità e le debolezze del mercato della logistica, evidenziando le modalità
d’infiltrazione prescelte dalla ‘ndrangheta di cui è stata chiarita la storica presenza sul
territorio. A coronamento dell’evoluzione nei metodi criminali posti in atto a Gioia Tauro, si
propone la ricostruzione dello script comportamentale rivelato dall’operazione giudiziaria
“Cent’anni di storia”.
Per non appesantire il già ricco apparato concettuale del capitolo, sono state allegate due
appendici: nella prima vi sono alcune tavole statistiche che riportano i dati macroeconomici
fondamentali per la ricostruzione del contesto economico calabrese; la seconda, invece,
12
riporta la cronaca di una visita personalmente condotta dal ricercatore presso il porto di
Gioia Tauro.
Nel capitolo sesto, infine, per trarre le somme di tutto il percorso di studio, si riportano
alcuni ulteriori esempi di case-study e si provvede ad un aggiornamento del modello
beckeriano di convenienza economica a delinquere, sulla base delle consapevolezze
raggiunte attraverso la ricerca, nonché ad un test empirico della bontà del metodo
preventivo sul settore della grande distribuzione commerciale in Calabria (in quanto si
rivela un possibile ambito a forte vulnerabilità per l’infiltrazione criminale).
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CAPITOLO I
Questioni terminologiche di tutta rilevanza.
Premessa
Come anticipato, le coordinate principali di questa ricerca riguardano:
a) un focus non generalizzato su tutto l’universo della criminalità organizzata, bensì
sull’infiltrazione criminale all’interno delle attività economiche lecite come ostacolo ai
regolari meccanismi di concorrenza e sviluppo economico;
b) l’individuazione di alcune variabili-sentinella per evidenziare punti deboli e vulnerabilità
dei settori economici ed impedire così interferenze criminali.
In questo capitolo iniziamo ad affrontare gli obiettivi del punto a) sotto il profilo definitorio,
per inquadrare l’ambito di lavoro all’interno del quale muoverà i passi la nostra ricerca.
1.1 La tassonomia delle attività economiche.
R. T. Naylor (1997) osservava che se la battaglia al crimine organizzato, nonostante
l’ingente profusione di risorse, non dava i frutti sperati, ciò poteva dipendere da un’erronea
interpretazione della natura e del funzionamento del mercato criminale.
Il che può avvenire sia all’interno dei confini nazionali che nei confronti di organizzazioni
criminali cross-border.
Inoltre, non si tratta di comprendere solo il funzionamento della criminalità, bensì la sua
fonte generatrice e l’impatto che produce sulla società.
Si può annotare, ad esempio, che c’è una tendenza piuttosto forte ad enfatizzare l’etnicità
(mafia russa, siciliana, cartelli colombiani…) anziché includere più utilmente nella
distinzione i problemi di marginalizzazione socio-economica che possono condurre ad
attività illecite.
Se si accetta la nozione che il crimine organizzato è innanzitutto un fenomeno economico,
l’identità etnica diventa poco più che un dettaglio irrilevante.
14
In effetti, Dwight Smith (1991) ha spiegato che la modalità di approccio alla criminalità
organizzata ne determina poi l’interpretazione e le possibili soluzioni. Già decenni prima,
inserendosi a pieno titolo nel filone beckeriano dell’approccio economico al crimine, Smith
aveva elaborato una sorta di tassonomia delle attività economiche per evidenziare come
l’elemento criminale e quello etnico fossero due categorie piuttosto distinte, il secondo
incluso nel primo ma non sufficiente a definirlo interamente.
1.2 I problemi internazionali di definizione della criminalità organizzata.
Infatti, sempre in tema di problematiche definitorie, una “vexata quaestio” riguarda proprio
l’ampiezza e la qualità di una probabile e soddisfacente definizione di criminalità
organizzata.
Si rileva che c’è stata una grande influenza statunitense sui concetti adottati in sede
europea, con la conseguenza che l’approccio americano tende ad enfatizzare il “chi” più
del “cosa” del crimine organizzato. Inoltre, e su questo punto è utile attirare l’attenzione, le
questioni definitorie non sono astratte tavole rotonde accademiche, in quanto hanno effetti
diretti sulla percezione politica del fenomeno e sul modo in cui si risponde al crimine.
ATTIVITA’ ECONOMICA
LEGALE ILLEGALE
NON ORGANIZZATA ORGANIZZATA
NON ETNICA* ETNICA
NON ITALIANA * * ITALIANA
* Di recente e’ questa la forma che prevale, perche’ ha maggior peso la questione organizzativa e non l’ identità geografica o culturale del gruppo criminale. * * All’epoca di questa tassonomia (intorno agli anni ’70) non era ancora collassato l’ impero sovietico, la Cina era incredibilmente lontana e non era ancora iniziata l’era della globalizzazione contemporanea: le categorie criminologiche erano dicotomizzate in mafia italiana e un generico “altro” per indicare differenti nazionalita’ .
Dwight Smith_ Tassonomia delle attività economiche
15
Un ulteriore elemento di complessità che si aggiunge riguarda l’inquadramento della
criminalità organizzata in una prospettiva transnazionale o all’interno di un contesto
multigiurisdizionale.
Come organismi sopranazionali, USA e UE tendono ad utilizzare definizioni “pigliatutto”,
ossia generiche e onnicomprensive. In buona sostanza, la maggior parte dei trattati
internazionali o delle dichiarazioni congiunte riproducono l’idea che la criminalità
organizzata sia un’associazione strutturata, che coinvolge due o più persone, la cui azione
illecita abbia il carattere della stabilità nel tempo e alla cui gravità siano connesse pene
detentive di una certa durata minima.
Come si può intuire, dunque, questa definizione lascia inevasa una serie di domande
relative, ad esempio, al numero di soggetti coinvolti cui non corrisponde il grado di
pericolosità né di penetrazione all’interno della società.
A ciò consegue, evidentemente, che risulta più complesso anche stabilire quali reati si
debbano considerare tali: in un contesto globalizzato, con una pluralità di codici penali e
giurisdizioni, non è irrilevante poter distinguere tra azioni illecite e comportamenti che,
invece, risultano illegali per alcuni Paesi, mentre sono tollerati o incoraggiati in altri.
Si tratta di un ovvio riflesso della pluralità culturale, sebbene in questo settore la
mancanza di omogeneità definitoria e standardizzazione penale rappresentino dei grossi
ostacoli per una lotta più efficace al crimine organizzato transnazionale.
In questo senso, risulta interessante riflettere sulla novità introdotta dalla commissione
parlamentare olandese Fijnaut (v. oltre) che, nel fornire le linee-guida alla polizia, ha inteso
che si è in presenza di crimine organizzato
se i gruppi che conseguono guadagni illeciti commettono crimini
con gravi conseguenze per la società, e sono in grado di occultare
questi reati in maniera relativamente efficace, soprattutto dimostrando
che possono usare violenza fisica oppure ricorrere alla corruzione.
Come si può notare, l’introduzione dell’espressione “gravi conseguenze per la società”
apre un fronte interpretativo molto ampio perché consente di focalizzare l’attenzione
sull’impatto sociale delle attività illecite. Da questo consegue un’interessante apertura agli
elementi qualitativi e di contesto che caratterizzano il benessere sociale sacrificato
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dall’azione criminale: si introduce una “flessibilità” che contribuisce a calibrare meglio le
risposte istituzionali tese al contrasto degli illeciti.
In ambito definitorio, alcune fondamentali chiarificazioni in termini di portata e sostanza del
fenomeno criminale ci vengono dal Prof. Cyrille Fijnaut , uno dei massimi esperti mondiali
sull’argomento.
Egli ribadisce, ad esempio, che negli anni ’80 e ’90 era ancora opinione diffusa che la
criminalità organizzata fosse un problema in Cina, Sicilia, Giappone, grandi città del Nord
America, mentre non esisteva altrove.
Da qui nasce l’interrogativo su che cosa sia la criminalità organizzata, aprendo gli spazi
per la sua definizione.
Fijnaut5 si spiega in questi termini: «Generalmente distinguo due forme principali di
criminalità organizzata: la prima consiste nel commercio di beni e servizi sul mercato nero,
siano essi droga, armi, diamanti o esseri umani. Se questo avviene in maniera piuttosto
organizzata, come attività principale, siamo in prossimità delle “mafie”.
La seconda grande categoria della criminalità organizzata consiste nel controllo illegale di
affari economici leciti. Se sono controllati cantieri edili e trasporti, se è possibile costruire
un monopolio in alcune industrie attraverso l’intimidazione e la corruzione delle autorità,
con atti tesi a scoraggiare la concorrenza, fino al ricorso in estrema ratio all’omicidio, si
crea un controllo illecito dell’economia.
Questa è la prospettiva in cui inquadro personalmente la criminalità organizzata, senza
bisogno di specificare che le due forme possono essere interconnesse: i proventi del
mercato nero ben possono essere investiti nel controllo illecito del mercato legale».
Se la connessione è di questo tipo, l’approccio al crimine organizzato richiede
necessariamente di disporre di una “intelligence ” che sappia individuare “chi ” si inserisce
illecitamente nel normale funzionamento dei mercati. Dunque, diventa un problema di
adeguata formazione delle forze di intelligence, di rendere noti agli investigatori i mercati,
i loro meccanismi di funzionamento, le loro vulnerabilità, cosicché l’azione si possa
concentrare sui gruppi criminali, sulle loro reti e famiglie.
Il punto è cruciale, visto e considerato che non è un problema esclusivamente numerico: di
fronte al fatto che si costituiscono gruppi e reti di relazioni fra un potenziale numero di
individui, è necessario saper risalire con precisione alle menti dell’organizzazione, ai loro
contatti, a tutte le ramificazioni dei loro affari. 5 Libera traduzione da un’intervista rilasciata dal Prof. Cyrille Fijnaut nel 2003 sul tema “On organised crime and police cooperation in the European Union- lessons learned”.
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Il Prof. Fijnaut introduce un elemento di grande rilevanza: la questione delle risorse
limitate.
Non sono ovviamente disponibili tanti investigatori di alta specializzazione quanti
servirebbero per perseguire tutta la criminalità organizzata. Di conseguenza, si rende
necessaria un’accurata selezione dei casi da affrontare, sulla base di un’attenta
valutazione dell’impatto sociale negativo causato appunto dalla criminalità. Nella
medesima direzione va dunque il suggerimento per un’armonizzazione di metodi e
standard, nonché una più proficua circolazione informativa.
Ancora sulla comprensione del fenomeno: nel crimine organizzato la corruzione non è
l’elemento distintivo per eccellenza, altrimenti si ricadrebbe nell’ipotesi di criminalità dei
“colletti bianchi”. Viceversa, ciò che caratterizza le varie forme di “mafia” è la volontà e la
capacità di usare la violenza, l’intimidazione, l’omicidio.
Quanto alla questione dell’etnia di appartenenza, bisogna concludere che l’identità
comune non rileva di per sé, non è decisiva in quanto tale, ma solo in relazione ad uno
degli “ingredienti” fondamentali per svolgere un’azione criminale, ossia un’operazione
illecita su larga scala: la fiducia (solo in ultima analisi resta da esperire la violenza).
I contesti operativi sono ad alto rischio e solo un meccanismo come quello fiduciario può
garantire il successo. In questo senso, l’appartenenza territoriale – etnica e/o familiare –
può contribuire a creare e consolidare i networks dell’organizzazione.
Familiarità ed etnia hanno solo questo ruolo, in quanto è possibile osservare che sono
stati instaurati proficui rapporti di collaborazione tra gruppi organizzati di varia nazionalità,
poiché questo è funzionale alla cura degli affari. Non bisogna dimenticare, infatti, che
l’organizzazione criminale agisce in piena razionalità, secondo un continuo calcolo costi-
benefici teso ad ottimizzare profitti e risultati.
1.3 Gli effetti “economici” dell’infiltrazione crim inale.
Una questione molto delicata riguarda i presunti “effetti positivi” del riciclaggio del denaro
sporco: la prudenza è d’obbligo in questo caso.
Dunque: vi è unanimità d’opinioni e una grande produzione scientifica riguardo agli effetti
negativi, socialmente e legalmente, della criminalità organizzata, ma vi è molto meno
spazio per affrontare l’altra faccia della medaglia. Nel senso che, dal punto di vista
puramente economico, il reinvestimento può essere positivo.
È opinione di chi scrive che la questione vada approfondita come segue (e certamente
non sarà sfuggito al Prof. Fijnaut): il denaro sporco, procurato in qualunque modo illecito si
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voglia considerare, è e resta comunque sporco. Non c’è “lavaggio” che lo possa purificare
geneticamente.
Ciò premesso, se viene investito, può trasformarsi in opere funzionali allo sviluppo. Quindi,
in teoria e solo da un punto di vista squisitamente economico, si può intravedere un
elemento di positività.
Tuttavia, bisogna anche considerare che si attiva un circuito di sviluppo non perfettamente
virtuoso:
1. in primo luogo, lo sviluppo che può derivare è pur sempre inficiato dalla tara
genetica di nascere da denaro sporco. Eticamente è uno sviluppo insostenibile:
per i criminali, di certo, “pecunia non olet”, ma si può dire altrettanto per la gente
che dovesse percepire degli stipendi “insanguinati”? Inoltre, risulta abbastanza
grottesco immaginare che delle imprese “non pulite” possano esibire un loro
bilancio di responsabilità sociale e rispettoso dell’ambiente!
2. in secondo luogo, se si ha ben chiara l’importanza del fatto che lo sviluppo di un
territorio debba fondarsi sulla partecipazione bottom-up delle comunità locali, si
comprende che l’investimento verrà invece pur sempre fatto nell’interesse del
criminale e non della popolazione. Vi è, dunque, il fondato rischio che questo
presunto sviluppo sia fortemente opportunistico e predatorio nei confronti del
territorio.
Solo laddove si tengano in conto questi “difetti” che affliggono uno sviluppo attivato sulla
base di investimenti fatti con l’obiettivo di riciclare denaro sporco, si può affermare che la
criminalità organizzata ha un qualche effetto “positivo” per l’economia.
Il Prof. Cyrille Fijnaut conlude con queste parole la sua intervista: «Organized crime is not
a separate wing in the social fabric of our societies. You should not isolate your organized
crime problems. And particularly you shouldn’t say, it is a criminal law problem because
then you are lost in the long run, then you are isolating the problem and you reduce your
organized crime problem to a procedural problem. But that is an absolutely unwise and
unacceptable approach. The containment of organized crime amounts to close
cooperation between administrative and judicial authorities. They all should be involved.
Otherwise you can’t control the problem6».
6 «La criminalità organizzata non è un’ala separata del nostro edificio sociale. Non bisogna isolare i propri problemi di criminalità organizzata. Ma soprattutto non bisogna ritenerlo un problema di legge penale, perché si cadrebbe nella trappola di isolare la criminalità organizzata e ridurla ad una mera questione procedurale. Questo risulterebbe un
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Sembra la migliore indicazione di policy che si possa ricavare come lezione da
un’esperienza ventennale di studio e contrasto della criminalità organizzata,
un’acquisizione che incontra molta condivisione in tutti gli ambienti di governo ma che al
contempo stenta a tradursi in un’azione sistematica ed efficace.
approccio sconsiderato ed inaccettabile. Il contenimento del crimine organizzato corrisponde ad una stretta cooperazione tra autorità giudiziarie ed amministrative. Tutte devono essere coinvolte. Altrimenti il problema sfugge al controllo».
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CAPITOLO II
Uno sguardo appena oltre l’Adriatico: l’utilità del la comparazione.
Premessa.
In questo capitolo anticiperemo sinteticamente le problematiche affrontate in seguito,
usufruendo ora di una prospettiva di tipo comparatistico.
Per rintracciare le modalità con cui una criminalità organizzata compatta ed aggressiva
s’infiltra all’interno delle attività economiche lecite in un Paese in fase di transizione verso
un asset di mercato e un miglioramento del benessere sociale, passeremo qui in rassegna
l’emblematica esperienza dell’Albania, dove le pratiche corruttive ed estorsive sono ben
“visibili” nel loro sviluppo.
Riteniamo, infatti, che lo strumento del raffronto con altre realtà per evidenziare similitudini
e discrepanze, sia di una certa utilità per una più rapida circolazione delle informazioni, per
la configurabilità di scenari futuribili, per l’elaborazione di soluzioni sempre più adeguate e
pertinenti ai problemi di cui siano state individuate con chiarezza le peculiarità ed i punti
deboli.
2.1 La situazione di criminalità in Albania.
Il problema della lotta contro la criminalità organizzata non ha ancora oggi una definizione
chiara nella legislazione albanese. Le due istituzioni che si occupano della lotta contro la
criminalità organizzata sono la Polizia dello Stato per la criminalità organizzata e il
Ministero Pubblico, ma tra questi due organi manca in gran parte il coordinamento
dell’azione. Numerosi e famosi sono i casi in cui i criminali vengono arrestati dalla polizia e
subito dopo vengono rilasciati dalla corte o vengono condannati a scontare una pena che
non è proporzionale al loro reato.
Le altre carenze che si notano hanno che fare con il sistema dell’ indagine. Si ritiene,
infatti, che essa possa facilmente essere compromessa a causa della corruzione: in molti
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casi gli investigatori vengono minacciati dai criminali. In tali circostanze, è abbastanza
ovvia la percezione che la gente ha al riguardo, secondo cui i criminali e i politici sono
privilegiati rispetto alla legge.
Sino alle più recenti rilevazioni, è stato possibile individuare il fatto che l’Albania si trovi al
centro di un circolo vizioso: ogni istituzione soffre dell’infiltrazione della criminalità
organizzata, il che ostacola lo sviluppo democratico ed economico del Paese. Qualunque
tentativo di cambiare la situazione si dimostra inefficace, come è stato il Patto di Stabilità
per il Sud Est Europa: la corruzione e le connivenze a qualunque livello politico-
istituzionale sono talmente capillari da vanificare ogni programma teso a smantellarle.
Il background di questo Paese balcanico, come gli altri stati limitrofi del resto, riguarda
processi di transizione che seguono la caduta del comunismo e che lo stanno
traghettando verso un’economia di mercato, sistemi elettorali trasparenti e democratici,
comportando numerosi cambiamenti strutturali.
Tutte le problematiche che sono esplose dopo il collasso comunista hanno creato a
maggior ragione un clima favorevole per l’instaurarsi di una contiguità e cointeressenza
tra la criminalità organizzata e le istituzioni, indebolendo il ruolo della legge stessa.
Questo sistema di relazioni reciproche ha prodotto un elevato tasso di corruttela, tanto da
generare la denominazione di un paradigma noto come “balcanizzazione della politica”.
Come è noto, nel corso degli anni i singoli Paesi balcanici si sono largamente differenziati
in base alle performances democratiche ed economiche, tanto che alcune di queste
nazioni hanno già fatto il loro ingresso a pieno titolo nell’Unione Europea.
Altri Paesi, invece, stentano ancora ad accedere ai negoziati per l’ingresso in Europa in
quanto i loro risultati non sono del tutto soddisfacenti in termini di lotta alla corruzione,
diffusione della cultura della legalità, trasparenza amministrativa e così via.
In anni recenti, le guerre civili scatenatesi per problemi etnici (e non solo) di convivenza
hanno di molto “affossato” la transizione, creando ulteriori canali per la diffusione della
criminalità.
Dunque, le necessità di stabilizzazione risultano complementari a qualunque altro sforzo di
liberalizzazione e democratizzazione dell’Albania.
Per quanto riguarda le caratteristiche della criminalità organizzata albanese, secondo la
tassonomia di Smith essa è ancorata su forti basi etniche. I clan sembrano essere più forti
che mai: sono organizzati in piccoli gruppi, secondo un “assetto variabile” che risponde
alle esigenze specifiche di ogni attività illecita praticata.
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L’aspetto più rilevante è l’appartenenza alla medesima “tribù”: il senso dell’identità è molto
forte, tanto da non consentire l’ingresso di membri estranei.
Da questa descrizione si potrebbe ricavare l’erronea impressione che manchi del
dinamismo, mentre bisogna rilevare la grande abilità di questi clan nell’instaurare solide
alleanze internazionali con altri gruppi. In questo caso, ad esempio, la vicinanza
geografica all’Italia è fatale.
Le attività criminali svolte sul territorio, a livello capillare, ricordano molto certi metodi
“nostrani”: in Albania la corruzione è molto simile all’estorsione del pizzo in Italia, anzi è
ancora più diffusa.
Corrompere un qualunque funzionario pubblico, un medico, un poliziotto, un doganiere, è
pratica diffusa e tollerata, in una sorta di giustificazionismo rassegnato all’ineluttabilità del
fenomeno: l’integrità morale, in caso di necessità, di urgenza e di bisogno, diventa un
bene facilmente sacrificabile che deve sopportare il compromesso.
Chiamiamola una sorta di sovrattassa inclusa negli ordinari costi del servizio. Mutatis
mutandis, sembra la descrizione del costo implicito che le imprese sottoposte al giogo del
racket devono considerare nelle loro voci dei costi fissi di produzione.
Quindi, in Albania le relazioni sembrano fondarsi principalmente sulla fedeltà e sulla
dipendenza piuttosto che sulla professionalità e la trasparenza.
Le ragioni della tolleranza nei confronti della dilagante corruzione risiedono in larga parte
nel fatto che i salari corrisposti nell’impiego pubblico sono irrisori: questa è una forte spinta
ad incappare nella tentazione della tangente.
Tuttavia, se il movente economico regge nel caso di impieghi di basso profilo, non vale
altrettanto per la Presidenza del Paese, il suo Governo, il Parlamento, gli Ufficiali di Polizia
e di dogana. Questi sono i massimi livelli istituzionali, le leading authorities in tema di
democrazia e trasparenza, eppure sono i centri principali della corruzione, costituiscono
relazioni di forte complicità con i clan criminali che ne sfruttano il potere e la protezione
(una schermatura piuttosto potente viene dai massimi ranghi della politica).
Si è, dunque, realizzata una combinazione negativa di elementi vecchi e nuovi nella
gestione di cambiamenti impetuosi: per queste ragioni, l’assistenza europea si è rivelata
indispensabile nel programmare un’azione di potenziamento della governance e delle
istituzioni locali.
Un esempio illuminante può venire dallo scarso successo conseguito dal Programma di
Monitoraggio Anti-Corruzione elaborato per i Paesi Sud-Est balcanici.
23
Ebbene, nel tentativo di responsabilizzare le autorità locali a gestire i fondi di tale
programma, si deve calcolare il forte rischio che la corruzione divori quel denaro.
Infatti, il successo potrà variare da un Paese all’altro proprio in ragione del tasso di
corruzione presente.
Quindi, se la gestione dei progetti ricade nelle mani di autorità corrotte, vi è il rischio che il
programma attivi involontariamente un’allocazione di risorse e denaro pubblico a favore di
attività della criminalità organizzata.
Le maggiori difficoltà sorgono nel caso in cui debbano essere gli enti locali a gestire la
realizzazione di progetti importanti, e magari anche validi, senza però possedere
l’indispensabile bagaglio di competenze adeguate a condurre fino in fondo l’azione:
sebbene, in ossequio anche alla sussidiarietà, siano le autorità locali quelle più adatte e
consapevoli delle problematiche territoriali, ciò non esclude che la loro debolezza
istituzionale possa produrre effetti indesiderati. Tutto questo rende cruciale la decisione di
come e quanto assistere dall’alto (top-down) tali enti.
Un’applicazione del genere richiede, innanzitutto, delle condizioni di base quali, ad
esempio, quella di dotarsi di un quadro legislativo, di migliorare l’amministrazione pubblica,
di semplificare le procedure amministrative e, infine, quella di perfezionare la
professionalità degli impiegati che hanno a che fare con i settori pubblici.
Si può, in conclusione, rappresentare il cd “circolo vizioso albanese ” e, nel prossimo
capitolo, vedremo quante somiglianze lo accomunano al “modello italiano del mercato
bianco, grigio e nero”.
In Albania, le istituzioni e i pubblici ufficiali hanno dei legami con la criminalità
organizzata e sono corrotti
Le pratiche corrotte vengono combattute attraverso i
finanziamenti europei di sostegno ai programmi per la legalità e la
trasparenza
I progetti finanziati dall’Europa vengono gestiti
dalle autorità e dalle istituzioni locali. Esse ricevono anche fondi
pubblici
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CAPITOLO III
La c.o. come costo implicito nello sviluppo economi co.
Premessa.
Per poter concretamente documentare in che termini la presenza di una criminalità
organizzata sul territorio costituisce un costo sociale, ossia un elemento che sottrae ed
inquina le risorse economiche, ostacolando lo sviluppo economico sano e duraturo, sono
state elaborate una serie di tecniche per la stima dei costi, di cui forniremo una breve
rassegna a supporto della ricostruzione che stiamo conducendo.
3.1 Classificazione dei costi del crimine.
In via preliminare, bisogna distinguere tra costi privati (diretti) – quando il danno è
arrecato agli individui, alle famiglie, alle imprese e alle istituzioni – e costi esterni , ossia
legati ai danni che la società intera subisce in termini di aumento del rischio (percepito e
reale).
Per far fronte alle dinamiche criminali, in presenza di stringenti vincoli di bilancio che
impongono una forte ottimizzazione della spesa, si va incontro ad un inevitabile trade-off,
o cd. costo-opportunità: si tratta dell’ammontare di risorse riallocate che avrebbero avuto
una destinazione diversa in mancanza di rischio-criminalità o di eventi delittuosi.
I costi, poi, hanno un “peso” diverso da parametrare rispetto a due coordinate
fondamentali, vale a dire la numerosità/ frequenza dei delitti (per tipologia di reato) e la
gravità del singolo fatto criminale.
Al di là delle differenze di metodo nel condurre le stime, la considerazione dei costi riferiti
alla criminalità assolve ad una pluralità di funzioni ad alto impatto positivo. Gli indicatori di
costo, infatti, poiché rispondono a quesiti del tipo:
come usare le risorse in maniera efficace, ripartendole nel modo migliore tra
prevenzione, repressione e cura delle conseguenze del crimine,
25
possono contribuire ad aumentare la consapevolezza sociale e dei policy-makers,
possono suggerire allocazioni efficienti e valutare ex-post i benefici prodotti dalle
specifiche misure adottate, rilevandone l’efficacia.
Se dal piano generale degli obiettivi e delle funzioni, ci spostiamo ai metodi di stima dei
costi, dobbiamo innanzi tutto distinguere tra:
• stima aggregata , ossia un approccio che contabilizza le informazioni provenienti
dalla spesa pubblica per la sicurezza, dal circuito giudiziario e così via, per
rapportarle a grandezze “macro” come il Pil;
• stima puntuale , ossia riferita alla singola fattispecie criminale, in modo da tenere in
considerazione tutte le diversità che ruotano attorno agli eventi delittuosi. La stima,
infatti, terrà conto – come abbiamo anticipato – della gravità, frequenza e
complessità del reato per valutarne correttamente il negativo impatto sociale, ma
soprattutto per fornire indicazioni di policy più mirate e concrete, nonché politiche
monitorabili in fase di implementazione.
La difficoltà di eseguire la stima dei costi riflette anche il grado di complessità dei reati
considerati: infatti, risulta più ostico stimare l’associazione mafiosa, il racket dell’usura e
delle estorsioni, soprattutto in considerazione del tasso di sommerso e di non-denuncia ( =
parte occulta del fenomeno) che distorce la stima effettiva del reato.
Inoltre, non dobbiamo dimenticarlo, il crimine di stampo mafioso è spesso coperto da
un’intera mentalità, da un insieme di valori e comportamenti omertosi allargati all’intero
contesto ambientale. Il timore di ripercussioni e rappresaglie contribuisce in larga misura
ad abbassare il numero delle denunce, ma ottiene contemporaneamente l’effetto di
incrementare i costi esterni del fenomeno criminale.
Per queste ragioni, in effetti, solo negli ultimi anni gli studi commissionati in Italia stanno
utilizzando la metodologia alternativa delle Indagini di Vittimizzazione (IDV) per stimare il
sommerso non “catturato” dalle statistiche ufficiali (si cerca di scoprire così il numero
oscuro dei reati).
Una volta stimata la numerosità dei reati, il loro costo viene classificato secondo dei
“capitoli di spesa” come nei procedimenti contabili:
• costi di anticipazione comprendono tutta la spesa per prevenzione, monitoraggio,
controllo, costo sociale della paura e del rischio percepito;
• costi di conseguenza sono connessi al danno prodotto dal reato in termini di
tangibilità monetaria (danno ai beni, lesioni, mancato guadagno, ecc);
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• costi di risposta , in quanto non c’è inerzia ma vengono attivate misure di contrasto
e repressione del crimine.
3.2 Gli svantaggi della presenza criminale.
In base a queste premesse di ordine generale, e ricordando che il focus principale del
nostro lavoro è quello di ricostruire i meccanismi attraverso i quali la criminalità
organizzata ostacola lo sviluppo economico italiano infiltrandosi nelle attività lecite, il costo
delle “mafie” sul quale appunteremo la nostra attenzione è quello sociale subìto in maniera
più o meno diretta dall’economia nel suo insieme, perché “accettare le regole mafiose del
mercato non è soltanto affare del singolo operatore commerciale ma ha conseguenze
negative per tutti”.
Iniziamo questo percorso partendo dalla constatazione che “l’impresa gestita dalla
criminalità beneficia di una posizione di vantaggio sulle altre imprese, che vanifica di fatto
il normale gioco della concorrenza e che si traduce in un danno per l’intero sistema
economico” (Salvatore Caradonna, 2008).
Per approfondire questi concetti, dobbiamo ora concentrarci sull’esame di alcuni momenti
fondamentali della dinamica che si sviluppa nelle relazioni tra criminalità organizzata ed
attività economiche. In particolare, vedremo:
1. come la mafia si sostituisce alle regole del mercato e costruisce artificialmente un
proprio monopolio sul territorio;
2. quali attività economiche legali siano per loro natura maggiormente “aggredibili ” da
parte della criminalità;
3. come venga alterata la struttura dei costi aziendali , al momento in cui si deve
incorporare e contabilizzare anche l’uscita che va sotto la voce “sicurezza,
protezione, pizzo, richieste mafiose di altro genere…”;
4. quali modalità di infiltrazione e commistione vengono realizzate tra capitale privato
e capitale proveniente da traffici illeciti della c.o.
3.2.1 La teoria del monopolio.
Per raggiungere la stabilità ed infiltrarsi in una consistente fetta delle attività economiche
lecite, la criminalità organizzata deve ottenere un controllo monopolistico del territorio e del
mercato. Cerchiamo di comprendere il perché.
Chi governa e controlla una zona, vi impone le sue regole, disciplina i conflitti: per essere
efficace, questa attività deve essere svolta necessariamente in regime di monopolio, in
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quanto non può aversi nel medesimo territorio una pluralità di poteri coercitivi, sanzionatori
e di regolazione dei mercati.
In questo senso, la criminalità opera una forma di “sostituzione” nei confronti dello Stato e
del libero mercato, intercettando una rendita da posizionamento che riesce a garantirsi
attraverso il ricorso all’intimidazione e alla violenza, se necessario.
Considerevoli sono, infatti, i vantaggi del quasi-monopolio:
• il riparo dalla concorrenza,
• una competitività che la mafia impone sugli altri,
• violazione/ elusione delle leggi di tutela perché alle mafie poco importa la “salute”
del lavoro,
• capitali propri a costo zero,
• creazione artificiale di barriere all’entrata.
La “lotta” per la conquista del premio, ossia l’accaparramento della rendita monopolistica,
ha un peso ancor più rilevante nel caso di economie caratterizzate da una forte incidenza
della spesa pubblica in rapporto al Pil.
In questi contesti, diversi gruppi di interesse competono per l’aggiudicazione di
trasferimenti pubblici o per l’approvazione e l’implementazione di particolari politiche
economiche. Nella sua versione più trasparente, l’azione di rent-seeking si concreta
nell’esistenza di lobbisti che competono nella persuasione di diversi policy-maker al fine di
assicurarsi l’approvazione di politiche economiche in favore dei propri gruppi di riferimento.
Questo approccio teorico è applicabile allo studio del crimine organizzato nel momento in
cui si consideri la competizione violenta per l’appropriazione di rendite tra diversi gruppi
criminali ovvero tra gruppi criminali e Stato.
Nel momento in cui si consideri esclusivamente l’attività dei gruppi criminali in attività
economiche legali, se è vero che il crimine organizzato è tale solo se compete per la
creazione ed il mantenimento di monopoli, esso non è teoricamente distante da gruppi di
imprese che competono per l’assegnazione privilegiata di fondi pubblici che costituiscono
rendite. In questa ottica, il fenomeno del crimine organizzato non sarebbe altro che una
manifestazione violenta delle famose pratiche di rent-seeking. In ultima analisi,
un’organizzazione criminale non sarebbe altro che un “lobbista” che per assicurarsi le
rendite derivanti da una posizione di monopolio faccia ricorso in maniera sistematica e
continuata alla pratica violenta.
Per approfondire questa idea, facciamo riferimento al recente studio pubblicato da
Stergios Skaperdas e Costantinos Syropoulos , intitolato “burro e cannoni”, ossia la
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dinamica conflittuale che si sviluppa tra due sistemi economici in miniatura per
l’accaparramento di risorse produttive.
Il che, mutatis mutandis, ci dice come vengono allocate le risorse nazionali per produrre
beni oppure sicurezza, ossia armarsi per fronteggiare il contendente, con le conseguenti
ricadute sul benessere sociale raggiunto.
Gli agenti dividono una propria dotazione di risorse in “burro” e “cannoni”: maggiore sarà
l’intensità del conflitto, maggiori saranno gli investimenti in cannoni e minori gli investimenti
in burro. Di conseguenza, la torta prodotta sarà minore della torta che sarebbe stata
prodotta se gli agenti avessero investito l’intera dotazione di risorse in burro.
Il costo sociale del conflitto è dato dalla produzione di torte che è andata perduta a causa
degli investimenti in cannoni.
Questo tipo di interpretazione, nella recente letteratura economica, è generalizzabile a tutti
quegli scenari in cui i diritti di proprietà non siano pienamente garantiti da un’autorità
sovrana quale lo Stato. Nel momento in cui i diritti di proprietà e i contratti non sono
pienamente garantiti da un’unica autorità, la distribuzione delle risorse segue la
distribuzione del potere e dei rapporti di forza e delinea un quadro tipico di “fallimento dello
Stato”.
Il crimine organizzato sarebbe una sorta di quasi-Stato che compete con lo Stato stesso
per definire la propria sfera di potere e di controllo sull’allocazione delle risorse.
Analogamente, gli investimenti in cannoni aumentano nel livello di risorse soggette ad
appropriazione. Le organizzazioni criminali sarebbero, dunque, delle organizzazioni in
grado di competere con gli Stati non solo dal punto di vista delle tecnologia “militare” ma
anche al grado di efficacia di enforcement dei contratti e dei diritti di proprietà. La
competizione violenta tra Stato e organizzazione criminale quindi determina l’allocazione
di risorse in seno al sistema considerato.
La distribuzione di cannoni determina il potere di un agente e quindi la ‘fetta di torta’ che
andrà a conquistare. Tale competizione violenta tra Stato e organizzazione criminale,
determina pertanto un risultato sub-ottimale nel senso di Pareto.
Nella realtà, tuttavia, esistono settori più complessi che presentano diversi livelli di
produttività e diversi assetti istituzionali.
Nell’ambito dell’economia legale il crimine organizzato compete in maniera violenta per
l’appropriazione di rendite distorcendo la concorrenza e l’allocazione delle risorse sia
pubbliche sia private. Tale competizione violenta è perpetrata sia nei confronti dello Stato
sia nei confronti di altre organizzazioni criminali, ma anche di imprenditori.
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Naturalmente, maggiore è l’ammontare di risorse appropriabili maggiore sarà il ricorso alla
pratica violenta da parte del crimine organizzato. Pertanto, maggiori saranno le risorse
pubbliche da appropriare più intensa sarà la competizione violenta e il conseguente costo
sociale.
È stato rilevato che il livello di pratica violenta tende ad aumentare in presenza di una
molteplicità di gruppi criminali, in quanto essi competono per assicurarsi l’esclusività di
sfruttamento di un mercato o di un territorio e che l’esistenza di gruppi criminali determina
un costo sociale evidenziato dalla distorsione nell’allocazione delle risorse a favore delle
attività improduttive.
3.2.2 Imprese vulnerabili.
Una volta che la criminalità organizzata si sia appropriata di un monopolio sul territorio,
passa ad infiltrarsi nelle attività economiche lecite, secondo un diverso grado di maggiore
o minore vulnerabilità delle stesse.
A questo proposito, diversi studi hanno dimostrato che la maggiore incidenza
d’infiltrazione criminale si riscontra in attività economiche – ossia imprese – dotate delle
seguenti caratteristiche:
• dimensioni ridotte,
• appartenenza a settori tradizionali e/ o low tech,
• impegno in attività fortemente legate al territorio,
• attività in settori dove è forte l’intervento pubblico.
Intervenendo, dunque, con un’analisi che misuri a) il livello tecnologico raggiunto
dall’economia; b) il peso relativo dell’attività considerata rispetto all’intera economia
territoriale, nonché c) il numero di addetti, d) la loro produttività ed e) il livello di
partecipazione pubblica, è possibile ricostruire delle interessanti correlazioni positive con
la presenza criminale.
Il procedimento econometrico standard per la misurazione di tali connessioni, prevede che
vengano messe in relazione degli indici che rappresentano delle proxies credibili della
presenza criminale sul territorio, con delle variabili che descrivono l’economia: riferiremo
qui sinteticamente l’esito di alcune verifiche empiriche.
In particolare:
1) la relazione tra c.o. e divario regionale di produttività;
2) la relazione tra la presenza della c.o. e il flusso di IDE (Investimenti Diretti Esteri)
che viene perso (a livello provinciale).
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1) Quando si afferma che l’economia nel Mezzogiorno d’Italia soffre di un gap nei confronti
del resto del Paese anche a causa della criminalità organizzata, ci si sofferma poco sul
livello di produttività 7 di ciascun settore.
Questo metodo consente, infatti, di comprendere quali momenti della struttura produttiva si
manifestino le principali vulnerabilità, partendo dal presupposto che la crescita economica
sia realizzabile appunto con un alto tasso di innovazione/ ricerca e con sensibili incrementi
della produttività.
Quindi, l’economia non cresce se la produttività è scarsa e si mantiene immobile. Inoltre,
in base a quanto stiamo sostenendo, la presenza della c.o. sul territorio può senz’altro
costituire un disincentivo agli incrementi di produttività. Con l’analisi econometrica è stato
possibile stabilire con una certa precisione anche in quali settori dell’economia la
produttività del lavoro risulti “inceppata”.
Scomponendo l’attività economica in vari sottogruppi, si nota che la criminalità organizzata
pesa sul sistema creditizio come elemento che innalza il costo del denaro ed aumenta la
rischiosità; nei confronti dell’industria manifatturiera, invece, i fattori ambientali
condizionano, nelle regioni meridionali; in modo particolare le imprese di piccola e media
dimensione dei settori “tradizionale” e “specializzati” e con maggiore rilevanza quelle
aziende che non esportano i loro prodotti.
Alla luce dei vari studi econometrici risulta dimostrata e verificata l’esistenza di una
relazione – con effetti evidentemente negativi – tra alcuni fattori ambientali, quali la
criminalità organizzata, e le performances economiche – specie di produttività – dei settori
considerati. In special modo, poi, le imprese che operano in un mercato strettamente
locale sono maggiormente influenzabili dalle condizioni ambientali come la criminalità.
Si è rilevato che “Agricoltura” e “Costruzioni”8 sono le attività economiche più
pesantemente condizionate dall’influenza criminale in quanto presentano dei forti legami
con il territorio ed il mercato locale.
7 In Italia le politiche volte a ridurre i divari territoriali tra Centro-Nord e Mezzogiorno hanno dato particolare enfasi ai divari di reddito pro-capite e di occupazione attraverso politiche di sostegno al reddito e creazione di posti di lavoro nel pubblico impiego, senza tuttavia provvedere alla riduzione dei divari di produttività. Questa diversa comprensione del contenuto del “problema economico meridionale” ha fatto sì che, nonostante i notevoli sforzi compiuti, dopo quasi 50 anni di politiche per il Mezzogiorno, il dualismo ed i divari tra Centro-Nord e Sud dell’Italia siano rimasti pressoché inalterati. 8 Questo risultato ci è confermato anche dall’ Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione attraverso lo studio “I pericoli di condizionamento della Pubblica Amministrazione da parte della criminalità organizzata”, (giugno 2006): «Per la ’Ndrangheta i settori privilegiati, per l’entità delle risorse che in essi confluiscono, risultano essere gli appalti pubblici, specie quelli dell’edilizia civile, e dell’agricoltura».
31
Sono entrambi dei settori “tradizionali”, a scarso contenuto tecnologico, ma soprattutto
sono fortemente assistiti e dipendenti dalla spesa pubblica.
2) Per l’operare combinato di una serie di circostanze negative (ridotte dimensioni del
mercato di sbocco; assenza di economie di agglomerazione; assenza di altre imprese
estere e scarsità della spesa in R&S) è noto che il Sud dell’Italia attrae una quota davvero
irrisoria dei flussi di IDE in entrata nel Paese.
È stato dimostrato che, a parità di altre condizioni, la presenza/ la frequenza di alcuni reati
rivelatori di un inquinamento mafioso, influenzano significativamente e negativamente gli
IDE in entrata nelle province italiane (questo è il livello di disaggregazione territoriale dei
dati prescelto).
La relazione negativa, inoltre, si allarga anche al Pil pro-capite provinciale.
Si parte da una realtà complessiva che ammonisce come ad eccezione della Lombardia,
le regioni italiane attraggono, in media, circa il 40% in meno di IDE rispetto ad altre regioni
europee con caratteristiche simili.
A questo dato va poi aggiunta l’ulteriore perdita netta subita dalle regioni meridionali
dovuta all’immagine deteriore che la presenza criminale contribuisce sensibilmente a
costruire. Per l’operare combinato di queste rigidità, la conseguenza è un’inefficiente
distribuzione delle risorse e un minor livello di attività economica; quindi, l’esistenza di
criminalità rappresenta un concreto fattore di svantaggio competitivo nazionale che si
proietta a livello internazionale, dato che fiducia e reputazione rappresentano componenti
essenziali per l’iniziale sviluppo di un mercato dei capitali.
Delle scelte d’investimento effettuate dall’imprenditore e delle relative motivazioni
riferiremo più avanti, parlando a proposito dei costi aziendali.
3.2.3 Fattore di costo interno alle aziende.
Abbiamo esaminato il movente dell’infiltrazione criminale nelle attività economiche ( =
rendita monopolistica) e abbiamo identificato alcuni dei settori più vulnerabili e
frequentemente aggrediti.
Risponderemo ora ad un’altra questione molto importante: vedremo in che modo si
raggiunge un equilibrio stabile di coesistenza tra la criminalità e l’economia, esaminando
l’incidenza della c.o. sulla struttura dei costi aziendali.
Seguiremo due approcci complementari: il primo è di tipo “macro” e servirà a descrivere
l’equilibrio di sottosviluppo depressivo che la presenza criminale determina sul territorio,
soprattutto in rapporto al livello di sicurezza e all’immagine dei luoghi come elementi che
32
rendono meno attrattivo e profittevole l’investimento nelle aree interessate dal fenomeno
mafioso.
In secondo luogo, adottando una prospettiva di tipo “micro”, esamineremo il modo in cui gli
individui si adattano a tale presenza, imparando a gestirne il costo e convivendoci.
3.2.3.a Approccio macro: l’equazione mafia = sottos viluppo.
Sebbene non siano stati individuati precisi canali direzionali e chiari nessi causa-effetto nei
rapporti tra gli standard di sicurezza e il livello di sviluppo economico, è certo che sono
forze tra loro dipendenti, che esercitano influenze reciproche.
Lo stesso Ministro Pisanu ha affermato nel 2005 che “se è vero che la sicurezza non è
solamente un bene individuale e collettivo di valore assoluto, ma anche una condizione
preliminare per il progresso economico e sociale, è altrettanto vero che da sola non fa lo
sviluppo. È necessaria ma non sufficiente.”
Sicurezza umana e sviluppo economico sono due twin goals , due obiettivi gemelli:
devono necessariamente progredire insieme, simmetricamente, poiché un’alterazione del
loro equilibrio o una distorsione tra gli elementi di raccordo renderebbero precaria la tenuta
sociale.
La mancanza di sicurezza si qualifica come un variegato mix di minacce all’incolumità
degli individui, alti tassi di criminalità, accesa conflittualità sociale, marcata disuguaglianza
distributiva, difficoltà di accesso e fruizione dei più elementari diritti per i cittadini: questa
complessa combinazione di fattori dimostra, innanzi tutto, che le problematiche da
affrontare non sono dunque risolvibili con le sole “azioni di polizia”.
La promozione di uno sviluppo “includente” può presentarsi come valida alternativa al
conflitto e alle degenerazioni criminali. Lo sviluppo, in quanto progresso del bene-essere
umano , comprende infatti una miriade di micro-obiettivi che tutti insieme contribuiscono
alla “salute” del tessuto sociale, alla sua coesione e all’equilibrio della sua crescita.
Sviluppo è sinonimo di occupazione, crescita dei redditi, innovazione tecnologica, ma
anche di spirito della legalità, assenza di impedimenti alla libera iniziativa economica,
concorrenza leale, istruzione accessibile e disponibile per tutti, supporto alle situazioni di
disagio.
Come ha sostenuto Amartya Sen 9, l’obiettivo dello sviluppo dovrebbe essere l’incremento
delle capacità e delle opportunità da offrire agli individui, mettendoli dunque in condizione
di vivere qualitativamente meglio e più a lungo. 9 Nato nel Bengala nel 1933, ha insegnato a Calcutta, Cambridge, Delhi, alla London School of Economics, a Oxford e Harvard. Premio Nobel per l’economia nel 1998.
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Ancora Sen (1999), con una definizione onnicomprensiva, esplicita come la sicurezza
umana consista esattamente nella rimozione – almeno una riduzione – di tutte le forme
di precarietà (insicurezza) che affliggono gli indi vidui .
La relazione che intercorre tra livello di sviluppo e grado di sicurezza, soprattutto nel
contesto di un Paese con conflitti interni dovuti ad alti differenziali di sviluppo tra le sue
regioni, si presenta come un nesso di reciprocità dall’equilibrio molto delicato.
Un paradigma corretto, capace di innescare un circolo virtuoso di crescita, muove da un
buon livello di sicurezza che stimola lo sviluppo delle attività economiche e produce più
benessere, il quale – a sua volta – determina un ulteriore miglioramento degli standards di
sicurezza.
La dinamica appena descritta si presenta spesso alterata, laddove si osserva lo
sfasamento dei due twin goals: si possono creare circoli viziosi di sicurezza-con-
stagnazione oppure crescita-non-includente .
Il raggiungimento di elevati standards di sicurezza, da solo, non è in grado di attivare e
garantire dinamismo economico: un territorio sicuro resta, tuttavia, stagnante se non
dispone delle necessarie infrastrutture, dei collegamenti, delle risorse. La mancanza di
sicurezza è ciò che macroscopicamente allontana gli imprenditori da un territorio, ma, per
essere attrattivo, l’ambiente non deve soffrire di debolezze strutturali.
Nel caso contrario, la “crescita non includente” si caratterizza per la presenza nello stesso
territorio di limitate zone di ricchezza e prosperità, chiuse come un enclave all’interno di
aree meno progredite e sicure. Sulle linee di frontiere è altamente probabile lo sviluppo di
un conflitto, quando vengano in contatto/contrasto i differenziali di benessere tra le regioni.
In questo caso, la porzione territoriale più sviluppata non può contare su un background
condiviso altrettanto favorevole, poiché è chiaro che i percorsi di crescita sono stati distorti
dalla mancata inclusione – attraverso gli strumenti della governance integrata e coordinata
– di tutti gli attori rilevanti del territorio.
Una serie di modelli econometrici consentono di valutare il peso dell’economia illegale:
uno di questi, nella doppia versione “Reuter 1 e 2 ”, mostra quale riduzione del reddito,
attraverso un meccanismo di tipo moltiplicatore keynesiano , si produce all’interno di un
circuito economico regolare nel momento in cui si inserisce il coefficiente della presenza
criminale. Poiché il fattore entra nell’equazione preceduto da un segno negativo, esso
indica una quota di capitale “cattivo” che sottrae risorse al sistema .
Il settore criminale produce e consuma beni e servizi illeciti: nel modello Reuter 1, il
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consumo criminale è soddisfatto da produttori esterni e rappresenta sottrazione netta di
spesa. In altri termini, ciò che è speso per consumo di beni illeciti è sottratto al consumo
“legale”. Questa distorsione del flusso di consumo ha un’impronta di tipo keynesiano: il
consumo legale amplifica il reddito nazionale, mentre tutto ciò che è tolto a questo
consumo, ha un effetto (de)moltiplicatore di mortificazione del reddito. Tutto questo
dipende algebricamente dal fatto che, nell’equazione del consumo, la propensione illegale
è rappresentata da un coefficiente negativo che riduce il numeratore del reddito finale
prodotto. Nella variante Reuter 2, il problema affrontato è quello di domanda criminale
interna al sistema legale, con effetti non sottrattivi ma redistributivi sul reddito finale. Ciò
significa che una parte della domanda di beni leciti è alimentata da redditi criminali: in
questo caso, se l’intero reddito fosse speso in beni leciti, non si avrebbero effetti negativi.
Poiché, però, non è ipotizzabile una propensione al consumo pari al 100%, non l’intero
reddito viene re-immesso nel sistema economico e questo provoca pertanto “una
contrazione nel reddito effettivamente prodotto a parità di risorse disponibili e di
opportunità di mercato”.
Avendo introdotto l’elemento macroeconomico del moltiplicatore, s’intende che la
presenza di una diffusa e pervasiva criminalità produce anche notevoli interferenze
rispetto all’efficacia della politica fiscale. Bisogna, infatti, rilevare una notevole contrazione
del gettito fiscale dovuta essenzialmente alla somma nefasta di due elementi: la spinta
diretta all’evasione fiscale (prelievo legale ed illecito sono costi insostenibili che, in qualche
modo, bisogna ammortizzare e recuperare) e l’effetto de-moltiplicativo del reddito
attraverso la generale depressione del sistema economico nel suo complesso.
In definitiva, “tutto ciò che influenza negativamente le prospettive dinamiche del
rendimento netto dell’acquisto dei beni capitali, riduce il valore dell’efficienza marginale del
capitale e deprime conseguenzialmente l’investimento. Dacché si può comprendere
perché la presenza del crimine organizzato può – da un punto di vista macroeconomico –
deprimere l’investimento in un’area geografica”.
Nella congerie dei fattori che influenzano le scelte d’investimento rientrano a pieno titolo
anche l’immagine e la fama di cui gode un territorio: pertanto, un luogo condizionato da
carenze strutturali e da scarsi standards di sicurezza non risulta attrattivo per imprenditori
ed investitori. Inoltre, se tali condizioni inducono – com’è ovvio attendersi – un elevato
tasso migratorio, il territorio depaupera anche le sue energie lavorative, influenzando
ancor più negativamente la percezione delle vicende economiche e dei rischi che
possono derivare dalla violenza criminale.
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Non solo, quindi, il fronte del reddito risulta inficiato dalla presenza criminale, bensì anche
– e forse con maggiore danno – l’area dell’investimento risulta problematicamente
influenzata. Consideriamo, ad esempio, i cd. costi fissi di sviluppo: essendo legati al futuro
dell’impresa, eventuali tagli nei costi di sviluppo non presentano nel breve termine alcun
inconveniente, permettendo anzi di migliorare il risultato reddituale attraverso una
riduzione dei costi fissi totali. Le conseguenze negative di questo tipo di azioni si
manifestano solo nel medio-lungo periodo, quando cominceranno a farsi sentire gli effetti
del mancato impegno nello sviluppo aziendale. Si deteriorano tutte le performances: di
prodotto, d’immagine, di personale ( = l’efficienza in generale).
Non c’è possibilità di mantenere quote di mercato e si resta “imbottigliati” in una
sopravvivenza statica, priva di innovazioni.
3.2.3.b Approccio micro: la struttura dei costi del la singola azienda.
Sul finire del paragrafo precedente si è fatto cenno alle scelte aziendali in rapporto al costo
dell’investimento di lungo termine per lo sviluppo e l’espansione futura dell’impresa,
giustificando così quel contributo al sottosviluppo macroeconomico che deriva dal
mancato investimento.
La prospettiva riguardava, quindi, l’influenza del condizionamento ambientale sulle scelte
imprenditoriali, ma pur sempre nell’ottica del benessere sociale prodotto, ossia una
grandezza aggregata.
In questo caso, invece, analizzeremo le scelte individuali dell’imprenditore ed i suoi
comportamenti adattivi nel contatto con la criminalità organizzata.
La domanda cruciale diventa, allora, di questo genere: quanto costa fare impresa in
termini di profittabilità, di accessibilità alle risorse, di tutela dei diritti di proprietà, di
rapporto costi-benefici nella scelta fra attività imprenditoriale legale o illecita?
L’intreccio tra scelte d’investimento/ comportamento dell’imprenditore e il peso della
criminalità organizzata è molto articolato: da un lato, la mafia, che penetra nell’economia
ed impone la sua attività di taglieggiamento, introita un lucro consistente e dimostra altresì
di affermare la propria supremazia, il proprio potere di controllo “militare” e in certo modo
“politico” del territorio.
Dal canto suo, l’imprenditore può dimostrare un atteggiamento “acquiescente”, “resistente”
oppure “connivente” nei suoi rapporti con la criminalità organizzata. Per una serie di
valutazioni, sempre in base ad un’analisi dei costi da sostenere, l’imprenditore può
“piegarsi” al ricatto mafioso oppure “opporre resistenza” in base all’opzione che ritiene più
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“conveniente”, meno dispendiosa non solo in termini monetari, ma anche alla luce di altre
forme di rischio.
È chiaro comunque che tanto l’acquiescenza che la resistenza alle pressioni
dell’organizzazione criminale configurano l’esistenza di un costo innaturale e aggiuntivo
sulla conduzione dell’impresa. E ciò differenzia – a parità di ogni altra condizione – le
prospettive di redditività di un investimento, a seconda che questo venga intrapreso in
contesti “legali” o (per così dire) a “criminalità ordinaria”, oppure in territori soggetti a
controllo mafioso.
In altre parole, è dimostrato che se viene limitata la libertà di conduzione dell’impresa per
via di un’ingerenza criminale eccessiva, il RISULTATO OPERATIVO NON POTRA’ CHE
DISTANZIARSI DAI TARGET EFFICIENTI EVENTUALMENTE PREDETERMINATI.
Tutti questi elementi influenzano in modo diretto la struttura dei costi dell’impresa,
aumentando il costo per unità di prodotto ovvero riducendo il rendimento dei fattori
produttivi, provocando in ultima istanza una riduzione nell’efficienza dell’impresa, dato che,
a parità di fattori impiegati, l’impresa è in grado di offrire al mercato una minore quantità di
prodotto, vedendo anche ridotto il margine di profitto ottenibile tramite l’attività di
produzione.
Non può farsi a meno di considerare le basi fondanti dei meccanismi economici, quali la
concorrenza per l’allocazione ottima delle risorse e la produzione in regime di massima
efficienza, secondo le preferenze espresse dalla domanda e nel contesto di prezzi che
riflettono tutte queste scelte/ informazioni. Qualunque elemento di disturbo introduca delle
varianti in questi equilibri, determina a vario titolo delle perdite di efficienza del sistema.
Vale a dire che nella misura in cui la presenza della criminalità organizzata modifica la
struttura competitiva dei mercati “aggrediti”, imponendo scelte e creando monopoli
“innaturali” e di fatto, tale presenza finisce con l’intaccare direttamente i presupposti del
funzionamento dell’economia di mercato, pregiudicandone la possibilità di conseguire un
risultato sociale “ottimo”.
Si determinano così delle alterazioni nella struttura dei costi di produzione , che si
riflettono pesantemente sui prezzi finali. In ogni caso, si produce un allontanamento
strutturale 10 dal modello di efficienza del mercato.
Senza voler trasformare – poco opportunamente – questa trattazione in un manuale di
economia aziendale, è appena il caso di chiarire alcuni fondamenti di teoria dell’impresa
10 Bisogna riflettere attentamente sul significato di STRUTTURALE: questo aggettivo in economia è sinonimo di congenito, ossia di caratteristica intrinseca e sistematica, differenziandosi da congiunturale, che invece significa l’opposto, cioè temporaneo, transitorio, senza il carattere della permanenza.
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che più direttamente risultano “aggrediti” e distorti in caso di contaminazione con la
criminalità organizzata.
A) L’imprenditore di weberiana memoria è un soggetto dotato di uno spirito
innovativo, orientato al rischio nell’attività economica, capace di introdurre
cambiamenti migliorativi nel mondo produttivo. La sua remunerazione è costituita
dal profitto ottenuto con la vendita del prodotto sul mercato, una volta che abbia
coperto i costi di produzione. Per realizzare tutto questo, l’imprenditore si avvale di
una complessa organizzazione di risorse umane e strumentali che egli è capace di
governare e adattare tempestivamente alle mutate esigenze del mercato.
B) Nella creazione dell’attività, l’imprenditore investe capitale proprio e lo conferisce
appunto in vista della remunerazione. Il portafoglio delle scelte d’investimento è
accuratamente composto dall’imprenditore sulla base di molteplici considerazioni e
combinato nell’ottica di un rischio minore possibile. Per quel che interessa in questa
sede, la localizzazione dell’impresa è fortemente condizionata dalla vicinanza alle
risorse di cui bisogna approvvigionarsi, ma anche dall’ampiezza del mercato di
sbocco. La scelta di investire, quindi, prende in considerazione l’attrattività
complessiva del territorio: con questa espressione s’intende un’articolata
combinazione di fattori, tra cui le risorse, la qualità di vita, il livello di sicurezza, la
qualità e l’accessibilità del capitale umano e della tradizione produttiva territoriale,
l’efficienza dei collegamenti, le infrastrutture, e così via.
C) L’imprenditore, sulla base della capacità produttiva installata e dello stato di
avanzamento tecnologico di cui dispone, determina il volume di produzione dei beni
e l’erogazione dei servizi. Il prezzo finale di vendita sarà composto dal costo dei
fattori produttivi (capitale, lavoro, materie prime), maggiorato del margine di profitto
che s’intende ottenere, e – com’è ovvio attendersi – compatibile con l’esistenza di
produttori concorrenti ed eventualmente più competitivi. La funzione dei costi,
quindi, è formata da una lunga serie di voci, ad esempio: materie prime, lavoratori,
ammortamento degli impianti, spese per la ricerca e lo sviluppo, indagini di
mercato, operazioni pubblicitarie e promozionali, espansione della capacità
produttiva, e così via. In assetti “normali”, il mercato dei prezzi riflette tutte queste
informazioni, cioè internalizza la struttura dei costi .
La teoria dell’efficienza-x si occupa proprio di evidenziare e favorire lo sviluppo di tutti gli
elementi “non tradizionali” il cui miglioramento può potenziare il rendimento produttivo
degli impianti a parità di risorse impiegate. Tali fattori riguardano sia l’ambiente relazionale
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e organizzativo “interno” all’impresa, sia l’ambiente relazionale “esterno” alle singole unità
produttive.
Nel caso di una pervasiva presenza/ ingerenza della criminalità organizzata, risultano
evidentemente condizionati tutti gli elementi di competitività, dinamismo economico ed
efficienza allocativa che dovrebbero invece caratterizzare un’economia libera e
concorrenziale.
Tale ingerenza può inficiare la capacità di selezione delle risorse umane e di gestione del
personale, la libertà di scelta dei canali di approvvigionamento del capitale circolante, la
possibilità di selezionare la clientela secondo le strategie di mercato ritenute ottimali.
Chiameremo tale efficienza negativa “inefficacia-c ”, designando con questa espressione
l’insieme di appesantimento dei costi e riduzione d el rendimento dei fattori
riconducibile alla pressione esercitata dall’organi zzazione criminale sulla gestione
dell’impresa .
Non tutti gli elementi sono ugualmente coinvolti nella perdita di efficienza causata dalla
presenza criminale. Infatti, i fattori “x” di efficienza governabili direttamente dall’impresa
possono essere anche totalmente sviluppati e potenziati al massimo; ciononostante, i
fattori “c” di inefficienza possono determinare risultati di gestione anche molto distanti
da quelli designati dalla massimizzazione del rendimento dei fattori impiegati.
In conclusione, esiste una “massa critica” di pressione della criminalità organizzata,
superata la quale le imprese sono spinte a “chiudere” e/ o trasferire gli impianti.
Si tratta di imprese marginali che si estinguono perché la loro struttura dei costi diviene
insostenibile, oppure le imprese più flessibili ed efficienti sono rapide nel cogliere altrove
opportunità più profittevoli.
Le imprese che permangono sul territorio devono necessariamente adottare un
atteggiamento connivente – come prima descritto – che, partendo da una visione della
criminalità come elemento connaturato all’ambiente, tentano di internalizzare i costi di tale
presenza, neutralizzando così il peso delle inefficienze-c.
Riassumendo le nostre conclusioni: l’impresa dovrà fare i conti con la propria struttura
costi-ricavi, tenendo in considerazione il break-even-point 11 e tutti gli elementi che
possono rendere i ricavi insufficienti a coprire i costi di produzione. Da questa analisi
deriveranno le possibili reazioni dell’impresa: di fronte all’insostenibilità dei costi o della
competitività esterna, essa chiuderà, delocalizzerà oppure rintraccerà degli spazi di
11 Il punto di pareggio rappresenta per l’azienda l’intersezione tra la curva dei propri costi e quella dei ricavi, ossia la quantità di produzione che – venduta – consente di coprire i costi sostenuti senza subire perdite. Tutto ciò che sarà venduto in eccesso rispetto a questa quantità critica, permetterà di ottenere un margine di profitto.
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cointeressenza con l’organizzazione criminale, stabilendo forme di convivenza più o meno
accettate.
Con la conseguenza che, nel contesto illegale, non è necessariamente l’impresa più
efficiente a sopravvivere perché migliore. Infatti, l’efficienza è anche il frutto della mobilità
e della capacità del management aziendale di individuare le opportunità presenti sui vari
mercati e coglierle tempestivamente, grazie ad un accurato apporto di informazioni.
Da questo punto di vista, perciò, la scrematura imposta dalla criminalità avrebbe le
caratteristiche di “selezione avversa12” facendo fuggire quelle più efficienti e mantenendo
in loco quelle relativamente meno produttive.
Date tutte le considerazione sulla convenienza allocativa, sui costi da affrontare, sulle
possibilità di difendersi e resistere senza sconfitta agli assalti mafiosi, si comprende
agevolmente che la presenza della mafia può determinare non solamente la chiusura degli
impianti esistenti, la loro scomparsa dal mercato o la rilocalizzazione in altri distretti
produttivi, ma anche un freno all’investimento (dall’esterno, cioè nuovo ed in ingresso), la
riduzione della capacità di attivazione delle risorse su base territoriale.
3.3 La sostituzione del capitale mafioso a quello l ecito: evoluzione del modus
operandi .
Fino a questo momento abbiamo genericamente parlato di “presenza” o infiltrazione della
c.o. all’interno delle attività economiche lecite, ma i tempi sono ora maturi (perché ci siamo
dotati di alcuni strumenti concettuali indispensabili) per aprire un’ampia pagina del nostro
lavoro alla ricerca delle modalità concrete, delle tecniche operative e dell’evoluzione nel
tempo dei rapporti tra “mafie” ed economia.
È in atto da qualche anno una vera e propria mutazione genetica del modus operandi della
criminalità mafiosa: si osserva una progressiva smaterializzazione dei legami di sangue, a
favore di una più spiccata “imprenditorializzazione” delle attività, con un forte orientamento
ai patti di valenza strategica, funzionali agli interessi di business.
Pur senza perdere l’efferatezza originaria, pur conservando la stessa capacità di colpire
con violenza, gran parte dei connotati “mafiosi” sono un po’ arretrati a favore di un
concetto diverso di criminalità organizzata, in cui conta molto l’opportunità di concludere
affari vantaggiosi.
12 Il meccanismo dell’adverse selection rappresenta una delle forme paradigmatiche di market failure. Esso si basa sull’asimmetria informativa: fra le due parti, solo una conosce in pieno determinate informazioni strategiche e non ha interesse a renderle note alla controparte. Vendendo meno la trasparenza, il meccanismo di mercato non è più efficace: il prezzo non funge più da indicatore del valore e della qualità del bene. Si crea così un effetto perverso in cui la buona qualità, o l’efficienza nel nostro caso, non è più oggetto di scambio e restano in piedi solo imprese improduttive.
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In passato, l’accumulazione del denaro era un mezzo; oggi è un fine, il principale degli
obiettivi.
Per queste ragioni, i metodi si sono evoluti, sono profondamente cambiati e si sono
trasformati in sofisticate tecniche economico-finanziarie, affievolendo sempre di più la
nettezza del confine fra attività illecite ed attività lecite realizzate da criminali.
Pare giocarsi tutta qui la partita del futuro: oggetti illegali del mercato non sono più i beni e
i servizi, bensì gli imprenditori e le loro aziende (con un diverso grado di coinvolgimento
che va dalla partecipazione al controllo mafioso integrale).
La mafia di oggi ha un volto diverso, quello di un insospettabile ed affermato manager, di
un imprenditore che investe – rischia – guadagna – produce – commercia.
Più che “l’inabissamento” come pax mafiosa e fine della stagione stragista, qui si rileva un
confondersi della mafia all’interno della società: essa non è solo silenziosa, è diventata
quasi indistinguibile dal tessuto socio-economico circostante.
Inizia da qui una fase di analisi e di recupero storico che condurremo per riportare alla luce
quelli che Pino Arlacchi13 definisce mafiosi “idealtipici”, vale a dire figure stereotipate che
raccolgono caratteristiche generali e comuni a tutti, senza però distinguere tra i singoli
dettagli individuali: si opera per categorie.
Affronteremo l’analisi in due momenti: un passaggio squisitamente storico servirà ad
inquadrare le origini del fenomeno ma soprattutto i cambiamenti intervenuti nei valori
fondanti; un secondo passaggio invece concentrerà l’attenzione sulla progressiva
convergenza che si è consolidata nella zona grigia compresa tra l’economia, gli
investimenti per lo sviluppo – incluse le relative scelte politiche – e gli interessi della
criminalità nella doppia versione dell’accaparramento di denaro pulito (specialmente
pubblico) e del riciclaggio di capitali sporchi propri.
Della mafia Arlacchi nota subito che l’unica regola davvero fondamentale in ogni tempo e
in ogni luogo postula “pecunia non olet ”.
In origine quello della mafia è un ruolo solo parassitario e di mediazione dei conflitti sociali
interni alle comunità locali di appartenenza. Ad avere preminenza, in questa fase, sono il
cd. onore e la forza di affermarlo, anche violentemente. Tutto cambia all’indomani del
boom economico degli anni ’60, quando il potere e la ricchezza accumulata non sono più i
mezzi ma i fini ultimi: «il mantenimento della supremazia impone adesso la disponibilità di
ricchezze e consumi crescenti».
13 Pino Arlacchi è professore ordinario di Sociologia generale presso l’Università di Sassari. È stato deputato e senatore del Parlamento italiano, e vicesegretario dell’ONU dal 1997 al 2002.
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In questo momento, dunque, l’iniezione di denaro pubblico diviene cruciale nel rendere
attrattivo il settore edilizio legato ai programmi per la costruzione di grandi opere ed
infrastrutture. Si tratta del prodromico avvio di un’altra trasformazione del mafioso tipico:
da lì a poco le fortune accumulate saranno ingentissime, procurate con spregiudicatezza
da parte dei nuovi mafiosi imprenditori.
Lo Stato perde il monopolio della violenza ed essa diventa strumento economico efficace
e potente nelle mani di una criminalità che non è trattenuta dagli stessi freni di natura
legale e culturale che agiscono sugli altri imprenditori.
Secondo questa genesi, dunque, la mafia diventa imprenditrice perché si occupa
direttamente di ingerirsi nell’economia, trasferendovi i propri metodi illegali e violenti.
Questa espansione imprenditoriale continua fino a quando la territorialità, il connotato più
caratteristico e primigenio del comportamento mafioso, non si traduce in un vincolo troppo
stretto che risulta di ostacolo al raggiungimento di ulteriore potere e genera un conflitto di
tutti contro tutti.
Che la contaminazione dell’economia legale potesse raggiungere le notevoli proporzioni di
cui ancora a stento riusciamo ad individuare le dimensioni, lo vaticinava già il giudice
Giovanni Falcone ben 16 anni or sono, scrivendo che se le tangenti del racket
diminuiscono – o meglio si trasformano – ciò può significare che il mafioso tende a
trasformarsi lui stesso in imprenditore, a investire in imprese i profitti illeciti del traffico di
droga. La crescente presenza di Cosa Nostra sul mercato legale non rappresenta un
segnale positivo per l’economia in generale.
Era, dunque, l’economia “in genere”, cioè tutta, ad essere ritenuta in pericolo, non solo
qualche sua frazione illegale, perché l’intuizione aveva visto molto lontano nel rischio di
una silente, inesorabile e inestricabile infiltrazione dell’organizzazione criminale ovunque
se ne fosse presentata la profittevole occasione.
Con il tempo, i vari studi e le cronache giudiziarie hanno chiarito che esiste una
diversificata gamma di atteggiamenti “imprenditoriali” da parte mafiosa, che vanno
dall’assunzione diretta dell’impresa, alla partecipazione e al semplice “prelievo” parassita.
Passando rapidamente in rassegna alcuni meccanismi, possiamo osservare – ad esempio
– l’incremento della pressione estorsiva o la sua progressiva trasformazione in usura. Un
metodo, quest’ultimo, che consente alla mafia prima di controllare e poi di appropriarsi
direttamente dell’impresa, il che è redditizio se si vuole concentrare l’attenzione in quel
settore produttivo, ma è un vantaggio anche perché consente di riciclare denaro sporco
42
proveniente da altre attività illecite e, a ben guardare, costituisce pure un avvertimento per
una eventuale concorrenza.
L’estorsione pura e semplice, invece, è e resta un efficace metodo di controllo capillare
dell’economia locale, in quanto si rapporta con precisione “contabile” al giro d’affari e
costituisce un “bene rifugio” per la criminalità, un flusso costante ed inesauribile di risorse
finanziarie pulite e a basso costo (procurate cioè con minacce che siano credibili e
qualche avvertimento più concreto; per non dire che spesso è direttamente l’imprenditore
o il commerciante a cercare il mafioso per “mettersi in regola”).
Per chiarire i termini della questione, c’è un rigoroso ordine cronologico da seguire, in
quanto vi è una linea evolutiva del fenomeno che nel tempo ne ha prodotto una vera e
propria mutazione genetica ed una notevole diversificazione. Insomma, il progresso è
avvenuto per fasi e aggiustamenti successivi, a seconda dell’opportunità più conveniente e
meno rischiosa.
Dalle cronache giudiziarie e dalla ricostruzione del modus operandi mafioso si perviene,
infine, a codificare dei modelli e dei paradigmi più generali, di grande utilità per formulare
analisi e prevedere soluzioni.
Un primo step ci porta ad evidenziare la crisi dell’impresa mafiosa: è, infatti, una
definizione oramai datata, risalente alla legislazione degli anni ’80. Essa comprende due
elementi principali: il capitale impiegato nell’impresa è frutto di attività illecite – sebbene la
produzione sia orientata a beni e servizi leciti – e il punto di forza dell’azienda sta nella sua
capacità di intimidazione (la quale non coincide necessariamente con un’azione esplicita
di violenza).
In che modo – cioè con quali meccanismi di accumulazione – si è formato il capitale
investito e quali metodi intimidatori vengono messi in campo per realizzare l’affermazione
sul mercato?
La storia economica italiana c’insegna che gli anni ’60-’70 sono stati indubbiamente
costellati da un notevole boom produttivo e soprattutto dalla costruzione massiccia di
infrastrutture nel Paese. Qui affonda le radici anche un’effervescenza economica degli
associati alle organizzazioni mafiose.
In queste fasi iniziali, l’accumulazione di capitale avviene attraverso riscatti di sequestri di
persona, mazzette, in un rapporto simbiotico e complementare con la spesa pubblica.
Ecco, dunque, che alle attività illecite “classiche” si aggiunge e si sovrappone l’avvio di
un’attività economica lecita sul piano produttivo, con la creazione di propri strumenti
imprenditoriali.
43
Con la creazione dell’impresa mafiosa si passa infatti dalla fase tradizionale di
immobilizzazione della ricchezza a quella moderna di accumulazione del capitale, poiché
la parte più consistente del denaro “rastrellato” in modo criminale viene messo in
circolazione e viene impegnato in attività produttive al fine di una sua ulteriore
valorizzazione.
Il connotato principale di queste prime imprese mafiose è la forte caratterizzazione
personale: la conduzione imprenditoriale degli affari è in mano al mafioso fondatore. Tutto
ruota attorno a lui e lui esercita l’attività per mezzo dei suoi familiari.
L’impresa mafiosa compendia una serie di funzioni e risponde ad esigenze di varia natura:
è infatti uno strumento più “moderno” di riciclaggio del denaro, ma insieme anche uno
strumento di copertura dell’attività più specificamente criminale; persegue obiettivi di
produzione di surplus economico e di valorizzazione del capitale, e quindi esercita
un’attività produttiva, ma risponde anche all’esigenza di una più efficace forma di controllo
sociale e insieme di legittimazione del nuovo potere economico e politico
dell’organizzazione criminale.
Il sodalizio con la spesa pubblica si salda nel momento in cui si comprende che questo
settore può assicurare dei flussi sostanziosi di denaro. Adesso è necessario penetrare in
modo esteso le strutture periferiche dello Stato e compenetrarsi alle formazioni politiche
che gestiscono i flussi di spesa pubblica, se si vogliono rastrellare e drenare risorse, se si
vuole realizzare una forma di affermazione delle imprese mafiose, e quindi nuovi livelli di
accumulazione del capitale.
Nel momento di acme del dinamismo economico del Sud, fra gli anni ’60 e ’70, si afferma
e si consolida quel nesso fatale tra mafia, politica ed economia. La mafia si dimostra,
infatti, dinamica nell’effettuare una ri-articolazione dei propri interessi, passando
rapidamente dalle rendite fondiarie al ben più redditizio comparto dell’urbanizzazione.
Spostare l’asse principale dei propri interessi verso il settore edilizio si è rivelata una
mossa tempestiva, che ha ampiamente ripagato lo sforzo fatto.
L’affermazione dell’impresa mafiosa in questa fase è dovuta alla necessità di avere
“strumenti” adeguati per canalizzare risorse pubbliche e inserirsi nei nuovi processi
“produttivi” che si andavano affermando, e, per un altro verso ancora, è dovuta a motivi
“posizionali”, ossia alla necessità dei mafiosi di poter partecipare (anche sul terreno
economico) con altri settori della classe dirigente all’esercizio della funzione dominante nel
territorio in cui hanno un forte radicamento storico-sociale.
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Un’impresa così strutturata, con una forte impronta personale che lega l’andamento
economico dell’attività con le vicende individuali del suo imprenditore, è destinata
all’instabilità e all’insicurezza.
Vale a dire che la mancata separazione tra elemento sociale, politico ed economico ha
fatto esplodere la contraddizione dell’impresa mafiosa. C’è dunque bisogno di una
profonda ristrutturazione per superare la crisi e garantirsi la sopravvivenza.
In questa nuova fase – iniziata negli ’80 – l’obiettivo principale è quello di provvedere ad
una diversificazione degli investimenti, ovvero concentrarsi su settori differenti che
assicurino adeguati margini di remunerazione e bassi rischi. È così che ci si orienta ai
servizi pubblici come sanità, smaltimento dei rifiuti, ma anche reti commerciali e
finanziarie. L’impresa madre alimenta con i propri proventi una costellazione di altre
società che operano nel medesimo settore o in campi diversi.
Oltre la diversificazione, un’altra novità strategica riguarda il fatto che il mafioso non tende
più ad avere la titolarità formale della proprietà né compiti diretti di direzione e di gestione
dell’impresa; ma si limita a conservare la proprietà indiretta dell’impresa e la sua funzione
di direzione la esercita in modo sempre più mediato.
In questo modo si attiva un circuito di pulitura delle società, una separazione – attraverso
l’interposizione di vari agenti – fra il mafioso e l’impresa, che viene formalmente
legalizzata. Schermarsi dietro dei prestanome (o teste di legno) consente di mantenere
l’impresa “pulita”, soprattutto quando non ci si serve di familiari bensì di estranei, per
meglio mimetizzare l’impresa tra le pieghe dell’economia legale. La riconducibilità al
mafioso viene così resa quanto più difficile.
Questo processo, in alcuni casi, determina un complesso reticolo di partecipazioni
incrociate tra membri della famiglia (o dello stesso gruppo mafioso) e soci “esterni” con cui
si stabiliscono rapporti di compenetrazione e di cointeressenza.
Le imprese, organizzate secondo più convenienti forme societarie, non sono dell’unica
specie orientata alla produzione: sono state individuate e scoperte anche le cd. “imprese
cartiere”, la cui ragione di esistere si rintraccia nell’utilità di produrre carte, ossia fatture
false e documentazioni o attestazioni (senza alcun riscontro con la realtà).
Riassumendo, esistono tre principali modelli di imprese mafiose dedite alla produzione di
beni e servizi leciti:
a) l’impresa criminale-legale. È caratterizzata dal fatto che gli agenti che risultano
titolari formali e di fatto sono associati all’organizzazione mafiosa, che i metodi
concorrenziali sono di natura violenta e che il capitale è frutto dell’attività criminale;
45
mentre i beni prodotti sono leciti e l’attività ha una forma giuridica formalmente
legale (forma originaria, archetipo di impresa mafiosa);
b) l’impresa illegale-legale. Si distingue per il fatto che il capitale è di origine criminale
e il proprietario effettivo è un criminale conosciuto come tale, mentre il titolare
formale risulta una persona apparentemente pulita e rispettabile (in realtà
prestanome del mafioso), il quale gestisce l’impresa secondo criteri legali e agisce
rispettando formalmente le logiche di mercato;
c) l’impresa legale-illegale. Si tratta di un’impresa nata come impresa legittima che, ad
un certo punto, entra in affari o, meglio, in rapporti di cointeressenza e di
compartecipazione con la mafia e i suoi capitali. In questo caso l’impresa si
presenta formalmente legittima e agisce secondo criteri di mercato, ma la sua
illegalità (o mafiosità) consiste nella compresenza di interessi, soci (spesso di fatto)
e capitali legali e illegali.
È, dunque, quest’ultima una forma di IMPRESA A PARTECIPAZIONE MAFIOSA : la
tradizionale impresa mafiosa di cui era titolare e amministratore direttamente il mafioso-
imprenditore è stata sostituita da queste nuove imprese “legalizzate”, che, pur non
rinunciando completamente alla forza di intimidazione dell’organizzazione a cui
appartengono, sono diventate nei fatti istituzioni e agenti del mercato vigente nelle realtà
territoriali in cui operano.
Da quando, con molte difficoltà, si è cominciato ad indagare sul fenomeno della
compartecipazione mafiosa, si è persino invertito il rapporto quantitativo delle confische di
beni immobili e quote societarie o altri titoli. Ciò sta a simboleggiare un ingresso
prepotente della mafia anche nel settore finanziario.
Quindi una delle finalità principali dell’impresa a partecipazione mafiosa è costituita proprio
dalla necessità di mimetizzare meglio gli investimenti mafiosi sul terreno imprenditoriale e
di impedire di risalire alle origini criminali della formazione del capitale. In molti casi proprio
questi meccanismi renderanno più difficoltoso il sequestro e la confisca giudiziaria dei
beni.
L’impresa a partecipazione mafiosa è strutturata sul binomio denaro-relazioni, nel senso
che utilizza prevalentemente il denaro e le relazioni imprenditoriali, politiche e
amministrative come strumenti di affermazione e di competizione: la violenza non
scompare del tutto ma rimane sullo sfondo ed entra in gioco come estrema ratio.
In sostanza, l’impresa a partecipazione mafiosa si caratterizza perché le quote societarie
sono stabilmente costituite dal capitale accumulato illecitamente. Tale forma di
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investimento, attraverso la “schermatura” dei prestanome, è la modalità più adeguata e
remunerativa per ripulire ingenti flussi di denaro sporco (sono società fondate su un “patto
leonino”, che è vietato dal codice civile!).
Proprio in campo finanziario, man mano che evolvono i mercati e si tenta di liberalizzarli,
sempre più facilmente la mafia riesce ad ottenere – per vie traverse e collaborazione di
insospettabili – quote azionarie di società di capitali. Attualmente le forme più diffuse di
questa pratica sono:
1. protezione-estorsione che, quando i malavitosi non si accontentano più, può
diventare pretesa di compartecipazione alla società acquisendone delle quote
significative del capitale di comando;
2. usura , nel qual caso il capitale sporco viene ripulito ed impiegato (è a costo zero!).
Chi ottiene il prestito, sopravvive ma si lega inestricabilmente a questo capestro.
Fino a quando non diventa obbligatorio cedere l’attività, farla rilevare o consentire
l’ingresso della mafia tramite cessione di quote sociali). L’usura praticata dei gruppi
mafiosi non è quindi un reato-fine, ma un reato strumentale e funzionale alla
compartecipazione o all’acquisizione di un’attività imprenditoriale o commerciale.
Ciò che colpisce di questo fenomeno è la convivenza di elementi al contempo produttivi
eppure parassitari da parte delle imprese mafiose. Non c’è intento innovativo nelle
produzioni mafiose, le quali operano in modo fortemente imitativo e con bassi livelli di
professionalità. L’ammodernamento tecnologico non è fra le priorità del mafioso-
imprenditore, perché la capacità produttiva e competitiva dell’impresa e la sua modernità
non sta nella struttura, ma proprio nelle relazioni di interdipendenza sociale che riesce a
costituire.
In buona sostanza, la criminalità organizzata ha lo scopo di concludere buoni affari, ossia
di riciclare in partecipazione e in acquisto di imprese, di negozi, di immobili e in operazioni
finanziarie il denaro estorto al Sud mediante racket, tangenti, truffe, appalti e quant’altro è
possibile ottenere in modi illeciti o falsamente leciti.
Comunque, a parte le cifre, dal 1982 al 2007 risulta dimostrato che il mercato mafioso è in
ascesa esponenziale e la società mafiosa è vista dagli ambienti industriali come la società
finanziaria più grande del continente e una delle maggiori di tutto il pianeta.
Con l’aiuto della grafica, proveremo ora a sintetizzare i complessi passaggi affrontati nel
corso del capitolo, rinviando all’appendice storico-bibliografica per l’approfondimento sulle
origini, l’etimologia e le caratteristiche tradizionali della criminalità organizzata.
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Figura 1_ La linea del tempo
In epoca di globalizzazione, la mafia imprenditrice diventa proprietaria al 100% di pacchetti di imprese e di
società
Con il progresso delle attività economiche e commerciali, la richiesta del “pizzo” e l’usura diventano una delle fonti principali di approvvigionamento di denaro per le cosche e consentono loro di entrare direttamente nelle
imprese
Anni ’60: cambia la vocazione economica dell’ Italia e si apre la stagione delle grandi opere infrastrutturali, degli indotti industriali sorretti da grandi investimenti pubblici (edilizia,
sanità, appalti)
In ambito agricolo si agiva con l’ imposizione di “guardianie” e manovalanza; Controllo delle elezioni (soprattutto locali) Mantenimento
della pace sociale
In origine si trattava di criminalità comune
che in seguito si organizzò (il periodo è quello
compreso fra il Settecento e l’Ottocento preunitario, con la fine del latifondo e la nascita della borghesia
capitalistica)
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Per esemplificare gli snodi evolutivi che si sono avuti nel corso della Storia all’interno delle organizzazioni mafiose, la figura 1 (pagina
precedente) mostra una “linea del tempo” disposta in maniera progressiva in base al verso delle frecce: in ogni casella sono state
sintetizzate le caratteristiche principali che hanno condotto al mutamento della c.o. da tradizionale ad imprenditrice.
Ancor più emblematica è la figura 2 (qui di seguito), strutturata come la nota “matrice McKinsey” 3x3 sull’evoluzione aziendale.
Figura 2_ Matrice McKinsey adattata all’evoluzione della mafia imprenditrice
MAFIA
TRADIZIONALE
MMAAFFIIAA
IIMMPPRREENNDDIITTRRIICCEE
?
POST-INDUSTRIALE INDUSTRIALE RURALE
FORTE (LEGAMI FAMILIARI)
MEDIO
(PARTECIPAZIONE DI ESTRANEI)
DEBOLE
(GLOBALIZZAZIONE)
L E G A M E
C O N
T E R R I T O R I O
STATO DELL ’ECONOMIA E COMPLESSITA ’
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In questo caso, si è tentato di mettere a sistema e “catturare” i passaggi più significativi,
secondo le coordinate “legame con il territorio” – che include anche i vincoli di parentela e
l’ammissione a partecipare degli estranei – e lo “stato dell’economia”, compreso il grado di
complessità del settore considerato.
Seguendo le frecce, si nota come, partendo da una situazione di tipo tradizionale, fondata
sulla forte impronta territoriale e sui vincoli di sangue, in rapporto ad un’economia piuttosto
povera e di carattere rurale, si è passati alla condizione di “mafia imprenditrice” attraverso
due canali.
In primo luogo, l’economia è diventata di tipo industriale (grandi opere ed infrastrutture,
dinamismo nei settori produttivi), rendendosi più ricca e complessa ed offrendo, dunque,
delle interessanti prospettive di profitto. Dallo sfruttamento parassitario delle risorse con
estorsioni e forme di imposizione esterna, si è passati ad un articolato sistema di patti
strategici con ambienti dell’imprenditoria che ha visto la scomposizione degli storici cartelli
mafiosi e la ricomposizione di nuove forme di alleanza.
In seconda battuta, vi è stata la necessità di adattare l’apparato valoriale mafioso alla
nuova realtà economica, attraverso l’emigrazione e la ramificazione dei contatti in tutto il
pianeta, ma anche stringendo delle alleanze strategiche con soggetti “estranei”.
La fase attuale, contraddistinta dal punto interrogativo, è caratterizzata dalla compresenza
di un’economia certamente ancora industriale e, per certi settori, già evoluta verso il post-
industriale. D’altro canto, dal punto di vista geopolitico e finanziario, la globalizzazione è la
sfida principale per tutti gli operatori.
Come e quando anche la mafia imprenditrice transiterà compiutamente verso l’era del
post-industriale è ancora piuttosto incerto.
Tuttavia, i primi segnali della marcata “managerializzazione” come nuova tendenza
strategica della c.o., vengono indicati nei grafici 1 e 2 che delineano il progressivo
aumento del livello d’istruzione e competenza raggiunto da alcuni membri, nonché la
deflazione registrata nell’uso di metodi violenti d’intimidazione e minaccia, ricorrendovi
solo in estrema ratio, all’esito di una fallita mediazione dei conflitti.
Grafico 1 Grafico 2
tempo
ricorso alla violenza
tempo
livello di istruzione
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La figura 3 rappresenta l’evoluzione dei metodi dell’organizzazione mafiosa ma dal punto
di vista degli equilibri di mercato e dello sviluppo economico complessivo raggiunto
all’interno del sistema considerato.
Figura 3_ L’intersezione dei mercati
Distingueremo i mercati in base al fatto che le attività abbiano ad oggetto un bene illecito,
siano compiute da soggetti illeciti e con metodi non ammessi dalla legge: se questo si
verifica tutto allo stesso tempo, il mercato sarà identificato con il colore nero e sarà
considerato illecito (i reati saranno, ad esempio, il traffico di droga e di armi, la tratta di
esseri umani, in gioco d’azzardo, e così via).
All’opposto, nell’insieme bianco sarà descritto il mercato perfettamente lecito (commercio,
banche, industrie).
Nell’area di intersezione tra i due mercati si sviluppa una zona di grigio, in cui le attività
sono contemporaneamente lecite ed illecite, secondo diverse combinazioni:
• soggetto lecito, ma oggetto e metodo illeciti;
• soggetto e fine illeciti, ma oggetto e metodo leciti.
Vi includeremo, pertanto, quei reati come l’estorsione, la corruzione, il pagamento di
tangenti, l’acquisizione di quote societarie, la manipolazione di gare d’appalto, il riciclaggio
di denaro.
Il mercato grigio, quindi, è la zona in cui vengono a contatto la criminalità e le attività
economiche più vulnerabili e passibili di infiltrazione illecita.
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Per spiegare la presenza e la direzione delle frecce di espansione, bisogna tener conto del
fatto che il mondo illecito e quello grigio, poiché non rispettano le regole, sono liberi da
vincoli e possono espandersi a seconda della convenienza. Viceversa, il mercato lecito è
sottoposto alla pressione congiunta del rispetto delle regole, della sostenibilità e della
competizione concorrenziale con gli altri operatori: questo ne limita enormemente e ne
rallenta le possibilità di sviluppo.
Questo nesso è ancora più chiaro se si guarda al grafico 3.
Grafico 3_ Il trend “empirico” dei mercati illecito , grigio e lecito
Precisiamo in primo luogo che si tratta di una ricostruzione empirica, per cui i valori di
volume sono arbitrari e privi di unità di misura. Con questo grafico si è inteso
semplicemente mettere a paragone le tendenze evolutive dei tre mercati.
Come illustrato in precedenza, il mondo dell’illecito non è oggetto d’interesse in questa
ricerca, ma è noto che il suo mercato è più florido di ogni altro affare economico, sebbene
le cifre siano oscure per via appunto dell’illiceità.
L’andamento sinusoidale con delle piccole oscillazioni indica la sostanziale stabilità del
volume d’affari anche in corrispondenza di un’efficace repressione, per cui le flessioni
saranno minime.
Ciò che, invece, risulta più interessante è l’andamento congiunto del mercato grigio e di
quello lecito: entrambi conoscono un notevole picco nel periodo del boom economico fra
gli anni ’60 e ’70, ma poi fanno registrare una profonda divergenza.
TRACCIATO EMPIRICO DEI TREND NEI MERCATI
0
200
400
600
800
1000
1200
POST-WAR
1960 1970 1980 1990 2000 ?
TEMPO
VO
LUM
E D
ELL
'EC
ON
OM
IA
ILLECITO
GRIGIO
LECITO
52
La progressiva infiltrazione della criminalità nel settore lecito ha prodotto uno spostamento
nei volumi economici realizzati verso l’area del grigio. Il livello di parassitismo raggiunto in
questo mercato ha interferito con l’economia “libera” a tal punto da scaricare su di essa
tutti i costi della crisi globale, senza restarne scalfito e continuando a proliferare.
La conseguenza è una sostanziale stagnazione che tiene basso il livello di sviluppo: per la
somme di tutte queste pesanti distorsioni, il sistema economico “bianco” non riesce ad
innescare un tasso di crescita sufficientemente elevato da poter sopportare tali pressioni e
non può garantire che vengano raggiunti standard di benessere generalmente migliori, pur
in presenza di un’ampia fascia di “grigio”.
In definitiva, perché viene alimentata una spirale depressiva in cui il grigio “mangia” il
bianco?
La mafia che fa impresa, intraprende un’attività in cui c’è un capitale iniziale (illecitamente
accumulato) investito nella realizzazione di beni e servizi per il mercato con l’obiettivo del
profitto. Tuttavia:
• il capitale è sporco,
• i soggetti imprenditori, i gestori, i dipendenti appartengono all’ambiente della
criminalità organizzata oppure ne accettano consapevolmente lo stipendio,
• il sistema dei prezzi risulta alterato, in quanto non costituirà l’esito di un libero
confronto concorrenziale tra una pluralità di operatori economici,
• i proventi dell’impresa saranno re-investiti nei processi di R&S per il continuo
miglioramento della produzione, per rendere l’organizzazione più efficiente, per
incrementare la qualità del capitale umano aziendale? È molto più logico attendersi
uno scarso interesse dell’imprenditore-mafioso in questi processi aziendali, per
privilegiare lo sperpero personale, accumulare profitti egoisticamente o dirottarli
verso altre attività, secondo il circuito del modello Reuter.
Per tutte queste ragioni, l’impresa risulta comunque impoverita perché si regge su fragili
fondamenta di illegalità, mentre risulta alimentato un circolo vizioso che deprime la
competitività e lo sviluppo del sistema affetto dall’infiltrazione criminale nelle sue attività
economiche. Si realizza, quindi, una forma di convivenza e di equilibrio che posiziona il
mercato lecito molto al di sotto delle proprie potenzialità.
Anche in questo caso, il futuro è un grande punto interrogativo.
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CAPITOLO III
APPENDICE STORICO-BIBLIOGRAFICA.
Quest’appendice storico-bibliografica raccoglie una piccola rassegna di recensioni sui più
recenti testi pubblicati sulle origini e sul volto moderno della criminalità organizzata.
‘Ndrangheta e Storia Criminale, di Enzo Ciconte.
Nata in sordina, per decenni accomunata superficialmente alla mafia siciliana o alla
camorra, senza neppure un nome proprio, la criminalità calabrese si è poi saputa
distinguere per avere al centro della sua esistenza un perno: la coincidenza di sangue fra
famiglia naturale e famiglia mafiosa.
Si tratta di un nucleo originario che le ha assicurato stabilità ed impermeabilità al
fenomeno del pentitismo: anche i matrimoni e gli apparentamenti sono stati per decenni
delle scelte di alta valenza strategica per il “perpetuarsi della specie”.
C’è il sangue alla base di tutto: quello che lega le madri ai figli, quello che si versa
simbolicamente durante il rito di affiliazione, quello con cui si lava e si ripara l’onore leso,
si regolano i conti, si eliminano gli “scomodi” e si esercita la deterrenza verso qualunque
possibile concorrente.
Lo sguardo dello storico calabrese Enzo Ciconte14, nel libro ‘Ndrangheta (Prefazione di
Francesco Forgione), va ben oltre le accuse di arcaismo e tribalità come connotati
principali del fenomeno criminoso, in quanto egli rileva con acume che questa famiglia
mafiosa ha elaborato originali modalità di sopravvivenza, riuscendo a far convivere la
tradizione primigenia con slanci poderosi verso la modernità, grazie alla capacità di
cogliere ogni occasione d’affari e di proiettarsi a gran velocità nel business globale.
14 L’autore è uno storico calabrese, già deputato nella X legislatura, consulente presso la Commissione parlamentare antimafia dalla XIII alla XV legislatura (1997-2008). Presidente dell’Osservatorio tecnico-scientifico sulla sicurezza e la legalità della Regione Lazio, è stato docente presso le Università di Roma Tre e Bologna.
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L’autore fa molto di più: egli riparte dalle premesse di una terra sconosciuta e da una
mentalità difficile da esprimere, avviando così un percorso storico per rintracciare le
origini, anche etimologiche, del fenomeno criminale calabrese.
Nascono da lontano queste radici, da terre aspre, dimenticate, inospitali, periferiche e
diventano in pochi decenni delle forze occulte di straordinaria potenza e modernità, con
cellule di emigranti installate in tutti i centri nevralgici del pianeta, nel cuore pulsante degli
affari.
Quella della ‘ndrangheta è un’origine avvolta nel mito di una favola fondante, riccamente
simbolica: la storia dei tre cavalieri (spagnoli?) di nome Osso, Mastrosso e Carcagnosso.
Le lancette del tempo scorrono e siamo nel Settecento preunitario, quando incontriamo gli
oziosi “spanzati”, gente prepotente che disprezza e si fa beffe della giustizia, gente rimasta
impunita. Dal progressivo smantellamento della feudalità nasce una folta classe di
“bricconi”, pronti ad intrecciarsi con gli interessi dei ceti emergenti.
Dopo l’Unità d’Italia iniziano a comparire come bubboni sempre più diffusi i gruppi di quelli
che, prima del conio del termine ‘ndrangheta, erano detti genericamente “camorristi”.
L’autore sottolinea come non ci sia stato un grande interesse storico-scientifico
nell’analizzare il fenomeno, perché prevaleva l’idea che si trattasse di una mafia
esclusivamente legata ad un ambiente pastorale. «Insomma, una criminalità stracciona,
senza futuro, popolata di pezzenti».
La minuzia descrittiva non si disperde e dimostra grande tenuta nella narrazione di un
fenomeno che sta sempre sul labile confine fra realtà e leggenda d’altri tempi. I dettagli
sono pertinenti ed adducono prove, aggiungono informazioni preziose per costruire un
quadro di comprensione che sappia cogliere mutamenti e caratteri di continuità nelle
logiche perverse della ‘ndrangheta: dalle origini alla definizione, passando per etimologia,
stralci di confessioni, racconti mitici, elementi di successo e sintomi di cambiamento
strutturale per reggere al trascorrere del tempo, al mutare della società e dei suoi valori.
Sono pagine popolate da una moltitudine di nomi, località, rituali sinistri e fascinosi, ma il
tutto è funzionale per capire di cosa si sta parlando, e di chi. Quest’ultimo aspetto, forse, è
l’elemento più interessante e ricco di spunti, dal momento che riflette l’importanza della
questione personale e familiare nella logica di sopravvivenza e successo della
‘ndrangheta.
C’è tutto un mondo nato all’ombra della miseria rurale, sulla scorta di secolari battaglie
antifeudali: una lotta aspra come il territorio montuoso, a tratti impraticabile; un misto di
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sentimenti congestionati nell’uso improprio della violenza, strumento usato a presidio dei
valori d’onore, rispetto, promozione sociale e conquista del potere.
Nelle pieghe della Storia si rintracciano la superficialità delle istituzioni, la loro
intempestività nel riconoscere la pericolosità dalla ‘ndrangheta ed un lassismo nella
repressione che le hanno offerto su un piatto d’argento la possibilità di proliferare
indisturbata.
Nel testo sono compendiate tutte le tendenze evolutive e i fatti principali che hanno
contraddistinto decenni di storia della ‘ndrangheta: la prospettiva è quella di uno sguardo a
volo d’uccello sulle questioni rilevanti, sui personaggi più carismatici e significativi, sugli
affari e sui rapporti con la massoneria deviata, con la politica e con ogni settore
dell’economia, soprattutto nel campo degli appalti edilizi ed industriali.
Vi è poi un rapporto, ben sottolineato dall’autore in più punti del testo, di contraddizione
eppure serbatoio efficace di simbolismo tra la ‘ndrangheta e la fede cattolica: santini,
riunioni presso il celebre Santuario della Madonna di Polsi nel cuore dell’Aspromonte,
rituali di battesimo all’atto di affiliazione ma anche in occasione di avanzamenti di grado
nella ferrea gerarchia mafiosa.
Come non bastasse, in anni più vicini a noi, si è aperta la lunga stagione del massiccio
intervento statale tramite la spesa pubblica: flussi finanziari di incalcolabile portata sono
giunti nelle casse calabresi, ma non è accaduto nulla di neanche lontanamente
paragonabile all’innesco di un circolo virtuoso di sviluppo economico sostenibile. Sono lì a
dimostrarlo alcuni segni della violenza inflitta al territorio con l’edificazione di improbabili
poli industriali, due su tutti: il quinto centro siderurgico di Gioia Tauro e la centrale a
carbone di Saline Joniche.
Fatale per la politica ma prospero per la ‘ndrangheta è stato, infatti, l’incontro delle due: un
sodalizio che con il tempo è divenuto sempre più inestricabile, senza un chiaro confine,
senza una netta linea di demarcazione che potesse rendere la “cosa pubblica” immune e
pulita da certe contaminazioni. Auspicio del tutto irrealizzabile, visto che tra le ossessioni
della ‘ndrangheta c’è sempre stata la conquista elettorale, il condizionamento con ogni
mezzo della volontà politica dei cittadini.
Monografia asciutta, che si legge con speditezza e che ha il valore della sintesi, ma anche
dell’aggiornamento nei confronti di fatti risalenti a pochi mesi fa, tutti in corso di
approfondimento, eppure già rivelatori di cambiamenti strutturali interni alla ‘ndrangheta.
Si tratta di quei buoni colpi assestati dalle forze dell’ordine ed inquirenti verso latitanze
eccellenti, che offrono l’opportunità di ricavare nuove informazioni ed aprire così orizzonti
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inattesi su quella che, negli anni, è riuscita a consolidarsi come la forma di criminalità
organizzata più affidabile, forte e radicata del pianeta.
L’ampiezza dell’approfondimento storico e la comparazione ricca d’analisi e confronti si
ritrovano, invece, nell’altro volume pubblicato da Enzo Ciconte, sempre nel 2008: parliamo
di Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai
giorni nostri.
In questo lavoro ciclopico, il professor Ciconte si assume l’onere di impostare finalmente in
modo nuovo l’analisi del fenomeno mafioso, secondo un approccio onnicomprensivo:
s’incrociano percorsi storici, raffronti, s’accende un intenso dibattito ideologico e non si
tralascia di avventurarsi sul pericoloso terreno dei rapporti con lo stato, l’economia e la
chiesa.
Discutiamo di metodo. Già, perché l’autore rileva una condivisibile frammentarietà negli
studi sulla criminalità che si sono succeduti sino ad oggi: ogni libro, ogni saggio, persino
ogni film o “fiction”, hanno pur sempre adottato un punto di vista parziale, focalizzando di
volta in volta l’attenzione su uno solo degli aspetti cruciali che caratterizzano le varie mafie
italiane. Viceversa, non è possibile scorgere nel panorama delle ricerche storiche o
sociologiche nulla di completo ed incline ai paragoni per rintracciare similitudini e
divergenze.
Non è un caso, infatti, che la grafica di copertina riporti l’immagine di Cerbero, il mitico
cane a tre teste, proprio per rappresentare che mafia, ‘ndrangheta e camorra sono del pari
aggressive, fameliche e violente. Il corpo unico ne indica, invece, l’origine comune ed
alcuni elementi tipici, patrimonio genetico delle tre organizzazioni criminali.
C’è uno snodo dal quale l’autore prende le mosse per dipingere un affresco della
“resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri”, vale a
dire il momento in cui il banditismo, il brigantaggio e la criminalità individuale mercenaria
subiscono un’importante mutazione e si organizzano.
«Nella fase che si lasciava alle spalle il periodo feudale e che segnava l’inizio della
trionfale ascesa dell’egemonia borghese e dello sviluppo capitalistico, mutava lo scenario
della criminalità nel senso che per la prima volta nella storia d’Italia gruppi di uomini si
organizzavano e decidevano non solo di agire contro le leggi usando la violenza, ma
soprattutto di farsi proprie leggi, creare associazioni, forme organizzative, strutture stabili,
organismi in grado di durare nel tempo inventando ed elaborando linguaggi, modi di
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pensare, valori, una visione della vita e dei rapporti con gli altri, persone o istituzioni che
fossero».
Lo studioso ricostruisce l’ahimé lunga storia criminale italiana a partire dallo
smantellamento della feudalità e dal dinamismo sociale introdotto dalla borghesia
capitalistica emergente. In questo agitarsi di retaggi baronali duri a soccombere, con la
contrapposizione delle nuove forze che si stavano affrancando dal torpore feudale, non
poteva non annidarsi il seme del conflitto sociale, costituendo un terreno di coltura
particolarmente fertile per il proliferare della criminalità.
L’uso privato della violenza per mano borghese si pose come strumento per la conquista
del potere: la nuova proprietà terriera aveva bisogno d’imporsi sulla scena socio-
economica e questo rese «possibile la formazione di autonomi e organizzati agglomerati
criminali».
Tuttavia, non può parlarsi della violenza esclusivamente come mercanzia offerta dai
criminali, in quanto il connotato dell’organizzazione richiede una struttura che poggi su
basi ideologiche ed un patrimonio valoriale coesivo, condiviso dai suoi appartenenti: alla
nascita delle mafie contribuisce un’intera cultura, il che le rende forme organizzative
stabili, forti, impenetrabili e destinate a divenire durature.
Come nota giustamente Ciconte, «è difficile pensare che quel fenomeno che si sarebbe
poi chiamato mafia potesse essersi formato dall’oggi al domani, come d’incanto; è lecito
pensare che dovesse avere alle spalle un lavorio di formazione lungo, pluridecennale, un
lento processo di incubazione».
È il carattere di permanenza nel tempo dell’associazione criminale a destare sorpresa: si
decideva di costituirsi in gruppi organizzati per dedicarsi alle attività illecite “a tempo
indeterminato”, producendo addirittura regole e linee-guida, come le chiameremmo oggi.
La “mafia” eleva socialmente e conferisce uno status più prestigioso, consolida le posizioni
già alte e crea attorno a sé un consenso funzionale al suo perpetuarsi, con un ricorso alla
violenza solo in casi estremi.
Nell’Ottocento è frequentissimo che i capi svolgano ruoli di pacificazione sociale e
mediazione dei conflitti: la struttura si va stratificando con ruoli precisi, gerarchie e
divisione dei compiti.
Ancora un passo del testo, ci aiuterà a riassumere tutti i cambiamenti sostanziali
intervenuti all’interno di questa emergente realtà criminale: «che fosse maturato qualcosa
che si potrebbe definire un progetto impegnativo lo dimostravano: l’elaborazione e l’uso
dei codici; il ricorso frequente ai rituali; la ricerca di una mitologia in grado di giustificare le
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loro azioni e di attrarre nuovi adepti; la struttura gerarchica entro la quale ognuno
occupava un posto ben preciso e svolgeva un compito particolare; l’occupazione
permanente, non più transitoria del territorio; le relazioni con poteri politici e istituzionali; la
formazione di quadri criminali che avevano caratteristiche sia militari sia “politiche” […] in
grado cioè di influenzare con la forza e con la mediazione».
Fra simbologie e rituali, lo storico calabrese non manca di includere la pratica di tatuarsi
per ostentare la forza dell’appartenenza alla “casta” mafiosa, nonché il ruolo di
omogeneizzazione dei metodi e fucina per lo scambio di idee svolto dalla vita in carcere.
In generale, tutte le occasioni d’incontro e di permanenza in un luogo, potevano costituire
momenti di socializzazione criminale e diffusione del fenomeno.
La suggestione cresce man mano che si pone attenzione ai rituali e ai codici recanti
giuramenti e complesse procedure di affiliazione e passaggi di grado: tutto avvolto nel
simbolismo, in una mitologia difficile da decodificare che nella sua incomprensibilità ha
accresciuto il suo prestigio e ha suscitato maggiore rispetto.
D’altronde, questo è antropologicamente noto, ciò che non si afferra in pieno esercita un
fascino esoterico irresistibile, che l’autore non manca di descrivere accuratamente, con
speciale attenzione nel distinguere i rituali di mafia, ‘ndrangheta e camorra.
Sulla mafia si sono spese definizioni e polemiche d’ogni sorta nel corso di oltre un secolo:
dibattiti senza esclusione di colpi tra giornalisti, istituzioni, studiosi del fenomeno per dire
se c’è, cos’è e come agisce la mafia.
È molto interessante, invece, riflettere sugli assetti organizzativi adottati dalle varie mafie
nel meridione d’Italia e l’autore non manca di ricostruire con perizia tre fatti principali: in
Sicilia le varie associazioni hanno raggiunto l’equilibrio attraverso una struttura gerarchica
molto precisa ed una suddivisione quasi scientifica del territorio in zone di competenza,
come intuito e ben descritto dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi sul finire
dell’Ottocento.
Il secondo fatto rilevante riguarda l’organizzazione della ‘ndrangheta calabrese: qui la
struttura è vasta e ramificata, costituita sulla base delle ‘ndrine. «Queste ‘ndrine erano in
rapporti tra di loro, ma non c’era un capo che governava quella galassia di criminali perché
sin dalle origini la ‘ndrangheta ha avuto le caratteristiche di un’organizzazione familiare
che governava un determinato territorio».
Funzionò così almeno fino a quando non intervenne, nel 1991, una ristrutturazione ed una
pacificazione che pose fine alla faida sorta con l’omicidio di Paolo De Stefano: «la pace
portò ad un accordo tra tutte le principali cosche che ebbe l’effetto di dare vita ad una
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moderna e più funzionale spartizione degli affari e del territorio. Nacque la ‘ndrangheta
federata».
L’ingresso della ‘ndrangheta nella logge massoniche deviate e la costituzione della “Santa”
furono anch’essi passaggi strategici di un percorso di strutturazione attraverso il quale si
poteva venire in contatto con magistrati, uomini politici, imprenditori, forze dell’ordine ed
altri professionisti.
In terzo luogo, la camorra: questa è sempre stata “polverizzata” in un universo
frammentario di clan privi di un coordinamento centrale.
In ogni caso, però, non c’è organizzazione che tenga quando sulle mafie si abbatte il
flagello dei collaboratori di giustizia, gli unici in grado di sciogliere dubbi investigativi e di
fornire descrizioni circostanziate dell’azione mafiosa. Collaborazione, quella dei testimoni
di giustizia, dalla quale è risultata pressoché immune la ‘ndrangheta in forza della sua
struttura familiare che rende ben più difficile la via del pentimento e della denuncia.
In anni più moderni, particolarmente nel Secondo dopoguerra, sono intervenuti dei
cambiamenti strutturali significativi nelle organizzazioni mafiose e nei loro interessi:
l’ingente iniezione di denaro pubblico come investimento per lo sviluppo economico
meridionale attrasse fatalmente gli occhi e le mani cupide delle mafie, in special modo nel
settore degli appalti per le grandi opere infrastrutturali.
I metodi subirono un’evoluzione, passando dalla parassitaria riscossione del “pizzo” nei
confronti delle grandi imprese appaltatrici ad un’azione propria e diretta della mafia in
campo economico. Era nata la “mafia imprenditrice”, categoria criminologica di arlacchiana
paternità: le cosche intuirono che sarebbe stato molto più redditizio pilotare le offerte negli
appalti pubblici, intervenire con mezzi propri ed assicurare l’equità con sistemi di
turnazione dei vincitori, grazie a ribassi d’asta concordati.
In questo modo, attraverso la tecnica dei subappalti, nessuna aspettativa andava disattesa
e si manteneva il controllo di un settore capace di drenare incalcolabili flussi di denaro
pubblico direttamente nelle casse mafiose, grazie anche ad un sempre più conveniente,
stretto sodalizio con il mondo politico.
Dai lavori pubblici alla sanità, vista la medesima abbondanza di finanziamenti pubblici, il
passo era breve.
La storia criminale è al contempo Storia e Geografia: essa s’intreccia con la storia
dell’emigrazione, con la storia economica, con la storia della religione, con la storia della
globalizzazione e della nuova mobilità di soggetti e capitali. Pertanto, l’analisi va condotta
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senza soluzione di continuità, con un approccio al fenomeno che lo inquadri in un sistema
ancor più ampio e complesso, del quale costituisce una forza potentissima, non ignorabile.
Solo tenendo mente a queste direttrici fondamentali risulta più comprensibile l’espansione
territoriale di cui ha potuto fruire la criminalità, che si è insinuata nelle rotte mercantili di
tutto il pianeta (il commercio è più importante della stessa imprenditoria per la mafia, a
conferma del suo parassitismo e della sua predatorietà), che ha sparso le proprie spore
ovunque e che si è introdotta nei quartieri degli immigrati meridionali al Centro-Nord,
aggravandone – incurante – la ghettizzazione e le difficoltà d’integrazione. A questo
proposito, Ciconte rileva inequivocabilmente che «ci fu un ritardo, anche di tipo culturale,
nel comprendere quanto stava accadendo al Nord dove nel silenzio e nell’assoluta
indifferenza si stavano costituendo robusti insediamenti mafiosi».
Infatti, «bisognerà attendere il 1994, quasi a conclusione della Commissione presieduta da
Luciano Violante, per avere la prima organica relazione sulla presenza mafiosa nelle aree
non tradizionali firmata dal senatore Carlo Smuraglia, il che dà l’idea delle difficoltà di
analisi della progressione territoriale delle mafie».
La parte più consistente dell’intero libro è quella tesa a tracciare il profilo dei complessi
rapporti storicamente intercorsi tra le mafie, lo stato, la politica e l’economia. Anche in
questo frangente bisogna risalire alle origini del fenomeno criminale e ripercorrere le
stanze del tempo per individuare l’evoluzione delle “frequentazioni” avute con le forze
dell’ordine prima e con gli esponenti politici poi, in un sodalizio che ha messo alle corde la
democrazia e la trasparenza delle istituzioni.
La partita si gioca tutta sul terreno del potere: monarchico, repubblicano, liberale o
conservatore che sia, quando il potere è appannato, in difficoltà, messo in discussione,
non può fare altro che rivolgersi ai “servigi” offerti dai mafiosi, alleandosi con i criminali e
tollerandone un aumento di prestigio e peso politico. Assecondare l’idea che per il
mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza a livello locale fosse più efficace un
intervento mafioso e non quello delle forze di polizia, si è tradotto in una «cogestione tra
mafia e potere pubblico, tra potere illegale e potere legale».
«Un altro osservatorio particolarmente significativo del rapporto tra fenomeno mafioso e
pubblici poteri è quanto si andava determinando nelle amministrazioni comunali. Dopo
l’unità, la lotta per la conquista del potere locale nei comuni diventò aspra e i giochi politici
spietati».
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Si rileva un progressivo assottigliamento degli spazi pubblici, in favore di una visione
privatistica e di puro interesse personale, tramite una gestione edonistica del potere da
parte delle organizzazioni mafiose.
L’enfasi fascista e l’enorme dispiegamento di forze per la repressione del fenomeno
mafioso si dimostrarono ben presto per quel che erano: un gigante dai piedi d’argilla che
riuscì a colpire solo in minima parte le ali militari e più violente delle organizzazioni
criminali, lasciandone intatti il potere e le gerarchie.
Come abbiamo già rilevato per la questione degli appalti di lavori pubblici, anche per gli
assetti strutturali si delineano novità di svolta solo a partire dagli anni Cinquanta e
Sessanta: in seguito al boom economico, la nuova corsa al capitalismo ha aperto spazi
sempre più ampi per l’infiltrazione mafiosa persino nel mondo dell’alta finanza, al fine di
riciclare le cospicue fortune ormai accumulate come capitale originario.
Il dinamismo della criminalità è la nota più interessante tra tutte le peculiarità del
fenomeno: si scopre una capacità unica di tenere insieme il passato, il presente e il futuro
negli affari, nelle tecniche operative e nei contatti “giusti” con il mondo che conta.
È nelle ultime pagine, infine, che ritroviamo un racconto lineare e ben coordinato delle
vicende più recenti, quelle che negli scorsi venti anni sono state protagoniste della
cronaca giudiziaria e soprattutto mediatica: pagine di storia ancora da scrivere, il cui
seguito è atteso da tutti quanti hanno scelto di credere nell’utopia dello storico Francesco
Renda per “liberare l’Italia dalle mafie”, ben consapevoli che si tratta di un processo lungo,
un cammino difficile dall’esito non prevedibile.
Con tutta la folla di personaggi ed episodi che animano questa “storia criminale”, il libro si
legge con la stessa curiosità e passione di un romanzo, se non fosse che poi bisogna
svegliarsi dall’incanto e prendere nota che si tratta della realtà. Nient’altro, purtroppo, che
cruda realtà. Ancora oggi.
Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di domini o della camorra ,
di Roberto Saviano.
Gomorra, la biblica città del peccato, una bolgia infernale di nefandezze. Ed è proprio
quello che emerge dal testo di Roberto Saviano, pluripremiato e tradotto in pellicola filmica
a tempo di record, palma d’oro a Cannes compresa.
Con il pregio di aver scelto un nome dalla sonorità quasi tenebrosa, molto vicina
all’universo di “camorra” che descrive. Simbolica, viscerale, teatrale, come solo la
criminalità campana sa essere.
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Lo hanno definito sconvolgente perché adopera metafore crude, che descrivono immagini
raccapriccianti, di una violenza inaudita. Sconvolgente sarebbe anche il coraggio di
avventurarsi in un terreno così difficile e irto di pericoli.
Ad essere critici fino in fondo – ed anche un po’ maligni – si dovrebbe rilevare che il
linguaggio e la spettacolarizzazione sono lo specchio dell’intero modo di comunicare di
oggi: il voyeurismo impera e allora tutti si cimentano nel produrre immagini e
stigmatizzazioni. Anche la camorra ha bisogno di alimentare il suo “mito” e fabbrica
simboli/ atteggiamenti da dare in pasto al pubblico.
La prima cruda realtà con cui si confronta il lettore sono i sodalizi tra la malavita campana
e quella cinese, ovvero un mondo d’affari fondato sui falsi, sullo sfruttamento del lavoro,
sull’immigrazione clandestina. È un nuovo modo di fare economia, illegale ovviamente:
un’impressionante ramificazione geografica in tutto il mondo di prodotti falsi, manipolati nei
sottoscala più reconditi di paesi e paesini campani a corona di Napoli.
Meccanismi contorti, intricati, scatole cinesi che servono a disperdere legami, collegamenti
e responsabilità. Richiedono lavori lunghi e certosina pazienza investigativa da parte delle
forze di polizia. E intanto proliferano come cellule di metastasi tumorali.
Le rotte del commercio internazionale aprono inattesi canali di scambio: sull’onda dei
jeans e delle borsette false non diventa poi così difficile imbattersi in traffici di droga e
quant’altro.
La flessibilità della camorra è la risposta alla necessità delle imprese di far muovere
capitale, di fondare e chiudere società, di far circolare danaro e di investire con agilità in
immobili senza l’eccessivo peso della scelta territoriale o della mediazione politica.
Le aziende dei clan hanno determinato piani regolatori, si sono infiltrate nelle ASL, hanno
acquistato terreni un attimo prima che fossero resi edificabili e poi costruito in subappalto
centri commerciali, hanno imposto feste patronali e le proprie imprese multiservice, dalle
mense alle ditte di pulizia, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti. Mai si era avuta una così
grande e schiacciante presenza degli affari criminali nella vita economica di un territorio
come negli ultimi dieci anni in Campania.
Al potere i clan di camorra giungono attraverso l’impero dei loro affari. E questa è
condizione sufficiente per dominare su tutto il resto.
Il Sistema era riuscito anche a trasformare la classica estorsione e le logiche d’usura.
Compresero che i commercianti avevano bisogno di liquidità, che le banche erano sempre
più rigide e s’inserirono nel rapporto tra fornitori e negozianti.
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I clan non sono come le banche che rispondono al debito arraffando tutto, il bene lo
utilizzano lasciando che ci lavorino le persone con esperienza che hanno perso la
proprietà.
È assai emblematico riflettere sul “come” la camorra percepisce e autodefinisce la propria
differenza rispetto ad altre forme di criminalità organizzata: non esiste il paradigma Stato-
antiStato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari: con, attraverso e senza lo Stato.
Imprenditori. Così si definiscono i camorristi del casertano: null’altro che imprenditori. Un
clan formato da aziendalisti violenti, manager killer, da edili e proprietari terrieri. Ognuno
con le proprie bande armate, consorziati tra loro con interessi in ogni ambito economico.
Il testo è una fotografia dettagliata e ben ricostruita della potenza camorristica e
dell’efferatezza dei suoi “metodi”: la scia di sangue che questa criminalità ha sparso è
interminabile.
Emerge con chiarezza una sua caratteristica distintiva: ci sono ramificazioni camorristiche
in ogni settore economico, con modalità organizzative volte alla massimizzazione del
profitto, con metodi spregiudicati, se necessario.
C’è anche una grande partecipazione femminile nel cuore degli affari e molta attenzione è
sempre riservata all’immagine, alle notizie che trapelano, agli scoop scandalistici.
S’indossano gli abiti tessuti e falsificati dalla camorra, si sniffa la cocaina smerciata dalla
camorra, si edifica col cemento della camorra, si leggono le notizie e le reciproche
diffamazioni suggerite dai clan… nessun settore è trascurato, nessun affare resta troppo a
lungo libero dall’infiltrazione imprenditoriale camorristica.
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CAPITOLO IV
La costruzione delle mappe di “rischio criminalità” nell’economia.
Premessa.
A questo punto del lavoro di ricerca, si è posta la necessità di operare una scelta:
permanere nel campo della sola teoria, lavorando attraverso il filtro di categorie generali e
modelli astratti, oppure tentare di “leggere” la realtà attraverso tali strumenti concettuali e
verificarne il potere di comprensione/ descrizione dei fenomeni.
Nel tentativo di rintracciare una risposta esaustiva e coerente, è nata una nuova
metodologia d’analisi che potremmo definire “preventiva” e che – in estrema sintesi –
consiste nell’individuare e proteggere alcuni settori, o singole attività economiche, persino
PRIMA che diventino oggetto delle mire da parte della criminalità organizzata.
La cautela è d’obbligo nell’impostare il discorso in questi termini perché l’obiettivo non è
quello di introdurre surrettiziamente un “tribunale dell’inquisizione” nei confronti della
libertà economica. Si tratta, più opportunamente, di fare un passo in avanti nelle
acquisizioni raggiunte fino ad oggi.
Vediamo in che modo.
Finora, grazie alle inchieste giudiziarie e alle indagini di polizia, è stato possibile ricostruire
ed elaborare alcuni dei passaggi fondamentali che conducono all’infiltrazione della
criminalità organizzata nelle attività economiche lecite, ostacolando lo sviluppo del
territorio.
Dalla pregressa rassegna di letteratura abbiamo potuto apprezzare in dettaglio come
agiscono tali meccanismi. Tuttavia, nella mente del ricercatore persiste un forte senso di
insoddisfazione. La ragione è facilmente intuibile: non si può essere del tutto contenti
quando si arriva sempre “dopo”.
La molla che stimola la ricerca è proprio l’insufficienza di un metodo che consente solo
un’analisi ex-post e quasi mai ex-ante del “rischio criminalità” rispetto all’economia.
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L’obiettivo, dunque, diventa questo: come mettere a frutto il bagaglio di know-how fin qui
accumulato.
Lo sforzo metodologico è ora quello di estrapolare ogni singolo settore economico
presente sul territorio e svilupparne un’analisi di contesto, legata al rapporto con il mercato
e alla presenza della criminalità organizzata.
4.1 Introduzione del metodo “preventivo” grazie all ’analisi di contesto.
Nell’attuale scenario degli studi condotti in materia di criminalità organizzata infiltrata nelle
attività economiche lecite, si segnalano due orientamenti principali e complementari:
1. l’analisi dei costi della sicurezza , con l’obiettivo di individuare le sacche di spreco
ed inefficienza, per progettare delle politiche ritagliate “su misura” rispetto alle
esigenze del territorio in base all’esatta conoscenza delle forme di criminalità ivi
esistenti;
2. l’elaborazione di misure preventive sulla base di indicatori di rischio per
quantificare e prioritizzare le possibilità di infiltrazione criminale nelle attività
economiche.
In entrambi i casi, come si può notare, lo step prodromico alle valutazioni di costo e di
rischio, in vista di migliori allocazioni delle risorse strategiche in funzione anti-crimine,
consiste nella conoscenza analitica e approfondita delle caratteristiche del territorio in
relazione ad una miriade di parametri, quali ad esempio:
- indicatori socio-economici;
- indici di delittuosità per tipologia di reato;
- dati demografici e di disgregazione sociale;
- storia criminale dell’area;
- presenza delle Forze di Polizia, ecc.
L’obiettivo è quello di superare i limiti di eccessiva sintesi e mancata indicazione delle
priorità che si riscontrano nell’analisi SWOT (Strength, Weaknesses, Opportunities,
Threats).
Il “nuovo” metodo si dipana in queste fasi successive:
a) definire i concetti principali relativi al settore considerato;
b) definire dove e come può verificarsi l’infiltrazione criminale, scomponendo l’attività
economica in una serie di fasi e sequenze successive;
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c) eseguire un’analisi di contesto che coinvolga le modalità di intervento pubblico e
tutte le caratterizzazioni territoriali;
d) eseguire un’analisi dei singoli casi concreti, compilando una sorte di scheda che
riassuma il luogo ed il periodo di svolgimento dei fatti, il caso ed i soggetti coinvolti,
quindi la sequenza di tutte le vicende rilevanti.
Una volta che sia stata sviluppata ed approfondita questa forma di conoscenza del
territorio, ci si trova in possesso degli strumenti necessari per incidere sul fattore tempo:
da qui nasce l’importanza di poter PRE-VEDERE le possibili evoluzioni criminali,
costruendo una sorta di “software meteorologico” che sia in grado di simulare i futuri esiti
di una penetrazione mafiosa nelle attività economiche lecite.
L’analisi “orizzontale” di questi fattori di rischio ne individua tre livelli di ampiezza diversi:
1. fattori di contesto legati all’ambiente criminale;
2. fattori legati al mercato di riferimento, cioè all’attività considerata (procedure,
leggi, vulnerabilità, ecc);
3. fattori legati al singolo intervento , ossia tutte quelle specifiche situazioni che si
sono verificate in rapporto al singolo caso o ai soggetti coinvolti.
Venendo ora a “scomporre” i fattori di rischio legati al contesto, al mercato e ai singoli
interventi in sub-voci specifiche, otteniamo una corrispondenza con i loro possibili effetti.
� L’alta presenza di organizzazioni criminali si traduce in una diffusa situazione di
omertà ed intricate “zone grigie” di connivenza con la società civile, realizzando un
controllo diretto e sistematico del territorio.
� Quando la criminalità organizzata riesce a mimetizzarsi senza destare allarme, ciò
le consente di condurre indisturbata i propri affari lungo canali paralleli di gestione
dell’economia.
� L’alta incidenza di una tipologia di reato in un determinato territorio contribuisce a
creare un ambiente favorevole perché mostra le sue vulnerabilità e continua ad
essere un terreno fertile per le varie “mafie”.
� Rispetto al mercato considerato, bisogna guardare alla trasparenza delle
procedure, ai margini di discrezionalità, all’effettiva contendibilità del mercato, al
grado di concorrenza e alla complessità dell’attività economica in causa (più è
unskilled labour intensive, più è vulnerabile).
� Con riferimento allo studio dei singoli casi sarà, infine, possibile evidenziare le varie
forme di condizionamento mafioso delle attività economiche. Esse consisteranno in:
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estorsioni, pagamento di tangenti, assunzione imposta di personale, obbligo di
rapporti con aziende mafiose o “gradite” ai clan, rapporti societari di controllo ed
influenza dominante, impiego di prestanome in appoggio alle attività di riciclaggio e
affidamento dei lavori, ecc.
Questa tecnica di scomposizione e di analisi “punto per punto” parte dal presupposto
razionale che dai comportamenti pregressi si possono ricavare delle linee di tendenza per
le possibili azioni future, quasi come nello svolgimento di un copione o di un clichè.
Il metodo degli script si basa sull’assunto fondamentale che la conoscenza del
comportamento umano deriva dalla comprensione dei suoi processi. Lo script è il copione
e consiste nella scomposizione di un fenomeno criminale in una sequenza di eventi o
scene correlati fra loro da rapporti di tipo causa-effetto oppure strumentale, ossia
funzionale al perseguimento di un altro obiettivo.
La scomposizione sequenziale, quindi, consente di comprendere ogni singola fase o
meccanismo delle modalità esecutive del fenomeno.
L’avvertenza fondamentale nell’utilizzo di questo metodo, però, riguarda il fatto che lo
script è un concetto flessibile in quanto non risponde necessariamente ad un
comportamento stereotipico. Si adatta e dipende da una serie di fattori:
a) il contesto,
b) il livello di complessità del progetto,
c) i mezzi a disposizione,
d) le circostanze ambientali (eventi imprevisti a favore/sfavore,
alternative praticabili o meno…).
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Nel grafico abbiamo riportato gli elementi essenziali del metodo preventivo, connettendoli
in base alle loro relazioni logico-funzionali. Il punto di partenza – che raccoglie il
suggerimento del Prof. C. Fijnaut (v. ante) – è lo studio dei casi, in quanto esso sarà
rivelatore delle dinamiche concrete di infiltrazione criminale all’interno delle attività
economiche.
Il caso, com’è logico attendersi, non è avulso dal contesto all’interno del quale si svolge,
anzi vi è legato da un rapporto bi-direzionale: il singolo intervento si verifica in
corrispondenza di uno specifico contesto e quest’ultimo, a sua volta, influenza in maniera
determinante le dinamiche concrete.
Il metodo per intervenire sul contesto e, quindi, sul caso concreto, consiste nell’analisi
orizzontale dei fattori di rischio (ricordiamo: contesto, mercato, singolo caso).
All’interno del caso esaminato sarà poi possibile osservare e rilevare le manifestazioni del
comportamento criminale. Lo strumento d’analisi che utilizzeremo per giungere alla
comprensione di tale processo è il metodo degli script che – come sappiamo – permette
di scomporre i meccanismi operativi criminali in sequenze comportamentali obbedienti ad
un copione.
OBIETTIVO: prevedere = individuare i meccanismi operativi ai quali obbedisce il comportamento criminale.
COME? Osservando il comportamento nel caso concreto.
ESAME DEL CASO
CONCRETO
CONTESTO
ANALISI DEI FATTORI DI
RISCHIO
MANIFESTAZIONI DI COMPORTAMENTO
CRIMINALE
METODO DEGLI
SCRIPT (sequenza di scene/ copione)
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Il processo inizia con l’analisi (1) di tutti i fattori di rischio presenti sul territorio rispetto al
tipo di mercato in esame, anche grazie alla memoria storica delle esperienze
precedentemente registrate. Dall’analisi si ricavano utili elementi di previsione (2) per i
futuri comportamenti criminali – compresi tutti i possibili effetti che ogni fattore di rischio
produce – al fine di centrare l’obiettivo (3) e mettere a punto delle azioni di prevenzione,
ovvero ricavare delle indicazioni di policy pertinenti.
L’anello finale, il feed-back (4), consente un monitoraggio continuo delle azioni intraprese,
dei risultati che esse determinano e permette di apportare dei rapidi adattamenti o delle
correzioni.
LLaa mmeettooddoollooggiiaa pprreevveenntt iivvaa ccoommee pprroocceessssoo ddii ccoonnoosscceennzzaa ee mmiinniieerraa ddii iinnddiiccaazziioonnii ddii ppooll iiccyy
1) ANALISI
2) PREVISIONE
3) OBIETTIVO 4) FEED-BACK
70
La metodologia preventiva con il supporto del “case study”
CONCETTI PRELIMINARI = escursione dei concetti principali rispetto al settore economico considerato
CONTESTO = allargamento dello spettro visivo: geografia, parametri socio-economici, ambiente criminale, vulnerabilità del sistema normativo e di sicurezza
TECNICHE DI INFILTRAZIONE = esame step by step dei casi concreti per individuare le fasi e le modalità con cui avviene l’infiltrazione della criminalità organizzata
••ANALISI ORIZZONTALE DEI FATTORI DI RISCHIO ANALISI ORIZZONTALE DEI FATTORI DI RISCHIO
••METODO DEGLI SCRIPT METODO DEGLI SCRIPT
•TERRITORIO WHERE •PERIODO WHEN •CONTESTO WHY/ HOW •SINGOLO CASO WHAT •SOGGETTI COINVOLTI WHO
71
CAPITOLO V
Case study : il porto di Gioia Tauro.
Premessa.
In questo capitolo ci addentreremo nel cuore applicativo del metodo di analisi preventiva
illustrato in precedenza.
Il case study che esamineremo è l’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia
portuale di Gioia Tauro. Prima di giungere al nocciolo dell’analisi, procederemo attraverso
dei “gusci”: in prima battuta, vedremo le condizioni economiche generali dell’intera regione
calabrese. Nel secondo passaggio ci avvicineremo all’area della Piana di Gioia Tauro
poiché costituisce il retroterra portuale ed infine giungeremo al terminal commerciale.
A questo punto, l’analisi diventerà più complessa e approfondita: inquadreremo il mercato
della logistica e le sue criticità prima in generale, con riferimento all’Italia, quindi vedremo
le peculiarità che assume nel porto di Gioia Tauro.
Solo dopo che avremo raggiunto una certa consapevolezza riguardo alla portata delle
problematiche dell’area portuale dal punto di vista dello sviluppo, della concorrenza degli
altri operatori mediterranei, del volume di affari gigantesco che vi ruota attorno e delle
potenzialità espansive del mercato, muteremo prospettiva e potremo introdurre le
questioni relative alla sicurezza nel porto dal punto di vista dell’infiltrazione criminale.
L’analisi del porto di Gioia Tauro ha storicamente “oscillato” tra eventi di sola cronaca
criminale oppure progetti di sviluppo economico ed investimenti per il potenziamento delle
sue attività. Viceversa, l’aspetto cruciale dell’analisi deve riguardare una sorta di
“interpolazione” tra due vicende così strettamente connesse: il porto di Gioia Tauro
rappresenta, in questo senso, una sorta di osservatorio privilegiato in cui rilevare le
diverse forme di commistione tra ‘ndrangheta ed attività economiche lecite.
Solo tenendo conto di questa doverosa premessa, è possibile provare ad applicare il
metodo preventivo appena messo a punto per individuare i fattori di rischio legati alla
72
presenza criminale nelle attività economiche condotte all’interno dell’area “Piana di Gioia
Tauro”.
Nella parte che segue, svolgeremo un “two-step plan” tracciando un profilo analitico del
case study, per giungere infine alla compilazione della mappa di rischio sotto forma di
scheda sintetica. Con l’avvertenza che non vi è pretesa di completezza delle informazioni
e che, in ogni caso, bisogna sottoporre la scheda ad un aggiornamento periodico.
5.1 Analisi delle attività economiche in Calabria.
regione, la lentezza della trasformazione, il prevalere di segnali di stasi rispetto al
dinamismo necessario, sono connotati quasi “fisiologici”.
Il rischio di periferizzazione è molto alto se non si riacquista una forma di credibilità:
secondo la “teoria della storia e delle aspettative ” del Krugman, ad avere peso
determinante sono sia i comportamenti consolidati nel tempo, che le previsioni sui
vantaggi futuri che si possono ricavare dal mutamento di una data situazione iniziale.
La storia conta e anche le percezioni possono influenzare/orientare alcune dinamiche
economiche. Se tutto questo è vero, ben si comprende la preoccupazione in merito al
rischio di marginalizzazione corso dalla Calabria: la regione sta diventando il “Sud del
Sud ” in Italia e in Europa.
In Calabria sembra persino essersi esaurita la spinta propulsiva dei primi anni duemila,
quando i tassi di crescita erano superiori a quelli del Centro-Nord. Al momento attuale, i
gap strutturali sofferti dall’economia calabrese si sono consolidati, subendo una sorta di
cristallizzazione.
Rivolgendo lo sguardo alla Calabria si riscontra che la
debolezza del settore economico non permette di
raggiungere la massa critica nel livello delle variabili di
rottura per innescare un sano sviluppo, con ritmi di crescita
elevati, in grado di condurre rapidamente alla
convergenza con le altre regioni del Paese.
Sin dall’inizio del Novecento – e per tutti i decenni
successivi – la Calabria è stata destinataria di
provvedimenti legislativi ed economici straordinari
finalizzati all’industrializzazione ma la povertà relativa della
73
5.2 La situazione attuale: alcuni indicatori “macro ” dell’economia calabrese
5.2.1. Profili generali
A conclusione dell’esperienza cinquantennale della Cassa del Mezzogiorno, i settori che
garantiscono più occupazione sono oggi l’edilizia e le costruzioni, nonché le
Amministrazioni pubbliche.
L’economia del Mezzogiorno – i dati lo dimostrano – ha subito una “terziarizzazione
anticipata ”, nel senso che la Pubblica amministrazione e il settore dei servizi (tradizionali
come il commercio) hanno assunto dimensioni storicamente ipertrofiche , hanno
funzionato da “spugne” per la disoccupazione eccedente, senza creare un solido tessuto
imprenditoriale.
Le capacità di assorbimento della manodopera espulsa dal settore agricolo a causa
dell’aumentata produttività – e grazie agli interventi realizzati nel primo decennio di attività
della Cassa – non hanno riguardato l’industria, vale a dire che il settore secondario è stato
quasi del tutto ignorato e by-passato.
Di fatto, le eccedenze di occupati nell’agricoltura si sono riversate nel terziario, senza
irrobustire l’imprenditoria, ma saturando solo l’area del commercio, dell’edilizia e
dell’amministazione.
Volendo, invece, esaminare i rapporti tra le economie italiane – in un Paese che procede a
diverse velocità – ne concluderemmo che è avvenuto un processo di integrazione passiva
di un’economia arretrata in una più avanzata, soprattutto in forza dei flussi migratori
sviluppatisi lungo la direttrice Sud-Nord.
5.2.2. Redditi e povertà
In base ai dati disponibili, risulta che il PIL per abitante in Calabria, espresso in pari potere
d’acquisto, è il 68% della media europea a 25 Stati membri. Esso è anche il valore più
basso rilevato in Italia: a paragone delle migliori performances nazionali registrate in
Trentino-Alto Adige, Lombardia ed Emilia Romagna, il reddito calabrese è addirittura pari a
un terzo.
Sono quasi 848 mila i calabresi, che vivono in condizioni di povertà o di quasi povertà, pari
al 41,8% della popolazione residente. Circa 296 mila sono le famiglie coinvolte nella
morsa della precarietà sociale: lo si evince da una ricerca effettuata da Eurispes Calabria
nei primi anni 2000.
Il numero di famiglie a rischio di povertà, in Calabria – spiega Eurispes Calabria – risulta
pari a 81.514 che, sommate alle 214.346 conteggiate dall'Istat come “relativamente
74
povere”, porta a 295.860 il numero dei nuclei disagiati. Inferendo, inoltre, sulla popolazione
regionale, in considerazione del numero medio di componenti per famiglia, pari a 2,8
secondo l'ultimo censimento Istat, è possibile stimare nel numero di 228.239 i soggetti a
rischio di povertà, che sommati, a loro volta, al numero di persone povere certificate
dall'Istat (619.449) portano a 847.688 il totale complessivo dei disagiati in Calabria.
In altri termini, ciò equivale a dire che almeno il 41,8% della popolazione calabrese versa
in uno stato di quasi o totale indigenza socio-economica . La Calabria, con un indice pari
a 69 (posto pari a 100 il totale Italia) – secondo Eurispes Calabria – risulta la regione con
reddito familiare più basso, preceduta dalla sola Sicilia (68). La regione con il reddito
familiare più elevato, al contrario, risulta l'Emilia-Romagna, con un indice pari a 126;
seguono la Toscana (118) e la Lombardia (117), il Trentino e il Friuli (115) e le altre regioni
del Centro-Nord. Dai dati della Banca d'Italia, risulta che il reddito pro-capite mostra una
variabilità territoriale ancora superiore rispetto al reddito familiare, poiché le regioni
meridionali più povere sono anche quelle con maggior numero medio di componenti per
famiglia ed una minore percentuale di componenti percettori .
5.2.3. Qualità della vita e imprese
Alcuni segnali di risveglio sembrano giungere dal miglioramento della qualità di vita
registrato nelle province e tradotto in una classifica diffusa da “Il Sole-24Ore”.
Seppure in un contesto di debolezza generalizzata – come più volte ribadito – notiamo il
balzo in avanti compiuto da Vibo Valentia, risalita di ben 19 posizioni, dall’ultimo posto nel
2005 all’84esimo nel 2006. Un’altra provincia che si distingue positivamente è Crotone, in
quanto guadagna posizioni costantemente, senza brusche flessioni o impennate. Di
negativo, invece, c’è da registrare il peggioramento di Reggio Calabria.
In ogni caso, va sottolineata la permanenza di tutte le cinque province calabresi quasi in
fondo alla classifica sulla qualità della vita, ben al di sotto delle posizioni quanto meno
centrali.
Storicamente nota, la debolezza del tessuto produttivo regionale si manifesta in tutta la
sua gravità rispetto al settore industriale-manifatturiero: prevalgono nettamente le micro e
piccole imprese , le quali di rado giungono a superare la cinquantina di addetti.
La tesi della polverizzazione del tessuto industriale calabrese è confermata dall’operare
congiunto di una serie di indici: il tasso di natalità delle imprese porta le province ai primi
posti della classifica italiana, ma non è accompagnato da un’analoga vitalità del tasso di
industrializzazione, inteso come numero di addetti al settore.
75
Se ne conclude che le imprese sono numerose e si rigenerano con un saldo attivo, ma
restano di piccole dimensioni, manifestando l’incapacità di crescere e persistere
autorevolmente sulla scena del mercato.
Questo modello non è riconoscibile altrove in Italia, dove le due aree territoriali (Nord
Ovest e Nord Est) a più spiccata vocazione manifatturiera hanno sviluppato la grande
impresa verticalmente integrata oppure, in alternativa, il distretto specializzato, sfruttando
sapientemente le economie di scala interne all’azienda o all’intero settore produttivo.
Gli strumenti messi a disposizione dall’econometria consentono di valutare il grado di
interdipendenza economica 15 esistente tra le due macroregioni del nostro Paese:
Centro-Nord e Mezzogiorno. A far perno sulle tavole interindustriali elaborate da Wassily
Leontief, ed estendendone il contenuto oltre che alle attività produttive anche al livello
della spesa per consumo, nonché agli effetti redistributivi, si giunge alla conclusione che
l’economia meridionale funge da mercato di sbocco per le produzioni realizzate nel resto
dell’Italia. La giustificazione di questa perdurante disparità sta nella mancata
diversificazione delle attività, nonché nella scarsa capacità produttiva del Meridione,
ancora poco integrato nel circuito delle relazioni interindustriali.
La spesa per investimenti, infatti, è un buon indicatore della propensione degli operatori ad
incrementare la propria capacità produttiva. L’investimento, vale a dire la domanda delle
imprese, deve poter contare sulla credibilità degli istituti finanziari e di drenaggio del
risparmio, necessita di regole trasparenti e certe, di flussi continui, di tassi d’interesse
accessibili, di garanzie non eccessive e paralizzanti, di tempi brevi per l’istruzione delle
pratiche. Laddove il tessuto economico si presenta fragile e sfilacciato, senza un
background di imprenditorialità solida, è più difficile che si manifesti la transizione verso i
modi di produzione moderni.
La Calabria, ad esempio, non possiede una memoria distrettuale, non può vantare la
stessa struttura economica presente in altre zone del Paese, dove la rete delle piccole e
medie imprese è fitta e trova al suo interno sempre nuove energie per portare avanti
l’innovazione e le capacità di attrazione. 15 L’interdipendenza economica fra regioni o imprese si misura attraverso un coefficiente che restituisce il grado di integrazione fra i soggetti considerati: l’indice è costruito a partire dalle matrici input-output dei beni finali e intermedi a seconda della zona di produzione e destinazione. Wassily Leontief (1906-1999)- economista russo e premio Nobel per l’economia nel 1973, dedicò gran parte dei suoi studi all’analisi input-output, ossia al processo estensivo tramite il quale gli input per un’industria si trasformano in output finali destinati al consumo oppure beni intermedi per altre industrie di trasformazione. Le “tavole interindustriali” consentono di valutare in quali proporzioni variano input-output quando interviene un cambiamento, ovvero si desidera ottenere un determinato risultato. In seguito, l’elaborazione di Leontief è stata espansa per coinvolgere altri parametri: è stata creata la SAM (Social Accounting Matrix), la matrice di contabilità sociale. Quest’ultima misura in maniera più completa ed integrata il grado di interdipendenza tra aree.
76
5.2.4. Quadro occupazionale
Il quadro occupazionale che si ricava dalla lettura congiunta del Censimento Istat-2001 e
dal Rapporto sull’economia calabrese nel 2005 (Confindustria Cosenza), ci parla di circa
due milioni di residenti, 600.000 dei quali occupati: tradotto in termini percentuali, il tasso
di occupazione si aggira attorno al 44% circa, in ritardo del 20% rispetto alle macroaree
italiane del Centro-Nord. Di estremo rilievo vi è da constatare anche il fatto che il tasso di
disoccupazione di lunga durata (> 12 mesi) è, in Calabria, dell’8,4% contro il 3,7% della
media italiana.
Siffatta arretratezza conduce la Calabria ben lontano dalla possibilità di coronare entro il
2010 uno degli obiettivi più importanti posti dall’Agenda di Lisbona- 2000, ossia un tasso di
occupazione del 70%. A margine dell’aspetto puramente quantitativo, resta anche
l’impegno dell’Italia di intervenire sulla qualità occupazionale, facilitando l’inserimento dei
giovani, delle donne e il re-impiego degli anziani.
L’ambizione di questi progetti comunitari sta nel tentare di costruire una serie di strumenti
e politiche attive dell’occupazione: s’intende trasmettere il valore del lavoro e della
continua riqualificazione, elevando il livello della formazione e superando la barriera
assistenzialistica del reddito da sussidio o previdenza sociale. Metodologie, queste ultime,
purtroppo largamente in uso in Italia, specialmente nel Mezzogiorno.
Vi sono serie sproporzioni per quanto riguarda la composizione del quadro occupazionale,
dove la stragrande maggioranza dei lavoratori (oltre 411.000) sono in posizione
dipendente e subordinata, mentre gli imprenditori sono appena 13.091 .
Seguendo, invece, la classificazione per attività economica, vediamo che i settori agricolo,
industriale e terziario tradizionale raccolgono circa 400.000 occupati, mentre i restanti
200.000 sono impiegati in altre attività quali, meno genericamente, Pubblica
amministrazione, servizi personali e sociali, difesa, istruzione, ecc.
5.2.5. Esportazioni
Che gran parte dell’industria sia connessa con l’agricoltura e riguardi attività di
trasformazione di prodotti del settore primario, ci è confermato non solo dal numero di
addetti, ma anche dalla composizione delle esportazioni realizzate dalla Calabria. Senza
variare la linea di tendenza storica, anche nel 2006 (fra gennaio e settembre) il 17,3%
delle esportazioni è consistito in prodotti dell’agricoltura, dell’orticoltura e della floricoltura;
un altro 8,4% è risultato essere composto da preparati e conserve di frutta e ortaggi;
ancora un 6% a favore di altre categorie di prodotti alimentari.
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Sempre in connessione con le materie prime da trasformare, si evidenzia la consistente
quota di esportazione di prodotti chimici di base ed altri, articoli in materie plastiche e
gomma, con percentuali rispettivamente del 10,7%; 10,6%; 3,3% e 2,5%.
Si evidenzia, altresì, una notevole chiusura rispetto all’internazionalizzazione: la
propensione all’export è molto bassa in quanto rappresenta appena l’1,1% del PIL
regionale; ancor più limitato, quasi inesistente, risulta il flusso di IDE (Investimenti Diretti
Esteri) che fa il proprio ingresso nell’economia meridionale del Paese.
5.2.6. Turismo e ambiente
La Calabria ha un’esposizione costiera pari a circa 740 Km: la varietà di microclimi è
incrementata dalla presenza di una dorsale montuosa che attraversa l’intera regione,
alternandosi a vaste aree semicollinari terrazzate e coltivate.
Le peculiarità paesaggistiche si accompagnano, inoltre, a numerose testimonianze
storico-culturali ed artistico-archeologiche del passato della regione come colonia
magnogreca (e non solo).
Il turismo calabrese è, tuttavia, affetto da debolezza strutturale: si tratta principalmente di
un turismo di prossimità con forte incidenza di presenze locali e provenienti dalle altre
regioni del Sud.
Il comparto, con i suoi tanti difetti (l’eccessiva stagionalità, la spesa ridotta e la scarsa
presenza di clienti di lungo raggio), assume una grande valenza nel contesto
dell’economia locale e ne rappresenta uno dei settori propulsori.
Negli ultimi anni il comparto turistico ha attratto la maggior quota dei pochi investimenti
effettuati nella regione, pur se quelli provenienti dall’esterno restano ancora molto ridotti.
Lo sviluppo turistico di un territorio è inevitabilmente collegato ad un insieme di variabili fra
le quali i trasporti: questi risultano determinanti per il grado di accessibilità e la percezione
di vicinanza/lontananza per i potenziali visitatori.
In questo senso, si è consolidata un’immagine ben poco lusinghiera dell’efficienza
trasportistica calabrese, la quale evidenzia una serie di marcati gap strutturali: molti turisti
scelgono l’automobile per spostarsi e risultano fortemente penalizzati dalle condizioni in
cui versa, ad esempio, “l’eterno cantiere” dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Le aree dell’entroterra hanno un’accessibilità precaria e i luoghi turistici non hanno una
propria rete di trasporti che li connetta in circuito.
Il trasporto marittimo lamenta l’assenza di un porto attrezzato per ricevere navi da crociera
e i porti turistici hanno delle difficoltà nell’impostare politiche di sviluppo.
78
Paradossalmente, il trasporto aereo è il settore che ha manifestato i più ampi segnali di
crescita, con l’inaugurazione di nuovi collegamenti diretti tramite l’aeroporto internazionale
di Lamezia Terme e il consistente aumento di compagnie aeree concorrenti che operano
allo scalo reggino.
Appare, dunque, di indubbia urgenza superare le criticità trasportistiche, per consegnare
anche al turismo degli efficaci strumenti di sviluppo.
5.2.7. Infrastrutture materiali e immateriali
Ciò che risulta in grado di pilotare lo sviluppo delle attività economiche, e di raccordarle
con la dotazione delle risorse territoriali, è il complesso sistema delle infrastrutture.
Esse sono di tipo materiale o intangibile, sono puntuali o ramificate a rete, s’integrano a
vicenda, interpolando, per così dire, la funzione della domanda territoriale.
In altre parole, risulta che la dotazione di infrastrutture diversificate ed interagenti tra loro
sia un forte elemento di attrattività del territorio nei confronti delle scelte localizzative
imprenditoriali.
Quanto a questo complesso infrastrutturale, la Calabria mostra di sé un volto ambiguo e
fortemente contraddittorio: esempi ne siano la questione stradale e ferroviaria, fino a
giungere alle opere pubbliche interrotte e inutilizzate, manifestazione più lampante, per
certi versi drammatica, di spreco del denaro pubblico senza saper gestire le occasioni
create in prospettiva di medio-lungo periodo.
La sofferenza della dotazione infrastrutturale in Calabria è significativamente diffusa
rispetto a tutti i settori, a partire da quello fisico di base, per giungere alle comunicazioni,
alle reti ambientali ed energetiche, ai servizi ad alta tecnologia.
La rete autostradale non è stata completata, quella ferroviaria scarseggia rispetto alle
dotazioni a doppio binario, l’alta velocità non esiste.
S’intravede un timido risveglio dell’attività aeroportuale, ma è controbilanciato dall’assenza
di poli intermodali della logistica per i collegamenti.
Medesima situazione si riscontra in merito ai porti : l’esposizione costiera della regione
non dovrebbe lasciar spazio a dubbi circa le potenzialità di sviluppo commerciale e
industriale annidate nelle attività portuali.
Eppure, proprio le carenze logistiche hanno relegato il porto di Gioia Tauro ad area di
mero transhipment e le hanno persino fatto perdere la leadership nel Mediterraneo.
Inoltre, non si può tralasciare la dimensione della sostenibilità per ogni progetto di sviluppo
che s’intraprende: l’obiettivo non è solo quello di un incremento del reddito o degli
79
occupati, bensì quello di mantenere l’equilibrio intra e inter-generazionale delle risorse e
della qualità della vita complessivamente offerta ai cittadini nel tempo e nello spazio.
Questa consapevolezza passa, per la Calabria, attraverso la soluzione di nodi ambientali
come le reti idriche e di depurazione, il sistema integrato di raccolta differenziata e
riciclaggio per i rifiuti e gli scarti della produzione, la messa in sicurezza delle zone ad alto
rischio sismico e idrogeologico, la riqualificazione delle periferie urbane in stato di
degrado.
La valutazione d’impatto ambientale e sociale di ogni nuovo insediamento, sia esso
abitativo, industriale o turistico, deve entrare a far parte delle buone pratiche in uso
laddove per troppo tempo è stata perpetrata una sistematica opera di abuso del
territorio , un’espansione selvaggia, priva di regole e di severi regimi sanzionatori.
Ancora molto resta da fare per completare le reti di comunicazione e scambio delle
informazioni: l’accesso ai terminali informatici, ad internet e intranet, è uno degli aspetti
futuribili dello scenario economico al quale si stanno affacciando sempre più competi-
tivamente gli altri Paesi sviluppati.
5.2.8 Conclusioni: l’economia della conoscenza
Con queste deboli premesse, il passaggio all’economia della conoscenza si preannuncia
ricco di attriti: vi è da rilevare, infatti, la scarsità degli investimenti in Ricerca & Sviluppo
(appena lo 0,40% del PIL in Calabria), ma anche la produttività brevettuale, specie ad alta
tecnologia, risulta fortemente sottodimensionata.
Un’ulteriore riprova di quanto si sta sostenendo, si ricava dalla relazione inversa che
intercorre tra livello tecnologico incorporato nelle produzioni e numero di addetti al settore
manifatturiero. In altri termini, all’incremento della componente high-tech e knowledge-
intensive richieste dai settori produttivi, corrisponde un sempre più ridotto numero di
lavoratori. Il paradigma qui rappresentato innesca un circolo vizioso che spinge al ribasso
il contenuto tecnologico e di conoscenza delle attività economiche.
La mancanza di centri per l’alta formazione e la ricerca avanzata non contribuisce a
generare “cervelli ”, e per di più le imprese di piccole dimensioni hanno budget limitati da
devolvere ai programmi di Innovazione e R&S.
Le carenze formative, unite alla stagnazione generalizzata del tessuto produttivo, non
contribuiscono ad attrarre investimenti esterni.
Molta parte delle scelte localizzative delle imprese dipende oggi non solo dalla
“approvvigionabilità” dei fattori della produzione o dall’efficienza delle reti logistiche di
collegamento, ma dipende in misura crescente dalla qualità delle risorse umane disponibili
80
sul territorio e dal sistema della conoscenza ivi reperibile. Nella fattispecie si tratta, ad
esempio, di competenze “country specific”, capitale tecnologico innovativo, sistema
universitario e della ricerca, oltre che, naturalmente, sicurezza socio-ambientale.
5.3 Zoom n. 1: dal contesto socio-economico regiona le alla Piana di Gioia Tauro.
Uno stralcio dell’opera di Enzo Ciconte, servirà ad inquadrare perfettamente le
problematiche connesse alla vocazione economica della Piana di Gioia Tauro:
“emporio del commercio oleario della Calabria”. Olio e agrumi costituivano la ricchezza di quella zona e già allora venivano esportati all’estero. La ricchezza richiamò sempre la voracità delle ‘ndrine che cercavano di accaparrarsi fette dell’economia inserendosi nel settore dell’intermediazione e della compravendita di prodotti della terra. La ‘ndrangheta a Gioia Tauro ha mostrato una notevole capacità di trasformarsi e di adattarsi ai mutamenti del tempo, e ha messo in luce la vitalità del ceppo familiare dei Piromalli che ha saputo sopravvivere ai cambiamenti imponendo sempre la propria signoria sul territorio. (pag. 158)
La Piana di Gioia Tauro ha una superficie complessiva di 954 km2 suddivisa in 33 comuni
che appartengono amministrativamente alla Provincia di Reggio Calabria.
La popolazione residente è di 177.000 abitanti (Istat 2001), il 32% della popolazione della
provincia di Reggio Calabria e il 9% circa della Calabria.
Dal punto di vista economico, nella Piana sono presenti 8.846 unità locali con 30.558
addetti. In particolare: 1.762 sono attività industriali (con 5.612 addetti), 3.804 sono attività
commerciali (con 6.443 addetti), 2.623 sono attività relative ad altri servizi (con 8.671
addetti) e 657 sono attività istituzionali (con 9.832 addetti).
Il 27% delle attività industriali presenti nel territorio della Piana sono concentrate nei
comuni di Gioia Tauro, San Ferdinando e Rosarno, nei cui territori è localizzato
l’agglomerato industriale di pertinenza del consorzio Asireg, suddiviso in due zone
industriali che si sviluppano immediatamente alle spalle del recinto portuale.
L’area della Piana gioiese è una realtà complessa fatta di 33 Comuni in cui l’industria non
riesce a mettere radici solide e anche l’agricoltura risulta in grave sofferenza, perdendo
La storia di Gioia Tauro è storia di un’area tra le più ricche della Calabria, e di una delle zone dove la presenza ‘ndranghetista risaliva all’Ottocento, quando sin dai decenni che precedettero l’unità erano stati impiantati agrumeti che andavano ad affiancare i secolari uliveti che rendevano Gioia Tauro un
81
terreno sul piano della competitività in settori che in passato vantavano elementi di
eccellenza (es. gli agrumi e le clementine di Rosarno).
Dei 57 insediamenti produttivi dislocati nell’ultimo decennio tra le due zone industriali di
Gioia Tauro e San Ferdinando ne sono rimasti in piedi appena una decina, per ragioni
preoccupanti che vanno dalla presenza criminale alle ormai acclarate vischiosità del
sistema creditizio che impone un costo del denaro esorbitante ed insostenibile.
Il prodotto di queste debolezze strutturali e potenti distorsioni si riassume in un tasso di
disoccupazione che si aggira attorno al 30% nell’area che dovrebbe rappresentare il traino
economico dell’intera regione!
5.4 Zoom n. 2: dalla Piana al Porto di Gioia Tauro.
5.4.1 Analisi di contesto: il mercato della logisti ca.
LOGISTICA è un termine di origine greca che indicava le operazioni di computo e calcolo.
In seguito, il vocabolo è passato ad indicare quella sezione dell’arte militare che provvede
a garantire l’efficienza di tutto l’apparato bellico, organizzando in particolare il trasporto e
la distribuzione di viveri, munizioni, materiali necessari.
Per estensione, nelle grandi imprese moderne rappresenta la funzione aziendale che
presiede all’approvvigionamento e alla distribuzione fisica dei materiali, delle scorte, dei
prodotti finiti.
In ultima analisi, si tratta della sistemazione, definitiva o provvisoria, di cose e persone
nell’ambiente.
Data la crescente rilevanza del commercio internazionale e la relativa necessità di
specializzazione nel settore dei trasporti per incrementare l’efficienza ed abbattere i costi,
la logistica si è sviluppata come attività economica nel panorama dei servizi del settore
terziario: la funzione aziendale dedita al trasporto e alla distribuzione risulta vieppiù
esternalizzata, per essere affidata ad operatori specializzati.
Una componente infrastrutturale essenziale, soprattutto in funzione di un assetto
logisticamente efficiente e competitivo della rete complessiva di trasporto e
comunicazione, è quella di grandi nodi di scambio, perché consentono di sviluppare
l’integrazione tra modalità e fluidità dei transiti di persone e merci.
Gli impianti che svolgono principalmente questo ruolo sono porti, aeroporti e interporti che,
insieme alle loro infrastrutture di servizio e ai raccordi con le reti di trasporto terrestre,
rappresentano l’asse portante di un sistema logistico.
82
La funzione di costo dell’azienda deve incorporare la curva del costo di trasporto (che
consente alle merci di essere distribuite in tutti i luoghi di destinazione): si pone, di
conseguenza, la questione della scelta della più opportuna combinazione di mezzi di
trasporto in vista della minimizzazione dei costi.
Le caratteristiche fisiche dello spazio molto spesso impongono la necessità di “spezzare”
le modalità di trasporto, utilizzando una pluralità di mezzi di trasporto ( = intermodalità ).
L’uso congiunto di più mezzi dà luogo alla “rottura del carico”, ossia ad operazioni di carico
e scarico delle merci ( = costi terminali di trasporto) che si svolgono nei nodi di cambio
della modalità.
La containerizzazione 16 delle merci è stata storicamente l’innovazione che ha introdotto
un notevole risparmio nel trasporto, in quanto non obbliga a frammentare il carico. Altra
questione, invece, riguarda il fatto di disporre di veicoli adatti alla prosecuzione del viaggio
dei container sino a destinazione.
Come abbiamo appena descritto, la valenza moderna delle infrastrutture logistiche è di
molto aumentata, al punto che l’Italia intera corre seri rischi di emarginazione economica
in rapporto all’accresciuta competitività di altre aree territoriali.
Il Mezzogiorno, poi, è afflitto in misura maggiore da problemi di perifericità , ossia distanza
geografica dai principali poli economici. Situazione non solo orografica e fisica, bensì
anche infrastrutturale, che limita di molto l’accessibilità potenziale dell’intera area
meridionale.
Che cosa manca per il decollo delle attività portuali, in Italia così come a Gioia Tauro?
Uno sviluppo adeguato dell’intermodalità nelle strutture puntuali. Il che consiste
“nell’integrazione con le vie di comunicazione terrestri, ma soprattutto nello sfruttamento
del transito” per installare un’impiantistica di trasformazione delle merci in prodotto finito.
Sono, dunque, molto deficitarie o del tutto inesistenti, le dotazioni per lo stoccaggio
(storage), la movimentazione e la lavorazione.
Visti tali deficit di dotazione, sia quantitativi che qualitativi, “l’allocazione degli stanziamenti
a favore delle regioni meridionali è sempre stata cospicua, potendo contare su vari
strumenti di intervento, nazionali e comunitari”.
In particolare, è possibile analizzarne alcuni fra i principali: gli Accordi di Programma
Quadro (APQ), la Legge-Obiettivo, i Piani Operativi Regionali e Nazionali (POR e PON).
16 L’unità di misura per i volumi di traffico è il TEU ( = Twenty-foot Equivalent Unit), ossia un container la cui lunghezza è di 20 piedi ( = 6 metri). Esiste anche il 2TEU, che corrisponde ad un container lungo il doppio ( = 40 piedi, 12 metri).
83
L’APQ è uno strumento negoziale messo a punto per l’implementazione dello sviluppo
economico nelle aree depresse e sottoutilizzate del Paese: esso consiste nel
raggiungimento di intese fra una pluralità di enti territoriali competenti a decidere,
specialmente in materia di grandi opere ed infrastrutture.
Si tratta di un mezzo non solo per programmare, ma anche per conferire le risorse
necessarie alla realizzazione dei progetti stessi, a valere in varia misura sui bilanci degli
enti coinvolti. Sebbene l’obiettivo sia quello di incrementare il coordinamento istituzionale,
non può negarsi che la natura così composita degli APQ, soprattutto per quel che riguarda
gli elementi finanziari disponibili, si traduce in tassi molto scarsi di capacità di spesa e
realizzazione concreta delle opere.
Un tentativo di semplificazione per sveltire le procedure è stato fatto anche con la Legge-
Obiettivo, che reca risorse aggiuntive per le progettualità particolarmente complesse e ad
alto contenuto tecnologico. Tuttavia, è pur sempre lo stato di attuazione delle opere a non
essere soddisfacente.
Altri strumenti di programmazione e finanziamento sono i POR e i PON di settore, in parte
cofinanziati con i fondi strutturali comunitari.
Riassumendo: le problematiche connesse alla logistica portuale (nel nostro caso Gioia
Tauro) possono essere risolte attraverso la realizzazione di opere infrastrutturali ad alto
impatto sulla produttività. L’intervento pubblico risulta massiccio, in quanto è larvale o
inesistente l’apporto di capitale finanziario privato. Gli strumenti negoziali e di
programmazione sono numerosi e complessi, caratterizzati da lentezza procedurale,
scarso raggiungimento degli obiettivi e flussi di spesa cospicui, ancorché di difficile
gestione e controllo.
5.4.2 Passando dal contesto generale alle problemat iche di Gioia Tauro.
La storia economica di Gioia Tauro conosce la svolta 35 anni or sono, quando si decide di
virare dalla sua vocazione agricola per tentare di sviluppare un polo siderurgico con uno
scalo portuale al suo servizio (cd. “pacchetto Colombo”).
Com’è noto, la logica sottostante a questo genere di progetti piuttosto diffusi nell’Italia del
boom economico è denominata industrializzazione forzata secondo il modello del “polo e
dell’indotto17”.
17 La crescita economica non si realizza nella stessa misura in ogni luogo, ma ha origine in alcuni punti, o poli di sviluppo, nei quali si formano agglomerazioni industriali (Perroux). Intorno ai poli industriali, si genera una forza di attrazione e i lavoratori tenderanno a gravitare sul polo (pendolarismo), così come è probabile che si verifichi una tendenza spontanea delle imprese a concentrarsi in questa area, per sfruttare i vantaggi della prossimità con le altre
84
porti internazionali da trasbordare su navi per il cabotaggio
interno e mediterraneo), mentre gli operatori portuali18 principali sono i cd. terminalisti .
imprese di agglomerazione). Le industrie in grado di creare dei veri e propri poli di sviluppo devono avere le caratteristiche di “industrie motrici”: devono essere di grandi dimensioni e avere una forte capacità innovativa e produttiva. Negli anni ’50 e ’60, numerosi paesi di seconda industrializzazione o in via di sviluppo hanno incentrato la propria crescita puntando su grandi industrie di base: industrie siderurgiche, metalmeccaniche, chimiche e energetiche. Sotto inteso a questo approccio è una considerazione fondamentale: i benefici che un impianto industriale apporta all’area circostante e all’intera nazione, non sono tanto di tipo diretto – come la distribuzione di salari ai lavoratori del polo – ma di tipo indiretto. Le imprese industriali grazie alle loro grandi dimensioni e alla loro enorme produttività, sono in grado di generare un effetto moltiplicatore che amplifica i meccanismi auto-propulsivi e cumulativi dello sviluppo. L’auspicio è inoltre che questi benefici rimangano in loco: la localizzazione di un industria può dar luogo ad un polo di sviluppo e ad un processo di modernizzazione, solo se questo agisce come motore e traino dell’intera economia regionale. Il problema è che in assenza di un conteso favorevole allo sviluppo di un indotto di questo tipo – per mancanza di risorse finanziarie, capacità imprenditoriali e di una cultura favorevole all’iniziativa individuale – questi grandi complessi industriali si possono trasformare in “cattedrali nel deserto”. L’industrializzazione non richiede solo l’importazione di tecnologie e capitali. Richiede anche uno specifico contesto culturale. Il rischio è che il polo tenda non tanto ad integrarsi con il territorio circostante, ma ad isolarsi da esso e ad integrarsi invece con reti che agiscono a livello globale e che a questa scala scambiano beni materiali e immateriali all’interno di strutture produttive e finanziarie integrate. Se valutati sul territorio tuttavia questi apparenti benefici diventano molto più evanescenti, e appaiono invece molto più evidenti i costi, le distorsioni e le contraddizioni di una “industrializzazione senza sviluppo” che caratterizza gran parte delle economie arretrate, e perfino aree interne ai paesi sviluppati. In questi termini, il concetto di polo è stato il modello ispiratore della politica di industrializzazione meridionale, ma si è tradotto in un clamoroso fallimento a causa della poca attenzione riservata al contesto socio-territoriale come fattore e destinatario dello sviluppo polarizzato programmato. 18 Secondo le informazioni fornite dall’Autorità Portuale di Gioia Tauro, questo è l’elenco delle imprese concessionarie che operano nell’hub:
� CEMENTI MERIDIONALE LTD S.r.l. si occupa di commercializzazione e stoccaggio in silos di cemento sfuso;
� N.G.I. svolge un servizio di traghetti con le isole Eolie e Milazzo; � SOCIETA' PETROLIFERA DI GIOIA TAURO. Il deposito, attualmente in fase di realizzazione, si
compone di 10 serbatoi circolari per carburanti liquidi, di cui 4 per gasolio, 4 per benzine super e due per olio combustibile, per un totale di circa 42.000 metri cubi, più 3 serbatoi cilindrici orizzontali per g.p.l. (gas propano liquido) per un totale di circa 4.500 metri cubi. Le petroliere e le gasiere, che dovrebbero rifornire il deposito, saranno di dimensioni non eccessive (20.000 DWT c.a.) per poter attraccare nell'accosto esterno, attualmente in fase di progettazione.
� ZEN MARINE S.r.l. Concessionaria di un'area demaniale marittima di mq 27.500 allo scopo di effettuare la manutenzione e la riparazione di parti di navi, nonché, la costruzione di unità da diporto.
� ZEN YACHT S.r.l. L'azienda ha in concessione un'area demaniale marittima di mq 32.378 dove effettua la costruzione e la riparazione di yacht.
� MARNAVI S.p.A. La società ha in concessione un punto di accosto per l'ormeggio delle navi cisterna adibite al servizio di fornitura d'acqua potabile per le isole Eolie.
Fallita la nascita del V Polo Siderurgico, restò pur sempre
da rimarcare l’eccezionale predisposizione della banchina
lineare di Gioia Tauro e la sua posizione centrale nel
Mediterraneo, a metà strada sulle rotte tra Suez e
Gibilterra, per l’approdo delle navi portacontainer.
Tutto quanto abbiamo premesso, serve a giustificare la
vocazione commerciale del porto di Gioia Tauro: l’attività
principale che vi si svolge è il transhipment ( =
movimentazione di merci e container provenienti da grandi
85
- autovetture ( = BLG Automobile Logistics Italia),
- rinfusa ( = All Services s.c.a.r.l.).
Se si esaminano i dati relativi alle attività, si ricava che la struttura di Gioia Tauro ha
rappresentato per lungo tempo il primo porto mediterraneo per volume di merci trattate
annualmente, ma nel 2005-2006 la leadership è andata perduta a favore del porto
spagnolo di Algeciras a causa di una lieve – seppure significativa – contrazione dei traffici
da e verso l’approdo calabrese.
Non è possibile, invece, ricostruire le medesime informazioni per gli altri operatori portuali: se ne conosce solo la ragione sociale indicata nella denominazione:
� DITTA PREVARIN ALDINO � COOPMAR Sc.a.r.l. � ALL Services Coop. S.c.a.r.l. � Sea Work Service S.r.l. � Compagnia Impresa Lavoratori Portuali S.r.l.
Il complesso degli operatori portuali
va distinto in tre grandi categorie:
� terminalisti,
� concessionari,
� altri operatori.
I terminalisti, a loro volta, devono
essere classificati per tipo di attività:
- merci containerizzate (=Medcenter
Container Terminal s.p.a.),
86
Volume Teus
3.261.034
3.160.981
2.938.176
2.700.000
2.800.000
2.900.000
3.000.000
3.100.000
3.200.000
3.300.000
2004 2005 2006
Passando, invece, ad esaminare i dati relativi all’anno 2008, il porto di Valencia ha
superato a luglio quello di Algeciras, per numero di TEU movimentati, ed è pronto a
contendere a Gioia Tauro il titolo di primo hub per container del Mediterraneo. Nei primi
87
sette mesi del 2008 Valencia ha movimentato 1.974.251 TEU contro 1.925.715 TEU di
Algeciras. Si tratta di una differenza di 48.536 TEU che vale il primato spagnolo e proietta
lo scalo all’inseguimento di Gioia Tauro. Il porto calabrese nello stesso periodo è arrivato a
2.095.746 TEU, praticamente gli stessi dello scorso anno. Il sorpasso sarebbe possibile
già nel 2009, se verranno confermati i trend attuali. Algeciras è infatti sceso del 2,4%
rispetto ai primi sette mesi del 2007 e anche Gioia Tauro è in fase stagnante (-0,2%),
mentre Valencia vola con una crescita a due cifre del 13%, in controtendenza rispetto al
periodo non particolarmente brillante di tutta la portualità spagnola.
TEUs movimentati primi sette mesi 2008
1.974.2511.925.715
2.095.746
1.800.0001.850.0001.900.0001.950.0002.000.0002.050.0002.100.0002.150.000
Valencia Algeciras Gioia Tauro
5.4.3 Analisi del “caso concreto”.
All’intersezione delle questioni di criminalità ed economia nel porto, troviamo l’operazione
giudiziaria “Cent’anni di storia” che ci permette di compilare la mappa sintetica
dell’infiltrazione mafiosa nelle attività economiche.
OPERAZIONE “CENT’ANNI DI STORIA”.
• TERRITORIO: Calabria, Gioia Tauro
• PERIODO: luglio 2008
• CONTESTO: territorio storicamente controllato dalla famiglia Piromalli-Molé, con la
tipica struttura di ‘ndrina
• INFILTRAZIONE: penetrazione nella società terminalista per la movimentazione di
merci alla rinfusa nel porto di Gioia Tauro. Febbraio 2008: omicidio del boss Rocco
Molé. Alto rischio di faida e inizio di un processo scissionista all’interno della ‘ndrina
Piromalli-Molé. Origine dei contrasti: necessità di nuove alleanze (famiglia Alvaro, in
forte ascesa di potere) per ottenere la maggioranza societaria dell’operatore
portuale All Services.
88
• SOGGETTI COINVOLTI: famiglia Piromalli, famiglia Molé, famiglia Alvaro della
località Sinopoli, società All Services s.c.a.r.l.
Zoom: le dinamiche di infiltrazione nel dettaglio.
• CONTESTO: Storicamente parlando, il clan Piromalli-Molè (per cento anni famiglia
unica, consacrata da vincoli di sangue e matrimoni) ha avuto un ruolo di netto
predominio nella Piana, riuscendo a restare al di fuori delle due famigerate guerre
di mafia che, in epoche successive, hanno insanguinato Reggio e il suo hinterland.
La famiglia Piromalli di Gioia Tauro, allora guidata da don Mommo, rimase fuori da
quel sanguinoso scontro, mirando a mantenere il potere nella Piana in una fase
storica in cui a Gioia Tauro si stavano realizzando disegni industriali che avrebbero
portato al fallimento del Quinto centro siderurgico ma alla costruzione di un porto
diventato nel tempo il primo scalo commerciale d’Europa. La Piana si è trasformata
così in una centrale operativa dello spaccio del narcotraffico, primo business della
‘ndrangheta, assieme al controllo di tutte le attività portuali e dintorni.
• INFILTRAZIONE: All Services è una società cooperativa attiva nel porto dal 1999,
con sede nell’area industriale di San Ferdinando. Si occupa del servizio di
“tramacco”, ossia non si limita a movimentare containers (come i terminalisti), bensì
carica – scarica – sposta merci alla rinfusa. Con l’incremento degli affari portuali a
partire dal 2006, le cosche locali hanno cominciato a manifestare interesse per
l’acquisizione di tale cooperativa, perchè il Porto diventa il business per una
‘ndrangheta disposta a fare impresa e proiettarsi negli affari del futuro. Da allora, i
Molé tentavano di far giungere imprenditori svizzeri, mentre i Piromalli avallavano
una cordata sostenuta da un’alleanza con l’emergente cosca Alvaro (molto ricca,
con la necessità di investire l’ingente capitale accumulato). A gennaio del 2008
l’alleanza dei Piromalli ha vinto un appalto al porto di Gioia Tauro e la società All
Services è passata nelle mani della cosca Alvaro. Dopo l’operazione “Cent’anni di
Storia”, l’intera cooperativa è stata posta sotto sequestro preventivo in via
d’urgenza.
• SCRIPT: il copione messo in atto dalle cosche in questa occasione si è articolato
come segue. L’obiettivo principale è quello di acquisire le quote di una società
molto profittevole, che partecipa a delle interessanti gare d’appalto per intercettare i
capitali puliti e riciclare quelli sporchi (altrove illecitamente accumulati). In questo
caso, il procedimento ha previsto l’individuazione di imprenditori puliti ed estranei
89
con i quali entrare in contatto, affinché si dimostrassero “graditi” alla famiglia
Piromalli. Laddove si sono creati dei contrasti con i Molé circa la scelta degli
imprenditori, è stato possibile instaurare immediatamente un’altra alleanza più forte
e funzionale al raggiungimento dell’obiettivo. In seguito, avendo messo in piedi un
sistema di prestanome e avendo diluito la catena dei soggetti coinvolti fino a
mimetizzare la presenza della cosca, è stato possibile intervenire sulla gara
d’appalto e vincerla, accaparrandosi per questa via la proprietà della cooperativa.
Il “punto debole” dell’operazione che ha smantellato l’infiltrazione sta nel fatto di essere
stata innescata (o comunque accelerata) in seguito alla denuncia sporta da un operatore
della All Services che era stato licenziato dopo l’impossessamento da parte degli Alvaro.
Il che fa sorgere un dubbio: l’infiltrazione e l’inabissamento erano stati così ben condotti da
mimetizzarsi perfettamente con le attività portuali e senza denuncia non è chiaro se
sarebbe mai stata individuata la presenza criminale nella cooperativa.
Bisogna concluderne che non ci sono ancora meccanismi efficaci che funzionino da
campanelli d’allarme per snidare con anticipo questi tentativi di inquinamento criminale
delle attività economiche?
Proveremo ad accennare una risposta nel prossimo paragrafo, per poi arricchire l’analisi
nel capitolo seguente, con altri esempi concreti e l’elaborazione di un modello
econometrico.
5.5 Perché l’analisi SWOT non basta.
PUNTI DI FORZA
• Posizione geografica strategica sulla rotta Suez-Gibilterra
• Elevato numero di connessioni marittime e servizi
• Ottime dotazioni infrastrutturali: profondità del canale portuale, spazio nel retroporto
• Presenza dei principali operatori mondiali: Maersk Sealand, NYK, Gruppo Eurokai
• Destinatario di rilevanti flussi di finanziamenti pubblici nazionali e comunitari
• Presenza di un distretto tecnologico collegato con i più importanti centri di ricerca nazionali sulla logistica
FATTORI DI DEBOLEZZA
• Clima speciale poco favorevole all’iniziativa imprenditoriale, cui si aggiunge l’assenza di tradizione nel settore logistico
• Mancanza di una governance forte che individui obiettivi, programmi, scelte e attivi risorse con un forte sostegno politico
• Forte pressione della malavita organizzata • Lontananza dai mercati di sbocco • Carenza di spazi per attività port required • Problemi infrastrutturali in campo ferroviario
OPPORTUNITA’
• Crescita dei traffici containerizzati • Trasformazione di modelli organizzativi • Zona franca nel demanio portuale
MINACCE
• Crisi del modello di transhipment? • Concorrenza esercitata dai nuovi porti
entrati in esercizio di recente
90
• Sviluppo di Gioia Tauro come hub di transhipment internazionale nel settore auto
• Terminal ferroviario • Finanza pubblica per il Mezzogiorno: risorse
programmate derivanti da fondi nazionali e comunitari per lo sviluppo
• Dipendenza dalle scelte dei grandi operatori portuali
L’analisi SWOT che abbiamo riportato riguarda nello specifico il porto di Gioia Tauro, ma
presenta una serie di limiti.
A ben guardare, gli ingenti flussi di fondi nazionali e comunitari sono elencati al contempo
come punto di forza attuale e opportunità per il futuro. Tuttavia, sembra una conclusione
affrettata che meriterebbe qualche riflessione in più.
Innanzi tutto, bisogna ricordare che proprio l’eccessiva dipendenza dal finanziamento
pubblico ha reso il settore vulnerabile all’infiltrazione della criminalità, come abbiamo
dimostrato nel capitolo sui costi della c.o. in termini di sviluppo mancato.
Sembra altresì difficile poter sostenere che i fondi comunitari rappresentano una grande
opportunità, visto che:
a) nel corso dei precedenti cicli di programmazione le capacità di spesa di
molte istituzioni si sono dimostrate insufficienti e fallimentari;
b) dopo il settennio 2007-2013 le regioni del Sud Italia usciranno dal quadro di
sostegno “obiettivo-Convergenza” e non potranno ulteriormente fruire dei
fondi strutturali nella massiccia misura in cui hanno fatto fino ad oggi.
Quanto all’opportunità di sviluppare Gioia Tauro come hub internazionale nel settore auto,
bisogna sottolineare la lentezza con cui procedono i lavori e la mancanza di grandi
operatori, data la presenza esclusiva di BLG Logistics.
Inoltre, deve venire in considerazione la potenziale pericolosità di un mercato
dell’automobile come fonte privilegiata di riciclaggio del denaro sporco. Non è da
trascurare, infatti, la già sproporzionata dimensione che questo mercato ha raggiunto nella
Piana di Gioia Tauro: tra saloni, concessionarie e rivendite mutlimarche, sembra essere
fiorita un’improbabile giungla.
Il che deve far riflettere, soprattutto in merito alla vendita delle auto usate, sul fatto che
nelle pieghe di un così diffuso settore possa trovare uno spazio conveniente anche
l’infiltrazione della c.o. (in molti casi già accertata).
Se la crescita dei traffici containerizzati è vista come un’opportunità da afferrare al più
presto per rimanere in corsa con gli altri grandi scali commerciali del Mediterraneo e
d’Europa, non è chiaro perchè si debba considerare una minaccia la possibile crisi del
91
transhipment: forse sono allo studio nuove modalità di trasbordo e distribuzione delle
merci? Allora, a maggior ragione, le strutture portuali dovrebbero sorgere adeguatamente
flessibili sin da questi anni di intensa progettualità.
Quanto, infine, alla presenza di grandi operatori mondiali, le valutazioni devono essere
molto prudenti: Gioia Tauro potrebbe scontare, ad esempio, la scelta di Grand Alliance di
trasferirsi a Cagliari in seguito a un accordo con Contship che mira a salvare la
concessione nello scalo sardo.
Ma la situazione è pronta a ripetersi ogni qualvolta un operatore portuale individui delle
opzioni più convenienti ed attrattive. Dunque, la vera problematica è la scarsa
concorrenza, il basso numero di operatori che fruiscono dello scalo gioiese, in quanto si
determina una situazione di oligopolio.
Come dimostra questo esempio, il “metodo preventivo” di ricostruzione del contesto
permette di andare più a fondo nell’analisi e di mettere in evidenza delle criticità che a
prima vista neppure lo strumento dell’analisi SWOT consente di cogliere.
In siffatte condizioni, il sistema si presenta gravemente vulnerabile dall’aggressione
criminale attraverso vari canali:
� infiltrazione politica negli Enti locali che partecipano alle intese istituzionali (APQ,
erogazione di fondi...),
� sfruttamento di un vantaggio “just-in-time” : attivare i preparativi ( = acquisto di
materie prime e mezzi per la cantieristica; acquisto di terreni che si prevede
diventeranno edificabili e saranno espropriati; smobilizzo di risorse finanziarie
liquide; attivazione di nuove alleanze con soggetti dotati di competenze specifiche
nel settore d’interesse; costituzione di società ad hoc con l’individuazione di
prestanome) durante il lasso di tempo che separa l’annuncio di nuovi stanziamenti
e la pubblicazione del bando di gara, in quanto si tratta di un’informazione
strategica di cui si viene in possesso con largo anticipo,
� manipolazione delle gare di appalto e infiltrazione nei lavori (con una pluralità
di tecniche che vanno dagli accordi sulle offerte all’accaparramento di subappalti e
forniture, all’estorsione, all’imposizione di manodopera, e così via).
Le enormi potenzialità espansive delle attività portuali si scontrano, quindi, con due ordini
di ostacoli:
� un sistema di sicurezza non immune dal pericolo tangibile di infiltrazione mafiosa;
92
� l’isolamento del porto rispetto al retroterra per mancanza di collegamenti viari, ma
anche di attività industriali per la trasformazione ed esercizi per la
commercializzazione.
Per queste ragioni si fa urgente la messa in sicurezza, potremmo dire la “sterilizzazione ”,
dell’area dal condizionamento distorsivo e frenante della ‘ndrangheta.
La port security comprende, dunque, dispositivi tecnologici per la sicurezza attiva e
passiva dell’area, da attivarsi mediante l’impiego di specifiche unità operative delle Forze
di polizia all’uopo costituite, ma anche per mezzo di grandi capacità di previsione e
prevenzione.
93
CAPITOLO V
APPENDICE I
TAVOLE STATISTICHE DEGLI INDICATORI
MACROECONOMICI IN CALABRIA
94
Calabria Italia popolazione totale* 2011466
PIL abitante (%) (UE25=100) 68 109 Tasso occupazione 44,60% 57,50% Tasso dispoccupazione 14% 7,70%
attività economiche principali (% totale occupati) agricoltura 12,4 4,2
Industria
19,3 (di cui il 10% solo
costruzioni) 30,8
settore terziario
68,3 (di cui il 15,3% solo commercio) 65
tasso totale di irregolarità nel lavoro 32% 13,50%
propensione all'export (% PIL) 1,1 21,5 spesa R&S (% PIL) 0,4 1,14
flussi IDE in entrata (% PIL) 0,1
(Mezzogiorno) 1,1 saldo migratorio interno -4,70% -0,70%
occupati* in cerca* studenti* casalinghe* ritirati* in altra condizione* totale 539915 175009 174161 225843 289095 271585 1675608
non classificati 335.858
agricoltura* industria* commercio* trasporti* credito assicurativo* altre attività* totale occupati 73267 115818 95369 24819 39150 191492 539915
PA; sevizi* sociali e
personali; istruzione, ecc
dipendente/subordinato* imprenditore* libero
professionista* in
proprio* socio
cooperativa* coadiuvante
familiare* 411774 13091 23149 84232 3845 3824
distribuzione demografica
Catanzaro Cosenza Crotone Vibo Valentia Reggio
Calabria totali popolazione Comune* 95251 72998 60010 33957 180353 442569popolazione provincia* 369578 733797 173122 170746 564223 2011466numero Comuni 80 155 27 50 97 409
popolazione media Comuni (escluso capoluogo) 3429,0875 4263,219355 4189,333 2735,78 3957,42268 3714,968574 * Censimento Istat-2001
* Il totale degli impiegati in attività di servizio e Pubblica amministrazione risulta pari al 35% del totale degli occupati: un evidente caso di sovradimensionamento del settore terziario rispetto alle esigenze produttive ed economiche della Regione. Se aggiungiamo come componente del terziario anche la categoria del commercio, il rapporto rispetto al totale degli occupati risulta addirittura del 53%.
I distretti industriali non sono diffusi in Calabria: si possono annoverare solo tre poli dell'agroalimentare concentrati a Bisignano, Maierato e nella zona della Sibaritide. Il commercio è il settore quantitativamente più presente, ma la Calabria rappresenta un mercato di sbocco per la produzione di beni finiti realizzati altrove. Il volume delle esportazioni è ridotto e riguarda soprattutto prodotti dell'industria alimentare, dell'orticoltura e della floricoltura, delle materie prime plastiche e derivate di lavorazioni chimiche. Le bilance commerciali di tutte le cinque province della Regione sono pesantemente passive, soprattutto dopo la crisi del 2005. Nel corso di altre rilevazioni, si è riscontrato uno scarso tasso di funzionamento degli Sportelli Unici per le Attività Produttive, progettati per costituire un aiuto alla semplificazione burocratica e una riduzione della tempistica per le pratiche di avvio di attività imprenditoriali. Molti Comuni non hanno attivato tali Sportelli oppure questi non lavorano in maniera adeguata. Dal quadro demografico in basso si deduce che la popolazione calabrese è disseminata in Comuni di piccola entità, della dimensione media di 3715 abitanti circa. Il caso di Vibo Valentia è ancora più emblematico: la dimensione di questa provincia è quasi uguale a quella di Crotone, ma il numero di Comuni è doppio. Il risultato è una popolazione media di appena 2735 abitanti. Questa distribuzione squilibrata è aggravata dai difficili collegamenti territoriali ed accentua la percezione di scollacciamento e frammentazione.
95
Errore.
Nel Mezzogiorno d’ Italia non vi è scarsità d’ imprese, tuttavia è la loro dimensione a non essere adeguata alle esigenze attuali del mercato e della competitività. La microimpresa non ha la forza di imporsi nel contesto di mercati integrati e concorrenziali come quello europeo.
Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006
96
L’ intera penisola non investe a sufficienza nel settore della Ricerca e dello Sviluppo, tuttavia questa carenza si avverte in maniera ben più marcata nelle regioni meridionali. Le dinamiche di spesa dimostrano che ci sono segnali di buona volontà verso la strada dell’economia della conoscenza, ma rimane il ritardo accumulato. La Calabria, in particolare, arretra quasi del 50% rispetto alla media del Mezzogiorno e raggiunge appena un terzo dell’ investimento medio registrato nell’area Centro-Nord del Paese.
97
Ministero del Commercio Internazionale
La propensione all’esportazione è praticamente inesistente in Calabria: questo significa che il grado di internazionalizzazione della regione è molto scarso, a totale detrimento delle possibilità di crescita e di proiezione sui mercati esteri. In tempi di integrazione così spinta, non è possibile restare “ isolati” .
98
Ministero del Commercio Internazionale
L’evidenza grafica dimostra che la Calabria è un importatore netto. In realtà, si nota anche come il livello delle esportazioni sia pressoché costante nel decennio, mentre le importazioni crescono più rapidamente. La Calabria permane nel suo stato di mercato di sbocco per beni finali realizzati presso altre realtà produttive.
I dati, sebbene non ripartibili a livello territoriale, dimostrano la scarsa attrattività esercitata dal Mezzogiorno sugli investimenti diretti esteri. Una conferma ci viene anche dalle analisi SVIMEZ.
Fatto 100 il valore del Centro-Nord, il Mezzogiorno ha una proporzione invisibile di IDE.
SVIMEZ- 2006
99
Confindustria Cosenza- Rapporto sull’economia calabrese nel 2005
La tabella mostra un’analisi comparata del livello di spesa per lo sviluppo del settore pubblico allargato in Calabria, Lombardia, Emilia-Romagna e Mezzogiorno aggregato. Per ogni singolo settore, il livello di spesa in valore assoluto risulta per la Calabria di molto inferiore rispetto ai risultati di regioni “altamente performanti” . Alcune voci di spesa sono di dimensioni irrisorie in proporzione all’ importanza e al contributo che sono in grado di apportare allo sviluppo: esempi ne siano l’ambiente, i rifiuti, il ciclo integrato delle acque, la maggior parte dei settori concernenti la formazione, la ricerca, l’assistenza sociale, le telecomunicazioni e la sicurezza. Le aree che hanno ricevuto i maggiori incrementi di spesa nel corso dei sei anni considerati sono Energia (+6,8%); Industria e Servizi (+21,8%); Edilizia (+7,8%); Viabilità (+13%); Altri Trasporti (+6,8%). Da sempre questi sono i settori che assorbono le maggiori quote di spesa, dimostrando di non uscire dallo stato di criticità in cui versano.
100
A livello ambientale, l’emergenza rifiuti pare lontana dal trovare una risoluzione, soprattutto vista la limitatezza della raccolta differenziata e la scarsa presenza di discariche speciali. Reti idriche e di depurazione non coprono completamente il territorio.
SVIMEZ- 2006
101
L’hub interportuale costituisce una sorta di “concentratore” , ossia è una struttura che combina l’ intermodalità trasportistica. Il porto di Gioia Tauro, ad esempio, può diventare molto più efficace attraverso il collegamento stradale e ferroviario al resto della rete terrestre. Da sola, la dotazione portuale/aeroportuale non è sufficiente per contribuire allo sviluppo, poiché si rischia di isolare tali strutture. Vi è la necessità di una loro integrazione con il territorio: questo faciliterebbe l’accesso e i collegamenti, riducendo i costi. Inoltre, contribuirebbe alla diversificazione produttiva e incrementerebbe la qualità dei servizi connessi.
102
Gioia Tauro è oggi una delle risorse più preziose della Calabria. Tuttavia è ancora oggi un progetto frenato, poco valorizzato. Bisogna fare di Gioia Tauro la “porta” europea e mediterranea della Cina e dell’ India. Un grande porto di trasbordo ma anche un grande porto commerciale, un grande porto industriale. Un porto cioè che non solo movimenti containers anonimi, bensì un porto con un retroterra di attività di trasformazione di parte delle merci contenute nei containers. E’ questa la sfida dei prossimi anni. Fare di Gioia Tauro e del suo interland un grande e articolato distretto della logistica e della produzione, un grande hub e un grande produttore tra estremo Occidente e estremo Oriente. Gioia Tauro è il nostro ariete nei processi di apertura alle nuove economie e alle società che si affacciano sul Mediterraneo. Confindustria Cosenza- Rapporto sull’economia calabrese nel 2004
Questo risultato va letto alla luce della scarsa dotazione interportuale di cui soffre Gioia Tauro. Il dato, infatti, dimostra che nel porto calabrese avviene esclusivamente la movimentazione di containers. Siamo di fronte a mero transhipment, senza attività connesse.
Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006
103
Tassi sui prestiti a breve
7,00%
7,50%
8,00%
8,50%
9,00%
9,50%
2004 2005 2006
anni
valo
ri pe
rcen
tual
i Reggio Calabria
Catanzaro
Cosenza
Crotone
Vibo Valentia
Il Sole-24 Ore. 18 dicembre 2006
Il tasso d’ interesse sui prestiti a breve termine è, nelle province calabresi, molto più alto che nel resto del Paese. La media nazionale è del 6,60% nel 2006, mentre a Firenze, la prima provincia d’ Italia in merito ai tassi d’ interesse a breve, è del 4,43%
104
Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006
105
0
10
20
30
40
50
60
agricoltura industria (tot.) tot. settori
Calabria
Centro-Nord
Italia
SVIMEZ-2006
Sebbene non sia possibile effettuare stime quantitative puntuali sulle reali condizioni del mercato del lavoro irregolare, in quanto proprio per la sua natura sfugge al controllo e alla contabilizzazione, tuttavia è innegabile che l’ incidenza dell’ irregolarità sia alta in Calabria. Il suo tasso è proporzionale al numero di addetti al settore: l’agricoltura, ad esempio, ha il maggior numero di occupati e raggiunge un tasso di irregolarità pari al 52,9%. Analoga considerazione vale per il settore delle costruzioni.
106
È ripreso, ed è particolarmente intenso, il flusso migratorio interno all’ Italia. La direzione è Sud-Nord, con una perdita per la Calabria di circa il 4,5 per 1000 della popolazione.
Confindustria-Ipi. Check up Mezzogiorno 2006
107
CAPITOLO V
APPENDICE II
IL CASO DI GIOIA TAURO VISTO DA UN’ALTRA PROSPETTIV A
Un racconto… intitolato “I segni sul territorio”.
Questa breve appendice narrativa nasce dall’esigenza di lasciar parlare anche le
esperienze vissute in prima persona, al di là del grado di formalizzazione dei modelli e dei
paradigmi esplicativi. Perché ci sono cose difficili da spiegare “scientificamente” ma sono
lampanti e gridano a gran voce la loro parte di verità.
Il racconto che segue è la semplice cronaca di una giornata qualunque in cui il computer è
rimasto spento sul tavolo da lavoro, mentre gli occhi (anche quelli della mente) hanno
voluto sbirciare la realtà vera.
Un ricercatore che vive in Calabria e che si occupa di problematiche connesse al mancato
sviluppo economico per effetto (anche) del condizionamento criminale, non può trascurare
di recarsi personalmente a constatare lo “stato di salute” del porto di Gioia Tauro.
Chiamerò questo racconto “I segni sul territorio”: quelli che mi aspettavo di trovare e che
non c’erano; quelli che non dovrebbero essere lì e, invece, ci sono.
Lo sviluppo è visibile, innanzi tutto. Si percepisce già guardando un’area, poi si ricavano i
dati e si effettuano gli studi scientifici.
Ed io, a Gioia Tauro, lo sviluppo non l’ho visto. In secondo luogo, ho anche accertato che
non c’è, purtroppo.
Era il 15 settembre 2008, lunedì mattina di un periodo quasi autunnale: a rigore di logica,
dovrebbe essere un momento di piena, instancabile e laboriosa attività.
Con tutte queste aspettative, armata di pazienza per affrontare gli eterni cantieri
dell’autostrada SA-RC, giungo a Gioia Tauro.
All’improvviso, un risveglio traumatico. Anzi, la sconcertante conferma di un sospetto: lo
sviluppo è assente.
108
La città accoglie malissimo: le strade sono ridotte letteralmente in brandelli di asfalto
cadente. Il tessuto urbano è ridotto ancora peggio: è fatiscente, privo di segnaletica
adeguata. Le abitazioni si presentano in forte degrado, semi-crollate o non completamente
edificate, in parte persino abbandonate.
Colpisce la forte concentrazione di grandi concessionarie di automobili: se ne conta una
ad ogni isolato. Il resto delle attività commerciali è costituito, invece, da una congerie di
piccoli agricoltori ambulanti o magazzini cinesi di abbigliamento (quelli con le lanterne
rosse come insegna).
Decido di non avventurarmi oltre nel centro della città, preferisco visitare l’area portuale. È
lì che vorrei cercare le risposte più importanti.
Il percorso per raggiungere il porto è complesso e tortuoso: capisco che di sicuro non è la
strada seguita dagli autotrasportatori.
Per come è disposto il porto, nel territorio di Gioia Tauro si trovano soltanto i centri
amministrativi: vedo in sequenza i palazzi dei Carabinieri, dei Vigili del Fuoco, della Polizia
di Stato; più in là trovo la Capitaneria di Porto e la sede della Port Authority (sui cancelli
leggo il cartello “Sorveglianza armata”).
Sembra un deserto, non c’è nessuno. Mi è chiaro che questa zona non è adibita alle
attività di carico e scarico: posso solo fruire di un colpo d’occhio sulle gru immobili e su
qualche container accatastato.
L’ingresso al porto e gli allacciamenti stradali si trovano qualche chilometro oltre, a San
Ferdinando. Imbocco la SS 18 Tirrenica inferiore: una bretella di asfalto che attraversa una
zona rurale, la cui vocazione agricola è interrotta di tanto in tanto da qualche impianto
dismesso.
Giunta all’ingresso del porto, non posso fare a meno di notare che ci sono dei grandi
segnali ad indicare la 1° e la 2° area industriale.
Area industriale? Io ho visto solo due colline con pochi alberi e senza impianti “industriali”,
neppure in costruzione. Ancora una curva e giungo alla dogana del porto: ovviamente
l’ingresso non è consentito senza l’autorizzazione della Port Authority, salvo poi sapere
che i principali traffici illegali di droga, armi e merci contraffatte passano per di là.
Mi dico che, se non posso entrare, posso aspettare fuori per cercare di osservare il
volume di traffico tir che si genera nella zona.
Niente da fare: da lì non è entrato né uscito alcun automezzo.
La visita si conclude con un sostanziale fallimento, ma è stata ugualmente ricca di spunti
analitici.
109
La decisione di recarsi personalmente a visionare la zona portuale è nata dall’idea di non
accettare in maniera supina e passiva le notizie che si reperiscono su Gioia Tauro, perché
sono pur sempre filtrate dall’interprete e dalla fonte che le emette.
Il manzoniano “sugo” di questa avventura è molto chiaro: il porto di Gioia Tauro è una
bolla di sapone e in tanti anni di storia travagliata non ha mantenuto una sola delle sue
promesse. È nato, e vive, acefalo nell’indifferenza totale da parte della popolazione locale.
Il tessuto sociale retrostante è completamente sfilacciato, passivo, inerte.
I “segni sul territorio” che il vero sviluppo lascia, sono un paesaggio urbanizzato armonico,
in sintonia con l’ambiente circostante ed un equilibrio sostenibile, un benessere diffuso e
una partecipazione attiva da parte degli abitanti.
I luoghi non trasudano quel “climate” industriale e commerciale di cui dovrebbe essere
impregnata una zona con tale vocazione.
Viene da pensare che si sia verificato un “corto circuito” nei processi di analisi del territorio
nella fase cruciale in cui si deve individuare e potenziare la sua vocazione naturale. Ben
diversa e ben più accurata avrebbe dovuto essere l’azione di marketing territoriale che ha
portato, invece, solo immensi sprechi di denaro pubblico, investimenti sbagliati ed
improduttivi, incrementi feroci della predatorietà delle cosche criminali.
La ricerca di risposte e conferme ha generato nuove domande. Dalla lettura di questo
racconto si potrebbe dedurre che i milioni di container movimentati ogni anno nel
“principale porto del Mediterraneo” siano una bufala.
E invece no. Non è un problema di cifre.
I container e le grandi navi che entrano ed escono dal porto ci sono sicuramente. La
sfortuna, semmai, è stata quella di capitare lì in una giornata tranquilla e con poco
movimento.
La qustione è un’altra: bisogna ridimensionare il gran parlare che si è fatto sullo “sviluppo”
e sul “rilancio” dell’economia calabrese a partire dal porto di Gioia Tauro.
Ad oggi, quali e quanti benefici ha prodotto un decennio di transhipment? Per chi è un
vero affare?
Non c’è pessimismo in queste osservazioni, tanto meno un surrettizio tentativo di
politicizzare il problema.
Vi è solo il tentativo di introdurre una visione chiara e realistica dei risultati generati dal
combinarsi di decisioni accumulatesi nel tempo.
110
D’altronde, il porto è lì e chiunque può vederlo. Ma anche le strade sfasciate, le case
diroccate, le industrie (inesistenti) stanno lì. E lì rimangono. A testimoniare che qualcosa di
importante, di sostanziale, di fondamentale non funziona come dovrebbe.
111
CAPITOLO VI
Excursus di esempi concreti e costruzione di un modello gen erale.
Premessa.
In questo capitolo, continueremo a trarre degli elementi utili dall’analisi dei casi concreti
per confrontare differenti dinamiche comportamentali del crimine (gli script), al fine di
individuare un modello econometrico di ampia capacità descrittiva.
6.1 Ancora qualche esempio di script criminale.
Nel condurre la ricostruzione dei singoli casi, l’intervista concessa da un magistrato
reggino “dell’antimafia” ha permesso di individuare un paradigma insolito, una novità
nell’infiltrazione criminale. Esaminiamo la scansione dei fatti.
• APPALTO: restauro del Palazzo dell’Amministrazione Provinciale di Reggio
Calabria.
• VINCITORE: imprenditore edile di Genova.
• 1° VICENDA: un imprenditore reggino si offre di (a uto)aggiudicarsi in subappalto la
fornitura di mezzi tecnici ed eventualmente di manodopera in loco. Il titolare
dell’impresa rifiuta, in quanto possiede mezzi propri e la sua ditta è autosufficiente.
• 1° RITORSIONE: l’imprenditore reggino organizza un a incursione nel cantiere ed
impedisce ad interim la prosecuzione dei lavori.
• 2° VICENDA: i due imprenditori vengono in contatto e la richiesta estorsiva muta:
ora è fatta esplicitamente in denaro, ma con la “finalità” di raccogliere offerte utili al
sostentamento delle famiglie dei detenuti, per alleviarne le spese legali e la povertà.
Come giustificare dal punto di vista contabile le uscite?
• 1° NOVITA’: l’imprenditore reggino, in quanto tito lare anch’egli di una ditta edile, si
offre di fatturare il prezzo dell’estorsione attraverso l’emissione di documenti che
attestano la fornitura di materie prime ed inerti (mai consegnati, ovviamente). La
112
fornitura fasulla, quindi, avrebbe consentito di giustificare tali voci di spesa nella
contabilità dei lavori.
• 2° NOVITA’: uno degli argomenti usati dall’imprend itore reggino per convincere il
genovese a pagare, ha riguardato il fatto che la “regolare” fattura sarebbe stata
fiscalmente detraibile , con la conseguente opportunità di ammortizzare in parte il
costo sostenuto per onorare il pagamento del pizzo.
• CONCLUSIONE: l’infiltrazione è rimasta allo stato di solo tentativo perché
l’imprenditore genovese si è rivolto all’autorità giudiziaria sin dalle prime richieste,
collaborando alla chiusura dell’indagine.
Nel tracciare un excursus dei cambiamenti intervenuti nelle tecniche operative adottate
dalla c.o., lo stesso magistrato individua tre fasi storicamente successive:
1) in passato, il medesimo vincitore della gara d’appalto chiedeva informazioni sul
“capo locale” per concordare la tranquillità nello svolgimento dei lavori.
Generalmente, il costo di queste “spese per la sicurezza” si aggirava intorno al 5%
dell’importo complessivo dei lavori. Con l’intermediazione di soggetti conoscenti era
persino possibile negoziare uno sconto che scendeva al 4%, oppure al 3,5%. Tutta
questa procedura di “preventiva e spontanea” iniziativa dell’imprenditore è sempre
stata denominata “mettersi in regola”.
2) In seguito, si è passati ad una forma mista che al prelievo in denaro ha cominciato
ad affiancare l’offerta di mezzi.
3) La forma più compiuta di infiltrazione è la tecnica moderna che tenta di orientare le
scelte dell’imprenditore sulla manodopera segnalata e sulla fornitura di materie
prime, rivolgendosi ad imprese già mafiose o comunque “satelliti” della cosca.
Questo è lo “stato dell’arte” per quanto riguarda gli script più frequentemente rilevabili in
materia di appalti pubblici per l’esecuzione di lavori o per la somministrazione di forniture.
Se, però, ricordiamo quanto specificato a proposito degli script nel capitolo di teoria,
nell’analisi di ulteriori casi, potremo riscontrare la flessibilità e le capacità di adattamento
che i comportamenti criminali riescono ad esprimere.
Un esempio completo ed organico del modello di “managerializzazione” che sta guidando
le nuove scelte strategiche da parte di Cosa Nostra siciliana, riguarda un complesso caso
che ha messo insieme le vicende di avvocati, società calcistiche ed interessi immobiliari.
113
Si tratta di considerevoli investimenti orientati alla costruzione del nuovo stadio con
annesso ipermercato a Palermo, sfruttando peraltro l’indotto del club rosanero, senza
escludere gli 8 milioni di euro investiti su un complesso residenziale a Chioggia, in Veneto.
Anche le estorsioni hanno assunto una nuova modalità: biglietti gratuiti per assistere alle
partite del Palermo calcio giocate in casa, da spartirsi equamente tra tutte le famiglie sul
cui territorio ricade lo stadio.
Sempre in ambito sportivo, non può trascurarsi l’importanza del calcio-mercato, molto
florido ed appetibile per i faccendieri mafiosi mascherati da procuratori calcistici per i
talenti emergenti del pallone.
6.2 Uno script di “raffinatezza finanziaria”.
Un elemento ancora troppo trascurato, ma che riguarda da vicino ed in maniera
sostanziale la previsione di un efficace metodo preventivo, è la “rapidità adattiva ” che
alcune cosche mafiose stanno dimostrando negli anni.
Tale dinamismo, unito all’abilità nell’apportare degli adattamenti, è la chiave del successo
moderno per la criminalità organizzata.
Fonti della magistratura rivelano che sono già in atto degli imponenti riassetti strategici
all’interno degli ambienti criminali per instaurare rapporti con gli imprenditori ed i banchieri,
per attivare in particolare nuove forme di riciclaggio.
I legami con l’economia “reale” sono già stati chiariti nell’ambito del freno allo sviluppo che
la c.o. è in grado di rappresentare. Viceversa, per corroborare la tesi di un’urgente riforma
delle politiche di contrasto in senso preventivo, saranno ora esaminati gli aspetti legati
all’impressionante espansione conosciuta in anni recenti dall’economia “finanziaria”.
Com’è noto, attraverso l’emigrazione la criminalità organizzata ha potuto installare le
proprie basi in aree dell’Italia e del mondo che sono finanziariamente dinamiche ed
effervescenti.
Basterà citare, ad esempio, il caso della Lombardia. Qui l’economia reale è altamente
sviluppata ma non risulta essere stata troppo spesso vulnerabile all’infiltrazione criminale.
Viceversa, si tratta di una regione molto ricca ed avanzata sotto il profilo finanziario.
Ed è in questo settore che la c.o. ha mostrato di poter fare il cd “salto di qualità” nel
raffinare la propria capacità imprenditoriale. Sono stati elaborati, infatti, dei nuovi metodi
per riciclare denaro sporco: non avviene più il deposito di somme presso la banca, bensì si
ottengono dei prestiti sulla base di garanzie fittizie. La pulitura del denaro avviene al
momento della restituzione delle rate del prestito.
114
Come si può notare, il metodo ha di ingegnoso il fatto che i capitali ottenuti in prestito sono
già puliti e sono immediatamente fruibili per concludere altri affari: appalti, società di
servizi e così via. Ciò che viene restituito, si “lava” al momento del saldo del debito,
ottenendo così una doppia “pulitura” dei capitali.
Il doppio vantaggio è solo criminale, in quanto si trasforma in un doppio danno per
l’economia: il capitale prestato passa dal mercato “bianco” lecito nelle mani della c.o. e
viene quindi spostato nell’area del grigio. Il denaro sporco restituito proviene, a sua volta,
dal mercato “nero” completamente illecito e si ripulisce passando nell’area del grigio.
Il risultato è una perdita netta per il mercato bianco ed una nuova espansione del grigio,
sempre più invadente.
Benché sia chiaro il meccanismo, perseguirlo efficacemente è piuttosto difficile perché:
- per stanare il riciclaggio bisogna partire dalla dimostrazione del reato
presupposto;
- la legge 231/2007 ha introdotto nuove e più severe responsabilità per i
professionisti in tema di segnalazione delle operazioni sospette, ma è una
disciplina scarsamente applicabile in mancanza di una riforma delle norme
vigenti sostanziali.
La conclusione è, dunque, davvero mortificante: “la ‘ndrangheta fa i suoi affari con una
capacità di aggiornamento spaventosa, a dispetto dell’assetto normativo che cammina
zoppicando al cospetto della locomotiva malavitosa”.
6.3 L’aggiornamento del modello di Gary Becker.
Queste amare e realistiche considerazioni non mettono la parola “fine” alla nostra ricerca,
bensì costituiscono uno stimolo per avviare un’interessante revisione del modello
beckeriano sulla scelta razionale di delinquere.
Procediamo per gradi.
L’obiettivo è quello di mettere a frutto le conoscenze e gli strumenti concettuali di cui ci
siamo dotati fino a questo punto. In particolare, vedremo in che modo può essere utile
l’analisi di contesto per costruire dei parametri significativi come indicatori di rischio.
Per tentare di raggiungere questo obiettivo, ripartiremo dal fil-rouge che ha informato tutto
il lavoro: abbiamo utilizzato una prospettiva esclusivamente economica per cercare di
comprendere a fondo i meccanismi comportamentali e le aree di interesse per la
criminalità organizzata, rifiutando – ma non disconoscendo! – un approccio all’argomento
più tradizionale a sfondo storico-giuridico.
115
Abbiamo, infatti, rintracciato i segni della modernità mafiosa, i processi che stanno
cambiando la pelle ad un fenomeno che fino a qualche anno fa aveva ancora delle
coloriture folkloristiche come nell’immagine caricaturale che segue.
Figura 4_ "Probi, onesti, efficienti". Disegno di Pino Caruso
Sull’orma degli studi di Gary Becker, abbiamo potuto osservare come i comportamenti
criminali siano caratterizzati da razionalità, calcolo della convenienza costi-benefici, oggi
persino con una raffinatezza finanziaria che rivela un eccezionale dinamismo
imprenditoriale.
Il discorso porta necessariamente alla spiegazione del perché si commettono reati. Il
lavoro di Becker, considerato il caposcuola dell'analisi economica della criminalità e del
diritto penale, costituisce il quadro di riferimento teorico di tutti gli sviluppi successivi di
questa analisi. Per Becker «una persona commette un reato se l'utilità attesa è migliore di
quella che potrebbe ricevere usando il suo tempo ed altre risorse per altre attività». Come
per dire che un individuo sceglie di diventare criminale quando i benefici presunti di questa
attività sono maggiori di quelli derivanti da una opportunità legale, quando esistenti,
sottratti i costi.
Il comportamento criminale, secondo Becker, può essere spiegato all'interno di una
generale teoria economica per la quale il numero dei reati commessi da un individuo
dipende dalla probabilità di essere condannato, dalla presunta severità della sanzione, e
da altre variabili come il reddito disponibile per attività legali o illegali, variabili ambientali, e
variabili legate alla volontà di commettere un atto illegale. La formula base di questo
ragionamento viene così espressa:
0 = O(p; f; u)
dove O è il numero dei reati commessi da una persona in un particolare periodo, p la
probabilità di essere condannato per quel reato, f la sanzione per quel reato, u una
variabile comprensiva di tutte le altre influenze.
116
Un aumento in p ed f cioè il prezzo del reato, dovrebbe ridurre l'utilità attesa dal
comportamento criminale e di conseguenza ridurre il numero dei reati. Così come
cambiamenti in alcune componenti di u, come l'aumento del reddito percepibile in una
attività legale, o un aumento nell'educazione a rispettare la legge, o altro ancora,
potrebbero ridurre gli incentivi ad entrare in attività illegali, e quindi di conseguenza ridurre
il numero dei reati. Schematizzando ulteriormente il ragionamento di Becker e attribuendo
un valore medio per ciascuna delle variabili p, f, u si può affermare che per ogni individuo il
numero dei reati O commessi in una data comunità è negativamente correlato a p, f, e u.
Questo modello spiega il comportamento di un ipotetico criminale razionale informato sui
costi ed i benefici della sue decisioni.
Tentiamo ora di esplicitare meglio il contenuto del modello: esso richiede la definizione di
tre set di variabili indipendenti.
Il primo riguarda la probabilità di essere arrestati/ condannati e la severità della sanzione
che verrebbe inflitta per quel reato. Il secondo set riguarda certe condizioni del mercato
del lavoro (tasso di disoccupazione e reddito medio) che influenzano l'alternativa tra lavoro
legale e reato. Il terzo, composto da variabili di controllo, riguarda certi tipi di condizioni
socio-economiche (composizione di età, razza, percentuale della popolazione vivente in
aree urbane) che in modo diverso possono influenzare la decisione di commettere un
reato.
Alla luce di tutte le informazioni di cui disponiamo oggi, e soprattutto sulla scorta del case
study applicato ad una pluralità di settori, possiamo tentare di aggiornare il modello
beckeriano, arricchendolo con nuovi parametri rappresentativi delle scelte criminali, al fine
di aumentarne il potere esplicativo e predittivo19.
Un sub-obiettivo di questa idea consiste nel costruire un sistema di campanelli d’allarme
sul modello della “bandierina rossa”: quando viene sventolata, significa che si è in
presenza di una realtà non più ignorabile, che necessita di risposte immediate.
In questo intento, ci aiuta il concetto di “suscettibilità criminale”: essa si misura attraverso il
grado in cui l'organizzazione e la struttura di una determinata attività creano incentivi per
attività criminali oppure procurano mezzi ed opportunità ai criminali dentro e fuori l'attività
per controllare e/o influenzare le componenti nevralgiche di quella attività.
Il risvolto della suscettibilità criminale è il “potenziale criminale” cioè la possibilità e la
capacità dei criminali di sfruttare le vulnerabilità di una determinata attività. Per analizzare
il grado di potenzialità criminale occorre identificare i diversi fattori di quella attività, come 19 Bisogna tuttavia premettere che la messa a punto dei parametri e il test del modello richiedono un tempo ed uno spazio ben più ampi. In questa sede si accenna solo ad una proposta interpretativa e di lavoro.
117
l'ammontare del denaro che l'attività produce, la disponibilità di occupazioni che possono
procurare uno status legittimo ed un reddito ai criminali ed ai loro associati, ed il potenziale
dell'attività di ripulire denaro sporco o generare spese false in modo da dirottare
pagamenti illegali come tangenti, oppure evadere le tasse.
In questo senso, bisognerebbe – forse un po’ utopisticamente – considerare ogni singolo
settore economico e costruirne una mappa di rischio “infiltrazione” che tenga conto sia
delle specificità di contesto che delle vulnerabilità legislative.
Per quanto possibile, si deve effettuare la “traduzione” di questi elementi descrittivi in
parametri numerici, ossia individuare tutte quelle variabili tipiche del settore considerato
che possono destare l’interesse della c.o., consentendo di prevedere con quanta rapidità e
con quali strumenti i criminali adatteranno la propria struttura organizzativa per cogliere le
nuove opportunità.
Step 1: tradurre in parametri il contesto territoriale generale.
Le caratteristiche del territorio sono descritte, ad esempio, da alcuni indicatori
macroeconomici come:
- Pil regionale,
- Reddito pro-capite,
- Tasso di disoccupazione e composizione della forza lavoro per settore,
- Popolazione e densità demografica,
- Tasso migratorio,
- Indice di dotazione infrastrutturale,
- Dipendenza dalla spesa pubblica…
Per rappresentare le tendenze criminali regionali, sono interessanti le statistiche
giudiziarie e, qualora ritenute insufficienti, è possibile procedere con le IDV (Indagini di
Vittimizzazione).
Step 2: tradurre in parametri il singolo settore.
- il tasso di crescita occupazionale o reddituale del settore può essere visto
come un indicatore di profittabilità ed attrattività;
- il tasso di inflazione normativa, il tasso di tecnicismo, il tasso di
informatizzazione ed il livello di raffinatezza tecnologica sono tutti elementi
che consentono possibilità elusive e di aggiramento delle norme/ regole;
- il tasso di perseguimento giudiziario per il reato connesso allo specifico
settore, la severità della pena e il tasso effettivo di sconto della sanzione
(vista la tempistica processuale, gli orientamenti giurisprudenziali, ecc) sono
118
parametri che determinano la convenienza a delinquere dal punto di vista
della impunità o comunque del basso costo sanzionatorio. Infatti, anche se il
settore dovesse presentarsi “interessante” sotto il profilo del livello di crescita
e di profitto, non ci si potrà avventurare nell’infiltrazione senza aver
considerato tutti i rischi di essere scoperti e condannati.
- Un indice di “country specific” come tasso di concentrazione territoriale è
utile perché se l’attività è molto diffusa sul territorio, l’infiltrazione può
facilmente confondersi con il tessuto economico locale, passando
inosservata come tutte le altre imprese “tipiche”, e non sarà dissonante dal
contesto.
- La presenza di criminalità già attiva e diffusa sul territorio può avere un
effetto ambiguo: per la cosca che decide di entrare in un mercato già
“occupato”, bisogna immaginare che potrebbero innescarsi due meccanismi
opposti, vale a dire l’apertura di conflitti e scontri oppure l’instaurarsi di
proficue alleanze.
Applicando questa tecnica, giungiamo alla seguente conclusione: il modello beckeriano
originario è un metodo “aperto” in funzione del tempo e dello spazio, nel senso che –
scegliendo di non esplicitare il vettore delle variabili stocastiche – divenuta flessibile e si
può di volta in volta adattare alle caratteristiche del momento storico e dell’area presa in
esame.
In questo modo si potranno evidenziare correlazioni positive sempre nuove ed inaspettate
fra fenomeni, aumentando il potere esplicativo del modello proprio perché sarà costruito
includendovi delle variabili opportune e significativamente rappresentative della realtà
considerata.
6.4 Un piccolo test : applicazione del metodo preventivo e dei vettori di Becker alla
grande distribuzione commerciale in Calabria.
Per concludere il nostro lavoro, ma in realtà per indicare una nuova pista da approfondire
in futuro per chiunque dovrà applicarsi all’elaborazione di strumenti preventivi per la lotta
all’infiltrazione criminale nelle attività economiche lecite, proviamo a testare le idee fin qui
proposte su un caso concreto: la distribuzione commerciale in Calabria.
119
È all’osservazione da un po’ di tempo il sorgere in Calabria di numerosi centri commerciali
e supermercati20 di ogni sigla italiana, ma anche straniera.
Se aumentano gli operatori commerciali, quindi la varietà di prodotti e la relativa
concorrenza, non può che essere un fatto positivo per l’economia.
In generale, quest’affermazione può essere corretta e condivisibile nell’ottica di uno
sviluppo territoriale guidato dal commercio e dal dinamismo dell’import-export.
Se, però, l’area regionale in cui questo accade ha le caratteristiche economiche della
Calabria, bisognerà porsi qualche interrogativo supplementare.
Vediamo perché.
La popolazione calabrese non supera i 2.000.000 di abitanti, disseminati secondo una
notevole frammentazione demografica fra numerosi Comuni scarsamente popolati, tutti
distanti tra loro per diversi chilometri di strade contorte e di portata limitata per il traffico
commerciale.
Di conseguenza, la dimensione del mercato di sbocco per qualunque operatore
commerciale risulta piuttosto limitata e difficile da raggiungere capillarmente attraverso i
canali della distribuzione.
Lo scarso reddito disponibile, inoltre, influenza la struttura stessa della domanda,
orientandola verso il consumo di beni semplici e tradizionali.
Infine, sempre con riguardo alle caratteristiche dell’economia regionale, la Calabria è un
importatore netto di quasi tutte le categorie merceologiche: una rete distributiva così
diffusa non si giustifica, quindi, neppure con la necessità di commercializzare le produzioni
locali in quanto il settore dell’industria agroalimentare è molto ridotto, così come le altre
produzioni.
20 Secondo dati Istat (rilevamento della popolazione residente) e Federdistribuzione (numero e classificazione degli esercizi commerciali), si può calcolare la “densità” degli esercizi di distribuzione alimentare al dettaglio in rapporto alla popolazione regionale. [La scelta coinvolge la popolazione intera e gli esercizi alimentari per l’ovvio motivo che non bisogna segmentare il mercato, in quanto tutti sono consumatori di beni di prima necessità] - Calabria 1 negozio ogni 1562 abitanti; - Piemonte 1/2477 ab.; - Lombardia 1/2860 ab.; - Puglia 1/1671 ab. (con una notevole giustificazione data dalla struttura produttiva regionale); - Sicilia 1/2055 ab.; - Campania 1/2578 ab.; - Lazio 1/2311 ab.; - Toscana 1/2920 ab. Questa regione ha il numero di esercizi alimentari più simile alla Calabria (rispettivamente 1259 e 1285), ma ha quasi il doppio della popolazione calabrese. Come si può notare, sono state calcolate le densità commerciali in Regioni distribuite sull’intero territorio nazionale, disomogenee per tenore e qualità della vita, oppure simili alla Calabria per qualche caratteristica. In ogni caso, però, il valore calabrese si presenta come dissonante ed improprio, con un eccesso ingiustificato di esercizi commerciali alimentari.
120
La presenza di queste condizioni, senza contare la consistente diffusione della criminalità
organizzata, fornisce un’abbondante mole di ragioni disincentivanti per l’imprenditore
della distribuzione a cimentarsi in quest’attività.
Eppure accade esattamente l’opposto, in palese contraddizione – peraltro – con
qualunque modello economico di convenienza localizzativa di ulteriori servizi commerciali,
soprattutto in vista del ridotto bacino d’utenza potenzialmente conseguibile.
Fino a qui abbiamo ricostruito il contesto generale, ma ancora due osservazioni
provengono dall’analisi del mercato specifico:
a) un’uniformità nel livello dei prezzi che, in contrasto con la numerosità di operatori
diversi e tutti teoricamente in concorrenza, tradisce invece dei comportamenti
oligopolistici;
b) la competenza legislativa in materia commerciale è divenuta di esclusiva potestà
regionale in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione.
Unitamente alle scelte anti-economiche, questo fattore legislativo è il secondo segnale che
sul settore della distribuzione commerciale in Calabria dovrebbe sventolarsi una
“bandierina rossa”. Approfondiamo il discorso.
Se i supermercati di diverse dimensioni21 riescono a moltiplicarsi sul territorio senza che vi
corrisponda un aumento della domanda da parte dei consumatori o senza una crescita
della popolazione, ciò significa che non siamo in presenza di norme che stabiliscano
distanze minime per l’apertura di nuovi esercizi o quantomeno un determinato rapporto
numerico tra popolazione e quantità di supermercati.
Una competenza legislativa esclusiva regionale, che si traduce altresì nel conferimento di
funzioni amministrative anche nei confronti di Province e Comuni, comporta un’ampia
discrezionalità politica, differente da regione a regione per quanto riguarda la materia
commerciale. Quindi, se da un lato ogni Regione può legiferare in base alle proprie
21 I punti vendita vengono generalmente classificati dalla grande distribuzione per canale in base alla loro dimensione effettivamente adibita ad area di vendita vera e propria, cioè senza calcolare eventuali gallerie commerciali, parcheggi, ecc. ed in base alla profondità dell'assortimento. Secondo la società Nielsen, i canali di vendita della grande distribuzione sono i seguenti:
• Ipermercato: struttura con un'area di vendita al dettaglio superiore ai 2.500 m2. • Supermercato: struttura con un'area di vendita al dettaglio che va dai 400 m2 ai 2.499 m2. • Libero Servizio: struttura con un'area di vendita al dettaglio che va dai 100 m2 ai 399 m2. • Discount: struttura in cui l'assortimento non prevede la presenza di prodotti di marca. • Cash and carry: struttura riservata alla vendita all'ingrosso. • Tradizionali: negozi che vendono prodotti di largo consumo di superficie inferiore ai 100 m2. • Self Service Specialisti Drug: negozi che vendono principalmente prodotti per la cura della casa e della
persona.
121
esigenze, dall’altro lato il peso di un possibile “condizionamento esterno ” sulle
amministrazioni locali può farsi più invadente.
Soprattutto se, allargando ancora lo spettro visivo, vi includiamo il fatto che in particolare
nelle regioni del Mezzogiorno è possibile fruire di una serie di strumenti finanziari di
agevolazione per le iniziative imprenditoriali (es. il credito d’imposta et similia).
In queste condizioni non è difficile immaginare – e in alcune zone è già accaduto
realmente – nuovi canali per il riciclaggio del denaro sporco.
Come si può notare, il metodo preventivo ha funzionato: l’analisi di contesto, nonché
l’esame del settore specifico, unitamente alla conoscenza dello script comportamentale
individuato nel caso dei prestiti bancari in Lombardia, hanno prodotto la consapevolezza
che lo sviluppo anomalo della rete commerciale in Calabria merita di essere attenzionato e
sono stati, così, individuati anche i possibili canali attraverso i quali “il grigio invade il
bianco” (credito d’imposta e altre forme di sostegno pubblico, cartelli sui prezzi,
competenza normativa locale “influenzabile”, riciclaggio con denaro pulito incassato e
denaro sporco veicolato tramite l’acquisto della merce da rivendere…).
122
BIBLIOGRAFIA
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Mannelli (CS)
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A. La Spina , La politica per il Mezzogiorno.
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territorio. 2006, Franco Angeli, Milano
124
ARTICOLI SPECIALISTICI E WORKING PAPERS
Raul Caruso , Spesa pubblica e criminalità organizzata in Italia. Evidenza empirica su dati
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V. Daniele , U. Marani , Organized crime and Foreign Direct Investment: the Italian case,
gennaio 2008, Università Magna Graecia, Catanzaro e Università “Federico II”, Napoli
S. Skaperdas , C. Syropoulos , Guns, Butter and Openness: on the relationship between
security and trade, maggio 2001
Milorad Filipovic , Importance of institutional development for Western Balkan countries,
aprile 2006
Daniela Irrera , The Balkanisation of Politics: crime and corruption in Albania, maggio 2006
125
INDICE
Abstract. 2
Executive summary. 3
CAPITOLO I
Questioni terminologiche di tutta rilevanza.
Premessa 13
1.1 La tassonomia delle attività economiche. 13
1.2 I problemi internazionali di definizione della criminalità organizzata. 14
1.3 Gli effetti “economici” dell’infiltrazione criminale. 17
CAPITOLO II
Uno sguardo appena oltre l’Adriatico: l’utilità della comparazione.
Premessa. 20
2.1 La situazione di criminalità in Albania. 20
CAPITOLO III
La c.o. come costo implicito nello sviluppo economico.
Premessa 24
3.1 Classificazione dei costi del crimine. 24
3.2 Gli svantaggi della presenza criminale. 26
3.2.1 La teoria del monopolio. 26
3.2.2 Imprese vulnerabili. 29
3.2.3 Fattore di costo interno alle aziende. 31
3.2.3.a Approccio macro: l’equazione mafia = sottosviluppo. 32
3.2.3.b Approccio micro: la struttura dei costi della singola azienda. 35
3.3 La sostituzione del capitale mafioso a quello lecito: evoluzione del modus
operandi. 39
126
CAPITOLO III: APPENDICE STORICO-BIBLIOGRAFICA.
‘Ndrangheta e Storia Criminale, di Enzo Ciconte. 53
Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra,
di Roberto Saviano. 53
CAPITOLO IV
La costruzione delle mappe di “rischio criminalità” nell’economia.
Premessa. 64
4.1 Introduzione del metodo “preventivo” grazie all’analisi di contesto. 65
CAPITOLO V
Case study: il porto di Gioia Tauro.
Premessa. 71
5.1 Analisi delle attività economiche in Calabria. 72
5.2 La situazione attuale: alcuni indicatori “macro” dell’economia calabres 73
5.2.1. Profili generali 73
5.2.2. Redditi e povertà 73
5.2.3. Qualità della vita e imprese 74
5.2.4. Quadro occupazionale 76
5.2.5. Esportazioni 76
5.2.6. Turismo e ambiente 77
5.2.7. Infrastrutture materiali e immateriali 78
5.2.8 Conclusioni: l’economia della conoscenza 79
5.3 Zoom n. 1: dal contesto socio-economico regionale alla Piana di Gioia
Tauro. 80
5.4 Zoom n. 2: dalla Piana al Porto di Gioia Tauro. 81
5.4.1 Analisi di contesto: il mercato della logistica. 51
5.4.2 Passando dal contesto generale alle problematiche di Gioia Tauro. 83
5.4.3 Analisi del “caso concreto”. 87
5.5 Perché l’analisi SWOT non basta 89
127
CAPITOLO V ; APPENDICE 1
TAVOLE STATISTICHE DEGLI INDICATORI
MACROECONOMICI IN CALABRIA 93
CAPITOLO V APPENDICE II
IL CASO DI GIOIA TAURO VISTO DA UN’ALTRA PROSPETTIVA
Un racconto… intitolato “I segni sul territorio”. 107
CAPITOLO VI
Excursus di esempi concreti e costruzione di un modello generale.
Premessa. 111
6.1 Ancora qualche esempio di script criminale. 111
6.2 Uno script di “raffinatezza finanziaria”. 113
6.3 L’aggiornamento del modello di Gary Becker. 114
6.4 Un piccolo test: applicazione del metodo preventivo e dei vettori di Becker
alla grande distribuzione commerciale in Calabria. 118
BIBLIOGRAFIA 122
ARTICOLI SPECIALISTICI E WORKING PAPERS 124