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ORIENTAMENTI DELLA STORIOGRAFIA JUGOSLAVA
SULLA RESISTENZA
In Jugoslavia gli studi storici sulle lotte per la libertà nel periodo tra le due guerre e sulla guerra di liberazione hanno avuto, specie nell'ultimo decennio, il più ampio sviluppo, e se ne prospetta ora un’ulteriore estensione e approfondimento. Agli Istituti storici e alle riviste specializzate, alla pubblicazione di volumi e di saggi le autorità governative centrali e periferiche sono larghe di aiuti, sì che ormai la pubblicità sull’argomento è quanto mai ricca e varia. E’ del resto naturale che sia così, ove si pensi all’ampiezza che la Resistenza ebbe in Jugoslavia, al suo rappresentare, nello stesso tempo, la continuazione in nuove condizioni di lotte popolari dei due decenni precedenti e un moto nazionale-popolare a carattere risorgimentale e rivoluzionario, e infine al fatto che tutta la classe dirigente della Jugoslavia post-bellica è la stessa che promosse e diresse la lotta di liberazione.
Particolarmente per la Jugoslavia è perciò necessario, volendo trattare pur sommariamente dell’organizzazione e della produzione storiografica sul movimento di liberazione, partire da un cenno alla situazione politica tra le due guerre e a quelle che furono le caratteristiche dell’occupazione nazifascista, delle forme di organizzazione e di lotta assunte dal movimento partigiano, dei suoi sviluppi e delle istituzioni in cui ebbe a sfociare con la liberazione. E ciò tanto più per i legami, i rapporti di collaborazione (e anche qualche elemento di frizione) che, specie nel Friuli- Venezia Giulia, si ebbero durante il ventennio e la Resistenza tra l’antifascismo italiano e quello jugoslavo.
Anche in Jugoslavia si era avuto tra il 19 18 e il 1921 un’ondata rivoluzionaria, con rivolte di contadini, occupazioni di terre e di fabbriche, massicce lotte operaie, un vivo fermento progressista nei ceti intellettuali, movimenti separatisti tra i croati, i macedoni e le altre minoranze etniche che l’oligarchia panserba, raccolta intorno alla monarchia dei Karageorgevic, aveva di fatto assoggettato. Ma già nel 1921, prima con l’ Obznana (ordinanza) e poi con la Costituzione centralista, le leggi « per la difesa dello Stato », il tribunale speciale, era stato messo fuori legge il partito comunista, principale animatore di quelle lotte; erano state duramente represse le agitazioni sindacali e limitate le attività anche delle altre organizzazioni democratiche. Eccidi ad opera della polizia e di formazioni paramilitari simili alle squadre fasciste e alla M VSN italiana (l’ORJUNA, la narodna garda o guardia nazionale, ecc.), arresti, torture, pesanti condanne avevano rappresentato per anni un vero e proprio « terrore bianco ».
Dopo un periodo di momentanea stabilizzazione, si era avuta una recrudescenza delle lotte popolari, cui la monarchia aveva risposto abolendo
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il 6 gennaio 1929 la Costituzione e affidando il governo al gen. Zivkovic: fu la cosiddetta « dittatura del 6 gennaio », con una nuova ondata di repressione e di assassinii politici, di cui fu vittima tra gli altri il segre- tario del P. C. jugoslavo Djuro Djakovic. La impopolarità di quel regime impose il ritorno a forme almeno apparentemente più democratiche, con una nuova Costituzione emanata nel 19 31, che però continuava ad assicurare il potere all’oligarchia di Belgrado senza mitigarne sostanzialmente il carattere del regime. Dopo l’uccisione a Marsiglia di re Alessandro nell’ottobre ’34, il governo fu assunto da Milan Stojadinovic, il quale, oltre a imitare i regimi fascisti — e spesso a superarli in ferocia — nella politica interna, si legò ad essi anche sul piano della politica intemazionale, abbandonando di fatto la Piccola Intesa. Si intensificarono le misure repressive, anche con l’istituzione di campi di concentramento, e in soli sei mesi, dal maggio ’35 al gennaio ’36, vi furono ben 253 assassinii politici. Ad una linea quasi analoga si era attenuto il successivo governo Cvetkovic-Macek, che fu instaurato nel 1938 in base a un accordo con i ceti dominanti croati e che, tra l’altro, sciolse la Confederazione sindacale unitaria, irreggimentandone i più attivi militanti in « battaglioni di lavoro ».
Per tutto il ventennio dunque, pur in un relativo alternarsi delle forme di governo, la prassi autoritaria e liberticida era stata una costante del sistema jugoslavo, ma altrettanto era stata costante da parte degli strati più avanzati della popolazione — non solo tra gli operai e i contadini, ma anche nei ceti medi e intellettuali — una fiera opposizione al regime, che spesso sfociò in sanguinose sommosse cittadine e che le dure persecuzioni non valsero a piegare. Comunisti, sindacalisti, elementi progressisti di altre correnti, che operarono sia nell’illegalità che attraverso forme varie di organizzazione legale, furono ovunque alla testa dei reiterati moti popolari e costituirono alla vigilia della guerra un vasto fronte antifascista. Il ruolo del partito comunista si era fatto preminente specie da quando, dopo un decennio di polemiche tra le frazioni (condotte in gran parte nell’emigrazione a Vienna e a Mosca), ne aveva assunto nel 1936 la guida un nuovo gruppo dirigente con alla testa Tito, che operò sempre in patria e che rinnovò la linea del partito secondo la politica dei « fronti popolari ».
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A metà marzo del 1941 Hitler, che si accinge a invadere l’URSS, sta trasformando l’Europa danubiano-balcanica in retrovia strategica e in base logistica di quel nuovo fronte. La Cecoslovacchia è già occupata, i governi profascisti ungherese, romeno e bulgaro si piegano ai voleri nazisti. Hitler esige altrettanto dalla Jugoslavia. Il principe Paolo è d’accordo, nonostante il fermento ostile nel paese, e anche il suo governo firma a Vienna il 25 marzo l’adesione al patto tripartito.
Seguono giorni di massicce e agitate manifestazioni di protesta a Belgrado, Zagabria e in tutti i maggiori centri del paese. Sono guidate
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dai comunisti e dai democratici del Fronte della libertà contro il fascismo, contro il governo della capitolazione. L ’insurrezione popolare trova alleati in quella parte della borghesia e dell’esercito che preferisce legare le sorti della Jugoslavia agli anglo-americani piuttosto che alla Germania. Il governo è rovesciato, si costituisce un nuovo ministero con alla testa il gen. Simovic, si toglie la reggenza al principe Paolo e si proclama re il minorenne Pietro, coadiuvato da un consiglio di reggenza. Ma il nuovo governo non ha il coraggio di disdire subito il patto, ha paura dei tedeschi, intavola cauti negoziati segreti con inglesi, americani e sovietici, mentre Hitler si appresta a invadere e a smembrare la Jugoslavia, d'accordo con i suoi alleati. Il mattino del 6 aprile è l’attacco concentrico, con una cinquantina di divisioni italiane e tedesche, alle quali, nei giorni successivi, si associano ungheresi e bulgari.
La storia dell’occupazione e della lotta di liberazione è per sommi capi abbastanza nota. La Germania occupò la parte settentrionale della Slovenia, la Serbia e altre zone economicamente e strategicamente essenziali, l’Italia la parte meridionale della Slovenia con Lubiana, gran parte della Dalmazia, il Montenegro, mentre vaste strisce di frontiera furono assegnate all’Ungheria, alla Bulgaria e all’Albania, e la Croazia, divisa in due zone d’influenza italiana e tedesca, fu nominalmente eretta in Stato indipendente sotto il governo ustascia di Pavelic. I nazifascisti si trovarono sin dall'inizio davanti a masse popolari sordamente ostili, ma anche a gruppi disposti alla collaborazione, specie dove seppero meglio fomentare vecchi rancori nazionalistici, lusingare aspirazioni separatiste, far leva su interessi e ideologie antipopolari.
Forte di un largo seguito nel Paese, esercitato da vent’anni alla lotta clandestina, unito intorno al suo nucleo dirigente, il partito comunista jugoslavo si trovò allora nelle condizioni più favorevoli per assumere la guida della Resistenza. Esso costituì infatti comitati militari per la raccolta di armi e per la preparazione all’azione armata, e in una conferenza nazionale tenutasi a metà maggio tracciò un concreto programma che era, insieme, per la lotta di liberazione nazionale e per un profondo rinnovamento sociale. In Slovenia già il 27 aprile si era costituito il « Fronte antimperialista » — poi Fronte di liberazione, O. F. — ad opera dei comunisti e con la partecipazione delle ali democratiche del Partito cristiano-sociale, del Sokol ed altri gruppi minori. Nelle settimane successive analoghi fronti si formarono in tutte le altre regioni del Paese, non in forma di coalizione di partiti, ma di organizzazioni popolari unitarie che sorgevano per iniziativa e sotto la guida riconosciuta del partito comunista.
Di ciò va tenuto conto, in quanto effettivamente i comunisti ebbero con se nella guerra partigiana i loro vecchi alleati del movimento operaio e della sinistra radicale, intellettuali e operai e contadini, e i nuovi alleati animati da volontà di lotta contro l’invasore, mentre tutte le altre correnti politiche di centro e di destra o rimasero su posizioni di passivo attendismo o collaborarono, prima o poi, in diversa misura, con l’occupante. Gli stessi cetnici di Mihajlovic, unici gruppi monarchici che ini
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zialmente avessero scelto la via della guerriglia, furono in breve portati sul piano inclinato di un doppio gioco prima solo con i comandi mili- tari italiani, poi anche con i tedeschi, che li condusse gradualmente a farsi ausiliari scoperti e dichiarati degli occupanti. Da tutto ciò derivò l'egemonia comunista sul movimento partigiano; così i comunisti raggimi- sero con la lotta e la vittoria anche i loro obiettivi politici, e perciò nella storiografìa jugoslava la lotta di liberazione si identifica in certo senso con la rivoluzione popolare e socialista, la storia della Resistenza con una fase decisiva nella storia del movimento operaio.
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Già nel giugno 1941 cominciarono a manifestarsi le prime operazioni di guerriglia. Il giorno dell’aggressione nazista all'Unione sovietica il P. C. jugoslavo emanò un nuovo appello all’azione generale armata e il 27 giugno costituì il G lavn i Stob — Comando generale — dei reparti partigiani. In luglio l’insurrezione armata dilagava nel Montenegro e in Bosnia-Erzegovina, poi in Serbia e ovunque. Il nemico, colto di sorpresa, fu costretto a ritirarsi in alcune guarnigioni fortificate e dovette far affluire nuove divisioni operative di rinforzo alle unità che, dopo la fulminea invasione, erano state lasciate di presidio. La controffensiva nazifascista, accompagnata dai primi eccidi e dalle prime feroci rappresaglie anche sulle popolazioni civili, fece momentaneamente ripiegare i partigiani sulle montagne, ma la lotta riprese nell’autunno' con nuovi massicci attacchi, con la liberazione di vaste zone, come quella intorno alla cittadina industriale di Uzice. Alla fine del 1941 l’esercito partigiano contava già 80.000 combattenti e sorgevano ovunque i Comitati popolari di liberazione per l’organizzazione del movimento e per l’appoggio e il vettovagliamento dei reparti in armi. Nelle zone libere i Comandi fungevano, già allora, come organi del potere popolare.
Nel 1942 l’esercito partigiano si rafforza, la lotta si estende. Oltre ai piccoli reparti legati al paese o alla valle in cui erano sorti (gli odredi), si costituiscono le prime unità mobili, atte a una più articolata condotta della guerra: sono dapprima le «brigate proletarie», costituite quasiesclusivamente di operai, di comunisti, di provati rivoluzionari, e poi, sul loro modello, decine e decine di altre brigate e le prime divisioni. Il 26 e 27 novembre si riunisce a Bihac l’AVNOJ, Antifasisticko vece narodnog oslobodjenja Jugoslavije, Consiglio nazionale antifascista di liberazione, già di fatto organo supremo1 rappresentativo della rivoluzione in atto, del nuovo Stato che sta sorgendo sulle rovine del vecchio Stato.
La lotta continua, si estende ancora. La capitolazione dell’Italia 1*8 settembre 1943, benché i tedeschi facciano in certa misura fronte alla situazione rafforzando le loro guarnigioni e catturando e deportando decine di migliaia di nostri soldati, porta all’esercito partigiano ingenti quantità di armi e migliaia di nuovi volontari, quegli italiani che hanno scelto la lotta per la libertà, e altre intere regioni vengono liberate. Il 29 e 30 novembre si riunisce a Jajce la seconda sessione dell’AVNOJ, che si
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proclama effettivo organo rappresentativo e legislativo dei popoli jugoslavi, costituisce il governo provvisorio della nuova Jugoslavia con alla testa Tito, dichiara che la Jugoslavia sarà una federazione democratica di popoli liberi ed eguali e rinvia a dopo la liberazione la soluzione per referendum del problema costituzionale. Alla fine del 1943 l’esercito partigiano conta ormai 300.000 combattenti, organizzati in 26 divisioni, 8 corpi d’armata e numerose brigate, odredi e altre unità minori autonome, ed impegna più di trenta divisioni nemiche forti di circa 400.000 uomini, oltre ai 250.000 appartenenti alle formazioni collaborazioniste.
Nel 1944 guerra partigiana e formazione del potere popolare hanno assunto ampiezza e vigore tali che anche gli alleati occidentali riconoscono che l’esercito di liberazione è l’unica forza nazionale in campo, mandano loro missioni militari presso il suo comando generale ed i comandi periferici, trattano con la direzione politica del movimento. Anche l’URSS, pur appoggiando il movimento di Tito (con il quale ebbe tuttavia qualche divergenza, considerando settaria la linea politica del PCJ ed eccessivo il suo orientamento rivoluzionario), a causa dell’alleanza con le potenze occidentali non aveva fino allora disconosciuto il governo monarchico in esilio nè il movimento di Mihajlovic. Solo ora quest’ultimo viene sconfessato sia dai sovietici che dagli anglo-americani. Churchill e Stalin sono già, di fatto, orientati verso quell’intesa che sanciranno nei colloqui riservati di Yalta sulla divisione delle sfere d’influenza nell’Europa centrale e sud-orientale, in base alla quale per la Jugoslavia concorderanno una spartizione f if ty 'f ifty dell’influenza, quindi un sistema politico-sociale misto, di compromesso. Per evitare un conflitto politico nell’ambito della coalizione antifascista e per assicurare alla nuova Jugoslavia in fieri il riconoscimento internazionale, Tito accede alla richiesta inglese appoggiaata dall’URSS per un accordo con il governo monarchico in esilio e firma nel giugno 1944, senza che ciò pregiudichi sostanzialmente gli sviluppi rivoluzionari nel Paese, una dichiarazione comune con il dott. Subasic. In base a tale accordo si avviano negoziati per la formazione di un governo unico, che però verrà costituito soltanto nel marzo 1945, con l’immissione di elementi dell’emigrazione monarchica nel governo provvisorio capeggiato da Tito e nel parlamento provvisorio rappresentato dall’AVNOJ. Sono di quest’anno anche i negoziati, le dichiarazioni comuni e gli accordi tra il fronte di liberazione sloveno e il CLNAI, che sanciscono la collaborazione in atto nel Friuli-Venezia Giulia tra i due movimenti di liberazione. La questione di quella regione mistilingue di frontiera, su cui gli jugoslavi avanzano rivendicazioni annessionistiche, suscitano anche polemiche e screzi, che però sono in gran parte superati dall’esigenza prioritaria dell’unità nella lotta contro tedeschi e fascisti.
Nell’agosto ’44 Tito si incontra a Napoli con Churchill e Alexander e nel settembre a Mosca con Stalin, discutendo come capo d’una nazione alleata in guerra i problemi strategici dell’ultima fase delle operazioni. Poco dopo, inseguendo le armate tedesche in ritirata, l’armata sovietica entra nelle zone sud-orientali della Jugoslavia. Sono in breve liberate, con il concorso sovietico nelle zone in cui si è operato il congiun
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gimento, tutta la Serbia con Belgrado, la Macedonia, il Montenegro, la Dalmazia. Tedeschi, cetnici, ustascia e gli altri collaborazionisti si ritirano, accanitamente combattendo contro le armate partigiane che li incalzano e che, fra gli ultimi di aprile e i primi di maggio, presidiano ormai tutto il Paese e liberano, in collaborazione con gli insorti italiani e slavi del luogo, tutta la Venezia Giulia fino all'Isonzo e oltre, dove si incontrano con le armate anglo-americane.
La liberazione e la rivoluzione socialista in Jugoslavia, a differenza della conquista del potere da parte dei partiti operai negli altri Paesi dell’Europa orientale in seguito alla liberazione e all’occupazione da parte dell’Armata rossa e alla divisione dell’Europa nelle sfere d’influenza occidentale e sovietica, rappresentò una forma nuova e originale di passaggio dalla società borghese alla società socialista. Abbiamo detto come il nuovo Stato e gli organi del potere popolare si erano venuti formando e consolidando già nel corso dei quattro anni di guerra. Sin da allora, nelle sempre più vaste zone liberate venivano confiscate le proprietà agricole e industriali dei collaborazionisti (e gran parte dei proprietari erano o potevano considerarsi tali). Gli espropri a tale titolo continuarono dopo la liberazione totale del Paese ad opera del governo provvisorio, seguiti da una radicale riforma agraria e da successive sempre più estese nazionalizzazioni. Le terre furono in parte divise tra i contadini poveri, stimolando tra essi la cooperazione, e in parte divennero di proprietà statale. Su quest’ultime si insediarono colonie di ex partigiani e di ex perseguitati dal fascismo con le loro famiglie. Si andarono così formando tre settori di proprietà : quella statale nell’industria e su una parte dei latifondi, quella cooperativa e la privata nella terra spartita e nell’arti- gianato. Il referendum portò naturalmente alla fine della monarchia e la Costituente proclamò il 29 novembre 1945 la Repubblica federativa popolare ed emanò il 31 giugno 1946 la nuova Costituzione, che sanciva definitivamente tutte le conquiste rivoluzionarie della lotta di liberazione.
Negli anni successivi, la rottura con l’URSS ed il passaggio dalla proprietà statale e dal marcato centralismo alla proprietà sociale, all’autogestione operaia hanno determinato anche il ripensamento storico e critico delle vicende brevemente rievocate e da esso si è venuta sviluppando la nuova storiografia jugoslava.
Si era cominciato, già nei primi anni del dopoguerra, con quanto era di più appassionante interesse immediato, ed erano fiorite così, accanto alle poesie, ai racconti e romanzi e ai film a sfondo partigiano, le prime cronache e rievocazioni storiche dell’insurrezione popolare, della guerra di liberazione e delle trasformazioni sociali che essa aveva comportato. Solo successivamente e in maniera saltuaria comparvero i primi studi su fatti e persone di un passato meno recente, a cominciare naturalmente da quelle vicende e figure per le quali era più facile reperire una certa documentazione: le origini del movimento operaio, le prime organizzazioni politiche e sindacali del tempo della IIa Internazionale, il periodo di flusso rivoluzionano nel primo dopoguerra. Fino a quattro o cinque anni fa, tuttavia, si era trattato per lo più di una produzione limitata.
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relativa a fatti, momenti e periodi i più disparati, svolta in maniera non organica.
Solo verso la fine degli anni cinquanta, e in ispecie per l’impulso dato all’ inizio del 1958 dal VII congresso della Lega dei comunisti jugo- slavi, anche gli studi storici in generale, e quelli sulla storia del movimento operaio e partigiano in particolare, hanno acquistato nuovo vigore ed estensione e si è iniziato ad affrontarli sistematicamente. Ai fini di un’elaborazione della storia del partito comunista e del movimento rivoluzionario dalle origini alla conquista del potere, in tutte le organizzazioni centrali e periferiche del partito furono costituite commissioni per la storia, con il compito di raccogliere materiale documentario e testimonianze di militanti. Tra il 1959 e il ’60 furono organizzati e attrezzati per la ricerca in ogni Repubblica federata (Serbia, Croazia, Slovenia, Montenegro, Macedonia, Bosnia-Erzegovina) e nelle regioni autonome gli Istituti per la storia del m ovim ento operaio delle rispettive nazionalità e unità territoriali, mentre a Belgrado sorgeva un Istituto centrale per lo studio dei materiali e dei problemi a carattere panjugoslavo, che si fondeva con il già esistente Istituto per lo studio del movimento operaio internazionale. Fu nello stesso tempo potenziata l’attività del V o jn i tsto- rijski institut, cioè l ’Istituto storico dell’esercito (che da anni andava svolgendo un buon lavoro nel campo specifico della storia delle formazioni partigiane e dell’esercito di liberazione) e della sezione per le scienze storiche deü ’Istituto d i scienze sociali operante a Belgrado su base accademica.
Fu anzitutto necessario — e il difficile lavoro è tuttora in corso — riordinare i fondi esistenti presso enti e istituzioni molteplici, farne una registrazione, una schedatura, catalogarli. Si tratta di numerosi archivi, il principale dei quali è quello del Comitato centrale del PCJ, ora Lega dei comunisti jugoslavi, e delle sue organizzazioni nelle capitali delle Repubbliche federate, l’Archivio centrale dello Stato e quelli delle Repubbliche, i Musei della guerra partigiana e della rivoluzione, e così via. Agli archivi del PCJ (rispettivamente della Lega) era stata fatta affluire anche gran parte dei fondi relativi all’attività dei gruppi socialdemocratici e, per il periodo fra le due guerre e della lotta di liberazione e del dopoguerra, quelli relativi alla gioventù comunista, ai sindacati, al Fronte di liberazione (poi Fronte popolare) e alle altre organizzazioni di massa. Successivamente però la maggior parte di tali fondi è stata trasferita agli Istituti per la storia del m ovim ento operaio.
Il lavoro, sia degli storici professionisti aventi già una qualificazione scientifica, che dei giovani che hanno scelto tale campo di attività, è stato reso finora difficoltoso appunto da tale dispersione del materiale documentario, dalla scarsa documentazione per certi periodi, specie per quello della lotta illegale o semilegale sotto i regimi dittatoriali fra le due guerre, dal fatto che il riordinamento degli archivi e la catalogazione delle fonti era appena avviata. Occorreva inoltre, e ancora occorrerà, estendere le ricerche agli archivi di polizia, dell’esercito, della magistratura della vecchia Jugoslavia, ad archivi esteri per il periodo ante
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cedente la prima guerra mondiale (Vienna, Budapest, Sofia, Costantinopoli), a quelli di Roma e delle due Germanie per il periodo della seconda. Di grande importanza è pure l’acquisizione degli atti del Comintern relativi alle questioni jugoslave, di cui sono cominciate a giungere da Mosca le prime serie di fotocopie. Gli storici jugoslavi hanno anche chiesto la consultazione degli archivi dei ministeri degli Interni e degli Esteri di Belgrado, finora non accessibili, per lo studio dei documenti che possono interessare le loro ricerche specifiche.
Gli Istituti storici delle varie Repubbliche e quello centrale di Beh grado hanno un organico composto, a seconda della loro importanza, da un numero di studiosi che talvolta supera anche i venti e si avvalgono della collaborazione a onorario di elementi esterni. Complessivamente i « permanenti » sono oltre 120 e i collaboratori esterni un centinaio. I bilanci degli Istituti sono per ogni Repubblica e per l’Istituto centrale di qualche decina di milioni di dinari all’anno, complessivamente di oltre 100 milioni. Oltre al lavoro di ricerca, di raccolta di documentazioni e memorie, di elaborazione, essi svolgono anche una notevole attività editoriale, dispongono di ricche biblioteche specializzate, intrattengono rapporti di collaborazione e di scambi con le analoghe istituzioni di altri Paesi, partecipano con proprie delegazioni e relazioni ai congressi storici internazionali. Essi svolgono, in prevalenza, ricerche di gruppo.
La relativa difficoltà ancora esistente, per le ragioni che s’è detto, di far ricorso alle diverse istituzioni dotate di archivi storici, è stata in parte alleviata dalla pubblicazione di fonti, come i sette tomi dell’Istorijski A rch iv C K S K J, in cui sono raccolti gran parte dei 2500 e più atti e documenti del CC del PCJ, gli atti delle organizzazioni di partito delle Repubbliche, gli otto volumi dello Z bornik dokum enata i podataka o N O B (raccolta di documenti e dati sulla guerra popolare di liberazione), i due volumi Oslobodilacki rat naroda Ju g o sla v ie sulle operazioni militari nella lotta di liberazione, oltre a quella di intere collezioni di giornali clandestini, di atti di congressi e conferenze del partito nel periodo tra le due guerre, di atti delle organizzazioni di lotta e degli organismi del potere popolare durante l’ultima guerra e così via. Poiché però le fonti scritte rappresentate da tali pubblicazioni e dai fondi dei vari archivi sono incomplete, e lo rimarranno anche quando tutto il materiale sarà riordinato e catalogato, in quanto molto è andato disperso o distrutto nei ripetuti periodi di lotta illegale e di persecuzioni e durante la guerra, si cerca da qualche anno di integrarle con la raccolta di <c memorie ». Prima in sede di partito e poi ad opera degli Istituti, sono stati così registrati i ricordi personali di centinaia di veterani del movimento operaio, rivoluzionario e partigiano — e parecchi di essi hanno già scritto e pubblicato o stanno scrivendo per proprio conto le loro memorie — così che, nonostante gli ovvii limiti di tali testimonianze e la necessità di prenderne atto con le dovute cautele critiche, un’altra serie di fonti integrative viene messa a disposizione degli studiosi. Sono stati pubblicati su tale base, nel 40° anniversario del PCJ, i sette volumi di Cetrdeset godina (« Quarantanni »), raccolta di ricordi di militanti del movimento operaio rivoluzionario jugoslavo, ma la registrazione continua e una gran
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parte delle testimonianze così raccolte viene depositata negli archivi degli Istituti storici.
Alla già consistente massa di volumi e di saggi pubblicati finora in maniera non sistematica (e di cui diamo più avanti un estratto bibliografico indicativo), seguiranno ora i frutti di un lavoro sistematico e programmato che si è iniziato l ’anno scorso. Un comitato di coordinamento tra gli Istituti storici delle diverse Repubbliche e di quello centrale ha infatti pianificato il lavoro per i prossimi cinque anni, in maniera che esso si svolga con criteri e a ritmi analoghi nelle varie Repubbliche e giunga, attraverso un adeguato numero di monografie sui diversi momenti e problemi, ad apprestare i materiali per una successiva vasta sintesi generale.
Il piano degli studi è stato così suddiviso:1) origine e sviluppi del movimento operaio fino al 1918 (con l’at
tività dei diversi partiti socialdemocratici, dei primi sindacati, le loro posizioni di fronte ai problemi interni e internazionali, i loro rapporti con le nazionalità e i movimenti viciniori, come per esempio con gli italiani nella Venezia Giulia, ecc.);
2) il movimento dal 1918 al 1941, con un’ulteriore suddivisione dal ’ 18 al ’21 (il periodo dell’ondata rivoluzionaria e delle lotte del partito comunista, delle altre organizzazioni operaie e contadine e degli intellettuali progressisti, dal 1921 al ’28 (con il primo periodo della clandestinità e tutto ciò che la nuova situazione di reazione comportò), dal 1928 (inizio della « dittatura del 6 gennaio ») al 1932 (svolta dovuta alla mutata situazione interna e internazionale, alla nuova linea antifascista e frontista, al ruolo di avanguardia che effettivamente assumono il PCJ e i sindacati di classe nel più vasto movimento democratico e antifascista), dal ’33 al ’37 (sviluppi della mutata situazione e della chiarificazione interna, ascesa alla direzione del PCJ del nuovo gruppo dirigente come conseguenza del rinnovamento), dal 1938 al ’41 (il lavoro svolto sotto la guida del nuovo gruppo1 dirigente e le azioni delle masse mentre incombe e poi ha inizio il secondo conflitto mondiale);
3) dal 1941 al ’45 (la guerra di liberazione e i suoi aspetti rivoluzionari);
4) dal 1945 in poi (con ulteriori suddivisioni nelle diverse fasi della instaurazione del nuovo regime socialista, prima, durante e dopo l’urto con il Cominform).
Per ciascun periodo è prevista l’analisi non solo della situazione interna al PCJ e delle lotte da esso condotte, ma anche delle forme d’organizzazione e d’azione degli altri partiti e sindacati operai, dei partiti che si richiamavano, in diversa misura, a principi democratici e di quelli di destra, della situazione economica e sociale, dell’azione del governo, dei rapporti del movimento operaio con le organizzazioni internazionali dei lavoratori (Cominter, Cominform, partiti dei Paesi vicini, egemonismo staliniano, ecc.), dei problemi che si dovettero affrontare e dei modi in cui furono affrontati (questione nazionale, questione contadina, problemi di tattica e di strategia e dei rapporti internazionali, ecc.).
8o Mario Pacor
Parallelamente alle ricerche e alle elaborazioni da parte degli storici, assistenti e collaboratori degli Istituti sulla storia del movimento operaio, si svolgerà un analogo lavoro pianificato da parte della sezione di scienze storiche dell'Istituto d i scienze sociali di Belgrado, in base a un detta- gliato progetto per una « storia dei popoli jugoslavi nel XX secolo », che costituirà, in certo modo, la cornice di quella del movimento operaio, in quanto tratterà della storia generale delle varie formazioni etnico- territoriali prima della costituzione della Jugoslavia e della storia politica, economica, culturale, diplomatica della vecchia e della nuova Jugoslavia, vale a dire delle condizioni in cui si svolsero le lotte operaie. Infine l ’Istituto storico m ilitare, oltre a proseguire la sua documentazione sull’insurrezione armata e gli sviluppi dell’esercito di liberazione e delle sue operazioni militari, affronterà i temi delle guerre balcaniche e della prima guerra mondiale per ciò che concerne la partecipazione degli jugoslavi e le vicende dell’esercito regio e delle formazioni militari collabo- razioniste nell’ultima guerra.
Nelle discussioni che ho avuto con alcuni storici jugoslavi, tra cui France Kimovec, Franz Saje e Milita Kacin a Lubiana, Franjo Tudjman a Zagabria e Pero Moraca a Belgrado, e dall’esame di numerosi testi, ho potuto constatare che se anche in Jugoslavia, in un primo tempo, erano prevalsi come altrove un certo schematismo dogmatico ed un tono palesemente agiografico, la successiva relativa liberalizzazione del sistema e delle istituzioni sociali aveva rappresentato prima e più che altrove la premessa anche per una ricerca ideologica, sociologica e storica più libera da censure volontarie o imposte, così che si è potuta manifestare sempre più una volontà di ricerca della verità storica, ispirata a criteri stretta- mente scientìfici. Tale è la meta cui i più degli storici jugoslavi si stanno avviando, naturalmente non senza qualche inevitabile scontro tra il vecchio e il nuovo, tra qualche resistenza conformista e qualche spinta di coraggiosa spregiudicatezza, in un dibattito assai libero e non privo di punte polemiche.
Potrei citare numerosi testi a comprova di tale sviluppo. Nelle prime rievocazioni della guerra di liberazione e delle lotte che l’avevano preceduta, il ruolo di Tito, dei suoi attuali collaboratori, del partito, per quanto non fossero falsificati, poiché è dimostrato che furono di decisiva importanza, erano esaltati in termini spesso demagogici. Inoltre, della lotta di liberazione si parlava sovente come se tutta o quasi la popolazione della Jugoslavia fosse stata partigiana o vicina ai partigiani, come se solo pochi rinnegati fossero stati con i nazifascisti, mentre le elaborazioni storiche più recenti dimostrano quanto numerose fossero le varie formazioni di collaborazionisti. Così anche la rievocazione dei duri colpi talora subiti, inizialmente, sul piano militare e anche su quello politico dal movimento di liberazione, sono ora scientificamente registrati, mentre prima erano per lo più minimizzati.
E ’ anche vero che in una prima fase si era trattato, in parte, di opere di divulgazione, aventi finalità precipuamente politiche, mentre ora si tratta per lo più di opere di impostazione storiografica, con finalità pre
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cipuamente scientifiche. Ma che si tratti di un’evoluzione tuttora in corso è provato da alcune opere recenti. Per esempio sulla questione dei confini nella Venezia Giulia e della diversa impostazione che ne davano i partiti comunisti d’Italia e di Jugoslavia, un saggio pubblicato da Metod Mikuz nel 1959 sullo Z g o do vin sk i Casopis di Lubiana, pur corredato con apparente rigore filologico da numerosissimi riferimenti a fonti d’archivio anche riservate, dava una versione unilaterale della questione, come se la posizione jugoslava si fosse manifestata in modo rettilineo dal principio alla fine, mentre il libro Jesen 1942, contenente la corrispondenza tenuta dai dirigenti politico-militari Kardelj e Kidric con i quadri inferiori in Slovenia e con Tito e il comando generale partigiano attesta come l'importanza della questione dei confini non fosse, inizialmente, così semplice e sicura.
Così elementi di vecchio e nuovo, di schematismo e di analisi spregiudicata, si trovano insieme in un’opera di più autori pubblicata lo scorso anno, il P regled istonje S. K . ]., (Compendio della storia della Lega dei com unisti jugoslavi). Ad un primo esame non può non ricordare il famoso B reve corso di storia del PCb dell’ U R SS, ma, poi, a una più attenta lettura ci si accorge che qui siamo di fronte a un’elaborazione più obiettiva, anche se vi sono ancora tracce di un certo giustificazionismo, di retorica esaltativa, di « culto », di una terminologia che dovrebbe essa stessa essere superata come quando ad esempio si afferma che, dopo l’avvento dell’attuale gruppo dirigente, il partito divenne davvero « monolitico », o che il partito « perdonò » a coloro che avevano sbagliato e li « aiutò » a correggersi, o che, quando vi fu la condanna del Co minform, nel partito e nel popolo vi fu immediata e totale « unanimità » nel respingerla e nello schierarsi con la direzione, mentre è noto che vi furono in molti incertezze e che molti si schierarono con il Co- minform, specie in Serbia, Montenegro e Bosnia. Ma vi sono anche nel libro molti elementi che rivelano il superamento di vecchi difetti, la capacità raggiunta di un’elaborazione scientifica, sebbene proprio qui, in una storia del partito, sia stato forse meno facile darne prova che in monografie su singoli aspetti e momenti della storia del movimento operaio.
Il dibattito dunque è aperto, la lotta dialettica tra vecchio e nuovo è in corso anche nella storiografia. Certo, a un più rapido sviluppo di una nuova metodologia rigorosamente scientifica, pur nell’ambito di una scelta marxista e socialista, fanno ancora parzialmente da freno elementi soggettivi di soggezione al partito, alla sua « linea » passata e attuale, ai suoi capi, elementi di conformismo, burocratismo, ma non mancano, in contrapposto, gli storici in grado di mettersi all’avanguardia e portare gli studi storici sul piano scientifico e critico.
A metà dicembre dello scorso anno numerosi storici dei vari Istituti si sono riuniti a Zagabria, per discutere del P regled in un « simposio » durato tre giorni e trarne le conclusioni teoriche e pratiche. Non si è fatta dell’accademia ma una discussione critica. Sono stati rilevati nel testo errori non solo veniali, di qualche dato storicamente e politicamente non
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rilevante, ma anche altri implicanti una remora politica e storica, come per esempio il fatto che lo sviluppo sociale nel periodo intorno al 1949 è presentato in maniera diversa da quello che realmente fu e quale lo mostrano documenti d’archivio e altre fonti, oppure che vi si minimizzano }e conseguenze di certe condizioni e contraddizioni nello sviluppo degli anni successivi.
Prima di passare all’estratto bibliografico ricorderò che a Belgrado e nelle varie Repubbliche federate, da parte dei vari Istituti storici e di altri enti, si pubblica un gran numero di riviste storiche, di cui le principali sono : Istorijski Casopis e Z go do vin sk i Casopis (Giornale di storia, uno serbo e uno sloveno), Istorijski P reg led (Rassegna storica), Istorijski Glasnik (La voce degli storici), Istorijski Z born ik (Digesto storico), Pris- p e vk i (Contributi), Istorijski Zapisi (Relazioni di storia), V ojno D eio (Il lavoro dell’esercito), V ojn o 'istorijsk i G lasnik (Rassegna storica dell’esercito), P u tovi Revolucije (Le vie della rivoluzione). Gli storici jugoslavi della Resistenza collocano loro saggi e articoli, oltre che su queste riviste specializzate, anche su riviste politico-letterarie e altre, che escono del pari in gran numero in tutto il Paese, come per esempio su Forum , Socijalizam, Nase T em e (I nostri temi), Sodobnost (Il Contemporaneo) e così via.
M a r io P a c o r .
BIBLIOGRAFIA
La bibliografia completa di quanto è stato pubblicato dopo la guerra in Jugoslavia sulla storia del movimento operaio, la storia generale dej Paese, la guerra di liberazione e l’instaurazione del regime socialista comprende ormai centinaia di volumi e migliaia di saggi ed articoli su riviste specializzate. Dagli Istituti storici di Belgrado e Zagabria, ai quali rinnovo qui il mio ringraziamento, mi sono stati forniti estratti della bibliografia di interesse più generale per un totale di circa 700 titoli. A mia volta ho estratto un centinaio di titoli che dò in una traduzione italiana il più fedele possibile all’originale. Li ho scelti ovviamente in base al particolare interesse che possono avere per gli studiosi italiani. Per ragioni di spazio ometto nella versione i termini nazionale e popolare dove si tratta della Resistenza (guerra di liberazione nazionale, comitati popolari di liberazione, ecc.): i due termini sono nelle lingue slave uno solo — narodni — che comprende entrambi i concetti e viene talvolta tradotto in un modo e talvolta nell’altro. Nei titoli originali esso appare sempre accanto ai termini di guerra, esercito, lotta, comitati, ecc., di liberazione, per lo più nelle sole iniziali, come da noi per i C LN . Per i libri indico solo la città e l’anno in cui sono stati editi, abbreviando Belgrado in Bgd., Zagabria in Zgb. e Lubiana in Lub., mentre per i saggi indico il nome della rivista, l ’anno e il numero in cui furono pubblicati.
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