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Rassegna bibliografica
Organizzazioni e figure del socialismo italiano
di Maurizio Degl’Innocenti
Nella più recente storiografia sul movimento operaio e socialista in Italia, i contributi tra i più interessanti sono venuti dal genere biografico, in passato troppo trascurato o lasciato prevalentemente alle occasioni celebrative, che ora ha trovato applicazioni assai diverse, nell’analisi di alcune tipiche istituzioni e nell’indagine della personalità e del ruolo carismatico di alcuni leader. Ci pare questo un terreno fertile, che meglio può consentire il superamento di talune incrostazioni ideologiche ancora perduranti e di contro l’applicazione di metodologie più permeabili alle interrelazioni di campi diversi di indagine.
Alla ricostruzione storica delle vicende di una società di mutuo soccorso in una periferia fiorentina di recente industrializzazione è dedicato l’interessante saggio di Luigi To- massini, Associazionismo operaio a Firenze tra ’800 e ’900. La società di mutuo soccorso di Rifredi (1883-1922), Firenze, Olschki 1984, pp. 412. Nella seconda metà dell’Ottocento la diffusione della società operaia, con prevalenti finalità mutualistiche, obbediva alla ricerca di nuovi spazi di socialità, in anni di miseria radicata e di insufficiente iniziativa previdenziale e assistenziale privata e soprattutto pubblica, nonché di crisi dei tradizionali ordinamenti corporativi di mestiere in relazione allo sviluppo capitalistico e al consolidamento del mercato nazionale. Come già aveva sottolineato Rinaldo Rigola nel 1945, il movimento delle società di mutuo
soccorso, nel suo insieme, acquisì un carattere prevalentemente operaio e nazionale, in quanto prima forma organizzativa dei lavoratori italiani: non a caso, la sua prevalente localizzazione fu nelle periferie urbane lungo le direttrici della industrializzazione. Da questo punto di vista il saggio di Tomassini affronta una tematica centrale, cogliendo bene la natura territoriale della Sms di Rifredi rispetto alle altre forme societarie — interna di fabbrica e professionale — e esaminandone i caratteri in rapporto al tessuto urbano cittadino e di quartiere in particolare. Convincente appare la tesi che il mutualismo non rappresentò solo la preistoria, cioè una fase in qualche modo propedeutica e in sé conclusa, del movimento operaio, ma ne costituì in molti casi una struttura permanente di aggregazione politica e sociale, specialmente quando evolse e si integrò con le funzioni tipiche della casa del popolo. Sul ruolo di que- st’ultima possediamo ora alcune prime ricerche che possono consentire di farne oggetto di una più approfondita indagine critica (cfr. ad esempio, Luigi Arbizzani, Sergio Bologna, L. Testoni, Storie di case del popolo. Saggi, documenti e immagini d ’Emilia-Romagna, Bologna, Grafis, 1982; e Le Case del popolo in Europa, a cura di Maurizio Degl’Innocenti, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 369, lire 30.000).
La Sms di Rifredi assunse ben presto il ruolo della casa del popolo prevalentemente lungo tre direttrici di sviluppo, il quale fu
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massimo tra il 1907 e il 1914: il mutuo soccorso, la cooperazione di consumo — a cui venne data autonomia sul piano amministrativo — e il circolo di lettura e di convegno, che gestiva la sala di lettura, il buffet-caffè, le sale da giuoco delle carte e del biliardo, l’attività teatrale e ricreativa. Si veniva così delineando quel fortunato intreccio tra solidarismo assistenziale, iniziativa ricreativa e culturale, politica, su cui ancora troppo poco ha riflettuto la storiografia sul movimento operaio, ma che tanta importanza rivestì nel radicare nella società italiana una tradizione “di sinistra” . Non c’è da stupirsi allora, come bene evidenzia Tomassini, che un sodalizio come la Sms di Rifredi, nato nel 1883 con il motto « Patria, Umanità, Progresso e Lavoro », fosse diventato punto di riferimento per categorie di lavoratori in lotta a cominciare dagli operai delle vicine Officine Galileo, fattore propulsivo nella fondazione e nei primi passi della locale Camera del lavoro e elemento di forza dei socialisti nelle campagne elettorali del Terzo collegio dove veniva eletto quel Giuseppe Pescetti, consulente legale tra l’altro dello stesso sodalizio, e primo deputato socialista in Toscana.
Per lo studioso delle società operaie della seconda metà del secolo scorso resta ancora un campo di ricerca largamente inesplorato attinente al quesito relativo alla identità sociale, alla etica del lavoro, all’idea-forza del progresso tecnico e dello sviluppo economico, di cui esse erano portatrici e che in qualche misura consegnavano alle generazioni future. È nostra convinzione che, sedimentata negli anni della formazione della classe operaia, quell’eredità ebbe riflessi non marginali nella storia del socialismo italiano e nella vita stessa del nostro paese.
All’emergere di una nuova etica sociale e del lavoro che sarebbe stata poi, dai primi anni del Novecento, l’anima del socialismo riformista turatiano, ha dedicato pagine molto informate e con equilibrio di giudizio Enrico Deeleva, in un saggio biografico su
un personaggio solo apparentemente minore del socialismo prefascista, Augusto Osimo, che fu dirigente appassionato e valido della Società Umanitaria (Etica del lavoro, socialismo e cultura popolare. Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Milano, Angeli, 1985, pp. 284, lire 20.000). Deeleva ricostruisce bene i primi passi della formazione culturale e della militanza politica di Osimo tra Piacenza e Venezia, soprattutto attraverso la corrispondenza di questi con Riccardo Bachi e poi con Fausto Pagliari, C. Saldini e Alessandro Schiavi. Furono gli anni in cui ebbe modo di frequentare Matteo Matteotti, fratello di Giacomo, Giovanni Merloni, Fausto Pagliari, Giuseppe Prampolini, e di affinare le sue letture con testi di Stuart Mill, Loria, George, Zola, e poi di Cossa, Ricca Salerno, Pantaloni. In quel periodo, probabilmente, si radicò in Osimo quel culto del libro, che gli sarebbe stato costante per tutta la vita, riunendo in un unico interesse narrativa italiana e straniera, saggistica e economia politica. Su questo piano segnaliamo il grave ritardo degli studi sul retroterra culturale-economico del socialismo italiano: i titoli ascrivibili a questo settore sono ancora oggi molto pochi, e in una proporzione del tutto negativa rispetto a quelli della letteratura di tipo etico-politica. Di recente, segnaliamo tra gli altri gli studi di Paolo Favilli, tra cui II Socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1829-1902), Napoli, Bibliopolis, 1980, e diD.Da Empoli sulla figura di Giovanni Mon- temartini (in “Economia Pubblica”, ottobre-novembre 1980), al quale inoltre è stata dedicata una giornata di studi dall’Università di Pavia in collaborazione con l’Istituto socialista di studi storici (15 dicembre 1984), i cui atti sono in corso di stampa. Il saggio di Deeleva sull’Umanitaria colma almeno in parte la grave lacuna che aveva circondato perfino la storia di quella istituzione che, pur non essendo ufficialmente socialista, si configurava certamente come un perno fonda- mentale del socialismo riformista, e dove
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erano presenti e attivi personaggi come Luigi Della Torre, Alessandro Schiavi, Fausto Pagliari, Giovanni Montemartini, Massimo Sa- moggia, Dino Rondani, Angiolo Cabrini, Luigi Minguzzi, Angelo Omodeo. Nel volume di Deeleva è particolarmente felice il capitolo dedicato all’incontro tra Osimo e l’U- manitaria, nel 1902, quando da poco la istituzione milanese aveva rilanciato le proprie attività, ponendo fine alle precedenti polemiche e agli strascichi giudiziari e ricostituendo gli organi direttivi sciolti nel ’98. Allora, per dirla con Turati, essa assunse “un indirizzo veramente positivo e sperimentale” (p. 45), diventando il vero e proprio laboratorio avanzato del socialismo italiano.
Osimo, prima contabile, poi segretario generale, ne fu veramente l’elemento propulsivo, con un attivismo instancabile: dalla costituzione della Casa del lavoro e dell’Ufficio del lavoro alla scuola laboratorio preferita alla scuola officina, al Museo sociale, alla Scuola di legislazione sociale, alla Casa del popolo, alle varie iniziative per l’educazione popolare; dovunque egli lasciò un’impronta originale e duratura.
Dalla lettura del saggio di Deeleva, almeno tre questioni emergono che rappresentano altrettante direzioni di ricerca da approfondire. La prima riguarda i destinatari specifici dell’azione deH’Umanitaria. Da un lato erano gli umili, gli emigrati, soprattutto i disoccupati, gli operai che vivevano in condizioni di sovraffollamento, i contadini inurbati; dall’altro il modello a cui sembrava ispirarsi era quello dell’operaio di mestiere, più consapevole e più istruito, e quindi potenziale portatore di una nuova etica sociale e del lavoro. Il secondo quesito è inerente alla consapevolezza çlella centralità del problema della produzione, inteso come esigenza del superamento delle istanze di categoria e come intrinseco allo sviluppo economico e all’ammodernamento di tutta la società italiana. In questo contesto, riuscirebbe molto utile esaminare il ruolo dell’Umanitaria in gene
rale, e degli Osimo, dei Minguzzi, dei Gorni, dei Samoggia in particolare nella promozione delle cooperative e delle strutture associative, economiche e ricreative — si pensi all’importante tessuto dei circoli familiari — in Lombardia. Lo stesso Osimo fu presidente della Federazione milanese delle cooperative a partire dagli anni che precedettero lo scoppio della guerra mondiale, cioè in una fase di intensa ristrutturazione in senso consortile e imprenditoriale del movimento cooperativo. Anche per questa via, del resto, l’Umanitaria contribuiva a introdurre all’interno del movimento operaio strumenti di emancipazione di natura non conflittuale.
Il terzo punto investe la scelta stessa delle forme di intervento, dall’uso moderno dell’indagine statistica alla diffusione del libro, che obbedivano ad esigenze anche altrove profondamente avvertite, ma che a Milano trovavano uno spessore tutto particolare anche per il rapporto molto stretto con la cultura europea.
Al fondo, dunque, emergeva una visione del socialismo della quale erano elementi costitutivi il fattore uomo — “il rifare gli italiani” di Osimo! —, la cultura della produzione e dello sviluppo, lo sperimentalismo sociale, l’etica dove l’azione fosse premio a sé stessa, il senso profondo della giustizia sociale, il culto per l’educazione popolare, la costante ricerca di nuovi strumenti di ricomposizione del tessuto sociale. Era, in altre parole, il retroterra politico e culturale animato dalla tu- ratiana “Critica sociale”, ma del quale anche essa si nutriva, e che ne spiegava la duratura fortuna nella storia del movimento operaio italiano. Ma era un programma in tutto o in prevalenza milanese o al massimo lombardo, oppure la punta avanzata e più consapevole di una strategia nazionale, attraverso la quale più e meglio il socialismo italiano si ricollegava con l’Europa?
All’ambiente milanese, oltreché a quello torinese, furono legate anche le vicende biografiche di un leader storico come Claudio
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Treves, sul quale possediamo ora un agile profilo, con una ricca appendice antologica, a cura di Antonio Casali (Socialismo e internazionalismo nella storia d ’Italia, Claudio Treves, 1869-1933, Napoli, Guida, 1985, pp. 248, lire 23.000). Il volume, ben scritto, fornisce un primo sintetico profilo su un personaggio di primo piano del socialismo italiano, e forse europeo, che la storiografia ha troppo spesso a torto appiattito sulla figura carismatica di Filippo Turati fino a negargli quasi una propria profonda originalità. Dal lavoro di Casali esce un quadro, largamente condivisibile, del socialismo riformista assai più articolato e complesso di quanto di solito si sia propensi a credere. Nella biografia di Treves fu decisiva la formazione politica — inizialmente aderì ad un repubblicanesimo radicaleggiante — e culturale nella Torino positivista dei Lombroso, dei Graf e dei Carle; ma egli visse il positivismo non in un senso meccanicistico e puramente evoluzionistico, e vi colse sempre a fondamento una tensione etica e una funzione critica che sollecitavano l’intervento politico, l’educazione e l’istruzione, e la propaganda. Aderente al comitato torinese per la pace, sentì l’ebraismo come un movimento tendenzialmente egualitario, volto all’emancipazione di tutta l’umanità. Ma la sua formazione politica si affinò soprattutto nella intensa attività di pubblicista, attraverso la collaborazione a “Ventesimo secolo”, a “Per l’Idea” ed infine, tra il 1896 e il 1898, al “Grido del popolo” . Negli anni torinesi erano dunque tutti gli elementi distintivi della personalità di Treves: la cultura positivista, l’accento posto sul rapporto tra democrazia radicale e repubblicana risorgimentale e socialismo, l’attenzione ai problemi della cultura e dell’istruzione, il pacifismo, l’attività giornalistica.
Ma ciò che rese originale la posizione di Treves nel panorama del socialismo italiano fu la grande confidenza con la cultura europea e con gli ambienti del socialismo internazionale, frutto questa, come opportunamen
te ricorda il Casali, anche dei suoi viaggi all’estero, dei contatti costantemente mantenuti con socialisti europei, della collabo- razione a numerose e importanti riviste straniere, collaborazione che negli anni dell’esilio sarebbe divenuta addirittura frenetica ed infine della partecipazione attiva ai dibattiti che animavano allora la cultura europea democratica e socialista, primi fra tutti quello sul diritto civile e il Bernstein Debatte.
A Milano, in un felice rapporto di amicizia con Turati e la Kuliscioff che non si sarebbe mai incrinato, neppure nei momenti di maggiore dissenso, Treves assunse un ruolo di importanza nazionale, prima (dal 1899) alla direzione del “Tempo”, poi nella stretta collaborazione a “Critica sociale” , e nella direzione dell’“Avanti!” (dal 1910 al 1912), infine come parlamentare (dal 1906). Il suo riformismo si nutriva, alla luce della esperienza estera e della crisi del ’98, della consapevolezza che tra industrializzazione e formazione di una moderna borghesia, democratizzazione dello Stato anche in senso repubblicano, crescita del proletariato e socialismo “pratico” vi fosse un nesso inscindibile. Assai opportunamente Casali sottolinea che Treves fu l’uomo del dialogo con la sinistra liberale, e il fautore dell’alleanza fra socialisti, radicali e repubblicani, e che inoltre fu tra i pochi a non dare un giudizio aprioristicamente negativo della democrazia cristiana. Ma il suo “sperimentalismo” socialista, che comunque non lo portava mai a perdere di vista “lo scopo finale” , lo indusse a denunciare il carattere tendenzialmente conservatore del giolittismo fin dal 1903, a sottolineare con maggiore forza il cambiamento del clima politico italiano con l’ingresso dei cattolici nell’agone elettorale dopo il 1904, a sostenere con convinzione la proposta di Modigliani e di Salvemini del suffragio universale. Gli fu peculiare la difesa del primato della politica (e della cultura), di cui considerava espressione l’istanza partitica, sia nei con
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fronti dei Bonomi, dei Graziadei, dei Rigola e dei Salvemini, sia nei confronti dei sindacalisti rivoluzionari e dello stesso Mussolini. Ottimo parlamentare e brillante polemista nelle assisi congressuali, fu però innanzitutto un grande giornalista e pubblicista. Casali ne ricostruisce bene la fitta trama delle numerose collaborazioni in riviste e quotidiani, ma due punti devono essere sottolineati a questo proposito: il primo è che Treves avvertì più di ogni altro la necessità di dare al movimento socialista un grande quotidiano, che sottraesse quest’ultimo allo stato di inferiorità nei confronti della borghesia liberale nell’orientamento dell’opinione pubblica considerato come uno dei grandi problemi della società contemporanea (e fu un problema non risolto!); il secondo è nel fatto che Treves portò alle espressioni più alte quella commistione tra giornalismo e politica che fu tipica della democrazia e del socialismo della seconda metà dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento.
La guerra rappresentò per Treves la grande prova, che metteva in crisi antiche certezze e imponeva uno sforzo nuovo per com
prendere, per non isolarsi: fu dunque il periodo dei dubbi, anche delle contraddizioni che lo portarono dalle posizioni pacifiste e internazionaliste espresse al congresso di Ancona del 1914, alla tesi della guerra imperialista e quindi dell’“ultra-imperialismo”, fino alla parola d’ordine “resistere, ma intendere” dopo Caporetto. Tra i più solleciti a porre in stretta correlazione quadro internazionale e politica interna, manifestò ben presto la propria disillusione per la pace di Versailles che interpretò, come bene sottolinea Casali, come il fallimento di un ordine democratico internazionale. E assunse perfino una posizione molto originale alTinterno del riformismo italiano sulla rivoluzione russa, in polemica con Rodolfo Mondolfo, fino a porsi il problema della conquista del potere nell’estate del 1919.
Lo spessore di Treves in quanto “socialista europeo” emerse con tutta forza negli anni dell’esilio, quando in maniera indefessa e quasi frenetica si adoperò perché il socialismo internazionale privilegiasse la lotta contro il fascismo.
Maurizio Degl’Innocenti
Il “cavaliere dei Rossomori”di Gian Giacomo Ortu
Quando, sul principio degli anni sessanta, compiva le sue prime rimarchevoli esperienze narrative col romanzo Sonetàula (Roma, Ca- nesi, 1964) e col saggio-inchiesta Baroni in Laguna (Cagliari, Il Bogino, 1961), Giuseppe Fiori proponeva al lettore e al critico come suoi principali riferimenti programmatici Lukàcs e Vittorini. Quell’abbozzo iniziale di un percorso letterario tutto realistico (Sonetàula: Orgosolo e il banditismo; Baroni in Laguna: S. Giusta e lo stagno “infeudato”),
tracciato sulle linee ferme di una professione, quella del giornalista, fortemente motivata e in presa diretta con le questioni più urgenti di una Sardegna sulla soglia di una rapida e dolorosa modernizzazione, si è negli anni andato precisando come vocazione al racconto storico o alla storia come racconto. E se nella prima produzione di Giuseppe Fiori (le opere ricordate, ma ancora nel 1968 La società del malessere, Bari, Laterza) lo scrupolo documentario non inibiva del tutto un
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esito sociologico talora impressionistico (per quanto scaltrito ed efficace, poiché nell’isola se ne nutrì con qualche frutto la generazione del ’68 e dintorni), in quella successiva, prima la Vita di Antonio Gramsci (Bari, Laterza, 1966), quindi L ’anarchico Schirru (Milano, Mondadori 1983) ed oggi II cavaliere dei Rossomori. Vita di Emilio Lussu (Torino, Einaudi, 1985, pp. 395, lire 15.000), il fatto o il personaggio storico risaltano con la concretezza e l’evidenza che può consentire soltanto un lavoro rigoroso sulle fonti. Anche se all’emergere di questa concretezza, al limite del rivissuto, Fiori porta come suo contributo personale, alquanto originale e singolare nel panorama storiografico italiano, una capacità di immedesimazione, una sorta di comunicazione simpatica che gli consente di evitare gli impacci dei procedimenti analitici e notomizzanti della storia-scienza. D’altronde, almeno sinora, Fiori ha scelto di studiare e proporre figure umane e storiche che “sente”, personaggi in qualche modo indiscutibili. Si potrebbe persino pensare che, per quelli che sono i nostri più comuni ed attuali parametri etici e mentali, le biografie che egli va ricostruendo introducano ad una galleria ideale di vite esemplari. Il che non significa che il comunista Gramsci, l’anarchico Schirru e il socialista Lussu appartengono realmente alla coscienza normale dell’italiano medio, bensì che potrebbero appartenervi se... Ed è proprio in questa possibilità o idealità la grande carica pedagogica di quella galleria, a cominciare dal ritratto di Gramsci che ha superato i confini nazionali per acquistare dei connotati di classicità e di universalità che sarebbe difficile spiegare in termini soltanto storiografici.
Non è senza ragione, allora, che la biografia di Lussu ne II cavaliere dei Rossomori sia poi una biografia incompleta e che il racconto di Fiori si interrompa proprio là dove sarebbe stato più difficile continuarlo: il Lussu nel Partito socialista, il Lussu che non è stato soltanto spettatore ma anche protagonista (e
cioè ancora uomo di parte) negli anni della ricostruzione (il Lussu che nello scontro parlamentare sulla “legge truffa” schiaffeggia La Malfa e ne viene sfidato a duello), della guerra fredda (il Lussu che non soffre crisi di coscienza di fronte ai fatti d’Ungheria), del centrosinistra (il Lussu della scelta più sofferta quella di un Psiup minato da un operaismo di ritorno). Anche Fiori è stato socialista e forse questa storia più recente di Lussu era troppo coinvolgente per consentire quel reale ed effettivo distacco che solo può aprire, nel fare storia, a processi di identificazione psicologica e morale. Va comunque aggiunto che il Lussu del trentennio repubblicano non è stato sinora oggetto di alcuna attenzione storiografica (se si eccettua la raccolta di suoi scritti, Essere a sinistra, curata dal Collettivo Lussu nel 1976 per l’editore Mazzotta) e non erano quindi disponibili, alla mano, quei materiali e quelle riflessioni che hanno generosamente sorretto la fatica di Fiori sino alla Costituente (soprattutto i lavori di Manlio Brigaglia, Giovanni De Luna, Antonello Mattone e gli atti dei due convegni lussiani del 1980, tenuti a Cagliari e a Nuoro).
Il cavaliere dei Rossomori può quindi chiudersi distillando la biografia di Lussu in un trittico di motivi etico-politici: Lussu o Dell’autonomia, Lussu o Del socialismo, Lussu o Della coerenza morale.
Fiori esplicita così meglio il suo intento di consegnarci un profilo umano e politico di Lussu trasparente per significati che sono insieme storici ed universali. Ed è difficile sottrarsi alla duplice suggestione del personag- gio-Lussu e dello scrittore Fiori.
Nonostante ciò, tra il microcosmo di Ar- mungia, che è il punto di partenza de II cavaliere dei Rossomori e l’ultima militanza di Lussu nel Psiup, che ne resta fuori, si può distendere un filo di rapide, forse non inutili, riflessioni.
È indubbio, e Fiori gli attribuisce il giusto peso, che al fondo dell’autonomismo di Lus-
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su, del suo stesso socialismo, ci sia anche il microcosmo di Armungia, ma è più certo ancora che le radici vere dell’autonomismo di Lussu affondino nel rapporto tutto storico, e cioè sociale e politico, non antropologico, con le masse dei contadini sardi, prima in armi e poi organizzate nel movimento dei combattenti e quindi nel Partito sardo d’azione. II ruolo di intellettuale e di leader politico di Lussu si definisce, insomma, non nel rapporto di adeguazione ad una realtà sociale e culturale di tipo locale o regionale, ma nel superamento di questa stessa realtà, nella prospettiva della sua trasformazione rivoluzionaria. Che di questa tensione lussiana verso un futuro immaginato e progettato sia parte rilevante la volontà di contribuire anche allo sviluppo di una coscienza etnica della Sardegna non è dato dubitare, ma il fatto è che questa stessa coscienza deve aver come condizione una modificazione radicale degli assetti economici e civili dell’isola, l’abbattimento di ogni confine sociale della stessa et- nicità. L’etnicità per Lussu, come per i dirigenti più avvertiti del primo sardismo, è infatti soprattutto un fatto di mobilitazione politica, è il simbolo unitario della volontà isolana di partecipazione non subalterna alla vita nazionale. Si legga al riguardo lo scritto L ’avvenire di Sardegna comparso su ”11 Ponte” nel 1951, dove tutti i dati di una tradizione culturale dagli stretti confini regionali sanno di immagini in dissolvenza per l’insorgere continuo dei problemi della trasformazione sociale dell’isola.
Ed è proprio in questo l’attualità del ’’sardismo” di Lussu, nel fatto che ancora oggi il problema dell’identità etnica e culturale dell’isola è quello della modificazione dei suoi assetti sociali e del rafforzamento delle sue strutture civili, è il problema non della conservazione di un retaggio culturale ma della sua vivificazione al confronto con le esigenze del presente, ed è soprattutto il problema di una maggiore estensione della decisionalità politica. È insomma, ancora una volta, la
questione della democrazia partecipata che non può ridursi ad uno scenario politico disegnato dal gioco esclusivo dei partiti e delle grandi centrali del potere economico ed istituzionale.
Sulla concezione della democrazia e del socialismo in Lussu, e sul ruolo che questa concezione gioca prima in Gl e poi nel Pd’A, è stato già scritto abbastanza. Bisogna dare atto, a Giovanni De Luna soprattutto, della chiarezza con la quale, prima in un intervento al convegno cagliaritano del 1980 e poi nel libro sul Partito d’Azione (Storia del Partito d ’Azione. La rivoluzione democratica 1942/1947, Milano, Feltrinelli, 1982), ha evidenziato il contributo originale e duraturo di Lussu al dibattito sulla costruzione della democrazia in Italia. Lussu, è noto, ha finito col definirsi un marxista. Se il suo socialismo può datarsi alla prima esperienza sardista (e mi sembra che Fiori concordi) il suo marxismo no, esso è realmente l’approdo di un complesso itinerario politico ed intellettuale. Ci si può comunque autodefinire marxisti da più punti di vista e anche seguendo del marxismo percorsi diversi. Il marxismo di Lussu si caratterizza soprattutto per una assunzione di principio fondamentale: la lotta di classe come opposizione essenziale e determinante tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Non c’è scritto teorico di Lussu che non la presupponga.
Quello che Lussu non accetta mai è però che questa polarità strutturale si traduca immediatamente in uno scontro sociale del tipo “classe contro classe” e, ad un livello diverso, in una dialettica politica tutta confinata nello spazio esclusivo dell’azione dei partiti. E se si intende questo si può forse accedere ad una comprensione migliore delle scelte di partito che Lussu ha via via operato. Dalla critica del sistema dei partiti d’età giolittiana al progetto dei partiti autonomistici all’ipotesi del grande partito di unificazione socialista, sino alla confluenza nel Psi e poi alla scissione del Psiup, Lussu ha tenuto fede ad
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una visione della lotta politica profondamente democratica, che fugge dalle polarizzazioni estreme e soprattutto dal misconoscimento della complessità ed articolazione del corpo sociale. Una visione che tiene conto dello spessore di certe stratificazioni sociali, delle loro condizioni ambientali e culturali.
Ne deriva che anche l’autonomismo e il federalismo di Lussu, nella loro fase più matura, sono l’espressione di un modo di leggere nel divenire sociale e di aderire a questo, piuttosto che lo svolgimento genetico di un originario nucleo sardista. Si vuole dire, cioè, che già il Lussu degli anni ’40, della battaglia per le autonomie, non intende più i problemi generali della democrazia alla luce della sua originaria esperienza sardista (qualunque sia il significato emblematico ed emotivo che quest’esperienza continua ad avere per lui), bensì rilegge gli stessi problemi dello specifico sociale e culturale dell’isola alla luce di una ormai consolidata ed universale concezione della democrazia. E come potrebbe essere diversamente, del resto, per un uomo che nei lunghi anni dell’esilio ha sperimentato in tutta la sua violenza, e sulla scala internazionale, lo scontro mortale tra democrazia e reazione?
Dal libro di Fiori emerge in tutto il suo significato anche quello spirito di “resistenza” che caratterizza il lungo ed intenso impegno di Lussu. Esso è una sorta di rousseauniano senso di dedizione all’interesse comune e morale piuttosto che l’espressione di un’attitudine alla lotta e al rischio d’ascendenza pastorale, la balentia, sulla quale insiste troppo la letteratura regionale (e forse anche Fiori). È in una disposizione civile, e non antropologica, la radice di quella coerenza morale, di una certa “impolitica” intransigenza che ha suscitato talora giudizi molto
diversi sull’attività di Lussu. Se ne possono qui riportare, a mo’ d’esemplificazione, due: uno di Giorgio Amendola ed uno di Tomaso Carini. Nella sua Intervista sull’antifascismo (Bari, Laterza, 1976) Amendola notava qualche anno fa come mentre altri dirigenti dell’antifascismo mostravano troppo spesso una disposizione politica e psicologica ad attendere il precipitare degli avvenimenti — al momento, ad esempio, dell’invasione tedesca in Francia — Lussu, impaziente, passava subito all’illegalità. Di simili manifestazioni d’impazienza Lussu ne ha date parecchie, dalla reazione armata ad un’aggressione fascista, a Cagliari nel ’26, alla fuga di Lipari nel ’29, ad altre ancora nel corso della successiva attività in Gl e nel PdA. Al Carini, nel ’43, Lussu apparve “un personaggio fuori quadro, pericoloso perché divertente e divertente perché pericoloso: un ardito delle brigate sarde. Una figura più letteraria che politica” . {Il partito d ’A- zione, Roma, De Luca, 1960, p. 22). Il giudizio ha la sua qualità espressiva, ma chi lo commisuri a tutto l’impegno antifascista di Lussu, nel corso di oltre vent’anni, non può non coglierne il segno urgentemente polemico.
Se Lussu poteva anche apparire un personaggio fuori quadro è perché aveva la capacità e la prontezza d’operare scelte assolute nel tempo della storia e spesso, come ha scritto una volta Manlio Brigaglia, proprio di “quella storia momentanea che è lo spazio dell’azione politica nel suo svolgersi più bruciante ed urgente”, {Emilio Lussu e “Giustizia e Libertà", Cagliari, Della Torre, 1976). E questa capacità non è né una forma di balentia né di arditismo, ma semplice e purissimo senso di responsabilità civile e morale.
Gian Giacomo Ortu
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Relazioni italo-francesi 1939-1945
di Giorgio Caredda
Ricostruendo i rapporti tra Italia e Francia durante la seconda guerra mondiale (Italia e Francia 1939-1945, a cura di Jean Baptiste Duroselle ed Enrico Serra, Milano, Angeli, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1984, 2 voli., pp. 364 e 244 lire 18.000 e25.000), i relatori ai tre convegni organizzati tra il 1980 e il 1982 dal Comitato italo-fran- cese di studi storici (di cui i due volumi pubblicano i contributi) si sono trovati di fronte due Italie (l’Italia fascista e quella antifascista) e tre France (la Terza repubblica, Vichy e quella nata dalla Resistenza) diverse tra loro.
Per giunta, i gruppi dirigenti che si sono succeduti in ciascuna di queste fasi, sono quasi sempre stati su fronti differenti, hanno scelto alleati diversi, hanno inseguito disegni e prospettive contrastanti. La storia delle relazioni tra i due stati in questi sei anni non poteva non essere quindi che la descrizione di queste ostilità, incomprensioni, soperchierie reciproche.
L’acme della tensione è stato toccato, ovviamente, con l’aggressione dell’Italia fascista contro la Francia in gran parte già invasa dagli eserciti tedeschi, un’impresa che non copre certo di gloria le forze armate italiane. Mussolini non ebbe neanche le sue “poche” migliaia di caduti da far pesare sul tavolo delle trattative di pace: André Martel fa notare che le operazioni condotte sulle Alpi costarono agli italiani 630 morti, 8.000 feriti (tra cui moltissimi congelati), 500 prigionieri o dispersi, contro i 20 caduti, i 94 feriti e i 152 prigionieri francesi (I, p. 211). E quest’esito disastroso fu raggiunto combattendo contro un’armata che negli stessi giorni doveva pensare a difendersi dai tedeschi che ca
lavano alle sue spalle dal nord: a riprova da un lato della serietà della preparazione francese, almeno su questo settore — il che dovrebbe portare, secondo lo stesso relatore, a sfumare il prevalente giudizio negativo su quelle forze armate, “un outil qui était utilisable pour qui savait et voulait s’en servir” —, dall’altro della validità della dottrina strategica italiana, “costantemente e nettamente contraria ad operazioni offensive sulle Alpi occidentali” (Vincenzo Gallinari, I, p. 114).
Prima del coup de poignard, parte importante dei gruppi dirigenti politici, economici e militari dei due paesi non sembrava orientata ad un conflitto, del quale non si vedevano serie misure preparatorie: gli studi raccolti nel primo volume ne offrono diversi esempi.
Si va dalla farraginosa e immobilistica strategia di Gamelin (qui richiamata da Guy Redroncini) che, in caso d’attacco italiano contro Gibuti — nessuna persona ragionevole poteva seriamente immaginare offensive italiane sulle Alpi —, suggerisce di strozzare l’Italia bloccando Suez e Gibilterra, in attesa che si verifichino “mouvements populaires” o pressioni della monarchia all’interno del paese (I, p. 217); agli orientamenti della migliore pubblicistica economica italiana (analizzata da Luigi De Rosa), che cerca di pesare “a favore di chi voleva evitare che l’Italia s’imbarcasse in una guerra con la Francia” (I, p. 51), presentando la solidità della struttura economica dei vicini d’Oltralpe; allo stesso Badoglio che, il 1° settembre 1939, teme che, in caso d’intervento italiano, le armate francesi sfondino il fragile schieramento difensivo alpino e dilaghino in Valle Padana.
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Soprattutto, durante i nove mesi di guerra che hanno preceduto l’aggressione alla Francia, il sostegno dell’industria italiana all’economia del paese vicino, in guerra con l’alleato dell’Asse non venne meno. Anzi, come nota De Rosa, “la gamma dei prodotti esportati dall’Italia si era ampliata fino a comprendere prodotti industriali di notevole livello” (I, p. 53), ivi comprese importanti forniture militari. Pierre Guillen riporta una nota del ministero delle Finanze francese da cui risulta che, fino al 23 aprile 1940, gli italiani hanno venduto alla Francia centinaia d’aerei (per un miliardo di franchi); obici, pallottole, bombe, mine sottomarine, munizioni anticarro (664 milioni); camion Fiat, per 457 milioni; navi da guerra, per 381 milioni; esplosivi, per 312 milioni, più una miriade di altri materiali direttamente legati allo sforzo bellico dell’industria d’Oltralpe: macchine utensili, petroliere, vagoni-cisterna, acciai speciali, ecc. In altre parole, l’industria italiana rifornisce, rispettando scrupolosamente le scadenze, l’arsenale del futuro nemico fino al 24 maggio 1940, quando il governo vieta l’esportazione di manufatti in Francia. Quindici giorni dopo, il coup de poignard, andato a buon esito grazie alla richiesta d’armistizio presentata da Pétain ai tedeschi.
Con il crollo della Francia e l’occupazione tedesca, con l’industria francese alle dipendenze del Reich, l’Italia ha ben poco da guadagnare: De Rosa fa notare che “nei mesi successivi all’armistizio, il volume degli scambi italo-francesi fu inferiore a quello registrato negli anni prebellici” , già esiguo; e i rapporti economici e finanziari tra Roma e Vichy non sono certo comparabili a quelli franco-tedeschi. “Tandis que l’Allemagne exigeait et obtenait — nota Guillen a p. 177 — l’Italie fasciste faisait mine d’exiger, puis négociait, transigeait et parfois même battait en retraite” . Non che l’Italia non si sia “servita”: nel 1943, a titolo di spese d’occupazione, la Francia ha versato all’Italia 8,2 miliardi di franchi, gran parte dei quali (da 5,5 a 6
miliardi) furono in realtà utilizzati per operazioni finanziarie da parte di alcune succursali francesi di banche italiane (la Banque ita- lo-française de credit, la Banca commerciale, il Banco di Roma). Ma in definitiva, l’8 settembre del 1943 il clearing italo-francese era praticamente in pareggio; l’Italia, a differenza della Germania, non è dunque riuscita ad avere forniture senza contropartite: “rien de comparable à l’exploitation systématique à laquelle se sont livrés les Allemands” (I, p. 177).
Dopo l’8 settembre, gli avversari di Vichy ed i successori di Mussolini, rappresentanti di due popoli che non erano divisi né da fiumi di sangue, né da un’occupazione eccessivamente rigida, si sono venuti a trovare nello stesso campo, e avrebbero dunque potuto ragionevolmente intendersi, per darsi sostegno contro l’invadente tutela angloamericana. Gli studi raccolti in questi due volumi (e in particolare il secondo di essi, interamente occupato dal saggio di Enrico Serra, La diplomazia italiana e la ripresa dei rapporti con la Francia (1943-1945), rivelano che così non fu, e perché.
Nell’estate del 1943, i due interlocutori (il Comitato di Algeri e il governo Badoglio) non sono affatto omogenei; De Gaulle e i suoi compagni hanno più d’un motivo per diffidare d’un governo con molte caratteristiche “darlaniste” . Questa diffidenza di fondo emerge chiaramente da uno dei primi documenti che René Massigli, Commissario agli esteri del Cfln, dedica all’esame della situazione italiana, e alle sue prospettive: secondo Jean-Baptiste Duroselle, che vi fa riferimento, in questa nota del 18 agosto 1943 era auspicata una trasformazione interna dell’Italia, l’abdicazione di Vittorio Emanuele di Savoia, l’istituzione d’una Repubblica, qualche rettifica di frontiera in favore della Francia, sulle Alpi e nel Fezzan (I, p. 100). Per Serra invece, proprio quel 18 agosto del 1943 Massigli propone al Cfln un’ipotesi di trattato di pace “duro e punitivo con
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l’Italia, tale da far scomparire quest’ultima dal ruolo delle grandi potenze” (II, p. 37).
C’è alla base una divergenza politica seria. Il governo Badoglio, e in particolare il segretario generale del ricostruendo ministero degli Esteri, Prunas, non parvero in grado di trovare i mezzi per impostare con Algeri seri rapporti politici, tali da far attenuare la durezza delle posizioni francesi: il fatto è che quel governo e quel funzionario ben si adattarono alle informazioni ed ai desideri degli angloamericani, ostili a De Gaulle e sospettosi delle potenzialità politiche inconsuete che si raccoglievano nella Resistenza, perché quest’ostilità e questo sospetto li condividevano essi stessi per quanto riguardava l’Italia. L’unico terreno d’intesa possibile passava per la rivendicazione d’una fraternità di lotta contro il nazifascismo, e per il riconoscimento del primato di De Gaulle nell’aver intrapreso da subito questa via: in altre parole, come opportunamente nota Serra, al contrario della giunta esecutiva dei Cln (che, da Bari, inviano un caloroso saluto a De Gaulle), Prunas “vide il tema dei rapporti ita- io-francesi come un problema diplomatico, mentre era soprattutto un grosso problema politico, con spazi che si andavano sempre più restringendo” (II, p. 58).
Questa incomprensione politica provoca la perdurante cecità della diplomazia italiana, che crede addirittura di potersi “servire degli americani per indurre la Francia a miglior consiglio” , mostrando d’ignorare “il disastroso stato dei rapporti tra gli Stati Uniti e il generale De Gaulle” (II, p. 75). Inefficace per la soluzione dei problemi più impellenti (è il caso del trattamento inumano riservato dai francesi ai soldati italiani loro prigionieri in Tunisia), questa cecità impedisce al governo italiano di cogliere gli importanti (perché rari) momenti d’apertura accennati da De Gaulle, come quando il generale, venuto a Roma alla fine del giugno 1944, comunica il suo desiderio d’avere rapporti “diretti, segreti, senza terzi ingombranti” col governo ita
liano, non nasconde il suo rancore verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti, si dichiara convinto che gli Alleati avrebbero fatto di tutto non per facilitare, ma per ostacolare i rapporti tra Francia e Italia. Questa disponibilità di De Gaulle non fu raccolta, e fu persa una rara occasione d’impostare rapporti proficui, perché Prunas era convinto che il neonato governo provvisorio francese fosse in realtà più debole e impotente di quello italiano. Non capiva cioè, per usare le parole di Serra, che “bisognava, soprattutto, puntare sull’avvenire”, riconoscere “con gesto unilaterale e realistico” da subito il Comitato d’Algeri come il governo legittimo della Francia, nonostante le cautele e gli interessi temporeggiatori degli angloamericani, nel momento in cui De Gaulle avrebbe apprezzato qualsiasi appoggio.
L’incomprensione del governo italiano fu ripagata della stessa moneta. Dopo la liberazione di Parigi, il governo francese si considera — una volta decaduto l’armistizio del ’40 — ancora in stato di belligeranza con l’Italia e, non senza paradosso, non risparmia ostilità e persecuzioni nei confronti di quegli stessi italiani che hanno combattuto, ed ancora combattono, contro il comune nemico: “Partigiani della IV Divisione Garibaldi, che operava nel Canavese, costretti dopo duri combattimenti con i tedeschi a rifugiarsi in Francia, dovettero rientrare in Italia sotto minaccia d’internamento da parte del comandante del maquis di Bourg St. Maurice, che si rifiutò di dar loro viveri e munizioni”; o ancora: “I patrioti italiani che combattevano nelle valli del Piemonte, tra cui 2.000 uomini della IV divisione ‘Garibaldi’, costretti a sconfinare in Francia, erano stati disarmati ed internati, talvolta negli stessi campi di concentramento in cui si trovavano soldati tedeschi” (II, pp. 100-101).
Neanche la ripresa dei rapporti diretti (lo scambio degli ambasciatori) tra i due paesi, alla fine di febbraio del 1945, sembra far fare passi avanti significativi al contenzioso (sta
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tuto degli italiani in Tunisia; trattamento dei prigionieri che, ancora a luglio del 1945, è considerato inumano dalla Croce Rossa internazionale; misure contro i cittadini italiani in Francia, assurdamente considerati cittadini d’un paese nemico; rettifiche di frontiera più o meno importanti). Nei giorni della liberazione del nostro paese, De Gaulle passa alle vie di fatto: “Le direttive del generale De Gaulle al generale Doyen erano precise: al momento della ritirata dei tedeschi, essere pronti ad occupare in Italia una zona che ‘superi largamente l’attuale frontiera’ [...]. Ad operazione iniziata, fu lo stesso De Gaulle ad ordinare al generale Doyen di occupare la Val d’Aosta e di spingersi fino a Torino” (II, p. 149). Ci vogliono consistenti minacce di rappresaglia da parte degli americani per far ritirare i soldati francesi. I disegni di spezzettamento dell’Italia non si limitano peraltro alla sola Val d’Aosta, o ai pochi comuni di frontiera, che poi passeranno effettivamente alla Francia: anche in Alto Adige, i servizi segreti francesi lavorano verso i maggiorenti cattolici locali, in vista di costituire “uno stato cattolico indipendente raggruppante la Baviera, il Tirolo austriaco e quello italiano” (II, p. 201) .
In definitiva, è certamente vero, come conclude Serra, che se la diplomazia italiana
“avesse puntato subito su De Gaulle e se avesse collaborato con questi in quel disegno di raggruppamento dei popoli latini e medi- terranei sotto la guida della Francia, forse le cose sarebbero andate diversamente” (II, p. 235); ma è anche vero che il governo francese, ed in particolare De Gaulle, vedono il problema dei loro rapporti con l’Italia all’interno d’un’ottica più vasta, che è quella che poi interessa veramente Parigi, e cioè la riconquista da parte della Francia del ruolo di grande potenza che le era appartenuto nel mondo d’anteguerra. Sembra dunque che l’errore d’incomprensione del mondo uscito dalla guerra sia stato condiviso, in momenti diversi, da entrambi i versanti delle Alpi. Come spiegarsi altrimenti le lunghe diatribe sul possesso dei comuni alpini, per non parlare dei progetti d’annessione della Val d’Aosta? O le preoccupazioni per la Tunisia, che di lì a pochi anni mostreranno tutto il loro anacronismo?
La liberazione della Francia mostra, in questa vicenda dei rapporti con l’Italia, il volto gollista della ricostruzione del vecchio Stato, con la vecchia diplomazia ed i vecchi stati maggiori. Gli studi raccolti in questi volumi mostrano bene una questione importante: la politica estera, i rapporti tra gli stati, non possono essere ridotti all’angusto terreno della diplomazia.
Giorgio Caredda
Relazioni internazionali
G i u l i a n o P r o c a c c i , Dalla parte dell’Etiopia. L ’aggressione italiana vista dai movimenti anticolonialisti d ’Asia, d ’Africa, d ’America, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 385, lire 33.000.
L’avventura fascista in Etiopia è stata e continua ad essere oggetto di particolare attenzione da parte della pubblicistica
italiana e straniera perché, nonostante il suo carattere anacronistico, essa suscitò una vasta eco internazionale e fini con l’assumere un aspetto almeno parziale di anticipo del secondo conflitto mondiale. Produzione abbondante ma sostanzialmente di non grande livello, limitata soprattutto per la produzione italiana a contributi memoriali- stici o alla ricostruzione in larga misura cronachistica degli av
venimenti diplomatico-militari (fanno eccezione nella produzione più recente i volumi di Angelo Del Boca, Giorgio Ro- chat e Carlo Zaghi); gli studiosi stranieri hanno invece in genere privilegiato gli aspetti internazionali del conflitto, in un’ottica fondamentalmente eurocentrica.
I due testi che Giuliano Procacci ha ultimamente dedicato all’Etiopia colmano entrambi
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una lacuna, pur restando in sostanza nell’ambito delle reazioni internazionali al conflitto ita- lo-etiopico. Il primo, Il socialismo internazionale e la guerra d ’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 1978, a suo tempo recensito su queste colonne (cfr. IC, n. 133, ottobre-dicembre 1978, pp. 103-104), concerneva l’atteggiamento della sinistra e del movimento operaio europeo e resta a mio avviso il più importante; il secondo, di cui qui si tratta, ne rappresenta in un certo senso l’ideale continuazione sia per l’allargamento del tema ai movimenti, in questo caso quelli anti-colonialisti di tutti i continenti extra-europei, sia almeno in parte per la ricerca documentaria su cui sono fondati entrambi i testi, in particolare l’Archivio del ministero degli Affari esteri di Roma e l’Archivio del Partito comunista italiano, Istituto Gramsci, Roma; si sono aggiunti per il secondo saggio quelli del ministero dell’Africa italiana e parzialmente gli archivi nazionali coloniali francesi ed inglesi.
In questo vasto ma tuttavia non esauriente impianto documentaristico sta da un lato l’interesse del saggio, che affronta il tema da un’angolazione del tutto inedita ed inesplorata — l’atteggiamento tenuto dai principali movimenti anticolonialisti del tempo; ma, e questo è il limite che lo stesso autore pienamente avverte e che più volte sottolinea, sulla scorta della documentazione presente negli archivi italiani, rappresentativa dell’ottica della nostra diplomazia al tempo del conflitto, diplomazia che assolveva il suo compito d’informazione e di sostegno alla politica del governo.
Una ricerca di più ampio respiro sarebbe stata molto difficile e probabilmente caratterizzata da un’eccessiva sproporzione tra la vastità e le difficoltà dell’ambito da indagare e l’esiguità dei probabili risultati, dato il tipo della documentazione da cercare (volantini, giornaletti clandestini o quasi, ecc.).
II saggio in esame si presenta essenzialmente come una ricerca comparata e in quanto tale articolata in capitoli e paragrafi dedicati all’analisi delle singole situazioni nazionali e regionali. È obiettivamente difficile una visione d’insieme perché i movimenti anti-colonialisti allora come oggi — e Procacci usa costantemente l’espressione al plurale proprio per sottolineare tale carattere — erano molto differenziati tra di loro e spesso chiusi in una sorta d’isolamento reciproco.
Una marcata divisione esisteva poi tra quei movimenti — o quei leaders, dato che spesso i due aspetti si identificavano — che vedevano nella Terza Internazionale un interlocutore valido e un possibile riferimento comune e quelli che all’inverso, come ad esempio i panafricani- sti, consideravano anche la sinistra europea complice e supporto del colonialismo internazionale. Il capitolo finale — che ricollega in maniera esplicita questo secondo saggio di Procacci al primo sopracitato — analizza le convergenze e le divergenze cui l’aggressione italiana all’Etiopia dette luogo tra le sinistre europee e quelle extra-europee, mettendo in rilievo le permanenti difficoltà ad un riavvicinamento tra le posizioni. Neppure la comune opposizione all’aggressione italiana
verso l’Etiopia riuscì a promuoverlo.
La sinistra europea vide infatti della questione soprattutto l’aspetto internazionale e una ulteriore manifestazione di aggressività da parte dei regimi fascisti, di conseguenza una minaccia per la pace; da qui il ruolo moderatore svolto dalla Terza Internazionale e dal Partito comunista dell’Unione Sovietica, preoccupato di non coinvolgere eccessivamente l’Urss in una questione che Mosca giudicava tutto sommato periferica. Ottica dunque sostanzialmente eurocentrica che poneva in secondo piano l’aspetto coloniale della questione.
I movimenti che operavano nel mondo coloniale videro invece ovviamente soprattutto tale aspetto e tesero a considerare il conflitto italo-etiopico un nuovo episodio nella “guerra dei bianchi contro i popoli di colore”; l’impatto emotivo indubbio di tale posizione non riuscì però a tradursi in una vasta azione di persuasione politica, sia perché la contrapposizione razziale finiva in un certo senso con l’avallare le dottrine razziste dei regimi fascisti — e Procacci giustamente cita la posizione di Garvey — sia per la questione del rapporto con il Giappone, potenza di colore ma facente parte del campo fascista. Uno dei principali motivi d’attrito con la Terza Internazionale fu infatti la questione del cosiddetto “nemico principale”, identificato dall’Internazionale nel fascismo. Ma fu soprattutto nei confronti dell’idea di un nuovo conflitto mondiale che le posizioni si divaricarono maggiormente, orientata verso la prevenzione la sinistra euro-
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pea, anche se non sempre compatta; oscillanti tra la posizione di Nehru, che pur deprecandolo considerava il conflitto inevitabile, quella del panafricanista Padmore, che invece lo riteneva un passaggio obbligato sulla via di una palingenesi rivoluzionaria universale, e quella maggioritaria di coloro che scorgevano nella guerra d’Etiopia [’“occasione” per promuovere la propria indipendenza nazionale, i movimenti anticolonialisti.
Il saggio del Procacci contribuisce così anch’esso a sfatare quel mito di un Terzo mondo compatto e perpetua vittima che tanto peso esercitò in un recente passato, ma che appare ormai superato e ostacolo ad una più profonda conoscenza dei problemi esistenti, gravi ma anche diversificati e specifici. E il caso Etiopia è ancor oggi uno di essi.
Chiara Robertazzi
M a r i o T o s c a n o , Corsivi di politica estera 1949-1968 per la “Rivista di studi politici internazionali”, presentazione di G. Vedovato, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 391 (Università di Roma - Facoltà di Scienze Politiche - n. 39), lire 18.000.
Mario Toscano ha rappresentato per un lungo periodo di tempo uno degli esponenti più rappresentativi della storia delle relazioni internazionali. Sebbene questa disciplina stia attraversando una fase di mutamenti che non escludono innovazioni e sperimentazioni, i lavori di Toscano, a oltre quindici anni dalla sua scomparsa, possono essere considerati utili punti di riferimento per gli studiosi di
politica estera. In questo volume, la cui pubblicazione è stata promossa dall’Istituto di studi storici della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma, un “gruppo di colleghi e di amici” ha inteso fornire alcuni esempi, non della produzione storiografica di Toscano, bensì delle sue qualità di commentatore di politica internazionale. Nell’opera sono stati infatti raccolti i “corsivi” trimestrali che Toscano pubblicò tra il dicembre 1949 e il giugno 1968 nella “Rivista di studi politici internazionali”. Questi brevi saggi sono stati suddivisi per argomenti ed essi spaziano dalla questione di Trieste (e più in generale dei rapporti con la Jugoslavia), al problema altoatesino (di cui Toscano non si occupò solo nelle vesti di storico), alle relazioni Est-Ovest, all’unità europea, al disarmo, al Medio Oriente ecc. Ogni gruppo di “corsivi” è preceduto da una sintetica introduzione a cura di diplomatici, quali Guidotti, Gaja, Mondello, Catalano, Dainelli, nonché di storici e di studiosi delle relazioni internazionali, quali Spadolini, Pastorelli, Vaisecchi, Catalano, André ed Anchieri.
Come è ovvio, alcuni articoli appaiono “datati” e particolarmente legati a una realtà contingente, ma nel complesso numerose osservazioni di Toscano mantengono intatta gran parte della loro originalità e suscitano ancora interesse. Né d’altro canto si può trascurare come Toscano, docente universitario, abbia ricoperto, tra l’altro, l’incarico di capo del Servizio studi del ministero degli Esteri e di delegato italiano all’Assemblea generale delle Nazioni unite “con rango e titolo di ambascia
tore”. I “corsivi” raccolti in questo volume offrono dunque utili indicazioni sulle opinioni di Palazzo Chigi e della Farnesina e rappresentano un “documento” per la comprensione di alcuni aspetti dell’azione internazionale della Repubblica italiana tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta.
Antonio Varsori
E g i d i o O r t o n a , Anni d ’America. La ricostruzione; 1944-1951, Bologna, II Mulino, 1984, pp. 447, lire 30.000.
Le brillanti e letterariamente vive pagine che Egidio Ortona (addetto all’ambasciata italiana a Washington dal 1944 al 1959 e ambasciatore presso la stessa sede dal 1967 al 1975) ha tratto dal suo “diario” costituiscono un interessante documento della mentalità e dell’azione politica ed economica che caratterizzarono l’azione dell’ambasciata italiana negli Stati Uniti (e non solo) durante gli anni della ricostruzione. E se qualcosa soprattutto viene messo in rilievo è certamente nel fatto che la scelta occidentale, l’adesione al Patto atlantico e la subordinazione politico-economica agli Usa dell’Italia non furono determinati soltanto dagli accordi fra le grandi potenze stabiliti da Casablanca a Yalta, in quanto i diplomatici, da Ortona a Tar- chiani, si mostrarono in ogni momento pronti ad orientare l’opinione pubblica “verso quelle forze che apparivano più propense a tenere in conto le istanze a sfondo antisovietico” (p. 108) e si mostrarono sempre più preoccupati per il “neutralismo
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crescente” fra le masse italiane (p. 369) che, “indifferenti e as- senteiste”, apparivano sempre meno propense a partecipare ad una guerra “a difesa del sistema di vita occidentale” (p. 386). Ed in effetti furono proprio Tar- chiani ed Ortona che ripetuta- mente sollecitarono Sforza e De Gasperi affinché l’Italia, “come atto di solidarietà con gli Stati Uniti” (p. 347), partecipasse addirittura alle operazioni militari in Corea (pp. 347, 360, 367). Nonostante Mario Ferrari Aggradi, nell’agosto 1950 (ma lo aveva già fatto un anno prima, p. 308), sostenesse la necessità di “proteggerci e difenderci dalle ‘pretese’ americane” (p. 366) che rischiavano di trasformare l’egemonia in “colonialismo”, Ortona sottolinea una scelta americana condotta, malgrado tutto, fino in fondo da lui e Tar- chiani e durante la campagna elettorale del 1948 (gestita in stretta collaborazione fra l’ambasciata e i funzionari americani, pp. 223-225) e nell’insistere lungamente e ripetutamente affinché l’Italia aderisse al Patto atlantico (“Per l’ambasciata ciò che contava era indurre Roma a partecipare”, pp. 278-279; “Fu necessario esercitare una costante pressione sul governo di Roma nel quale, malgrado le favorevoli personali convinzioni di De Gasperi e Sforza, allignavano incertezze e allergie a impegni del genere”, p. 291).
Grazie all’“importante e determinante azione degli Stati Uniti” (anche se oggi è stato secondo Ortona, purtroppo, sepolto “nel dimenticatoio il contributo dato dagli Usa all’esito di quelle elezioni”, p. 237) si ottenne nel 1948 un risultato che potè “paragonarsi all’arresto
dei turchi ad opera di Sobiewski di fronte a Vienna nel 1683” (p. 236).
Preoccupato delle proprie camicie di seta (indumento “normale” in Italia nel 1944, p. 40) e dal “fanatismo” mostrato dai partigiani che, “offendendo l’estetica” (?), avevano fucilato Benito Mussolini (p. 133), legato a Dino Grandi da “schietta e affettuosa amicizia” dal 1932 per oltre 50 anni (p. 6-7), la figura di Ortona, nelle sue scelte operate congiuntamente a Tar- chiani e tese a forzare ripetuta- mente la mano al governo italiano rappresenta in maniera esemplare la continuità nei modi e modelli delle scelte politiche e diplomatiche, sia pure nel nuovo campo d’azione costituito dagli Stati Uniti e con saldi riferimenti alle qualità “carismatiche” di De Gasperi.
Siamo convinti che proprio queste caratteristiche, del resto puntualmente coerenti con le fonti documentarie (comprese le memorie di Tarchiani) e la saggistica già note facciano del volume di Ortona un contributo importante, soprattutto là dove viene sottolineato il ruolo determinante della diplomazia italiana nelle scelte governative italiane e dove, attraverso il resoconto puntuale di episodi e particolari, si suffraga, si conferma e, in qualche modo, si “spiega” la documentazione ufficiale.
Luciano Casali
V a l d o F e r r e t t i , Il Giappone e la politica estera italiana 1935- 41, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 254 (Università di Roma - Facoltà di scienze politiche - n. 42), lire 14.000.
Il volume di Ferretti si basa su una ricca documentazione, in gran parte inedita, proveniente da archivi italiani, britannici e — elemento di particolare interesse — nipponici. Scopo dell’autore è far luce su un aspetto meno noto, ma non per questo secondario, della politica estera fascista nella seconda metà degli anni trenta: il ruolo svolto dal governo di Roma in Estremo Oriente e, in modo specifico, l’atteggiamento nei confronti del Giappone e della sua politica imperialistica.
Dopo aver delineato sinteticamente i caratteri dell’espansionismo giapponese e la situazione internazionale in cui esso venne a inserirsi, Ferretti sotto- linea l’esistenza di particolari interessi italiani nell’area estre- morientale, nonché l’attenzione di Roma nei confronti della situazione cinese. L’autore d’altro canto ricorda, nel corso del suo studio, l’esperienza “cinese” nei periodi 1927-29 e 1930- 32 di Galeazzo Ciano, dal 1936 alla guida del ministero degli Esteri. Sino alla guerra d’Etiopia, comunque, le valutazioni italiane sulla politica nipponica e sulla situazione cinese non parvero discostarsi da quelle di altre potenze europee, in modo particolare della Gran Bretagna. Con l’aperto manifestarsi dell’aggressività italiana in Africa e il conseguente scontro con gli interessi mediterranei di Londra, nacque nella capitale italiana la tendenza a individuare una comunanza di interessi e obiettivi tra l’imperialismo italiano e quello di Tokyo. In realtà Ferretti dimostra che l’aggressione contro l’Etiopia, le sanzioni e la tensione nel mar Mediterraneo con l’Inghilterra
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non furono elementi tali da determinare un netto “rapprochement” italo-nipponico. L’atteggiamento di Tokyo si mantenne cauto, anche se non mancarono simpatie verso l’Italia a causa delle posizioni ostili alla Gran Bretagna e alla Società delle nazioni. Furono il tentativo britannico di coinvolgere l’Unione Sovietica in alcune questioni internazionali (la conferenza navale del 1935-1936), l’apparente influenza sovietica sulla Cina, la debolezza dei gruppi cinesi su cui sembrava aver fatto affidamento il governo fascista e la rinnovata aggressione nipponica gli elementi che condussero i governi di Roma e di Tokyo a un effettivo avvicinamento. I due regimi infatti ritennero di dover contrastare non solo la Gran Bretagna, ma finirono con il condividere un profondo timore nei riguardi dell’Unione Sovietica, del ruolo che questa avrebbe potuto svolgere sia in Europa, sia in Estremo Oriente. È in questo contesto che Ferretti interpreta l’adesione italiana al Patto anti-Komintern del 1937. Questa scelta spinse inoltre il governo di Roma a raffreddare sempre più le proprie simpatie nei confronti dei nazionalisti cinesi e ad assumere una posizione coerente con gli interessi di Tokyo nell’ambito della conferenza di Bruxelles (novembre 1937).
Nel corso del 1938 il governo fascista, pur nutrendo la vaga aspirazione di svolgere una funzione mediatrice tra la Cina e il Giappone, esaminò la possibilità di concludere un vero e proprio accordo bilaterale di carattere militare con il governo giapponese; tale accordo avrebbe avuto funzione sia anti-in-
glese, sia anti-sovietica. Nel frattempo però l’iniziativa in campo internazionale, in particolare nell’ambito dell’Asse, era definitivamente passata alla Germania hitleriana e come gli eventi del 1938-1939 dimostrarono, la politica di Mussolini e di Ciano finì con l’essere sostanzialmente condizionata da quella di Berlino. Lo stesso progetto di accordo con il Giappone fu cancellato dalla rapida evoluzione degli avvenimenti in Europa e in Asia orientale. La politica italiana in Estremo Oriente — come in Europa — si sarebbe allineata — seppur fra incertezze e ripensamenti — a quella della Germania.
Antonio Varsori
L u i g i B r u t i L i b e r a t i , II Canada, l ’Italia e il fascismo 1919- 1945, Roma, Bonacci, 1984, pp. 256, lire 24.000.
Il volume fa parte della collana “I fatti della storia” diretta da Renzo De Felice. Ne è autore un giovane ricercatore presso l’Università di Milano che ha già pubblicato numerosi contributi sulle relazioni italo-canade- si nel Novecento, tema che ha potuto approfondire nel corso di un lungo soggiorno in loco reso possibile da una borsa di studio del Canada Council. L’interesse del saggio deriva oltre che dal tema specifico — le ricerche europee ed italiane in particolare sui rapporti tra Europa e paesi del Nordamerica privilegiano quasi esclusivamente gli Stati Uniti — dalla utilizzazione di fonti documentarie canadesi che l’autore ha potuto consultare direttamente (Public Archives of Ottawa, Depart
ment of External Affairs Records e Norman Robertson Papers) o indirettamente grazie alla collaborazione di alcuni funzionari (Archivio storico della Royal Canadian Mounted Policy, Ottawa, non aperto alla consultazione degli studiosi; per questa parte mancano le indicazioni dell’esatta collocazione archivistica). Altre fonti canadesi largamente utilizzate sono state i quotidiani e i periodici delle due province dell’Ontano e del Québec, privilegiate e come sede dei principali giornali a diffusione nazionale e come diremo per il contenuto della ricerca stessa. L’autore si è inoltre avvalso della documentazione rintracciabile in Italia presso l’Archivio centrale e l’Archivio del ministero degli Affari esteri.
Tema della ricerca è la diffusione del fascismo tra le comunità italiane emigrate in Canada, i suoi rapporti con il governo e la società canadese nel suo complesso e in particolare con quella franco-canadese del Québec, sulla quale si è appuntato maggiormente l’interesse del Bruti Liberati per un certo maggior non diciamo favore aperto ma almeno attenzione verso il fascismo, atteggiamento legato in certo qual modo alla rivalità con la comunità anglo-canadese.
Il saggio prende le mosse dalle difficili condizioni della prima emigrazione italiana nel Canada agli inizi del Novecento, illustrate soprattutto attraverso lo spoglio della stampa, per risalire rapidamente all’irrigidimento e all’incomprensione dell’opinione pubblica canadese verso le posizioni europee all’indomani del primo conflitto mondiale in generale e la crisi
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del dopoguerra in Italia, interpretata come una radicalizza- zione della situazione e una crescente instabilità del sistema liberale. Fu grazie a questo diffuso atteggiamento che anche in Canada si vide nell’avvento del fascismo non tanto l’irrompere sulla scena di un fenomeno politico nuovo e pericoloso ma una reazione al clima di anarchia che andava diffondendosi e pertanto soluzione provvisoria faute de mieux per un paese come l’Italia, di cui tranne rarissime eccezioni stampa e opinione pubblica avevano un’immagine stereotipa e viziata da scarsa informazione. Da qui l’atteggiamento sostanzialmente neutro delle autorità locali verso l’attività di propaganda fascista condotta dai nostri consolati all’interno delle comunità italiane, anche se l’autore ne mette in rilievo la sostanziale cautela e moderazione che contribuirono a darle una certa efficacia e ad ostacolare la diffusione dell’antifascismo — del resto intrinsecamente debole e minoritario — tra queste stesse comunità.
Una svolta nell’atteggiamento canadese verso il fascismo si ebbe secondo l’autore ai momento della guerra d’Etiopia, anche se subito dopo riconosce la singolarità ed anomalia del caso del Canada dove con l’avvento al potere dei liberali nel 1935, la politica estera assunse un atteggiamento di maggior autonomia nei confronti di Londra, anche nella questione delle sanzioni. Le reazioni non furono sempre omogenee, neppure nell’opinione pubblica, e qui prende corpo la tesi del Bruti Liberati di un atteggiamento più favorevole e ancora attendista verso il fascismo della comu
nità francofona, tesi che egli stesso rileva non mancherà di suscitare accese discussioni con gli storici franco-canadesi.
Chiara Robertazzi
G i o v a n n a T o m a s e l l o , La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 140, lire 12.000.
Breve saggio sulle risposte “letterarie” italiane alla costruzione di un impero coloniale, in particolare dell’impero fascista, seguito da una limitata raccolta documentaria. L’autrice prende le mosse dall’iniziativa assunta dalla rivista “L’Azione coloniale” diretta da Mario Pomilio nel 1931 con l’invio di un questionario-referendum sulla letteratura coloniale e le caratteristiche che avrebbero dovuto esserle proprie, iniziativa ovviamente improntata da connotazioni agiografiche e da pedagogismo propagandistico. Nella stessa direzione si mossero le risposte — la scrittrice Clarice Tartafuri arrivò ad auspicare la creazione di un nuovo genere letterario ad hoc, il “romanzo di conquista” —; né realmente diversa fu la risposta letteraria “alta” che sottolineava la necessità di mantenere ad un livello genuinamente letterario la produzione auspicata, riferendosi esplicitamente al modello dannunziano delle Canzoni delle Gesta d’oltremare, e 1’“autoesaltazione” di Marinetti che affermava la possibilità di una letteratura coloniale italiana solo in chiave futurista.
L’attenzione della Tomasello è volta soprattutto a mettere in rilievo lo stretto intrecciarsi an
che in questo episodio marginale dei rapporti o meglio della separazione netta tra cultura élita- ria e produzione volgarizzata tipica della situazione italiana. Muoversi in questa direzione è sfondare una porta aperta. Più interessante appare invece la tesi che il fascismo, con l’assunzione di posizioni ideologiche razziste alla metà degli anni trenta, chiuse paradossalmente lo spazio alla possibilità stessa di costruzione del romanzo coloniale proprio al momento dell’inizio dell’impresa etiopica.
Chiara Robertazzi
E u g e n i a S c a r z a n e l l a , Italiani d ’Argentina. Storie di contadini, industriali e missionari italiani in Argentina, 1850-1912, Venezia, Marsilio, 1983, lire 18.000.
Dopo un breve periodo di silenzio la storiografia italiana torna ad occuparsi dell’emigrazione in America latina. Il libro di Eugenia Scarzanella si inserisce nel filone di quegli studi che, affrontando l’esame di un caso specifico, analizzano l’emigrazione seguendo le fasi di adattamento all’ambiente sociale ed economico latinoamericano attraverso le quali la manodopera italiana si è trasformata in un popolo nuovo.
È impossibile sintetizzare in poche righe il contenuto di questo libro perché, come il titolo suggerisce, l’autore ha ricostruito la storia degli emigrati nei diversi settori della società argentina. L’ambito urbano e quello rurale vengono in questo modo esaminati in tutti i settori in cui gli italiani hanno operato: indu-
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striali, operai, coloni, mezzadri, intellettuali e missionari contribuiscono alla formazione della società argentina, in un processo che mette in luce come non sia proficua, ai fini della ricerca, considerare l’emigrazione italiana nell’unica dimensione della colonizzazione agricola. Nonostante la forte stratificazione sociale che si crea all’interno della massa degli immigrati impiegati nelle attività più diverse, l’antagonismo di classe è in parte superato dalla solidarietà etnica, che diventa un fattore di coesione e insieme di freno allo sviluppo di una coscienza di classe, come è dimostrato nell’analisi del grito de Alcorta, primo sciopero agrario, in cui il concetto di italianità viene ampiamente usato dai mezzadri in lotta e dagli intellettuali urbani, che vedono nel movimento un “elemento di coesione e un canale di espressione politica delle colonie, saldandone le componenti urbana e rurale”.
Durante tutto il periodo considerato (1850-1912) la solidarietà etnica ha dunque una notevole rilevanza, che si attenua soltanto nell’epoca in cui il flusso immigratorio finisce e il processo di integrazione si afferma nella sua pienezza. Infatti, anche se non si riesce a unire la comunità urbana a quella rurale — come volevano gli intellettuali immigrati — la coesione nazionale rimane molto forte: i nomi delle società contadine (Vittorio Emanuele II, Italia, ecc.) dimostrano quanto si voglia mantenere viva l’immagine del paese d’origine e come, soprattutto, l’elemento italiano sia preponderante. In modo analogo, nell’ambiente urbano le forme di solidarietà etnica si
moltiplicano: accanto alle associazioni di mutuo soccorso, espressione ufficiale di questo clima, esistono le più concrete società di capitali italiani che, provenienti dai settori economici più diversi, promuovono la nascita e la crescita delle attività industriali a Buenos Aires.
Il problema della solidarietà etnica e della formazione di una coscienza di classe non rappresenta l’unico motivo di interesse del libro; anzi, le tematiche sono molte: la formazione della borghesia industriale italiana, il ruolo degli intellettuali italiani nell’integrazione sociale e culturale, la formazione di un mercato del lavoro rurale e urbano sono alcuni tra i molti argomenti stimolanti affrontati da Scarzanella. Ed è proprio in questa molteplicità di problemi trattati che risiede il pregio e il difetto insieme del libro: da un lato, infatti, l’autore non approfondisce — né pretende di farlo — i molti argomenti proposti all’attenzione del lettore: d’altro lato, però, esponendo tematiche diverse, suggerisce nuove interpretazioni e suscita una serie di questioni cui non viene data una facile e pronta soluzione. In tal modo Scarzanella ha contribuito al dibattito sull’emigrazione italiana in America latina con un libro interessante, che esprime la necessità di approfondimento di filoni che sembravano esauriti, e ha aperto la strada a nuove ricerche monografiche, dimostrando quanto ancora possa essere fertile e stimolante lo studio dell’emigrazione italiana in America latina.
Chiara Vangelista
Understanding A ustria. The Political Reports and Analyses o f Martin F. Herz, Political Officer o f the U. S. Legation in Vienna 1945-1948, a cura di Reinhold Wagenleitner, W. Neugebauer Verlag (Quellen zur Geschichte des 19. und 20. Jahr- hunderts), Salzburg, 1984, pp. X-653.
II volume consta di una serie di rapporti redatti da Martin Herz, nella seconda metà del 1945 e nel biennio 1947-48, in qualità dapprima di maggiore delle truppe di occupazione americane in Austria poi di segretario presso la legazione di Vienna, prima tappa di una carriera che Io porterà a ricoprire posizioni chiave nella diplomazia americana. Due le tematiche presenti in un costante intreccio: da un lato la situazione interna dell’Austria nel dopoguerra e dall’altro la politica delle forze di occupazione sovietiche e, sullo sfondo, il problema del negoziato per il trattato di stato austriaco che — come sottolinea il curatore — “è diventato il centro di gravità della ricerca storica sull’Austria contemporanea”. Pur presentando, sulle tematiche che si sono dette, un’estrema ricchezza di informazioni, la documentazione pubblicata — è sempre il curatore a farlo notare — non offre elementi tali da indurre a rivedere le ricostruzioni del dopoguerra austriaco già proposte da Gerald Stourzh, Geschichte des Staatvertrages 1945-1955, Graz- Wien-Kòln, 1980, e da Man- fried Rauchensteiner, Der Son- derfall, Graz-Wien-Kòln, 1979.
Il motivo di maggiore interesse, in questo volume, sta in una lettura, per così dire, dall’inter
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no. I rapporti di Herz riescono infatti a dar atto del processo di costruzione della politica americana verso l’Austria, mentre meno percepibile rimane, com’è ovvio, l’evoluzione del decision-making in senso complessivo. Nella seconda metà del 1945 l’attività di Herz appare dunque caratterizzata da una raccolta di informazioni ad ampio raggio, senza chiusure pregiudiziali, in un interscambio continuo fra autorità politiche e militari. In tutta questa fase, ad esempio, la modalità più frequente del reporting è l’intervista ad esponenti della politica e dell’economia austriaca; rari sono nel complesso i momenti in cui si tenta di tirare le fila, mentre l’orizzonte entro il quale si muove la politica americana rimane solo genericamente definito: lo sradicamento delle eredità totalitarie (ancora presenti, si ritiene, all’interno delle nuove formazioni politiche), il ripristino di un sistema democratico, un “realistico” equilibrio fra alleati occidentali e Unione Sovietica.
I rapporti relativi alla seconda fase dell’attività di Herz in Austria, al biennio 1947-48 cioè, presentano invece un’attenzione assai più selettivamente orientata; ed a raccordare i due momenti può essere utile, oltre alla premessa dello stesso Herz, anche la sua relazione di “testimone delle origini della guerra fredda” viste daU’Austria (Martin Herz, The View from Austria in Witnesses to the Origins o f Cold War, a cura di T. Hammond, Seattle, 1982, pp. 161-185). In altre parole, pur non mancando Io sforzo di analisi del quadro politico interno, cominciano ad emergere ottiche particolari: innanzitutto l’analisi degli obiettivi sovietici, che vengono descrit
ti come espressione di una politica sostanzialmente opportunistica volta a conseguire vantaggi immediati più che una stabile influenza a lungo termine. Per altro verso, sebbene non sia certamente un cold warrior, anche Herz adopera nei confronti del Partito comunista austriaco i modelli analitici propri della guerra fredda: subversion, infiltration, penetration.
È soprattutto dopo eventi quali il colpo di stato in Cecoslovacchia e il blocco di Berlino che, accanto all’analisi delle intenzioni sovietiche, affiora anche quella delle capabilities del- l’Urss, preludio del dibattito che porterà alla svolta del 1950. In altre parole l’attenzione non è volta solo a percepire ciò che l’Urss ha intenzione di fare in Austria, ma anche quello che ha la possibilità di fare (e parallela- mente di verificare le possibilità di deterrenza americane). Dai rapporti di Herz non emerge quale dei due parametri debba essere assunto come termine di riferimento essenziale per lo sviluppo delle risposte da parte americana. Il termine ad quem, al quale i rapporti si arrestano, fa dunque di questo volume la testimonianza, sia pur dall’in- terno di un contesto circoscritto, di una fase di evoluzione della politica estera americana, che si concluderà nel 1950 con l’elaborazione della teoria del contenimento.
Giampaolo Valdevit
Rassegna della stampa sul dibattito pro e contro il “nuovo nazionalismo ”
L’effimera ma spesso esasperata polemica che ha animato
buona parte della stampa italiana nell’ultimo trimestre del 1985 meriterà forse di essere in futuro analizzata e valutata, come sintomo di un certo malessere e di una trasformazione in fieri, del costume per lo meno. Queste note non hanno altra pretesa se non quella di registrare per sommi capi alcuni degli elementi che l’hanno caratterizzata, una sorta di cronaca stringata o meglio un indice, peraltro incompleto.
La ricorrenza del 50° anniversario della guerra d’Etiopia aveva dato luogo a partire dalla fine di settembre ad una serie di interventi commemorativi, generalmente in tono minore, contrassegnati da un lato dalla ricostruzione degli avvenimenti militari e politici e dall’altro dall’accostamento, senza alcuna pretesa di sintesi, di tesi storiche spesso molto divergenti tra di loro. Citiamo tra i tanti i cinque articoli di Guido Vergani su Repubblica (29/30-IX, 2, 5, 8, 9-X); quelli di Silvio Bertoldi, Gaetano Afeltra e soprattutto Paolo Spriano, “Dietro la maschera di Faccetta nera” sul Corriere della Sera (21-X), che sottolineando l’insistenza della propaganda del regime sugli aspetti sociali indicava in questo la ragione per la quale alcuni giovani intellettuali “fascisti di sinistra” avevano potuto vedere nell’avventura etiopica la grande occasione per una riscoperta della vocazione rivoluzionaria del fascismo. Alcuni temi sollevati da Spriano li ritroveremo in tono tutto diverso alla base di altri interventi.
Le vicende dell’Achille Lauro, dell’utilizzazione statunitense della base di Sigonella, la crisi di governo prima rientrata, poi esplosa ma subito ricomposta, e la “ventata nazionalistica” che
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ne derivarono spostarono l’accento di queste commemorazioni e il riferimento alla guerra d’Etiopia divenne pretesto per una serie di prese di posizione, in un primo momento giornalistiche e politiche e in un secondo momento di politologi e storici, anche se sempre sulle colonne dei quotidiani.
Il dibattito fu innescato dalla pubblicazione in prima pagina sull’Unità del 20-X di una lettera di Giovanni Giudici, “Riparliamo pure della perfida Albione”, che prendendo lo spunto da una domanda retorica di Giorgio La Malfa nel dibattito alla Camera rievocava “lo scatto di giusto orgoglio nazionale che nel 1935 animò i giovani contro le sanzioni della perfida Albione” e lo accostava a quello che nel 1943 “portò molti giovani nelle file della Resistenza contro la Germania” e a quello attuale contro “l’ukase americano a Sigonella”. La prima reazione negativa seguì sulle colonne del- V Unità stessa, il 22-X con tre interventi di Vittorio Foa, Massimo Riva ed Ennio Politi indignati per l’accostamento tra il 1935 e il 1943; il 23-X prendeva le distanze ufficialmente lo stesso giornale e Giudici interveniva con una seconda lettera di accettazione delle critiche, pur affermando che “nessuna aveva colto il vero senso della sua provocazione”.
Degli altri numerosi interventi contrari ricordiamo quello di La Malfa, “Tornano di moda i vecchi balilla...”, ospitato da Repubblica del 22-X; quello di Giovanni Ferrara sul Corriere della Sera sempre del 22, che richiamava alla necessità di toni più sobri; quello di Guido Bo- drato, vicesegretario della De,
su Repubblica del 24, “La riscoperta della grande proletaria”, che da un lato sottolineava un aspetto che tutti in seguito noteranno, la contrapposizione tra l’agitazione e gli sbandamenti degli interventi giornalistici, costretti a correggere giorno per giorno le interpretazioni appena avanzate per tenere il passo con gli avvenimenti, e un’opinione pubblica molto più cauta e attenta alla sostanza delle cose; dall’altro spostava l’accento sul piano più immediatamente politico e rilevava che certe ambiguità erano inevitabilmente legate ad una politica mediterranea difficile ma senza alternative perché derivante dalla geografia e dalla storia italiane.
1 risvolti e i dietroscena di politica interna ed estera diventavano così il tema fondamentale. Il 25-X Renato Mieli sul Corriere della Sera e il giorno successivo Massimo L. Salvadori sulla Stampa sottolineavano sia pure in toni diversi l’“antiamericani- smo” di fondo che stava dietro alla ventata nazional-popolare di collegamento tra avventura etiopica e Sigonella; lo stesso giorno Massimo Caprara sul Giornale, “Parlar d’Abissinia perché Craxi intenda”, dava un’interpretazione più contingente, indicando “il nocciolo autentico di tanto divagare” nel formarsi di un settore della dirigenza del Pei incline a rivedere in senso più possibilista la radicale ostilità ufficiale del partito verso il presidente del Consiglio.
Ampio spazio al neonazionalismo dedicava il Corriere della Sera del 27-X: nell’articolo di fondo; “Chi gioca col nazionalismo”, Enzo Bettiza affermava che la ventata di toni nazionali
stici esasperati e forzati non era condivisa dall’opinione pubblica, ma che questa tuttavia era caratterizzata dall’emergere di un “nostro e più attuale senso di autonomia e dignità nazionale”, che sembrava essere stato del tutto cancellato dalla politica culturale dominante nel dopoguerra. L’inserto centrale, “Un secolo d’Italia sul Mediterraneo”, cercava di tracciare un quadro di più ampio respiro con una serie di interventi di taglio storico (Piero Melograni “Grandi ambizioni ma ideali pochi”; Egidio Ortona “Il Patto atlantico ha il perno a Sud”; Silvio Bertoldi “Sul Mare Nostrum sempre altre bandiere”; Brunello Vigezzi “Perché la classe dirigente liberale voleva un’Italia grande e potente”; Giorgio Rumi “I cattolici alla ricerca di un grande passato”; Adriano Lyttelton “Il tentativo del regime fascista di contendere agli inglesi le chiavi del Mediterraneo”).
Sempre lo stesso giorno il quotidiano milanese ospitava anche una lettera firmata da un gruppo di intellettuali e scrittori lombardi di solidarietà con Giudici, lettera che rilanciava la polemica. Massimo Mila sulla Stampa del 2 novembre la definiva, attribuendone la paternità a Franco Fortini, “un capolavoro di contorsionismo stilistico tipico della cattiva coscienza” e classificava tutto il caso “un rigurgito di nazionalismo”; toni ironici sul “nazionalismo di ritorno sollevato dal caso Giudici” contrassegnavano anche la breve intervista di Mario Sanfi- lippo a Renzo De Felice sul Messaggero del 12 novembre. Ancora sulla Stampa il 16 novembre Ernesto Galli Della Loggia riprendeva la polemica
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con Fortini in particolare, prendendo spunto dal volume “L’ospite ingrato”, per indicare come fatto nuovo rilevante la costituzione a sinistra “di una piattaforma ideologica social-nazionalista fatta di europeismo, terzomondismo, populismo, antiamericanismo, all’insegna della riscossa ‘patriottica’”.
Non ancora del tutto sgonfiato il “caso Giudici”, la polemica sui quotidiani si riaccendeva per l’accenno fatto da Craxi alla Camera, nel dibattito sulla fiducia, a Mazzini “che anch’egli concepiva e progettava assassini! politici”. I quotidiani sollecitavano subito brevi interviste a storici di varia collocazione per un giudizio sull’accostamento tra Mazzini e Arafat: Aldo Ga- rosci (Corriere della Sera, 8-XI) riconosceva un certo fondamento alla tesi ma ne sottolineava i limiti e le forzature; indignati i commenti di Leo Valiani (sullo stesso quotidiano), che poneva l’accento sulla diversità degli obiettivi mazziniani da quelli del terrorismo palestinese, e di A. Galante Garrone (Stampa, 8- XI), che giudicava maldestro il tentativo di “invocare il metro della storia” per sostenere posizioni politiche attuali e chiedeva di “lasciare in pace” le grandi figure del Risorgimento; Spadolini, in una lettera al Corriere (9- XI) “Dalla parte di Mazzini” sottolineava soprattutto il misticismo democratico del nostro; di tono moderato e volto a riportare equilibrio e attenzione alla sostanza dei problemi più che a questioni del genere l’intervento di Norberto Bobbio, interpellato da Maurizio Capra- ra (sempre Corriere del 9-XI); Mario Sanfilippo sul Messagge
ro del 9-XI, rilevava come aspetto positivo tuttavia il fatto che la storiografia si fosse liberata dall’oleografia risorgimentale; Massimo L. Salvadori sulla Stampa (9-XI) affermava che il senso della presa di posizione del presidente del Consiglio stava “nell’uso tutto politico della storia”. Ironico Luciano Canfora sul Manifesto (9-XI) replicava a Valiani e Spadolini: “Povero Mazzini nelle mani di storici pronti a fare di un grande rivoluzionario un santino da chiesa”.
Di tono più impegnativo altri interventi, non limitati a poche battute sul caso specifico. Di toni molto pessimistici e intrisi d’amarezza la lunga intervista rilasciata da Rosario Romeo a Giovanni Russo (Corriere della Sera, 2-XI). Ridimensionata la natura e l’ampiezza dell’assenso dell’opinione pubblica alla pretesa impennata di orgoglio nazionale, lo storico ripercorreva l’evoluzione delle idee di nazione e di libertà nate insieme nell’età della rivoluzione francese e del romanticismo e successivamente scisse dal nazionalismo imperialista fascista; la seconda guerra mondiale segnò — afferma Romeo — “il crollo verticale di tutta questa concezione”, rivelando l’inconsistenza e addirittura il grottesco delle ambizioni di grandezza italiane; “in sostanza gli italiani sono usciti dalla seconda guerra mondiale con la coscienza di aver sbagliato tutto e che le sole cose da salvare erano la famiglia, rifugiandosi sotto le ali della Chiesa, e l’idea di star bene”. Alla domanda se il vuoto dei valori avvertito soprattutto dai giovani potesse essere colmato, Romeo negava che potesse esserlo da
una ripresa di valori nazionali e concludeva con un giudizio sconfortato sull’Italia di oggi: “E’ un paese mediocre, che non ha né troppo grandi difetti né troppo grandi pregi. Un paese che non ha grandi forze né culturali né economiche né civili, ma che, tuttavia, ha molte opportunità da dare ai propri cittadini se saprà cogliere i vantaggi che la tecnologia moderna offre anche con una soluzione europea”.
La posizione radicalmente pessimista e intrisa di disprezzo di Romeo veniva criticata da Costanzo Casucci con un intervento sempre sul Corriere (17- XI) che sottolineava la mancata attenzione dello storico siciliano all’antifascismo e alla Resistenza, che “hanno evitato al paese quella ‘psicologia della disfatta’ che Romeo ritiene invece sia prevalsa; Casucci dissentiva inoltre anche nella valutazione del giudizio sull’Italia dell’opinione pubblica esterna, ritenuto da Romeo solo apparentemente positivo per ragioni di pura cortesia ma sostanzialmente incline ad un certo disprezzo, mentre per Casucci la nuova realtà dell’Italia paese industriale e in mutamento si riflette se pure con ritardo in tale giudizio che è venuto facendosi sempre più genuinamente positivo.
Il dibattito su questi e altri temi vicini proseguiva in gran parte sulle colonne di Repubblica. Gian Enrico Rusconi (“Viva l’Italia”, 9-XI) indicava tre possibili letture della ventata neonazionalistica: una prima fortemente critica e riduttiva, che ne pone in luce gli aspetti più sbracati e provinciali; una seconda, interessata ad un antiamericanismo “da salotto” più che al si
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gnificato di un ritrovato orgoglio nazionale; una terza, che evidenzia una certa sorpresa di fronte ad una reazione imprevista ma tuttavia facente parte di un nuovo clima culturale che interessa non solo l’Italia ma altri paesi europei e in primo luogo la Germania e dovrebbe pertanto indurre a riflessioni reali e non a reazioni emotive esasperate. Giovanni Ferrara (“Italia vostra”, 20-XI), riprendendo il tema del sentimento nazionale, rileva come nelle ultime generazioni degli italiani stabilitisi all’estero il distacco e l’estraniazione si siano fatti dominanti e indica l’inizio di questo processo proprio negli anni del fascismo, quasi per reazione allo stravolgimento operato dal regime del vero e profondo senso nazionale.
Solamente un accenno invece nell’articolo sulla crisi di governo di Alberto Asor Rosa “Ma che c’è nella bisaccia di Craxi?”
(Repubblica, 21-X1) che, ridimensionando l’importanza a livello di opinione pubblica di massa dell’episodio di Sigonel- la, parla dell’“atavico e profondo senso di frustrazione” dell’italiano medio, per cui una reazione più ferma del previsto ha potuto momentaneamente generare un senso di sorpresa e una provvisoria attenuazione di tale senso di frustrazione ma niente più.
Questa breve rassegna può concludersi sottolineando due aspetti divergenti sul tema: da un lato la divaricazione crescente tra stampa ed opinione pubblica che tutta la serie di interventi ha finito con il far emergere e che è stata messa in rilievo fra gli altri da Saverio Vertone, in due successivi interventi sul Corriere della Sera: “Gli italiani ‘oppressi’ dall’Italia” (6-XI); “Politica e giornali — il catastrofismo del nulla” (12-XI), e il disperdersi e moltiplicarsi della
polemica in una serie di temi, alcuni di un certo rilievo (cfr. il dibattito tra Parise ed Acquaviva sul problema dell’insegnamento dell’inglese e la difesa delle lingue regionali e dei, dialetti, Corriere della Sera del 24 e del 27-X), altri francamente irrilevanti quando non grotteschi (polemiche campanilistiche sulla nascita del tricolore, sull’inno nazionale, ecc.). D’altro lato invece 1’esistenza di un problema reale e attuale e la possibilità di affrontarlo in modo pù consono dimostrato dallo svolgimento quasi contemporaneo alla fine di novembre di un Convegno sul’idea di nazione in Germania ed in Italia, promosso dal Goethe Institut di Torino. Non può essere questa la sede per trattare di esso ma il solo fatto che si sia tenuto ha avuto il merito di cancellare o almeno attenuare i toni confusi della polemica cui abbiamo più sopra fatto cenno.
c.r.
ERRATA CORRIGENell’articolo di Giorgio Vaccarino “La tragedia
della Polonia in guerra”, pubblicato sul n. 159, vanno corretti i seguenti errori: p. 119, 2a colonna, la riga, correggere “secondo dopoguerra” in “primo dopoguerra”; p. 121,2a colonna, 7a riga dal fondo, correggere “sovietica” in “antisovietica”; p. 122,2a colonna, 23a riga, correggere “mediata” in “meditata”.
Mario Boneschi ha rinvenuto lacune e inesattezze nel volume Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti settembre 1943-aprile 1945, pubblicato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e dalla Fiap nella Collana storica dell’Istituto (Milano, Franco An
geli, 1985), a cura di Giovanni De Luna, Piero Camilla, Danilo Cappelli e Stefano Vitali. L’Istituto nazionale, nel prendere atto volentieri delle osservazioni presentate da Mario Boneschi, procede al seguente errata corrige: p. 201, la frase “attribuibile a Silvio Pelizzari, comandante della brigata Monte Suello” va soppressa o quanto meno ridotta a: “attribuibile a Silvio Pelizzari”; p. 416, i dati devono essere così corretti: Brigata Monte Suello. Dislocazione: Val Caffaro (Lago d’Idro). Comandanti: Mario Bordiga (Pippo) e, per le operazioni dell’aprile 1945, Giovanni Ferremi. Commissari politici: Mario Boneschi (Fabrizio) e, da settembre 1944, Stefano Zanetti (Lucrezio).
IS T IT U T O N A Z IO N A L E P E R L A S T O R IA D E L M O V IM E N T O D I L IB E R A Z IO N E IN IT A L IA
G . Q u a z z a ,presidente-, F . D e lla P e r u ta e C . F r a n c o v ic h , vicepresidenti; S . P a s s e r a , segretario generale-,L . M . D e B er n a r d is , N . G a lle r a n o , M . G u a s c o , V . L o m b a r d i, G . M o r i , C . P a v o n e . G . R o c h a t, M . G . R o ss i, T . S a la , G . V a c c a r in o , A . V e n tu r a , consiglieri.
Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia - p. Duomo 14 - 20122 Milano - tei. 80.59.803Istituto per la storia della resistenza della provincia di Alessandria - via dei Guasco 49 - 15100 Alessandria - tei. 0131/44.38.61Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche - via Villafranca 1 - 60100 Ancona - tei. 071/20.22.71Istituto storico della resistenza in Valle d’Aosta - via Xavier de Maistre 22- 11100 Aosta - tei. 0165/40.846Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche - corso Mazzini 37 - 63100 Ascoli Piceno - tei. 0736/54.597
Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Asti - via Ottolenghi 8 -14100 Asti - tei. 0141/32.439Istituto storico bellunese della resistenza - palazzo Crepado- na, piazza Duomo, 37 - 32100 Belluno - tei. 0437/24.929Istituto bergamasco per la storia del movimento di liberazione - via T. Tasso 4 - 24100 Bergamo - tei. 035/23.88.49 Istituto regionale per la storia della resistenza e della guerra di liberazione dell’Emilia Romagna - via Castiglione 25 - 40124 Bologna - tei. 051/23.06.69Istituto storico provinciale della resistenza - via Castiglione 25 - 40124 Bologna - tei. 051 /22.96.15Laboratorio nazionale per la didattica della storia - via Castiglione 25 - 40124 Bologna - tei. 051/22.96.15-23.06.69Istituto per la storia della resistenza in provincia di Vercelli « Cino Moscatelli » - via Sesone 10 - 13011 Borgosesia (VerceUi) - tei. 0163/21.564Istituto storico della resistenza bresciana - via Gabriele Rosa 39-25100 Brescia - tei. 030/29.56.77Istituto sardo per la storia della resistenza e dell’autonomia via Lanusei 14 - 09100 Cagliari - tei. 070/65.88.23Istituto siciliano per la storia dell’Italia contemporanea - c /o Istituto di storia moderna, facoltà di lettere - piazza dell’Università - 95100 Catania - tei. 095/32.67.59Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione - via XX Settembre 29 -22100 Como - tei. 031/27.55.11Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea - via Montegrappa 66 - 87100 Cosenza - tei. 0984/75.468Istituto cremonese per la storia del movimento di liberazione - via Porta Tintoria 2-26100 Cremona - tei 0372/25.463Istituto storico della resistenza in Cuneo e provincia - corso Nizza 17 -12100 Cuneo - tei. 0171/445Istituto storico della resistenza in Toscana - casella postale 745 - 50100 Firenze - tei. 055 / 28.42.96
Istituto storico provinciale della resistenza - via Cesare Albi- cini, 25 - Casa Saffi - 47100 Forlì - tei. 0543 / 432.700
Istituto storico della resistenza in Liguria - via Garibaldi 14, 3° p. -16124 Genova - tei. 010/20.98 int. 2247
Istituto storico della resistenza in Liguria - via Cascione 86 - 18100 Imperia - tei. 0183 / 65.07.55
Istituto abruzzese per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza - piazza S. Giusta, Pai. Centi - 67100 L’Aquila - tei. 0862/64.288
Istituto storico della resistenza « Pietro M. Beghi » - piazza Europa -19100 La Spezia - tei. 0187/31.351-34.551
Istituto storico provinciale lucchese della resistenza - piazza Napoleone 32-55100 Lucca - tei. 0583 /55.540
Istituto storico provinciale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche - via Barilatti 45 - 62100 Macerata - tei. 0733/42.51.07
Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione nel Mantovano - piazza Sordello 43 - 46100 Mantova - tei. 0376/36.84.51
Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia - p. Duomo 14 - 20122 Milano - tei. 02/80.564.27
Istituto storico della resistenza in Modena e provincia - via C. Battisti 12 - 44100 Modena - tei. 059/21.94.42
Istituto campano per la storia della resistenza - via Carlo Poerio 8 9 /A - 80121 Napoli-tei. 081/40.38.80
Istituto per la storia della resistenza novarese - via Cavour 15 - 28100 Novara - tei. 0321/39.27.43
Istituto veneto per la storia della resistenza - Università - via 8 febbraio - 35100 Padova - tei. 049/65.14.00
Istituto storico della resistenza in provincia di Parma - via delle Asse 5 - 43100 Parma - tei. 0521 / 27.190
Istituto per la storia del movimento di liberazione nella provincia di Pavia - Palazzo Centrale - Università 27100 Pavia - tei. 0382/32.234
Istituto storico della resistenza nel Pesarese - via Baviera 14 - 61100 Pesaro - tei. 0721/30.600
Istituto piacentino per la storia della resistenza - Palazzo Farnese - 29100 Piacenza-tei. 0523/22.911
Istituto storico provinciale della Resistenza - p. S. Leone 1 - 51100 Pistoia - tei. 0573 / 32.578
Istituto storico della resistenza apuana - p. del Comune - 54027 Pontremoli (Massa Carrara)
Consorzio per la gestione dell’istituto storico della resistenza di Ravenna e provincia — via Mariani 5 - 48100 Ravenna tei. 0544/37.302
Istituto storico della resistenza e della guerra di liberazione in provincia di Reggio Emilia - Piazza S. Giovanni 4 - 42100 Reggio Emilia - tei. 0522 / 37.327Istituto storico della resistenza del circondario di Rimini - via Gambalunga 27 - 47037 Rimini - tei. 0541/70.41.39 Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alia resistenza - Palazzina La Vignola - piazza di Porta Capena - 00184 Roma - tei. 06 /73.31.43Istituto milanese per la storia della resistenza e del movimento operaio - via B. Croce 83 - 20099 Sesto S. Giovanni (Milano) - tei. 02/24.23.266; 24.76.745Istituto sondriese per la storia del movimento di liberazione - p.za Garibaldi 28 - 23100 Sondrio - tei. 0342/21.23.33
Istituto storico della resistenza in Piemonte - via Fabro 6 - 10122 Torino - tei. 011 / 51.88.36Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza - via Fabro 6 -10122 Torino - tei 011 / 53.92.74 Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli e Venezia Giulia - via Imbriani 7 - 34122 Trieste - tei. 040 / 77.15.52Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione c /o Civica Biblioteca « V. loppi » - piazza Marconi 8 - 33100Udine-tel. 0432 / 20.58.51Istituto varesino per la storia della resistenza e dell’Italia contemporanea - c /o Assessorato alla Cultura - via Speri della Chiesa 9-21100 Varese