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NUTRIMENTO PER IL VIAGGIO Poste Italiane Spa – spedizione in abb. postale – DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1 comma 2 e 3 NE/TN – taxe perçue Registrazione Tribunale di Trento n. 2/2010 del 18/02/2010 Trimestrale dell’associazione Il Gioco degli Specchi ANNO III NUMERO 1 – APRILE 2012 Tempo di crisi? Leggi

Numero 8_aprile 2012

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Il periodico de Il Gioco degli Specchi

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trimestrale dell’associazione il gioco degli SpecchiaNNo iii Numero 1 – aprile 2012

Tempo di crisi?Leggi

3 editoriale

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PRIMO PIANO Siria, il coraggio di alzare la testa

FORTEZZA EUROPARifugiati afghani in Grecia

POESIAAlla nascita di tutte le albe

3|4|567

8|910|11|12

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DONNE MIGRANTI A colloquio con Samira

STORIENella terra dove non si è nessuno

ASSOCIAZIONILibera Trentino

EDITORIALE

Con il sostegno dell’Ufficio per il Sistema bibliotecario trentino, ServizioAttività culturali della Provincia Autonoma di Trento e la collaborazione della Trentino Trasporti S.p.A..

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SOCIETÀUna giornata con Talat, commerciante a Trento

CINEMAMemorie della regista belga Chantal Akerman

IMMI/EMIBruno, figlio di emigrati, dal Belgio al Trentino

PRIMO PIANOdi Nibras Breigheche

SIRIA: il coraggio di alzare la testa dopo 40 anni di spietata repressione

Il mondo guarda con impotente apprensione l’eroica resistenza del popolo

Da più di quarant’anni, dal momento della salita al potere di Hafez al-assad, padre dell’attuale “presidente” Bashar al-assad, i siriani non hanno la libertà di esprimersi e di scegliere da chi essere governati. Hanno dovuto sopportare per decenni ogni sorta di oppressione e di umiliazione, stretti nella morsa di un re-gime totalitario e corrotto.Da un anno ormai a questa parte i siria-ni hanno finalmente trovato il coraggio di alzare la testa e di scendere nelle piazze per chiedere, tutti insieme, pacificamen-te, riforme, libertà, dignità, democrazia, e in seguito alla reazione violentissima del regime di fronte a queste legittime richieste, il popolo siriano ha cominciato a chiedere la caduta del regime. Da un anno a questa parte non vi è città siria-na nella quale non ci siano state manife-stazioni, per chiedere libertà e democra-zia, manifestazioni sistematicamente represse nel sangue dall’esercito e dai cecchini di assad, ma che nonostante questo stanno continuando, sempre più numerose.I militari che rifiutano di sparare contro la folla vengono immediatamente ucci-si. la città di Deraa, nella quale sono

iniziate le manifestazioni pacifiche, è stata assediata dai carri armati per set-timane: la popolazione di Deraa è stata privata del cibo e dell’acqua dal regime, ha sofferto la fame e la sete come rap-presaglia per aver chiesto pacificamen-te libertà e democrazia. oltre alle tortu-re feroci inflitte a coloro che sono stati imprigionati in seguito a rastrellamenti durante i quali non sono stati risparmia-ti nemmeno i beni materiali: molte case sono state distrutte o devastate nel cor-so degli arresti.Non sono stati risparmiati nemmeno i bambini: Hamza al-Khatib (13 anni) è uno di quelli il cui corpo martoriato da torture indescrivibili è stato restituito ai genitori alcune settimane dopo il suo arresto. il regime ha pensato che continuando a terrorizzare il popolo avrebbe sedato le proteste. ma si è sbagliato, le manife-stazioni pacifiche e le iniziative di disob-bedienza civile si stanno moltiplicando, oltre alle defezioni di militari che non ne possono più di continuare a mettere in atto un vero e proprio genocidio nei con-fronti del loro stesso popolo.Come in tunisia, in egitto, in libia e in

Yemen, la rivolta del popolo siriano è iniziata in modo assolutamente pacifico e trasversale. le persone che scendono in piazza per chiedere la fine del regime sono di tutte le età e di ogni estrazione sociale: i ragazzini sono a fianco degli anziani, gli intellettuali insieme ai con-tadini. uno degli slogan più diffusi tra i manifestanti era “selmieh! selmieh!” che letteralmente significa “pacifica! pa-cifica!” (riferito alla rivolta).i soldati che si staccano dall’esercito del regime sono armati al massimo solo dei loro fucili e non sono in grado per il momento di far fronte alla potentissima macchina da guerra dell’esercito di as-sad che continua indisturbato a rifornirsi di armi in particolare tramite i suoi “col-leghi” di russia, iran e Cina. Nonostante questo l’esercito libero sta cercando di fare del suo meglio per proteggere i civili dalle continue aggressioni dell’esercito capeggiato da maher al-assad (il fratello di Bashar). Quasi sempre senza succes-so, data la disparità di forza. molti solda-ti dell’Esercito Libero hanno sacrificato la loro vita anche nel tentativo di scorta-re i civili in fuga verso la turchia o verso il libano.

RIVOLUZIONE SIRIANA DATI AGGIORNATI A MARZO 2012

Secondo fonti attendibili, in Siria ogni 3 carcerati uno muore. Quando una persona è “missing” (scomparsa) è matematicamente morta.

per cui basta un rapido calcolo per dire che in Siria i morti sono più 100.000 in base alle migliori stime.

Secondo le Organizzazioni Internazionali per i Diritti Umani

VITTIME 12.100

BIMBI UCCISI 840

DONNE UCCISE 627

FERITI più di 35.000

SCOMPARSI più di 65.000

MANIFESTANTI UCCISI SOTTO TORTURA 439

MANIFESTANTI ATTUALMENTE INCARCERATI più di 212.000

RIFUGIATI AL MARZO 2012 più di 33.627

RIFUGIATI IN GIORDANIA più di 8.000

RIFUGIATI IN LIBANO più di 8.400

RIFUGIATI IN TURCHIA 16.227

IL GIOCO DEGLI SPECCHIperiodico dell’associazione “il gioco degli Specchi”

reg. trib. trento num. 2/2010 del 18/02/2010direttore responsabile Fulvio gardumidirettore editoriale mirza latiful Haque

redazionevia S.pio X 48, 38122 treNto tel 0461.916251 - cell. 340.2412552info@ilgiocodeglispecchi.orgwww.ilgiocodeglispecchi.org

progetto grafico Mugrafik

stampa Litografia Amorth, loc. Crosare 12, 38121 gardolo (trento)

con il sostegno diComune di trentoassessorato alla Cultura e turismoprovincia autonoma di trento

La cultura aumenta il PIL del paese

“Il Pan di via”, nuova iniziativa culturale del Gioco degli SpecchiL’associazione, Presidio del libro di Trento, offre occasioni di lettura ai viaggiatori

il progetto gioco degli Specchi è nato dalla lettura di libri che aiutavano a capire la realtà degli immigrati con cui i volontari venivano a contatto nei corsi di italiano per stranieri. Da sem-pre l’associazione promuove la lettura e la conoscenza della realtà della migrazione anche in questo modo. ora una nuova iniziativa: a partire da aprile nell’atrio della stazione delle cor-riere di trento e della ferrovia trento-malè trovate gli espositori arancione del PAN DI VIA. Sono a disposizione gratuita, fino ad esaurimento delle copie, quindici diversi brani per accompa-gnarvi nel vostro viaggio.i brani selezionati sottolineano la ricchezza di voci della nostra società, spaziando da scrittori italiani a immigra-ti ed emigrati. Ci si muove nel mondo con la fantasia, da Torino alle montagne del Libano, da Dubrovnik al Canadà, si ascoltano le persone. la donna che muore di nostalgia per il suo paese e per quello che

non sarà più, la bambina felice di essere accettata, la madre che vuole riconquistare con la sua cucina il figlio emigrato e di-ventato estraneo, l’uomo sconfitto che lascia la fredda Europa o addirittura la vita, il giovane che trema a risentire dopo anni

il suono della lingua materna.

“il pan di via”, nutrimento per il viaggio: il nome dell’iniziativa è preso a prestito da J.R.R. Tolkien che nel “Signore degli anelli” chiama così la galletta degli elfi che può nutrire per un giorno intero un robusto viaggiatore. allo stesso modo il gioco degli Specchi offre a chi si spo-sta, a chi si mette in viaggio, un nutri-mento particolare, convinti che leggere aiuti a capire e vivere.

il teatro romano di palmira in Siria

54Primo piano

PRIMO PIANO

un nuovo rapporto diffuso da amnesty international, un gior-no prima dell’anniversario dell’inizio delle proteste di massa nel paese, denuncia l’incubo attraverso le parole delle vitti-me. il rapporto, intitolato «volevo morire: parlano i sopravvis-suti alla tortura in Siria», documenta 31 metodi di tortura e maltrattamenti praticati dalle forze di sicurezza, dai militari e dalle shabiha (le bande armate filo-governative) attraverso i racconti di testimoni e vittime che l’organizzazione per i diritti umani ha incontrato in giordania nel febbraio di quest’anno. «l’esperienza fatta dalle tante persone arrestate nel corso dell’ultimo anno è ora molto simile a quella fatta dai prigio-nieri sotto l’ex presidente Hafez al-assad: un incubo di tortu-re sistematiche - ha dichiarato ann Harrison, vicedirettrice ad interim del programma medio oriente e africa del Nord di amnesty international. «le testimonianze che abbiamo ascoltato descrivono dall’interno un sistema di detenzione e interrogatori che, ha il principale obiettivo di degradare, umi-liare e mettere a tacere col terrore le vittime». per amnesty international, le testimonianze dei sopravvissuti alla tortura costituiscono un’ulteriore prova dei crimini contro l’umanità commessi in Siria. l’organizzazione ha ripetuta-mente chiesto che la situazione della Siria venisse deferita al procuratore della Corte penale internazionale, ma fattori po-litici hanno finora impedito che ciò accadesse. La Russia e la Cina hanno bloccato due volte deboli proposte di risoluzione del Consiglio di sicurezza che neanche facevano riferimento alla Corte. a idlib gli attivisti dell’opposizione accusano le forze gover-native di aver ucciso decine di persone, ammassando i loro corpi in una moschea. interi quartieri della città di Homs, as-sediata per mesi dai carri armati di assad, sono stati com-pletamente rasi al suolo. Homs è ormai una città fantasma. Qualche giorno fa sono stati ritrovati un migliaio di cadave-ri ammassati nell’ospedale militare di Homs: gli aguzzini di Bashar assad hanno ricevuto l’ordine di mettere in atto vere e proprie esecuzioni di massa, senza risparmiare donne,

bambini, e nemmeno i neonati, la cui unica colpa è quella di essere figli di oppositori politici che hanno partecipato o orga-nizzato manifestazioni pacifiche per chiedere libertà, dignità e democrazia per il popolo sirianoper le Nazioni unite nelle violenze sono morte più di 12.000 persone, e l’alto commissariato onu per i rifugiati il 13 marzo ha detto che circa 230mila siriani sono fuggiti dalle proprie abitazioni nell’ultimo anno, e che circa 116mila hanno cer-cato rifugio all’estero. l’organizzazione umanitaria Human rights Watch ha reso noto che il regime di assad sta minando le zone di confine lungo quei tragitti utilizzati dai profughi che cercano di fuggire dalle violenze del regime. la posa delle mine è cominciata nel novembre scorso. ma testimonianze e conferme arrivano solo oggi. un ex sminatore dell’esercito siriano, passato all’opposizione, ha detto di aver bonificato a inizio marzo un’area nei pressi di Hasanieih togliendo alme-no 300 ordigni. l’uomo ha anche raccontato - riporta la Bbc online - che un ragazzo 15enne ha perso una gamba mentre aiutava una famiglia ad attraversare il confine con il Libano. la mezzaluna rossa riporta che in Siria ci sono inoltre alme-no 200mila sfollati interni.Ciò che emerge dal comportamento di assad è che quest’uo-mo, come suo padre, considera il territorio della Siria un pa-scolo di sua proprietà e il popolo siriano un gregge di bestie sulle quali egli ha diritto di vita e di morte. proviamo ad immaginare lo strazio dei siriani che vivono all’estero (per motivi di studio, di lavoro, oltre ai numerosi esiliati politici) che in questo momento non possono tornare nella loro terra d’origine per sostenere i loro parenti o che non hanno più notizie dei loro cari che vivono lì. uno strazio indescrivibile … soprattutto se si pensa al fatto che la Siria è una terra “speciale” sulla quale vive un popolo aperto, gene-roso ed ospitale, da sempre abituato alla convivenza pacifica tra fedi ed etnie diverse, come testimoniano le persone che hanno avuto la fortuna di visitarla, anche solo per qualche settimana.

Le organizzazioni per i diritti umani riferiscono dati impressionanti

Un altissimo tributo di vittime per una richiesta di libertà

Il pluralismo religioso della Siriala maggioranza della popolazione della Siria è di fede islamica sunnita, le principali minoranze religiose sono costituite dai drusi (soprattutto a sud), dagli alauiti, un ramo degli sciiti (i comandi delle forze armate e lo stesso presidente appartengono a questa minoranza), dai cristiani, presenti soprattutto nel nord del paese e aderenti per metà alla chiesa ortodossa - patriarcato di antiochia e per il resto divisi fra Chiesa cattolica, suddivisa in varie comunità (melchiti, maroniti, siri, armeno-cattolici, caldei, ...), Chiesa ortodossa siriaca, Chiesa apostolica armena, Chiesa assira, oltre a piccolissime minoranze protestanti.

il pluralismo religioso e ideologico che caratterizza la società siriana è una caratteristica anche del Consiglio Nazionale Siriano, un’autorità politica in esilio composta da 235 membri, la cui formazione è stata annunciata ad istanbul il 23 agosto 2011. il CNS è attualmente riconosciuto da diversi paesi membri dell’oNu, oltre che dalla lega araba, unione europea e altri paesi.

il CNS - Consiglio Nazionale Siriano - ha organizzato il 19 febbraio 2012 una manifestazione a roma in solidarietà con il martoriato popolo siriano. Diversi enti e associazioni della società civile italiana hanno aderito e partecipato alla manifestazione. anche da trento è partito un pullman con una cinquantina di persone. "Quando siamo arrivati a roma, - racconta Nibras Breigheche (nella foto) - mentre stavamo sistemando cartelloni e bandiere, una signora si è avvicinata a me con un paio di grandi fiori freschi dai colori vivaci, e mi ha detto: «io sono italiana, sono una cittadina di Roma, questi fiori sono un dono per le donne siriane che stanno soffrendo, prendili! I nostri cuori sono con loro …». li ho presi, e con il profumo della speranza e della solidarietà umana che questi fiori sprigionavano, mi sono unita al corteo che ormai era pronto per partire …"

primo piano

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di Nibras Breigheche

6Fortezza europa

FORTEZZA EUROPA

il parco victoria nel centro della città di atene, capitale della grecia, assomiglia a un campo dietro la linea di un fronte di guerra. Questo parco è diventato ormai l’unico rifugio per le migliaia di richie-denti asilo che in questi ultimi mesi sono arrivati in grecia.Sulla base delle statistiche del greece immigration administration, 30.000 richiedenti asilo provenienti dall’afgha-nistan sono entrati in grecia lo scorso anno, mentre il governo greco ha con-cesso lo status di rifugiato solo a 52 di loro.l’ uNHCr ed altre organizzazioni per i diritti umani hanno criticato il governo greco per la sua negligenza e per i mal-trattamenti nei confronti dei richiedenti asilo.la maggior parte di queste persone è rappresentata da famiglie con almeno tre figli. Sui loro corpi sono ancora ben visibili le cicatrici causate dai colpi inferti dalla polizia greca e dai gruppi di nazio-nalisti che imperversano nel paese.i richiedenti che hanno trovato rifugio nel parco stanno quasi tutti aspettando che le loro pratiche vengano elaborate

Al Parco Victoria di Atene vivono in condizioni estreme migliaia di richiedenti asilo

Fuggono dall’Afghanistan per disperazione ma in Grecia trovano un altro inferno

di Basir ahang *

dall’UNHCR, affinché possano arrivare in qualche altro paese europeo, altri invece tentano di fuggire illegalmente quando comprendono che le loro richieste d’asi-lo non verranno mai accettate.tra questi, alcuni dicono di essere co-stretti a emigrare a causa della mancan-za di sicurezza per la loro vita, altri a cau-sa della povertà e della disoccupazione, altri ancora per assicurare un futuro ai loro figli.il governo greco non protegge affatto queste persone, e quando qualche sfor-tunato viene malmenato da gruppi na-zionalisti la polizia non interferisce.Zulmay, un rifugiato afghano che è stato più volte picchiato da uno di questi grup-pi, racconta che si era recato dalla poli-zia con la testa sanguinante per denun-ciare il fatto, ma l’unica risposta è stata che avrebbe dovuto difendersi da solo.il dottor Younus mohammadi, respon-sabile della Comunità afgana ad atene, afferma che se non verrà prestata la giusta attenzione ai richiedenti asilo in grecia, ci si ritroverà ad affrontare una catastrofe umanitaria.mohammadi lavora come medico all’o-

spedale di atene e sostiene che la mag-gior parte dei richiedenti asilo non regi-stra il proprio nome agli uffici di polizia perché nessuno vuole rimanere in Gre-cia: in questo modo chi non è registrato non può usufruire di assistenza medica. Su migliaia di richiedenti asilo afgani, infatti, solo 58 famiglie hanno ricevuto finora una tessera sanitaria; inoltre, la maggior parte di queste persone per ar-rivare in grecia ha dovuto affrontare un viaggio molto pericoloso in cui la loro vita è stata più volte messa a repentaglio e necessiterebbero per questo di cure e di un sostegno psicologico adeguati.anche il numero di persone dipendenti da sostanze stupefacenti è in aumento e ci sono anche persone sieropositive.i bambini sono le vittime principali di questa situazione: non solo non hanno accesso alle cure mediche ma molti di loro soffrono anche di malnutrizione. al parco victoria d’estate non è raro vedere bambini magrissimi con la pelle bruciata dal sole.Zahra, una bambina di otto mesi, è una di questi. masooma, sua madre, dice: “non abbiamo nessun rifugio in cui vi-vere, per questo motivo io e mio marito giriamo per le strade e per il parco tutti i giorni con la nostra bambina, e di not-te dormiamo sul tetto di un hotel di pro-prietà di un afgano pagando due euro al giorno”.vi sono altri bambini, invece, che sono costretti dai loro genitori a vendere og-getti per racimolare qualche soldo. e se tornano a casa senza aver guadagnato abbastanza vengono puniti. alcune famiglie che non hanno abba-stanza soldi per potersi permettere di andare in qualche altro paese europeo, abbandonano i loro figli in Grecia per in-traprendere il viaggio da soli.la crisi economica che ha colpito la gre-cia è certo un grave problema ma non deve essere una giustificazione per la sospensione dei diritti umani in atto da ormai troppi anni.

Giornalista afghano. Rifugiato politico, studia scienze politiche all’Università di Padova.

di Mostafa El Soukika* POESIA

MOSTAFA EL SOUKIKA è nato il 10 ottobre 1973 ad Asafi, in Marocco. Ha frequentato legge alla facoltà di Legge ed Economia dell’Uni-versità di Marrakech, conseguendo l’attestato di primo livello. Dal 2001 al 2011 è in Libia e assiste allo scoppio della guerra civile. In-sieme a molti altri compagni decide di fuggire dalla guerra, prendendo il mare. Dall’estate 2011 è in Trentino, dopo essere transitato per Lampedusa e Manduria, ospite del Piano Provinciale di Accoglienza dei migranti richiedenti asilo politico provenienti dal Nord Africa.

In questa poesia, o “canzone” come la definisce lui stesso, mette in versi il terribile dramma di tante persone che hanno vissuto sulla loro pelle il dramma dello sradicamento, della violenza, delle sofferenze che per molti si sono concluse in orrende celle, per altri in fondo al mare.

la traduzione e le note sono di Alessandro Lacché, impegnato nel Servizio Civile provinciale al Cinformi di trento.

Alla nascita di tutte le albe1. alla nascita di tutte le albe e di tutto ciò che è sano, ti ho portato nel mio utero Dall’inizio del tempo Stai attento! Baphomet ha generato il deserto Della vergine della mia cultura e la storia ebbe inizio

9. all’inizio, l’oracolo ha ucciso quelle vergini, una dopo l’altra e poi, narrante, s’è inchinato al tappeto

13. ascoltavo la mia patria in musica Nei bar, nelle osterie, come un disco che gira e soffrivo la tua mancanza come il desiderio della visione della prole nata come il dolore della madre per il figlio scomparso come il ricordo tenero e duro della mano del padre Ho solo voglia di toccarti ancora Come il fedele col tappeto Sono scappato dal tuo amore! in lungo e in largo ho viaggiato E ho trovato la tua faccia in ogni confine e ho visto i tuoi occhi su tutte quelle foto Non c’è tra noi sofferenza alcuna, né destino che ci separi

28. mi hanno chiesto il mio nome la mia identità ma ignorano che questa sia un segreto di vita, e non terreno calpestabile e non un pezzo di carta e non l’oro giallo o nero che come Sisifo tiriamo in un tormento

35. Benvenuti africani, Abbiate la vostra rivoluzione! volate tra il Nilo e l’eufrate, che tra i flutti non hanno assistito alla morte di alcuno! Solo i Katayeb uccidono il cielo! Svegliato lo sguardo e la voce, come il temporale dentro di noi stiamo soffrendo nello spirito, come una camera spoglia con un solo letto

45. pieno di tristezza v’ho conosciuti come ospiti Della mia stanza, della mia cella di sabbia. Non ci sono parole, solo gocce d’acqua artificiale su di occhi stranieri. Il cielo piange il deserto!

53. ero per te uno schiavo Senza riscatto e senza senso, assetato di libertà, o notte, scusami! ma oggi sono felice tra molti E ho rotto il mio carcere di ferro! Dal profumo delle tue guance Sveglio dall’inizio delle aurore Ho trovato il rosa a cinque punte e il buio si colorava d’identità e ho scritto questa canzone Chiaramente, senza documenti senza nazionalità: ho scritto dei migranti del Nord africa

7poeSia

Note

1-8: sano, qui “naturale, legittimo”; Baphomet, divinità pagana luciferina generatrice e distruttrice; deserto, centro di gravità della cultura nordafricana, visto come decadenza culturale; 9-12: vergini, generatrici delle differenti culture africane; tappeto, è il simbolo della devozione verso Dio e verso il proprio destino di trascendenza;13-27: confine, il riferimento è ai tratti somatici che non celano l’appartenenza alla cultura del poeta; foto, documento di identità, concetto di grande importanza per ogni migrante; 28-34: Sisifo, personaggio della mitologia greca che, per aver sfidato gli dei, viene costretto per punizione a spingere un enorme masso lungo una montagna e, arrivato in cima, il masso rotola a valle e Sisifo deve ricominciare da capo la sua impresa

35-44: rivoluzione, le sollevazioni popolari che hanno infiammato il Nord Africa a partire dalla primavera 2011 in Tunisia; tra il Nilo e l’Eufrate, la mitica terra della mezzaluna Fertile, territorio che fu regno degli antichi assiro-Babilonesi e che rimane a tutt’oggi un importante riferimento culturale; che tra i flutti non hanno assistito alla morte di alcuno, il poeta intende che le acque dei due fiumi che danno la vita a quel territorio non sono state insanguinate da alcuna morte di innocenti provocata dalle rivoluzioni popolari. Solo le guardie di Gheddafi, i Katayeb, uccidono innocenti; uccidono il cielo, con le loro atrocità fanno piangere Dio; stiamo soffrendo nello spirito, ora che gli animi si sono sollevati, lo spirito soffre per ciò che ancora opprime i fratelli degli altri stati;

45-52: ospiti della mia stanza, della mia cella di sabbia, riferimento alla gente dell’africa sub-sahariana, arrivata nel Nord dell’africa per cercare fortuna e scappare dalle difficoltà dei loro paesi di origine; gocce d’acqua artificiale, credenza popolare che le lacrime non siano vere ma imposte dalle circostanze; il cielo piange il deserto, Dio piange per lo spargimento di sangue tra i suoi figli; 53-68: oggi sono felice tra molti, il poeta si scusa della sua felicità per il miglioramento della sua condizione personale; carcere di ferro, condizione di sudditanza psico-fisica; rosa a cinque punte, la bandiera del Marocco; il buio si colorava di identità, il buio della notte è rischiarato dal calore umano delle genti in lotta per l’autodeterminazione.

8Donne migranti

9Donne migranti

Lungo l’estesa pianura formata dal fiume Indo sono sorte migliaia di anni fa alcune delle prime civiltà della storia. Oggi, delimitato a ovest dal Karakorum e con un prezioso sbocco sul mar arabico, su quella stessa pianura sorge il Pakistan, giovane stato con tradizioni millenarie.

“Maestra, infermiera. Questi sono i lavori, gli studi che una donna può scegliere in Pakistan. Non ingegnere. I miei genitori, mio padre soprattutto, tentò di convincermi: “Che farai dopo?” Mi chiedeva. Mia madre mi appoggiava e, anche se non lo avesse fatto, io sono il tipo che fa sempre ciò che vuole.”(ride)

Samira è nata a Dera ismail Khan, una città sulle rive del fiume Indo. Ha studiato all’università di Peshawar, a nord di islamabad. ora abita a trento, contribuendo ad arricchire quella babele di culture che è lo studentato di San Bartolameo.

“Nella facoltà di ingegneria eravamo in centoventi studenti, di cui sette donne. Io ho sempre creduto che tutti siamo essere umani. Quest’idea lì scompariva: gli uomini erano uomini e le donne erano donne e dovevano essere timide, non parlare troppo.”

ricordo perfettamente il giorno in cui conobbi Samira. era la sera del aid al-adha, la “festa grande”, in cui si celebra l’offerta di sacrificio di Abramo a Dio: la festa musulmana più importante. lei indossava un paio di pantaloni baggy, i salwar kameez, d’un celeste semi trasparente, una semplice camicia (kameez) dello stesso colore e una dupatta, lo scialle, in pendant con il resto. mi disse che le piacevano i miei capelli, così lunghi; che anche lei ci aveva tentato, ma che non aveva pazienza. lei ha i capelli neri e spessi. la vidi meno di un mese dopo. portava un vestito attillato nero che marcava tutte le sue forme e degli stivali col tacco.

“Così iniziò tutto. Noi ragazze ci mettevamo nei banchi in prima fila. I ragazzi non erano abituati, non sapevano come comportarsi. Ricordo quello dietro di me. Ci lanciava degli oggetti. Un giorno non ce la feci più, mi girai. Non fu molto elegante, ma pensai che tanto non sarebbe cambiato nulla, dovevo dire qualcosa: “Che cazzo fai? Smettila!”gli urlai. Eravamo nel mezzo di una lezione. L’insegnante, una donna, fece una cosa che (le

insegnanti donna, ndr) non erano solite fare perché non volevano avere a che fare con gli uomini, tendevano a stare alla larga. Si avvicinò al ragazzo e gli disse: “Perché ti comporti così? Non lanciare le cose, appartieni a una buona famiglia”. Questo a me non bastava. Quando uscii dall’aula un altro tipo mi aspettava fuori: “Chi ti credi di essere?” mi disse, “ Credi di essere una grande? Non sei nulla in confronto a noi”.

Dera ismail Khan e peshawar distano tra loro trecento chilometri. In Pakistan il welfare è in crescita e se una famiglia agiata ha a cuore l’educazione dei figli e l’università rinomata è lontana, si può pensare di inviare le figlie a studiare fuori.

“A volte in Pakistan gli uomini hanno un certo comportamento, ma io continuo, vado avanti, non voglio lasciare una società come questa ai miei figli. Difatti, seppur lentamente, le cose stanno cambiando. Questa era l’università che io ho conosciuto. Ora, grazie a tante donne che non si sono arrese, anche l’università è cambiata.Ma non quando studiavo io. Una volta laureata, iniziai a insegnare nella mia università. Fu per un breve periodo perché, poco dopo, grazie a una borsa di studio, mi trasferii in Inghilterra per il dottorato. Lì iniziò il vero incubo”.

“Un giorno al rettore della mia università in Pakistan arrivò una lettera a mio nome. Nella lettera che io avrei scritto accusavo il rettore di corruzione. Senza capire bene come, mi trovai privata della borsa di studio. La mia situazione era molto difficile. Tentai con tutti i mezzi di contattare la mia università, ma loro non ne volevano sapere. Non risposero nemmeno alle mille lettere che inviai. Neanche il mio tutor inglese volle aiutarmi. Ero da sola e tutti avevano un’idea orribile di me.Alla fine accadde quello che temevo: “Devi ritornare, i tuoi genitori hanno fatto da garanti, se non torni in Pakistan, saranno loro a rispondere per te”. Tornai. E fu un inferno. La mia cattiva reputazione si era estesa, ma ero di nuovo da sola perché i miei non sapevano come realmente stessero le cose. Non sapevano come l’università si stesse comportando con me.Una specie di giuria, il comitato studentesco, mi dichiarò colpevole, obbligandomi a restituire i soldi che avevano

di Sara Diaz gonzalez

A colloquio con Samira, studentessa universitaria a Trento

Una storia dal PakistanFra tradizione e nuove generazioni

DONNE MIGRANTI

investito in me, l’equivalente in rupie di 3000 sterline. “Potete rinchiudermi in galera” fu la mia risposta, “io non ho quella somma”.Loro mi odiavano, e odiavano ancor di più la mia attitudine che consideravano riprovevole. Distrussero la mia reputazione. Tutto il mondo accademico sapeva chi ero. Se mi presentavo per un lavoro, appena sentivano il mio nome, rispondevano: “Ah! Ma tu sei quella …” Mi avevano bandito. Io non mi fermai, continuai a chiedere borse di studio e tentai anche il concorso per entrare a lavorare in università. Ottenni il primo posto, ma non mi presero. Provai anche l’Erasmus e, anche se i miei colleghi partivano, a me rispondevano che non c’erano soldi. Poi, com’era da aspettarsi, mi attaccarono anche sul piano personale, coinvolgendo ogni ragazzo che tentava di far parte della mia vita. Volevano isolarmi. Ero all’interno di un circolo senza fine. Finalmente fui ammessa a Trento. In Pakistan questo non fu accettato e tuttora ho la corte che mi aspetta. Anche per questo torno. La giustizia in Pakistan ha un suo sistema, forse giusto, ma duro per gli innocenti.Ci sono ancora molte cose che non vanno in Pakistan: se tu non segui l’indirizzo per te prestabilito, tutti hanno il diritto di intromettersi nella tua vita”.

la religione musulmana considera che i maschi possono sposarsi a partire dai quindici anni e le femmine dai nove. Samira ha trent’anni.

“Le nuove generazioni sanno che le tradizioni non sono cose da

dimenticare, ma si sente nell’aria che qualcosa sta cambiando”.

a maggio Samira, dopo averci pensato a lungo, tornerà in Pakistan. Non ha paura di farlo.

“Prima sì, ora non più. So che le cose non saranno facili, ma sento che si sistemeranno. Il Pakistan non ha bisogno di persone che l’hanno sempre pensata allo stesso modo. Ha bisogno di persone come me, come molti giovani, che vedono le cose in modo diverso.Per me in generale la vita in Pakistan è fantastica. I miei amici sono aperti. Ho amici di tutti i tipi, uomini sposati, donne single, omosessuali. Sono libera di muovermi, di lavorare, di vivere da sola”.

Samira appartiene a una buona famiglia: suo padre è medico, sua madre, “il suo supporto”, è insegnante di teologia. Samira crede di non aver ancora scelto la sua religione. attualmente studia le religioni. ma questa non è la vita di tutti.

“No, è impossibile proprio perché sono cresciute in questo ambiente. Sempre hanno avuto a che fare con queste tradizioni, che pertanto formano parte della loro

vita. Per me no, la mia vita è stata un’altra.La religione per me viene dal cuore, non da una regola imposta. Molti musulmani prendono la religione e la trasmettono di generazione in generazione. Non penso che Dio voglia questo.”

Chissà quante ragazze hanno raggiunto altri paesi per formarsi, studiare, e che ora stanno per ritornare. “No. Molte delle mie amiche hanno avuto successo col loro dottorato e non tornano. Per me è diverso, io non ho avuto lo stesso successo. Ma non importa. Quando decisi di venire qui non pensai a nessuno, solo a me stessa, certamente fui egoista. Ho avuto un anno per imparare, pensare; ho un background solido e forte. Io sono forte e ora sarebbe da egoisti non tornare ”.

Lingua madreil concorso letterario nazionale “Lingua madre” è promosso insie-me al Salone internazionale del libro di torino. ogni anno pubbli-ca una selezione dei racconti ricevuti e svolge un ruolo importante nel far emergere pensieri e sentimenti di donne immigrate e di ita-liane che si interessano di migrazione. Queste voci femminili aiuta-no a comprendere la realtà in cui siamo immersi ed anche i mondi lontani nel tempo e nello spazio da cui arrivano gli immigrati.È uscito Lingua madre duemilaundici. Racconti di donne stra-niere in Italia, a cura di Daniela Finocchi, edizioni SeB 27, torino, 2011, mentre si è conclusa la settima edizione del concorso. ad entrambe ha partecipato Gracy Pelacani, giovane dottoranda a trento, con due racconti da non perdere. presentazione del libro e incontro con gracy

alla libreria universitaria Drake di Trento

10Storie

1945, non è ancora finita la guerra, due figlie sono ai lavori forzati in Germania, un altro è prigioniero militare, quando la fami-glia con i figli adolescenti viene costretta ad abbandonare la sua casa e la sua vita in Polonia e deportata nelle steppe ucrai-ne. È la vicenda dei nonni e del padre di Halyna come ce l’ ha raccontata nel numero di dicembre 2011, “i treni delle lacrime”, è la sorte di milioni di ucraini schiacciati dal peso della storia, durante e dopo la seconda guerra mondiale. ad attenderli il suolo delle loro antiche tradizioni, ma nel loro esilio una prima terribile incombenza: seppellire i morti e prendere il loro posto.

erano ancora molto fredde le notte di primavera nella grande ucraina, come loro chiamavano questa terra. per se-coli i loro padri sognavano di unire tutte le terre in una unica grande patria, venire qui come figli legittimi in riconoscimen-to della loro fedeltà, del loro amore. E finalmente sono qui, ma in che stato, con quale missione? per seppellire i fratelli ritrovati? Per prendere il loro posto nella fila verso una morte violenta? venivano loro i brividi al pensiero del futuro in que-sta terra, la più fertile e ricca terra del mondo, dove si muore di fame e dove sei nessuno.

era molto fredda la notte sotto la grande cupola di stel-le argentate. tutti – dai più vecchi ai più piccini, erano là, nel cimitero. Nessuno poteva rimanere nel villaggio. tornavano all’alba. tutti insieme. uomini severi e pensierosi e donne

troppo spaven-tate per poter parlare. Non riuscivano ne-anche a pian-gere, neanche a pregare. erano come ipnotizzati dal-la crudeltà del momento, del

tempo, del paese in cui si trovavano. avevano visto tanta ferocia in anni di “pacificazione” e di guerre, ma questo superava anche le fantasie più malate. Questo spaventa-va, bloccava il cervello, congelava il sangue fino al punto che non sentivano il freddo della notte di aprile. le madri stringevano forte i bambini. la paura, con grandi ali nere di corvo li soffocava, li ammazzava nella immensa steppa da

cui non c’era scampo... Era appena aprile, la guerra non era ancora finita, an-

cora si sparava fra le vie della lontana maledetta germania, ma qui la gente era morta di un’altra guerra: guerra contro il proprio popolo. e loro, deportati da una terra lontana, da oggi facevano parte di questo popolo, che si chiamava nessuno e che poteva essere ammazzato in una qualsiasi ondata di rabbia moscovita, di qualche campagna contro ”nemici del popolo” di nuovo acquisto cioè proprio loro.

È stata una delle nottate più lunghe. una delle tante durante le quali si nascondevano dagli attacchi delle bande polacche o delle guarnigioni “AK” – (armia krajova) nei cam-pi di grano o nelle tane, scavate nei giardini. Come durante l’occupazione tedesca, quando per un soldato ammazzato dai partigiani dovevano morire dieci civili. Qui non c’erano tedeschi da molto tempo e non c’erano polacchi. ma chi era questa gente, morta di fame? Non hanno trovato nessun do-cumento, nessuna fotografia.

Questo racconto dell’orrore della loro prima notte da cit-tadini sovietici non l’ho sentito dalla mia nonna. Solo il ricor-do la spaventava. ma siccome sono sempre stata curiosa, quando si riunivano i parenti o i compagni di disavventura dei miei, mi nascondevo in qualche angolo della stanza e ascoltavo zitta zitta, trattenendo il respiro per paura di esse-re scoperta e cacciata via. venivano spesso, specialmente la domenica, a trovare mia nonna. Secondo la stagione, si sedevano sulla panchina sotto la casa, o dentro, nella “stan-za grande” (che era anche l’unica) sotto la stufa, fatta lungo la parete che la divideva dalla cucina. e quando in cucina si accendeva il fuoco, si scaldava anche la stanza e la stufa fa-ceva anche da letto. Durante l’inverno lì ci dormiva la nonna, e noi bambini, quando tornavamo da fuori, ci mettevamo là

di Halyna taratula

Solo l'idea di poter prima o poi scappare aiutava a sopravviverechi dalla Polonia era stato deportato nelle steppe ucraine

L’angoscia di un futuro buio nella terra dove non si è nessuno

Questo racconto dell'orrore della loro prima

notte da cittadini sovietici non l'ho sentito dalla mia nonna. Solo il ricordo la spaventava.

11Storie

per scaldarci. era bello, o forse da piccoli vediamo tutto bello, tutto scalda e coccola.

Nella tarda mattinata il cielo profondo e azzurro della steppa si è spalancato al suono della campana, unica so-pravvissuta all”ateismo combattente”. Si alzava sopra le rovine dell’antica chiesa e li chiamava alla piazza o urlava disperata al cielo. piano piano la piazza della campana si riempiva di gente stanca, esausta e molto turbata dai tristi presentimenti di un futuro buio.

Come aveva avvertito il comandante del treno prima di abbandonarli, nella piazza li aspettavano i rappresentanti ufficiali del governo locale. Forse perché erano dei militari o perché la guerra non era ancora finita, indossavano l’unifor-me militare. Questo non prometteva niente di buono. e infatti, dopo un breve saluto ai “fratelli ritrovati”, li avevano avvertiti che era impossibile ritornare alle loro case, ormai in un altro stato, e che loro, da cittadini sovietici, dovevano essere felici di vivere lì, nella terra promessa e regalata. Qui hanno tutto: case per abitare, terra da coltivare per la gloria del comuni-smo. e nessun accenno a proposito di quello che avevano trovato. però, diceva uno de-gli ufficiali, con accento fred-do e forte, come sparasse, chiunque si fosse azzardato ad andarsene via, sarebbe stato giustiziato come diser-tore e nemico del popolo, e lui “sperava molto, che qui non ci fossero nemici”. ma forse per questo stentava a guardare negli occhi le persone di fronte a lui, sapendo che, dopo questa notte di orrore, sono tutti nemici suoi e del suo

stato. e continuava a parlare, aiutandosi con i gesti, diceva che dovevano cominciare ad abituarsi all’idea che la vita in uno stato socialista è diversa da quella di prima e che dove-vano dimenticare le loro abitudini borghesi, che non esiste proprietà privata, qui regna unione, fratellanza, uguaglian-za. Gli hanno creduto, perché avevano visto e seppellito... e ognuno dentro di sé aveva già deciso: scappare. Costi quel che costi, ma rimanere qui significava prepararsi alla morte per fame o al terrore bolscevico. Non era per loro. Non anco-ra, perché ancora si sentivano persone umane, civili. Erano forti contadini e bravi artigiani, professori, studenti, sacerdoti ortodossi e greco-cattolici, medici, artisti, persone di diverso stato sociale, di diverse opinioni politiche (da sostenitori del-le idee marxiste a militanti di partiti nazionalisti): tutti si sono trovati uniti in una sola idea – sopravvivere.

Da bambina, quando a casa venivano persone a me sconosciute, ma erano accolte come se fossero di famiglia, chiedevo che parenti erano. la nonna rispondeva: ”abbiamo sofferto insieme, ci siamo aiutati durante i più spaventosi periodi della nostra vita. Sono più dei parenti, sono il prossi-

mo. un parente, per quan-to caro e buono sia, in un momento di difficoltà può essere lontano, ma il vicino di casa o di cammino, ci dà sempre la spalla. l’impor-tante è non dimenticare il prossimo, quando sarà passato il male e molto im-portante è non dimenticare

niente, perché niente passa senza lasciare il segno.” Così di-ceva mia nonna, che non era troppo sentimentale, o aveva

Sono più dei parenti, sono il prossimo. Un parente, per quanto caro e

buono sia, in un momento di difficoltà può essere lontano, ma il vicino

di casa o di cammino, ci dà sempre la spalla

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imparato a tenere per sé i propri sentimenti.“Domani”- diceva come se sparasse l’ufficiale- “tutti i capi

di famiglia sono obbligati a presentarsi al “selsoviet”(comune) per la registrazione e l’iscrizione al kolchoz” (fattoria statale). Chi aveva un cavallo, do-veva portarlo nella stalla del kolchos e una mucca, se ne ave-va due. Queste due pa-role russe: ”kolchos” e “selsovet” suonavano come una condanna all’ergastolo: senza ca-

valli vedevano la fuga con bambini, ammalati, vecchi ancora più difficile da realizzare.

Nel frattempo cominciavano ad ambientarsi: pulivano e riparavano case, stalle, pozzi, perché dovevano vivere e non sapevano quanto tempo ci avrebbero messo per preparare la fuga. C’era ancora la guerra e loro si sentivano prigionieri an-che perché i loro cari, mariti, figli, fratelli, erano lontani e non sapevano quasi niente della loro sorte. Nei campi di lavoro forzato in germania ed austria o militari prigionieri dell’arma-ta polacca o sovietica; mobilitati nella Polonia del 1944 dopo l’entrata dell’armata rossa e l’accordo con il governo sociali-sta polacco; partigiani indipendentisti a far la guerra su due fronti, contro i sovietici e contro i tedeschi.

ma sapevano che i servizi segreti sovietici controllavano ogni persona e chi aveva i propri cari “alla macchia” paga-

12Storie

va con la libertà o anche con la vita. per esempio, il cugino della mamma, vasyl’ Bryl’, era stato per 25 anni in un gulag in Siberia, perché Pavlo, suo fratello maggiore, partigiano upa, era sfuggito all’arresto. però, da un certo punto di vi-sta, era stato fortunato, perché l’avevano messo in cella con professori universitari ed artisti. Da ragazzo sveglio ascoltava le loro lezioni, fatte apposta per non permettere ai giovani di degradarsi intellettualmente e moralmente. lui all’epoca dell’arresto aveva solo 17 anni. era diventato anche un bravo pittore, però dopo aver scontato la pena, con il suo “diploma” da gulag, poteva trovare solo lavori umili, la sua pittura era conosciuta solo fra parenti ed amici. il suo caso non era raro: migliaia di ragazzi e ragazze come lui – giovani ribellatisi agli occupanti - hanno offerto la propria vita alla libertà del loro popolo.

la vita, pur crudele, continuava e la primavera, suo in-dispensabile testimone, li spingeva a vivere. in maggioranza erano contadini, affamati di pane e di lavoro. Seminavano grano – alfa e omega della loro esistenza. andavano piano: i campi potevano essere ancora minati. Succedeva che la terra all’improvviso esplodesse, buttando verso il cielo un velo nero di fango o polvere con calde rosse stelline e pezzi di carne umana, che tremavano, sembrava continuassero a camminare, a seminare. per un attimo tutto si fermava: le nuvole nel cielo, sole, vento, uccelli, gente. tutto il mondo d’intorno rimaneva come paralizzato per un instante e subito dopo - urla, pianti disperati, maledizioni e preghiere. e fune-rali senza sacerdoti, ma con la partecipazione dei funzionari statali, camuffati in uniforme militare. le preghiere le faceva-no ognuno per sé, chiudendosi in casa.

In maggioranza erano contadini, affamati di pane e di lavoro.

Seminavano grano – alfa e omega della loro esistenza.

ASSOCIAZIONI

E’ nata Libera Trentino

di martina Camatta

13associazioni

all’indomani delle stragi del 1992 par-tendo dalla Sicilia ed espandendosi in tutta italia c’è stato un risveglio della società civile che ha portato ad una du-rissima presa di posizione nei confron-ti della mafia. La paura e l’omertà da sempre alleate di Cosa Nostra sembra-va avessero lasciato il posto al coraggio e all’indignazione. migliaia di persone scesero in piazza e nelle strade a ma-nifestare, le aule universitarie videro alternarsi magistrati e parenti delle vitti-me per ribadire il bisogno di legalità nel nostro paese.Sulla scia di quest’ondata di sdegno il 25 marzo 1995 nacque “Libera. Asso-ciazioni, nomi e numeri contro le mafie” per sostenere tenacemente che la ma-fia si combatte con l’impegno concreto e con il sostegno della società. attual-mente libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegna-te per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. Tre anni fa l’associazione antimafia gui-data da don luigi Ciotti ha fatto incon-trare in trentino gruppi di persone e as-sociazioni che singolarmente cercavano

di approfondire la tematica del fenome-no della criminalità organizzata senza però avere un “contenitore” comune. Nasce così il 26 febbraio 2012 il coor-dinamento trentino di libera attraverso il voto delle nove associazioni fondatrici: Kaleidoscopio s.c.s., il gioco degli Spec-chi, ate lab, limen, Caffè Culture, terre Comuni, Cooperativa l’ancora, Coopera-tiva arcobaleno, Sorgente 90.Il significato di un circolo di Libera anche in trentino è proprio quello di creare una nuova coscienza che si traduce in una cittadinanza consapevole. molteplici le iniziative di sensibilizzazio-ne portate avanti in questi anni nella no-stra provincia a favore della promozione della cultura della legalità. percorsi di educazione alla legalità all’interno delle scuole, incontri con magistrati e scritto-ri, interventi a sostegno delle vittime di mafia, spettacoli teatrali, campi di lavoro estivi sui terreni confiscati alla crimina-lità organizzata, coinvolgimento della cittadinanza alle iniziative promosse da libera, partecipazione alla giornata del-la memoria e dell’impegno in memoria delle vittime delle mafie. Simbolica la decisione di celebrare la XVII giornata della memoria e dell’impe-

gno in memoria delle vittime delle mafie a genova. una scelta voluta per ribadire che la mafia non è più coppola e lupara, ma un morbo diffuso su tutto il territorio nazionale che investe ogni settore. in trentino non esistono vere e proprie famiglia mafiose, ma come ricorda il magistrato antonio ingroia in un suo in-tervento dal titolo “Una mafia più civile, una società civile più mafiosa”, la crimi-nalità organizzata è un fenomeno che si sta espandendo sempre più al nord e a dimostrarlo sono i sedici beni confiscati a trento. un forte incentivo a spendersi in questa direzione è arrivato dalla legge provinciale del 12 dicembre 2011, sulla promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile per la prevenzione del crimine organizzato. memoria e impegno sono quindi l’obiet-tivo di libera trentino che vuole combat-tere l’omertà e la paura che da sempre sono i pilastri sui quali la mafia ha po-tuto crescere, ma anche contrastare l’il-legalità e la corruzione, la connessione di tipo criminale tra politica e affari. in modo più subdolo questa versione della mafia danneggia dall’interno economia e democrazia e richiede continua vigi-lanza da parte di tutti i cittadini.

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'ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea gotica*

Anche in provincia si organizza la resistenza alla criminalità

giovanni tizian, Gotica, round robin editore, roma, 2011

la delegazione trentina alla manifestazione di genova 2012

1514SocietàSocietà

SOCIETÀ

Una giornata con Talat,commerciante pakistano a Trento

In città dal 1998, è titolare di un’agenzia di trasferimento di denaro e “phone centre”

di manuel Beozzo

il sociologo Zygmunt Bauman, in un breve saggio dal titolo Lo spettro dei barbari. Adesso e allora ci racconta la sto-ria degli “altri”, dei non-noi. i greci antichi con il termine “barbari” identificavano i non-greci, gli altri per l’appunto. l’unico rapporto esistente tra questi due macro-emisferi si basava sull’ “interagire in assenza di comunicazione”; a causa della costante assenza di interesse nel cercare contatto (partendo comunque dal fatto che la distinzione nasceva dai greci e che probabilmente ai non-greci non fu mai chiesto un parere a riguardo), si passò dall’apostrofa-re i non-greci come “diversi”, fino ad arrivare a provare un senso di non “agio in loro presenza”. il disagio, scaturito dalla freddezza o assenza di relazioni, si tramutò in paura, la quale, priva di motivazioni razionali, iniziò a fondarsi su generici pericoli “imprevedibili”. ecco che la frittata era fat-ta: i non-noi sono un minaccia. oggi come allora, i non-noi vengono spesso fatti personificare – dai politici, dai mezzi di comunicazione, dai luoghi comuni, dalla assenza di con-tatto – con i cittadini di alcuni paesi. ma proviamo a fare il percorso dei greci all’incontrario: conoscere per eliminare quel senso di inspiegabile disagio.

„posso farle qualche domanda sulla Sua esperienza, di la-voro e di vita, a trento?“ „io non conosco molto di trento (sorride), solo la strada da casa al negozio (via della Prepo-situra, ndr.) e da qui a via Brennero (dove si trova un secon-do negozio di alimentari gestito dalla famiglia, ndr.)“. Quello che inizialmente ho avvertito come un diplomatico rifiuto a continuare la conversazione, si è poi invece rivelata, come mi è stato dato modo di comprendere grazie alla piacevole chiacchierata con talat (27 anni), la schietta realtà, nota a tanti stranieri che, come lui, (si) creano occupazione.Da oltre un decennio, gli stranieri-lavoratori o, per essere più precisi, gli stranieri-imprenditori crescono, in trentino, con maggiore rapidità rispetto ai locali. Secondo dati ela-borati dalla Camera di Commercio industria, artigianato e agricoltura della provincia di trento, dal 2000 al 2011 i ti-tolari o amministratori, con nazionalità italiana, di imprese

con sede in provincia di trento sono calati del 10 percento mentre, sempre nello stesso periodo, il numero degli im-prenditori stranieri è stato interessato da aumenti, in alcuni casi davvero significativi. Cito solo i più eclatanti: i titolari di nazionalità moldava sono passati da 0 a 71; i titolari cinesi sono balzati da 6 ad 82; gli imprenditori pakistani si sono più che quadruplicati, da 13 a 72. Sommando i titolari, sia italiani che stranieri, il calo sopra citato si ferma poco oltre il 4 per cento. ma chi compone questa differenza, questi 6 punti percentuali, che, oggi più che mai, è di fondamenta-le aiuto per lo sviluppo e la ripresa dell’economia locale e nazionale?

Dalle 9.00 alle 21.30, dal lunedì alla domenica, la serranda del negozio è aperta; dietro il bancone, Talat o, alle volte, il fratello maggiore, il pioniere della famiglia, che, arriva-to a trento nel 1998, si è da subito interessato al mondo dell’imprenditoria: poco meno di quindici anni dopo, è tito-lare di due negozi specializzati in alimenti etnici, gestiti da un terzo fratello, e di un’agenzia di trasferimento di denaro/Phone centre, dove ho incontrato talat.all’orario di apertura spesso i clienti, così come i pensionati davanti al Poli di via pozzo, sono già lì davanti al negozio, in attesa. A quell’ora però sono in pochi a telefonare; più delle parole, dall’esercizio, esce denaro, destinato agli stu-di dei figli, a costruire una casa o al sostegno dei genitori. euro che, nel lungo tragitto, si trasformano in dollari, pesos, rubli o rupie portando sostegno (tangibile) e sentimenti (im-palpabili). la mattinata scorre, tendenzialmente, tranquil-la. A mezzogiorno invece si cambia nuovamente ritmo; con impresso bene in mente il fuso orario e le consuetudini di “casa”, sono in molti a passare la pausa pranzo in via della prepositura, per augurare buona notte o buon giorno, a se-conda della destinazione della chiamata, ad una voce lon-tana, di qualcuno che non si vede da troppo tempo.tra un cliente e l’altro, talat gentilmente trova sempre il tem-po per parlare anche con me; mi descrive la sua clientela (pakistani, africani, sudamericani, europei – molti dell’Est – e qualche italiano). mi racconta della crisi e di come an-

che l’attività della sua famiglia ne risenta: l’espansione di internet e il boom dei telefoni cellulari con le relative offer-te per chiamate verso l’estero sono i principali concorrenti della sua attività. Mi parla delle difficoltà di tenere aperto un negozio in Italia; si chiede – ma indirettamente mi sen-to chiamato in causa nella domanda – come sia possibile pagare tasse così alte, forse volendo riferirsi, ma questo lo interpreto io, alla iniquità della bilancia: contributi versati su un piatto e servizi resi ai contribuenti sull’altro. Ho di proposito usato questo termine, cer-tamente impersonale e burocratico, ma a mio avviso efficace per definire una parità di obblighi dello Stato ver-so tutti i suoi contribuenti. ma anche in questo caso, il buon umore di talat appare inattaccabile, e sempre sorri-dendo ironizza sul suo incubo da im-prenditore, che si concretizza verso la metà del mese, ovvero il momento della compilazione del modello per il versamento delle imposte, più noto con la sigla F24. e in quell’istante, proprio come recita una pubblicità portata a spasso sul lato di alcuni autobus, avevo davanti a me non un giovane migrante, ma un giovane commerciante, di origine pakistana.la giornata volge al termine. Sono circa le 18:00 e il via vai è ripreso. le richieste dei clienti, espresse in lingue, in italiani diversi, si distinguono, come nell’arco di tutta la gior-nata, più per destinazione che per tipologia. Nuove facce, ma il copione non cambia: frasi dette in lingue diverse che viaggiano per migliaia di chilometri e dall’altra un orecchio impaziente, che aspetta di sapere. “Good evening”; un nuo-vo cliente, africano, si rivolge a talat in inglese, il quale, ov-viamente (!) gli risponde nella stessa lingua. Mentre aspet-to, leggo un cartello sul bancone: “È obbligatorio mostrare il documento di identità prima di telefonare e rilasciare una fotocopia”; sotto, presumo, la traduzione in urdu. Gli chie-do, dopo essersi addirittura scusato con me per l’attesa, se

lo ha dovuto mettere per qualche ragione particolare. mi risponde raccontandomi un aneddoto. una legge del set-tembre 2011 obbliga i proprietari di Phone centre a tenere un elenco, corredato di dati personali, delle persone che utilizzano il servizio telefonico. La legge, che a fine marzo di questo anno non avrà più validità, dovrebbe essere annove-rata nella classifica per la rapidità dei controlli sull’effettiva applicazione della stessa. infatti già il giorno seguente la sua entrata in vigore, talat si è visto, a fronte di un controllo,

multare per la mancata osservan-za dei criteri previsti dalla legge (ovvero non avere fotocopiato un documento di identità di uno dei suoi clienti). i proprietari dell’at-tività, ironia della sorte, hanno saldato il loro debito con lo Stato qualche settimana prima che la legge venisse abolita. inevitabil-mente talat non mi nasconde, sempre con un sorriso, la sua dif-ficoltà a comprendere i meccani-smi della giurisprudenza italiana. l’unica cosa che riesco a fare, pensando alla triste espressione

due pesi due misure, è rispondere con un sorriso, dal gusto amaro.Siamo ormai all’orario di chiusura. È da un po’ che non en-trano più clienti e talat decide di chiudere un po’ prima. la serranda del negozio è chiusa, così come, sul mio como-dino, il testo di Bauman. Non mi resta che concludere que-sta breve pagina di diario sulla normale giornata di lavoro di un commerciante, uguale a tanti altri, ma che, citando Bau-man, dovrebbe avere il diritto di rimanere diverso ed essere comunque considerato non un diverso. È indispensabile però compiere uno sforzo comune, così che l’ “arte di vivere nella diversità” non venga “più percepita come meramente passeggera ma come un importante passaggio intermedio nell’inesorabile universalizzazione della cultura”. Come si dice a scuola: basta applicarsi!

Il buon umore di Talat appare inattaccabile, e sempre

sorridendo ironizza sul suo incubo da imprenditore, che si concretizza verso la metà del

mese, ovvero il momento della compilazione del modello per il versamento delle imposte,

più noto con la sigla F24.

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Nei film della regista belga, figlia di ebrei polacchi, l’esperienza dello sradicamento e della deriva collettiva

Chantal Akerman: memorie clandestine

Cinema

CINEMA

Nella florida Olanda secentesca, alimentata dai doviziosi traffici della Compagnia delle Indie, ogniqualvolta le dighe cedevano e i fedeli udivano la vindice voce della divinità nel fragore delle acque che inondavano i polder, le autorità prov-vedevano alla sollecita esecuzione dei detenuti omosessuali, rei di avere ammorbato l’ambiente e infradiciato il legname con le loro esecrabili pratiche. Con la stessa ineccepibile logica il candidato Nicolas Sarkozy, figlio di un aristocratico ungherese e nipote in linea materna di un ebreo di Salonic-co, è asceso all’eliseo tuonando contro i pericoli dell’immi-grazione e sfida oggi il socialista Hollande addebitando ai sans papiers la responsabilità principale del declassamento dell’economia francese. riscuote così il facile consenso di un corpo elettorale timoroso delle agenzie di rating e d’un fu-turo presagito come incombente, in cui una Francia alquanto ammaccata potrebbe reggersi sulle stampelle di una misera doppia “a”.

la crisi del welfare, lo svuotamento degli apparati e delle istituzioni politiche, il commissariamento più o meno felpato dei governi, lo sgretolarsi delle classi medie, l’inerme precarietà del lavoro, i trasferimenti d’impresa, la gravosa ipoteca sospesa sul capo delle giovani generazioni, insom-ma tutti i fenomeni conseguenti alle strategie d’investimen-to di un capitale finanziario transnazionale sganciato dalla produzione reale dei singoli paesi vanno, d’altronde, vieppiù assottigliando la distanza fra l’amorfo ribollire delle migrazio-ni di massa e il malessere democratico dei cittadini europei, soggetti al ricatto delle banche e delle compagnie d’assicu-razione che continuano a speculare approfittando appunto dei debiti statali accumulati nel tentativo di salvarle. Dal limitato osservatorio di questa rubrica, dedicata al cinema dell’emigrazione, si può tuttavia notare che la rastremazione

della barra divisoria fra la cittadinanza che si credeva garan-tita nei propri diritti e gli extracomunitari che non ne avevano alcuno comporta, fra gli altri effetti, anche l’allargamento del pubblico potenziale per produzioni anomale o, come si suole dire, “di nicchia”.

Sono tali, ad esempio, i film della regista belga Chantal Akerman, più noti ai visitatori delle gallerie d’arte che ai frequentatori del circuito cinematografico. Figlia di ebrei polacchi sopravvissuti alla deportazione, la Akerman trasfonde nelle sue opere, che assumono spesso l’aspetto d’installazioni multimediali, l’esperienza dello sradicamento, della deriva collettiva e della trasformazione di ogni luogo storico in mero luogo di passaggio, assumendola senz’altro come paradigma della modernità e della spettrale infon-datezza delle sue strategie comunicative. il nomadismo, la marginalità, la fluttuante ambiguità fra ricordo e invenzione, il debito e l’impossibilità della memoria impregnano la sua fil-mografia fin nel dettaglio delle scelte di ripresa: la distanza e la compartimentazione degli spazi, l’assenza di controcampi, la salmodiante monotonia della voce off della regista sono altrettanti mezzi per tracciare ritualmente il crinale fra l’insi-stenza familiare d’un mondo sommerso, le cui falle nessuna narrazione potrà più calafatare, e il timore di profanarne l’as-senza attraverso le immagini adibite a significarne la disso-luzione. Come spiegò la stessa Akerman a Jean-Luc Godard in un’intervista somigliante a un dialogo fra sordi, “c’è tutto un problema che riguarda l’immagine per gli ebrei: non si ha il diritto di creare immagini, si trasgredisce quando se ne creano, perché sono legate all’idolatria” (1).

il divieto biblico di crearsi idoli o immagini di ciò che è nell’alto, nel basso o nelle acque al di sotto della terra (Eso-

di giulio Bazzanella

Cinema

do, 20), letto dalla voce della Akerman, risuona fra i testi re-gistrati per la mostra “D’Est, au bord de la fiction”, presenta-ta nel 1993 al Jeu de paume e attualmente conservata nella collezione permanente del Walker Art Center di Minneapo-lis. le installazioni che compongono il percorso espositivo utilizzano il materiale girato per D’Est*(1993), un viaggio a ritroso in polonia, nella germania dell’est e in russia, lungo i sentieri della diaspora e le mute pagine del romanzo familia-re: ancora immagini, tratte però da “riprese che esistevano già nella testa”, perché sempre, secondo la Akerman, si sco-pre di sapere già tutto, “sebbene anche questo, per fortuna, non lo si sappia” (2). Nel posteriore De l’autre côté (2002) la regista, che aveva perlustrato in Sud (1999) l’intero tratto stradale texano lungo il quale era stato trascinato e straziato il corpo del giovane nero James Byrd, prosegue il proprio pel-legrinaggio accosto al muro eretto fra gli uSa e il messico per ostacolare l’ingresso dei lavoratori clandestini. attratta sul posto dalle notizie che riferivano della formazione di squadre private ad opera dei ranchers dell’arizona, insoddisfatti del blando contrasto opposto dalla polizia di frontiera all’immi-grazione, la Akerman coglie immediatamente nelle farneti-cazioni dei vigilantes, che si lamentano dell’infetta sporcizia e dell’immondo contagio dei clandestini, l’eco della propa-ganda contro il sudiciume giudaico, che l’aveva confinata a propria volta, durante l’infanzia, dietro il protettivo muro di silenzio elevato dalla madre, irremovibile nella reticenza su auschwitz. illuminato da lampade alogene, frugato dalle camere a infrarossi degli elicotteri, nelle quali il calore dei corpi clandestini si evidenzia sotto forma di fluide macchie di colore scorrenti su una tela informale, il muro appare alla Akerman come la parete di un’unica prigione, estesa dalla Siberia a Berlino, da Calais al deserto americano, dalle re-

cinzioni del ghetto alle sale dei ministeri: al suo riparo i ricchi detenuti, prigionieri delle loro stesse paure, sognano di esse-re le guardie carcerarie.

anche la Francia, come nota la regista, ha la sua frontera, così definita per analogia con la frontera Norte d’ol-treatlantico: si tratta del dipartimento del passo di Calais, dove si ammassano profughi e irregolari in cerca d’un im-barco per l’Inghilterra. Qui Sarkozy ha mostrato tutta la sua tempra: dapprima come ministro degli interni, chiudendo nel 2002 il campo di soccorso per gli immigrati allestito dalla Croce Rossa a Sargatte; in seguito come Presidente della Re-pubblica, servendosi d’agenti di corpi paramilitari per sman-tellare la “giungla”, ossia la baraccopoli dei clandestini fra le dune e i rovi della spiaggia di Calais, dominata da una pate-tica moschea composta di casse da imballaggio. a Calais gli inviati e gli operatori televisivi sgusciano tuttora come corri-spondenti di guerra fra poliziotti, attivisti, dimostranti, traffi-canti e mediatori, mentre la figura dell’emigrante braccato si confonde progressivamente, nelle metafore giornalistiche e nella polemica politica, con quella dell’ebreo vittima delle delazioni e delle documentate complicità di autorità e fun-zionari con i nazisti durante l’occupazione, riaprendo in tal modo nella coscienza francese ferite mai completamente ri-marginate. vedremo nel prossimo numero della rivista come la questione dell’emigrazione, affrontata in passato come un semplice problema d’ordine pubblico, sia ora diventata il cardine d’una revisione dell’identità nazionale e della storia coloniale del paese.

1. Chantal Akerman e J.-L. Godard, Entretien sur un projet (“Ça Cinéma”, n. 19, 1980)2. Chantal Akerman, D’est (“Trafic”, n. 7, inverno 1996)

Dal film D'Est (1993)

a sinistra: Chantal Akerman, in alto: Chantal Akerman sul set di "La Folie Almayer"

Pagina a cura di FORMAT/Centro audiovisivi della Provincia di Trento

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IMMI/EMI

Da mezzala di punta a portiere: questo cambio di "ruolo" sul campo di calcio sintetizza benissimo il travaglio che ha dovuto affrontare Bruno pecoraro, quando a dodici anni ha fatto ritorno con la famiglia nel paese della valsu-gana dal quale i suoi genitori erano emigrati.Come per molti altri suoi conterranei e coetanei, per angelo pecoraro, ori-ginario di villa agnedo, padre di Bru-no, subito dopo la Seconda guerra mondiale l'unica prospettiva di trova-re lavoro era di andare all'estero. Nel 1948 partì per la Svizzera e poi per il Belgio, dove già si trovavano i suoi fratelli. Non scese in miniera ma sta-re davanti alle bocche degli altiforni era un lavoro altrettanto infernale.Nel 1950 si sposò con ines Carraro, che lo seguì in Belgio a poulseur, paese ad una ventina di chilometri da liegi. Nel novembre del 1951 nacque Bruno, unico figlio della coppia.Dei suoi anni in Belgio, Bruno ha un bel ricordo. erano senza dubbio tempi duri, che costringevano la madre a lavorare come domestica. Essere figli di emi-granti non aiutava certo. ma nonostan-te le difficoltà di crescere in un paese

Figlio di emigrati, nato in Belgio, nel 1963 a dodici anni fa rientro con la famiglia in Trentino. Ma la "terra dei padri" non si rivela un paradiso

Il mondo ovesciato di Brunostraniero del qua-le doveva impara-re la lingua - men-tre a casa parlava dialetto - Bruno era un brillante scolaro. Non il primo della clas-se - precisa - ma con un buon ren-dimento, che gli

consentiva di sentirsi a suo agio nel confronto con i suoi compagni.oltre che sui banchi di scuola, anche sui campi di calcio Bruno raccoglieva soddisfazioni. giocava come mezza punta - alla gianni rivera - ed era un vero punto di riferimento per la sua squadra. era dai suoi piedi che parti-vano le azioni più incisive.Bruno era insomma un ragazzo sere-no, ben inserito, rispettato, quasi "un leader".poi ci fu la decisione di suo padre di tornare in trentino. mamma ines non era d'accordo. "la concretezza tipica delle donne - ricorda Bruno - le face-va intuire che sarebbe stato meglio per me che fossimo rimasti là dov'ero cresciuto fino allora, nonostante per lei la prospettiva di un rientro potesse apparire allettante, dal momento che tutti i suoi parenti vivevano in trenti-no". paradossalmente, chi voleva inve-ce far rientro aveva il resto della sua famiglia in Belgio.Nel 1963 angelo, ines e Bruno torna-no a villa agnedo. e per Bruno inizia un vero e proprio calvario.lo aspetta il collegio dei Salesiani di trento, che frequenta per imparare l'i-taliano e per conseguire la licenza di

scuola media inferiore. ma non è l'am-biente religioso ad opprimerlo e a met-terlo a disagio. Di colpo si sente proiet-tato in un contesto nel quale si sente estraneo e nel quale fatica ad inserirsi. i suoi punti di riferimento di colpo non ci sono più. Da "leader" si ritrova in un ambiente nel quale "non è nessuno". "ero emotivamente molto fragile, pian-gevo per un nonnulla" ricorda Bruno. Quello che vive non è solo spaesa-mento. È una vera e propria difficoltà esistenziale, che lo porta - come citato prima - a scegliere di giocare a calcio addirittura in porta anziché in attacco. un mondo rovesciato, nel quale deve anche fare i conti con lo scherno dei compagni. "anche per il mio modo di parlare venivo preso in giro. Nella mia mente tutto si mescolava, dialetto, ita-liano francese. e così le tasche - in dia-letto "scarséle" - diventavano taschèle".Quelli immediatamente successivi al rientro sono stati anni di sofferenza e di frustrazione, di fronte alla constata-zione che la "terra di origine" non era il paradiso e si stava rivelando invece molto più ostile di quanto si potesse immaginare: uno stato d'animo che lo accomunava a suo padre.ma fortunatamente le risorse umane e psicologiche dei ragazzi sono grandi e forti e Bruno, dopo aver finito le scuole medie, dopo aver imparato l'italiano e dopo aver cominciato a vivere in paese, si è costruito la sua strada, che gli ha dato anche molte soddisfazioni, come quella di diplomarsi in ragioneria, di vin-cere il concorso che gli ha dato accesso al posto di lavoro che ancora svolge, di diventare sindaco del suo paese, di im-pegnarsi nel sociale.

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Che strano

edificio...

Può ac-cadere solo in Iran!

Mehdi?

Dov'è l'uscita? Se non torno

presto la mamma si preoc-cuperà...

Pazze-

sco! è come

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intrap-

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una

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il protagonista cerca il fratello mehdi, scomparso durante una manifestazione: nel sogno rivive il senso di irreale assurdità di questa lunga ricerca.

da Zahra’s paradise “I figli perduti dell’Iran” di amir & Khalil, rizzoli lizard, milano 2011per gentile concessione dell’editore