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Numero 2/2013

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Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europeadell’Università Kore di Enna

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KorEuropa Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea

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KorEuropa è una Rivista scientifica pubblicata a cura della Facoltà di Scienze Economiche e

Giuridiche e a cura del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna. La

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KorEuropa ha una cadenza semestrale. Gli articoli sono sottoposti a referaggio anonimo e sono

pubblicati in italiano, francese, inglese, spagnolo e portoghese. Gli articoli pubblicati nella Rivista non

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Pag.

Editoriale

Claudio ZANGHÌ, La Palestina “Stato non membro – osservatore” alle Nazioni Unite

8

Articoli

Salvatore ALEO, Dalle figure delittuose associative alla nozione di criminalità

organizzata

15

César Leandro DE ALMEIDA RABELO - Desirée LORRAINE PRATA, A Proteção do

Consumidor Brasileiro no Comércio eletrônico Internacional

88

Nancy DE LEO, L’austerite europeenne: un choix discutable

105

Roberto DI MARIA - Carmelo PROVENZANO, Reti di Impresa innovative, appalti pubblici

e competitività internazionale

112

Antonella GALLETTI, La tutela e la circolazione dei beni culturali nell'Unione

Europea

138

Janaína Rigo SANTIN, O Modelo Europeu e a Questão da Cidadania

150

Augusto SINAGRA, Trent’anni di Repubblica turca di Cipro del Nord

172

Andrea SITZIA, I licenziamenti collettivi dopo la Riforma 2012 alla luce della Direttiva

n.98/59/CE

179

Giurisprudenza

Anna Lucia VALVO, Nota alla sentenza della Corte di Giustizia (27 novembre 2012,

Causa C-566/10)

199

Fausto VECCHIO, Oltre il Lissabon urteil: la saga delle “pensioni slovacche” e

l’applicazione dell’ultra vires review secondo il giudice costituzionale ceco

202

Recensioni

Droit international public di D. RUZIÈ - G. TEBOUL, Paris Dalloz, 2012, 21° ed., Pag. I -

IV Pag. 1 - 346 e Droit européen di J.C. GAUTRON, Paris Dalloz, 2012, 14° ed, Pag. I -

VII Pag. 1 - 347 (Massimo PANEBIANCO)

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Editoriale

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LA PALESTINA “STATO NON MEMBRO –

OSSERVATORE” ALLE NAZIONI UNITE

Claudio Zanghì

Professore emerito di Diritto internazionale nell’Università “Sapienza” di Roma

La recente qualifica di “Stato-non membro osservatore”, per la prima volta attribuita

dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 67/19 del 29.11.2012 ad un

soggetto di diritto internazionale, nella specie la Palestina, merita qualche riflessione per

essere agevolmente compresa nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze.

È appena il caso, anzitutto, di ricordare che l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)

è un ente internazionale composto da Stati e che il suo Statuto prevede unicamente la

qualifica di “Stato membro” che è assunta dagli Stati invitati alla Conferenza di San

Francisco, che hanno firmato e ratificato l'atto costitutivo (membri originari)e dagli Stati che

sono stati progressivamente “ammessi” attraverso la procedura dell'art.4dello Statuto che

prevede, fra l'altro, una raccomandazione del Consiglio di sicurezza con voto a maggioranza

qualificata, ivi compreso quello dei membri permanenti. Nessun altra qualifica di “membro

associato”, “osservatore” o simile è prevista nello Statuto a differenza di ciò che accade in

altri enti internazionali.

Ciò premesso, fin dalla sua costituzione, l’ONU non poteva ignorare l'esistenza di uno

Stato, storicamente tale, che non poteva partecipare all’Organizzazione in ragione della sua

condizione di neutralità, la Svizzera. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “inventò”

così lo status di “osservatore” attribuendo il medesimo alla Svizzera. Successivamente ad un

altro soggetto di diritto internazionale- anche questo storicamente inteso - la Santa Sede- che,

pur non essendo uno “Stato” svolgeva un ruolo particolarmente rilevante nelle relazioni

internazionali, venne attribuito il medesimo status (da ultimo Ris.58/314 del 1 luglio 2004).

In epoca successiva, quando erano già state istituite diverse organizzazioni che avevano

un ruolo attivo nella vita delle relazioni internazionali, la stessa Assemblea delle Nazioni

Unite, ritenendo opportuno poter dialogare con queste ultime, attribuii lo status di osservatore

a taluni enti internazionali, quali, ad esempio, la Lega araba, (Ris. 477/V del 1950), l'Unione

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africana (Ris. 57/48 del 21.11.2002), l’OSCE (Ris.48/5 del 13.11.1993), il Sovrano Militare

Ordine di Malta, il Comitato internazionale della Croce Rossa, e da ultimo anche l'Unione

Europea (che ha oggi uno status “rafforzato” in base alla Ris. 65/276 del 3.5.2011, in

sostituzione di quello ordinario attribuito già con Ris.3208/XIX del 1974).

Nel contesto dei principi sull'autodeterminazione dei popoli, formulati dalla stessa

Organizzazione delle Nazioni Unite, e quindi della nascita dei Movimenti di liberazione

nazionale, l'Assemblea generale, ritenendo opportuno dialogare anche con questi ultimi, si

pose il problema di attribuire anche ai predetti movimenti lo Stato di “osservatore”. La Ris.

3280 (XXIX) del 1 dicembre 1974 ha riconosciuto tale status a tutti i movimenti riconosciuti

dall’Unione Africana, mentre la Ris. 35/167 del 15.12.1980 a tutti gli altri movimenti.

Di conseguenza, con la Risoluzione 3237 del 22.11.1975, l'Organizzazione per la

Liberazione della Palestina (OLP) ebbe riconosciuta tale qualifica1. È noto per altro che la

stessa OLP era stata riconosciuta da diversi paesi e che il suo capo storico (Arafat) era stato

ricevuto e trattato come un capo di Stato anche dalla stessa Assemblea delle Nazioni Unite.

Lo status venne reiterato con nuove facoltà di intervento in Assemblea dopo che Arafat aveva

proclamato la nascita dello Stato di Palestina (Ris. 43/160 del 9.12.1988).

Lo sviluppo delle vicende palestino-israeliane e la rilevanza del problema nel contesto

delle attività dell'Assemblea generale indusse poi quest'ultima, con Risoluzione 52/250 del

27.7.1998, ad attribuire sempre alla OLP lo status rafforzato di “osservatore speciale”.

La situazione descritta non poteva evolversi verso l’ammissione dello Stato palestinese

all’ONU, attesa la netta opposizione degli Stati Uniti che, ove necessario, avrebbero formulato

il loro veto impedendo la raccomandazione del Consiglio di sicurezza, atto di imprescindibile

per la procedura di ammissione ex art.4.

In tale contesto è intuitivo che la Palestina, pur avendo presentato una formale domanda

di adesione il 23.11.2011, non poteva insistere nell'esame della stessa da parte del Consiglio

di sicurezza per l'inevitabile insuccesso. Di conseguenza, a seguito di negoziati diplomatici

intesi a verificare l'atteggiamento favorevole della maggior parte degli Stati membri delle

1 Come è noto, la Risoluzione n.181 (II) del 29.11. 1947 aveva posto termine alla situazione determinatasi dopo il

secondo conflitto mondiale ed aveva suddiviso i territori nella prospettiva di dar vita a due Stati: Palestina ed

Israele. La soluzione venne rifiutata dalle popolazioni arabe e con la Risoluzione194 (III) del 11.5.1948 venne

istituito lo Stato di Israele, successivamente ammesso all’ONUl’ 11.5.1949.

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Nazioni Unite, la Palestina ha preferito non insistere sulla domanda di ammissione ed

accettare invece questa nuova qualifica di “Stato-non membro, osservatore”, una volta

accertato, che la maggioranza dell'Assemblea generale si sarebbe favorevolmente espressa.

Il risultato che si è realizzato con la votazione del 29 novembre ha visto approvare la

Risoluzione con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 47 astensioni2. In tale risultato, a prescindere

dal dichiarato atteggiamento negativo di Israele, degli Stati Uniti e degli stretti alleati di questi

ultimi, sorprende il voto contrario della Repubblica Ceca che, come se non bastasse,

sottolinea ancor più la mancanza di una linea unitaria della politica estera dell’Unione

europea. Se la maggior parte degli Stati europei si erano sempre schierati per una posizione

astensionista, di equidistanza, la Francia e la Spagna, ai quali si è aggiunto nelle ultime ore

anche il nostro Paese, hanno manifestato il loro esplicito assenso alla Risoluzione

allontanandosi in tal modo dalla maggioranza astensionista dei Paesi europei.

Considerato che, a differenza delle situazioni precedentemente descritte, la Risoluzione

citata definisce la Palestina “Stato non membro”, ciò determina non poche conseguenze di

natura giuridica e politica. Sul piano del diritto, ma altrettanto della politica, è importante

sottolineare che con la suddetta delibera la Palestina viene qualificata come “Stato” ancorché

non membro delle Nazioni unite, ma pur sempre “Stato” a livello della comunità

internazionale. Ed è noto che l'esistenza o meno di uno Stato non dipende dalla pronuncia di

un ente o dal riconoscimento di un altro Stato bensì dal possesso di requisiti obiettivi; ma sul

piano politico, per altro non privo di conseguenze giuridiche come si dirà, è certo che il

riconoscimento di tale qualifica, implicito nella citata Risoluzione votata dalla maggioranza

degli Stati della comunità internazionale, corrisponde alla volontà espressa dalla stessa

maggioranza di trattare la Palestina non già come un soggetto della comunità internazionale

bensì come uno “Stato” della medesima.

Nell'ambito del conflitto arabo- israeliano, che dura ormai da oltre 60 anni, ed in

particolare nel contesto della prospettata politica “due popoli, due Stati”, il riconoscimento di

tale qualifica alla Palestina, ancorché negato da Israele, rappresenta un rilevante successo

2Il voto negativo è stato manifestato da: Canada, Rep. Ceca, Israele, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau,

Panama e Stati Uniti.

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dell’attuale leadership palestinese Abu Mazen. Sottolineo questo aspetto perché non può

ignorarsi che nell'ambito del prospettato Stato palestinese sussistono due anime: la prima,

quella ufficiale della “Autorità palestinese” di Abu Mazen, disponibile alla sussistenza di due

Stati, l'altra, quella del movimento integralista di Hamas che ha da sempre negato la

possibilità non soltanto di riconoscere lo Stato di Israele, ma ancor più di ammetterne

l'esistenza.

La Risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite è certamente un successo

politico della rappresentanza ufficiale della Palestina ma non coinvolge la rilevante

componente (circa il 40% della popolazione) del movimento di Hamas. Occorrerà verificare

se in un prossimo futuro ciò potrà rafforzare la posizione di Abu Mazen ed agevolare il

dialogo interno con il movimento integralista. Nell'ambito dei rapporti con lo Stato d'Israele

non credo che alla delibera dell'Assemblea possano conseguire concreti effetti sui negoziati

più volte intrapresi e interrotti con lo Stato d'Israele. È facile immaginare che con

l'attribuzione dello status di “Stato-non membro, osservatore” la Palestina di Abu Mazen

cercherà di portare il negoziato con Israele nell'ambito della stessa Assemblea dell’ONU, ma è

altrettanto facile immaginare, specie dopo aver sentito le dichiarazioni dell'Ambasciatore di

Israele prima del voto dell'Assemblea generale, che lo Stato di Israele rimarrà stabile nella

posizione fin oggi mantenuta dal negoziato diretto fra palestinesi ed israeliani, nell’ambito di

un rapporto bilaterale, semmai agevolato con l'intermediazione di altri paesi, quali gli Stati

Uniti o taluni Stati europei, ma certamente non condotto in ambiti multilaterali nei quali le

posizioni israeliane sarebbero certamente soccombenti.

Sotto il profilo del diritto interno delle Nazioni Unite, a prescindere dalla valenza

politica del nuovo “status”, dallo stesso non deriva alcuna conseguenza concreta. È ovvio,

infatti, che la possibilità di intervento in sede assembleare, ampiamente riconosciuta

all'autorità della Palestina dalla Risoluzione del 1998, continuerà a produrre i suoi effetti

senza alcuna rilevanza del fatto che il nuovo soggetto sia “Stato-non membro”.

Diversamente, invece, sul piano del diritto internazionale e del diritto delle

organizzazioni internazionali il riconoscimento della qualifica di “Stato” se, come è noto, la

Palestina è stata già ammessa come membro dell'Unesco (dal 23.9.2011 con soli 14 voti

contrari) è implicito che oggi, assunta la qualifica di “Stato”, la Palestina potrà più

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agevolmente chiedere l'ammissione ad altre organizzazioni internazionali, ed in particolare

alla famiglia delle Nazioni Unite, per una maggiore visibilità della propria azione nel contesto

delle relazioni internazionali. Ed, infatti, come già nel caso dell’Unesco, pur essendo

necessaria una regolare procedura di ammissione, manca in ogni caso l’ostacolo del veto, ben

noto all’ONU.

Per le altre conseguenze “giuridiche” che derivano da questo esplicito riconoscimento

della qualità di “Stato” alla Palestina, a prescindere dalle consuete relazioni internazionali bi o

plurilaterali che continueranno a svolgersi con gli Stati che hanno riconosciuto la Palestina,

occorre anzitutto riferirsi allo Statuto della Corte Internazionale di Giustizia. Quest’ultimo,

come è noto, prevede l’adesione automatica da parte degli Stati membri dell’ONU, ma non

così per gli Stati non membri. Ai sensi dell’art.93 questi possono aderire allo Statuto pur

senza essere membri delle Nazioni Unite. Occorre però una Raccomandazione del Consiglio

di Sicurezza in tal senso e la Risoluzione dell’Assemblea generale. Pur se in astratto la

Palestina, essendo stata considerata uno “Stato” ancorché non membro, potrebbe proporre la

propria adesione allo Statuto della Corte, poiché tale procedimento è subordinato alla

Raccomandazione del Consiglio di Sicurezza e quindi alla decisione dell’Assemblea generale,

è facile immaginare che si ripresenterebbe il tema del veto, almeno da parte degli Stati Uniti,

che ha impedito fin oggi l’ammissione della Palestina all’ONU. Analogamente deve

concludersi per l’art. 4 par.3 dello Statuto nel quale si prevede che gli Stati che abbiano

aderito allo Statuto, ancorché non membri dell’ONU, possono partecipare alla procedura di

elezione dei giudici della Corte sulla base di un accordo speciale concluso sempre

subordinatamente ad una Raccomandazione del Consiglio di Sicurezza e ad una decisione

dell’Assemblea generale.

Al contrario, invece, la Palestina potrebbe aderire allo Statuto della Corte Penale

Internazionale giacché l’art.125, par.3, che prevede l’adesione degli Stati, non la subordina ad

alcun preventivo parere o raccomandazione. Una volta parte contraente dello Statuto della

Corte, a seguito dell’accennata adesione, la Palestina potrebbe segnalare al Procuratore della

Corte uno o più casi di violazione di crimini previsti dallo Statuto compiuti da militari o

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autorità dello Stato di Israele o altri3. Ed anche se tutti conosciamo limiti di intervento della

Corte penale internazionale, il fatto stesso che la Palestina possa denunciare diversi casi al

Procuratore è certamente una conseguenza assai rilevante sul piano del diritto internazionale e

delle relazioni palestino-israeliane.

3Art.14 : “1. Uno Stato Parte può segnalare al Procuratore una situazione nella quale uno o più crimini di

competenza della Corte appaiono essere stati commessi, richiedendo al Procuratore di effettuare indagini su

questa situazione al fine di determinare se una o più persone particolari debbano essere accusate di tali crimini.

2. Lo Stato che sottopone il caso, indica per quanto possibile le circostanze rilevanti e presenta la

documentazione di supporto di cui dispone”.

Art. 15 “1. Il Procuratore può iniziare le indagini di propria iniziativa sulla base di informazioni relative ai

crimini di competenza della Corte”.

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Articoli

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DALLE FIGURE DELITTUOSE ASSOCIATIVE ALLA

NOZIONE DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

Salvatore Aleo Professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Catania

ABSTRACT: La materia che noi qualifichiamo della criminalità organizzata è stata oggetto nella storia della

codificazione delle figure delittuose autonome associative ed è stata considerata, così come sempre la categoria

del reato politico, difforme rispetto ai principi definiti generali ordinari del diritto e della responsabilità penale:

in ragione, l’una, della particolare pericolosità costituita dalla forma associativa, l’altra, della particolare

entità dei beni tutelati esposti a rischio. La qualificazione di criminalità organizzata risale agli anni settanta del

secolo da poco trascorso, sia per la diffusione ed entità dei fenomeni sia per l’affermazione e la diffusione della

teoria e delle nozioni generali dell’organizzazione.

La materia dei delitti associativi, della responsabilità penale a titolo associativo, tradizionalmente considerata

carente di tassatività e determinatezza, viene riempita di contenuti e di significati, della definizione, della prova

e dell’argomentazione, quindi della motivazione dei provvedimenti, dall’attraversamento della teoria generale

dell’organizzazione, e quindi dalla epistemologia della complessità. L’organizzazione è peculiare, invero

costituisce la peculiarità, della stessa categoria del reato politico, che viene parimenti arricchita e pure

ridefinita dalla teoria dell’organizzazione

Oggi si pone il problema di un approccio di carattere (il più possibile) generale e sistematico, dal punto di vista

penalistico, alle forme e ai fenomeni di criminalità organizzata, sia comune che politica: un approccio che

consenta il dialogo tra i vari sistemi giuridici e istituzionali, dei diversi Stati, differenti in modo particolare in

queste materie. Questo approccio presuppone il collegamento delle nozioni generali dell’organizzazione (diffuse

nei più diversi ambiti e settori scientifici) con le nozioni penalistiche ordinarie, le une e le altre comuni e fruibili

fra le diverse culture

PAROLE CHIAVE: Criminalità organizzata transnazionale; Convenzione di Palermo

1. Le figure delittuose associative nella nostra cultura giuridica. Matrici,

costruzioni, giustificazioni e obiezioni

La problematica che oggi viene definita della criminalità organizzata è oggetto nella

codificazione delle figure delittuose autonome associative.

L’autonomia delle figure delittuose associative, di questa responsabilità penale rispetto

a quella dei delitti oggetto e scopo dell’associazione, ha avuto sempre giustificazione nella

funzione di anticipazione, ovvero retrocessione, della soglia della risposta e della

responsabilità penale, in confronto a quella ordinaria dei delitti, in considerazione della

particolare pericolosità sociale costituita dall’associazione, diretta verso finalità delittuose. In

questa giustificazione è implicita la deroga del principio generale di non punibilità del mero

accordo (di commettere un delitto) per la particolare pericolosità dell’accordo associativo.

Un’altra difformità del delitto associativo, rispetto ai principi generali del diritto e della

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responsabilità penale, riguarda le carenze di determinatezza (e quindi di tassatività) di tali

nozioni di responsabilità: che fanno ritenere le medesime inaccettabili negli ordinamenti

inglese e statunitense.

In fondo questa giustificazione è parallela di quella dei criteri di punibilità dei delitti

politici, in termini di deroga dei principi generali del diritto e della responsabilità penale

(punibilità dell’istigazione, dell’accordo e dell’associazione, carenze di determinatezza delle

nozioni del reato politico), in considerazione della particolare entità dei beni tutelati ed esposti

a rischio nella categoria dei delitti politici.

La problematica dei delitti associativi è fortemente intrecciata con quella dei delitti

politici: in primo luogo perché nella categoria dei delitti politici sono molte le figure

delittuose associative; in secondo luogo, perché le stesse nozioni di ordine pubblico, di pace

pubblica, di pubblica tranquillità, per indicare l’oggetto della tutela e dell’offesa nei delitti di

associazione per delinquere, riguardano l’insieme della società, la stessa dimensione del

contratto sociale, fino al punto che l’associazione mafiosa è considerata come un delitto

politico (che contraddice le condizioni d’ordine e di sicurezza della “polis”, ovvero quale

“istituzione” antistatale) e che nel nuovo codice penale francese l’associazione di malfattori è

stata inserita fra i «crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e la pace pubblica».

Lungo la storia, nella codificazione, delle figure delittuose associative1, possono essere

fatte rilevare due tendenze diverse, contraddittorie.

Una tendenza, che possiamo definire di tipo sociologico, è quella di rilevazione e

definizione della figura delittuosa con riferimento diretto a un fenomeno di delittuosità

appreso nella sua dimensione sociale e storica concreta. Già l’associazione di malfattori fu

prevista nel codice napoleonico con riferimento diretto al fenomeno del banditismo, delle

bande armate e violente (degli chauffeurs) che aggredivano e depredavano i passeggeri. Si

pensi poi al modo in cui sono sorte nel nostro ordinamento le figure delittuose delle

associazioni sovversive (nel codice del 1930, con riferimento diretto e dichiarato ai

movimenti comunisti, socialisti ed anarchici), di associazione contrabbandiera (1896), di

associazione per la fabbricazione clandestina di spirito (1933), di ricostituzione del partito

1Ho sviluppato questa analisi nel volume Sistema penale e criminalità organizzata. Le figure delittuose

associative, Milano, 1999, 3ª ed..

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fascista e di banda fascista e monarchica (1947), di associazione razzistica (1975), di

associazione per delinquere relativa ai delitti sugli stupefacenti (1975) e poi associazione

finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope (1990), di associazione terroristica

(1979-80) poi anche internazionale (2001, dopo le Torri Gemelle), di associazione di tipo

mafioso (1982), di associazioni segrete (1982, nella legge di scioglimento della loggia

massonica P2), di associazione per delinquere diretta a commettere i delitti di schiavitù e

tratta di persone (2003).

Siamo oltre la semplice, banale, osservazione che qualsiasi nozione giuridica esprime

un dato rilevato nella realtà sociale e storica concreta, perché qui le figure corrispondono alla

emersione e dimensione di un fenomeno sociale aggregato, in atto e in via di svolgimento (e

cioè non solo di una determinata tipologia, astratta, di singoli eventi): fenomeno che va

contrastato; donde la logica emergenziale.

Una diversa tendenza, che possiamo definire di tipo tecnico-giuridico, è stata quella alla

progressiva astrazione e generalizzazione, dall’originaria figura dell’associazione di malfattori

alla figura dell’associazione per delinquere nella sua dimensione attuale.

Nel codice penale napoleonico (1810)2, fra i «Crimini, e Delitti contro la pace

pubblica», e nella medesima sezione con i delitti di vagabondaggio e di mendicità, fu previsto

il crimine di «Associazione di malfattori». Art. 265: «Ogni associazione di malfattori, diretta

contro le persone o le proprietà, è un crimine contro la pace pubblica». Art. 266: Questo

crimine esiste col solo fatto dell’organizzazione delle bande o di corrispondenza fra esse ed i

loro capi o comandanti, o di convenzioni tendenti a render conto, o a distribuire o dividere il

prodotto dei misfatti». Art. 267: «Quando questo crimine non fosse stato accompagnato né

susseguito da alcun altro, gli autori, i direttori dell’associazione, ed i comandanti in capo o

sottocomandanti di queste bande, saranno puniti coi lavori forzati a tempo». Art. 268:

«Saranno punite colla reclusione tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in

queste bande, e quelle che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande

o alle loro divisioni delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo

di unione».

2 Riporto dall’Edizione ufficiale del Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia, Milano, 1810.

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Nel codice napoleonico, fra i «Crimini contro la sicurezza interna dello Stato», vi erano

quelli di attentato, cospirazione, bande armate.

Nel codice penale toscano (1853)3 non furono previste le bande armate e nel titolo «Dei

delitti contro gli averi altrui» fu posta la previsione dell’art. 421: «§ 1. Quando tre o più

persone hanno formato una società, per commettere delitti di furto, di estorsione, di pirateria,

di truffa, di baratteria marittima, o di frode, benché non ne abbiano ancora determinata la

specie, od incominciata l’esecuzione; gl’istigatori e i direttori son puniti con la carcere da tre

mesi a tre anni, e gli altri partecipanti soggiacciono alla medesima pena da un mese ad un

anno». «§ 2. E se i membri della detta società hanno, in sequela di essa, tentato o consumato

un delitto; la pena di questo concorre con quella stabilita dal § precedente, secondo le norme

degli art. 72 e seguenti». «§ 3. In tutti i casi, contemplati dai precedenti §§ 1 e 2, si applica

ancora la pena accessoria della sottoposizione alla vigilanza della polizia».

Rispetto alla previsione del codice napoleonico della “banda” dei “malfattori”, qui si

previde molto più astrattamente la “società” formata da “tre o più persone” per commettere i

delitti “contro gli averi altrui”, altresì ponendone in evidenza la dimensione preparatoria e

stabilendone pene assai modeste. Nel codice napoleonico era poi prevista precipuamente la

reclusione per “tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in queste bande, e

quelle che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande o alle loro

divisioni delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di unione”.

CARRARA, che – come vedremo – fu contrario ai delitti di bande armate, tracciò questa

teoria dell’associazione delittuosa, in funzione di anticipazione, della soglia della risposta e

della responsabilità penale, in deroga del principio di non punibilità del mero accordo di

commettere un delitto, in considerazione della particolare pericolosità sociale costituita

dall’associazione, diretta verso finalità delittuose; e definì (isolò) e richiese la prova del «fatto

dello associarsi».

Sottolineando le profonde differenze della previsione del codice toscano rispetto

all’associazione di malfattori dei codici napoleonico, parmense e sardo, CARRARA (nel 1884,

nella fase di elaborazione del codice ZANARDELLI) distinse proprio la nozione di

3Codice penale pel Granducato di Toscana, Firenze, 1853.

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responsabilità per il «fatto della associazione»: «Sta bene che in tutte queste legislazioni il

solo fatto della associazione abbia una pena sua propria. Sta bene che si abbia sempre un

delitto in sé perfetto consumato col solo associarsi anche prima di qualunque altra lesione di

diritto. Sta bene che per ciascuno dei membri della associazione i quali commettano delitti

speciali, debba infliggersi la pena propria dello associarsi, oltre le pene speciali per gli altri

delitti ai quali abbia ciascuno di loro preso parte. Fin qui la somiglianza tra figura e figura può

illudere. Ma la illusione bisogna che si dilegui quando si vegga che a parallelo della pena del

carcere minacciata tra noi contro i capi, da tre mesi a tre anni, si trova nelle altre legislazioni

la galera fino a venti anni»4.

Dopo avere rilevato che «noi nella nostra Provincia non abbiamo tradizioni né di

briganti, né di bande, né di guerille, né di conventicole», CARRARA osservava che «Nella

figura dell’art. 421 [del codice toscano] la forza fisica oggettiva del malefizio tutta si

estrinseca nel vincolare a noi la volontà di altre due persone le quali hanno stipulato a favor

nostro un patto di commettere usurpazioni sulla proprietà altrui; di commetterle in beneficio

comune e di parteciparne il lucro con noi. Qui tutto finisce. La forza fisica oggettiva del reato

toscano di associazione a delinquere tutta si esaurisce in un effetto morale. Nessuno

abbandona il domicilio paterno. Non vi è provvista di armi; non vi è riunione di uomini in

attitudine minacciosa. È una società in partecipazione nella quale ciascuno opera

isolatamente, salvo le facilitazioni e i sussidi che l’occasione potrà richiedere. [...] È una

associazione che vuole essere punita eccezionalmente perchè la sua costituzione aggredirà i

diritti, possibilmente, di tutti i consociati, e non limitativamente i diritti di alcuni determinati

cittadini come nell’accordo ad un delitto determinato». (...) «Nelle bande, al contrario, vi è

ben altro apparato di forza fisica oggettiva. Si procede uniti in attitudine da soverchiare

chiunque s’incontra, da soverchiare qualunque resistenza; ed è questa la forza fisica oggettiva

del malefizio che lo denatura e lo rende enormemente più grave e più pauroso»5.

4CARRARA, L’associazione a delinquere secondo l’abolito codice toscano, in MANCINI (dir.),Enciclopedia

giuridica italiana, Milano, 1884, p. 1117. 5Ivi, pp. 1117-1118.

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In questa rappresentazione, la banda è costituita dalla effettività dell’attività sia

organizzativa che delittuosa, l’associazione dalla dimensione (organizzativa) meramente

intellettuale dello accordo (con una dimensione e almeno una proiezione di stabilità).

«Debbo dunque rettificare – continua CARRARA – ciò che dissi in critica dello illustre

PICCIONI al § 2094 del mio Programma. Il PICCIONI aveva scritto che il reato previsto dal

nostro art. 421 non era contemplato né dal codice francese, né dagli altri codici italiani; ed io

per un precipitato giudizio dissi equivocata questa opinione del mio maestro, perchè fui illuso

dalla somiglianza dei nomi. Migliori studi mi hanno disingannato. E dico ancora io col

venerato maestro che il delitto di associazione a delinquere è un delitto di creazione toscana,

e che quello che altrove (Francia, Parma, Sardegna) corre sotto il titolo di associazione di

malfattori è un titolo sostanzialmente differente nelle forze che lo costituiscono; è un titolo di

antichissima data, ma che non ha ragione d’esistere come titolo speciale bastando all’uopo i

titoli di violenza pubblica, di furto violento, ed altri derivanti dalla specialità dei diritti

aggrediti i quali vengono per tal guisa a rientrare tutti nelle rispettive nozioni scientifiche

aggravabili per le circostanze tutte soggettive od oggettive che ricorrono nei singoli casi». In

conclusione, secondo CARRARA, «La società civile ha la sua ragione di esistere nella necessità

della difesa dei diritti di tutti. Una società che nel suo seno voglia costituirsi col fine

determinato di offendere i diritti di tutti, è in perfetto antagonismo con la società civile, e

legittimamente questa ne decreta la repressione, perché nel fatto solo della sua costituzione

trova una forza fisica oggettiva sufficiente a renderne legittima la repressione. [...] Il codice

toscano [...] in quegli atti preparatori non ha già punito un tentativo, ma ha punito un delitto

consumato e perfetto»6.

Sembra utile riportare le considerazioni con cui CARRARA aveva contestato la

costruzione del delitto autonomo “politico” di banda armata, in seno alla Commissione del

1876 per l’elaborazione del codice penale dell’Italia unita: «Non possiamo consentire nelle

disposizioni che si riferiscono alle bande. Il codice penale francese, per quanto è a nostra

memoria, fu il primo a farne una speciale figura di delitto politico, staccandola senza bisogno

dal genere suo nel quale era naturalmente compresa. Ma l’Italia non è Francia né ha la Vandea

6Ivi, p. 1118.

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dalla quale guardarsi. E se per avventura si rivolta il pensiero alle provincie meridionali e

sicule non fu esatto il giudizio. Il brigantaggio in quelle provincie si metta pure la maschera

che crede possa più giovare all’equivoco. Non è un reato politico. Sotto la maschera del

brigante vi è l’uomo, e l’uomo brigante è un volgare malfattore. Del resto anche le

associazioni dei briganti in quanto volessero e potessero preordinarsi a scopo politico

necessariamente rientrerebbero nella nozione generale dell’attentato e ne esaurirebbero gli

estremi»7.

È noto, altresì, come CARRARA abbia omesso di illustrare, nel suo Programma del corso

di diritto criminale, la categoria dei delitti politici, in quanto non riducibili alla «tela di

principii assoluti e costanti, attorno ai quali come carne sulle ossa si avvolge la dottrina del

giure punitivo», e definiti, piuttosto che dalle «verità filosofiche», appunto razionali assolute e

universali, dalla «prevalenza dei partiti e delle forze», ovvero anche dalle «sorti di una

battaglia», cioè dalla contingenza e mutevolezza della storia e delle vicende politiche. «Perchè

non espongo questa classe» è proprio il titolo di quest’ultimo capitolo del Programma8.

CARLO FIORE, nel riferire le posizioni di CARRARA in tema di delitti politici ed

associativi, ha osservato che «In effetti, sia nella previsione delle varie ipotesi della

cospirazione politica, sia nell’incriminazione della condotta degli associati per delinquere, lo

Stato liberale operava in via di deroga ad un altro dei sacri principi del diritto penale

ottocentesco [oltre a quello, cioè, di «tassatività» della previsione legale], vale a dire la regola

per cui è assoggettabile a pena solo quell’atto che costituisce un “principio di esecuzione” del

reato, e non un mero atto di preparazione»9.

Il «commencement d’exécution», va ricordato, fu il criterio adottato nella definizione del

tentativo del codice napoleonico, poi seguito negli altri codici, e da cui nacque la distinzione

tradizionale fra atti esecutivi punibili e atti preparatori in generale non punibili. Questa

impostazione, e questo criterio, vanno considerati prefigurati alla condotta del singolo

individuo, che in generale nella fase esecutiva diventa riconoscibile nella direzione delittuosa

7CARRARA, Osservazioni e proposte delle sottocommissioni, Roma, 1877, pp. 9-10, riportato da INSOLERA,

L’associazione per delinquere, Padova, 1983, pp. 22-23. 8CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. VII, 1871, 4ª Prato, 1883, pp. 639 ss. 9FIORE, Il controllo della criminalità organizzata nello Stato liberale: strumenti legislativi e atteggiamenti della

cultura giuridica, in Studi storici, 1988, p. 423.

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e altresì è più scarsamente suscettibile del cambiamento della destinazione. La diversa

impostazione, e i diversi criteri di definizione, del tentativo del codice ROCCO vanno

considerati anche alla stregua della condotta plurisoggettiva: che dalla pluralità e sinergia

delle diverse condotte è più facilmente riconoscibile anche prima della fase esecutiva ed è più

scarsamente suscettibile del mutamento della destinazione. Difatti, solo nel codice ROCCO è la

previsione, dell’art. 115, di esclusione della punibilità per il mero fatto intellettuale

dell’accordo di commettere un reato: come limite formale inferiore, cioè, alla punibilità

definita a titolo di tentativo.

Al contrario, in confronto alla costruzione del tentativo secondo il criterio di “principio

di esecuzione” si è posto poi il problema di costruire la disciplina del complotto e della

cospirazione: il complotto e la cospirazione10 dei delitti politici nei codici francese, tedesco,

sardo-italiano e ZANARDELLI, il complotto di omicidio nel codice tedesco, la conspiracy dei

reati di maggiore gravità nel sistema anglosassone.

Merita di essere ricordato come nella Riforma della legislazione criminale toscana del

1876 il granduca Pietro Leopoldo, di fronte alla vaghezza dei delitti di lesa maestà, e

nell’impossibilità di definire questa categoria con sufficiente determinatezza, avesse deciso

radicalmente di abolirla. La disposizione dell’art. LXII della riforma leopoldina era appunto:

«Ordiniamo che siano tolte e cassate tutte le leggi che con abusiva estensione hanno costituito

e moltiplicato i delitti di lesa maestà come provenienti la maggior parte dal dispotismo

dell’Impero Romano, e non tollerabili in veruna ben regolata società. Ed a togliere un tale

abuso, abolito ogni special titolo di delitto di così detta lesa maestà, abolite come già si è

prescritto generalmente di sopra all’art. XXVII tutte le prove privilegiate anco in materia di

simili delitti ed abolita affatto la criminalità in tutte quelle azioni, che in sé non delittuose, lo

sono diventate in questa materia solo per la legge, tutte le altre dovranno considerarsi come

delitti ordinari nella loro classe rispettiva, più o meno qualificati secondo le circostanze, cioè

10 Sono termini corrispondenti: il termine complot del codice napoleonico fu tradotto cospirazione nell’edizione

ufficiale per il Regno d’Italia, cit., e così sono rimasti rispettivamente nella cultura francese e nella nostra.

Komplott è il termine del codice tedesco.

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furti, violenze, ecc. e come tali castigarsi non considerata la gravezza maggiore aggiuntavi

dalla legge col pretesto di lesa maestà»11. Questa esperienza è rimasta unica.

La tendenza alla generalizzazione della figura dell’associazione per delinquere ebbe un

passaggio fondamentale, di carattere sistematico, nel codice ZANARDELLI. La previsione

«Dell’associazione per delinquere» fu collocata nel titolo «Dei delitti contro l’ordine

pubblico».

Secondo la formulazione dell’art. 248, comma primo, «Quando cinque o più persone si

associano per commettere delitti contro l’amministrazione della giustizia, o la fede pubblica, o

l’incolumità pubblica, o il buon costume e l’ordine delle famiglie, o contro la persona o la

proprietà, ciascuna di esse è punita, per il solo fatto dell’associazione, con la reclusione da

uno a cinque anni».

Erano così indicati tutti i titoli del libro secondo del codice, nell’ordine in cui erano

previsti nel codice (compresi i delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie); tranne:

a) i delitti contro la sicurezza dello Stato, per i quali erano previste le figure associative

specifiche, corrispondenti alle nostre attuali di cospirazione politica e di banda armata, fra le

disposizioni comuni a quel titolo; b) i delitti contro la pubblica amministrazione (perché già

allora i legislatori ritenevano che i pubblici amministratori non possano costituire

un’associazione per delinquere, ovvero siano esenti dalla configurazione di tale delitto?); c)

gli stessi contro l’ordine pubblico, per i quali era prevista una figura delittuosa associativa

specifica (art. 251), da cui poi ha tratto origine la figura delle associazioni sovversive dell’art.

270 del codice ROCCO.

Secondo gli altri commi dell’art. 248, «Se gli associati scorrano le campagne o le

pubbliche vie, e se due o più di essi portino armi o le tengano in luogo di deposito, la pena è

della reclusione da tre a dieci anni». «Se vi siano promotori o capi dell’associazione, la pena

per essi è della reclusione da tre a otto anni, nel caso indicato nella prima parte del presente

articolo, e da cinque a dodici anni, nel caso indicato nel precedente capoverso». «Alle pene

stabilite nel presente articolo è sempre aggiunta la sottoposizione alla vigilanza speciale

dell’Autorità di pubblica sicurezza».

11 Il testo di questa disposizione è riportato da PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici. Contributo alla critica

ed alla riforma del titolo I, libro II, c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 7.

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La previsione dell’art. 249 era che «Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo 64

[la disciplina generale «Del concorso di più persone in uno stesso reato», e dunque fuori dei

casi che definiamo di concorso eventuale o esterno], dà rifugio o assistenza, o somministra

vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un anno».

«Va esente da pena colui che somministri vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto».

Nell’art. 250 era prevista la circostanza aggravante che «Per i delitti commessi dagli

associati, o da alcuno di essi, nel tempo o per occasione dell’associazione, la pena risultante

dall’applicazione dell’articolo 77 [cumulo materiale per le ipotesi di concorso materiale,

anche nei casi della nostra continuazione] è aumentata da un sesto ad un terzo».

Questa circostanza aggravante era stata aggiunta nel codice sardo alla disciplina

dell’associazione di malfattori del codice napoleonico.

Va fatto rilevare, in proposito, come nella storia delle figure delittuose associative le

circostanze aggravanti dei delitti commessi da persone che fanno parte dell’associazione

delittuosa o conformemente alle finalità di questa siano state ripetutamente inserite ed

eliminate, a dimostrazione della difficoltà, e problematicità, della definizione dei contenuti, e

dei limiti, delle relative nozioni di responsabilità.

La tendenza alla astrazione e generalizzazione della figura dell’associazione per

delinquere ebbe compimento (termine) nella previsione dell’art. 416 del codice Rocco,

secondo cui «tre o più persone si associano per commettere più delitti», dunque di qualsiasi

tipo.

Secondo MANZINI (che fu fra i compilatori del codice), «“Più delitti” sono anche due

soli» ed «anche quando, dato il modo come gli associati concertarono o eseguirono i fatti, si

debba applicare la norma sul reato continuato (art. 81 capov.). Non così allorché un delitto è

considerato elemento costitutivo o circostanza aggravante d’altro delitto (reato complesso: art.

84), perché in tal caso la unificazione giuridica corrisponde all’unità di fatto. Perciò, se, ad

es., un’associazione si propone di commettere una sola estorsione, sarebbe evidentemente

assurdo ammettere che il suo scopo sia stato di commettere più delitti solo perché

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nell’estorsione (art. 629) è compresa, come elemento costitutivo, la violenza privata (art.

610)»12.

Da un canto, può rilevarsi come la figura (di parte speciale) dell’associazione per

delinquere abbia carattere generalissimo: riguarda i delitti (cosiddetti “scopo”) di qualsiasi

possibile tipologia ed entità.

Dal punto di vista tecnico, va fatto rilevare, anche, come nei codici ZANARDELLI e

ROCCO le figure di cospirazione politica e di banda armata siano state previste fra le

disposizioni generali e comuni al titolo dei delitti contro lo Stato.

D’altro canto, può pure osservarsi che quando fu compiuto tale processo (che abbiamo

definito di tipo tecnico-giuridico) di astrazione e generalizzazione della figura

dell’associazione per delinquere, ha avuto anche inizio la legislazione speciale, ovvero la

frammentazione legislativa, in questa materia: per la ovvia esigenza di articolazione e

differenziazione della materia in relazione alle tipologie dei fenomeni e dei delitti; perché

nella stessa unica figura dell’associazione per delinquere è difficile ricomprendere puramente

e semplicemente tanto i ladri di autoradio quanto i grandi mafiosi o trafficanti di droga.

Oggi abbiamo numerosissime figure delittuose associative autonome, distinte dai

singoli delitti che costituiscono l’attività delle associazioni, nonché le circostanze aggravanti

di tali delitti realizzati conformemente alle finalità dell’associazione. Si pone, ovviamente, un

problema di sistemazione, di sistematizzazione, e necessariamente di semplificazione.

Dietro la contraddizione fin qui rilevata sta il fatto che la problematica

dell’associazione, ovvero dell’organizzazione, delittuosa, ha una dimensione di carattere

generale, e che può quindi essere costruita come di parte generale del diritto penale, ed una di

carattere speciale (secondo il tipo di fenomeni e di delitti) ovvero comunque di parte speciale

del diritto penale.

Quella appena formulata può essere considerata un’indicazione per la definizione

penalistica della problematica della criminalità organizzata, e quindi per la sua

sistematizzazione.

12MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. VI, Torino, 1946, p. 176.

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Quando fu introdotta nel nostro ordinamento la figura dell’art. 416 bis c.p.,

dell’associazione di tipo mafioso, da un canto, vennero rivolte due obiezioni: che la mafia è

una nozione sociologica e non è una nozione giuridica; che il giudice non deve lottare contro

nessuno, deve applicare la legge. D’altro canto, venne pure ritenuto, tanto dai fautori che dai

detrattori, che la figura serviva anche a superare ovvero semplificare problemi probatori

(aveva e poteva avere, cioè, una funzione di semplificazione probatoria) in confronto alla

figura dell’art. 416 c.p., cioè della comune associazione per delinquere.

Quest’ultima osservazione dev’essere contraddetta, sia in linea di principio che come

indicazione interpretativa. La figura dell’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis

c.p. è in rapporto di specialità con quella dell’art. 416 c.p., nel senso che ogni associazione di

tipo mafioso è un’associazione per delinquere, mentre non è vero il contrario, un’associazione

per delinquere può bene non essere di tipo mafioso. Elemento di specialità è il metodo

mafioso, che qualifica e anzi presuppone l’attività delittuosa dell’associazione13. In generale,

sembra difficilmente contestabile che la prova e l’argomentazione dell’associazione di tipo

mafioso richiedano un complesso di elementi più corposo in confronto all’associazione per

delinquere. Il fatto che in concreto si possa dimostrare l’associazione mafiosa a prescindere

dalla correlazione con un’attività delittuosa mi pare in ogni caso contrario al sistema.

La mafia è certamente una nozione sociologica, ed è anche una nozione giuridica,

secondo la definizione contenuta nel terzo comma dell’art. 416 bis c.p. Sarebbe, a mio avviso,

superficiale, e non servirebbe a contraddire l’obiezione riferita sopra, la considerazione che

ogni nozione giuridica diventa tale in quanto sia stata precedentemente rilevata nella società.

La figura dell’associazione di tipo mafioso è descritta, infatti, in relazione al fenomeno

mafioso nella sua dimensione sociale e storica concreta: come dice anche la precisazione

dell’ultimo comma dell’art. 416 bis, che «Le disposizioni del presente articolo si applicano

13 L’utilizzazione del metodo mafioso per controllare l’economia ovvero le competizioni elettorali (anziché cioè

per commettere delitti, della formula definitoria dell’art. 416 bis comma terzo c.p.), da un canto, costituisce e

quindi qualifica ulteriormente la realizzazione delle figure delittuose di estorsione (consumata o tentata), d’altro

canto, presuppone la storia delittuosa (intrinseca) dell’associazione, costituita da delitti. L’associazione, in

funzione di un programma delittuoso, di soggetti aventi storie criminali proprie anteriori, in concreto, non

potrebbe costituire la forza di intimidazione adatta al controllo del territorio; costituirebbe la figura della comune

associazione per delinquere; costituirebbe la figura dell’associazione di tipo mafioso solo nella effettività dello

avvalersi della forza di intimidazione, e dunque nella realizzazione di delitti.

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anche alla camorra, alla ’ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente

denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo

perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». Il riferimento

alle associazioni straniere è stato aggiunto con l’art. 11 lett. b-bis n. 4 d.l. 23.5.2008 n. 92,

conv. con modif. in l. 24.7.2008 n. 125; quello alla ’ndrangheta è stato aggiunto con l’art. 6

d.l. 4.2.2010 n. 4, conv. con modif. in l. 31.3.2010 n. 50.

Può dirsi che la nozione di organizzazione sia una nozione eminentemente sociologica,

perché riguarda una dinamica, un processo sociale in corso, nel corso del suo svolgimento. E

queste figure servono a cogliere la relazione del singolo con la dimensione organizzativa

dell’associazione delittuosa. In tal senso, può dirsi anche, sono figure senza (la descrizione

della) “fattispecie”: il modello normativo si riduce alla (necessaria ricostruzione della)

relazione, eminentemente di “partecipazione”, del singolo con la struttura dell’associazione.

Come abbiamo visto, tutte e comunque la stragrande maggioranza delle figure

delittuose associative hanno una dimensione marcatamente sociologica, a cominciare

dall’associazione di malfattori del codice napoleonico.

Vedremo come sia parallela e connessa a questa la problematica della “lotta” ovvero del

“contrasto” contro le forme e i fenomeni di criminalità organizzata: nel mentre le leggi stesse

sono state vieppiù intitolate, appunto, con i riferimenti alla lotta ovvero al contrasto contro le

organizzazioni criminali e le forme e i fenomeni di criminalità organizzata.

Vanno attraversate le osservazioni di FERRAJOLI su i «Lineamenti del diritto penale

speciale o d’eccezione» e «La mutazione sostanzialistica del modello di legalità penale»: «La

prima e più rilevante alterazione del modello classico di legalità penale nei processi

dell’emergenza consiste nella mutazione sostanzialistica – indotta dal paradigma del

“nemico” – di tutti e tre i momenti della tecnica punitiva» (vale a dire la definizione del

delitto, il processo, l’esecuzione della pena). «Questa mutazione colpisce innanzitutto la

configurazione della fattispecie punibile. E si esprime in un’accentuata personalizzazione del

diritto penale dell’emergenza, che è assai più un diritto penale del reo che un diritto penale del

reato. Le figure di qualificazione penale che hanno consentito questa personalizzazione sono

molte e svariate: i delitti associativi – banda armata, associazione sovversiva, insurrezione

armata contro i poteri dello stato, associazione di stampo mafioso o camorristico –, la

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categoria del concorso morale e l’aggravante della “finalità di terrorismo” quale disvalore

soggettivo dell’attività delittuosa: formule elastiche e polisense che si sono prestate, per la

loro indeterminatezza empirica e le loro connotazioni soggettivistiche e valutative, ad essere

usate come scatole vuote e a dare corpo a ipotesi sociologiche o a teoremi politico-

storiografici, elaborati a partire dalla personalità degli imputati o da interpretazioni

dietrologiche e complottistiche del fenomeno terroristico o mafioso. Il fatto, in queste figure

normative, sfuma nel percorso di vita o nella collocazione politica o ambientale dell’imputato,

ed è come tale tanto poco verificabile dall’accusa quanto poco confutabile dalla difesa. E si

configura tendenzialmente come un reato di status, più che come un reato di azione e di

evento, identificabile, anziché con prove, con valutazioni riferite alla soggettività eversiva o

sostanzialmente antigiuridica del suo autore. Ne è risultato un modello di antigiuridicità

sostanziale anziché formale o convenzionale, che sollecita indagini sui rei anziché sui reati, e

che corrisponde a una vecchia e mai spenta tentazione totalitaria: la concezione ontologica –

etica o naturalistica – del reato come male quiapeccatum e non solo quiaprohibitum, e l’idea

che si debba punire non per quel che si è fatto ma per quel che si è»14.

Il collegamento di FERRAJOLI dei delitti associativi, e segnatamente di quello di

associazione mafiosa, alla categoria del delitto politico può essere considerato simmetrico

della qualificazione dei fatti di mafia, di camorra e delle altre organizzazioni similari quali

«fatti eversivi dell’ordine costituzionale», nella legge istitutiva della Commissione

parlamentare antimafia della XII legislatura (art. 3, comma secondo, l. 30.6.1994 n. 430),

quella presieduta da Violante.

«Il delitto politico, come stabilì due secoli fa l’art. 62 del codice penale di PIETRO

LEOPOLDO, ove non equivalga a un delitto comune, non si giustifica come speciale figura

criminosa. Ho già detto [...] della possibilità di sopprimere o al più di ricondurre a delitti

comuni, commessi o tentati, molti degli attuali delitti contro la personalità dello stato: i

vilipendi, gli attentati, i delitti associativi e di cospirazione. Aggiungo ora che non c’è ragione

per non includere tra i delitti comuni gli altri pochi delitti politici che, al pari dei peculati o

delle corruzioni, ledono concreti beni giuridici di carattere pubblico: come il sabotaggio, lo

14FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, 2ª ed., 1990, pp. 858-859.

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spionaggio, l’usurpazione o l’impedimento di pubbliche funzioni. Quanto ai rimanenti delitti

politici, nella misura in cui hanno per oggetto ambigue ed astratte entità come “la personalità”

o l’“interesse politico” dello stato, non sono cosa diversa dagli antichi delitti di lesa maestà e

non se ne giustifica, ma ne va anzi esclusa, la punizione. Questa inconsistenza e vaghezza del

loro oggetto giuridico rimanda infatti inevitabilmente alla figura del tipo d’autore. E

comporta, come l’esperienza insegna, una distorsione sostanzialistica e soggettivistica delle

fattispecie, una perversione inquisitoria del processo penale e una connotazione del reo come

nemico che deve restare assolutamente estranea allo stato di diritto».

«Ne consegue che per il diritto non devono esistere delinquenti politici ma solo

delinquenti comuni: nel duplice senso che nessun fatto non contemplato come delitto comune

dev’essere penalizzato in ragione esclusiva del suo carattere “oggettivamente politico”, e

nessun delitto dev’essere trattato diversamente dagli altri in ragione del carattere

“soggettivamente politico” delle sue motivazioni. Sotto il primo profilo, ogni penalizzazione a

titolo di delitto “politico” si risolve nella tutela eccessivamente anticipata di figure di pericolo

astratto o presunto in contrasto con il principio di offensività, o anche, come accade nei delitti

associativi, in una duplicazione della responsabilità penale già fatta valere per delitti comuni,

come la detenzione o il porto di armi, gli atti di violenza commessi o tentati oppure il

concorso nella loro commissione o progettazione. Sotto il secondo profilo è ingiustificata e

pericolosamente arbitraria qualunque forma di discriminazione sulla base del tipo d’autore o

delle motivazioni del fatto. Ciò non vuol dire, ovviamente, che la personalità dell’autore e le

sue motivazioni politiche non debbano avere rilevanza sul piano dell’equità, cioè ai fini della

comprensione della specificità del fatto e della valutazione della sua gravità. E neppure

esclude che alle motivazioni politiche del delitto sia data rilevanza ai fini del divieto di

estradizione o di quei provvedimenti per loro natura straordinari che sono le amnistie e gli

indulti. Ciò che si esclude è solo che la natura “politica” del delitto possa giustificare la

configurazione di fattispecie penali speciali, o alterazioni legali della misura della pena o

peggio procedure speciali o eccezionali.

Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le altre figure di delitti e di delinquenti

speciali, parimenti riconducibili a complessive fenomenologie criminali – il brigantaggio, la

mafia, la camorra – e per di più neppure caratterizzate da una specificità in astratto dei beni

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protetti. Anche l’espulsione dal diritto penale di simili tipologie d’autore risponde a una

garanzia di certezza contro le perversioni sostanzialistiche e inquisitorie, nonché ad

un’elementare esigenza di uguaglianza. Si tratta infatti di figure informate al paradigma

costitutivo, e quindi contrarie al carattere esclusivamente regolativo che devono avere le

norme penali. Naturalmente, anche in questi casi la natura mafiosa o camorristica di un delitto

può essere considerata come un connotato particolarmente grave in sede di comprensione e di

valutazione equitativa del fatto. Ma neppure in questi casi si giustificano figure di reato

speciale, come è tipicamente, nel nostro ordinamento, l’associazione di tipo mafioso prevista

dall’art. 416 bis del codice penale in luogo della normale associazione a delinquere. Anche la

mafia, come il terrorismo, deve e può ben essere fronteggiata con i mezzi penali ordinari»15.

2. I diversi profili funzionali concreti delle figure delittuose associative

La giustificazione tradizionale della funzione delle figure delittuose associative e la

corrispondente ricostruzione del contenuto autonomo di questa forma di responsabilità penale

nell’anticipazione della soglia della risposta e responsabilità penale, in confronto a quella

ordinaria dei delitti, in considerazione della particolare pericolosità costituita

dall’associazione, diretta verso finalità di tipo delittuoso, lascia perplessi, appare in buona

misura contraddetta dalla realtà, ovvero abbastanza marginale in confronto alla realtà, sia

processuale, sia criminologia.

In concreto, infatti, per lo più, le associazioni delittuose vengono dedotte, anzi, ex post,

dalla ricostruzione del complesso di un’attività delittuosa, di una pluralità di delitti, e dal

collegamento di questi con un insieme di persone che ne è considerato – e che ne deve essere

dimostrato – struttura organizzativa. Anche per ciò che riguarda la posizione del singolo

nell’associazione, questa viene ricostruita e argomentata, pure indipendentemente da

comportamenti in sé delittuosi, comunque in correlazione con il complesso dell’attività

delittuosa dell’associazione, sia pregressa sia in via di svolgimento.

15Ivi, pp. 871-872.

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L’obiezione precedente ha natura eminentemente processuale. Ma una teoria penalistica

che non regge il confronto con la dimensione concreta processuale non può essere certo

condivisa e accettata.

L’identica obiezione vale, però, sul piano criminologico. In concreto, infatti, le

associazioni delittuose nascono proprio attraverso (durante e mediante) le attività delittuose,

nella, e dalla, realizzazione dei delitti, in concorso di persone, delle stesse persone, dalla

divisione ed eventuale riutilizzazione dei proventi dei delitti, dalla affermazione di figure

personali di vertice, dal coinvolgimento di soggetti con esperienza di attività delittuose.

È estremamente improbabile che un’associazione delittuosa nasca dall’accordo fra

soggetti incensurati per svolgere una futura attività delittuosa: nasce comunque dall’incontro

fra delinquenti in mezzo allo (durante lo) svolgimento di delitti, di attività delittuose, e si

evolve mediante nuovi progetti e il coinvolgimento di nuovi soggetti.

La giustificazione delle figure delittuose autonome associative secondo la funzione

cosiddetta di anticipazione è contraddetta addirittura formalmente dalla definizione

dell’associazione di tipo mafioso, dell’art. 416 bis comma terzo c.p.: «L’associazione è di tipo

mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del

vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per

commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il

controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o

per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od

ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di

consultazioni elettorali».

Nella norma è descritta l’attività tipica delle associazioni di tipo mafioso. Questa attività

non può essere configurata come lo scopo (futuro) dell’associazione, la quale ha dunque

dimensione (delittuosa) autonoma anteriore. Il dato di fatto di avvalersi della forza di

intimidazione e della condizione di assoggettamento e di omertà (il metodo mafioso), che è

definitorio dell’associazione di tipo mafioso, qualifica e anzi presuppone l’attività delittuosa

dell’associazione, con caratteristiche e diffusione tali da aver determinato la condizione di

condizionamento ambientale e di controllo del territorio di cui appunto gli associati si

avvalgono.

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Quando (L’associazione è di tipo mafioso quando...) è avverbio di tempo. Anche

secondo la Corte di cassazione, l’associazione i cui componenti debbano esercitare la forza

d’intimidazione con condotte minacciose per realizzare delitti di estorsione costituisce

un’associazione per delinquere, non un’associazione di tipo mafioso16.

Proprio nel senso precedente, l’associazione di tipo mafioso è stata definita

un’associazione «che delinque»17, il risultato della trasformazione ovvero evoluzione di fatto

della comune associazione per delinquere18. Possiamo dire che l’associazione di tipo mafioso

è nata come associazione per delinquere ed è diventata di tipo mafioso (attraverso l’attività e

la fama criminale). SPAGNOLO ha pure definito, per questo, l’associazione di tipo mafioso

come un delitto associativo a struttura mista o complessa, in confronto ai delitti meramente

associativi o associativi puri19.

L’obiezione qui svolta, all’analisi della funzione di anticipazione delle figure delittuose

associative (ovvero della funzione delle figure delittuose associative come di anticipazione

della soglia della risposta e della responsabilità penale in confronto a quella ordinaria dei

delitti e del diritto penale), incontra un limite, per ciò che riguarda il processo di formazione

reale delle figure di carattere politico: le associazioni di carattere politico nascono infatti da

una dimensione comunque intellettuale; e tuttavia le stesse associazioni di carattere politico

assumono dimensione propriamente criminale, e rilevanza penale concreta, solo nella, e

attraverso la, realizzazione di delitti. Così, addirittura, la nostra obiezione trova conferma.

Non si vuol dire, ovviamente, che l’associazione delittuosa, ovvero la partecipazione

all’associazione delittuosa, non possa consistere nella dimensione meramente intellettuale

dell’accordo. Si vuol dire che questa dimensione non può essere considerata né caratteristica

né prevalente nella realtà concreta. E più avanti si cercherà comunque di definire e affrontare

il problema così indicato in un modo (a nostro avviso) più scientifico: alla stregua della teoria

generale dell’organizzazione.

16Cass. I, ud. 30.1.1990, dep. 21.3.1990, Abbatista, in Cass. pen., 1990, p. 1709, n. 1345. 17SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 5ª ed. 1997, p. 51. 18TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, 2ª ed. aggiorn., 2008, pp. 127-128. 19SPAGNOLO, op. cit., pp. 64 ss.; e già Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in AA.VV.,

Beni e tecniche della tutela penale. Materiali per la riforma del codice, a cura del CRS, con la presentazione di

RAMAT, Milano, 1987, pp. 156 ss..

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Non si può contestare che la partecipazione all’associazione delittuosa sia una figura

delittuosa a consumazione anticipata. Ciò che si vuole sottolineare, qui, è che la funzione

concreta prevalente delle figure delittuose autonome associative non può essere indicata come

di anticipazione della risposta penale e della soglia della responsabilità rispetto al compimento

dei delitti.

La spiegazione (qui criticata) nei termini dell’anticipazione, in considerazione della

particolare pericolosità costituita dall’associazione, costituisce, fra l’altro, una giustificazione

della eccezionalità delle pratiche, nonché un alibi del reale abbassamento del livello

probatorio, dell’argomentazione e della motivazione, quindi delle garanzie.

Va fatto rilevare, altresì, come oggi la dimensione del delitto individuale sia divenuta

davvero marginale, dal punto di vista criminologico e della rilevanza ovvero della funzione

penalistica. E così il rapporto fra normale ed eccezionale, nel confronto fra delittuosità

individuale e criminalità organizzata, precipuamente in ordine alla funzione penale, si è

addirittura rovesciato.

Nel sistema anglosassone, abbiamo fatto cenno, è respinta la forma della responsabilità

penale per la partecipazione o appartenenza ad un’associazione ovvero organizzazione, per la

carenza di determinatezza: è considerata dalla Corte suprema statunitense incompatibile con i

principi costituzionali. Può dirsi, per certi versi, che il problema cacciato dalla porta gli rientra

dalla finestra: con la dilatazione ovvero diluizione dei nessi di responsabilità dei delitti

avvenuti nel contesto di una organizzazione a carico dei capi ovvero organizzatori della

stessa, e anche sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori della giustizia.

La figura della conspiracy è (formalmente) alternativa di anticipazione del tentativo, in

relazione a un delitto determinato, di una certa gravità, a dimensione o in un contesto

organizzativo. Concepita e teorizzata in funzione di anticipazione della soglia del tentativo20,

la figura della conspiracy non ha mai avuto in concreto questa funzione nella giurisprudenza

inglese e americana21.

20 Per questo vale la “proximity rule”, il criterio degli atti pericolosamente prossimi alla consumazione. 21 Cfr. GRANDE, Accordo criminoso e conspiracy. Tipicità e stretta legalità nell’analisi comparata, Padova,

1993. Ivi, p. 1: «Prestando fede alle descrizioni offerte dai giuristi dell’area di common law, la conspiracy risulta

destinata a punire in via generale il mero accordo per la commissione di un fatto di reato, ma non ha mai svolto

né in Inghilterra né negli Stati Uniti una simile funzione di anticipazione della tutela penale. A dispetto della

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Configurata, addirittura, unitamente con gli estremi del tentativo, come del consumato,

la conspiracy ha avuto in concreto funzioni affatto diverse: a) di aggravamento della

responsabilità, per i fatti realizzati a dimensione ovvero in contesti organizzativi; b) di

strumento del patteggiamento, di questa configurazione, per ottenere la collaborazione

dell’imputato (il componente di un’organizzazione criminale che può fornire indicazioni sulle

condotte dei capi dell’organizzazione), nel sistema della discrezionalità dell’azione penale; c)

ha consentito di attribuire a ciascun cospiratore la responsabilità penale a titolo di concorso

nel reato per ogni fatto realizzato da ogni altro cospiratore in esecuzione e durante la

permanenza del programma comune; d) ha consentito al giudice di discostarsi dal caso

precedente (ove il fatto era stato ritenuto irrilevante almeno penalmente) e di ritenere la

responsabilità penale per via della dimensione organizzativa del fatto (possono farsi gli

esempi della violazione delle cautele anti-infortunistiche o della violazione fiscale che siano

state concertate fra più persone nell’ambito dell’azienda).

Nei modi così indicati, la conspiracy è stata strumento, soprattutto processuale, di lotta

contro la criminalità organizzata.

Il riferimento alla giurisprudenza inglese e soprattutto americana in materia di

conspiracy va considerato assai significativo, della generale resistenza, nelle prassi

giudiziarie, all’anticipazione della soglia della responsabilità penale rispetto a quella del

tentativo. E costituisce una conferma dell’analisi fin qui svolta in relazione alla funzione reale

delle figure delittuose associative.

Infatti, la funzione qui definita di anticipazione è certo molto più facilmente

ipotizzabile, dal punto di vista criminologico e da quello giudiziario, in relazione a un singolo

delitto (che più persone stanno preparando, e della cui dimensione preparatoria si sia avuta

conoscenza) che in confronto a un’attività delittuosa complessa, costituita da una pluralità,

determinata o indeterminata, di delitti. Eppure, anche in confronto al delitto singolo, la teoria

dell’anticipazione non trova riscontri.

classificazione dogmatica della fattispecie criminosa in discorso in termini di inchoate crime, ossia come reato

“incompiuto”, la concreta applicazione giurisprudenziale dimostra come da sempre la conspiracy abbia assunto

all’interno degli ordinamenti inglese e statunitense un ruolo affatto differente».

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Nei confronti della teoria della (associazione delittuosa – come fatto intellettuale di

accordo – in funzione di) anticipazione (della soglia della risposta e della responsabilità

penale in confronto a quella ordinaria dei delitti e del diritto penale) possono rivolgersi alcune

altre osservazioni.

Una osservazione è che tale funzione dovrebbe restare assorbita e superata dalla

successiva attività di realizzazione dei delitti, c.d. scopo dell’associazione. E invece questo

problema non può porsi.

Secondo la nozione di associazione, come fatto intellettuale di accordo, la

partecipazione è costituita dalla (manifestazione di) adesione della persona e dall’accettazione

da parte (dei membri) dell’associazione.

Da un canto, l’ipotesi del soggetto che abbia manifestato la propria adesione

all’associazione e che poi non sia mai stato disponibile quando c’è stato bisogno delle sue

prestazioni dovrebbe essere suscettibile (ove se ne riscontrino gli estremi) del criterio generale

di non punibilità della desistenza.

D’altro canto, costituisce la partecipazione la relazione stabile di disponibilità, verso le

richieste e i bisogni dell’associazione, del soggetto che pure non abbia mai dato la propria

adesione formale.

Questi problemi si risolvono in termini di teoria dell’organizzazione.

L’ultima osservazione, che mi sembra molto importante, è che nessuno mai penserebbe

di ricostruire la problematica del concorso di persone nel reato con riferimento al momento e

al fatto dell’accordo, mentre pensiamo (pensano) che si possa ricostruire la problematica

molto più complessa dell’organizzazione criminale con riferimento alle manifestazioni

formali di accordo e di disponibilità: la cui prova, peraltro, non è mai disponibile, e viene

sostituita, spesso, da ricostruzioni assai congetturali.

La funzione svolta concretamente dalle figure delittuose associative può essere

considerata e definita, in primo luogo, di generalizzazione: di definizione della responsabilità

per il contributo personale dato alla struttura (quindi all’esistenza) e all’attività

dell’associazione, considerate in generale, e distintamente dalla responsabilità dei singoli

delitti che costituiscono questa attività. Tale funzione è, perciò, di distinzione: della

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responsabilità per il contributo dato in generale all’associazione dalla responsabilità per i

singoli delitti di questa.

La funzione può essere considerata e definita, inoltre, di interdizione, di tipo concreto e

dinamico, dell’esistenza e dell’attività dell’associazione delittuosa, considerata nella sua

dimensione generale, in via di svolgimento, nella fase stessa del suo svolgimento. Questa

funzione può essere considerata difforme rispetto alla funzione considerata ordinaria del

diritto penale, di prevenzione astratta e generale del tipo di fatto mediante la previsione della

pena (di cui sono poi corollari l’applicazione ed esecuzione). Di questa funzione sono

essenziali le misure di premialità della collaborazione con la giustizia e le misure di

prevenzione, personali e patrimoniali (che sono ricorrenti nella storia della prevenzione e

repressione delle forme e dei fenomeni di criminalità organizzata, comune e politica22): le une

e le altre tendono a disarticolare la dimensione generale organizzativa nelle sue risorse,

rispettivamente, personali e materiali.

Le nozioni appena indicate emergono dall’applicazione a questa materia della teoria

dell’organizzazione: entro cui, come vedremo, può essere ricondotta tutta la teoria

dell’associazione; mentre non mi sembra altrettanto vero il contrario.

Le figure delittuose associative sono diventate inoltre, presupposti, della progressiva

differenziazione del sistema penale nei confronti delle forme e dei fenomeni di criminalità

organizzata: in particolare, quelle di associazione terroristica, di associazione mafiosa, di

associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti, presupposti e baricentri di veri e propri

sotto-sistemi penali, con elementi di marcata differenziazione, sotto i profili della definizione

e determinazione della responsabilità penale, del processo (soprattutto dei modi di conduzione

delle indagini e anche di formazione della prova) e della esecuzione della pena detentiva (e

delle alternative alla detenzione).

In concreto, non v’è dubbio che le figure delittuose associative abbiano svolto e

svolgano anche una funzione probatoria, autonoma e specifica rispetto a quella dei singoli

22 Nei codici sono frequenti le misure di premialità della dissociazione e collaborazione degli autori dei delitti di

cospirazione politica, e nel codice napoleonico l’attentato contro la persona del sovrano era punito con la pena di

morte e la confisca dei beni del condannato, per sottrarre alla dimensione organizzativa, necessaria per il

compimento dei delitti politici, le risorse materiali. Il medioevo è una storia di collaboratori e spie nella difficile

distinzione fra il diritto penale, la politica, le lotte feudali e la pratica della guerra.

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delitti avvenuti nel contesto dell’attività. Questa funzione, che corrisponde, in effetti, al

contenuto autonomo (all’autonomia del contenuto) della responsabilità a titolo associativo,

pone tuttavia problemi sotto il profilo generale delle garanzie del cittadino e dell’esercizio del

diritto di difesa in particolare. Il problema si pone in modo precipuo in relazione alle

dichiarazioni e alla funzione dei collaboranti, ma riguarda di per sé il contenuto e

l’argomentazione della responsabilità a titolo associativo.

Le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia che Tizio sia affiliato o vicino al Clan

Tal dei Tali non sono, come tali, controvertibili, cioè a prescindere dalle (concrete e

molteplici) indicazioni circa il ruolo ovvero l’attività svolti da Tizio. Né il problema può

ritenersi risolubile nei termini (principali) della credibilità dei collaboratori. Se diversi

collaboratori dicono che Tizio il giorno x era nel luogo y a svolgere l’attività z, Tizio avrà

modo di dimostrare, eventualmente, il contrario, perché il fatto addotto o è vero o è falso.

Appare molto diversa la problematica della prova circa la relazione di un soggetto con la

struttura di un’associazione delittuosa.

Una considerazione riguarda la rilevanza progressivamente crescente della

responsabilità penale a titolo associativo: si sono moltiplicate, come abbiamo visto, le figure

delittuose autonome associative; è aumentata a dismisura la pena di queste. Si considerino, da

un canto, la pena dell’art. 421 del codice penale toscano del 1853 e le considerazioni in

proposito di CARRARA, sopra riportate, e d’altro canto, in modo precipuo, gli aumenti

avvenuti delle pene dell’associazione mafiosa e dell’associazione per gli stupefacenti dal

momento della introduzione di queste figure a oggi.

Queste figure, e queste pene, vanno riempite, necessariamente, di prove, e di

argomentazioni. In tal senso, soccorre la teoria dell’argomentazione. Anzi, può dirsi pure che

l’aumento delle pene dei delitti associativi, nonché delle stesse figure delittuose associative,

(come del resto, si vedrà, la stessa diffusione della nozione di criminalità organizzata)

corrisponde non solo alla crescente dimensione organizzativa delle attività delittuose (come di

tutte le attività umane) ma anche allo sviluppo e alla diffusione della teoria

dell’organizzazione, cioè della consapevolezza della problematica dell’organizzazione.

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3. Epistemologia della complessità, teoria dei sistemi e analisi

funzionalistica. Limiti della causalità, teoria dell’organizzazione e diritto

penale

Le carenze di tassatività e determinatezza delle nozioni di responsabilità dei delitti

associativi, come dei delitti politici, possono essere considerate corollari della complessità dei

dati oggetto della considerazione, della rappresentazione normativa e, concretamente, oggetto

di necessaria ricostruzione.

Per ciò che riguarda i delitti politici, si pensi alle nozioni di (compiere atti per)

sovvertire l’ordinamento costituito dello stato o sottoporre lo stato alle dipendenze di uno

stato straniero. La rilevanza della relazione del singolo non può essere concepita in generale

come causale (senza la quale l’evento non si sarebbe verificato nonché di per sé adeguata al

verificarsi dell’evento) e tuttavia, malgrado le ripetute giustificate obiezioni, queste nozioni

sono presenti in tutti gli ordinamenti.

Per ciò che riguarda i delitti associativi, da una parte, la prova della adesione formale

all’associazione non è frequentemente disponibile (e, peraltro, abbiamo visto, neppure può

essere considerata risolutiva), d’altra parte, la prova e l’argomentazione in concreto della

partecipazione, peggio del concorso esterno, sono state spesso assai discutibili, invero

insufficienti. Anche di queste nozioni, tuttavia, non si riesce a fare a meno.

Problema di carattere generale è che tutte le attività umane, e quelle delittuose, sono

realizzate a dimensione vieppiù complessa e organizzata. In tale dimensione i nessi causali

sbiadiscono fino a diventare non significativi. E tuttavia i singoli contributi sono, e vanno

considerati, rilevanti.

Per rappresentare la situazione del diritto penale oggi, e in confronto alla teoria moderna

della responsabilità, possiamo dire che quando vi siano più di un autore o più di una vittima,

già, la causalità (l’analisi di tipo causale) diventa insufficiente. Si pensi, così, rispettivamente,

alle problematiche della criminalità organizzata e dell’inquinamento, sotto i profili della

molteplicità degli imput e degli output.

La nozione di complessità è stata usata per la prima volta, ad esprimere l’analisi (e i

risultati dell’analisi) di tipo multifattoriale e contestuale, dal matematico americano WARREN

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WEAVER nel 194823. Ed è stata distinta in complessità organizzata e complessità non

organizzata, ad esprimere, rispettivamente, la problematica e la teoria dell’organizzazione e

l’analisi dei flussi. È stata ripresa, in tali termini dal biologo austriaco LUDWIG VON

BERTALANFFY, del Circolo di Vienna, che ha elaborato la teoria dei sistemi, con riferimento

eminentemente ai sistemi viventi24. Parallelamente, il sociologo tedesco NIKLAS LUHMANN ha

applicato il metodo funzionalistico e ha sviluppato la teoria dei sistemi in relazione ai sistemi

sociali, cominciando col riflettere in modo particolare sulla crisi della categoria, e dello stesso

pensiero, causale25. Grande studioso della complessità è stato ILYA PRIGOGINE, chimico e

fisico russo naturalizzato belga, vincitore del premio Nobel per la chimica nel 1977 per i suoi

studi sulla termodinamica dei sistemi complessi e in particolare per la sua teoria sulle

strutture dissipative (i vortici)26.

Il sociologo MARTINOTTI ha scritto che «l’organizzazione» «è la vera grande scoperta

della specie umana nel XX secolo»27. Io aggiungerei che la teoria e le nozioni

dell’organizzazione sono fra i dati culturali generali più importanti nel corso degli ultimi

quarant’anni.

La misura di quanto le nozioni della complessità e precipuamente dell’organizzazione

siano assolutamente trasversali, nonché fondamentali, delle scienze e della cultura mondiali

più recenti si coglie bene nel fatto che le voci Ordine/disordine, Organizzazione e Sistema

dell’Enciclopedia Einaudi siano state redatte proprio dal fisico-chimico PRIGOGINE, insieme

23WEAVER, Science and Complexity, in American Scientist, 1948, n. 36, pp. 536 ss. 24VON BERTALANFFY, Il sistema uomo. La psicologia nel mondo moderno, 1967, Milano, 1971; Teoria generale

dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, 1968, trad. it., Istituto Librario Internazionale, Milano, 1971. 25LUHMANN, Funzione e causalità, 1962, e Metodo funzionale e teoria dei sistemi, 1964, in Illuminismo

sociologico, 1970, trad. it., Milano, 1983, dove vedi la bella introduzione di ZOLO, Funzione, senso, complessità.

I presupposti epistemologici del funzionalismo sistemico. V. poi LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una

teoria generale, 1984, Bologna, 1990, e Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, 1983, Milano, 1995,

entrambe le edizioni italiane a cura di FEBBRAIO. 26NICOLIS e PRIGOGINE, La complessità. Esplorazioni nei nuovi campi della scienza, 1987, Torino, 1991;

PRIGOGINE - STENGERS, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, 1979, Torino, 1981, 1993, 1999;

PRIGOGINE, Le leggi del caos (da un ciclo di lezioni tenute all’Università Statale di Milano presso la cattedra di

Filosofia della scienza del prof. GIORELLO), Roma-Bari, 1993, 2006. 27 G. MARTINOTTI, Prefazione a CASTELLS, La nascita della società in rete, 1996, 2000, Milano, 2002, p. XXVI.

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con ISABELLE STENGERS, studiosa belga laureata in chimica che insegna filosofia della

scienza28.

La nozione di criminalità organizzata ha cominciato a essere usata in Italia solo a

partire dalla metà degli anni settanta, in relazione ai fenomeni dei sequestri di persona e di

diffusione degli stupefacenti ed ai primi gruppi terroristici. Negli Stati Uniti l’Organized

Crime Control Act(OCCA) del 1970 ha avuto riferimento ai reati tipici dei settori in cui

agiscono le organizzazioni criminali.

La diffusione progressiva della nozione di criminalità organizzata ha una spiegazione

sia reale sia culturale: va correlata, da un canto, alla dimensione organizzativa crescente delle

attività di tipo delittuoso, come di tutte le attività umane, e allo sviluppo delle dimensioni e

del livello di pericolosità delle organizzazioni criminali, d’altro canto, allo sviluppo e alla

diffusione della cultura, della teoria e delle nozioni dell’organizzazione, come abbiamo detto,

in tutti i settori della scienza e della cultura.

Torniamo alla epistemologia della complessità. Abbiamo detto che si tratta dell’analisi,

della metodologia e dei risultati dell’analisi, multifattoriale e contestuale: una molteplicità di

elementi sono analizzati nelle correlazioni (interazioni) reciproche e in un ambito sia spaziale

che temporale, quindi in modo dinamico e contestuale.

In generale possiamo definire sistema un insieme di elementi considerati nelle relazioni

reciproche e alla stregua di un ambiente. Una differenza di carattere culturale è che nelle

scienze della natura le nozioni di sistema e di organizzazione tendono ad essere

sovrapponibili, mentre nelle scienze umane e sociali la nozione di organizzazione implica

ulteriormente la libertà di scelta dell’individuo.

Secondo COASE, economista premio Nobel nel 1991 con studi di teoria

dell’organizzazione, l’organizzazione è caratterizzata dalla sostituzione nell’impresa delle

transazioni tipiche del mercato, ed è costituita da «isole di potere cosciente», cioè soggetti

liberi di scelte, a differenza di un organismo (come anche il sistema economico del mercato)

che «funziona da solo»29.

28PRIGOGINE ed STENGERS, voci Ordine/disordine, Organizzazione e Sistema dell’Enciclopedia Einaudi, Torino,

rispettivamente, vol. X, 1980, pp. 87 ss. e 178 ss., vol. XII, 1981, pp. 993 ss. 29COASE, La natura dell’impresa, 1937, in Impresa, mercato e diritto, Bologna, 1995, 2006, pp. 74-75.

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In effetti, concetto chiave posto in evidenza da PRIGOGINE (che tende così a definire in

modo unitario questa problematica) è quello di biforcazione, cioè di equiprobabilità di

verificarsi di eventi diversi al verificarsi di un dato evento. E in natura non c’è biforcazione

più sicura e semplice della libertà di scelta dell’individuo.

L’organizzazione può essere definita come la coordinazione dell’agire in vista di una

determinata finalità ed è costituita, fra una pluralità di persone, dall’insieme delle convenzioni

di carattere generale che tengono luogo degli accordi caso per caso.

Sono elementi dell’organizzazione coloro che si fanno garanti (e comunque si sono resi

tali, per effetto dei loro reiterati comportamenti) delle loro prestazioni, sulle quali, quindi, gli

altri, interni ed esterni all’organizzazione, possono fare legittimo affidamento, e fanno

affidamento. Questa correlazione fra garanzia e affidamento circa le prestazioni dei soggetti è

costitutiva di per sé dell’organizzazione. Che soggetti facciano affidamento sulle prestazioni

altrui è dato di per sé significativo dell’esistenza dell’organizzazione.

L’organizzazione va distinta dall’organigramma. Questo consiste nella

rappresentazione formale dei ruoli in una qualsiasi struttura organizzativa. L’organizzazione è

costituita dalla effettività del complesso delle relazioni funzionali, in una data struttura

(sistema) e in un dato contesto spazio-temporale (ambiente). In tal senso, ho già detto sopra, è

una nozione di carattere sociologico. L’organizzazione è un processo, un fenomeno, una

dinamica (contestualizzata).

L’organizzazione è caratterizzata dalla stabilità, della struttura e dell’analisi; è l’effetto

dell’analisi di una struttura in termini di stabilità, in un contesto (spazio-temporale).

Nella maggior parte dei casi le relazioni di disponibilità, fra la struttura e i soggetti che

la costituiscono, sono l’effetto di accordi di carattere formale. Ma le stesse possono dipendere

anche dalla reiterazione dei comportamenti, che per questo diventano oggetto dell’altrui

affidamento. Una caratteristica della problematica dell’organizzazione è la ricorsività, delle

relazioni e delle condotte.

In tal senso, abbiamo detto anche, la teoria dell’associazione può essere ricuperata

dentro la teoria dell’organizzazione (mentre non può dirsi il reciproco). Partecipazione è la

relazione funzionale stabile della persona con la struttura e l’attività dell’associazione. Questa

relazione dipende normalmente da un’adesione formale, ma poi diviene nella effettività delle

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reciproche disponibilità e condotte: tale, appunto, che vi sia (e si sia creato, di fatto) un

reciproco affidamento.

Degli amici che si vedono ogni sabato pomeriggio, per giocare a carte, ovvero ogni

domenica pomeriggio, per assistere alle partite alla televisione, sono una struttura organizzata.

Ciò normalmente avviene per la reiterazione nel tempo di determinati comportamenti,

essenziali di quella dimensione organizzativa.

Le persone che si conoscono normalmente si salutano, e quando una non saluta l’altra

questa si stupisce, s’interroga, s’indispettisce, si offende, ecc. Questo è un dato che dimostra,

e costituisce, la dimensione organizzativa della società. Ma gli uomini, e quelle persone in

concreto quando si sono conosciute (quando sono state presentate), non si sono messi

formalmente d’accordo che si devono salutare, e che si sarebbero salutati, ogni volta che si

sarebbero incontrati.

Il contratto sociale di ROUSSEAU è una finzione letteraria che esprime la dimensione

organizzativa, e normativa, della società: nessuno di noi l’ha mai sottoscritto formalmente,

eppure ne facciamo parte.

L’organizzazione, il processo di organizzazione, organizzativo, può dipendere da (dalle

direttive di) uno o più soggetti principali (organizzatori) o avvenire in modo spontaneo dal

basso: auto-organizzazione.

La differenza fra la partecipazione (o appartenenza) all’associazione delittuosa e il

concorso eventuale o esterno nel delitto associativo è costituita dal fatto che la partecipazione

è data dalla relazione funzionale stabile con la struttura organizzativa e (quindi) con l’attività

dell’associazione, il concorso esterno è dato dal contributo ovvero relazione personale

funzionale con effetti di stabilità sulla struttura e attività dell’associazione considerate in

termini generali.

Il contributo è caratterizzato dalla funzionalità, sia per la struttura organizzativa che per

l’attività di questa.

Il contributo dell’estraneo (che non riguarda le convenzioni di carattere generale

costitutive della dimensione organizzativa) deve essere (singolarmente) negoziato fra la

struttura dell’organizzazione e il soggetto che lo deve arrecare.

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Il contributo è funzionale per la struttura organizzativa e per l’attività dell’associazione

in quanto (pur non essendo caratterizzato dalla sua stabilità, comunque) ha effetti di stabilità

su tale struttura ed attività, considerate in termini generali. Altrimenti può essere (costitutivo

di) concorso in un singolo reato, o favoreggiamento.

Nell’analisi sistemica (quindi della complessità, delle condotte plurime,

dell’organizzazione) le relazioni sono apprezzabili in generale come funzionali.

Funzione è un concetto più debole di causa, in quanto non è “determinante”, ma è

espressione di un’analisi molto più ricca, appunto multifattoriale e dinamica.

La causalità è una relazione binaria fra eventi (espressione della logica formale binaria,

che presuppone la predefinizione formale delle tipologie degli eventi, cioè del tipo dell’uno e

dell’altro), nei termini della riproducibilità-evitabilità della successione (è espressione di un

pensiero normativo: è la spiegazione di un evento difforme rispetto al corso che può essere

considerato normale degli eventi, presuppone la ricerca delle leggi di natura, il confronto con

le leggi universali che governano il mondo, ed esprime l’aspirazione e l’idea circa la

possibilità di riprodurre o evitare l’evento); è esplicativa (tende a rispondere alla domanda

perché?).

Funzione è la relazione di co-variazione fra grandezze (non tra eventi): quindi è la

relazione fra grandezze numeriche, variabili (alla stregua del contesto). Funzione è la

relazione di utilità, in termini di probabilità dell’evento, di rapporto fra costi e benefici, di

massimizzazione dei risultati, quindi di probabilità del miglior risultato, di minimizzazione

dei costi e dei rischi.

La connotazione di astrattezza e generalità della funzione è data dalla dimensione

numerica.

La causalità è espressione di un’analisi segmentata della realtà: A è causa di B, B è

causa di C, ecc., mediante collegamento fra coppie di significati, di tipo (tendenzialmente)

decontestuale: la ricerca delle leggi di natura, delle leggi universali che governano il mondo.

La funzione è espressione dell’analisi sistemica (il complesso delle relazioni funzionali che

costituiscono il sistema nell’ambiente) ed è connotata dalla stabilità ovvero persistenza

dell’analisi: che è analisi di fenomeni, di processi, anziché di eventi (singoli). L’analisi

sistemico-funzionalistica è descrittiva (tende a rispondere alla domanda come?, in che

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modo?), di movimento di insiemi (quindi di fenomeni in contesti, spazio-temporali), e

predittiva, previsionale (le previsioni del tempo, la teoria dei flussi).

La causalità è caratterizzata da, ed esprime culturalmente l’aspirazione e la pretesa di

definire, una soglia semantica (di tipo qualitativo): la condizione senza la quale l’evento non

si sarebbe verificato (la condicio sine qua non). La nozione di causalità adeguata esprime un

significato ulteriore, e non sostitutivo, rispetto alla condicio sine qua non: di tipo quantitativo

(probabilistico, e già, verosimilmente, contestuale): la condizione, senza la quale l’evento non

si sarebbe verificato, al verificarsi della quale è definibile una certa probabilità del verificarsi

dell’evento, nelle condizioni date.

La nozione di funzione è senza soglia: l’infinitamente piccolo può essere utile

all’infinitamente grande; ovvero, adottato un criterio di misura, tutto è misurabile: passiamo

da un modello di analisi qualitativo a un modello quantitativo. È vero anche il reciproco:

quando ragioniamo in termini quantitativi, siamo già passati all’analisi di tipo funzionalistico.

BERTAND RUSSELL ha criticato in modo radicale nel 1913 l’analisi causale. Il significato

più evidente della sua riflessione è di sostituire l’analisi quantitativa a quella di tipo

formalistico-qualitativo.

Scrive RUSSELL all’inizio del saggio Sul concetto di causa30: «Nel saggio che segue

intendo, primo, sostenere che la parola “causa” è legata tanto inestricabilmente a idee

equivoche da rendere auspicabile la sua totale espulsione dal vocabolario filosofico; secondo,

ricercare quale principio, se ve n’è uno, viene applicato nella scienza in luogo della supposta

“legge di causalità”, che i filosofi immaginano venga applicata; terzo, mettere in rilievo certe

confusioni, specie in rapporto con la teleologia e col determinismo, che mi sembrano

connesse con concetti erronei relativi alla causalità».

«Tutti i filosofi, di ogni scuola, immaginano che la causalità sia uno degli assiomi o

postulati fondamentali della scienza; e invece, fatto strano, nelle scienze più progredite, come

l’astronomia gravitazionale, la parola “causa” non compare mai. In Naturalismo e

agnosticismo, il dottor JAMES WARD fa di ciò un motivo di lamentela nei confronti della

30 È la memoria presidenziale diretta alla Aristotelian Society nel novembre 1912, pubblicata nell’annata 1912-

13 dei Proceedings di quella società, trad. it. in RUSSELL, Misticismo e logica e altri saggi, Milano, 1980,

Milano, 1993, pp. 170 ss.

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fisica: il compito di quanti vogliono accertare la verità ultima sul mondo, pensa

evidentemente WARD, dovrebb’essere di scoprire le cause, e viceversa la fisica non le ricerca

mai. A me sembra che la filosofia non dovrebbe assumersi simili funzioni legislative, e che il

motivo per cui la fisica ha smesso di ricercare le cause è che, in effetti, cose del genere non

esistono. Secondo me, la legge di causalità, come molto di ciò che viene apprezzato dai

filosofi, è il relitto di un’età tramontata e sopravvive, come la monarchia, soltanto perché si

suppone erroneamente che non rechi danno»31.

Secondo RUSSELL, «le leggi della successione probabile, utili nella vita quotidiana e nei

primi passi di una scienza, tendono a essere sostituite da leggi del tutto diverse non appena

una scienza progredisce. La legge di gravità servirà d’esempio per comprendere che cosa

accade in ogni scienza sviluppata. Nei moti dei corpi reciprocamente attraentisi, non vi è

niente che si possa chiamare una causa e niente che si possa chiamare un effetto; vi è soltanto

una formula. Si possono scoprire certe equazioni differenziali che valgono in ciascun istante

per ogni particella del sistema e che, data la configurazione del sistema e date le velocità in un

istante, oppure le configurazioni in due istanti, rendono teoricamente calcolabile la

configurazione in qualsiasi istante precedente o successivo. Vale a dire, la configurazione in

un istante è una funzione di quell’istante e delle configurazioni in due istanti dati. Questa

affermazione vale in tutta la fisica, e non soltanto nel caso particolare della gravità. Ma in un

sistema del genere non vi è nulla che si possa propriamente chiamare “causa” e nulla che si

possa propriamente chiamare “effetto”».

«Indubbiamente il motivo per cui la vecchia “legge di causalità” ha continuato così a

lungo a pervadere i libri dei filosofi è semplicemente questo: l’idea di una funzione non è

familiare alla maggior parte di loro, e quindi essi ricercano una formula indebitamente

semplificata. Non si pone il problema della ripetizione di “una stessa” causa la quale produce

“uno stesso” effetto; la costanza delle leggi scientifiche non consiste in alcuna analogia di

cause e di effetti, bensì in un’analogia di rapporti. E anche “analogia di rapporti” è una frase

31Ivi, p. 170.

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troppo semplice; “analogia di equazioni differenziali” è l’unica frase corretta. È impossibile

porre esattamente la cosa in un linguaggio non matematico [...]»32.

Ho detto sopra che l’analisi causale è di tipo (tendenzialmente) decontestuale. RUSSELL

scrive che «Il caso in cui si dice che un evento A “causa” un altro evento B, che i filosofi

reputano fondamentale, è in realtà soltanto l’esempio più semplice di un sistema praticamente

isolato. Può succedere che, in conseguenza di leggi scientifiche generali, ogni qual volta si

verifica A durante un certo periodo, esso sia seguito da B; in tal caso, A e B formano un

sistema praticamente isolato durante quel periodo. Ma se questo accade, bisogna considerarlo

un colpo di fortuna: sarò sempre dovuto a circostanze speciali, e non si sarebbe avverato se il

resto dell’universo fosse stato differente, benché soggetto alle medesime leggi»33.

In effetti, possiamo dire, l’analisi del “sistema” è già come tale funzionalistica; ovvero,

funzionalistica è l’analisi dei sistemi complessi: meglio, funzionalistico è il metodo d’analisi

dei sistemi complessi.

Secondo LUHMANN, appunto, nel saggio Funzione e causalità, del 1962, «L’analisi

funzionalista non mira alla registrazione dell’essere nella forma di costanti essenziali, ma alla

variazione di variabili nell’ambito di sistemi complessi»34. «Il metodo funzionalista analizza

le caratteristiche di un sistema rispetto ad altre possibilità equivalenti, dunque anche rispetto a

possibilità di cambiamento, di scambio e di sostituzione, nonché alle ripercussioni di queste

all’interno del sistema. Tuttavia, tale metodo non giunge all’individuazione delle cause di un

determinato cambiamento, né alla previsione di esso»35.

Secondo LUHMANN, ogni definizione causale può essere oggetto di rappresentazione in

termini funzionalistici, mentre non è vero il contrario, nel senso che ogni rappresentazione

funzionalistica non è suscettibile in quanto tale di definizione causale.

«La critica del funzionalismo di impronta causalistica non va fraintesa come critica

della causalità in quanto categoria conoscitiva. Essa non ha lo scopo di abolire la causalità, né

tantomeno si preoccupa di sottolineare l’esistenza di un contrasto tra la ricerca causalistica e

quella funzionalista. Il risultato di un’impostazione del genere sarebbe la riedizione della

32Ivi, p. 183. 33Ivi, p. 187. 34LUHMANN, Funzione e causalità, cit., p. 11. 35Ivi, p. 12.

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vecchia distinzione tra causalità teleologica e causalità meccanica. La nostra critica si pone

invece l’obiettivo di invertire il rapporto di discendenza esistente fra la relazione causale e la

relazione funzionale: la funzione non è un tipo particolare di relazione causale; al contrario, è

la relazione causale a costituire un caso di applicazione dell’ordine funzionale». (...) «In un

senso oggi difficilmente concepibile, l’antichità e il medioevo concepivano la causalità come

una relazione finita riferita all’essere come al proprio fondamento. Dall’inizio dell’era

moderna, invece, la problematica dell’infinito si è fatta assillante nel campo della causalità.

Ogni affermazione causale rimanda implicitamente all’infinito da diversi punti di vista. Ogni

effetto ha un numero infinito di cause, così come ogni causa ha un numero infinito di effetti.

A ciò va aggiunto che ogni causa può essere combinata con altre o sostituita da altre in infiniti

modi, il che produce corrispondentemente una molteplicità di differenze al livello degli

effetti. Infine, ogni processo causale può essere da un lato suddiviso infinitamente al suo

interno, dall’altro sviluppato in avanti fino all’infinito».

«Se si tiene presente questa problematica, ogni interpretazione ontologica della causalità

risulta priva di significato. Non è più possibile, infatti, interpretare causa ed effetto come

determinate situazioni dell’essere, individuando nella causalità una relazione di invarianza fra

una causa e un effetto. Non può essere giustificata l’esclusione di tutte le altre cause, insieme

ai rispettivi effetti. È vero che si può giungere ad affermazioni formalmente corrette con

l’aiuto della condizione “ceterisparibus”, che rappresenta la “exculpingphrase”, una sorta di

formula magica per le scienze sociali. Ma tali affermazioni sono prive di valore empirico se

l’esclusione di tutti gli altri fattori causali è irrealizzabile di fatto. È proprio questo compito

che la scienza sociale non è in grado di assolvere»36.

«Gli elementi del processo causale, siano essi causa o effetto, una volta utilizzati come

criteri di riferimento funzionali, non sono intesi nella loro attualità ontologica, ma sono

assunti in quanto problemi. L’analisi funzionalista si distingue da ogni analisi di tipo

teleologico o meccanico per il fatto che non imposta il proprio concetto fondamentale nella

forma di un’ipotesi empirica. Non si presuppone o non si suppone che determinate cause

esistano effettivamente e spieghino perciò il verificarsi di determinati effetti o viceversa. Né si

36Ivi, p. 13.

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postula che un organismo sopravviva effettivamente, che un sistema si mantenga in equilibrio

o cose del genere. Il fenomeno a cui ci si riferisce è visto come un problema, il che può

significare una cosa soltanto, e cioè che la validità delle analisi funzionaliste non dipende dal

fatto che nel caso specifico il problema in discussione venga risolto, l’effetto previsto si

produca, il sistema preso in considerazione sopravviva. Ciò significa allora che un enunciato

funzionalista non riguarda una relazione di causa ed effetto, ma i rapporti interni a una

pluralità di cause o di effetti e quindi la rilevazione di equivalenze funzionali»37, cioè (per

dirla col linguaggio di LUHMANN) delle alternative (delle possibilità) funzionalmente

equivalenti per la risoluzione di un problema.

«Potremmo riassumere la critica fin qui svolta affermando che la sopravvivenza di un

concreto sistema di azione non è idonea a costituire il criterio di riferimento per analisi

funzionaliste. Un sistema di azione costituisce il tema e il campo di indagine, non anche

contemporaneamente il filo conduttore teorico di un’analisi funzionalista. Allo scopo di

formulare una tale teoria, il metodo delle equivalenze funzionali è in grado di fornire

indicazioni più valide di quelle ricavate dal metodo in uso nella scienza causalistica. Non si

tratta di dimostrare che le unità di riferimento sono effetti regolarmente prodotti da

determinate cause. Occorre, al contrario, individuare entro un determinato sistema d’azione

quei criteri problematici che regolano le possibilità di variazione del sistema. Un certo criterio

di riferimento deve poter fungere da criterio per decidere circa l’equivalenza di determinati

dati di fatto. Un tale criterio definisce quindi un ambito di flessibilità e di capacità di

adattamento, di indifferenza verso le deviazioni e di tolleranza nei confronti di contraddizioni,

un ambito di libertà riservato alla scelta di soluzioni che, rispetto al criterio al quale ci si

riferisce, sono ugualmente utili o per lo meno ugualmente innocue. Il problema della

sopravvivenza di un sistema di azione deve essere quindi ricondotto a una serie di

interrogativi astratti, scelti in modo tale da essere capaci – proprio in base al loro carattere

astratto – di rivelare le equivalenze funzionali, contribuendo a una sorta di controllo

generalizzato del sistema»38.

37Ivi, p. 15. 38Ivi, p. 17.

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«L’obiettivo della verifica cessa di essere quello di accertare l’esistenza di un nesso

costante fra determinate cause e determinati effetti e diventa quello di accertare l’equivalenza

fra più fattori causali collocati sullo stesso piano. Non s’indaga più per sapere se A ha sempre

(o con una ben determinata probabilità) per effetto B, ma per sapere se A, C, D, E sono

funzionalmente equivalenti nella loro capacità di produrre l’effetto B»39.

Nel saggio su Metodo funzionale e teoria dei sistemi, del 1964, LUHMANN scrive che

«La teoria dei sistemi sociali contribuisce a precisare la classe delle alternative

funzionalmente equivalenti delle quali si dispone per risolvere un determinato problema,

rendendo così possibile la spiegazione o la previsione. Il problema non sta nella possibilità o

meno di formulare una previsione, ma nella sua specificazione. Le previsioni devono

comprendere per principio l’intera classe delle alternative funzionalmente equivalenti che

vengono prese in considerazione come soluzione di un determinato problema»40.

«La moderna teoria dei sistemi ha due predecessori: il concetto di organismo e il

concetto di macchina. Essa deve i suoi suggerimenti più importanti ai processi di dissoluzione

che hanno finito per decomporre e trasformare i modelli classici dell’organismo vivente e

della macchina meccanica. La biologia contemporanea non concepisce più l’organismo come

un essere animale, le cui forze spirituali integrerebbero le singole parti in un insieme, ma

come un sistema adattivo che reagisce al mutare delle condizioni e degli eventi ambientali

compensando, sostituendo, bloccando o integrando i fattori di mutamento con il ricorso a

prestazioni proprie, allo scopo di mantenere in questo modo invariata la propria struttura

(omeostatica). Oggi le macchine si costruiscono sempre più non come semplici strumenti per

raggiungere uno scopo produttivo specifico, ma come impianti auto-regolativi che reagiscono,

secondo programmi precedentemente forniti, al variare delle informazioni ambientali con

prestazioni variabili, tendenti in questo modo non semplicemente a realizzare un prodotto

permanentemente uguale, ma a consentire oltre a ciò, di fronte a condizioni mutevoli, il

soddisfacimento uniforme di scopi concepiti in termini più astratti (cibernetica)»41.

39Ivi, p. 23. 40LUHMANN, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, cit., p. 40. 41Ivi, p. 42.

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«La teoria dei sistemi di tipo funzionalistico, quale viene alla ribalta nella scienza

sociale, ma anche nella recente biologia, nella tecnica dei sistemi di regolazione automatica e

nella teoria psicologica della personalità, non può più essere compresa a partire da presupposti

di tipo ontologico»42. «[...] le tecniche bianco e nero della logica ontologica non sono più

adeguate ad affrontare i compiti nuovi, ai quali peraltro la ricerca ha già cominciato a porre

mano. La logica classica della contraddizione semplice sembra gradualmente cedere il posto

ad una tecnica analitica di astrazione del problema. La specificazione e l’astrazione della

problematica sono i presupposti metodologici della soluzione del problema, sia nella teoria

che nella prassi»43.

«La teoria funzionalistica è una teoria che riguarda il rapporto fra sistema e ambiente.

Essa non si limita a osservare la vita interna del sistema, a differenza, ad esempio, della

scienza dell’organizzazione di tipo classico, che esamina esclusivamente l’organizzazione

stessa, o della scienza giuridica che si occupa soltanto del sistema delle norme giuridiche. La

teoria funzionalistica include nelle proprie riflessioni anche l’ambiente, nella misura in cui

esso assume un ruolo per la stabilizzazione del sistema»44.

Sembra utile riportare i brani successivi proprio in relazione alla nostra analisi circa i

rapporti (e le differenze, e l’evoluzione) fra le nozioni di associazione e di organizzazione.

«Questo dato è particolarmente evidente della crescente critica della nozione di scopo

che nel pensiero tradizionale, come oggi siamo in grado di vedere, aveva isolato

reciprocamente il sistema e l’ambiente. La vecchia idea secondo la quale tutte le associazioni

umane perseguivano un determinato scopo e andavano considerate come mezzi in funzione di

quello scopo, aveva consentito che ci si limitasse all’analisi dei nessi che intercorrono fra

scopo e mezzo, nonché dei fattori che perturbano tali nessi. Lo scopo veniva concepito come

il criterio di perfezionamento e di razionalizzazione del sistema e serviva

contemporaneamente da fattore di demarcazione della ricerca. Contrariamente a ciò, la teoria

dei sistemi di impronta funzionalistica considera ormai lo scopo soltanto come una formula-

guida secondo la quale si possono impostare i rapporti fra sistema e ambiente (ad es.

42Ivi, p. 43. 43Ivi, p. 46. 44Ivi, p. 43.

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attraverso prestazioni di scambio), formula che non è né indispensabile, né invariabile, né da

sola determinante, ma che serve a facilitare la regolazione del sistema in rapporto

all’ambiente, presentando ai membri del sistema una sorta di comoda e istruttiva formula

sostitutiva del problema reale che consiste nella stabilità. Se la scelta dello scopo è giusta, i

membri del sistema possono nutrire la convinzione che il sistema possa continuare a esistere

nonostante un ambiente difficile, fino a quando esso si mostrerà adeguato al proprio scopo. In

questo modo la funzione svolta dalla scelta dello scopo ai fini dell’invarianza di un sistema (a

differenza della motivazione degli scopi attraverso il ricorso a valori) può diventare oggetto

della ricerca. Diventa possibile ipotizzare l’esistenza di alternative ai sistemi orientati

specificamente in direzione di uno scopo. La misura in cui un sistema si orienta rispetto ad

uno scopo può essere trattata come una variabile»45.

L’ambiente è essenziale per la definizione del sistema e della funzione.

«Un insieme di azioni costituisce dunque un sistema nella misura in cui di fronte ai

mutamenti dell’ambiente dispone di più di un’alternativa per reagirvi, alternative che sono

funzionalmente equivalenti sotto determinati punti di vista astratti, propri del sistema.

L’invarianza relativa non è dovuta allora all’abbinamento rigido di determinati mutamenti

sistemici e determinati mutamenti ambientali, ma si deve all’esistenza d’istituzioni selettive

entro il sistema la cui funzione non dipende dalla possibilità o meno di prevederne il

funzionamento. Siccome le singole alternative sono funzionalmente equivalenti entro una

determinata prospettiva, il sistema può, a un livello adeguato di astrazione, restare indifferente

rispetto alla scelta»46.

Secondo LUHMANN «La sociologia si colloca in un rapporto di rottura rispetto alla

razionalità della vita quotidiana, poiché la categoria dello scopo ha ormai largamente perso il

proprio credito quale concetto scientifico fondamentale. Se è vero che chiunque voglia

spiegare razionalmente e rendere comprensibile la propria azione, lo fa scegliendo come

punto di riferimento determinati scopi e motivando l’azione stessa come un mezzo adeguato,

45Ivi, pp. 43-44. 46Ivi, p. 49.

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è vero anche che la categoria dello scopo non gode ormai più della stessa validità quale punto

di riferimento ultimo delle analisi scientifiche dell’azione»47.

Parallela, abbiamo detto, è la costruzione della teoria dei sistemi di VON BERTALANFFY,

condotta con riferimento particolare ai sistemi viventi.

Ne Il sistema uomo, del 1967: «La visione del mondo di ieri, il cosiddetto universo

meccanicistico, era un mondo di “cieche leggi naturali” e di entità fisiche moventisi a caso.

Caos era il cieco gioco degli atomi. Per accidente, apparvero sulla terra primordiale, come

precursori di vita, composti organici e infine molecole capaci di autoriprodursi. Un evento

non meno caotico si ebbe quando, secondo la corrente teoria dell’evoluzione, la vita

procedette verso forme superiori grazie a mutazioni casuali e a selezione entro un ambiente

soggetto a cambiamenti altrettanto accidentali. Per un altro inesplicabile accidente, mente e

coscienza apparvero in qualche parte come epifenomeno dell’evoluzione del sistema nervoso.

Allo stesso modo, la personalità umana, secondo il comportamentismo e la psicoanalisi, fu un

prodotto casuale di natura ed educazione, in cui ebbero piccola parte i fattori ereditari e gran

parte gli eventi fortuiti della seconda infanzia e il susseguente condizionamento. La storia

umana, infine, è un seguito di cose dannate, senza capo né coda, secondo il celebre detto dello

storico H. A. L. FISHER, emulo dell’Idiota Cosmico di SHAKESPEARE».

«Ora, pare, siamo alla ricerca di un’altra prospettiva fondamentale – il mondo come

organizzazione. Questa pretesa – se verificata – muterebbe profondamente le categorie del

nostro pensiero e influenzerebbe i nostri atteggiamenti pratici».

«WARREN WEAVER, coautore della teoria dell’informazione, l’ha definita in un modo

citato spesso (1948). La scienza classica, ha detto WEAVER, si connetteva alla causalità

lineare o a senso unico: causa seguita da effetto, relazioni tra due o più variabili. Per esempio,

la relazione tra una stessa e un pianeta permette i mirabili calcoli della meccanica celeste, ma

già il problema dei tre corpi è insolubile in linea di principio e può essere accostato soltanto

per approssimazione. Come psicologi, possiamo pensare allo schema stimolo-risposta ove lo

stimolo è variabile indipendente e la reazione variabile dipendente. La scienza, inoltre, si

occupa di complessità non organizzata, vale a dire, di fenomeni statistici come prodotto di

47Ivi, p. 51.

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eventi fortuiti. Ne è prototipo la termodinamica e in particolare il problema del vuoto delle

particelle di un dato volume di gas: non possiamo seguire ognuna delle innumerevoli

molecole del recipiente, ma il comportamento medio che ne risulta è espresso dalla seconda

legge della termodinamica e dai suoi molti codicilli. Analogamente, le leggi statistiche sono

applicabili alla genetica, alla sociologia – si pensi alla previsione del numero di suicidi o di

scontri automobilistici durante il week end del Labor Day [il primo lunedì di settembre

festeggiato in USA e Canada – N.d.T.] e a molti altri campi. Le compagnie di assicurazione si

basano sul fatto che è possibile prevedere il numero di incidenti automobilistici, mortalità e

simili, anche se ogni caso individuale è differente e risulta da una moltitudine di cause non

definite».

«Ora però ci troviamo di fronte a problemi d’altro tipo – a problemi di complessità

organizzata. Se i principi della fisica classica, come le leggi della gravitazione e della

meccanica, si occupavano di eventi non direzionati e di “cieche forze della natura”, la ricerca

di leggi organizzative diventa oggi legittima. L’organizzazione pervade tutti i livelli della

realtà e della scienza. Un atomo è un’organizzazione (come già sapeva WHITEHEAD) e le

perplessità della fisica contemporanea sembrano derivare dal fatto che i fisici hanno scoperto

centinaia di particelle elementari ma sono ancora alla ricerca di “leggi di organizzazione”. La

chimica strutturale indaga l’organizzazione delle molecole, da quelle semplici alle complesse

e ancora parzialmente inspiegate strutture macro-molecolari incontrate nel mondo vivente. La

biologia molecolare deve i suoi successi ai concetti organizzativi quali il modello del DNA di

WATSON-CRICK, il codice genetico, l’ordine dei processi nella sintesi proteica, che superano

ampiamente le nozioni biochimiche di alcuni anni fa».

«Nelle scienze che studiano la vita, il medesimo postulato appare sotto il nome di

“biologia organistica”. Come vado dicendo da circa trent’anni, non senza incontrare forti

resistenze l’oggetto peculiare della biologia è lo studio dell’“ordine e dell’organizzazione di

parti e processi a tutti i livelli del mondo vivente”. Stranamente, la “biologia organistica”

viene oggi salutata come un nuovo e necessario complemento della biologia molecolare [B.

cita Autori] senza che sia stata fatta da parte americana una qualsiasi menzione dei miei scritti

– benché il loro ruolo sia riconosciuto ovunque altrove, compresi l’Unione Sovietica e i paesi

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dell’Europa orientale [citazione di Autori] – e nulla di nuovo sia stato aggiunto alle loro

affermazioni».

«In sociologia, SOROKIN ha dato al problema una lucida sistemazione, distinguendo “il

microcosmo dell’anarchia” negli eventi microfisici indeterminati (e nei fenomeni socio-

culturali non ricorrenti); le regolarità statistiche nella “congerie” della macrofisica e dei

fenomeni di massa psicosociali; le leggi organizzative, esemplificate dall’organizzazione del

gene, ma presumibilmente riscontrabili anche nei sistemi socio-culturali. Quella dei “sistemi”,

si può affermare con certezza, è la nozione più dibattuta nell’attuale sociologia».

«La stessa cosa vale per la tecnologia e i campi affini. Le complessità della tecnologia e

del commercio moderni hanno portato a nuovi campi e lavori che vanno sotto il nome di

systemsresearch (ricerca intorno ai sistemi), systemsanalysis (analisi dei sistemi),

systemsengineering (studio tecnico dei sistemi), operationsresearch (ricerca operativa),

human engineering (la ricerca degli strumenti e delle condizioni lavorative che meglio si

adattino alle caratteristiche del lavoratore) e simili. Tali sviluppi usano concetti derivati dalla

teoria generale dei sistemi (nel senso più stretto), dalla cibernetica, dalla teoria

dell’informazione, dalle teorie dei giochi e delle decisioni, dalla programmazione lineare,

dalla teoria delle code e da altre teorie, e sono connessi all’elettronica, alla scienza dei

computer, alla ricerca intorno agli armamenti ecc.»48.

Secondo BERTALANFFY, «Si può definire sistema un complesso di componenti in

interazione»49 (e io aggiungerei analizzato alla stregua di un contesto, spazio-temporale).

«Non possiamo parlare di cose viventi e di comportamento se non in maniera funzionale, vale

a dire, considerando le loro parti e i loro processi come organizzati in vista della

conservazione, dello sviluppo, dell’evoluzione ecc. del sistema»50. «Considerazioni analoghe

valgono per le scienze psico-sociali. [...] le categorie tradizionali della scienza meccanicistica

non sono sufficienti a spiegare (o piuttosto escludono) gli aspetti empirici fondamentali.

Sembra, pertanto, che un’espansione delle categorie, dei modelli, delle teorie sia necessaria

48VON BERTALANFFY, Il sistema uomo, op. cit., pp. 76-79. 49Ivi, p. 91. 50Ivi, p. 82.

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per trattare adeguatamente gli universi biologico, comportamentista e sociale»51. Infine, «In

contrasto con la progressiva specializzazione della scienza moderna, questo nuovo tipo di

modelli è interdisciplinare; lo stesso modello astratto si applica a differenti contenuti, in

differenti campi o discipline. In altri termini, fenomeni differenti nel contenuto rivelano

spesso isomorfismo nella loro struttura formale»52.

Nelle scienze sociali, oggi, la complessità ha una dimensione reale, che riguarda le

caratteristiche di complessità crescente e organizzazione delle attività umane, e riguarda

anche le caratteristiche della società pluralistica e multiculturale e della politica, e quindi una

dimensione sociologica e politica, e una dimensione culturale, che riguarda la complessità

crescente delle analisi.

Per ciò che concerne la nostra analisi, possiamo rilevare come, da un canto, in confronto

alla complessità (sia reale che culturale), non regge, non tiene, il concetto di causa: risulta

progressivamente insufficiente in proporzione della complessità, dei fenomeni e delle attività

analizzati e dell’analisi stessa. D’altro canto, la complessità genera incertezza, e quindi

contraddice un’esigenza fondamentale della concezione dei giuristi.

Secondo l’analisi di VAN DE KERCHOVE e OST, giuristi belgi, «Lo scotto da pagare per

questa complessità è certamente l’incertezza; tale è il rischio da correre, data l’insoddisfazione

nei confronti della epistemologia della semplicità, della quale è noto il carattere riduttivo o,

appunto, semplificatore. Cosa diceva questa intelligibilità classica, la cui paternità è ascritta a

CARTESIO, che ebbe il merito di esporla direttamente? Si trattava di isolare degli oggetti (delle

sostanze) chiari e distinti, staccati da uno sfondo sfumato e separato come uno scenario

teatrale. Prima semplificazione: l’oggetto, l’elemento, l’individuo, la sostanza, l’atomo

dell’essere non debbono nulla a ciò che li circonda. Come se fosse possibile pensare

l’elemento al di fuori del sistema che lo costituisce. Come se l’identità potesse riposare

tranquillamente in se stessa, con il terzo escluso a priori. Il terzo è destinato per forza ad

essere escluso, dal momento che l’entre-deux non riesce ad aprirsi un cammino in questa

fortezza di identità»53.

51Ivi, p. 83. 52Ibid. 53VAN DE KERCHOVE - OST, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, 1992, Milano, 1994, 1995, p. 85.

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Questo riferimento al “terzo”, escluso dalla semplificazione della modernità e

dell’illuminismo, equivale al riferimento di VON BERTALANFFY, che abbiamo visto sopra, alla

insolubilità in linea di principio del “problema dei tre corpi” con la logica causale.

«Beninteso, qualora siano osservabili talune relazioni tra questi elementi chiari e

distinti, esse vengono pensate secondo uno schema meccanicistico: si tratta di movimenti

lineari, di causalità unilaterali, che, quando si esercitano, non sono mai in grado di turbare

l’ordine naturale delle ragioni (“queste lunghe catene di ragioni, del tutto semplici e facili” [R.

DESCARTES, Discours de la méthode, Paris, 1934, p. 27]). È sottinteso, infatti, che il grande

contiene il piccolo, che l’anteriore causa il posteriore, che il pesante comporta il leggero, ecc.

Seconda semplificazione: non c’è posto per le idee di ricorsività, di causalità multipla e

circolare, di interazioni e di alea. Tutto viene determinato come il movimento di un orologio.

Il gioco degli ingranaggi appare come un gioco “finito”, destinato a scandire il sempiterno va

e vieni del bilanciere ed il girotondo delle ore sul quadrante».

«Infine, l’osservatore, reso immune dalle facezie del suo genio maligno, come in un

gioco di prestigio, viene fatto sparire dal teatro del metodo. Sicuro del suo “essere” in grazia

del suo “cogito”, il filosofo si trincera dietro l’“oggettività” del proprio metodo. Terza

semplificazione: sappiamo oggi quanto tale oggettività non critica sia pregna di proiezioni

soggettive. Solo un’epistemologia della complessità, consapevole della inevitabile

implicazione dell’osservatore, può iniziare a dare uno statuto alla spiegazione che si propone

di fornire».

«Semplicità. Complessità. Lasciamo l’ultima parola a MORIN [E. MORIN, La méthode: I.

La nature de la nature, Paris, 1977]: “Il vero dibattito, la vera alternativa vengono a situarsi

ormai tra complessità e semplificazione (...). È qui che si consuma il grande cambiamento.

Sparisce l’entità di partenza della conoscenza: il reale, la materia, lo spirito, l’oggetto,

l’ordine, ecc. Rimane un gioco circolare che genera tali entità” (p. 382). Ed ancora: “Il

problema consiste ormai nel trasformare la scoperta della complessità in metodo della

complessità” (p. 386)»54.

54Ivi, pp. 85-86.

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Nella conclusione del capitolo intitolata significativamente «Il ritorno del terzo», VAN

DE KERCHOVE e OST propongono «L’abbandono graduale della semplicità cartesiana

(graduale, perché non ci si libera in un giorno di un modello così radicato nel senso comune),

la crescente presa di coscienza della complessità». «Dovendo descrivere in una parola tale

mutamento di paradigma parleremmo di “ritorno del terzo”. Il terzo escluso. Questo terzo che

il pensiero semplificatore aveva messo al bando, in un canto, fuori gioco, fuori legge, poiché

tutto era sempre questo o quello. Talvolta, questo contro quello. O, allora, né questo, né

quello. Ma mai, assolutamente mai, questo poteva contaminare quello. Niente implicazione,

ma solo appartenenza totale. Niente entre-deux, ma solo la voragine della non-contraddizione.

A=A; A non è non-A, terzo escluso. Questa logica monistica non conosceva che identità

giustapposte. Qui ogni differenza è inoperante, al punto che nessun passaggio di entre-deux

viene previsto. Il terzo, e si comprende perché, viene espulso come un genio maligno. Quanto

a noi, tutti i nostri sforzi sono stati volti ad indicare come questo terzo riapparisse nell’azione

come nel pensiero. Non sotto forma di prudente compromesso (“a mezza strada”) o di

indaffarato eclettismo (“di tutto un po’”), ma come il richiamo di una mediazione nel

profondo della differenza che viene ad insinuarsi nelle identità più salde»55.

Il “ritorno del terzo” può essere considerato la metafora della post-modernità, se si va a

vedere come LYOTARD definisce La condizione postmoderna nella introduzione del saggio

così intitolato: «L’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società più

sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. La definizione è corrente nella

letteratura sociologica e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura

dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura, delle arti a

partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la

crisi delle narrazioni»56. Molte delle categorie in discussione sono quelle di cui discutiamo in

questa sede, indicate nei passi degli Autori su riportati57.

55Ivi, p. 87. 56LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, 1979, Milano, 1981, p. 5. 57 Su questi temi mi sia permesso di rinviare il lettore al saggio di ALEO e PICA, Sistemi giuridici Complessità @

Comunicazione, Acireale-Roma, 2009.

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La crisi e almeno l’insufficienza della causalità e le relative ragioni sono profili

essenziali della crisi della modernità, e l’alternativa può essere definita fra semplificazione e

complessità.

La codificazione, forse l’invenzione più importante della modernità, ha presupposto (fra

l’altro) la straordinaria capacità di semplificazione, dei problemi e delle soluzioni, della

cultura illuministica, la fiducia e la pretesa definitorie (anche delimitative) e ordinative della

ragione, della cultura razionalistica, la nettezza delle distinzioni (fra bene e male) della cultura

cattolica. L’“età della decodificazione”58 è figlia della crisi delle certezze di queste culture.

In confronto alla complessità perdono capacità definitoria sia la forma della legge che

l’analisi causale, che sono entrambi pilastri della teoria giuridica moderna. C’è

corrispondenza fra questi due problemi, perché la causalità esprime una soglia semantica di

tipo qualitativo: (nel suo significato minimo) la condizione senza la quale non si sarebbe

verificato.

4. Insufficienza della causalità nelle argomentazioni relative ai modelli

collettivi e/o organizzati

Proprio i penalisti dovrebbero avere percezione (consapevolezza) dei limiti della

causalità (nonché della capacità pre-definitoria della forma della legge), con riferimento alle

problematiche del concorso di persone nel reato, delle organizzazioni criminali, dei delitti con

autori e vittime collettivi. Ma proprio i penalisti sono più legati ai dogmi e alle spiegazioni

causali. Ciò potrebbe spiegarsi con l’esigenza di certezza del diritto e il principio di

personalità della responsabilità penale. Meno si spiega che si parli di organizzazioni criminali,

e si argomenti in materia, a prescindere dalla teoria dell’organizzazione, o riducendo le

problematiche dell’organizzazione alle nozioni dell’associazione. (Mentre gli studiosi di tutte

le altre scienze attraversano la teoria dell’organizzazione).

58 L’espressione è di IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1979.

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Nei libri di diritto penale59 (e nelle sentenze dei giudici) c’è scritto che la soglia della

responsabilità per il concorso di persone nel reato è costituita dal “contributo causale” alla

realizzazione del reato, alla verificazione del fatto costitutivo del reato. Addirittura qualcuno

ha scritto che il contributo debba essere condicio sine qua non dell’evento (per come

verificatosi)60.

L’espressione “contributo causale” dovrebbe significare il carattere “causale” del

contributo. E “causale” dovrebbe significare quello che c’è scritto (negli stessi libri) nel

capitolo sul rapporto di causalità: la condizione senza la quale l’evento non si sarebbe

verificato (condicio sine qua non), che inoltre può essere considerata adeguata al verificarsi

dell’evento (secondo l’id quodplerumqueaccidit, ovvero ciò che avviene nella maggior parte

dei casi, considerata l’esperienza dei casi simili).

Il contributo parziale ad una dimensione generale non può essere argomentato nei

termini generali (ci si scusi la ripetizione) della causalità: né nel senso della condicio sine qua

non61 né tantomeno in quello dell’adeguatezza causale.

Il palo nella rapina non può essere considerato in alcun modo “causale”, e tuttavia

nessuno vorrà dubitare della sua responsabilità. Il palo non può essere definito condicio sine

qua non della rapina, ovvero la rapina si può fare anche senza il palo: correndo maggiori

rischi e in caso di successo dividendo il bottino in un minor numero di parti; e una rapina

complicata si può fare meglio con due pali: minimizzando il rischio, aumentando le

probabilità di successo e quindi di un maggior risultato, e aumentando anche il numero di

parti in cui dividere il bottino. Questa è teoria dell’organizzazione, analisi del rapporto fra

costi e benefici, e non c’entra niente con la causalità, con l’analisi causale. Men che meno il

palo può essere considerato (di per sé solo) condizione adeguata della rapina.

59 Per tutti v. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, 16ª ed. aggiorn. e integr. da CONTI, Milano,

2003, pp. 563 ss. 60PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, Palermo, 1952, e GRASSO, Art. 110, in ROMANO e GRASSO,

Commentario sistematico del codice penale. II. Art. 85-149, Milano, 1990, pp. 146 ss., 3ª ed., 2005, pp. 159 ss. 61 V. invece PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, op. cit, GRASSO, Art. 110, op. cit. Per le critiche v.

PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, 8ª ed., Milano, 2003, pp. 554 ss., e MANTOVANI, Diritto

penale. Parte generale, 6ª ed., Padova, 2009, pp. 514 ss.. PAGLIARO ha criticato la qualificazione come “causale”

del contributo nel concorso di persone nel reato senza tuttavia pervenire a una diversa definizione teorica

generale dal punto di vista oggettivo.

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Questo è il problema dei tre corpi, insolubile con la causalità, ovvero del terzo escluso

dalla semplificazione della modernità. Ovviamente il problema si complica con l’aumento

delle variabili: più propriamente, si complessifica, ma se viene affrontato in termini

funzionalistici.

Contributo “causale” (dei libri di diritto penale e delle sentenze) non vuol dire

contributo “alla causalità” (ovvero alla verificazione) dell’evento costitutivo del reato (che di

per sé non sarebbe sbagliato): sia perché in tal modo non viene definito proprio il contributo

(singolarmente), che invece è oggetto della valutazione; sia perché questa valutazione non ha

di per sé carattere propriamente “causale”.

L’argomento (pure proposto62 – per salvare la baracca!) che il contributo è condicio sine

qua non del fatto per come in concreto questo è stato realizzato non può essere in alcun modo

condiviso: perché contraddice le connotazioni di astrattezza e generalità (della comparazione

fra gli insiemi degli eventi dei tipi di cui si tratta) che sono essenziali del giudizio di causalità

(la ricerca delle leggi di verificazione degli eventi); contraddice la logica causale; in concreto,

perché è sempre vero, per qualunque caratteristica del fatto (senza la quale cioè il fatto

sarebbe stato diverso) e dunque elude l’esigenza di argomentazione cui è diretta l’analisi

causale.

È possibile che in concreto il singolo contributo sia così rilevante per l’intero da esserne

condicio sine qua non. Ma questo non può essere indicato come criterio generale della

responsabilità per il concorso di persone nel reato.

La concezione c.d. della causalità “agevolatrice” o “di rinforzo”63, con cui si cerca di

salvare la rilevanza della causalità nella problematica del concorso di persone, esprime un

significato di causalità comunque diverso da quelli della condicio sine qua non e

dell’adeguatezza, accolti in generale dalla dottrina penalistica: “causalità agevolatrice” è anzi

a rigore una contraddizione in termini, perché la causalità vuole costituire una condizione di

sufficienza della spiegazione (della verificazione); questa concezione esprime un significato

62PEDRAZZI, Il concorso di persone nel reato, cit., p. 80; ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 564; GRASSO, Art. 110,

cit., 1990, pp. 146 ss., 3ª ed., 2005, pp. 159 ss.. Per le critiche v. PAGLIARO, Principi cit., 8ª ed., pp. 557 ss.,

nonché Il reato, in GROSSO – PADOVANI – MAGLIARO (a cura di), Trattato di diritto penale, II, Milano, 2007, pp.

380 ss.. 63 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, 6ª ed., cit., p. 515.

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comunque più vicino a quello funzionalistico, della utilità; inoltre, incontra l’obiezione (che

riguarda in generale la teoria dell’accessorietà del concorso di persone nel reato) circa la non

necessità che il rapporto fra i diversi contributi sia tra principale e secondario, ovvero appunto

accessorio.

“Contributo causale” è propriamente in generale una contraddizione in termini.

Il singolo contributo ad una dimensione collettiva ovvero organizzata può essere

argomentato e valutato nei termini generali della funzionalità: della parte rispetto al tutto.

Funzionalità, ovvero utilità: maggiore probabilità di conseguimento del risultato, possibilità di

conseguimento di un miglior risultato, riduzione dei costi, riduzione dei rischi.

La problematica penalistica del concorso di persone non può essere ridotta senz’altro a

quella dell’organizzazione64, che pure ne è connotazione principale: perché il (singolo)

contributo può ben essere penalmente rilevante ancorché assolutamente non preventivato (per

es. il passante che aiuta il reo anziché la vittima).

Prima di continuare va fatta un’osservazione concreta sulla nostra dottrina e sulla nostra

giurisprudenza, in materia di concorso di persone nel reato e di definizione e argomentazione

della responsabilità per i delitti associativi: spesso le argomentazioni adottate (in modo

precipuo, nelle più recenti pronunce della Corte di cassazione) sono chiaramente di carattere

funzionalistico, e talvolta anche puntuali e raffinate, ma definite “causali” e perciò

ovviamente frutto dell’esperienza e del buon senso ma senza la necessaria consapevolezza

scientifica della teoria generale dell’organizzazione.

La nozione del concorso di persone nel reato, segnatamente dell’art. 110 c.p. («Quando

più persone concorrono nel medesimo reato [...]»), prima (in senso logico) di quelle dei delitti

associativi, viene criticata di carenza di tassatività e determinatezza, e considerata oggetto di

necessità di tipizzazione.

La storia della codificazione e della cultura penalistica è caratterizzata da tentativi di

tipizzazione dei contributi concorsuali, rimasti infruttuosi.

Secondo la Commissione GROSSO, «Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a

contributi anche non rigorosamente causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che

64INSOLERA, Problemi di struttura del concorso di persone nel reato, cit. e voce Concorso di persone nel reato,

in Dig. disc. pen., vol. II, 1988, pp. 437 ss., I aggiorn., 2000, pp. 66 ss..

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si sono limitate ad incrementare il rischio della produzione dell’evento, concede

indiscriminata rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato in

sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a condotte

sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente o al comune evento

criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte tipiche». «In via

esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate esigenze

di tipizzazione degli apporti causali potrebbe essere la seguente: concorre nel reato chiunque

abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione ovvero rafforzato il proposito di altro

concorrente o agevolato l’esecuzione fornendo aiuto o assistenza»65.

La prima indicazione della Commissione PISAPIA sul «Concorso di persone nel reato» è

stata quella di «Prevedere che: a) concorre nel reato chi partecipando alla sua deliberazione,

preparazione o esecuzione ovvero determinando o istigando altro concorrente, o prestando un

aiuto obiettivamente diretto alla realizzazione medesima, apporta un contributo causale alla

realizzazione del fatto».

Abbiamo detto che il contributo causale non può essere argomentato nei termini

generali della causalità: il che non esclude che concretamente il singolo contributo possa

essere considerato causale rispetto all’evento, sia nel senso della condicio sine qua non che in

quello dell’adeguatezza rispetto alla realizzazione della fattispecie.

Adesso aggiungiamo che la nozione di contributo (di una parte a un tutto), in linea di

principio: a) non è tipizzabile, b) è senza soglia.

Già la nozione di causalità non è tipizzabile: una persona si può uccidere in un numero

infinito di modi possibili (secondo la razionalità e fantasia dell’autore). La causalità non è un

fatto, di cui si può descrivere il modello (tipico), ma un criterio di valutazione. Il dolo e la

colpa sono criteri di valutazione. La nostra cultura non si pone il problema di tipizzare queste

nozioni, perché esse rientrano nella tradizione culturale più lontana e profonda, fanno parte

del nostro dna o background culturale. e sono nozioni, a ben vedere, senza soglia: non è

definibile il minimo del dolo, o il minimo della colpa. Ad un certo grado di consistenza il

giudice ritiene la presenza del dolo, della colpa; come del nesso di causalità. Eppure la nostra

65 Sta in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 622.5.

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cultura giuridica si pone il problema di tipizzare il concorso di persone nel reato, come (ed a

maggior ragione) le nozioni di partecipazione e di concorso eventuale o esterno nei delitti

associativi.

Men che meno può essere tipizzabile la nozione di contributo... alla causalità. Il

contributo, da un canto, può esser dato in un numero infinito di modi possibili (secondo la

razionalità e fantasia del suo protagonista), d’altro canto, viene valorato (assume il valore e

quindi il significato di contributo, alla dimensione collettiva) secondo l’uso che poi ne fanno

gli altri protagonisti della dimensione collettiva (e secondo la loro razionalità e fantasia).

La funzione essenziale della disciplina del concorso di persone nel reato è di definizione

(ed assimilazione) della responsabilità dei contributi, alla realizzazione del fatto costitutivo

del reato, “atipici”, ossia singolarmente non costitutivi della fattispecie (nei suoi aspetti sia

oggettivi che soggettivi). Tipizzare la... atipicità mi sembra davvero improbabile. Cosa

diversa è qualsiasi una norma (qui ov’è definito un criterio, di valutazione e di misura) possa

essere costruita e riscritta meglio.

La distinzione della pena secondo la diversa tipologia del contributo (autore, coautore,

istigatore, complice, come per esempio nel codice tedesco e nel codice ZANARDELLI), che è in

tal caso una (ulteriore) funzione precipua della disciplina del concorso di persone nel reato,

incontra la forte obiezione che la tipologia (formale qualitativa) del contributo non è di per sé

misura della sua rilevanza concreta, cioè un contributo di qualsiasi tipo può essere in concreto

più consistente o viceversa meno consistente che uno di qualsiasi altro tipo: l’istigatore può

avere nel caso concreto una rilevanza maggiore che l’autore, o il complice fornire un

contributo essenziale per la dimensione concreta del fatto come realizzato.

La nozione di contributo è di per sé senza soglia: si può contribuire in un modo

piccolissimo, e tuttavia appunto rilevante, alla edificazione di un evento di dimensioni pure

ingenti (io invio un euro per la ricerca sul cancro, o affiggo un volantino pubblicitario di un

evento importantissimo). È lo stesso dire che adottato un (qualsiasi) criterio di misura, come

di valutazione, tutto è misurabile, l’infinitamente piccolo come l’infinitamente grande.

Problema in sé diverso è quello secondo cui la misura del penalmente rilevante debba

essere di una certa consistenza. È un problema generale del diritto penale, e riguarda

parimenti la consistenza economica necessaria a costituire il reato di furto o quello di truffa. A

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mio avviso questo problema non può essere risolto adeguatamente in sede di definizione del

reato, se non di criteri generali, ma soprattutto, nella sostanza (quale che ne sia la collocazione

ovvero denominazione formale), in termini di discrezionalità dell’azione penale.

Circa i problemi che stiamo ponendo, e a proposito di complessità e legalità, va fatto

rilevare come nel nuovo codice penale francese, del 1994, e nel sistema della discrezionalità

dell’azione penale: a) siano stati eliminati tutti i minimi edittali; b) siano state eliminate, di

conseguenza, tutte le circostanze attenuanti del reato; c) sia stato adottato il criterio generale

dell’assorbimento, delle pene di varie infrazioni entro la pena dell’infrazione più grave, fra

quelle commesse dalla stessa persona.

Quest’ultima soluzione, ulteriore rispetto alle nostre prassi in materia di reato

continuato (queste già assai ulteriori in confronto allo schema e alla ratio originari del

codice), esprime il significato di una funzione penale interdittiva della pericolosità in atto

dell’individuo, quale si evince soprattutto dalla tipologia dei reati commessi, e dal reato più

grave fra quelli commessi. È una funzione ulteriore rispetto alla funzione generalpreventiva. È

una funzione peculiare della storia, e delle prassi, dei delitti politici e dei delitti associativi.

Un’altra considerazione necessaria è che (tutto) il diritto del terzo millennio si

arricchisce di criteri di valutazione, e di attribuzioni all’operatore di funzioni da realizzare, in

concreto, (e quindi di un ambito di discrezionalità concreta di tipo anche operativo), che sono

appunto diversi e ulteriori rispetto ai termini tradizionali della forma della legge e

segnatamente della fattispecie. Ciò pone ovviamente il problema di una diversa e ulteriore

costruzione delle garanzie.

Nella concezione classica nella forma della legge sono definite la soglia dell’illecito e

quella della garanzia. Nella realtà attuale, per ragioni reali, politiche e culturali, la forma della

legge è sempre più dilatata ed elastica, nella definizione dell’illecito, il che quindi richiede la

precisazione dei criteri di prova e di argomentazione, e la problematica delle garanzie

dev’essere costruita parimenti secondo una logica e in termini (anche) funzionalistici.

L’associazione è come tale una struttura organizzativa, costituita da accordi

(convenzioni) di carattere generale. La nozione di organizzazione presuppone inoltre la

predisposizione di risorse e mezzi materiali. Queste nozioni sono di tipo dinamico,

processuale, e non possono essere rappresentate con le categorie della causalità.

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In generale la nozione di organizzazione sposta il problema dalla dimensione soggettiva

dello “scopo”, delle “finalità”, dell’associazione alla dimensione oggettiva della

“funzionalità” della struttura (di persone e di mezzi) rispetto alla realizzazione di una attività

di tipo delittuoso.

La previsione dell’art. 270 del codice ROCCO (di «Associazioni sovversive») ebbe

origine, come abbiamo detto, con riferimento diretto, e dichiarato, alle associazioni

comuniste, socialiste e anarchiche. Vassalli ha riferito come ROCCO ai suoi studenti

dell’Università di Roma spiegasse che i legislatori avevano fatto grande fatica a rappresentare

in termini normativi movimenti politici esistenti. E che queste norme riguardavano le

associazioni volte alla diffusione di idee politiche sovversive, perché quando si passasse

all’azione subentrerebbero i delitti associativi di cui agli artt. 304, 305 e 306 del codice

(cospirazione politica mediante accordo e mediante associazione e banda armata).

Orbene, la riforma radicale avvenuta con la legge 24.2.2006 n. 85 costituisce l’eccesso

opposto, ma soprattutto ha reso la previsione sostanzialmente inapplicabile: «Chiunque nel

territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a

sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero a

sopprimere violentemente ogni ordinamento politico e giuridico dello Stato, è punito con la

reclusione da cinque a dieci anni». La partecipazione è punita da uno a tre anni e le pene sono

aumentate per coloro che ricostituiscono le associazioni di cui sia stato ordinato lo

scioglimento. La figura è rimasta tuttavia meno grave di quella delle associazioni terroristiche

(di «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine

democratico») dell’art. 270 bis, la cui costituzione è punita da sette a quindici anni, e la cui

partecipazione è punita da cinque a dieci anni.

Le Brigate Rosse non sono state, e non erano, “idonee”, “a sovvertire violentemente gli

ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, ovvero a sopprimere violentemente

ogni ordinamento politico e giuridico dello Stato”, e non lo sono state, e non lo sono, neppure

le strutture di al-Qaida e Osama Bin Laden in confronto all’ordinamento e alla democrazia

statunitensi.

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5. Partecipazione e concorso esterno nei delitti associativi

La partecipazione o appartenenza all’associazione delittuosa è costituita dalla

correlazione funzionale stabile della persona con la struttura e quindi con l’attività

dell’associazione, con la condivisione delle finalità di questa. Condivisione soggettiva ma

anche oggettiva: così dei risultati e proventi delle attività. La relazione funzionale stabile può

essere costituita dall’accordo formale, cui segua la reciproca disponibilità, ovvero dalla

effettività di questa disponibilità, attestata dalle prestazioni corrispettive.

È membro dell’associazione colui, che vi abbia aderito formalmente, ovvero nei fatti,

sulle cui prestazioni si può fare quindi legittimo preventivo affidamento, sulle quali si fa (cioè

di fatto) preventivo affidamento. È coerente sia con la dottrina penalistica che con la teoria

dell’organizzazione che le nozioni penalistiche di questa vengano dedotte, ex post, dalla

effettività delle condotte realizzate, segnatamente da quelle aventi rilevanza penale, dalle

correlazioni interpersonali e organizzative costituite, per la realizzazione di attività delittuose.

Come abbiamo già osservato, nessuno penserebbe di ridurre ovvero ricostruire la

problematica del concorso di persone nel reato con riferimento alla dimensione (formale)

dell’accordo.

Come altresì abbiamo detto, essenziale del concetto di organizzazione è quello di

ricorsività (di reiterazione in termini di reciprocità) fra le prestazioni dei diversi soggetti che

ne costituiscono così la struttura. E in tal senso il concetto sociale (ovvero anche sociologico)

di convenzione è già diverso da quello di accordo o di contratto.

Il concorso eventuale o esterno nei delitti associativi.

Il contributo, rilevante (utile) per la struttura e/o per l’attività dell’associazione

delittuosa, fornito da chi non faccia parte della stessa, è costitutivo del concorso eventuale o

esterno nel delitto associativo.

In termini di teoria dell’organizzazione, da una parte, la connotazione di stabilità

(essenziale dell’analisi e) della nozione di funzionalità riguarda gli effetti del contributo, che

dunque può essere anche singolo, per la struttura e/o l’attività dell’associazione, considerate

(queste) in termini generali. Così, questo contributo va tenuto distinto dal concorso nel

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singolo reato: che tuttavia, per la sua dimensione e rilevanza concreta (in funzione

dell’associazione e dell’attività di questa, considerate in generale), può costituire anche

concorso nel delitto associativo.

D’altra parte, la differenza fra la partecipazione all’associazione e il concorso esterno è

che la prima è il risultato di, ed è costituita da, una convenzione di carattere generale, fra il

soggetto e l’associazione, il contributo costitutivo del concorso esterno è (dev’essere stato)

oggetto di una negoziazione specifica, fra l’associazione e il soggetto; altrimenti non era

preventivabile in quanto esigibile.

Dal punto di vista sistematico e formale, la disciplina generale del concorso di persone

nel reato, che ha la funzione essenziale – abbiamo visto – di definire e assimilare alla

responsabilità del reato quella dei contributi atipici alla realizzazione di esso, è parimenti

applicabile (e direi anche ovviamente) ai reati a concorso necessario: per gli autori dei

contributi “atipici” alla realizzazione di questi. Possono farsi gli esempi di colui che istiga i

rissanti: concorre alla rissa cui non partecipa; e di colui che presta la casa per lo svolgimento

di una relazione incestuosa: al cui reato dunque concorre senza parteciparvi.

Fra i reati a concorso necessario – cui è applicabile la disciplina generale del concorso

di persone nel reato – non si possono certo escludere, non v’è ragione per escludere, i delitti

associativi. Anzi. Per questi la disciplina sembra particolarmente necessaria.

Nel codice napoleonico era lo sforzo di tipizzazione sia dei contributi concorsuali

(costitutivi della disciplina generale della “complicità”) che dei contributi alle associazioni e

alle bande delittuose di chi non ne fa parte.

Art. 59: «I complici di un crimine o di un delitto, saranno puniti colla stessa pena degli

autori di questo crimine o di questo delitto, salvi i casi nei quali la legge avesse diversamente

disposto». Art. 60: «Saranno puniti come complici di una azione qualificata come crimine o

delitto, coloro i quali, con doni, promesse, minacce, abuso di autorità o di potere,

macchinazioni o male arti, avranno provocata questa azione, o dato delle istruzioni per

commetterla; Coloro che avranno procurato delle armi, degl’istrumenti o qualunque altro

mezzo che avrà servito all’azione, sapendo che di ciò doveva farsi uso per la medesima;

Coloro che avranno scientemente aiutato od assistito l’autore o gli autori dell’azione nei fatti

che l’avranno preparata o facilitata, od in quelli che l’avranno consumata; salve però le pene

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che saranno specialmente prescritte nel presente Codice contro gli autori di cospirazioni o di

provocazioni attentatorie alla sicurezza interna od esterna dello stato, anche nel caso in cui il

crimine che era l’oggetto dei cospiratori o dei provocatori, non fosse stato commesso». Art.

61: «Coloro che, conoscendo la condotta criminosa di malfattori che esercitano brigantaggio o

violenze contro la sicurezza dello Stato, la pace pubblica, le persone o le proprietà, loro

somministrano abitualmente alloggio, luogo di ritirata o d’unione, saranno puniti come loro

complici».

Inoltre, nell’art. 96, la previsione della pena delle bande armate (la pena di morte e la

confisca dei beni del condannato) riguarda parimenti chi «si sarà messo alla testa di bande

armate, o vi avrà esercitato una funzione o comando qualunque», «quelli che avranno diretto

l’associazione, levato o fatto levare, organizzato o fatto organizzare le bande, o che loro

avranno, scientemente e volontariamente, somministrato o procurato delle armi, munizioni e

istrumenti pel crimine, od avranno inviato dei convogli di viveri, o che avranno in qualunque

altro modo tenuto intelligenze coi direttori o comandanti delle bande»66.

Ancora, nella disciplina dell’associazione di malfattori, secondo l’art. 267, «gli autori, i

direttori dell’associazione, ed i comandanti in capo o sottocomandanti di queste bande,

saranno puniti coi lavori forzati a tempo», secondo l’art. 268, «Saranno punite colla

reclusione tutte le altre persone incaricate di un servizio qualunque in queste bande, e quelle

che avranno scientemente e volontariamente somministrato alle bande o alle loro divisioni

delle armi, munizioni, istromenti atti al crimine, alloggio, ritirata o luogo di unione».

Nel codice ZANARDELLI, nelle previsioni degli artt. 132 e 249 (corrispondenti agli artt.

307 e 418 del codice Rocco), di assistenza ai partecipi di banda armata ed associazione per

delinquere, era fatta salva la disciplina generale del concorso di persone nel reato.

66 Art. 96 del codice penale napoleonico: «Chiunque, sia per invadere dei beni demaniali, delle proprietà o danari

pubblici, piazze, città, fortezze, posti, magazzini, arsenali, porti, vascelli o bastimenti appartenenti allo Stato, sia

per saccheggiare o dividere delle proprietà pubbliche o nazionali, o quelle di una generalità di cittadini, sia in

fine per far attacco o resistenza alla forza pubblica, mentre agisce contro gli autori di questi crimini, si sarà

messo alla testa di bande armate, o vi avrà esercitato una funzione o comando qualunque, sarà punito colla

morte, ed i suoi beni saranno confiscati». «Saranno applicate le stesse pene a quelli che avranno diretto

l’associazione, levato o fatto levare, organizzato o fatto organizzare le bande, o che loro avranno, scientemente e

volontariamente, somministrato o procurato delle armi, munizioni e istrumenti pel crimine, od avranno inviato

dei convogli di viveri, o che avranno in qualunque altro modo tenuto intelligenze coi direttori o comandanti delle

bande».

68

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Art. 132: «Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’art. 64, dà rifugio o assistenza o

somministra vettovaglie alla banda menzionata nell’articolo precedente, o in qualsiasi modo

ne favorisce le operazioni, è punito con la detenzione da sei mesi a cinque anni»67.

La previsione dell’art. 249 è identica con riferimento all’associazione per delinquere:

«Chiunque, fuori dei casi preveduti nell’articolo 64, dà rifugio o assistenza, o somministra

vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un anno». Ma

vi è aggiunta la previsione del secondo comma: «Va esente da pena colui che somministri

vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto».

La disciplina richiamata dell’art. 64 è quella generale «Del concorso di più persone in

uno stesso reato»68.

Le previsioni degli artt. 307 e 418 del codice ROCCO sono, come si è accennato,

corrispondenti a quelle degli artt. 132 e 249 del codice ZANARDELLI.

La formula di esclusione del concorso di persone nel reato, introduttiva di queste

previsioni, è stata pure intesa dalla Corte di cassazione come riferita alle ipotesi di concorso

67 Siamo (nel codice ZANARDELLI) fra le «Disposizioni comuni ai capi precedenti», «Dei delitti contro la

sicurezza dello Stato».

Art. 131: «Chiunque, per commettere alcuno dei delitti preveduti negli articoli 114, 117, 118 e 120, forma una

banda armata, o esercita nella medesima un comando superiore od una funzione speciale, è punito con la

reclusione o con la detenzione da dieci a quindici anni». «Tutti gli altri che fanno parte della banda sono puniti

con la reclusione o con la detenzione da tre a dieci anni».

Art. 133: «Vanno esenti da pena per i fatti preveduti nei due articoli precedenti: 1° coloro che, prima della

ingiunzione dell’Autorità o della Forza pubblica, o immediatamente dopo, disciolgano la banda o impediscano

che la banda commetta il delitto per il quale era formata; 2° coloro che, non avendo partecipato alla formazione o

al comando della banda, prima della detta ingiunzione, o immediatamente dopo, si ritirino senza resistere,

consegnando o abbandonando le armi». 68 Libro I, titolo VI, la disciplina generale «Del concorso di più persone in uno stesso reato». Art. 63: «Quando

più persone concorrano nella esecuzione di un reato, ciascuno degli esecutori e dei cooperatori immediati

soggiace alla pena stabilita per il reato commesso». «Alla stessa pena soggiace colui che ha determinato altri a

commettere il reato; ma all’ergastolo è sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni, e le altre pene sono

diminuite di un sesto, se l’esecutore del reato lo abbia commesso anche per motivi propri». Art. 64: «È punito

con la reclusione per un tempo non minore dei dodici anni, ove la pena stabilita per il reato commesso sia

l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato medesimo diminuita della metà, colui che è

concorso nel reato: 1° con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere assistenza od

aiuto da prestarsi dopo il reato; 2º col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo; 3° col facilitarne

l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto». Art. 65: «Le circostanze e le qualità inerenti

alla persona, permanenti o accidentali, per le quali si aggrava la pena di alcuno fra quelli che sono concorsi nel

reato, ove abbiano servito ad agevolarne la esecuzione, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel

momento in cui vi sono concorsi; ma la pena può essere diminuita di un sesto, e all’ergastolo può essere

sostituita la reclusione da venticinque a trent’anni». Art. 66: «Le circostanze materiali che aggravano la pena,

ancorché facciano mutare il titolo del reato, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel momento in

cui sono concorsi nel reato».

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necessario costitutive (direttamente) del delitto associativo: e questo argomento era utilizzato

per escludere la configurabilità del concorso eventuale nel delitto associativo69. Ma invece

quella formula («fuori dei casi di concorso nel reato») riproduce identicamente il riferimento

formale del codice ZANARDELLI alla (all’art. 64 della) disciplina generale del concorso

(eventuale) di persone nel reato.

I delitti di assistenza agli associati degli artt. 307, 418 e poi anche 270 ter70

(rispettivamente, della banda armata, dell’associazione per delinquere e di tipo mafioso,

dell’associazione sovversiva e di quella terroristica) sono costituiti dalle prestazioni in favore

degli associati (originariamente di rifugio o vitto, oggi anche ospitalità, mezzi di trasporto,

strumenti di comunicazione71) agli associati (anche) come singoli (“a taluna delle persone che

partecipano all’associazione”) e anche occasionalmente: infatti con l’aggravante che

l’assistenza sia prestata “continuatamene”. La non punibilità del fatto commesso in favore di

un prossimo congiunto è prevista in tutte e tre le norme.

Lo schema del codice è abbastanza semplice: da un lato, la responsabilità per il delitto

associativo; dall’altro, la responsabilità per il delitto di assistenza agli associati (come singoli,

con l’aggravante che sia prestata continuatamene e la non punibilità del fatto commesso in

favore di un prossimo congiunto), «fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento»

(il delitto di favoreggiamento personale costituito dal fatto di aiutare il soggetto a eludere le

investigazioni dell’autorità); nel mezzo, la responsabilità per il concorso nel delitto

associativo, costituita dai contributi forniti all’associazione, considerata in termini generali, da

chi non vi partecipi, non ne faccia parte.

La Cassazione, ammettendo in linea di principio la configurabilità del concorso

eventuale nel delitto associativo, ha pure ritenuto che in concreto ciò riguardi unicamente (o

essenzialmente) le ipotesi di concorso morale (per esempio, nel caso dell’ex mafioso che

aveva istigato il figlio a entrare nell’organizzazione di cui egli non faceva più parte), perché

invece il contributo materiale sarebbe direttamente costitutivo della figura delittuosa

69Cass. I, sent. 2348 del 27.6.1994 (ud. 18.5.1994), in Guida al diritto de Il Sole-24 Ore de 31.10.1994, pp. 70

ss.. 70 Inserito con l’art. 1 d.l. 18.10.2001 n. 374, conv. con modif. in l. 15.12.2001 n. 438. 71 Modifica introdotta con lo stesso art. 1 d.l. 374/2001 conv. con modif. in l. 438/2001.

70

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associativa72 (o altrimenti irrilevante, aggiungerei io). Questa posizione risulta, in particolare,

legata alla dimensione “contrattualistica” (cioè fatta di accordi formali, che sopra abbiamo

esaminato) del delitto associativo.

La Cassazione a sezioni unite ha altresì limitato la rilevanza del concorso eventuale o

esterno nel delitto associativo ai casi e momenti di “fibrillazione”, di “emergenza”, nella vita

dell’associazione, da dover questa ricorrere (quindi eccezionalmente) al contributo di estranei:

contributo anche “episodico”, “unico”, ma che « serva per consentire all’associazione per

mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter conseguire i propri

scopi»73. (La concezione causalistica!).

Invece è assolutamente normale che qualsiasi struttura organizzativa di qualsiasi tipo di

attività abbia bisogno, e si avvalga, di contributi di soggetti che non ne fanno parte, cioè che

non ne sono elementi organici (organicamente inseriti, stabili): contributi, per attività diverse

da quelle svolte tipicamente dai membri della struttura organizzata, che quindi vanno di volta

in volta negoziati, cioè non sono direttamente e senz’altro esigibili e preventivabili; ma che

certo sono ben lontani dall’essere, e non si può richiedere che siano (perché abbiano rilevanza

penale), singolarmente necessari per mantenere in vita l’associazione, o un settore di questa.

In modo particolare, quanto più una organizzazione criminale ha collegamenti, intrecci

e connivenze nell’ambiente sociale circostante (si pensi ai collegamenti della mafia con la

società, con le istituzioni pubbliche, con l’economia, ma anche ai collegamenti dei gruppi

terroristici), tanto più è normale il contributo dei soggetti anche estranei e quindi si pone, in

concreto, il problema della dimensione penalistica del concorso esterno.

Un’osservazione tecnica particolare. Quando veniva esclusa e comunque revocata in

dubbio la configurabilità del concorso esterno nel delitto associativo è stata introdotta nel

sistema la circostanza aggravante (sottratta al bilanciamento) dell’art. 7 d.l. 13.5.1991 n. 152,

conv. con modif. in l. 12.7.1991 n. 203, per i delitti «commessi avvalendosi delle condizioni

72Cass. I, 13.2.1990, AGLIERI ed altri. Per questa posizione v. già CONTENTO, Il concorso di persone nei reati

associativi e plurisoggettivi (contributo alla ricerca CNPDS-CRS sulla riforma della parte generale del codice

penale), 1983. 73Cass. SS.UU., 28.12.1994, ud. 5.10.1994, Demitry, in Cass. pen., 1995, pp. 842 ss., con nota di IACOVIELLO, Il

concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazione per delinquere.

71

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previste dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle

associazioni previste dallo stesso articolo»74.

Per i fatti autonomamente delittuosi che agevolano l’attività dell’associazione di tipo

mafioso, questa circostanza copre l’identico spazio del concorso esterno, come pure l’intero

contenuto della circostanza si sovrappone a quello tipico del delitto associativo, per i soggetti

cioè che fanno parte dell’associazione. Il contenuto della circostanza è autonomo per i fatti, di

per sé delittuosi, commessi da soggetti estranei all’associazione che si avvalgono, piuttosto,

del contributo dell’associazione mafiosa. Viceversa, l’autonomia del concorso esterno (ma

come pure della partecipazione) rispetto alla circostanza aggravante, riguarda tutti i fatti (in

sé) non delittuosi a prescindere, appunto, dalla correlazione con l’esistenza e l’attività

dell’associazione mafiosa.

Appare certo inverosimile che l’avvenuta introduzione della circostanza aggravante di

cui all’art. 7 d.l. 152/1991 sia stata utilizzata dalla Corte di cassazione come argomento per

(ricostruire il sistema del codice del 1930 nel senso di) escludere la configurabilità del

concorso eventuale o esterno nei delitti associativi75.

Ora la Cassazione a sezioni unite richiede il contributo causale per l’esistenza e il

rafforzamento dell’associazione, che si sia estrinsecato in un tangibile vantaggio per

l’associazione76.

Contributo causale è, come abbiamo già detto, in generale, una contraddizione in

termini. Il contributo di una parte a un tutto può essere apprezzato nei termini generali della

funzionalità. Può avvenire, in concreto, che il singolo contributo sia così rilevante da essere

(singolarmente) indispensabile, determinante, per l’intero, ma questo non può essere indicato

come il criterio generale di argomentazione della rilevanza del contributo a un intero.

74 «1. Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste

dall’articolo 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo

stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». «2. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle

previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono

essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena

risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante». Il secondo comma è stato così modificato con

l’art. 5 comma 1 l. 14.2.2003 n. 34. 75Cass. I, sentenze 18.5.1994 nn. 2342 e 2348. 76Cass. SS.UU. sent. 22327 del 30.10.2002, dep. 21.05.2003, Carnevale, riv. 224181, e poi Cass. SS.UU., sent.

33748 del 12.07.2005, dep. 20.09.2005, Mannino, riv. 231673.

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Occorre riconoscere, tutti, che il contenuto argomentativo della sentenza Mannino due,

come di altre, è di tipo anche, abbastanza, sostanzialmente, funzionalistico. Tuttavia, in primo

luogo, non è possibile qualificare la rilevanza del contributo (in generale) come causale, e il

problema non è affatto, né prevalentemente, nominalistico.

Soprattutto, si richiede (sul piano probatorio) la verifica del vantaggio costituito dal

contributo per l’associazione: così, nel rapporto dell’associazione mafiosa con la politica, il

conseguimento di appalti pubblici. L’accordo, l’impegno, di un soggetto che è rappresentativo

e si fa garante dei comportamenti di un insieme di persone, che gli sono sottoposte e ne sono

condizionate, costituisce di per sé il rafforzamento della dimensione organizzativa

dell’associazione delittuosa, che può contare sulle prestazioni dei componenti di quel

determinato gruppo. Il rafforzamento della struttura ovvero dimensione organizzativa

dell’associazione riguarda anche, ed eminentemente, il novero degli accordi di carattere

generale o particolare circa le attività e le prestazioni su cui l’associazione può contare per la

realizzazione delle sue attività.

Funzionale significa “che serve” (a). La partecipazione all’associazione non è un delitto

di evento (ma è costituita dalla convenzione di carattere generale fra il singolo e

l’associazione). Men che meno lo è il concorso esterno (costituito anche, ed eminentemente,

dall’accordo di carattere particolare relativo ad una determinata prestazione, funzionale

all’esistenza ed all’attività dell’associazione considerata in generale). Il delitto associativo è

un delitto a consumazione anticipata, fondato di per sé sulla manifestazione di disponibilità

del soggetto. Problema in sé diverso è quello della prova.

In generale, comunque, l’evoluzione della giurisprudenza in questa materia conferma

appieno la validità dell’impostazione seguita in questa sede. La ricostruzione delle

caratteristiche concrete della associazione di volta in volta in oggetto, per la definizione dei

ruoli e delle relazioni concrete tra le persone e con i delitti, è chiaramente di tipo sistemico-

funzionalistico, affatto diversa dall’analisi di tipo causalistico fondata sulle massime

d’esperienza, e comunque la si definisca. Ma il chiarimento anche nominalistico appare

essenziale, dal punto di vista sostanziale.

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6. I contributi della teoria dell’organizzazione alla problematica del reato

politico

La teoria dell’organizzazione consente di ridefinire la problematica penalistica del reato

politico.

Il reato politico è a dimensione necessariamente organizzativa. Il singolo reato, del

singolo soggetto, compiuto per finalità politiche di qualsivoglia natura, non merita rilevanza

penalistica particolare: a prescindere dal collegamento (funzionale) con una dimensione

generale organizzativa.

Così si capisce anche perché il problema non può essere risolto nei termini (causalistici)

della “idoneità”.

Nell’art. 241 c.p., «Attentati contro la integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato»

era punito (con la pena di morte e poi con l’ergastolo) «Chiunque commette un fatto diretto a

sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero,

ovvero a menomare l’indipendenza dello Stato», nonché «chiunque commette un fatto diretto

a disciogliere l’unità dello Stato, o a distaccare dalla madre Patria una colonia o un altro

territorio soggetto, anche temporaneamente, alla sua sovranità».

Con la riforma operata con l’art. 1 l. 24.2.2006 n. 85, la previsione dell’art. 241 c.p., del

delitto di «Attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato» è che «Salvo che

il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il

territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a

menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a

dodici anni». «La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti

l’esercizio di funzioni pubbliche».

Neppure un soggetto che rivesta un ruolo politico o militare di somma rilevanza può

singolarmente compiere atti “idonei” a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso

alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato.

E invece l’attività del singolo può essere rilevante nel collegamento con una o più

organizzazioni ovvero con uno o più Stati diversi.

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L’aggravante della finalità terroristica può essere così sostanzialmente ridefinita nei

termini della funzionalità del delitto commesso rispetto alla realizzazione di un programma

delittuoso, eminentemente riferibile alla struttura organizzativa di una associazione.

L’organizzazione, come abbiamo già rilevato, è un processo, una dinamica, un

fenomeno. Nella dimensione organizzativa del reato politico, è “politica”, nel senso della

latitudine della “democrazia”, la scelta se attribuire rilevanza penale anche alla sola attività

(ideologica) di propaganda, e anche del singolo.

L’accordo fra più persone al fine di commettere un delitto contro lo Stato (art. 304 c.p.),

mentre può essere considerato sostanzialmente irrilevante se intervenuto fra persone del tutto

comuni, viceversa può avere da solo una grande rilevanza organizzativa, e una reale

dimensione di pericolosità, se intervenuto fra soggetti che sono rappresentanti e garanti di

altrettante diverse strutture organizzative.

7. Le figure di attentato, complotto e associazione di malfattori nel codice

penale francese del 1994

Nel codice penale francese del 1994, nel libro quarto «Descrimes et délitscontre la

nation, l’État et la paixpublique», la prima sezione del capitolo secondo riguarda le previsioni

«De l’attentat et ducomplot».

Secondo l’art. 412-1, «Costituisce un attentato il fatto di commettere uno o più atti di

violenza di natura tale da mettere in pericolo le istituzioni della Repubblica o da portare

pregiudizio [«porteratteinte», arrecare danno] all’integrità del territorio nazionale».

«L’attentato è punito fino a trent’anni di detenzione criminale e a tre milioni di franchi di

ammenda». «Le pene sono portate alla detenzione criminale fino a perpetuità e a cinque

milioni di franchi di ammenda quando l’attentato è commesso da una persona depositaria

dell’autorità pubblica».

Secondo l’art. 412-2, «Costituisce un complotto la risoluzione stabilita [«arrêtée»,

presa, assunta] fra più persone di commettere un attentato quando questa risoluzione è

concretizzata da uno o più atti materiali». «Il complotto è punito fino a dieci anni di prigione e

a un milione di franchi di ammenda». «Le pene sono portate fino a vent’anni di detenzione

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criminale e a due milioni di franchi di ammenda quando l’infrazione è commessa da una

persona depositaria dell’autorità pubblica».

Alla fine del medesimo libro è stata posta la previsione «Della partecipazione a una

associazione di malfattori».

Secondo l’art. 450-1, «Costituisce una associazione di malfattori qualsiasi gruppo

formato o intesa stabilita in vista della preparazione, caratterizzata da uno o più fatti materiali,

di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti fino a dieci anni di prigione». «La

partecipazione a una associazione di malfattori è punita fino a dieci anni di prigione e a un

milione di franchi di ammenda».

Secondo l’art. 450-2, «Qualsiasi persona che abbia partecipato al gruppo o all’intesa

definiti nell’articolo 450-1 è esentata dalla pena se, prima del processo

[«avanttoutepoursuite», lett. “prima di ogni perseguimento”], ha rivelato l’esistenza del

gruppo o dell’intesa alle autorità competenti e permesso l’identificazione degli altri

partecipanti».

Nell’art. 450-3 sono state previste le «pene complementari», interdittive: dei diritti

civici, civili, familiari, di esercitare una funzione pubblica, un’attività professionale o sociale,

del soggiorno.

Prima di parlare delle modifiche successive di questa disciplina (dell’art. 450-1) vanno

fatte alcune considerazioni.

La prima considerazione riguarda la collocazione dell’attentato, del complotto e della

associazione di malfattori nel medesimo libro dei crimini e delitti contro la nazione, lo Stato e

la pace pubblica.

La seconda considerazione riguarda la richiesta di «uno o più atti materiali» da cui sia

«concretizzata» la risoluzione costitutiva del complot e di «uno o più fatti materiali» da cui sia

«caratterizzata» l’attività costitutiva del delitto di association de malfaiteurs e il riferimento di

questa figura anche allo scopo di realizzare un solo crimine o delitto grave (punito con la

prigione fino a dieci anni).

La figura dell’association de malfaiteurs, diretta contro le persone o i beni (per il

riferimento al fenomeno del banditismo), era stata profondamente modificata con la legge 81-

82 del 2.2.1981. Secondo quell’art. 265 (la previsione già napoleonica come appunto

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modificata), «Chiunque avrà partecipato ad un’associazione formata o ad un’intesa stabilita in

vista della preparazione, concretizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini contro

le persone o i beni, sarà punito con la prigione da cinque a dieci anni e ne potrà essere

interdetto il soggiorno». Nel secondo comma, l’esclusione della pena per chi abbia rivelato

l’associazione o l’intesa e «permesso l’identificazione delle persone in questione».

La modifica aveva giustificazione per colpire la «grande delinquenza professionale» e la

«preparazione dei grandi crimini», che il vecchio testo «non permetteva di lottare

efficacemente»: «Nel quadro della preparazione delle grandi infrazioni, in effetti, i

protagonisti sono generalmente scelti colpo per colpo in funzione delle loro attitudini

particolari e per la realizzazione della sola infrazione avuta di mira»77.

Ulteriori considerazioni, relative al testo normativo dell’association de malfaiteurs del

codice del 1994, riguardano la generalizzazione (ai crimini e delitti di ogni tipo), la

limitazione ai delitti gravi (puniti con la prigione fino a dieci anni) e la corrispondenza della

pena della partecipazione all’associazione di malfattori a quella di tali delitti-scopo.

In tal modo, la figura (che copre dunque uno spazio coperto nel nostro sistema dalla

disciplina del tentativo e nel sistema anglosassone dalla figura della conspiracy) diventa

sostanzialmente una figura di parte (ovvero di carattere) generale.

L’ultima, importante, considerazione riguarda la precisazione contenuta nella circolare

(del 14.5.1993) che ha accompagnato e commentato l’emanazione del codice, che «Le

disposizioni dell’art. 267 che incriminavano precipuamente la complicità per fornitura di

mezzi del delitto di associazione di malfattori non sono state riprese, nella misura in cui esse

non presentano alcuna utilità in confronto alle regole generali della complicità»78 (corsivo

nostro). Si argomenta così l’abbandono di ogni tentativo di tipizzazione dei contributi

all’associazione, diversi dalla partecipazione stabile, in considerazione della applicabilità

della disciplina generale della complicità (corrispondente al nostro concorso di persone nel

reato).

77ROSSAT, Le nouveaurégimedesinfractionspénalesdans la loi “Securité et liberté”, in Revue internationale de

criminologie et de policetechnique, 1/1981, pp. 10 ss.; riportato da INSOLERA, L’associazione per delinquere,

cit., p. 288. 78 Sta in Code pénal. Nouveau code pénal, Paris, 1993-1994, p. 2204.

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Nei codici penali tedesco, svizzero, SPAGNOLO, portoghese sono puniti (oltre

ovviamente alla partecipazione): chi «sostiene» un’associazione terroristica (§ 129a StGB);

chi «sostiene» l’«organizzazione nella sua attività criminale» (art. 260 ter c. p. svizzero);

«Coloro che con i loro aiuti economici o di qualsiasi altro tipo, comunque rilevante,

favoriscono la fondazione, l’organizzazione o l’attività» delle associazioni sia per delinquere

che razzistiche (art. 518 c.p. SPAGNOLO); chiunque «appoggia» sia un’associazione per

delinquere che un’organizzazione terrorista «in particolare fornendo armi, munizioni e

strumenti del delitto, protezione o locali per le riunioni, o qualsiasi aiuto al fine del

reclutamento di nuovi elementi» (artt. 299 e 300 c.p. portoghese).

8. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale

organizzata (Palermo 2000)

La Convenzione delle nazioni unite contro la criminalità transnazionale organizzata,

aperta alla firma nella Conferenza di Palermo dei giorni 12-15 dicembre 2000, ratificata nel

nostro ordinamento con la legge 16.3.2006 n. 146, è stato il primo strumento giuridico

formale in cui vien posto il problema di un approccio di carattere generale e sistematico alla

problematica della criminalità organizzata e, può ben dirsi, di una definizione di carattere

generale della criminalità organizzata.

Nell’art. 1 è indicato l’«Oggetto» della Convenzione «di promuovere la cooperazione

per prevenire e combattere più efficacemente la criminalità transnazionale organizzata»79.

Nell’art. 3 è definito l’«Ambito di applicazione» della Convenzione, relativo «alla

prevenzione, alle investigazioni e all’esercizio dell’azione penale»: a) per le infrazioni

stabilite conformemente agli artt. 5, 6, 8 e 25 della stessa Convenzione, cioè rispettivamente

di «partecipazione a un gruppo criminale organizzato», «riciclaggio dei proventi del

crimine», «corruzione» e «intralcio alla giustizia»; b) per le «infrazioni gravi», secondo la

definizione contenuta nell’art. 2 della Convenzione, «quando queste infrazioni sono di natura

transnazionale e vi è implicato un gruppo criminale organizzato».

79 La traduzione è mia, dal testo francese: per questo l’uso del termine “infrazione”, che ho voluto mantenere

(“infraction pénale” nel codice francese, sinonimo del nostro “reato”). Fra le lingue in cui è stato redatto il testo

della Convenzione non c’è l’italiano.

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Nel paragrafo 2 dell’art. 3 è definita a tali fini l’«infrazione [...] di natura

transnazionale»: se «a) è commessa in più di uno Stato; b) è commessa in uno Stato, ma una

parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione e controllo avviene in un

altro Stato; c) è commessa in uno Stato, ma in essa è implicato un gruppo criminale

organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato, o d) è commessa in uno Stato

ma ha effetti sostanziali in un altro Stato».

Questa definizione è stata riprodotta nell’art. 3 della legge 146/2006 di ratifica della

Convenzione nel nostro ordinamento, con la precisazione che deve trattarsi di un reato punito

con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni (v. appena avanti nella

Convenzione) e che deve esservi coinvolto un gruppo criminale organizzato.

Nell’art. 2 della Convenzione è definita in generale la «Terminologia» usata al suo

interno. Fra le altre definizioni ivi contenute, «Ai fini della presente Convenzione:

a) L’espressione “gruppo criminale organizzato” designa un gruppo strutturato, che

esiste da un certo tempo, composto da tre o più persone che agiscono di concerto con

lo scopo di commettere una o più infrazioni gravi o infrazioni stabilite conformemente

alla presente Convenzione, per trarne, direttamente o indirettamente, un vantaggio

finanziario o un altro vantaggio materiale;

b) L’espressione “infrazione grave” designa una condotta che costituisce un’infrazione

passibile di una pena privativa della libertà personale di cui il massimo non deve

essere inferiore a quattro anni o di una pena più elevata;

c) L’espressione “gruppo strutturato” designa un gruppo che non si è costituito

occasionalmente per commettere immediatamente un’infrazione e che non ha

necessariamente dei ruoli formalmente definiti per i suoi membri, né continuità nella

composizione ovvero una struttura elaborata».

Seguono tante altre definizioni.

L’art. 4 della Convenzione riguarda la «Tutela della sovranità» degli Stati: «1. Gli Stati

Parti adempiono agli obblighi di cui alla presente Convenzione coerentemente con i principi

dell’uguaglianza sovrana, dell’integrità nazionale e del non intervento negli affari interni di

altri Stati». «2. Nulla nella presente Convenzione legittima uno Stato Parte a intraprendere nel

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territorio di un altro Stato l’esercizio della giurisdizione o di funzioni che sono riservate

esclusivamente alle autorità di quell’altro Stato dal suo diritto interno».

La lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo richiederebbe il superamento

del principio di territorialità statale della giurisdizione, e l’adozione di criteri di universalità

della giurisdizione. Ma questi tempi appaiono ancora lontani, e queste soluzioni

presuppongono il superamento di problemi sia politici che tecnici assai complessi.

L’art. 5 della Convenzione riguarda la «Penalizzazione della partecipazione a un

gruppo criminale organizzato»:

«1. Ogni Stato Parte adotta le misure legislative e di altra natura necessarie a conferire il

carattere d’infrazione penale, quando commessa intenzionalmente:

a) A una o a entrambe delle seguenti condotte, come infrazioni distinte da quelle che

comportano il tentativo di un’attività criminale o la sua consumazione:

i) Al fatto di accordarsi con una o più persone per commettere un’infrazione grave

per un fine concernente direttamente o indirettamente il raggiungimento di un

vantaggio economico o altro vantaggio materiale e, quando lo esige il diritto

interno, implicante un atto commesso da uno dei partecipanti in virtù di questa

intesa o che coinvolge un gruppo criminale organizzato;

ii) Alla partecipazione attiva di una persona, consapevole sia dello scopo e

dell’attività criminale generale di un gruppo criminale organizzato sia della sua

intenzione di commettere le infrazioni in questione:

a. Alle attività criminali del gruppo criminale organizzato;

b. Ad altre attività del gruppo criminale organizzato quando questa persona sa

che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione dello scopo criminale

summenzionato;

b) Al fatto di organizzare, dirigere, facilitare, incoraggiare o favorire in modo di un aiuto

o di consigli la commissione di una infrazione grave in cui è coinvolto un gruppo

criminale organizzato».

«2. La conoscenza, l’intenzione, lo scopo, la motivazione o l’intesa rappresentati nel

paragrafo 1 del presente articolo possono essere dedotti da circostanze di fatto obiettive».

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Gli artt. 6, 7 e 8 della Convenzione riguardano l’incriminazione del riciclaggio dei

proventi del crimine, del riciclaggio di denaro e della corruzione, l’art. 9 le misure «per

promuovere l’integrità e prevenire, rivelare e punire la corruzione dei pubblici ufficiali», l’art.

23 la penalizzazione dell’intralcio alla giustizia.

Con riferimento a queste infrazioni, nell’art. 10 è prevista e disciplinata la

«Responsabilità delle persone giuridiche», l’art. 11 riguarda le incriminazioni, il giudizio e le

sanzioni, l’art. 12 riguarda il sequestro e la confisca dei beni che ne sono il prodotto o di

valore corrispondente (la confisca c.d. “per equivalente”) nonché dei mezzi adottati per

commetterle, l’art. 13 riguarda la cooperazione internazionale ai fini di tale confisca. Le altre

disposizioni riguardano misure di cooperazione fra gli Stati per le menzionate finalità.

Occorre ricordare che alla Convenzione sono annessi: il Protocollo rivolto a prevenire,

reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare delle donne e dei bambini; il

Protocollo contro il traffico illecito di migranti per terra, aria e mare e il Protocollo contro

la fabbricazione e il traffico illecito delle armi da fuoco, di loro parti, elementi e munizioni;

protocolli, aventi dunque ad oggetto attività tipiche delle forme di criminalità transnazionale

organizzata e contenenti fra l’altro le definizioni di tutte le relative terminologie (che sarebbe

assai interessante esaminare ma che non è possibile fare in questa sede)

Dal riferimento della Convenzione alle attività delittuose volte a trarre, direttamente o

indirettamente, vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale restano esclusi, ovviamente,

i reati di terrorismo, che pure presuppongono una consistente dimensione organizzativa e che

possono essere ricompresi entro la categoria generale, e la problematica generale, della

criminalità organizzata: ciò, eminentemente, per la ragione politica che diversamente molti

Paesi, più o meno coinvolti con il terrorismo o che comunque non possono permettersi

posizioni dure contro il terrorismo, non avrebbero firmato la Convenzione.

Nella nozione di gruppo criminale organizzato, e nei criteri della relativa

penalizzazione, sono riprodotte le problematiche, e le esperienze, dei delitti associativi, della

conspiracy e della dimensione attuale dell’association de malfaiteurs.

La nozione è limitata alla finalità di realizzare infrazioni gravi; è costituita dalla finalità

di realizzare anche una sola infrazione grave, di natura complessa, da richiedere la stabilità

dell’organizzazione; è caratterizzata dalla stabilità del vincolo («un gruppo strutturato, che

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esiste da un certo tempo»); non ne sono richieste né una struttura elaborata né ruoli

formalmente definiti per i suoi membri né continuità nella sua composizione.

Non è indicata, nella Convenzione, alcuna correlazione fra la pena del delitto

associativo e quella dei delitti oggetto e scopo dell’associazione, che pure può essere

considerata essenziale per la sistematizzazione della materia della responsabilità penale per le

forme associative, per i contributi dati alla struttura organizzativa di un’attività delittuosa.

9. Le modifiche introdotte più recentemente nel codice penale francese

Proprio sotto quest’ultimo profilo, appare assai interessante come all’indomani

dell’apertura alla firma della Convenzione di Palermo la figura dell’association de

malfaiteurs dell’art. 450-1 del codice francese sia stata modificata (con la legge n. 2001-420

del 15.5.2001), oltre che nella soglia minima di gravità dei delitti oggetto e scopo

dell’associazione, con la differenziazione della pena della partecipazione all’associazione

secondo la gravità delle infrazioni che ne sono oggetto e scopo: «Costituisce un’associazione

di malfattori qualsiasi gruppo formato o intesa stabilita in vista della preparazione,

caratterizzata da uno o più fatti materiali, di uno o più crimini o di uno o più delitti puniti con

almeno cinque anni di prigione». «Quando le infrazioni preparate sono crimini o delitti puniti

fino a dieci anni di prigione, la partecipazione a un’associazione di malfattori è punita fino a

dieci anni di prigione e a 150.000 euro di ammenda». «Quando le infrazioni preparate sono

delitti puniti con almeno cinque anni di prigione, la partecipazione a un’associazione di

malfattori è punita fino a cinque anni di prigione e a 75.000 euro di ammenda».

Con la stessa legge 2001-420 del 15-5-2001 era stato introdotto nel codice il delitto

dell’art. 450-2-1: «Il fatto di non potere giustificare risorse corrispondenti al proprio tenore di

vita, essendo in relazioni abituali con una o più persone dedite alle attività previste nell’art.

450-1, è punito fino a cinque anni di prigione e a 75.000 euro di ammenda». Questa norma è

stata poi abrogata con l’art. 24 della legge n. 2006-64 del 23.1.2006.

Con la legge n. 98-468 del 17.6.1998 (dunque prima della Convenzione di Palermo) è

stata stabilita, nel nuovo art. 450-4 del codice penale francese, la responsabilità penale delle

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persone giuridiche (le «personnes morales»), con pene pecuniarie e interdittive, per la

correlazione con il delitto di associazione di malfattori. In generale la responsabilità penale

delle persone giuridiche era stata prevista nel codice nel testo originario del 1994 (art. 121-2).

Con la legge n. 2004-204 del 9.3.2004, recante adeguamenti della giustizia alle

evoluzioni della criminalità, è stata prevista, con l’art. 450-5 del codice penale, la confisca dei

beni delle persone fisiche e giuridiche responsabili del (della forma più grave del) delitto di

associazione di malfattori: «Le persone fisiche e giuridiche riconosciute colpevoli delle

infrazioni previste nel secondo alinea dell’articolo 450-1 e nell’articolo 450-2-1 [questo, come

abbiamo visto, abrogato nel 2006] incorrono ugualmente nelle pene complementari della

confisca di tutti o parte dei loro beni, quale che ne sia la natura, mobili o immobili, divisi o

indivisi».

Nell’art 222-34 è punito con la reclusione criminale fino a perpetuità e l’ammenda fino

a 7.500.000 euro «Il fatto di dirigere od organizzare un gruppo avente come oggetto la

produzione, la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione, il trasporto, la detenzione,

l’offerta, la cessione, l’acquisizione o l’uso illeciti di stupefacenti».

Negli artt. 222-35 e -36, i fatti di produzione o fabbricazione, importazione o

esportazione, puniti rispettivamente fino a vent’anni di reclusione criminale e fino a dieci anni

di prigione, sono puniti fino a trent’anni di reclusione criminale se «commessi in banda

organizzata»; nonché la previsione in tutti questi casi dell’ammenda fino a 7.500.000 euro.

Nell’art. 222-40 è stabilito che il tentativo di queste infrazioni è punito con le stesse

pene.

Nell’art. 222-42 è stabilita altresì per questi fatti la responsabilità penale anche delle

persone giuridiche.

10. La definizione penalistica sistematica della criminalità organizzata.

Conclusioni

Problema di questo inizio del terzo millennio è la definizione generale della criminalità

organizzata. Meglio, tecnicamente, l’edificazione della problematica della criminalità

organizzata come problematica di carattere generale, e di parte generale, del diritto penale, per

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un approccio di carattere generale e sistematico alle forme e ai fenomeni di criminalità

organizzata; differenziata, poi, secondo le caratteristiche dei delitti che possono essere

considerati tipici, e quindi definitori dal punto di vista penalistico, della forma organizzativa

di cui si tratta.

Con la codificazione ottocentesca si è compiuto il processo di generalizzazione delle

problematiche, e sistematizzazione delle discipline, del tentativo, del concorso di persone nel

reato, delle circostanze del reato, che nelle legislazioni precedenti erano previste in modo

specifico e frammentario accanto alle singole figure delittuose. Il che non ha certo eliminato

le ipotesi speciali e le discipline precipue. Oggi lo stesso problema riguarda la problematica e

le nozioni della criminalità organizzata. Altresì, e non sono sicuro che il problema sia affatto

distinto, la criminalità organizzata e il terrorismo devono costituire oggi le priorità

penalistiche, da affrontare in modo sistemico e sistematico, cioè oltre le forme della

legislazione speciale, nonché emergenziale. Le risorse principali del diritto penale vanno

riservate a questi fenomeni.

Problema ulteriore, pure connesso. Nella globalizzazione, nella dimensione

necessariamente transnazionale delle risposte istituzionali, vanno semplificate, e rese

omogenee, le nozioni e le procedure.

Già all’interno del nostro solo ordinamento, la congerie delle figure delittuose autonome

associative, delle relative circostanze aggravanti, i rapporti fra le diverse forme di

responsabilità (dei delitti associativi, del concorso nei delitti associativi, dei delitti realizzati

nel contesto dell’associazione, delle relative circostanze aggravanti), con i profili sostanziali,

processuali, giurisdizionali, dell’esecuzione, che vi sono connessi, creano problemi sia

interpretativi che pratici enormi; problemi, che lasciano per lo più aperti dubbi e incertezze. Il

senso addirittura (forse) del paradosso si coglie col fatto che una stessa organizzazione

criminale può essere riconducibile a diverse figure delittuose associative, e quindi costituire

anche le correlative diverse circostanze aggravanti, nonché le responsabilità per i singoli

concreti delitti. Con tutti i problemi che ovviamente conseguono.

Ebbene, si pensi a proiettare questi problemi nel rapporto con gli altri Paesi, con i

sistemi culturali, giuridici, giurisdizionali, istituzionali, degli altri Paesi, molti culturalmente

assai distanti dal nostro.

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Il confronto con gli altri sistemi può avvenire solo attraverso nozioni facilmente

condivisibili, nonché comprensibili.

Nozioni sofisticatissime, e anche sfuggenti, come molte di quelle di cui abbiamo fin qui

discusso, non sono condivisibili; e sono espressione, anzi, di una grande frammentazione del

nostro stesso sistema penale.

Il problema della definizione generale (delle nozioni) della criminalità organizzata può

essere affrontato nel modo seguente: da una parte, le nozioni generali e comuni della teoria

dell’organizzazione; dall’altra, le comuni nozioni delittuose (omicidio, estorsione, furto,

delitti di produzione e traffico degli stupefacenti), che possono essere considerate tipiche

(oggetto tipico, oggetto sociale), e quindi definitorie, dal punto di vista penalistico, della

organizzazione di cui si tratta in concreto; le une e le altre, così, costitutive della nozione

penalistica di organizzazione criminale.

Questo schema, e queste nozioni, sono a mio avviso comprensibili da tutti, di diverse

estrazioni culturali e latitudini geografiche: e come tali più facilmente condivisibili. Ma

(proprio per questo) servirebbero già, nella nostra pratica, come in parte dovrebbe essere

emerso in questo lavoro, a definire meglio i contenuti delle nozioni penalistiche

dell’organizzazione criminale, con i relativi profili probatori.

Le pene delle (forme di) responsabilità per la (il contributo personale alla)

organizzazione criminale non possono non essere parametrate, fra altro, ma innanzitutto,

all’entità penalistica dell’attività oggetto dell’organizzazione: ai delitti tipici

dell’organizzazione (che quindi ne sono definitori dal punto di vista penalistico) e all’entità

quantitativa dell’attività delittuosa della stessa. E, d’altro canto, alle tipologie ed entità delle

relazioni personali e quindi rilevanza dei contributi personali all’organizzazione.

In questo modo, tecnicamente comprensibile, verrebbe risolto il nodo della dimensione

sociologica delle nozioni dei fenomeni criminali, e ridotta, dal punto di vista specifico

penalistico, la relativa complessità.

L’analisi fin qui svolta, sulle dimensioni dei fenomeni criminali e le caratteristiche delle

risposte istituzionali, entrambe progressivamente e inevitabilmente transnazionali, induce una

considerazione. Nell’epoca moderna il diritto è stato mantenuto separato, fra l’altro, dalla

problematica della guerra: si pensi alla fine della prima guerra mondiale alla polemica sul

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rifiuto degli olandesi di consegnare il Kaiser alle potenze vincitrici che volevano processarlo e

alla posizione di KELSEN favorevole a quel rifiuto, con l’argomento appunto della differenza e

quindi della distinzione del diritto dalla guerra. Oggi, si può dire, da una parte, il diritto adotta

tecniche e metodiche di tipo militare nei confronti dei fenomeni del terrorismo e della

criminalità organizzata, comunque difformi dalle tecniche giuridiche tradizionali. Dall’altra, il

diritto si pone seriamente il problema di regolamentare, e delimitare, anche la guerra: certo,

con grandi difficoltà, politiche, pratiche e concettuali. Si pensi alla creazione con lo Statuto di

Roma del 17.7.1998 della Corte penale internazionale permanente, per i crimini di guerra,

contro l’umanità e di genocidio, e al fatto però che dei cinque Paesi del Consiglio di sicurezza

delle Nazioni Unite non abbiano sottoscritto lo Statuto gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.

Le osservazioni che possono chiudere questo saggio riguardano la problematica delle

garanzie: di fronte alla complessità, delle attività umane, della società, della cultura, della

politica, delle risposte istituzionali.

La concezione illuministica, razionalistica e cattolica del diritto, e del diritto penale in

modo particolare, credeva nella delimitazione, formale, con la forma della legge, della soglia

sia dell’illecito, e precipuamente del delitto, come della garanzia. La soglia definita nella

legge è il limite che il cittadino non deve superare per non commettere un illecito (tra

parentesi, nella concezione liberale, il cittadino può fare tutto ciò che non sia espressamente e

formalmente vietato). La soglia è il limite definito nella legge che il funzionario non deve

superare nella gestione delle tecniche di accertamento e giudizio degli illeciti.

Oggi, questo concetto di soglia è abbastanza in difficoltà, concrete e culturali, di fronte

alla complessità, rispettivamente, dei fenomeni e degli illeciti, della società e della cultura e

della politica, delle risposte istituzionali: complessità, rispetto a cui diventano insufficienti sia

la capacità pre-definitoria della forma della legge sia i criteri tradizionali definitori e

argomentativi causalistici. La legge contiene sempre più criteri, di valutazione e

argomentazione, e assegna direttamente agli operatori funzioni da realizzare in concreto. Così

la discrezionalità non è solo di tipo valutativo, fra più e meno dei criteri valutativi definiti

nella legge, ma anche di tipo operativo, fra meglio e peggio, più opportuno e meno opportuno,

perfino fra più e meno conveniente, in relazione a determinati obiettivi da realizzare e ai

relativi parametri.

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Anche la problematica delle garanzie deve essere arricchita, quindi, in senso

funzionalistico.

Garanzie non sono più soltanto i limiti legali. Garanzie sono anche quelle della prova,

della razionalità del procedimento, dell’argomentazione e della motivazione dei giudizi, della

collegialità dei giudici, della professionalità e della formazione, dei controlli, delle

responsabilità, di tutti gli operatori della giustizia.

La problematica ovvero la teoria dell’organizzazione, che contribuisce a ridefinire e a

riempire di significato le nozioni di responsabilità, e quindi arricchisce i contenuti della prova

e delle argomentazioni, di tutti sistemi complessi, contribuisce pure, ovviamente, a supportare

e arricchire le analisi relative alle strutture istituzionali, agli uffici e ai procedimenti della

prevenzione e repressione, nonché della collaborazione internazionale, sotto i profili tanto

dell’efficienza quanto delle garanzie del cittadino.

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A PROTEÇÃO DO CONSUMIDOR BRASILEIRO NO

COMÉRCIO ELETRÔNICO INTERNACIONAL

César Leandro de Almeida Rabelo Mestrando em Direito Público pela Universidade FUMEC

Desirée Lorraine Prata Bacharel em Direito pela Universidade FUMEC e Advogada militante

RESUMO: O presente trabalho tem por escopo apresentar o crescimento dos contratos

eletrônicos no âmbito nacional e internacional, o que permite a livre circulação de divisas e

mercadorias, abrindo todo mercado nacional e internacional. Com isso, surgiu uma

preocupação com os contratos internacionais de consumo, exigindo a criação de um quadro

normativo que confira certeza jurídica aos particulares nas suas atividades transnacionais,

protegendo o consumidor de eventuais quebras contratuais

PALAVRAS-CHAVE: Contrato eletrônico; Internet; Consumidor; Proteção

1. Introdução

A integração econômica nos últimos anos acabou por ampliar o volume de contratos

internacionais feitos através da Internet, bem como a possibilidade de acesso imediato dos

consumidores ao mercado internacional, portanto houve um aumento do número de conflitos

jurídicos decorrentes de tais situações. Conseqüentemente com a abolição das barreiras para a

livre circulação dos fatores produtivos, surgiu uma preocupação com os contratos

internacionais de consumo, exigindo a criação de um quadro normativo que confira certeza

jurídica aos particulares nas suas atividades transnacionais.

A Internet com sua característica globalizada e democrática coloca o consumidor em

contato direto com o fornecedor estrangeiro, criando uma relação internacional de consumo,

raramente ocorrida antes da era virtual. As conseqüências jurídicas deste fato se mostram

quando percebemos que as normas de proteção e as regras tradicionais do comércio

internacional se confrontam gerando insegurança ao consumidor.

O consumidor necessita da determinação de questões primordiais, como por exemplo,

para que este obtenha seu direito, deverá encontrar um tribunal competente para decidir sobre

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suas pretensões e caso este tribunal se encontre em outro país, qual legislação será aplicada

para que se veja garantido os seus interesses.

O consumidor pode enfrentar problemas fundamentais devido à estrutura tradicional do

Direito Internacional Processual: primeiro, resulta enorme o esforço do consumidor na

procura de um tribunal adequado para realização dos seus direitos. Além disso, existe o risco

dele não encontrar um tribunal competente em seu próprio país, enfrentando assim os custos e

a incerteza de um processo no estrangeiro.

2. Os contratos eletrônicos: aspectos gerais

A partir do momento em que há a celebração do contrato eletrônico com o site

responsável pela venda, (note-se que se trata de um site cuja sede social não está no Brasil),

cria-se, obviamente, uma obrigação de adimplemento do contrato celebrado entre o vendedor

virtual estrangeiro e o consumidor brasileiro. Com efeito, caso a empresa vendedora possua

filial ou sucursal em território brasileiro, estas serão acionadas em eventual processo judicial.

A Constituição da República, em seu artigo 5.º, inciso XXXII, prevê a proteção estatal

do consumidor através de lei ordinária. Essa lei é o Código de Defesa do Consumidor, (Lei n.º

8078/90). A proteção do Código abrange todas as pessoas, sejam elas físicas ou jurídicas,

desde que estas sejam destinatárias finais do produto ou do serviço.

Deve-se consignar que, após duríssimos anos que levaram à consolidação do respeito ao

consumidor brasileiro, através do advento da lei de proteção e defesa consumerista, o

comércio eletrônico não possui o condão de afastar a sua aplicabilidade. O comércio virtual

deve ser entendido apenas como um meio de efetuar as transações, assim como o telefone ou

o telefax.

O Direito Internacional Privado e Processual possui fundamental importância prática

para as relações comerciais estabelecidas entre as pessoas, sendo sabido que a liberdade de

escolha é um dos pilares contemplados pelo ordenamento jurídico brasileiro como mais ativo

instrumento de proteção e defesa do consumidor, portanto é de suma importância a

uniformização das normas jurídicas, pois são as mesmas que oferecem novas soluções para a

disciplina das relações consumeristas internacionais.

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O avanço em larga escala destes tipos de problemas clama por soluções que sejam ao

mesmo tempo adequadas aos tempos da nova economia, e mantenham a obediência ao

sistema legal vigente em nosso país. Além disso, lembramos que será necessário um

entendimento dos governos dos países envolvidos, buscando minimizar os prejuízos e

padronizando os acordos internacionais sempre que possível.

Com o aumento progressivo das relações internacionais de troca, ao longo das últimas

décadas, faz-se necessário um corpo de normas substantivas e uniformes, hábil a regulamentar

tais transações, de forma a assegurar proteção suficiente e eficaz ao consumidor eletrônico.

O consumidor não pode ser prejudicado, seja em questões como segurança, qualidade,

garantias ou o próprio acesso à justiça, como conseqüência de ter adquirido produto ou

serviços com defeitos e vícios, através do meio eletrônico, conflito cada vez mais presente nos

dias atuais. Tais conflitos se devem ao fato das transações através da Internet serem cada dia

mais populares entre a sociedade moderna mundial, inclusive a brasileira.

3. Características

O contrato eletrônico, para Semy Glanz, “é aquele celebrado por meio de programas de

computador ou aparelhos com tais programas, dispensando ou exigindo assinatura codificada

ou senha”.

A principal característica do contrato eletrônico é o meio utilizado para sua celebração,

assim como para o cumprimento da obrigação ou execução, mas pode ocorrer de forma total

ou parcial através do sistema eletrônico, segundo Ricardo Lorenzetti .

As partes podem enviar suas declarações de vontade digitalmente ou receber e-mail

com a proposta, assinar depois de imprimi-la e devolver ao emitente. Para o cumprimento da

mesma forma, é possível receber o bem imaterial por download e pagar com cheque, ou

receber o bem pelo correio e pagar com transferência eletrônica bancária.

Para MARIA EUGÊNIA REIS FINKELSTEIN , embora o meio eletrônico seja empregado

para celebração do contrato, vale lembrar que serão utilizadas as mesmas regras aplicadas aos

contratos por meio físico.

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Portanto, podemos dizer que o que difere o contrato eletrônico do dito tradicional é a

questão do meio probante, da proposta e da aceitação. Desta forma, a identificação daquele

que emite a mensagem é primordial, exigindo-se assinatura eletrônica, código secreto, cartão

magnético, criptografia, impressão digital ou reconhecimento de voz. Ao empresário

fornecedor cabe a responsabilidade sobre:

a) a integridade sobre o acesso do consumidor e sua identificação;

b) a integridade da informação transmitida;

c) a confidencialidade, permitindo o acesso apenas às partes contratantes.

O princípio do ônus da prova deverá imperar a favor do consumidor hipossuficiente,

sendo regra estrutural de ordem pública.

O contrato eletrônico por se tratar de contrato entre ausentes, devido ao fornecedor e

consumidor se encontrarem em países distintos, havendo um lapso de distância, mas não

necessariamente de tempo, dada a natureza do meio eletrônico, podemos apontar duas

possibilidades, uma quando a contratação ocorre com trocas de e-mails ou com lapso

temporal claro, e outra quando há um diálogo em chats ou instant Messenger.

O art. 428 do Código Civil de 2002 prevê, in verbis:

Art. 428 - Deixa de ser obrigatória à proposta:

I – se, feita sem prazo a pessoa presente, não foi imediatamente aceita;

II – se, feita sem prazo a pessoa ausente, tiver decorrido tempo suficiente para chegar à resposta ao

conhecimento do proponente;

III – se, feita a pessoa ausente, não tiver sido expedida a resposta dentro do prazo dado;

IV – se, antes dela, ou simultaneamente, chegar ao conhecimento da outra parte a retratação do

proponente.

A previsão consumerista do art. 49 do CDC vem, não de forma direta, acompanhar o

critério internacionalista da norma indicativa pátria, o art. 9º, §2º da LICC, ou seja, a

obrigação resultante do contrato reputa-se constituída no lugar em que residir o proponente.

A conclusão contratual entre ausentes forma-se no momento em que o proponente tem

conhecimento da resposta do aceitante, de seu conteúdo. Já a Teoria da Agnição tem como

concluído o contrato no momento em que a resposta é aceita pelo oblato, sendo que esta se

divide em modalidade expedição e recepção. Na modalidade da recepção, exige-se o

recebimento da resposta enviada por parte do solicitante, mesmo que não a leia. Na

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modalidade da expedição, sendo esta a regra adotada pelo nosso direito, considera-se

concluído o contrato no momento em que é expedida a correspondência que contém a

resposta afirmativa.

Para alguns autores, esta regra adotada pelo Direito Brasileiro pode ser perfeitamente

aplicável aos contratos eletrônicos internacionais de consumo. Portanto, na falta de

regulamentação especial, os contratos eletrônicos, pelo Direito Brasileiro, obedecem aos

mesmos requisitos de validade dos contratos tradicionais, ainda que existam algumas

particularidades dos contratos internacionais, cuja internacionalidade pode ser caracterizada

pelo fato ou ato jurídico que deva ter um elemento de estraneidade que os conecte ao menos a

dois ordenamentos diversos.

Para Strenger :

“uma das características dos contratos internacionais é a sua vinculação a um ou mais sistemas jurídicos

estrangeiros, além de outros dados de estraneidade, como o domicílio, a nacionalidade, a lex voluntatis, a

localização da sede, centro das principais atividades, e até a própria conceituação legal”.

A evolução tecnológica e a globalização dos mercados acarretaram mudanças profundas

nos padrões de produção, provocando a intensificação da formação de blocos de integração e

aumento do comércio internacional, já que consumir bens e serviços se tornou muito fácil,

surgindo a partir de então problemas práticos devidos à implantação do comércio eletrônico

em diversas economias mundiais, que trouxeram como conseqüência desafios legais que

ainda esperam por respostas efetivas.

4. A proteção do consumidor no âmbito nacional e internacional

Atualmente a proteção do consumidor é considerada um direito humano fundamental

por estar positivado pela Constituição da Republica de 1988, em seu art 5º XXXII, este

princípio saiu da esfera meramente econômica e social e passou a merecer destaque em nossa

legislação.

Esta matéria é de suma importância no mundo moderno já que o volume de acordos

tanto bilaterais como multilaterais têm crescido enormemente para fomentar o comércio

internacional. MAZZOULI (2002, p.146) ilustra o exposto utilizando informações do Ministério

das Relações Exteriores, salientando que o Brasil na época do Império concluiu 183 atos

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internacionais, 200 atos na Primeira República e somente nos primeiros anos do governo do

Presidente Fernando Henrique Cardoso, foram celebrados 392 atos bilaterais e 143

multilaterais.

Desta forma, a aplicação destas normas de direito internacional em conexão com

interesses privados deve estar em sintonia com o Direito Constitucional. Se estas normas

internacionais forem de encontro aos direitos fundamentais tutelados em nossa constituição,

devem ser desprezadas e se ampliarem o grau de proteção ao homem, devem ser aplicadas

imediatamente, segundo o art 5º, §§ 1º e 2º da CR/1988.

A tutela do consumidor não é assunto característico dos últimos anos, mas constitui

matéria com determinado passado histórico.

O Código de Hamurabi já previa algumas leis de proteção ao consumidor em casos de

serviços deficientes nas Leis 233 e 235 (FILOMENO, 2001, p.22). Também o Código de Massú,

vigente na Mesopotâmia, Egito Antigo e Índia do séc XIII a.C. acabava por proteger os

consumidores indiretamente ao tentar regular as trocas comerciais (PERIN, 2003, p.6).

No direito romano clássico, o vendedor era responsável pelos vícios da mercadoria a

menos que os ignorassem. No Período Justiniano, a responsabilidade passou a ser atribuída ao

vendedor independente de seu conhecimento do vício. Se a venda tivesse sido feita de má-fé,

cabia ao vendedor ressarcir o consumidor devolvendo a quantia recebida em dobro.

Nas últimas décadas, os países viram a necessidade de se unirem em blocos a fim de

reduzirem barreiras tarifárias e incrementarem o comércio internacional para competirem no

mundo globalizado. Os consumidores passaram a contar com a facilidade de poder adquirir os

mais variados produtos e serviços originários de qualquer parte do mundo.

Entretanto, esta facilidade também veio acompanhada de uma série de dificuldades que

demonstram a fragilidade do consumidor nas relações de consumo. Esta vulnerabilidade, já

reconhecida nas relações de consumo nacionais, se tornava ainda maior devido às diferenças

de idiomas e legislações.

Proteger o consumidor, reconhecendo a desigualdade entre os protagonistas do

mercado, significava proteger o próprio sistema capitalista e o desenvolvimento destes novos

mercados.

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Com efeito, apenas após o crescimento dos grupos de defesa do consumidor e um longo

período de mobilização da opinião pública para chamar a atenção dos legisladores para

adoção de medidas protetivas é que o papel do consumidor, o "protagonista esquecido" nos

tratados de integração , foi levado em consideração.

O Sherman Antitrust Act de 1890 foi a primeira manifestação moderna da necessidade

de proteção do consumidor (MARQUES, 2004, p.319). Mas apenas em 1962, com a mensagem

do Presidente Kennedy ao Congresso dos EUA, conhecida como "Declaração dos Direitos

Essenciais do Consumidor", através da qual se elencavam seus quatro direitos básicos, quais

sejam direito à segurança, informação, escolha e direito de ser ouvido, consolidando, portanto

a idéia de sua tutela.

Posteriormente, já na década de 70, foi a vez da Europa se manifestar sobre o assunto

principalmente através do Conselho da Europa em 1973 e da Comunidade Econômica

Européia em 1975.

Na mesma época, a Comissão de Direitos Humanos das Organizações das Nações

Unidas (ONU), em sua 29a sessão reconheceu como direitos fundamentais e universais do

consumidor, aqueles direitos contidos na Declaração dos Direitos Essenciais do Consumidor

dos Estados Unidos.

Finalmente em 1985, a Assembléia Geral da ONU editou a resolução n. 39/248 de

10/04/1985 sobre a proteção ao consumidor, positivando o princípio da vulnerabilidade no

plano internacional. As diretrizes constituíam um modelo abrangente descrevendo oito áreas

de atuação para os Estados a fim de prover proteção ao consumidor. Dentre elas:

a) proteção dos consumidores diante dos riscos para sua saúde e segurança;

b) promoção e proteção dos interesses econômicos dos consumidores;

c) acesso dos consumidores a uma informação adequada;

d) educação do consumidor;

e) possibilidade de compensação em caso de danos;

f) liberdade de formar grupos e outras organizações de consumidores;

Logo estas organizações teriam a oportunidade de apresentarem suas visões nos

processos decisórios que as afetassem.

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Estas diretrizes forneceram um importante conjunto de objetivos básicos

internacionalmente reconhecidos, desenhados especialmente para os países em

desenvolvimento a fim de ajudá-los a estruturar e fortalecer suas políticas de proteção ao

consumidor.

Em seguida, foram aprovadas as resoluções do Conselho Econômico e Social (julho/88

e julho/90). Em nível regional, a International Organization of Consumers Unions (IOCU),

uma organização não governamental mundial de defesa do consumidor, celebrou em

Montevidéu, em outubro de 1986, sua primeira conferência regional para América Latina e

Caribe. Pouco depois em março de 1987, a ONU, também em Montevidéu, impulsionou a

realização de um encontro com um pouco mais de 20 países e algumas organizações de

consumidores para discutir a aplicação das diretrizes no continente.

A partir daí, vários países passaram a abordar a questão da proteção do consumidor

dentro da jurisdição interna seja adaptando ou elaborando sua legislação. O Brasil, Argentina,

Peru, Honduras, Equador, Chile, Costa Rica, México, Paraguai e Uruguai promulgaram leis

específicas sobre o tema, sendo que os três primeiros, além de El Salvador, incluíram a tutela

do consumidor em suas constituições. Outros países como Bolívia, Guatemala, Trinidad e

Tobago, Nicarágua e Colômbia estavam em processo de elaboração de suas legislações.

O sucesso desta investida se deu graças à monitoração e assistência da ONU aos países

das Américas e Ásia (MARQUES, 2004, p.323) e, finalmente, em dezembro de 2002, a proteção

do consumidor foi declarada direito fundamental pelos presidentes dos quatro Estados-

membros do Mercosul.

5. A proteção do consumidor no brasil como direito humano fundamental

Para CANÇADO TRINDADE (1997, p.17) a idéia dos direitos humanos é tão antiga quanto

à história das civilizações, e tem como objetivo: “afirmar a dignidade da pessoa humana, lutar

contra todas as formas de dominação, exclusão e opressão, em prol da salvaguarda contra o

despotismo e a arbitrariedade, e na asserção da participação na vida comunitária e do

princípio da legitimidade".

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Segundo o autor, o reconhecimento destes direitos básicos acaba por formar padrões

mínimos universais de comportamento e respeito ao próximo, observando as necessidades e

responsabilidades dos seres humanos. Os direitos humanos são vinculados ao bem comum,

tendo em vista a emancipação do ser humano de todo o tipo de servidão, inclusive a de ordem

material.

Os direitos do homem foram conformados no século XVII, expandindo-se no século

seguinte ao se tornar elemento básico da reformulação das instituições políticas. Atualmente,

não se denominam mais direitos do homem, mas sim, direitos humanos, terminologia mais

politicamente correta (FERREIRA, 1996, p.14). Portanto, direitos humanos fundamentais ou

direitos fundamentais têm o mesmo significado.

CANOTILHO (1998, p.369) distingue os direitos do homem dos direitos fundamentais,

sendo os primeiros, "direitos válidos para todos os povos e em todos os tempos" e os

segundos são os direitos do homem jurídico-institucionalmente garantidos e limitados no

tempo e espaço.

BONAVIDES (2000, p. 514-518) acredita que os direitos fundamentais são os direitos do

homem que as Constituições positivaram, recebendo destas um nível mais elevado de

garantias ou segurança. Cada Estado, pois, tem seus direitos fundamentais específicos.

Entretanto, o autor acrescenta que os direitos fundamentais estão vinculados aos valores de

liberdade e da dignidade humana, nos levando assim ao "significado de universalidade

inerente a esses direitos como ideal da pessoa humana".

Nesta mesma esteira, CANOTILHO (1998, p. 353-356) ensina que a positivação dos

direitos fundamentais, considerados "naturais e inalienáveis" do indivíduo, pela Constituição

como normas fundamentais constitucionais é que vincula o direito. Sem o reconhecimento

constitucional, estes direitos seriam meramente aspirações ou ideais, seriam apenas "direitos

do homem na qualidade de normas de ação moralmente justificadas".

A doutrina atualmente classifica estes direitos em direitos humanos fundamentais de

primeira, segunda, terceira e quarta dimensões, temos que ressaltar que tais direitos são

duramente criticados por diversos autores já que estes direitos se completam, se expandem, se

acumulam e não se substituem ou se sucedem, e cujos conteúdos ensejariam os princípios:

liberdade, igualdade e fraternidade.

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Direitos de primeira dimensão ou direitos de liberdade seriam os direitos e garantias

individuais e políticos clássicos, as chamadas liberdades públicas. Visavam inibir a

interferência indevida do Estado na vida do cidadão.

Os direitos de segunda dimensão ou direitos de igualdade referem-se aos direitos

sociais, econômicos e culturais, surgidos no início do século XX. Eram os direitos de caráter

social. Neste caso, a interferência do Estado era desejada para garantir a igualdade material

dos indivíduos.

Direitos de terceira dimensão ou direitos de solidariedade ou fraternidade são os direitos

da coletividade, de titularidade coletiva ou difusa. Dentre eles se encontram o direito à paz,

meio ambiente equilibrado, à comunicação, a proteção do consumidor, dentre outros (DE

LUCCA, 2003, p.426).

BONAVIDES (2000, p. 524-526) cita ainda uma quarta dimensão de direitos originários

do mundo globalizado. São eles os direitos à democracia, à informação, ao pluralismo e

seriam estes direitos que possibilitariam a legítima globalização política.

Para CANÇADO TRINDADE (1997, p.23-24), não há como dividir os direitos humanos

invocando certas categorias de direitos em razão de sua "pretensa natureza jurídica". Separar

o econômico do social e do político a fim de negar-lhes os meios eficazes de implementação,

não deveria resistir aos imperativos de proteção dos direitos humanos. Daí a necessidade da

consolidação de obrigações erga-omnes de proteção diante de uma concepção integral e

abrangente dos direitos humanos que envolvam todos os seus direitos: civis, políticos,

econômicos e culturais.

No entanto, a expansão e generalização da proteção internacional dos direitos humanos

enfrentam ultimamente tentativas de categorizações de direitos, inclusive em relação às

pessoas protegidas, ou pela relação com o Estado (se é um direito que proteja o homem do

Estado ou pelo Estado). A I Conferência Mundial dos Direitos Humanos realizada em Teerã

em 1968, pôs termo a esta discussão, afirmando que a realização plena dos direitos civis e

políticos seria impossível sem o gozo dos direitos econômicos, sociais e culturais

(BONAVIDES, 2000, p.360).

Como visto anteriormente, a partir da resolução n. 39/248 de 10/04/1985 da

Organização das Nações Unidas (ONU), diversos países passaram a enfrentar a questão da

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proteção do consumidor incluindo o Brasil, que juntamente com a Argentina, apresentam as

melhores e mais avançadas legislações nesta matéria dentro do Mercosul.

A Constituição da República de 1988 consagra a defesa do consumidor no artigo 5º,

XXXII, que versa sobre os direitos e garantias fundamentais, ou seja, "O Estado promoverá,

na forma da lei, a defesa do consumidor". Desta forma, o legislador obrigou o Estado a

promover a proteção do consumidor, elevado a direito fundamental do cidadão.

A defesa do Consumidor também está prevista no art. 170, V, da Constituição Federal

brasileira, onde deve-se garantir a melhoria da qualidade de vida dos cidadãos pela

implementação de uma política de nacional de consumo.

Finalmente, o Congresso Nacional conforme orientação de nossa Carta Magna,

elaborou a Lei 8.078 de 11/09/1990 de proteção ao consumidor, criando o Código de Defesa

do Consumidor (CDC). Por se tratar de um verdadeiro "microssistema jurídico", já que nele se

encontram normas de direito penal, civil, constitucional, processuais penais, civis e

administrativas, com caráter de ordem pública (DORNELLES, 2003, p.46) e constituir legislação

extremamente avançada, O Código Brasileiro de Defesa do Consumidor acabou por

influenciar as legislações dos outros países do Mercosul.

Neste sentido então, sendo a proteção do consumidor um direito fundamental já

declarado pela ONU, positivado em nossa constituição e reconhecido pelos países-membros do

Mercosul como já dito anteriormente, necessário se faz nos ater mais detalhadamente na

internacionalização de tratados de direitos humanos em nossa legislação.

5. As garantias do consumidor brasileiro no comércio eletrônico

internacional

No direito brasileiro, a princípio, as relações de consumo, quando são enquadradas nas

definições do CDC, ou seja, nas definições de consumidor, fornecedor e produto ou serviço,

será esta Lei especial que regerá a questão consumerista.

É notório que as relações de consumo, em função das características das relações

contemporâneas e pela facilidade trazida pela rede mundial de computadores, têm ocorrido

cada vez mais entre consumidores e fornecedores de diferentes países, estabelecendo uma

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relação internacional entre pessoas, físicas e jurídicas, sendo denominada pela doutrina como,

relação de Direito Internacional Privado, com suas normas conflituais ou de solução de

conflitos.

Segundo Amílcar de Castro, “encontram-se fatos e relações que, pelas suas

características, superam os limites da vida real interna de determinado Estado” ,portanto,

podemos afirmar que existe um elemento externo a um dos pólos, ou seja, ao sistema legal da

nação, havendo o surgimento de um fato anormal a este direito. Sem a existência do elemento

externo, não há fato anormal ao direito do respectivo país e a questão deverá ser tratada

exclusivamente pelo ordenamento nacional.

A apresentação do elemento de estraneidade faz com que dois ou mais ordenamentos

jurídicos possam estar relacionados com a tutela sobre os interesses conflitantes entre as

partes.

Cada Estado pode avocar para si a jurisdição sobre a matéria, além de possuir regras

materiais diferentes, e como dificilmente haverá um direito uniforme ou uniformizado entre

os países, estes se preocuparam em resolver tais conflitos, denominados “conflitos de 1º

grau”.

Para tanto, os Estados criaram normas internas, normas de Direito Internacional

Privado, tidas como normas indicativas, que determinarão e sistematizarão o direito aplicável

ao caso concreto com elemento de estraneidade. Neste caso, a competência internacional

daquele país já estará fixada e um possível conflito jurisdicional persistirá.

Os Estados estão sujeitos à limitações sobre os poderes de jurisdição em casos que

tratem de interesses ou atividades estrangeiras. Ainda que disponha de certa

discricionariedade na determinação dos critérios da matéria pertinente à jurisdição nacional,

cada Estado é obrigado a exercer com moderação a tarefa de invocar jurisdição em casos que

envolvam algum elemento estrangeiro.

Sob a perspectiva jurídico-internacional, o termo jurisdição compreende três categorias

de poderes:

a) jurisdição legislativa, que se constitui na "jurisdição para prescrever" um princípio ou

norma legal, seja por lei, decreto executivo, regulamentação administrativa ou por

jurisprudência;

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b) jurisdição judicial, que nada mais é do que a "jurisdição para adjudicar" demandas

judiciais;

c) jurisdição executiva, determinada pela "jurisdição para fazer cumprir" leis e

regulamentos, bem como ordens e decisões judiciais.

A noção tradicional da extensão dos poderes de jurisdição exprimia que um país deteria

poderes absolutos para regular pessoas e coisas que se encontrassem dentro de suas fronteiras,

bem como condutas que nele ocorressem. Como a eficácia da lei no espaço se confundia com

os limites territoriais de uma nação, tentativas de exercícios de poderes fora dos respectivos

limites territoriais não eram legitimadas pelo direito dos povos e, eventualmente,

ocasionavam conflitos armados entre as soberanias envolvidas.

No entanto, graças a mudanças econômicas e a avanços na tecnologia, as relações entre

pessoas de diferentes territórios tornaram-se cada vez mais comuns. A aproximação entre as

nações e o crescimento das transações internacionais dificultava a aplicação de uma

concepção estrita de territorialidade. A solução veio com a criação de um sistema reconhecido

pela comunidade internacional, que enumerava circunstâncias em que se justificaria a sujeição

de cidadãos e residentes de um país à autoridade de outro. Assim, com o intuito de solucionar

conflitos de jurisdição, desenvolveram-se os seguintes critérios básicos:

1) o princípio da nacionalidade;

2) o princípio da nacionalidade passiva;

3) o princípio protetor;

4) o princípio universal.

No contrato de consumo realizado por meios eletrônicos o consumidor continua com a

mesma proteção antes conferida pelas leis precedentes. Mesmo regras de conteúdo processual

também se mostram aplicáveis na instrumentalização de obrigações oriundas de transações

realizadas em meio eletrônico, mas a realidade das redes eletrônicas abertas e a disseminação

do comércio eletrônico trouxeram fatalmente uma constatação: a de que as leis em vigor não

são suficientes a oferecer respostas a todas as necessidades do consumidor nesses novos

ambientes virtuais. A novidade das relações nesse tipo de ambiente sugere a existência de

certas inadequações e lacunas na lei vigente que necessitam serem reparadas.

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Por fim, podemos dizer que as regras de competência internacional do Estado emanam,

em primeiro lugar, de seu próprio ordenamento. São regras de direito processual compostas

por um sistema dinâmico que pode ser chamado de Direito Processual Internacional. Este

sistema, como parte do Direito Internacional Privado, terá ainda como fonte regras a partir do

Direito Internacional Público, normas costumeiras e acordos internacionais, os Tratados,

visando à solução dos conflitos de jurisdição que se instalem nas relações multiconectadas.

Portanto, a competência internacional da Justiça brasileira está fixada, sendo exclusiva,

segundo nossa posição em razão do art. 101 inciso I do CDC, ou concorrente conforme o

inciso II do art. 88 do CPC, local de cumprimento da obrigação, o magistrado deverá

socorrer-se de nossas normas indicativas em relação à presente demanda.

6. Conclusão

O Direito Internacional Privado e Processual diverso e próprio de cada país produziria

freqüentemente resultados insatisfatórios, tornando cada vez mais urgente à necessidade da

internacionalização nas zonas de integração econômica com o objetivo da harmonização do

Direito Internacional Privado e Processual.

Observando o Direito interno podemos deduzir pelo conflito internacional entre

ordenamentos jurídicos e concluir pela necessidade de uniformização das normas indicativas e

harmonização dos direitos do consumidor.

Enquanto o apelo de uma sociedade global interligada pela Internet nos parece

vantajoso, a sua viabilidade depende em muito da superação de desafios relacionados a

diferenças culturais, políticas, econômicas e, principalmente, legais.

A criação da Internet gerou um fundamental debate acerca de sua regulamentação. Para

muitos, seus primeiros desenvolvimentos representavam uma terra sem lei onde a liberdade

de expressão reinava suprema, a partir dessa concepção surgiram grupos representados por

vários setores da sociedade, que advogam contra qualquer forma de censura e regulamentação

de conteúdo na rede mundial de computadores.

Apesar dos fortes argumentos e dos discursos por vezes eloqüentes em defesa de uma

Internet livre, fato é que a maioria dos governos criou medidas para reafirmar sua presença

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também no mundo virtual. Adotou-se um posicionamento contrário à auto-regulamentação da

Internet. Novas leis foram editadas em áreas como propriedade industrial, contratos,

privacidade e crime, com o objetivo de regular praticamente todas as formas possíveis de

atividade na Rede.

Com a crescente freqüência de negócios e outras relações sociais conduzidas on-line,

aumentou a expectativa de aplicação extraterritorial das leis. Pessoas físicas e jurídicas devem

analisar cautelosamente o lugar a que dirigem suas relações via web, qual o público atingido

por sua mensagem e estar preparadas para enfrentar litígios de acordo com as leis daquela

jurisdição.

Diante da problemática exposta, nos posicionamos a favor de um esforço multilateral

que vise à criação de um entendimento comum para questões ocorridas a partir do

ciberespaço. É evidente que quanto maior o grau de consenso sobre determinada matéria de

direito internacional, mais apropriado ao judiciário de cada país proferir julgados sobre tal

área. O órgão julgador pode concentrar seus esforços na aplicação de um princípio em

concordância aos interesses da comunidade internacional, ao invés de se empenhar na tarefa

por vezes subjetiva de estabelecer um princípio inconsistente com a justiça das nações.

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MEDEIROS, O Poder legislativo e os tratados internacionais, Porto Alegre, 1983

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L’AUSTERITE EUROPEENNE: UN CHOIX

DISCUTABLE

Nancy De Leo Assistant à l’enseignement à l’Université Kore de Enna

RESUME: Les plans d’austérité, imposés aux Pays victimes de la crise économique, ont provoqué une guerre

sociale au sein de l’Union Européenne. Le but de cet article est celui d’analyser, de une manière critique, les

mesures économiques mis en place par l’UE, principalement vis-à-vis de la pensée des Prix Nobel à l’économie,

Joseph Stiglitz et Paul Krugman. Pour régler le marché il est nécessaire l’intervention des Etats en économie.

L’absence de solidarité entre les pays membres, engendre une externalité négative entre eux. Au fur et à mesure

la réponse politique des Institutions européennes est insuffisante face aux exigences des citoyens européens

MOTS CLES: Crise économique ; Austérité ; Union Européenne ; Euro

La crise économique et les mesures d’austérité imposées par la Union Européenne, aux

Pays victimes de la crise économique-financière, ont des conséquences négatives sur le bien-

être de la collectivité et des Institutions Européennes.

Les plans d’austérité imposés à la Grèce, comme à l’Italie et à l’Espagne, ont produit

une grave crise du système social et du niveau de l’emploi, en imposant des coupes

budgétaires, dans la dépense publique et l’augmentation de la pression fiscale. Le taux de

chômage, ainsi que, la pression fiscale augmentent et touchent les classes moyennes de la

population.

Souvent le système sanitaire national ne parvient pas à fournir une assistance minimale.

La réduction des allocations de chômage, les transformations sur le système de la retraite, la

suppression des services sociaux, les réductions des coûts de l’instruction et de la culture, sont

les quelques mesures adoptées par les Etats membres de l’Union Européenne.

Le scénario social et politique de ces pays est catastrophique. Les différentes

manifestations de protestation, ayant eu lieu en Grèce, témoignent du fait que les citoyens

n’ont pas accepté de telles mesures, les sacrifices sociaux et économiques qui en dérivent. La

souffrance sociale en échange du sauvetage de l’Euro et de l’Union Monétaire, l’avenir nié

aux jeunes générations, la liquidation de biens du patrimoine culturel national, l’humiliation

de la même dignité humaine.

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L’Euro Groupe, l’organisme qui réunit les Ministres de l’Economie et des Finances des

Pays de l’Euro, a décidé de sauver les banques en échange de contrôles sur la mise à point de

quelques mesures économiques, qui imposent un frein sur la dépense publique en accentuant

la crise. Organismes de contrôle: la Commission Européenne, la Banque Centrale Européenne

et le Fonds Monétaire International.

Des tels choix se révèlent discutables, en ce qui concerne la mise au point de deux

importantes analyses récentes, qui ont comme protagoniste trois économistes de renommée

mondiale JOSEPH STIGLITZ1, PAUL KRUGMAN

2 e RICHARD LAYARD, lesquels retiennent

l’austérité contre-productive pour sortir de la crise.

Analysant le rôle des marchés financiers, le prix Nobel à l’économie JOSEPH STIGLITZ

affirme qu’eux mêmes ne sont pas stables. Au contraire, ils ont généré des «bulles

déstabilisantes3» et les mesures de l’austérité ne corrigent pas ces insuccès du marché. Le

marché financier a été la cause d’un retard, entre le potentiel de l’économie et ce qui

correspond réellement à l’économie (dans le produit final). Ce qui engendre des graves

conséquences4. Sur les causes de la crise, STIGLITZ retient qu’elle n’est pas due aux excès des

dépenses, mais au comportement des gouvernements face aux marchés financiers. Puisque les

marchés seuls ne fonctionnent pas, le gouvernement doit jouer un rôle important. Les

politiques d’austérité empireront la situation de crise, parce que suite aux externalités5, elles

1 Pour l’analyse de STIGLITZ, on se réfère à l’intervention à la Conférence de Rome Oltre l’austerità, le 2 mai

2012, organisée par la Fondazione Italianieuropei.

Pour plus d’informations et pour approfondir la pensée politique économique de STIGLITZ, Globalization and its

Discontents, New York, 2003, ID., The Price of Inequality: the Avoidable causes and invisible costs of

Inequality, New York, 2012, et avec SEN, FITOUSSI, Mismeasuring our lives: why GDP doesn’t add up, New

York, 2010. 2 Pour l’analyse de KRUGMAN on se réfère au Manifeste pour le bon sens économique, publie par le Financial

Times et écrit avec l’économiste LAYARD, le 28 june 2012.

Sur le thème spécifique cf. KRUGMAN, End this Depression, Now!, New York, 2012. 3 STIGLITZ pendant la Conférence de Rome, affirme que les marchés étaient inefficace avant la crise, parce qu’ils

allouaient les ressources uniquement au marché immobilier. 4 Avec cette affirmation STIGLITZ ne veut pas affirmer que l’on doit abandonner les marchés financiers, mais au

contraire, il en confirme l’importance pour le bon fonctionnement de l’économie. Mais il déclare que lorsque

40% des profits d’une société est placé dans le secteur financier, ce dernier ne produit pas de croissance, mais

instabilité. Les mesures fiscales peuvent aider à diriger l’économie vers un parcours plus constructif. 5 STIGLITZ affirme que les externalités sont un facteur important, dans un monde intégré comme le nôtre. Parce

que ce qui arrive dans un Pays a des conséquences sur les autres. Les Etas Unis ont pollué le marché avec les

prêts subprime. C’est pourquoi il est important que la solidarité rentre à faire partie des Etats membre de l’Union

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s’élargiront aussi dans les autres Pays de l’UE. Le facteur des externalités, pour STIGLITZ,

devient aussi une excellente mesure pour améliorer la croissance des Pays en crise. Un autre

facteur important, analysé par STIGLITZ, est celui de la relation entre la demande et l’offre. En

effet, il croit que les réformes ne doivent pas être exécutées seulement d’un point de vue de

l’offre, parce qu’en réalité c’est la demande qui guide la production, les mesures du point de

vue de l’offre aggrave l’absence de demande agrégée6. Même la réduction des inégalités

augmenterait la demande de bien et services.

Sur le Manifeste pour le bon sens économique, PAUL KRUGMAN et RICHARD LAYARD

insistent sur l’importance de l’augmentation de la dépense individuelle. Ils soutiennent que la

dépense d’une personne devient le revenu d’une autre, le résultat de l’effondrement de la

dépense a été une dépression économique qui a empiré la dette publique. Le prix Nobel à

l’économie, KRUGMAN, soutient qu’il faut élargir la demande. Il affirme qu’en 1930, le même

discours structurel a été utilisé contre les politiques d’achats proactives dans les Etats Unis,

mais suite à l’augmentation des achats entre le 1940 et le 1942, la production est augmentée

du 20%. Le problème de 1930, comme celui d’aujourd’hui, était donc la pénurie de demande,

non de l’offre. Un autre point sur lequel les économistes concordent c'est l’importance de la

hausse de la dépense publique, qui agit comme force de stabilisation, en soutenant l’achat qui

ne peut être fait par les privés. Par conséquent, STIGLITZ soutient que les investissements

publics7ont été la base de la croissance de l’économie américaine, après la Grande

Dépression. Les investissements publics ont aussi un effet positif sur les privés, parce qu’ils

en augmentent le revenu. Dans son discours à Rome, STIGLITZ donne des conseils à l’Union

Européenne, parce que si l’Allemagne faisait preuve de stimulus économiques, les effets pourraient aider les

Pays voisins, et les bénéfices se propageraient soit sur soi-même soit sur les voisins. 6 Concrètement STIGLITZ se réfère au marché du travail aux Etas Unis, qui est considéré le plus flexible au

monde. Seulement en augmentant la croissance et en générant des nouveaux emplois à temps plein, la demande

de bien augmentera. Aussi les politiques salariales encourageraient la demande: on a une meilleure distribution

des revenus. 7 L’économie européenne et des Etats Unis est en train de vivre une restructuration massive. STIGLITZ croit

qu’elles sont victimes de leur succès. Il faut tenir compte des changements en cours. Si l’offre productive dans le

secteur manufacturier est plus importante que la demande du point de vue global, cela signifie que l’emploie

diminuera, et que les investissements doivent le faire en technologie, infrastructures, pour restructurer

l’économie selon les transformations dans le monde. Si on ne investit pas, la restructuration n’arrivera jamais, les

inégalités augmenteront et l’économie ne croîtra plus.

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Européenne pour sortir de la crise; conseils, que selon le prix Nobel, sont aussi en ligne avec

les traités, mais pour lesquels il est nécessaire une volonté politique8.

Parmi lesquels on retrouve l’utilisation de la Banque Européenne d’Investissements, un

fond qui puisse aider les investissements, même pour les économies qui sont sans liquidité,

développant le crédit aux petites et grandes entreprises, ainsi que l’institution d’un Fond de

solidarité Européen pour la stabilisation, pour permettre aux Pays d’avoir accès à des crédits à

dépenser en politiques pour la croissance et pour l’occupation.

Enfin il parle d’un scénario futur catastrophique, dans le cas où l’Union Européenne se

concentre seulement sur l’austérité: si l’euro parvient à se sauver seulement par le biais d’un

chômage important, surtout dans les pays déjà en crise, la crise se développera. Enfin, il

conseille aux Pays de ne pas se concentrer sur ce qu’il définit « fétichisme des dettes », c’est à

dire sur le déficit, et rebondit sur la nécessité de restructurer l’économie avec investissements.

Dans ce sens, avec KRUGMAN et LAYARD, il confirme que en se concentrant sur le

déficit public, qui est le résultat d’une crise incitée par l’effondrement des entrées, on

augmente la pression fiscale en élevant les réductions des dépenses du secteur privé. Selon le

contenu du Manifeste pour le bon sens économique, la priorité des gouvernements doit être

celle de réduire le chômage, avant que tout cela ne rende encore plus difficile la reprise

économique. KRUGMAN et LAYARD, enfin, insistent sur l’absence de relation entre les coupes

budgétaires et la confiance des investisseurs, sujet qui tient à cœur aux gouvernements. Les

deux économistes avec un exemple simple, rejettent l’argumentation. Parce qu’ils expliquent,

que, par exemple, au Japon le fait d’avoir une dette publique, qui dépasse désormais le 200%

du PIB9 annuel, et le downgrade des agences de rating, n’ont pas eu aucun effet sur les taux

d’intérêts. Les signataires du Manifeste pour le bon sens économique10, affirment que les

coupes budgétaires n’inspirent pas confiance aux entreprises, parce que ces derniers

investissent, seulement, lorsqu’ils peuvent prévoir des clients avec un pouvoir nécessaire au

8 En réalité le choix néolibéral de l’Union Européenne, par ça nature, refuse l’ingérence de l’Etat et de la

politique tout court. Cf. VONTOBEL, Die Wohlstands maschine. Das Desaster des Neoliberalismus, Zurich,

1998. 9 Produit Intérieur Brut. 10 Pour renforcer leur thèse, les économistes utilisent les études du Fonds Monétaire International. Selon cette

étude dans 173 de cas de coupes budgétaires, le résultat à été la contraction économique.

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déclenchement des dépenser. Ne pas apprendre, par les erreurs du passé, semble être le sujet

central qui conduit les gouvernements européens, dans leurs prises de positions.

Il faudrait que l’économie soit à disposition des citoyens, de sorte à ce qu'elle se rende

utile pour la plupart d’entre eux. Déjà ARISTOTE dans Ethique à Nicomaque définit

l’économie comme une finalité humaine qui doit être utilisée par la politique pour le bien

humain11. Un autre Prix Nobel AMARTYA SEN, dans son Ethique et économique, demandait à

l’économie12 un retour à l’objectif primaire, c'est-à-dire les personnes réelles avec leurs vraies

exigences.

Enfin l’estime du Fond Monétaire International ne présageait rien de bien, parce que

selon son dernier World Economy Outlook13, l’Eurozone pourrait revenir aux niveaux de

croissance d’avant la crise, en 2016, parce que la crise dans la zone euro s’est intensifiée,

malgré les mesures de politique économique adopté jusqu’aujourd’hui14. Les perspectives à

court terme pour la zone euro, sont révisés à la baisse15. Les politiques d'austérité augmentent

le rapport entre la dette publique et le produit intérieur brut (PIB), car ils réduisent le second.

Le récent Working Paper du Fonds monétaire international16 a confirmé cette tendance,

indiquant que le resserrement budgétaire sur l'activité économique réduit le PIB.

En définitive l’Union Européenne n’a pas réussi non plus à achever cette Union

économique, vu qu’il manque des aspects macroéconomiques communs, comme la taxation

commune, l’occupation, le compte public, la croissance et autre. En Europe mis à part la

monnaie et le contrôle sur les taux d’intérêts des prêts, gérés par la Banque Centrale

Européenne, et le contrôle des comptes publics gérés par le Conseil e par la Commission, les

autres aspects restent dans la sphère des Pays membres, générant déséquilibres entre eux. Dès

le début de la crise économique, la totalité du projet européen tourne exclusivement autour du

11 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bari, 2004, 1094b p. 4 et suivantes. 12 SEN, Etica ed Economia, Bari, 2004, p. 8 et suivantes. 13 http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/01/pdf/text.pdf 14International Monetary Fund, World Economic Outlook: Coping with High Debt and Sluggish Growth, October

2012, p. 62 ss. http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/02. 15 International Monetary Fund, World Economic Outlook Update: Gradual Upturn in Global Growth during

2013, January 2013, p.1 ss. http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2013/update/01/ 16 International Monetary Fund, The Challenge of the debt reduction during fiscal consolidation, 8 march 2013,

http://www.imf.org/external/pubs/cat/longres.cfm?sk=40381.0 pag. 4ss.

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sauvetage de l’Union monétaire. L’unité politique est incomplète tandis que celle

économique-monétaire s’alimente toute seule.

A l’embarras créé par l’austérité économique s’unissent les politiques publiques

absentes17. Ce que les citoyens perçoivent est, donc, un corps étranger à leurs réalités sociales,

économiques et culturelles18. Conséquence naturelle, vue la dégradation des conditions de vie

des citoyens: c’est l’actuelle crise de consensus que la Union Européenne et les

gouvernements nationaux sont en train de vivre.

S’il est vrai, que le processus européen s’est développé à travers la médiation des

stratégies proposées (par les gouvernements, par les institutions internes et externes, par les

forces politiques, par intérêts sociaux organisés et mouvements associés européens) et entre

les intérêts protégés par les participants au procès, sous les pressions de changements sociaux,

culturels et économiques19, aujourd’hui le projet est à adapter aux nouvelles demandes.

Considéré le père du libéralisme, JOHN RAWLS20, soutient qu’une société libérale et juste

se fonde avec le consensus des citoyens vis à vis des gouvernements. Tout au long de ces

derniers mois, les leaders européens se sont occupés seulement de trouver un accord avec

l’Union bancaire, qui aura le but de restructurer les instituts bancaires en difficulté, en les

recapitalisant à travers des fonds nationaux obtenus par la taxation sur les banques. Un procès

qui gravera, quasi certainement, sur les opérations bancaires des citoyens. Si du moins les

banques poursuivaient leur but originaire, celui de dépôt des épargnes et prêts pour

investissements des clients, cela serait utile pour une reprise des consommations et donc de

l’économie.

17 On ne doit pas oublier le manque de perception des politiques de l’Union Européenne, comme la Politique

Agricole, le Fond Européen pour la pêche, le Fond Social et d’autres, guère perçus par les citoyens. Les raisons

de cet insuccès peuvent être cherchées soit dans l’incapacité des gouvernements nationaux de les rende

accessibles à tous, soit dans l’absence d’un lien entre les réelles exigences des citoyens et les politiques

publiques européennes. 18 L’introduction de zones ou de régions à objectifs convergents, qui aurait dû diminuer la distance entre les Etats

membres, a généré deux effets négatifs. Non seulement l’homologation de modèles culturels, sociaux et

économiques, de l’autre, mais elle a aussi augmenté la distance économique entre eux. Le premier est le produit

de la globalisation, le deuxième la conséquence de la mauvaise gestion administrative de ces régions. 19 ATTINÀ - NATALICCHI, L’Unione Europea. Governo, istituzioni, politiche, Bologna, 2007 20 RAWLS, Il diritto dei popoli, Torino, 2001, p.44 et suivantes. RAWLS définit la justice politique comme l’effort

des gouvernants pour protéger l’indépendance politique et les libertés culturelles, afin de garantir la sécurité et le

bien être des citoyens.

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Au contraire, l’institution bancaire se comporte désormais comme un spéculateur

financier, dans le but de faire enrichir ses propres actions. L’Union Européenne continue à

protéger ses banques, en renonçant à ses citoyens. Le cas récent de Chypre montre une fois de

plus, un tel choix. En échange d'un financement de l'UE et du IMF, Chypre est obligé de

prélèvements forcés sur les dépôts bancaires de tous les citoyens 21.

Cette situation génère un malaise dans la société et provoque l'émergence de

mouvements et partis politiques opposés à l'intégration européenne et l'euro.

Si l’Union Européenne fête son Prix Nobel de la paix, à l’intérieur des Pays membres la

crise économique, quant à elle, a déclenché la première guerre sociale depuis sa naissance.

21 Eurogroup Statement on Cyprus, 16 march 2013 http://eurozone.europa.eu/documents/. On doit garder à

l'esprit que Chypre est une zone stratégique pour les intérêts de la Russie et de la politique méditerranéenne de

l'Union européenne. En fait, l'UE se félicite de toute aide financière de la Fédération de Russie à Chypre.

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RETI DI IMPRESA INNOVATIVE, APPALTI

PUBBLICI E COMPETITIVITÀ INTERNAZIONALE

Roberto Di Maria Professore Associato di Diritto costituzionale nell’Università Kore di Enna

Carmelo Provenzano Assistant Professor di Economia applicata nell’Università Kore di Enna

ABSTRACT. Il presente articolo spiega come di fronte alla crisi economica e finanziaria

mondiale, la rete di impresa, può costituire una forma organizzativa di successo in grado

dare slancio all’economia nazionale ed europea. Le reti d’impresa innovative si fondano

sulla fiducia reciproca fra i partner. Esse vengono create nel tempo e favoriscono la

circolazione dell’informazione, la diffusione della conoscenza e la generazione

dell’innovazione. La fiducia, inoltre, riduce l’incertezza e i costi di transazione e limita i

comportamenti opportunistici da parte di agenti free-rider. Tuttavia, il successo di tali forme

organizzative dipende non solo da tali processi ma anche dall’interplay tra le imprese e le

istituzioni politiche e dalle loro interazioni con il sistema formativo di ricerca. Con la legge

33/2009 il legislatore italiano ha disciplinato il «contratto di rete» come uno strumento

attraverso il quale due o più imprese possono esercitare in comune una o più attività

economiche allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul

mercato. Tale contratto, affiancandosi ai tradizionali strumenti di promozione della

collaborazione tra imprese, ha permesso di superare la logica dei cd. distretti territoriali, e

senza incidere sull’autonomia delle singole imprese può permettere a quest’ultime di

effettuare una cooperazione più snella e flessibile. Inoltre, la legge 11 novembre 2011, n. 180

disciplina la partecipazione delle reti di impresa nell’ambito delle procedure per

l’aggiudicazione di contratti pubblici. Così facendo si è cercato di abbattere alcune barriere

all’entrata che impedivano l’accesso agli appalti pubblici delle micro, piccole e medie

imprese. Il presente articolo, inoltre effettua delle considerazioni sull’efficacia dell’intervento

pubblico a favore delle reti di impresa e sottolinea l’importanza di diversi fattori tra i quali le

diversità territoriali e le esigenze di innovazione, flessibilità e di efficienza imposte dalla

competitività internazionale.

KEY WORDS: reti di impresa; innovazione; fiducia; competitività internazionale; appalti

pubblici.

Il presente contributo è frutto del lavoro congiunto dei due Autori; tuttavia, in particolare, a Roberto Di Maria si

deve la redazione del par. 2, mentre a Carmelo Provenzano quella dei par. 1, e 3. Nel par. 4 sono invece

contenute le riflessioni conclusive, ricavate dalla comune riflessione dei Coautori.

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1. Introduzione.

Di fronte alla crisi economica e finanziaria mondiale i paesi membri dell’Europa e, in

particolare, l’Italia devono superare le debolezze strutturali del loro modello di

specializzazione produttivo. I fattori cruciali che hanno caratterizzato il secondo miracolo

italiano degli anni Ottanta come il radicamento territoriale, i legami familiari, il know how e la

creatività delle imprese italiane, sembrano non più in grado di garantire la competitività

internazionale.

In questo scenario, la rete di impresa, può costituire una forma organizzativa di successo

in grado dare slancio all’economia nazionale. Essa, per la prima volta nel 2008, è stata

regolamentata come un nuovo istituto giuridico diretto a promuovere una forma organizzativa

snella e flessibile in grado di supportare forme di collaborazioni anche distanti e rafforzare

l’integrazione della filiera.

Le reti d’impresa innovative si fondano sulla fiducia reciproca fra i partner. Esse

vengono create nel tempo e favoriscono la circolazione dell’informazione, la diffusione della

conoscenza e la generazione dell’innovazione. La fiducia, inoltre, riduce l’incertezza e i costi

di transazione e limita i comportamenti opportunistici da parte di agenti free-rider1. Tuttavia,

il successo di tali forme organizzative dipende non solo da tali processi ma anche

dall’interplay tra le imprese e le istituzioni politiche e dalle loro interazioni con il sistema

formativo di ricerca2.

1 A partire dagli anni Ottanta, la letteratura economica ha analizzato la natura e il ruolo delle reti d’imprese. Cfr.

GRANDORI, SODA, Inter-firm networks: Antecedents, mechanisms and forms, in “Organization Studies”, 1995,

16, pp. 183-214; MENRD, The economics of hybrid organizations, in Journal of Institutional and Theoretical

Economics, 2004, 160, pp. 345-376. Lo scopo delle reti d’impresa è quello di minimizzare i costi di transazione,

in un ambiente caratterizzato da incertezza, informazione incomplete e comportamenti opportunistici. Cfr.

WILLIAMSON, Markets and hierarchies: Analysis and antitrust implications: A study in the economics of internal

organization, New York, 1975. I costi di transazione sono legati alla ricerca della controparte, , alla valutazione

della qualità dell’oggetto o del servizio proposto dalla controparte, alla contrattazione dei termini dello scambio,

alla determinazione dei termini del contratto, alla acquisizione di informazioni, alla condivisione di economie

esterne. Cfr. KRANTON, Reciprocal exchange: A self-sustaining system, in American Economic Review, 86, pp.

830-851. KALI, 1999 Endogenous business networks, in Journal of Law, Economics & Organizations, 15, 1996,

pp. 615-636. Se da un lato, la rete ottiene i benefici dell’integrazione senza sostenere i costi della gerarchia,

dall’altro lato, può generare effetti negativi sui soggetti interni ed esterni alla rete, favorendo comportamenti

collusivi causano sia inefficienza statica che dinamica dell’allocazione delle risorse. 2 ETZKOWITZ, The triple helix: University-industry-government innovation in action, London, 2008.

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La formazione di queste forme organizzative innovative, inoltre, può crearsi

spontaneamente o essere favorita da interventi pubblici specifici. Oltre ai benefici di carattere

fiscale, sul fronte della politica industriale è interessante osservare come di recente diversi

bandi di finanziamento e procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti pubblici

promuovono lo sviluppo di logiche di rete.

Nella seconda sezione, verrà messo in evidenza, come di fronte alla difficile crisi

internazionale che stiamo attraversando, con la legge 33/2009 il legislatore ha disciplinato il

«contratto di rete» come uno strumento attraverso il quale due o più imprese possono

esercitare in comune una o più attività economiche allo scopo di accrescere la reciproca

capacità innovativa e la competitività sul mercato. Tale contratto, affiancandosi ai tradizionali

strumenti di promozione della collaborazione tra imprese, ha permesso di superare la logica

dei cd. distretti territoriali, e senza incidere sull’autonomia delle singole imprese può

permettere a quest’ultime di effettuare una cooperazione più snella e flessibile. Inoltre, la

legge 11 novembre 2011, n. 180 disciplina la partecipazione delle reti di impresa nell’ambito

delle procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici. Così facendo si è cercato di

abbattere alcune barriere all’entrata che impedivano l’accesso agli appalti pubblici delle

micro, piccole e medie imprese. Sulla base dei benefici che questo strumento può produrre in

termini di competitività del sistema imprenditoriale, l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti

Pubblici ha avviato una procedura di consultazione ed ha effettuato la segnalazione n. 2 del 27

settembre 2012, dalla quale sono emersi sia le potenzialità applicative della fattispecie

nell’ambito della contrattualistica pubblica, sia delle criticità da risolvere e delle modifiche da

effettuare. Successivamente, il d.l. 18.ottobre 2012, n. 179, convertito – con modificazioni –

dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, ha disciplinato alcuni aspetti del Codice dei Contratti

(d.lgs.12 aprile 2006, n. 263). Inoltre, il 23 aprile 2013, la medesima Autorità ha

ulteriormente emesso la determinazione n. 3 su «partecipazione delle reti di impresa alle

procedure di gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici ai sensi degli articoli 34 e 37 del

d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163».

Nella terza sezione, verrà messo in evidenza come la singola impresa di piccole e medie

dimensioni non è in grado da sola di essere competitiva nel processo di globalizzazione ma

deve sfruttare sia la capacità collettiva di un’area territoriale di mettere in moto le energie e le

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risorse localmente disponibili e di attrarre forze produttive, risparmi e consumi dall’esterno;

che i benefici dei differenziali dei costi di produzione (in particolare del costo del lavoro) e

l’economie cognitive di scopo derivanti dall’adesione ad una rete di imprese transnazionali.

Il concetto di territorio non si esaurisce nel luogo fisico che ospita e contribuisce a

creare la rete di legami tra imprese, bensì si estende all’insieme di valori culturali, sociali e

alle relazioni fiduciarie che caratterizzano i suoi attori economici, sociali e istituzionali.

Inoltre, le reti non vanno vincolate e relegate al territorio (anch’esso definito come rete) ma

vanno interpretate come network che favoriscono l’ibridazione delle conoscenze e delle

competenze locali e globali. Infine, verrà sottolineato come per comprendere l’evoluzione

della rete così concepita occorre effettuare delle considerazioni sul mercato del lavoro

italiano, sulle sue rigidità e sugli effetti delle offshoring. L’accezione che noi adottiamo di

“rete di impresa”, non solo tiene conto degli aspetti legali, fiscali e di mercato ma si riferisce

anche a relazioni non di mercato, non necessariamente gerarchiche bensì centrate sul concetto

di fiducia e di cooperazione oltre che di competizione tra i nodi e che collegano gli attori tra

loro.

Infine, nell’ultima sezione verranno effettuate delle conclusioni sull’efficacia

dell’intervento pubblico a favore delle reti di impresa. Verrà messo in evidenza che,

nonostante la crescita interaziendale mediante le reti sia una possibile strategia volta a

superare il sottodimensionamento del nostro tessuto produttivo, essa per essere efficace deve

tenere conto di diversi fattori tra i quali le diversità territoriali e le esigenze di innovazione,

flessibilità e di efficienza imposte dalla competitività internazionale.

2. Reti di impresa e procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti pubblici

L’ordinamento giuridico italiano, attraverso il relativo contratto, ha disciplinato – anche

se in ritardo rispetto agli altri ordinamenti3 – la “rete” come soggetto giuridicamente rilevante,

3 L’art. 6 bis, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 ha individuato la forma giuridica delle reti di imprese, attraverso un

decreto di Ministro dello Sviluppo Economico, di concerto con quello dell’Economia e delle Finanze, della

forma giuridica delle c.d. “reti di imprese”. Questa normativa (dall’art.1, co. 366 e ss., l. 23 dicembre 2005, n.

266) ha esteso i benefici destinati ai distretti industriali alle reti. Il summenzionato art. 6 bis è stato poi abrogato

dall’art. 1, co. 2, l. 23 luglio 2009, n. 99; contestualmente, sono state effettuate modifiche a tale disciplina del

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al quale sono collegate alcune agevolazioni fiscali nonché destinati alcuni bandi di

finanziamento4.

In particolare, l’art. 3, co. 4 ter, d.l. 10 febbraio 2009, n. 5 – prima rivisto dall’art. 42,

co. 2 bis, d.l. 78/2010 e poi integrato dall’art. 45, co. 1, d.l. 83/2012 – afferma che con il

contratto di rete «più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e

collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato e a tal

fine si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in forme e in

ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese ovvero a scambiarsi

informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica ovvero

ancora ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria

impresa»5. Dalla lettura del testo emerge come il concetto di rete supera quello dei distretti: la

forma della rete è un mezzo di cooperazione più flessibile che possiede sia elementi di

stabilità, tipici delle forme societarie e consortili, che le caratteristiche di flessibilità proprie

dei contratti riconducibili alla figura della joint venture.

Attraverso il contratto di rete, dunque, gli imprenditori migliorano la propria capacità

innovativa ed incrementano la propria competitività e, per raggiungere questo scopo, si

contratto di rete, estendendo l’ambito di applicazione dalle s.p.a. alle altre forme di organizzazione dell’attività

aziendale. 4 I richiamati vantaggi fiscali, amministrativi e finanziari, sono definiti dall’art. 42, d.l. 31 maggio 2010, n. 78,

come modificato in sede di conversione. 5 Cfr., sul punto, CAFAGGI, IAMICELI (a cura di), Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa.

Riflessioni da una ricerca sul campo, Bologna, 2007; CAFAGGI, Il contratto di rete nella prassi. Prime

riflessioni, in Contratti, 2011, 5, 504; ID., Il nuovo contratto di rete: “Learning by doing”, in Contratti, 2010,

12, 1143; MACARIO, Relational contracts e Allgemeiner Teil: il problema e il sistema, in NAVARRETTA (a cura

di), Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, 2008, 123 ss.; VETTORI, Contratto di

rete e sviluppo dell’impresa, in Obbl. e contr., 2009, 390 ss; GRANIERI, Il contratto di rete: una soluzione in

cerca di problema?, in Contratti, 2009, 10, 934; MESSINEO, Contratto plurilaterale e contratto associativo, in

Enc. Dir., X, Milano, 1962, p. 146. L’art. 3, co. 4 ter e ss., del citato d.l. n. 5/2009 individua espressamente nella

figura dell’imprenditore il soggetto attivo della rete; non è chiaro se tale indicazione si riferisce esclusivamente

allo status di imprenditore definito dall’art. 2082 c.c. o, invece, se si estende a qualsiasi “operatore economico”

(i.e. i liberi professionisti). Un’interpretazione più restrittiva attribuisce lo status di imprenditore soltanto ai

soggetti iscritti presso il Registro delle imprese; quest’ultima sarebbe coerente con il co. 4 quater, art. 3, che

impone l’iscrizione del contratto di rete «nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun

partecipante». Gli effetti del contratto decorrono dal momento in cui è stata effettuata l’ultima delle iscrizioni

prescritte a carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori originari.

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obbligano – sulla base di un programma comune di rete – a collaborare in forme e in ambiti

predeterminati6.

La pubblicità del contratto di rete avviene per atto pubblico o per scrittura privata

autenticata da ciascun imprenditore o legale rappresentante delle imprese che aderiscono alla

rete; il contratto viene trasmesso ai competenti uffici del registro delle imprese mediante il

modello standard7. Il contratto di rete è un contratto plurilaterale, aperto e di durata8.

I suddetti elementi caratteristici sono il risultato dell’intervento del legislatore con l’art

42, d.l. n. 78/2010, che ha superato l’ambiguità della disciplina passata che stabiliva sia reti

bilaterali che plurilaterali: la frase «con il contratto di rete due o più imprese» è stata

6 Le collaborazioni tra imprese possono essere ricondotte alla fattispecie del contratto di rete solo se presentano

gli elementi indicati nel comma 4 ter, del citato art. 3 (lett. a, b, c, b, f) d.l. n. 5/2009; tra questi assumono

particolare importanza: l’indicazione degli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità

competitiva dei partecipanti, nonché le modalità concordate tra gli stessi per misurare l’avanzamento verso tali

obiettivi; la definizione di un programma di rete che contenga l’enunciazione dei diritti e degli obblighi assunti

da ciascun partecipante, unitamente alle modalità di realizzazione dello scopo comune. 7 Il contratto di rete deve indicare i seguenti dati: il nome, la ditta, la regione o la denominazione sociale di ogni

partecipante; l’indicazione dello scopo comune, degli obiettivi strategici e le modalità attraverso le quali si

vogliono raggiungere; la definizione di un programma di rete; i criteri di valutazione dei conferimenti nel caso di

istituzione di un fondo comune patrimoniale; la durata del contratto; le modalità di adesione al contratto, le cause

e le condizioni di recesso; i poteri di gestione e rappresentanza conferiti ad un organo comune, nel caso esso sia

nominato; le regole relative all’assunzione delle decisioni e alle modifiche del programma medesimo. L’art. 3,

co 4 quater, d.l. n. 5/2009 ha inizialmente disciplinato l’obbligo di iscrizione del contratto di rete nel registro

delle imprese contraenti. L’art. 42, co. 2 ter, d.l. n. 78/2010 , stabilisce che il contratto di rete dev’essere iscritto

nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante, con decorrenza degli effetti.

Dall’esecuzione dell’ultima delle iscrizioni prescritte a carico di tutti coloro che ne sono stati sottoscrittori

originari, decorrono gli effetti del contratto. L’art. 45, co. 2, d.l. n. 83/2012 afferma che le modifiche del

contratto di rete devono essere depositate e iscritte presso la propria sezione del registro delle imprese e che nel

caso sia prevista l’istituzione di un fondo patrimoniale comune, il contratto di rete può essere iscritto nella

sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione è fissata la propria sede, acquisendo cosi

soggettività giuridica. La circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 15/E del 14/4/2011, ritiene che il regime di

pubblicità del contratto di rete sia prescritto «a fini di efficacia del contratto sia tra le parti, sia verso i terzi,

compresa l’Amministrazione finanziaria». 8 Il contratto di rete ha una struttura aperta, ed è quindi suscettibile di adesione da parte di altri imprenditori

successivamente alla data di stipulazione del medesimo con cui si è costituita la rete. La legge lascia ampia

libertà ai contraenti nell’indicare le modalità attraverso le quali si prevede l’allargamento soggettivo degli

aderenti alla rete. Nel caso in cui i successivi adempimenti non vengano stabiliti inizialmente, un’eventuale

richiesta di adesione successiva può essere accolta soltanto con il consenso negoziale di tutti gli aderenti alla

rete; in particolare, la proposta contrattuale di adesione deve inviarsi al soggetto preposto all’attuazione del

contratto se identificato o a tutti gli aderenti alla rete (che sono chiamati ciascuno ad esprimere il proprio

consenso o dissenso per l’accettazione della proposta) e ciò per applicazione analogica di quanto previsto

dall’art.1332 c.c.

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sostituita, infatti, dal riferimento a «più imprenditori», precisando, quindi, che le parti della

rete sono gli imprenditori e non le imprese9.

Il “programma di rete” è essenziale per la validità del contratto: la carenza ne determina

la nullità; l’art. 4 ter, l. 33/2009 stabilisce che devono essere espressamente indicate le

modalità di realizzazione dello scopo comune e lo statuto regolante i diritti e le obbligazioni

che gli imprenditori che aderiscono alla rete si impegnano a rispettare10. Il contenuto del

programma di rete può riguardare semplici linee guida o descrizioni più specifiche delle

attività, delle obbligazioni e dei diritti delle imprese aderenti alla rete stessa; con l’art. 42, d.l.

n. 78/2012 si è disciplinata, poi, la facoltà di istituire un fondo patrimoniale ed un organo

comune e successivamente – con l’art. 45, co. 1, d.l. n. 83/2012, modificativo dell’art. 3, co. 4

ter, d.l. n. 5/2009 – si è altresì stabilito che tale organo potesse essere destinato a svolgere

attività, anche commerciale, con i terzi in rappresentanza (o mandato) della rete. Il suddetto

organo, nell’eseguire il mandato, non può svolgere atti non finalizzati alla realizzazione del

programma11.

Il finanziamento delle reti può dipendere dall’apporto iniziale o successivo delle

imprese partecipanti, da contributi a fondo perduto di enti pubblici o da prestiti concessi da

enti pubblici e istituti di credito. Con riferimento a questi ultimi, occorre peraltro specificare

se la rete è dotata di autonomia patrimoniale.

9 Cfr. MARIOTTI, Detassazione degli utili destinati al fondo patrimoniale comune per incentivare le reti di

imprese, in Corriere Tributario, n. 12/2011, p. 951 ss.; MIELE, RUSSO, Investimenti, agevolazione concessa a

termine, in Il Sole 24 Ore, del 7 marzo 2011; MARASÀ, Contratti di rete e consorzi, in Il Corriere del merito, n.

6/10; SCARPA, La responsabilità patrimoniale delle imprese contraenti per le obbligazioni assunte a favore di

una rete tra loro costituita, in Resp. civ., 2010, p. 406; ZANELLI, Reti di imprese: dall’economia al diritto,

dall’istituzione al contratto, in Contr. e impr., 2010, p. 952 ss.; MALTONI, Il contratto di rete. Prime

considerazioni alla luce della novella di cui alla l. 122/2010, in Notariato, 2011, p. 65 ss. L’art. 5, co. 4 ter, d.l.

n. 5/2009 stabilisce che gli imprenditori che vogliono aderire alla rete possono scambiare con altre imprese

partecipanti informazioni, prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica ed esercitare in

comune una o più attività oggetto dell’attività di impresa esercitata da ciascun aderente. 10 Il contratto di rete non indica in modo determinato le prestazioni di ciascun aderente ma definisce un progetto

e un programma con adempimenti abbozzati inizialmente e determinabili successivamente, sulla base dei

risultati intermedi ottenuti e di quelli finali da perseguire attraverso la collaborazione di tutte le imprese. 11 L’organo comune coordina le singole attività e controlla che ciascun membro della rete effettui gli

adempimenti previsti dal contratto di rete; esso stila anche eventuali regolamenti e protocolli che disciplinano il

comportamento delle imprese partecipanti e può anche occuparsi di controllare le nuove adesioni e gestire le

eventuali richieste di recesso. L’organo comune fornisce informazioni utili agli imprenditori aderenti ed assume

un ruolo importante nella governance della rete.

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Per effetto delle previsioni di cui alla l. 134/2012 – riguardo le obbligazioni contratte

dall’organo comune – i terzi possono far valere i propri diritti esclusivamente sul fondo

patrimoniale; tali modifiche permettono dunque agli istituti di credito di valutare le reti come

soggetti giuridici dotati di autonomia patrimoniale: in particolare gli istituti di credito non

valutano soltanto le singole imprese, bensì l’economicità, la sostenibilità ed il reale contributo

del progetto indicato nel contratto di rete12.

Inoltre, con riferimento al contratto di rete di impresa nell’ambito delle procedure di

gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici, occorre sottolineare che – nel rispetto della

normativa U.E. – la l. 11 novembre 2011, n. 180 (cfr. «Norme per la tutela della libertà

d’impresa. Statuto delle imprese») ha previsto che la Pubblica Amministrazione e le Autorità

competenti devono «semplificare l’accesso agli appalti delle aggregazioni fra micro, piccole e

medie imprese, privilegiando associazioni temporanee di imprese, forme consortili e reti di

impresa, nell’ambito della disciplina che regola la materia dei contratti pubblici», purché ciò

non causi un incremento degli oneri finanziar13.

Trattandosi di una forma strategica competitiva, in grado di far fronte alla grave

congiuntura economica, l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici ha avviato delle

consultazioni in merito al testo «Misure per la partecipazione delle reti di impresa alle

procedure di gara per l’aggiudicazione di contratti pubblici» ed ha effettuato una segnalazione

(n. 2 del 27 settembre 2012) in accoglimento della quale è stato emanato il d.l. n. 179/2012

(cfr. «Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese», c.d. “Decreto Sviluppo bis”)

convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, la quale rivede il Codice dei

Contratti, aprendo la strada del mercato degli appalti anche alle reti di impresa.

Al fine di permettere la partecipazione delle reti di impresa alle procedure di gara per

l’aggiudicazione di contratti pubblici, occorreva però un intervento legislativo volto a

modificare gli articoli 34 e 37, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. “Codice dei Contratti”): il

nuovo art. 34, co. 1, lett. e) bis, ammette a partecipare alle procedure di affidamento dei

12 Gli istituti di credito, valutano l’investimento del progetto è attribuiscono un merito creditizio che migliora il

rating delle singole imprese che partecipano alla rete. Tale miglioramento scaturisce dai benefici positivi che le

imprese ricevono dalla partecipazione alla rete e che si concretizzano in una maggiore credibilità, coerenza

fattibilità e sostenibilità del business plan della rete. 13 Cfr. art. 13, co. 2, lett. b).

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contratti pubblici «le aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete ai sensi

dell’articolo 3, comma 4-ter, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con

modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33»; la stessa norma afferma anche che «si

applicano le disposizioni dell’articolo 37». In particolare l’art. 34, così modificato, include la

possibilità di inserire tra i soggetti a cui possono essere assegnati i contratti le imprese

aderenti ad una rete, ma non qualsiasi operatore economico14.

L’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici ha specificato, inoltre, alcune indicazioni

pratiche per la partecipazione alle gare: essa ritiene opportuno che si chiariscano, attraverso

un atto a carattere generale, le modalità di partecipazione delle reti di impresa alle procedure

di gara15.

Queste modalità di partecipazione devono tener conto, in primis, che la finalità del

contratto di rete non è quella di creare un soggetto giuridico distinto dai sottoscrittori ma di

effettuare una cooperazione organizzata tra diversi operatori economici, attraverso lo scambio

di informazioni e di prestazioni e mediante l’esercizio in comune di una o più attività relative

all’oggetto della propria impresa: i contraenti devono indicare espressamente nel programma

della rete lo scopo di partecipare congiuntamente alle procedure di gara; in secundis, tali

modalità si differenziano sulla base sia dei diversi gradi di strutturazione della rete, sia degli

specifici oggetti previsti dalle gare16.

14 L’art. 3, co. 4 ter e ss. del citato d.l. n. 5/2009 stabilisce che i possibili sottoscrittori devono rivestire lo status

di imprenditori definito dall’art. 2082 c.c. Il contratto di rete, infatti viene iscritto nella sezione del registro delle

imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante (art. 3, co. 4 quater). Tuttavia la natura e la finalità della rete

richiede il superamento di questa limitazione e la scelta della nozione comunitaria di “operatore economico”.

Quest’ultima definizione permette altre entità economica in grado di offrire beni e servizi sul mercato, di aderire

alla rete anche se non possiedono il sopracitato status giuridico di imprenditore. 15 Secondo l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici l’elenco contenuto nell’art. 34 non è tassativo. A tal

proposito, il legislatore lascia all’interprete la scelta di identificare i limiti di compatibilità tra le ordinarie regole

valevoli per i raggruppamenti temporanei (RTI) e consorzi. Nello specifico il nuovo comma 15 bis, art. 37,

stabilisce che «le disposizioni di cui al presente articolo trovano applicazione, in quanto compatibili, alla

partecipazione alle procedure di affidamento delle aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete, di cui

all’articolo 34, comma 1, lettera e-bis». La medesima Autorità ha proposto di effettuare su tale atto una seconda

consultazione di stazioni appaltanti e operatori di mercato al fine di identificare alcune criticità e individuare

soluzioni condivise. 16 Queste differenziazioni assumono maggiore rilevanza se si considera il co. 4 ter, art. 3, d.l. n. 5/2009 che, nel

regolare l’iscrizione del contratto di rete nel registro delle imprese, stabilisce che – se è prevista la formazione di

un fondo comune – la rete può iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese nella cui circoscrizione

è stabilita la sua sede e, con tale iscrizione, «la rete acquista soggettività giuridica» (art. 3, co. 4 quater). Se la

rete vuole acquistare soggettività giuridica «il contratto deve essere stipulato per atto pubblico o per scrittura

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La flessibilità della rete, è attenuta dall’istituzione di un organo comune che conferisce

una maggiore stabilità del rapporto associativo: esso è il rappresentante della rete e parte della

medesima; ad esso spetta il potere di presentare domande di partecipazione e le offerte, nelle

procedure di gara.

Affinché la rete sia qualificata a partecipare alle procedure di gara, occorre che tutte le

imprese aderenti alla rete possiedano i requisiti generali di cui all’art. 38 del Codice dei

Contratti, e li attestino in conformità alla vigente normativa 17 . A seconda del grado di

strutturazione della rete, è poi possibile distinguere tre fattispecie: la rete dotata di soggettività

giuridica e organo di rappresentanza; la rete dotata di rappresentanza comune, ma senza

soggettività giuridica; e infine la rete priva anche di organo di rappresentanza18.

Nel caso in cui la rete sia dotata sia di soggettività giuridica sia di un organo comune

che agisce in rappresentanza della rete, le domande e le offerte nella partecipazione alle gare

vengono presentate da quest’ultimo: esso stesso è, infatti, parte della rete ed agisce in

rappresentanza della stessa, impegnando tutte le imprese della rete, salvo diversa indicazione

in sede di offerta19. In analogia con quanto disciplinato dall’art. dall’art. 37, co. 7, del Codice

– con riferimento ai consorzi di cui all’art. 34, co. 1, lett. b) – è previsto poi che l’organo

comune debba specificare, in sede di offerta, quali imprese aderiscono alla rete e quali

partecipano alla gara; alle imprese indicate è vietato partecipare in altre forme, diverse dalla

rete, alla medesima gara.

Nel programma della rete deve rientrare la partecipazione congiunta a procedure di gara

e tutte le imprese – compreso l’organo comune – devono possedere i requisiti di

privata autenticata, ovvero per atto firmato digitalmente a norma dell’articolo 25 del decreto legislativo 7 marzo

2005, n. 82». 17 Essendo la rete “strutturalmente” assimilata, dal Codice, al raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) i

requisiti speciali di qualificazione e di partecipazione sono individuati dall’art. 37 del Codice e dagli artt. 92 e

275 del Regolamento per gli appalti di lavori, servizi e forniture (d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207); dall’art. 90, co.

1, lett. g), del Codice e dall’art. 261, co. 7, del Regolamento, con specifico riferimento ai servizi di ingegneria e

architettura. 18 Occorre inoltre tenere conto delle diverse forme che può assumere il contratto di rete: atto pubblico, scrittura

privata autenticata, o atto firmato digitalmente a norma degli articoli 24 o 25 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82

(Codice della amministrazione digitale, CAD); quest’ultima forma non è ammessa nel caso di acquisto della

soggettività giuridica. 19 Affinché l’organo comune possa stipulare il contratto in nome e per conto dell’aggregazione delle imprese,

occorre che il contratto di rete debba specificare il conferimento del mandato e che siano presenti tutti i requisiti

stabiliti dall’art. 37, a partecipare alle procedure di gara ed a stipulare i relativi contratti.

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qualificazione richiesti per partecipare alle gare20. Nel caso di rete dotata di organo comune

con potere di rappresentanza, ma priva di soggettività giuridica, la volontà di partecipare alla

gara dovrà essere confermata dalle singole imprese retiste e deve essere confermata all’atto

della partecipazione, mediante la sottoscrizione della domanda o dell’offerta; in questo caso la

forma del contratto di rete deve essere per atto pubblico, scrittura privata autenticata o con

firma digitale autenticata.

In assenza dei requisiti di forma previsti «sarà obbligatorio conferire un nuovo mandato

nella forma della scrittura privata autenticata».

Nel caso di rete dotata di organo comune privo di potere di rappresentanza o di reti

sprovviste di organo comune, si applicano le regole previste dal Codice per i c.d.

“raggruppamenti di impresa”; in particolare, devono essere rispettate le seguenti formalità:

sottoscrizione dell’offerta o della domanda di partecipazione di tutte le imprese retiste

dell’aggregazione che vogliono partecipare all’appalto; sottoscrizione dell’impegno che, in

caso di aggiudicazione dell’appalto, sarà conferito attraverso un mandato collettivo speciale

con rappresentanza ad una delle imprese retiste partecipanti alla gara, per la stipula del

relativo contratto. Inoltre è ammesso il conferimento del mandato prima della partecipazione

alla gara.

Nel caso di rete invece priva di organo comune, attraverso il mandato collettivo speciale

sarà possibile identificare la mandataria.

Come detto, le imprese retiste partecipano nella forma di RTI e sono disciplinate

dall’art. 37 del Codice che, nel co. 16, stabilisce come al mandatario sia concessa la

rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandanti nei confronti della stazione

appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall’appalto, anche

20Con riferimento ai lavori pubblici, la qualificazione in tale settore è regolamentata dall’art. 37, co. 3 e 13, del

Codice, che stabiliscono una corrispondenza effettiva tra le quote di qualificazione da riferirsi all’aggregazione

delle imprese “retiste” che partecipa all’appalto, le quote di partecipazione e quote di esecuzione dei lavori. Tali

quote devono essere specificate nell’offerta, a pena di esclusione, al fine di permettere alla stazione appaltante di

verificarne i requisiti. Nel co. 11 sono stabilite ulteriori regole relative alla ripartizione tra mandataria e

mandanti; nel co. 6 sono considerati i raggruppamenti di tipo verticale; nel co. 11 sono disciplinate le opere di

notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica; nel co. 4 è stabilito che devono essere

specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici retisti.

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dopo il collaudo – o atto equivalente – fino alla estinzione di ogni rapporto. Rimane

comunque la possibilità della stazione appaltante di far valere la responsabilità dei mandanti.

Con riferimento alla responsabilità solidale all’interno delle reti d’impresa nei confronti

della stazione appaltante, del subappaltatore e dei fornitori, occorre infine sottolineare che

tale responsabilità – ai sensi del co. 5, art. 37 del Codice – riguarda soltanto i soggetti della

rete che partecipano alla gara, ma non anche i sottoscrittori del contratto di rete che non

abbiano partecipato alla specifica procedure di gara, tramite l’aggregazione. Se in ordine alle

problematiche relative alla esecuzione del contratto, emerge la necessità di assicurare la

stabilità del contratto di rete per un periodo necessario a garantire l’esecuzione del contratto di

appalto, per quanto riguarda invece le modifiche soggettive, occorre precisare che l’eventuale

uscita di un’impresa dal contratto di rete non ha effetto ai fini dell’appalto.

I casi di recesso non espressamente disciplinati sono ammissibili soltanto se i soggetti

rimanenti possiedano i requisiti di qualificazione per le prestazioni oggetto dell’appalto, e se

tale recesso non è effettuato per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei

requisiti in capo al componente che recede; occorre precisare, tuttavia, che il recesso o

l’estromissione dal contrato di rete non implica quella dal contratto con la stazione appaltante:

l’impresa dunque può uscire dalla rete, ma non dall’aggregazione/RTI che ha siglato il

contratto di appalto21.

3. Reti di Imprese Innovative e Competizione Internazionale

La natura della rete d’impresa è quella di un accordo stabile e di lungo periodo che

permette alle imprese di condividere delle risorse materiali e immateriali, di migliorare il

funzionamento delle attività economiche e non economiche e di raggiungere uno scopo

comune. Come sopra affermato, l’art. 42 della Legge 122/2010 regola lo scopo della rete.

Esso afferma che lo scopo deve essere quello di “accrescere, individualmente e

collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato”. Tale

scopo costituisce il fine ultimo della cooperazione tra le imprese, quindi la rete deve

21 I casi di modifiche soggettive ammissibili sono indicati nei co. 18 e 19 dell’art. 37 del Codice.

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consentire alle imprese che vi aderiscono, di aumentare i propri ricavi, o di diminuire i propri

costi e di conseguenza di raggiungere profitti più elevati. Anche se la legge non specifica le

modalità attraverso le quali vengono perseguiti tali obiettivi, esse devono essere individuate e

successivamente esplicitate nel contratto di rete d’impresa. Tale operazione costituisce un

elemento essenziale per l’inizio e lo svolgimento dell’attività della rete.

L’accordo si basa su un rapporto di fiducia tra gli aderenti alla rete che aiuta a far

diminuire in modo sostanziale i comportamenti opportunistici da parte di altri soggetti e

inoltre agevola la circolazione di risorse essenziali come quello della conoscenza.

Nella norma che disciplina la rete d’impresa non viene indicato un numero minimo

d’imprese per formare la rete, tale numero dipende, infatti, dall’oggetto della rete stessa.

Inoltre, non viene fissato alcun limite di natura territoriale o merceologica, per cui all’accordo

possono far parte agenti economici provenienti da diverse parti del territorio italiano (possono

aderire all’accordo ance filiali di società estere) ed operanti in settori produttivi

completamente diversi.

Le reti di impresa22 , sulla base della terminologia dei grafi e della Social Network

Analysis, è costituita da un insieme di attori e di relazioni di carattere reciproco o unilaterale

che formano un intreccio di collegamenti diretti e indiretti tra gli attori stessi23. All’interno

della rete si intessono tali collegamenti al fine di scambiare informazioni e know how (cd. reti

del sapere), di scambiare prestazioni e creare rapporti contrattuali stabili (cd. reti del fare) ; di

realizzare progetti di investimento comune di ricerca, di produzione e di commercializzazione

(cd. reti del fare insieme).

22 Le imprese all’interno della rete sono caratterizzate da link diretti e indiretti. Si ha un link diretto quando, ad

esempio, due o più imprese operano in un processo di R&S, condividendo il loro know-how pregresso, capitale

e/o personale destinato all’attività specifica. Si ha un link indiretto, invece, quando un’impresa è collegata

direttamente ad una o più imprese e riesce a beneficiare dei rapporti di collaborazione che questa o quest’ultime

hanno con altre imprese. In particolare, se l’impresa i è collegata con l’impresa j da un link diretto e l’impresa j e

connessa direttamente con l’impresa k, allora l’impresa i e l’impresa k sono collegate indirettamente. A tal

proposito nel modello di JACKSON e WOLINSKY (1996) è possibile determinare il valore in termini informativi e

il beneficio derivante da ogni link diretto. Tuttavia, tale modello, non tenendo conto dei problemi di

coordinamento e di monitoraggio che possono derivare da comportamenti opportunistici, non aiuta a determinare

la dimensione ottimale della rete. Cfr. JACKSON, WOLINSKY, A strategic model of social and economic networks,

in Journal of Economic Theory, 1996, 71, pp 44-74. 23 Jackson, Social and economic networks, Princeton, 2008.

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Mentre il fabbisogno finanziario è limitato nelle reti del sapere e del fare richiedono,

esso, invece, è più rilevante nelle reti del fare insieme 24.

All’interno delle reti di impresa innovative si possono diffondere economie di scala

esterne all’impresa ma interne al network. I costi fissi all’interno della rete non vengono

duplicati, i fattori produttivi e i brevetti vengono condivisi, nonché si ottengono numerosi

vantaggi derivanti dal coordinamento delle linee di ricerca. Tali vantaggi non riguardano solo

una maggiore capacità da parte dell’impresa di controllare il comportamento dei rivali, ma si

riferiscono soprattutto alla maggiore circolazione, all’interno del network di risorse materiali

e immateriali. Tale circolazione si basa non solo su contratti e norme scritte ma viene anche

effettuata sulla base di norme e valori condivisi dalle imprese partner.

Il vincolo di partecipazione al contratto di reti di impresa innovative, non

necessariamente dipende dal confronto del valore attuale dei profitti attesi che si ottengono

dall’attività di ricerca in collaborazione con quello dell’attività di ricerca svolta

singolarmente. Tale confronto, infatti, non sempre è possibile, in quanto in presenza di

radicale incertezza non è possibile effettuare un’analisi preventiva di efficienza. Assume

un’importanza cruciale dunque il ruolo della fiducia personale e istituzionale che con intensità

e livelli diversi si avvantaggiano della complementarietà e/o sostituibilità delle conoscenze,

dei processi e dei prodotti e di altri benefici derivanti da una cooperazione stabile25 creata

all’interno della rete. Assume, inoltre un’importanza notevole il ruolo dei contesti e del

territorio.

24 Nelle reti del sapere, l’aspetto finanziario, poco rilevante, riguarda i costi vivi necessari alla costituzione e

all’attività di scambio di informazioni tra associati. In questi casi i contributi da parte di enti pubblici, in parte o

in buona parte a fondo perduto, soddisfano il fabbisogno di finanziamento. Nelle reti del fare, il finanziamento è

di entità maggiore e viene affrontato prevalentemente dalle imprese che aderiscono alla rete. Esso viene

utilizzato prevalentemente per fare magazzino o pubblicità comune. Nelle reti del fare insieme, il finanziamento

assume una rilevanza notevole rispetto alle precedenti e diventa cruciale per la costituzione della rete. Tali

finanziamenti infatti devono coprire investimenti in R&S, investimenti per fini produttivi comuni e investimenti

per fini distributivi comuni. In questa tipologia di rete il rischio di free-rider da parte delle imprese partecipanti

alla rete è molto alto. 25 Secondo, Jackson e Wolinsky, una rete è definita stabile quando per ogni link che la sostituisce, nessun nodo

può aumentare i suoi payoffs mediante la soppressione di un qualsiasi link diretto che lo vede partecipe e nessuna

coppia di nodi può migliorare in senso paretiano mediante la creazione di un link diretto che le unisca. Cfr.

JACKSON, WOLINSKY, op. cit., p. 44-74.

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A tal proposito, negli ultimi anni, i contesti economici hanno subito un processo di

trasformazione e si sono sempre più radicati sulla conoscenza e sull’innovazione, dove

ciascuna impresa costituisce il nodo di una rete di relazioni cooperative con altre imprese.

Giacomo Becattini sostiene, infatti, che bisogna studiare l’impresa come un’unità con

una precisa identità collettiva e afferma che «l’ape […] interessa di meno, quello […]

interessa lo sciame», cioè sostiene che occorre porre maggiore attenzione sul sistema26. Il

territorio, attraverso un virtuoso processo di identificazione può essere inteso come uno

spazio relazionale che con il suo DNA culturale e storico, con i suoi vantaggi comparati e con

la sua vocazione economica, costituisce una delle principali chiavi di lettura attraverso cui

vanno letti la complessità produttiva delle aree locali e i loro possibili futuri scenari socio-

economici. La dimensione territoriale è un elemento denso di significati, intrecciato da una

fitta rete di relazioni con una propria dinamica interna. Lo sviluppo, si presenta, così, come il

risultato di diversi agenti economici, privati e locali, competenti ed innovatori che possono

essere immaginati come sopra accennato come i nodi della rete di relazioni e di dotazioni

economiche, sociali e culturali.

L’impresa di piccole dimensioni, dunque, ha un forte radicamento territoriale, e insieme

ad altre imprese forma i cosiddetti distretti industriali27 che rappresentano una delle criticità

del modello italiano di sviluppo.

26 Giacomo Becattini suggerisce di soffermare l’attenzione sull’impresa come parte di un sistema e non solo

come entità unitaria. L’impresa di piccole dimensioni ha causa di problemi strutturali e finanziari presenta

singolarmente una scarsa propensione all’internazionalizzazione e all’innovazione. Essa se inserita nel circuito

della rete nazionale e internazionale può meglio specializzarsi e sfruttare l’efficiente divisione smithiana del

lavoro. Cfr. BECATTINI, Distretti industriali e Made in Italy. Le basi socio culturali del nostro sviluppo

economico, Torino, 2001. 27 I distretti industriale sono aree produttive caratterizzate da un’elevata concentrazione di imprese che hanno

caratterizzato la competitività del sistema produttivo italiano. Il distretto è stato analizzato per la prima volta da

Alfred Marshall che lo ha definito come «un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti

generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in area circoscritta, tra le quali vi è

collaborazione ma anche concorrenza». Successivamente, altri studi hanno messo in evidenza i vantaggi

derivanti dall’operare in specifiche aree geografiche e dallo sfruttamento di relazioni radicate in un ambiente

socioculturale circoscritto. In tale contesto, le imprese di piccole dimensioni, superano i loro limiti e, attraverso il

sistema di relazioni generate all’interno del distretto, sviluppano le loro competenze e le loro conoscenze.

Giacomo Becattini, a tal proposito, definisce il distretto «un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla

compresenza attiva, in un’area territoriale naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di

persone e di una popolazione di imprese industriali». BECATTINI, Il distretto industriale, 2001, Torino.

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La rete d’impresa in questa accezione distrettuale28 ha avuto e può ancora avere un forte

impatto sulla struttura produttiva italiana nonostante alcune problematiche evidenti della

stagnazione economica degli ultimi anni. Per assolvere a questa funzione essa deve

qualificarsi come rete innovativa di l’eccellenza dotata di una forte tradizione ed un solido

rapporto con il territorio ma anche aperta al processo d’internazionalizzazione. Essa, infatti,

sia attraverso relazioni orizzontali territoriali, che mediante relazioni verticali non

necessariamente riferite ad un territorio specifico può favorire economie esterne alle imprese

e interne alla rete e può promuovere un processo produttivo internazionale, tecnologicamente

avanzato ed efficiente29.

Le condizioni ambientali favorite dalla rete favoriscono dunque una diversificazione del

sistema internazionale ed una specializzazione della singola impresa locale. Le nostre imprese

italiane, sono chiamate a mantenere le loro posizioni nel mercato internazionale, da un lato

attraverso progressive riduzioni di costi medi unitari e dall’altro mediante la ricerca di nuovi

mercati. In passato esse sono state in grado di essere leader nella competizione internazionale

attraverso i nostri prodotti tipici. Tuttavia la forza del made in Italy si è dispiegata

prevalentemente in un mercato a dimensione sostanzialmente data, cioè un mercato europeo

che oggi, però, risulta insufficiente e molto piccolo rispetto al “resto del mondo”.

L’integrazione dei mercati ha favorito nuovi paesi emergenti che prima attraverso l’imitazione

e poi mediante l’emulazione hanno condotto delle politiche commerciali molto aggressive. Le

nostre imprese, invece non solo non possono più beneficiare della svalutazione monetaria che

ha caratterizzato gli anni del boom economico, ma sono soprattutto danneggiate dalle mancate

28 La legge n. 317 del 1991 ha disciplinato per la prima volta i distretti industriali come «aree territoriali

caratterizzate da elevata concentrazione di piccole e medie imprese con particolare riferimento al rapporto tra la

presenza delle imprese e la popolazione residente, nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle

imprese». Questa legge inoltre invitava le regioni ad individuare i distretti sulla base dei rigidi parametri definiti

dal decreto Guarino, 21 aprile 1993. In seguito, l’art.3 della legge n.266 del 1997 stanziava 25 miliardi (di lire)

per ciascuno degli anni 1998 e 1999, per cofinanziare i programmi regionali di sviluppo dei servizi e dell’ICT

nei distretti. Infine la legge n.266 del 2005 è stato introdotto un sistema di semplificazione amministrativi che

consentivano un miglioramento dell’efficienza e di accesso al credito. Con questa norma, inoltre si è previsto un

nuovo regime fiscale di promozione dei distretti. 29 L’impresa dello sciame rappresenta il territorio, perché contiene la cultura, rappresenta la sua tradizione ed è

influenzata dalla sua storia. C’è dunque una forte relazione tra l’impresa e i luoghi fisici e sociali di riferimento.

Ogni impresa intesa come ape dello sciame è parte di un tutto ben strutturato, avendo dei ruoli e dei rapporti ben

coordinati. Quando invece l’impresa non appartiene ad uno sciame essa opera individualmente. Questo è

prevalentemente il caso delle imprese del Mezzogiorno che privilegiano una configurazione di integrazione

verticale e non curano relazioni reciproche nel territorio di insediamento. Cfr. BECATTINI, cit.

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riforme strutturali nel mercato del lavoro. La scarsa produttività e una non adeguata

innovazione organizzativa hanno generato uno stato d’inerzia diffuso ed hanno causato la

perdita di posizioni delle nostre imprese nel nuovo scenario competitivo internazionale.

La globalizzazione, utilizzando una metafora darwiniana30, sembra costituire una sorta

di cambiamento ambientale che mette in pericolo la sopravvivenza delle imprese italiane

intese come specie a rischio di estinzione caratterizzate da una fragile struttura produttiva. In

questa nuova prospettiva dinamica occorre ripensare a come le nostre imprese devono

adattarsi al cambiamento. E’ necessario cioè favorire una mutazione organizzativa in grado di

far fronte ai nuovi problemi di inefficienza dinamica.

La forma organizzativa della rete, come sopra accennato, sembra capace di offrire

soluzioni efficaci ed efficienti a molte delle criticità che caratterizzano soprattutto le micro e

piccole imprese31, spesso non in grado di superare individualmente le sfide imposte dalla

competizione internazionale. Lo strumento della rete permette ad imprese appartenenti a

territori ed aree diverse di realizzare progetti comuni orientati alla crescita del livello

tecnologico, alla generazionale dell’innovazione e all’accrescimento della competitività. Esso

può dar luogo ad un nuovo modello di capitalismo – noto come Quarto Capitalismo –

costituito da imprese ambiziose di piccole e medie dimensioni che vogliono operare oltre i

confini nazionali e creare reti lunghe differenziandosi notevolmente dall’impresa «classica

distrettuale» ancora arroccata nel territorio di appartenenza32.

30 Cfr. LI DONNI, PROVENZANO, Politica Industriale ed Evoluzione dei Settori Industriali: Alcune Implicazioni di

Evolutionary Economic. Storia e Politica, 2008, p.212-229. Cfr. LI DONNI, PROVENZANO, L’evoluzione

Darwiniana e L’interplay Dinamico tra Routine Procedurali e Prosociali. Nuova Economia e Storia, 2012, n.1-

2; p.17-44. 31 Il regime fiscale, insieme a fattori di ordine culturale ed economico sembrano aver determinato in Italia una

bassa propensione alla crescita dimensionale da parte delle micro e piccole imprese. Esiste, infatti una

percezione diffusa tra gli imprenditori che all’aumentare delle dimensioni, diminuiscono le «opportunità di

evasione». 32 CHIARVESIO, MICELLI, mettono, a tal proposito, in evidenza una serie di vantaggi che contraddistingue queste

imprese. Esse sono più dinamiche rispetto a quelle tradizionali, sono mediamente più grandi, appartengono in

genere ad un gruppo industriale ed ottengono in un terzo dei casi una posizione di leadership di mercato. Esse

sono innovative, investono sulla ricerca, sul design e sulla comunicazione. CHIARVESIO, MICELLI, Oltre il

distretto come sistema: le strategie delle imprese fra locale e globale, 2007.

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Questo processo di internazionalizzazione, che inizia a svilupparsi in Italia a partire

dagli anni Settanta33, è stato affiancato, successivamente, dal processo di deregolamentazione

del mercato del lavoro che ha caratterizzato molti paesi europei. Il dibattito dottrinale e

politico si è dunque concentrato sui costi della manodopera 34 e sugli effetti dell’offshoring

sull’occupazione e sulle dinamiche salariali. Dalla letteratura economica ed empirica35 emerge

come il maggior costo del lavoro in Italia rispetto al livello medio dei paesi europei ha causato

alla delocalizzazione internazionale delle imprese attraverso la forma organizzativa delle reti.

Si noti che l’effetto per cui l’offshoring diventa più facile è conseguente alla durata prefissata

dei contratti e al minore radicamento aziendale dei lavoratori temporanei36.

L’internazionalizzazione produttiva delle imprese si estende sia al trasferimento

all’estero di attività precedentemente realizzate nel territorio nazionale che alla sostituzione di

subfornitori nazionali con quelli esteri. Mentre negli anni Ottanta essa riguardava le grandi

imprese, a parte degli anni Novanta ha coinvolto anche le PMI sotto forma di rete d’impresa

transnazionali37 . Quest’ultime, mediante relazioni commerciali, accordi tecno-produttivi e

comuni investimenti diretti all’estero hanno ottenuto vantaggi di produttività, una maggiore

propensione all’innovazione e alla R&S e una forza lavoro più qualificata38.

33 A partire dagli anni Settanta, la competizione internazionale ha spinto le imprese dei paesi industrializzati a

delocalizzarsi e a far parte di reti di imprese transazionali che sfruttano differenziali di costo di produzione, del

lavoro e beneficiano dell’avvicinamento ai mercati di sbocco. Cfr. BARBA NAVARETTI, VENABLES, Multinational

Firms in the World Economy, Princeton, 2004; trad. it., Le multinazionali nell’economia mondiale, Bologna,

2006. 34 MANKIW, SWAGEL, The politics and economics of offshore outsoucing, in Journal of Monetary Economics,

2006, 53, 5, p. 1027-1056. 35 Il fenomeno della delocalizzazione internazionale favorisce sia un aumento della produttività – cfr. DAVERI,

JONA-LASINIO, Off-shoring and productivity growth in the Italian manufacturing industries, in CESifo Economic

Studies, 2008, 54, 3, p. 414-450 – che un incremento relativo della domanda di lavoro qualificato, cfr.

ANTONIETTI, ANTIOLI, Production offshoring and skill composition of Italian manufacturing firms: A

counterfactual analysis, in OPENLOC Working Paper, 2009, n. 3. 36 BERTON, RICHIARDI, SACCHI, Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Bologna,

2009. 37 MARIOTTI, MUTINELLI, Italia multinazionale 2006. Le partecipazioni italiane all’estero e estere in Italia,

2008, Soveria Mannelli. 38 BUGAMELLI, CIPOLLONE, INFANTE, L’internazionalizzazione delle imprese italiane negli anni Novanta, in

Rivista Italiana degli Economisti, 53, p. 349-386. CASTELLANI, ZANFEI, Multinational firms, innovation and

productivity, Cheltenham, 2006. BENFRATELLO, RAZZOLINI, Firms’ productivity and internationalization

choices: Evidence for a large sample of Italian firms, in PISCITELLO, SANTANGELO (a cura di), Multinationals

and local competitiveness, Milano, 2008. FEDERICO, Outsourcing versus integration at home and abroad and

firm heterogeneity, in Empirica, 37, 2010, 1, p. 47-63.

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4. Alcune conclusioni sull’efficacia delle politiche d’intervento pubblico a favore

delle reti d’impresa innovative

Il contratto di rete rappresenta un quid novi nel panorama delle modalità di

aggregazione di imprese permesse dal Codice dei contratti. La Commissione europea nel

201039, ha sottolineato che la “particolarità del contratto di rete è che le imprese partecipanti

mantengono la loro autonomia sotto il profilo giuridico (…), questa nuova figura giuridica

lascia alle imprese la libertà di decidere quale tipo di cooperazione attuare e con quali mezzi,

senza imporre alcuna forma di obbligo strutturato, come l’istituzione di un fondo o altre

forme di fusione”. La Commissione ha inoltre precisato che “mentre altre figure giuridiche di

cooperazione strutturata, come le associazioni temporanee di imprese, raggruppano per un

certo periodo di tempo società che intendono svolgere una determinata operazione, nella rete

di imprese, (…), il contratto definisce un programma comune (come un programma

industriale) con il quale le società partecipanti mirano ad accrescere, individualmente o

collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato. Il

contratto istituisce quindi la forma più flessibile e generale di associazione tra imprese,

fissando un numero limitato di norme al solo scopo di assicurare la trasparenza e la stabilità

delle relazioni contrattuali”.

Inoltre, l’Unione Europea, ha intrapreso una politica che mira all’ottenimento di una

maggiore trasparenza della regolamentazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e

contraente privato. Quest’approccio si pone l’obiettivo di garantire che l’amministrazione non

«operi favoritismi verso alcuno dei soggetti che partecipano alla selezione per l’affidamento

all’appalto» 40 . Tale obiettivo sarà raggiunto soltanto se aumenta la partecipazione delle

imprese estere alle gare nazionali, e solo se saranno abbattute le barriere all’entrata delle

piccole e medie imprese. Le norme comunitarie tendono ad aprire il mercato a tutti gli

operatori economici a prescindere dalla dimensione.

39 Bruxelles, 26.01.2011 C(2010)8939; Aiuto di Stato N 343/2010 – Italia – Sostegno a favore della costituzione

di reti di imprese. 40 Cfr. FIDONE, Un’applicazione di analisi economica del diritto: la procedura per la scelta del cessionario ne

c.d. project financing, in corso di pubblicazione negli atti della prima conferenza annuale del SIDE (Italian

Society of Law and Economics), presso la facoltà di Economia di Siena “R.M.Goodwin”, Siena 25-27.11.2005.

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La percentuale di appalti aggiudicati alle PMI dipende dallo Stato a cui si fa riferimento,

infatti sono molteplici le difficoltà che le imprese devono superare all’entrata nel mercato e

possono essere più evidenti in alcuni Stati. Gli ostacoli possono essere per esempio: oneri

burocratici eccessivi, grande entità degli appalti, difficoltà nel reperire le informazioni, scarsa

conoscenza delle procedure di appalto, problemi nel reperire partner all’estero con cui

cooperare, pagamenti tardivi delle autorità aggiudicatrici. Dato che le difficoltà incontrate

dalle PMI sono molto numerose, esiste un documento chiamato Codice di buone pratiche che

orienta le autorità aggiudicatrici riguardo le modalità di applicazione delle direttive

comunitarie e circa le norme nazionali che non ostacolano l’accesso alle PMI. Solo pochi

Stati hanno stilato uno specifico programma in favore dell’accessibilità delle PMI agli appalti.

Ci sono però delle soluzioni per far diminuire le difficoltà riscontrate dalle PMI: migliorare la

qualità delle informazioni fornite, superare le difficoltà connesse all’entità degli appalti,

fissare livelli di capacità e requisiti finanziari proporzionati, garantire che i pagamenti siano

effettuati puntualmente. Nelle pagine precedenti, è emerso come con la legge 11 novembre

2011, n. 180, sia stata introdotta la partecipazione delle reti di impresa nell’ambito delle

procedure per l’aggiudicazione di contratti pubblici, nel tentativo di abbattere alcune barriere

all’entrata che impedivano l'accesso agli appalti pubblici delle micro, piccole e medie

imprese41.

Con riferimento al mercato del lavoro, è stato, anche, accennato che in Italia, esso è

stato per molto tempo rigido e caratterizzato da costi elevati. L’Italia, dunque, ha cercato di

seguire le raccomandazioni dell’ OCSE che indicavano di rendere più facile il ricorso a

contratti di durata prefissata soprattutto per le piccole e medie imprese. Questo percorso è

stato scandito da due leggi molto importanti: la legge 196/1997 (Pacchetto Treu) e il d.lgs.

276/2003 (legge Biagi). Esso si è tradotto in un processo di riforma, comune ad altri paesi

europei, di ampliamento delle forme contrattuali. Nonostante le resistenze del sindacato e di

altre parti sociali si è avviata in Italia una strategia di riforma del mercato del lavoro.

L’obiettivo principale è stato quello di incrementarne la flessibilità e la produttività.

41 Cfr. DI MARIA, PROVENZANO, Efficienza Competitività ed Innovazione della Pubblica Amministrazione:

Alcune considerazioni Economico-Giuridiche sul modello Consip, in KorEuropa, 1, 137 – 159 (disponibile

all’indirizzo http://www.unikore.it/index.php/roberto-di-maria-e-carmelo-provenzano#.Ua4NTtJU_rw).

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La politica italiana negli ultimi anni ha dunque cercato di favorire meccanismi più

efficienti cercando, da un lato, di supportare il percorso di sviluppo dei distretti e, dall’altro

lato, di stimolare il nuovo modello organizzativo della filiera produttiva che si basa sul

sistema relazionale delle reti d’impresa.

La nuova forma aggregativa della rete permette di supportare la capacità competitiva

soprattutto nei mercati esteri, di raggiungere economie di scala di sistema tipiche delle media

e grande impresa, senza rinunciare ai vantaggi e alla flessibilità della piccola dimensione e di

incrementare la performance economica delle imprese che vi aderiscono.

Ma come questa politica dev’essere condotta per essere efficace? Queste ed altre

domande sono state sollevate dalla teoria economica che cerca di identificare le caratteristiche

necessarie per favorire le reti innovative ed i distretti tecnologici. Comprendere queste

condizioni ci permette di effettuare delle considerazioni anche sull’efficacia delle politiche

attuate e di quelle potenziali da attuare.

Tra le diverse criticità è opportuno, innanzitutto, sottolineare che in Italia non esistono

settori specializzati ed aree ad elevata intensità teconologica. Non esistono distretti

tecnologici (DT) italiani, o meglio, non esistono aree con un numero elevato di imprese che

presentano le caratteristiche qualitative e quantitative richieste per potersi definire DT.

Un’attenzione molto importante va dedicata dalle politiche di intervento pubblico all’aspetto

della promozione e della governance dei distretti tecnologici e delle reti di impresa

innovative. A tal proposito, l’Unione Europea ha previsto aiuti di stato a favore di ricerca,

sviluppo e innovazione (RSI), per il periodo 2007-2013, stimolando, in particolare, la ricerca

effettuata in forma collaborativa.

La politica della Nuova Programmazione in Italia non ha raggiunto gran parte degli

obiettivi prefissati. In particolare il tentativo di promuovere i distretti industriali nel

Mezzogiorno d’Italia, non ha sortito gli effetti desiderati. L’obiettivo di creare delle filiere

sotto forma di reti di imprese che non necessitano di un patrimonio relazionale peculiare dello

sciame delle imprese distrettuali, può costituire un’occasione di svolta per l’economia del Sud

d’Italia. La politica di promozione di reti innovative può essere più appropriata per il Sud,

perché conferisce alle imprese una dimensione più flessibile e soprattutto non si fonda su

un’astratta e messianica mobilitazione generalizzata dal basso dei sistemi locali. Essa cioè ha i

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caratteri di una politica attiva e selettiva basata su logiche di pick up the winner.42 Tale

politica, inoltre, non si deve fondare su sporadici bandi della legge 488, ma deve basarsi sulla

creazione di nuclei operativi dedicati ad analisi di intervento con ampia capacità operativa.

Una condizione importante per condurre un intervento pubblico efficace ed efficiente è quello

di individuare gli strumenti necessari per la misurazione dell’impatto della politica industriale

sia nel medio che nel lungo periodo.

Le venture capital che assumono una forma a rete costituiscono, a tal proposito, uno

strumento flessibile, autonomo e responsabile. Esse operano sul mercato con un ben definito

budget che va verificato nel medio e nel lungo periodo. Tra gli obiettivi che possono essere

raggiunti attraverso questo mezzo vi sono quelli di una maggiore integrazione produttiva e di

un aumento della solidità della struttura produttiva locale. In tal modo, molte delle cause di

dispersione che accompagnano gli investimenti produttivi nel mezzogiorno possono essere

maggiormente controllate e attenuate. Non solo, questo strumento è in grado di saltare la

dimensione della localizzazione territoriale se accompagnato da una politica di filiera in grado

di aumentare la capacità di attrazione delle risorse finanziarie, materiali e immateriali. Il

Mezzogiorno, infatti è impossibilitato a competere con le altre aree depresse dell’Unione

Europea a causa della sua “fiscalità generale” penalizzante e degli aspetti ambientali e

strutturali svantaggiosi.

Occorre dunque dare maggior rilievo agli assets materiali legati alle grandi opere

infrastrutturali che agli assets immateriali collegati al capitale umano e alla capacità di

arricchimento delle funzioni produttive con attività terziarie a elevato contenuto di

innovazione. Le relazioni e i mix di strategie delle reti devono permettere una mutazione

genetica del territorio da area follower e passiva ad una leader ed innovativa. Per far ciò

occorre una governance razionale delle diverse istituzioni intermedie che favoriscono lo

sviluppo locale, si pensi per esempio, ai centri di servizio, alle agenzie regionali di sviluppo,

alle agenzie per l’innovazione ecc.

42 PURPURA, PROVENZANO, L’industria Manifatturiera Siciliana tra Eccellenze e Ritardo di Sviluppo: Alcune

considerazioni per la Politica Industriale, in BUSETTA (a cura di), Sicilia 2015. Obiettivo Sviluppo: un traguardo

possibile, 2009, p. 342-366.

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Un’analisi condotta da Cresta43 , sulla base del ruolo e dell’efficacia degli strumenti

intermedi di questa governance, ha classificato le regioni italiane in cinque gruppi: regioni

modello, regioni in corsi, regioni in stand by, regioni in ritardo e regioni borderline.

Da queste considerazioni, nasce la consapevolezza di allargare la filiera produttiva a

settori non industriali e di estendere la collaborazione a soggetti diversi dalle imprese come le

associazioni di categoria, consorzi, università, fondazioni e istituzioni attive nel campo

dell’innovazione e della ricerca, etc.

Il nuovo scenario dello sviluppo dev’essere dunque caratterizzato da nuovi modelli

aggregativi prevalentemente di tipo funzionale e, in misura sempre minore, su quelle di tipo

territoriale. Se da un lato, infatti le politiche di sviluppo locale devono essere finalizzate a

migliorare le condizioni di contesto, dall’altro lato le nuove forme organizzative devono

svincolarsi dalle loro aree geografiche di riferimento per favorire il processo di innovazione e

di competitività internazionale.

43 CRESTA, Il ruolo della governance nei distretti industriali. Un’ipotesi di ricerca e classificazione, Milano,

2008.

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LA TUTELA E LA CIRCOLAZIONE DEI BENI

CULTURALI NELL’UNIONE EUROPEA

Antonella Galletti Cultore di diritto dell’Unione europea nell’Università Kore di Enna

ABSTRACT: Nell’attuale quadro normativo europeo i riferimenti al dato culturale sono molteplici, ma è ancora

assente una trattazione organica del tema e il settore di riferimento è la cultura considerata in senso più ampio,

secondo quanto disposto dall’art. 151 del TCE, ora articolo 167 del TFUE. Il diritto dei beni culturali sembra

rimanere confinato nelle frontiere nazionali. È evidente, pertanto, che l’azione dell’Unione europea sia rivolta al

plurale concorrendo, quindi, allo sviluppo “delle culture” degli Stati membri e non di una cultura propriamente

europea. Nel settore dei beni culturali l’attività normativa di diritto secondario ha avuto come obiettivo quello di

conciliare nel mercato interno la libera circolazione dei beni culturali con le esigenze di protezione degli stessi.

Prima dell’adozione del regolamento 3911/92, relativo all’esportazione dei beni culturali, e della direttiva 7/93,

relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, gli Stati si

limitavano, infatti, ad effettuare controlli alle frontiere esclusivamente con riguardo ai beni rientranti nel

proprio patrimonio

PAROLE CHIAVE: Convenzione Unidroit; Tutela giuridica dei beni culturali; Regolamento 3911/92; Direttiva 7/93

1. Introduzione

«La battaglia dei beni culturali che ci vede tutti impegnati come cittadini di questo Paese,

archivio e museo del genere umano, è in primo luogo una battaglia culturale: se non ci

convinceremo della necessità e della convenienza di coesistenza e rispetto delle forme

culturali […] contribuiremo alla dispersione e alla distruzione del sapere accumulato e delle

possibilità di sviluppo civile insite nel patrimonio dei beni culturali1».

Tutelare il patrimonio culturale significa tutelare la storia ma anche la natura

contemporanea di un popolo.

Il modello europeo costituisce un esempio unico di coesistenza tra culture differenti ma,

al contempo e sotto vari profili, affini, cosicché la connotazione “culturale” di tale

ordinamento è apparsa con sempre maggiore rilievo2.

È stato il Trattato di Maastricht3 a segnare il passaggio verso un progetto di unificazione

europea di più ampio respiro, aprendo la strada ad un più determinante intervento dell’Unione

1CARILE, Prefazione, in MEZZETTI (a cura di), I beni culturali. Esigenze unitarie di tutela e pluralità di

ordinamenti, Padova, 1995, , IX. 2CHIAVARELLI, Il prestito e lo scambio, in CASINI (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna,

2010, pp.114 ss.

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in materia di beni culturali, tradizionalmente escluso sul presupposto del necessario rispetto

delle identità nazionali dei singoli Stati membri4.

Dal 1993 la cultura rientra tra le competenze dell’Unione e la stessa deve essere tenuta

in considerazione in tutte le azioni e nell’adozione di atti (in materia normativa e finanziaria)

anche al fine di promuovere la diversità e il dialogo interculturale.

Nell’attuale quadro normativo europeo i riferimenti al dato culturale sono molteplici5,

ma è ancora assente una trattazione organica del tema e il settore di riferimento è la cultura

considerata in senso più ampio, secondo quanto disposto dall’art. 151 del TCE, ora articolo 167

del TFUE6.

L’Unione europea vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale

europeo (articolo 3 del TUE, EX articolo 2 del TUE), appoggia ed integra l’azione degli Stati

membri nella conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea

(articolo 167 del TFUE). Si tratta di principi da considerare in modo certamente positivo

nell’ambito del riconoscimento a livello europeo di una valorizzazione dei beni culturali.

Il diritto dei beni culturali sembra, nondimeno, rimanere confinato nelle frontiere

nazionali7, anche per l’evidente difficoltà di disegnare un quadro di interventi dell’Unione

3 Firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1993. 4VITALE, La fruizione dei beni culturali tra ordinamento internazionale ed europeo, in CASINI (a cura di), op. cit.,

p. 182. 5 In particolare, gli articoli 3 TUE, 6, 13, 107, 165, 198, 207 TFUE. 6Articolo 167 TFUE: “1. L’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto

delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune. 2. L’azione

dell’Unione è intesa ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, ad appoggiare e ad

integrare l’azione di questi ultimi nei seguenti settori: - miglioramento della conoscenza e della diffusione della

cultura e della storia dei popoli europei, - conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza

europea, - scambi culturali non commerciali, - creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. 3.

L’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali

competenti in materia di cultura, in particolare con il Consiglio d’Europa. 4. L’Unione tiene conto degli aspetti

culturali nell’azione che svolge a norme di altre disposizioni dei trattati, in particolare ai fini di rispettare e

promuovere la diversità delle sue culture. 5. Per contribuire alla realizzazione degli obiettivi previsti dal presente

articolo: - il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa

consultazione del Comitato delle regioni, adottano azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi

armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri; - il Consiglio, su proposta della

Commissione, adotta raccomandazioni. 7 Da parte degli Stati membri c’è stata, e c’è ancora oggi, la tendenza a considerare la disciplina del patrimonio

culturale come un “dominio riservato”, una materia, cioè, che deve essere regolata dalla legge del luogo ove si

trovano i beni culturali, sui quali lo Stato esercita una potestà di governo che, in linea di principio, non trova

limitazioni nel diritto internazionale classico. Così, FRANCIONI, Protezione internazionale del patrimonio

culturale: interessi nazionali e difesa del patrimonio comune della cultura, Milano, 2000, p.12.

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adeguati. Le stessa definizione di “bene culturale” e di “patrimonio culturale” varia, inoltre,

negli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri e si sottrae a qualsiasi forma di

armonizzazione, che peraltro lo stesso articolo 167 del TFUE esclude espressamente8.

È possibile, tuttavia, dedurre nel riferimento al patrimonio culturale di importanza

europea, contenuto nel sopracitato articolo, un segno di un più forte coinvolgimento delle

istituzioni dell’Unione nelle politiche culturali. Si tratta, di fatto, di una nozione flessibile, in

grado di favorire il dinamismo che contraddistingue il settore della cultura ma, proprio per

questo, necessiterebbe di una precisazione di contenuto. Il legislatore europeo, al contrario,

non fornisce una definizione europea di patrimonio culturale.

A tal proposito l’unica soluzione è quella di accogliere una nozione di patrimonio

culturale che includa tutto ciò che ha un interesse archeologico, storico o artistico. Ne

consegue che anche l’identità culturale europea potrebbe acquisire, nell’ambito degli obiettivi

sanciti dall’articolo 3 del TUE, specifico rilievo9.

La salvaguardia dell’opposto interesse alla protezione delle diversità culturali nazionali,

ostacola, però, l’elaborazione di politiche comunitarie più incisive e l’aspirazione ad una

cultura comune europea10.

La questione potrebbe essere, quindi, quella di intendere il patrimonio culturale

dell’Unione non solo come “somma” dei singoli patrimoni nazionali degli Stati membri ma

come la “selezione di quelle testimonianze di civiltà suscettibili di caratterizzare la

dimensione culturale europea11”.

2. I beni culturali nelle disposizioni dei trattati dell’Unione europea

Il modo più corretto per riflettere sul processo d’integrazione europea non può

prescindere dal considerare che si tratta di un processo in costante modificazione e,

8 In proposito, ACCETTURA, I beni culturali tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali, in Aedon, 2003,

n.2. 9VITALE, op. cit., p. 185. 10DEGRASSI, Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, Milano, 2008,

pp. 190-201. 11PAPA, Strumenti e procedimenti della valorizzazione del patrimonio culturale, Napoli, 2006, p. 91.

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soprattutto, che l’integrazione ha assunto in una lunga fase iniziale una connotazione in

prevalenza settoriale e quasi esclusivamente economica.

Questo ci permette di capire come solo a partire dal Trattato di Maastricht la cultura

ottenga dignità di menzione soltanto in una norma e come, a tutt’oggi, al tema della cultura

sia riservato il solo Titolo XIII, a sua volta unicamente formato dall’articolo 167del TFUE, che

ha modificato, in modo per nulla significativo, l’articolo 151 del TCE.

L’articolo 167 del TFUE, così come il vecchio articolo 151delTCE, non è altro che una

norma programmatica priva di quella diretta applicabilità che caratterizza alcune norme anche

dei trattati, e pervasa da una “sottesa sussidiarietà12” che emerge dalla funzione che ha

l’Unione di contribuire allo sviluppo delle culture degli Stati membri.

È evidente, pertanto, che l’azione dell’Unione europea, destinata alla diffusione della

cultura dei popoli europei e della tutela del patrimonio culturale di importanza europea, degli

scambi e della conservazione artistica, sia rivolta al plurale concorrendo, quindi, allo sviluppo

“delle culture” degli Stati membri e non di una cultura propriamente europea, sintesi del

“retaggio culturale comune” al quale si riferisce anche l’articolo 167TFUE, comma 1.

Ciò serve a chiarire i limiti entro i quali è possibile parlare di un “patrimonio culturale

europeo”, oggetto dell’azione dell’Unione, e a sottolineare la difficoltà di affermare una vera

politica comune in questo settore, proprio per la insufficienza e l’inadeguatezza delle

competenze che i trattati, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, attribuiscono

all’Unione europea.

L’articolo in questione (articolo 167 del TFUE) è il frutto di un compromesso che, se per

un verso, tiene conto dell’esigenza di riconoscere competenze più ampie ed introdurre

procedure decisionali più rapide, per l’altro incontra le resistenze degli Stati alla delega di

un’ulteriore “fetta” di sovranità a vantaggio dell’Unione.

L’articolo 167 TFUE segna comunque un passaggio importante nella storia del processo

d’integrazione europea e nell’evoluzione dell’ordinamento comunitario laddove,

dall’esclusione di ogni ingerenza delle norme e delle istituzioni comunitarie sulle discipline

nazionali degli Stati membri in materia di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio

12FRIGO, Beni culturali e diritto dell’Unione Europea, in www.olir.it/areetematiche/166/documents/frigo_

relazione 2010_roma_cesen.pdf.

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culturale, si passa all’esplicita previsione di una specifica competenza in materia di

conservazione e protezione del patrimonio culturale europeo13.

Ciò nonostante, pur rappresentando un’importante base giuridica, se ne riscontrano i

limiti e le indubbie ambiguità.

Se da un lato, infatti, viene richiamato il “retaggio culturale comune” degli Stati

membri, dall’altro se ne evidenziano le diversità nazionali e regionali. L’Unione, limitandosi

ad incoraggiare la cooperazione degli Stati, ed escludendo qualsiasi armonizzazione delle

disposizioni legislative nazionali, sembra riservarsi una competenza piuttosto limitata14.

Risulta quindi evidente che, al di là di ogni esplicita individuazione di una possibilità di

intervento dell’Unione nel settore culturale, la tutela e la conservazione dei patrimoni culturali

nazionali restano appannaggio degli Stati. Ne è conferma l’introduzione da parte del Trattato

di Maastricht del 3° comma dell’articolo 92 del TCE, oggi articolo 107 del TFUE15, 3° comma,

lettera d, il quale in materia di aiuti di stato definisce come compatibili con il mercato interno

quelli destinati alla cultura e alla conservazione del patrimonio, a condizione che non alterino

gli scambi e la concorrenza nell’Unione.

13PONTRELLI, La gestione, la valorizzazione e la circolazione dei beni del patrimonio culturale del diritto interno

e comunitario, in JAMBRENGHI (a cura di), La cultura e i suoi beni giuridici, Milano, 1994 p.63. 14VARESE, La politica culturale europea: cronache di una storia, in Economia della cultura, 2000, p.13 ss.. 15 Articolo 107 TFUE: “1. Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella

misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse

statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la

concorrenza. 2. Sono compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli

consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall'origine dei prodotti; b) gli

aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali; c) gli aiuti

concessi all'economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione

della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale

divisione. Cinque anni dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della

Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente lettera. 3. Possono considerarsi compatibili con

il mercato interno: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia

anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di cui

all'articolo 349, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale; b) gli aiuti destinati a

promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse; c) gli aiuti destinati ad agevolare lo

sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in

misura contraria al comune interesse; d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del

patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell'Unione in misura contraria

all'interesse comune; e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della

Commissione”.

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Gli interventi dell’Unione nel settore della cultura dovranno inoltre escludere, come

precedentemente affermato, “qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e

regolamentari degli Stati membri16”.

Del resto è stata la stessa Commissione europea, nella sua Comunicazione del 198917, a

sottolineare come l’idea di un’armonizzazione delle legislazioni nazionali nel settore dei beni

culturali risulti piuttosto irrealizzabile nel momento in cui gli Stati considerano l’uscita dal

proprio territorio degli oggetti d’arte come “violazione” del patrimonio nazionale e non come

condivisione con altri Paesi di un patrimonio comune europeo.

Un’armonizzazione nel settore, oltre che di non facile attuazione, non sarebbe neanche

auspicabile. Essa vieterebbe o sottoporrebbe a restrizioni in tutti gli Stati membri, secondo gli

stessi criteri, l’esportazione di oggetti che fanno parte del patrimonio nazionale ma l’ostacolo

non verrebbe eliminato: è l’uscita dal territorio nazionale che viene vista come una violazione

del patrimonio, e la circostanza di sapere che il bene in questione godrà della stessa

protezione in un altro Stato membro non è sufficiente. In altre parole, l’armonizzazione non

abolirebbe il ricorso all’articolo 36 del TFUE18

(ex articolo 30 del TCE).

In assenza, quindi, di un’attribuzione di competenza di carattere generale in tema di

tutela del patrimonio culturale europeo e dei singoli Stati membri, i trattati si occupano in

realtà soltanto dei beni culturali mobili in modo quasi esclusivamente indiretto, facendo

sorgere il problema dell’applicabilità a questa particolare categoria di beni di norme che

16Articolo 167 TFUE, 5° comma. 17 Comunicazione del 22 novembre 1989 al Consiglio, relativa alla protezione del patrimonio nazionale avente

un valore artistico, storico o archeologico, nella prospettiva della soppressione delle frontiere interne nel 1992,

COM(89) 594 def. 18Articolo 36 TFUE: “Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni

all’importazione, all’esportazione o al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di

pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali,

di protezione del patrimonio artistico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e

commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né

una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”. Come osservato dalla Commissione nella

Comunicazione COM(89) 594 def., esiste una notevole differenza tra la salvaguardia del patrimonio nazionale e

le altre eccezioni alla libera circolazione delle merci (articolo 30 TCE, oggi articolo 36 TFUE). La maggior parte

delle eccezioni previste nell’articolo summenzionato sono invocate per restringere le importazioni e possono

essere quindi eliminate, in quanto ostacoli alla libera circolazione, da un’eventuale armonizzazione delle norme e

regolamentazioni in questione. Invece il problema della protezione del patrimonio nazionale sussisterebbe anche

se tutti gli Stati membri avessero un’unica legislazione. Infatti, mentre per la tutela della salute, dell’ambiente

ecc., si tratta unicamente di trovare un livello comunitario, in materia di protezione del patrimonio nazionale gli

Stati ragionano in termini di salvaguardia del “loro” patrimonio.

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hanno scopi diversi da quelli di una loro tutela o valorizzazione. Si tratta, nello specifico, di

quelle norme create fin dagli inizi del processo d’integrazione europea quali norme poste a

garanzia di alcune libertà fondamentali e, in particolare, della libera circolazione delle merci.

In tale ottica si deve innanzitutto esaminare l’articolo 26 del TFUE19, norma dichiarata

direttamente applicabile dalla Corte di giustizia, e che assicura la libera circolazione delle

merci, delle persone, dei servizi e dei capitali nell’ambito del mercato interno, come pure

l’articolo 28 del TFUE20, laddove evidenzia che l’Unione doganale tra gli Stati membri

comporta il divieto dei dazi doganali all’importazione e all’esportazione e di tasse di effetto

equivalente, nonché l’adozione di una tariffa doganale comune con i Paesi terzi.

Di notevole importanza sono anche gli articoli 3421 e 3522 del TFUE, dichiarati anch’essi

dalla Corte di immediata applicabilità, e che vietano le restrizioni quantitative

all’importazione e all’esportazione, nonché qualsiasi misura di effetto equivalente.

Come si nota, le suddette disposizioni non fanno nessun riferimento alla nozione di

bene culturale, ma sono sicuramente norme di rilievo nell’ordinamento dell’Unione che hanno

ad oggetto “le merci”. Ciò pone il problema di decidere se sia possibile equiparare la nozione

di beni culturali a quella di merci. A tal proposito la Corte di giustizia ha avuto modo di

pronunciarsi sul punto in una famosa sentenza del 1968, nella quale ha stabilito che la natura

di merci, con conseguente assoggettabilità all’allora Trattato CE, deve essere riconosciuta

anche agli oggetti di interesse artistico, storico e archeologico, qualora si tratti di beni

suscettibili di una valutazione economica23.

19Articolo 26 TFUE: “1. L’Unione adotta le misure destinate all’instaurazione o al funzionamento del mercato

interno, conformemente alle disposizioni dei trattati. 2. Il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere

interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo

le disposizioni dei trattati. 3. Il Consiglio, su proposta della Commissione, definisce gli orientamenti e le

condizioni necessari per garantire un progresso equilibrato nell’insieme dei settori considerati”. 20Articolo 28 TFUE: “1. L’Unione comprende un’unione doganale che si estende al complesso degli scambi di

merci, dei dazi doganali all’importazione e all’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure

l’adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi. 2. Le disposizioni dell’ articolo 30 e

del capo 3 del presente titolo si applicano ai prodotti originari degli Stati membri e ai prodotti provenienti da

paesi che si trovano in libera pratica negli Stati membri”. 21 Articolo 34 TFUE: “Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché

qualsiasi misura di effetto equivalente”. 22Articolo 35 TFUE: “Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’esportazione nonché qualsiasi

misura di effetto equivalente”. 23Corte di giustizia, 10 dicembre 1968, in causa 7/68, Commissione c. Italia, in Raccolta, p. 562.

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Si deve però aggiungere che la regola generale posta dagli articoli 34 e 35 del TFUE

trova un temperamento nel già richiamato articolo 36 del TFUE, cioè nell’unica disposizione

che ha espressamente ad oggetto, tra le altre, la tutela dei beni di interesse culturale, ed in base

alla quale agli Stati membri viene concesso di introdurre o di mantenere quei limiti

all’importazione, all’esportazione e al transito che trovino una giustificazione nella

“protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale”.

A questo punto si tratta di esaminare quale sia l’ampiezza delle prerogative lasciate agli

Stati in materia di limiti alla circolazione dei beni culturali e ciò può essere fatto confrontando

le varie versioni linguistiche dell’articolo 36 del TFUE.

Il testo italiano, insieme a quello portoghese e spagnolo, sembra consentire agli Stati

una discrezionalità relativamente ampia, consentendo loro di mantenere quelle restrizioni che

siano giustificate dall’esigenza di protezione del “patrimonio artistico, storico o archeologico

nazionale”. Al contrario, in altre versioni linguistiche, ed in particolare in quella inglese e

francese, le prerogative nazionali appaiono più limitate, trattandosi della salvaguardia dei

“tesori nazionali di valore artistico, storico o archeologico”. Non sembra controverso che

“patrimonio nazionale” e “tesori nazionali” rimandano a due nozioni concettualmente diverse

della quali la prima consentirebbe alle autorità statati di includere tra le categorie dei beni

oggetto di una disciplina di tutela anche beni che non potrebbero farsi rientrare nella

seconda24.

Nell’interpretare norme di diritto comunitario primario o secondario aventi significato

diverso nelle varie versioni linguistiche la Corte di giustizia ha spesso applicato lo stesso

metodo riconducibile essenzialmente ai seguenti criteri. In primo luogo, ogni volta che una

norma è rivolta a tutti gli Stati membri, l’esigenza di un’interpretazione uniforme esclude una

considerazione separata del testo in una sola versione linguistica, ma necessita, invece, che

essa venga interpretata con l’obiettivo di assicurare il perseguimento dello scopo voluto dalla

disposizione alla luce delle altre versioni linguistiche25. In secondo luogo, le diverse versioni

24FRIGO, op. cit.. 25 Corte di giustizia, 12 novembre 1969, in causa 29/69, Erich Stauder c. City of Ulm, in Raccolta, p. 419, punto

3; Corte di giustizia, 17 luglio 1997, in causa C-219/95, Ferriere Nord Spa c. Commissione, in Raccolta, p.I-

4411, punto 15; Corte di giustizia, 20 novembre 2001, in causa C-268/99, Aldona Malgorzata et al. c.

Staatssecretaris van Justuitie, in Raccolta, p. I-8615, punto 47.

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linguistiche di una disposizione di diritto dell’Unione devono essere interpretate in modo

uniforme e, in caso di divergenze, la norma deve essere interpretata alla luce dell’economia

generale e dell’obiettivo perseguito dal complesso delle disposizioni alle quali essa

appartiene26.

Ebbene, se si utilizzano per l’articolo 36 del TFUE le regole interpretative sopra

richiamate, non sembra problematico affermare che i testi inglese e francese sono più

conformi all’oggetto, allo scopo e ai contenuti del trattato di quanto lo siano i testi italiano,

spagnolo e portoghese. In effetti, l’articolo 36 del TFUE comprende un numero tassativamente

limitato di eccezioni alla regola generale posta dagli articoli 34 e 35 del TFUE in tema di

divieto di restrizioni quantitative agli scambi. Trattandosi di una norma di deroga, una sua

interpretazione estensiva sarebbe contraria al TFUE ed incompatibile con l’equilibrio tra gli

obblighi da esso derivanti e le prerogative assegnate agli Stati membri.

3. La disciplina dei beni culturali nelle fonti di diritto europeo derivato: il

regolamento 3911/92/CEE e la direttiva 93/7/CEE.

Nel settore dei beni culturali l’attività normativa di diritto secondario ha avuto come

obiettivo quello di conciliare nel mercato interno la libera circolazione dei beni culturali con

le esigenze di protezione dei tesori aventi valore artistico, storico o archeologico.

In effetti, prima dell’adozione del regolamento 3911/92 relativo all’esportazione dei

beni culturali27, successivamente abrogato dal regolamento 116/200928, e della direttiva 93/7

relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato

membro29, gli Stati si limitavano principalmente ad effettuare controlli alle frontiere con

26 Corte di giustizia, 27 ottobre 1977, in causa 30/77, Regina c. Pierre Bouchereau, in Raccolta, p. 01999, punto

14; Corte di giustizia, 7 dicembre 1995, in causa C-449/93, Rockfon A/S c. Specialarbejderforbundet i Danmark,

in Raccolta, p.I-4291, punto 28; Corte di giustizia, 17 dicembre 1998, in causa C-236/97, Skatteministrerietc.

Codan, in Raccolta, p. I-8679, punto 28; Corte di giustizia, 9 gennaio 2003, in causa C-257/00, Nani Givanec.

Secretary of State for the Home Department, in Raccolta, p. I-345, punto 37. 27Regolamento (CEE)n. 3911/92 del 9 dicembre 1992 del Consiglio relativo all’esportazione dei beni culturali. 28Il Regolamento (CE)n. 116/2009 del 18 dicembre 2008 del Consiglio relativo all’esportazione dei beni culturali

ha sostituito il precedente regolamento n. 3911/92, già modificato in modo sostanziale a più riprese. Il nuovo

Regolamento ha quindi una funzione essenzialmente di codificazione ai fini di maggiore chiarezza (cfr.

considerando 1 del regolamento n. 116/2009). 29Direttiva (CEE)n. 93/7del 15 marzo 1993 del Consiglio relativa alla restituzione dei beni culturali usciti

illecitamente dal territorio di uno Stato membro.

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riguardo ai beni rientranti nel proprio patrimonio, mentre i beni che provenivano da altri Stati

membri non erano soggetti ad efficienti controlli in caso di esportazione.

La realizzazione del mercato interno non poteva ignorare l’eliminazione dei controlli

alle frontiere, con la conseguenza di determinare misure destinate ad assicurare un controllo

più uniforme delle esportazioni allo scopo di evitare l’elusione delle norme nazionali di

protezione mediante l’esportazione in un Paese terzo attraverso il transito in un altro Stato

membro le cui norme sulla circolazione dei beni culturali fossero maggiormente permissive di

quelle dei Paesi d’origine.

Con riguardo alla definizione di “bene culturale” entrambi gli atti sono corredati da un

identico allegato che contiene l’elenco delle categorie di beni culturali suscettibili di rientrare

nell’ambito di applicazione del Regolamento e della Direttiva, in armonia con le prerogative

degli Stati membri.

In particolare, il Regolamento non fornisce una definizione propria di bene culturale, in

quanto al suo articolo 1 chiarisce che per “beni culturali” si intendono i beni elencati

nell’allegato 1, fatti salvi i poteri degli Stati membri ai sensi dell’articolo 36 del

TFUE30,precisando nei considerando che tale allegato ha soltanto lo scopo di definire le

categorie di beni culturali che dovrebbero formare l’oggetto di particolare protezione negli

scambi con i Paesi terzi, senza incidere sulla libertà degli Stati membri ai sensi del suddetto

articolo 3631.

La Direttiva, a sua volta, chiarisce nei considerando che l’allegato non ha l’obiettivo di

definire i beni che fanno parte del patrimonio nazionale ai sensi dell’articolo 36 del TFUE, ma

unicamente quello di dare una definizione dei beni suscettibili di essere classificati come tali e

di formare oggetto di un procedimento di restituzione.

Per quanto riguarda la circolazione, il regolamento 3911/92 prevede che l’esportazione

di beni culturali al di fuori del territorio dell’Unione sia subordinata alla presentazione di una

30Articolo1 del regolamento 116/2009: “Fatti salvi i poteri degli Stati membri ai sensi dell’articolo 30 del

trattato” (oggi, art. 36 TFUE) “«per beni culturali» s’intendono, ai fini del presente regolamento, i beni elencati

nell’allegato I”. 31 Considerando 7 del regolamento 116/2009: “L’allegato I del presente regolamento ha lo scopo di definire le

categorie di beni culturali che dovrebbero formare oggetto di particolare protezione negli scambi con i paesi

terzi, ferma restando la libertà degli Stati membri di definire i beni da considerare patrimonio nazionale ai sensi

dell’articolo 30 del trattato” (oggi, art. 36 TFUE).

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licenza di esportazione che deve essere rilasciata, su richiesta dell’interessato, dalle singole

autorità competenti dello Stato membro “di origine”, cioè dallo Stato nel cui territorio si

trovava il bene alla data del 1° gennaio 199332. Gli Stati possono tuttavia negare la licenza

qualora i beni in questione rientrino tra quelli oggetto di una legislazione di tutela del

patrimonio nazionale.

Con riferimento al tema della restituzione, la direttiva 93/7 presenta alcuni aspetti

comuni al sistema della Convenzione Unidroit del 199533 sul ritorno internazionale dei beni

culturali rubati o illecitamente esportati, prevedendo l’obbligo di restituzione dei beni

rientranti nel suo ambito di applicazione che siano usciti illecitamente dal territorio di uno

Stato membro. A tal fine gli articoli 4-9 della Direttiva prevedono per lo Stato membro

richiedente la possibilità di presentare davanti all’autorità giudiziaria competente dello Stato

membro richiesto un’azione di restituzione, stabilendo l’obbligo di introdurre nelle

legislazioni statali norme che consentano la restituzione anche nell’ipotesi di acquisto in

buona fede, a condizione che il giudice sia “convinto che il possessore abbia usato, all’atto

dell’acquisizione, la diligenza richiesta34”.

Una vera e propria politica culturale europea va, naturalmente, ben oltre i profili qui

esaminati.

Le nuove disposizioni in materia di cultura introdotte dal Trattato di Maastricht e

sostanzialmente riconfermate dal Trattato di Lisbona contengono dei limiti molto precisi che

fanno dell’intervento dell’Unione poco più di un sostegno alle già esistenti politiche culturali

dei singoli Stati membri.

Emerge, quindi, che allo stato attuale la disciplina dell’Unione dei beni culturali non

può prescindere dalle legislazioni nazionali e non ci sono elementi che facciano prevedere un

cambiamento di questo indirizzo35.

32 La data del 1° gennaio è rimasta inalterata rispetto alla data già prevista dal regolamento n. 3911/93, che era

stata stabilita in coincidenza con l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne ai fini della realizzazione del

mercato unico. 33La Convenzione Unidroit del 24 giungo 1995 sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente

esportati è in vigore dal 1° luglio 1995. 34 Articolo 9 della direttiva n. 93/7. 35MEZZETTI, op. cit., p. 25.

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O MODELO EUROPEU E A QUESTÃO DA CIDADANIA

Janaína Rigo Santin Pós Doutora em Direito pela Universidade de Lisboa e Professora da Faculdade de Direito da

Universidade de Passo Fundo

RESUMO: A pesquisa problematiza a questão da cidadania europeia e do déficit democrático das instituições

supranacionais. A situação de crise por que passam as instituições nacionais em face do processo de globalização

traz consigo um déficit democrático, o que provoca uma série de gravames sociais. E essa problemática torna-se

mais evidente na União Europeia, que se encontra em um momento crucial sobre quais competências que deve

assumir para tomar as decisões fundamentais capazes de fazer frente à globalização. E para isso precisa adotar

mecanismos ágeis e rápidos de decisão, com a transferência maior de competências para as instituições europeias,

a qual necessariamente deve vir unida a uma maior democratização dessas instituições, eis que o déficit

democrático da Europa é algo bastante presente. É uma questão não só de funcionalidade e operacionalidade como

também de democracia. Defende-se a ideia de que os cidadãos europeus devem ter o poder de efetivamente

participar dos assuntos comunitários, evoluindo-se a democracia representativa para uma democracia participativa

em âmbito supranacional

PALAVRAS-CHAVE: Cidadania europeia, Participação, Constitucionalismo europeu

1. Considerações Iniciais

Em face da evolução do Estado Moderno, o conceito de Cidadania obteve diversas

conotações, todas elas voltadas de acordo com o momento histórico que a humanidade passava, e

naturalmente com o modelo social imposto pela forma estatal da época.

Os Estados na ordem mundial atual são, em sua maioria, estruturas sociais democráticas.

Diante disso, a noção de cidadania, que remonta a épocas primitivas da sociedade, se faz de suma

importância, visto que sem a participação da população nos desígnios do Estado, a democracia

perde seu foco, destoando dos objetivos a que se propõe. É a cidadania, enquanto fundamento da

democracia, que deve promover a participação, fazendo com que os cidadãos, através do poder

originário que possuem, cobrem e também ajudem seus governantes a tomar decisões que sejam

benéficas a todos.

Todavia, frente ao contexto social apresentado hodiernamente, relevante se faz uma análise

mais profunda nos aspectos que tangenciam a questões da cidadania e da democracia. A crise que

se abate sobre a sociedade, demonstra a fraqueza de estruturas até então consideradas inabaláveis,

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como o Estado, o que denota uma realidade difícil. Vive-se em um mundo que desconhece

fronteiras, e que com o advento da globalização “plugou” sociedades até então de complicada

interconexão. Porém, no momento presente, da “informação simultânea”, ao invés de corroborar

o propósito democrático, invocando as sociedades para uma participação mais efetiva dentro dos

Estados, alienou-a, dificultando a participação política do cidadão quando se tratam de

mecanismos institucionais supranacionais.

E essa problemática evidencia-se ainda mais no caso da União Europeia, que se encontra

em um momento crucial de decisão sobre quais competências deve assumir para tomar as

medidas fundamentais capazes de fazer frente à globalização e tudo o que dela decorre, como a

crise da dívida soberana de muitos de seus membros. Para isso precisa adotar mecanismos ágeis e

rápidos de decisão, com a transferência maior de competências para as instituições comunitárias.

Entretanto, essa transferência deve estar acompanhada necessariamente a uma maior

democratização dessas instituições, eis que o déficit democrático da Europa é algo bastante

presente. É uma questão não só de funcionalidade e operacionalidade como também de

democracia. Defende-se a ideia de que os cidadãos devem ter o poder de efetivamente participar

dos assuntos comunitários, evoluindo-se a democracia representativa para uma democracia

participativa em âmbito supranacional.

A globalização trouxe consigo fantásticas inovações ao mundo, sendo que, hoje, pergunta-

se como é possível viver sem tais invenções tecnológicas. Porém, trouxe consigo também alguns

ônus para a sociedade. O cidadão passou a ficar à deriva dentro do Estado, pois, atualmente,

quem passa a influir nas políticas públicas nacionais cada vez mais são fontes supranacionais de

poder.

Decorrente disso, a cidadania vem se aprimorando, galgando novas características, com a

reorganização espacial dentro dos Estados. E a mistura desses fatores, que se complementam, traz

à tona a possibilidade de respostas aos novos desafios lançados à cidadania, nessa nova

formatação de mundo atualmente exposta.

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É em relação a esses aspectos que a presente pesquisa desenvolve-se, buscando demonstrar

a existência das mais tênues linhas de inter-relação entre conceitos que a todo instante são

suscitados, porém utilizados desvencilhados do seu correto sentido. Da mesma forma, visa trazer

propostas de possíveis soluções a estes problemas.

2. Desenvolvimento Histórico da Cidadania em face da Evolução do Estado

Moderno

Em toda a história da evolução humana, desde os tempos mais primitivos, o homem buscou

associação a outros homens para desenvolver e aprimorar suas técnicas, em busca de uma vida

melhor. Sendo um ser naturalmente associativo, o homem passou de um estágio de vida solitária

para uma vida em grupo. Esses agrupamentos humanos, pequenos inicialmente, foram

desenvolvendo-se, tomando proporções cada vez maiores. Automaticamente, irrompem, dentro

dos grupos, novas relações capazes de gerar conflitos e discordâncias1.

Para que a ordem nesses grupos fosse mantida criou-se uma pequena organização;

entretanto ainda não eram considerados sociedades. Posteriormente, devido a uma imensa gama

de fatores, tais grupos passaram a interagir e a se inter-relacionar, surgindo relações diversas das

existentes, o que tornou estas organizações sociais precoces cada vez mais complexas2.

Essas intrincadas relações exigiram novas formas organizacionais, o que fez desabrochar o

fenômeno estatal, trazendo para a história o elemento Estado com todas as suas características. E

o fenômeno estatal, entidade abstrata criada pelo direito e desenvolvida em especial na

modernidade, a partir de noções de contrato social, foi dotado da finalidade complexa de

organizar a sociedade incrustada sobre um território próprio, com população e normas próprias,

dotado de soberania, para que essa ordem social complexa possa desenvolver-se em vista ao bem

comum.

1 NASCIMENTO, Lições de História do Direito, 3ª ed., Rio de Janeiro, 1984, p. 12. 2 NASCIMENTO, op. cit., p. 13.

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Em meio a todas estas transformações por que passava a humanidade, o homem começou a

ter um papel crucial dentro do desenvolvimento da sociedade, passando a ser qualificado como

cidadão. A origem da palavra remonta a Roma e Grécia, nas antigas Polis (cidades-estados) que

foram as precursoras de uma sociedade estatalmente organizada. Polites ou Cives eram para os

romanos os sócios da Polis ou Civitas. Cidadãos eram, portanto, todos os homens que

participavam do funcionamento da cidade-estado, os titulares de direitos políticos3.

A participação desses cidadãos era efetuada da forma direta, sem a existência de

representantes, visto que este instituto da representação privada só teve origem no mundo

moderno. Essa participação dava-se através da votação das leis e no exercício de funções

públicas, especialmente a judiciária. A participação dos cidadãos era tão importante que sem ela,

a Polis não existiria4.

Em Atenas, na Grécia, o principal privilégio dos então denominados cidadãos era a igual

liberdade da palavra nas assembléias do povo. Assim sendo, o grau de participação do povo

ateniense foi bem maior que o do povo romano. No campo Legislativo, as leis eram votadas pelo

povo reunido em comícios, por proposta de um magistrado. No campo judiciário, o juiz era

alguém do povo, e existiam regulamentos que permitiam ao condenado a penas graves de

recorrer diretamente ao julgamento popular5.

Vale enfatizar que, por cidadania, entendia-se a qualidade de o indivíduo pertencer a uma

sociedade, e estar adstrito a todas as implicações decorrentes da vida em sociedade. Logo,

cidadão era aquele que morava na cidade e participava dos seus negócios. Assim sendo, era

caracterizada por uma minoria, aqueles que podiam acessar cargos públicos, visto que os

estrangeiros, os escravos, as mulheres, os artesãos e os comerciantes eram discriminados e não

eram considerados cidadãos6.

3 COMPARATO, A Nova Cidadania, São Paulo, 1993, n. 28/29, p. 85-106, p. 23. 4 SILVEIRA, Cidadania. Disponível em: http://www1.jus.com.br/doutrina/texto.asp?id=78. Acesso mar. 2012. 5 COMPARATO, op. cit., p. 24. 6 SILVEIRA, op. cit..

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Indubitavelmente, a civilização Greco-Romana tinha em seu ápice um extraordinário

desenvolvimento político. Porém, contrastando a isso, os indivíduos pertencentes a estas

sociedades não gozavam de liberdade privada alguma. Encontravam-se totalmente submetidos à

cidade-estado a qual pertenciam. Toda e qualquer atividade existente na Polis era controlada, das

roupas ao corte de cabelo, da religião à educação. Isso se explicava na medida em que se tratava

de moldar o caráter dos cidadãos para servir a Polis. Conforme ensina FÁBIO KONDER

COMPARATO, “o mundo greco-romano, matriz da civilização ocidental, era o espaço social da

sujeição e do poder absoluto, em contraste com a liberdade ativa que prevalecia na esfera

política”7.

Todavia, com o passar do tempo, entra em decadência o chamado “Império Romano”,

desaparecendo o modelo constituído pela civilização greco-romana, acarretando em séculos de

supressão da cidadania.

Roma, com seu império, esfacelou-se com a invasão dos bárbaros, e conseqüentemente o

seu poder central desapareceu. Os territórios passaram a ser divididos em feudos, para que assim

pudessem ser controlados autonomamente por seus senhores feudais. O poder passa, assim, de

uma centralização para uma descentralização, pois esta era a melhor forma de dominar os

territórios, em vista da imensidão de terras a serem conquistadas, o que contrastava com os meios

de dominação existentes, que eram mínimos8.

Esta nova forma de organização social foi denominada, na Europa, de Feudalismo, e pôs

um fim ao chamado Estado Medieval. Esse período caracterizou-se pela íntima ligação entre

Igreja e Estado. O Feudalismo criou uma hierarquização política, não sendo contra o Estado, mas

sim se fazendo como um meio propulsor para o seu advento9. Este modelo de organização social

7 COMPARATO, op. cit., p. 24. 8 BERUTTI-FARIA-MARQUES, História, Vol. 3, Belo Horizonte, 1993, p. 13. 9 MELLO, Curso de Direito Internacional Público, Vol. I, 11ª ed., Rio de Janeiro, 1997, p. 330.

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implantado era articulado “a partir do poder fragmentado de cada Senhor Feudal, e que se

alicerçava em uma relação indissolúvel entre o poder religioso e o poder político”10.

Com o novo quadro social que se desenhava na época, o chamado status civitatis, tão

presente na antiga civilização, foi suprimido, passando a existir um complexo sistema de relações

hierárquicas de dominação privada. Isso se explica pelo poder fragmentado, no qual cada senhor

feudal possuía sua quota-parte de poder, fazendo com que os indivíduos presentes nos feudos não

tivessem uma identidade própria, sendo nada mais do que servos do senhor feudal11.

Na metade do séc. XV, o Feudalismo tem sua força exaurida. Abate-se sobre o modo de

produção feudal uma profunda crise, enfraquecendo as bases sociais da época. Com o advento

desta grave crise, necessitava-se uma nova ordem que pudesse reorganizar a sociedade

desarticulada12.

Florescia, na época, movimentos com vistas à centralização do poder político e à expansão

territorial, o que culmina com a instauração do Regime do Absolutismo Monárquico, enterrando

de vez o espaço já limitado das liberdades. Com isso, passa a vigorar a ordem política Moderna -

a partir do séc. XVI - procurando desvencilhar a religião do Estado e fortalecer o vínculo político

do Estado para com os cidadãos. A centralização do poder deu-se nas mãos do Rei, sendo que o

Estado era visto na própria pessoa do Rei, perdendo a concepção de impessoalidade da

administração13.

Esse novo protótipo de Estado perdurou entre os séculos XVI e XVII, consolidando no

período a idéia de Estado-Nação, lastreado em uma regulamentação jurídica dos conflitos sociais

existentes. Esse Estado continua sendo “a expressão da hegemonia da nobreza que através da

reorganização estatal reforça sua dominação sobre a massa camponesa”14.

10 BEDIN, Estado, Cidadania e Globalização do Mundo: Algumas Reflexões e Possíveis Desdobramentos, in

OLIVEIRA (coord.), Relações Internacionais e Globalização, Ijuí, 1997, p. 126. 11 GOULART, Sociedade e Estado, in ROCHA (org), Teoria do Direito e do Estado, Porto Alegre, 1994, p. 26. 12 BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 25. 13 BOBBIO, Direito e Estado no Pensamento de Emanuel Kant, 3ª ed, São Paulo, 2000, p. 17. 14 BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 25.

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Durante a existência do Estado Absolutista, o conceito de cidadania foi completamente

sufocado em nome do poder estatal, o qual se colocou acima de tudo, inclusive dos princípios

morais. Quanto aos princípios jurídicos, estes passaram a ser criação única do Estado, que tomou

para si o monopólio da produção jurídica, reduzindo o direito a uma criação estatal, tornando-o

passível das arbitrariedades impostas pelo soberano. Sobre isso BOBBIO explica que “Monarquia

Absoluta é a forma de Estado que não se reconhece mais outro ordenamento jurídico que não seja

o estatal, e outra fonte jurídica que não seja a lei”15. É assim a forma que o Estado tratava de

regular a sociedade, fazendo com que se perdesse a concepção de cidadania, tão importante nas

sociedades contemporâneas.

A nobreza foi fortalecida, e se investiu em métodos capazes de alongar as fronteiras

estatais. Um desses meios foi a navegação, que levou a um expansionismo marítimo estrondoso,

ocasionando o alastramento das práticas comerciais pelo mundo. Paralelo a isso, o Estado

começa a se desenvolver economicamente, e as práticas capitalistas vão aos poucos tomando

corpo, varrendo as últimas amarras feudais ainda vigentes. Logo, o capitalismo invade o arsenal

produtivo do Estado, instalando-se definitivamente16.

O Estado Moderno consegue firmar-se como um Estado soberano e centralizado. Porém,

diversas mudanças sociais ocorrem na época, em especial a partir da Revolução Francesa, em

1789. A principal delas é o crescimento de uma classe até então desprezada, a burguesia. Esta,

até então à margem do sistema, apossou-se dos meios de produção e, pela mão da economia,

buscou alcançar o poder questionando a ordem Absolutista vigente.

Com isso, a burguesia passa a ter um papel essencial no novo contexto social emergente,

acabando por refutar a ordem Absolutista, dando uma nova feição ao Estado Moderno, tornando-

o um Estado Moderno Liberal. Isto foi possível mediante as Revoluções Burguesas ocorridas na

Inglaterra e na França, que propulsionaram a ascensão da burguesia ao poder17.

15 BOBBIO, op. cit., p. 19. 16 BEDIN, op. cit., p. 129. 17 MELLO, op. cit., p. 335.

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As revoluções burguesas são fatos marcantes para a história da evolução dos Estados e da

cidadania. Elas abriram o caminho para o capitalismo e, da mesma forma, romperam todos os

resquícios ainda existentes do feudalismo. Abriram as portas para o Modelo Liberal de Estado,

onde pela primeira vez o povo, até então sufocado, passa a ter ouvido o seu clamor. O Estado

continua com seu poder centralizado e soberano, mas passa a ser limitado por uma constituição e

por uma declaração de direitos18.

Como decorrência destas revoluções e transformações sofridas pelo Estado, começou a se

restabelecer a cidadania política abolida, reconhecendo o indivíduo como titular de direitos

próprios, e não derivados do grupo social19. Assim foi a visão que reconheceu que o cidadão de

qualquer lugar do mundo, em qualquer época, tem os mesmos direitos basilares, mesmo que não

reconhecidos pelo Estado, dando ensejo à Declaração Universal dos Direitos do Homem e do

Cidadão.

A partir deste momento, a nova cidadania passa a comportar duas dimensões, sendo uma

universal e outra nacional. Universal e pautada nos direitos humanos, uma vez que todo homem é

protegido em seus direitos naturais, independente de sua nacionalidade, conforme consagrado na

declaração; e nacional e pautada nos direitos fundamentais positivados nas cartas constitucionais

dos países, reconhecidos dentro de seu espaço vital20.

Entretanto, contrastando com o moderado avanço alcançado pela cidadania no campo

político, encontravam-se enormes discrepâncias no que tange ao campo social. Os trabalhadores

das indústrias, reformuladas pela Revolução Industrial, eram explorados de forma subumana. O

trabalho infantil era algo muito corriqueiro nas citadas indústrias. Nesse contexto, a classe

trabalhadora uniu-se, tornando-se força política, o que faz emergir os designados movimentos

socialistas. Mais uma vez, novos desafios são lançados ao Estado Moderno, que procura

novamente adaptar-se frente às novas questões21.

18 BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 142. 19 COMPARATO, op. cit., p. 25. 20 COMPARATO, op. cit., p. 25. 21 BERUTTI-FARIA-MARQUES, op. cit., p. 152.

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O Estado torna-se intervencionista e ganha características sociais, passando a ser

denominado “Welfare State” ou Estado de Bem-Estar Social, no qual passam a ser reconhecidos

novos direitos sociais e econômicos à sociedade22.

A idéia tônica da nova cidadania consiste em fazer com que o povo tome parte do processo

de seu desenvolvimento e promoção social, através da participação. O próprio conceito de

cidadania, que vem se modificando através dos tempos, induz à necessidade da participação, o

que faz florescer bases democráticas no até então rígido terreno estatal. FÁBIO KONDER

COMPARATO, explica essa situação da seguinte forma:

A relevância da atuação administrativa do Estado Social é um fato sobejamente conhecido. Convém, no

entanto, advertir para a falsa dicotomia que se procura hoje inculcar, no tocante à distribuição eqüitativa do bem-

estar social, entre o estatismo e o privatismo. O princípio da participação popular permite evitar esses extremos,

introduzindo uma linha de ação mais democrática na administração da coisa pública23.

Porém, o modelo social obteve determinados desvios em sua real função, tornando-se

incapaz de acompanhar as intensas mudanças sociais e as transformações político-econômicas

por que passava o mundo. Tais mudanças desestruturaram o Estado de Bem-Estar Social, que por

volta dos anos 70 entra em crise, proporcionando o advento do chamado Neoliberalismo. O

surgimento desta ideologia acaba por desequilibrar a economia, aumentando o custo social para a

sociedade, uma vez que o Estado passa a privatizar e aumentar impostos, visando uma solução

para a crise a partir do seu minimalismo24.

Em novembro de 1989, ocorre uma reunião em Washington, capital dos Estados Unidos

entre funcionários do governo norte-americano e dos organismos financeiros internacionais ali

sediados, como o Fundo Monetário Internacional e o Banco Mundial. Às conclusões dessa

reunião deu-se a denominação informal de “Consenso de Washington”, na qual se ratificou “a

proposta neoliberal que o governo norte-americano vinha insistentemente recomendando, por

22 WOLKMER, Pluralismo Jurídico, 3ª ed, São Paulo, 2001, p. 49. 23 COMPARATO, op. cit., p. 30. 24 WOLKMER, op. cit., p. 58.

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meio das referidas entidades, como condição para conceder cooperação financeira externa,

bilateral ou multilateral”25.

As propostas do Consenso de Washington nas 10 áreas a que se dedicou convergem para dois objetivos

básicos: por um lado, a drástica redução do Estado e a corrosão do conceito de Nação; por outro lado, o máximo de

abertura à importação de bens e serviços e à entrada de capitais de risco. Tudo em nome de um grande princípio: o da

soberania absoluta do mercado auto-regulável nas relações econômicas tanto internas quanto externas26.

Segundo CHOSSUDOVSCKY, inaugura-se uma “nova divisão de autoridade”, agora nas mãos

de instituições que agem em caráter supranacional, operando dentro do sistema capitalista global

como órgãos reguladores da política econômica dos países em desenvolvimento. Assim, o

próprio sistema democrático desses países é colocado a prova, já que “os eleitos para altos cargos

públicos atuam cada vez mais como burocratas e os credores do Estado tornaram-se depositários

do poder político real, agindo discretamente nos bastidores”27.

O mesmo cardápio de austeridade orçamentária, desvalorização, liberalização do comércio e privatização é

aplicado simultaneamente em mais de cem países devedores. Estes perdem a soberania econômica e o controle sobre

a política monetária e fiscal; seu Banco Central e Ministério da Fazenda são reorganizados (freqüentemente com a

cumplicidade das burocracias locais); suas instituições são anuladas e é instalada uma ‘tutela econômica’. Um

‘governo paralelo’ que passa por cima da sociedade civil é estabelecido pelas instituições financeiras internacionais

(IFIs). Os países que não aceitam as ‘metas de desempenho’ do FMI são colocados na lista negra. (...)A

reestruturação da economia mundial sob a orientação das instituições financeiras sediadas em Washington nega cada

vez mais aos países em desenvolvimento a possibilidade de construir uma economia nacional: a internacionalização

da política macroeconômica transforma países em territórios econômicos abertos e economias nacionais em

‘reservas’ de mão-de-obra barata e de recursos naturais28.

O Estado Neoliberal nada mais é do que um resgate da visão Liberal do Estado Moderno, e

atua sob o lema “menos Estado, mais mercado”29. Veja-se que este fator passa a ser agravado em

épocas de crise financeira por que passa o modelo europeu de bem estar social. Os Estados se

25 BATISTA JÚNIOR, O Consenso de Washington: A Visão Neoliberal dos Problemas Latino-Americanos, 2. ed., São

Paulo, 1994, p. 5. 26 Idem, p. 26-27. 27 CHOSSUDOVSKY, A Globalização da Pobreza: Impactos das Reformas do FMI e do Banco Mundial, Tradução por

MARYLENE PINTO MICHAEL, 1. ed., São Paulo, [s.d.], p. 20. 28 CHOSSUDOVSKY, A Globalização da Pobreza: Impactos das Reformas do FMI e do Banco Mundial, Tradução por

MARYLENE PINTO MICHAEL, 1. ed. São Paulo, [s.d.], p. 28 e 30. 29 BEDIN, op. cit., p. 129.

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vêem obrigados a fazer drásticos cortes nos gastos sociais e com a máquina pública, com vistas a

reequilibrar seu sistema financeiro e refinanciar suas dívidas.

Nesse contexto, deduz-se facilmente porque as propostas neoliberais – além de defenderem

a omissão do Estado, a liberdade absoluta do mercado e a abertura da economia nacional ao

capital pela privatização de empresas e serviços públicos – também defendem a

desregulamentação e flexibilização das normas que tratam dos direitos sociais, para, com essa

prática, debilitar e até extinguir direitos conquistados tão duramente durante séculos de evolução

histórica. Dessa forma, criam um ambiente de concorrência, para o qual não faz sentido nem

manter mecanismos institucionais redutores da desigualdade social, nem assegurar os direitos

sociais.

Contemporaneamente não é possível analisar a situação estatal e a da cidadania fora da

ordem globalizada, que produz grandes efeitos sobre a soberania estatal e sobre a população em

si, que, indubitavelmente, é a maior prejudicada nesse modelo de Estado desvencilhado de suas

funções básicas. As políticas nacionais passam a estar à margem dos movimentos internacionais

de capital, e a necessidade de reequilíbrio financeiro leva países que por décadas atuaram com

grandes déficits orçamentários a conter seus gastos e cortar despesas, em especial nas políticas

públicas sociais.

A expressão cidadania, atualmente, está inserida em todo o mundo, com sentidos e

intenções diferentes. Possui um caráter de “estratégia política”30, pelo fato de expressar e

responder a um conjunto de desejos, interesses, aspirações, de uma imensa parte da sociedade,

porém não se confundindo com toda a sociedade. Sem dúvida, essa noção de cidadania deriva

dos movimentos sociais enquanto engendradores de uma nova forma de inserção de espaços além

das fronteiras nacionais, para a ascensão dos cidadãos aos meios de participação previstos, e com

isso buscar intervir nos rumos das decisões políticas que digam respeito aqueles diretamente

atingidos por elas, independente das fronteiras especiais e temporais.

30 DAGNINO (org.), Anos 90: Política e Sociedade no Brasil, São Paulo, 1994, p. 103.

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3. O modelo europeu e a questão da cidadania: haverá um espaço público

europeu?

Um dos objetivos da União Europeia encontra-se no artigo B do Tratado da União

Europeia, e é o do “reforço da defesa dos direitos e dos interesses nacionais dos seus Estados-

membros, mediante a instituição de uma cidadania da União; (...)”. Logo, denota-se a

preocupação fundamental em concretizar um nível de cidadania capaz de abraçar toda a União

Europeia, indo além das fronteiras dos estados-membros que a compõe.

Na noção de cidadania europeia encontra-se o direito a livre circulação e permanência no

território dos Estados-membros de qualquer cidadão (artigo 8. A, n. 1); bem como abarca também

um conjunto de direitos políticos, como por exemplo o direito eleitoral ativo e passivo nas

eleições municipais (artigo 8. B, n. 1); nas eleições para o Parlamento Europeu no Estado-

membro de sua residência (artigo 8, B, n. 2); direito de petição ao Parlamento Europeu (artigo 8.

D) e direito de queixa ao Provedor de Justiça (artigo 8, D, 2. parágrafo).

Entretanto, sabe-se que o espaço público europeu não traz nenhum debate público nas

instituições europeias. Não há um espaço público real na Europa, em que a cidadania participe,

decidindo. Não há um reconhecimento do pluralismo do conflito e nem uma articulação deste

conflito mediante mediações políticas. O que há é uma defesa de interesses nacionais nos órgãos

supranacionais.

A teoria de INGOLF PERNICE do constitucionalismo multinível parte da idéia de

transferência de legitimidade democrática dos cidadãos de cada Estado Membro para a União

Europeia e suas instituições31. Porém, as decisões nos órgãos comunitários estão umbilicalmente

ligadas às estruturas estatais, sendo muito difícil esta transferência de legitimidade. Trata-se de

uma perda de qualidade democrática, em verdade.

31 PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making revisited?, in,

Common Market Law Review, 1999, n. 36. Disponível em: http:www.whi-berlin.de/documents/whi-paper0499.pdf.

Acesso em 04 nov. 2010, p. 707.

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Os setores eurocéticos afirmam que ainda não está presente uma identidade, um povo

europeu. Falta, portanto, o sujeito do processo constituinte, o coletivo singular de um povo, capaz

de se definir a si próprio como uma nação democrática. E nessa senda o conceito de povo

também é bastante problemático. Autores entendem que é este conceito de povo que une os

países, e como não há um povo europeu, não é possível uma constituição europeia32. Porém,

povo não é um conceito coerente para a idéia de sociedade multicultural e pluralista, como a

europeia. A categoria povo dá a idéia de uniformidade, engloba e faz homogêneo um conjunto de

pessoas. Porém, na União Europeia não há uniformidade, singularidade, mas sim uma sociedade

pluralista e multicultural com uma identidade de interesses33.

Nas palavras de DIETER GRIMM34, a língua também é um elemento importante para se

construir um modelo político comum, não havendo essa característica na Europa. Logo, para o

autor, ainda não há um povo europeu nem estruturas identitárias comuns, como um espaço

público promotor de uma identidade coletiva. Logo, seria muito difícil criar um espaço

democrático comum, em que necessidades e interesses sociais pudessem ser debatidos por

amplos setores da sociedade. E os setores eurocéticos confirmam este pensamento, de que a falta

de uma língua comum dificultaria um debate público europeu. Da mesma forma, afirmam não

haver meios de comunicação nem partidos políticos europeus, componentes necessários para a

criação de um espaço público europeu35. Tudo isso complicaria a construção de uma comunidade

supranacional.

32 GRIMM, Constituição e Política, Tradução de GERALDO DE CARVALHO, Belo Horizonte, 2006. 33 HABERMAS, Por qué Europa necesita uma Constitución, in, Revista Bimestral de Pensamiento Social, La

Factoría, 2005, n. 25-26, p. 1-11. Disponível em:

http://www.revistalafactoria.eu/imprimir.php?tipo=articulo&id=274. Acesso em 05 nov. 2010, p. 6. 34 GRIMM, Constituição e Política, Tradução de GERALDO DE CARVALHO, Belo Horizonte, 2006. 35 A criação de um espaço público europeu passa necessariamente pela revisão das agendas dos meios de

comunicação de massa. O interesse dos cidadãos europeus nas questões que digam respeito a União Europeia é algo

que precisa ainda ser despertado. Nesse sentido são as conclusões do CES – Conselho Econômico e Social de

Portugal, conforme artigo 92 da Constituição Portuguesa. Veja-se: “O aparente desinteresse e a conseqüente

participação limitada dos cidadãos europeus no processo de construção europeia, podem estar também relacionados

com o facto de as problemáticas comunitárias estarem muitas vezes em plano secundário nas agendas dos meios de

comunicação de massa, que deverão ser sensibilizados para a necessidade e a importância de ajudarem ao

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Entretanto, para HABERMAS, a ideia de constituição europeia não exige necessariamente

uma língua oficial36. Por exemplo, na Suíça há quatro línguas oficiais, e isso não impede que haja

uma comunidade constitucional. Na Espanha a diversidade de línguas também não impede uma

constituição comum, com autonomia política para as regiões-autonômas.

Dessa forma, o autor defende os seguintes pré requisitos funcionais de um projeto de União

Europeia, constituída democraticamente: a) a necessidade de um espaço público conjunto,

construído a partir de elementos de identidade capazes de construir uma identidade comum, “una

red que dé a los ciudadanos de todos los Estados miembros la misma oportunidad de tomar parte

en un amplio proceso de comunicación política concreta”; b) a emergência de uma sociedade

civil europeia e, por fim; c) a formação de uma cultura política que possa ser compartilhada por

todos os cidadãos europeus. Tais elementos seriam diferentes daqueles da modernidade,

tradicionais, como a língua e o povo37.

Concorda-se com o argumento habermasiano. O conceito de cidadania precisa ser

atualizado, fugir daquela visão tradicional da modernidade. Fundar uma cidadania de caráter

multilateral, a qual, na opinião de BALDOMERO OLIVER LEÓN38, geraria uma relação direta dos

cidadãos com a União Europeia e com as instituições comunitárias. Uma cidadania a ser

reconhecida pelos ordenamentos jurídicos dos Estados Membros. Afinal, o cidadão deve ser o

sujeito e fim mesmo da existência da União.

A cidadania europeia é reconhecida hoje por algumas iniciativas como, por exemplo, o

princípio geral de não discriminação por razão de nacionalidade, o qual assegura, mesmo que em

âmbito muito limitado, a participação política nas eleições ao Parlamento Europeu39. Também

nos mecanismos de âmbito local para possibilitar a votação dos residentes nas eleições

autárquicas ou municipais, decorrência do estabelecido no artigo 8, B, n. 1 do Tratado da União

esclarecimento das opiniões públicas. SERRA (Relator), O Futuro da Europa (estudo), Série “Estudos e

Documentos”, Lisboa, 2005, p. 23. 36 HABERMAS, op. cit., p. 5-8. 37 HABERMAS, op. cit.. 38 LEÓN, El Derecho de Sufragio como Elemento Estructural de la Ciudadania Europea, in, Revista de Derecho

Constitucional Europeo, n. 4, 2005, p. 197-218. Disponível em: http://www.ugr.es/~redce/. Acesso em 05 nov. 2010.

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Europeia, o qual aponta para a capacidade eleitoral ativa nas eleições municipais (fenômeno que

já era concedido em alguns países europeus, como em Portugal)40. E, por sua vez, o direito de

votar e de ser eleito para representante do Parlamento Europeu do seu país de residência41. Mas

em eleições nacionais esse problema se agrava, eis que só os nacionais têm direito a voto, mesmo

residindo no estrangeiro. Porém, apenas estes mecanismos de democracia representativa são

poucos para constituir uma sociedade essencialmente democrática. É preciso avançar para uma

maior participação dos cidadãos nos processos políticos europeus.

A proposta é a ampliação do conceito de cidadania, para todos os que vivem na Europa,

independente de sua nacionalidade, possam participar das decisões comunitárias, sem suplantar a

cidadania de cada Europeu em seu país. É preciso manter a ideia de identidade nacional e, ao

mesmo tempo, fazer surgir a ideia de cidadania europeia, a partir dos estatutos jurídicos42.

A formação dos Estados modernos do século XIX permitiu a construção de identidades

nacionais, não tanto a partir da vontade dos indivíduos, mas de uma ação do poder político

dirigida a esse sentido, voltada à formação de uma Nação. Porém, na União Europeia, a

construção de uma identidade comum não pode ser dada da mesma forma, pois não pode

39 LEÓN, op. cit., p. 197-218. 40 A aplicação deste artigo não tem sido muito pacífica nos países europeus. Conforme MARCELO REBELO DE SOUSA,

como por exemplo o caso dos cidadãos portugueses residentes em Luxemburgo, os quais não puderam exercer o

direito de participação nas eleições locais e mesmo nas eleições para o Parlamento Europeu. SOUSA, A Cidadania

Europeia – Nível de Concretização dos Direitos, Possibilidade de Alargamento e suas Implicações, in PEREIRA et al,

Em Torno da Revisão do Tratado da União Europeia, Coimbra, 1997, p. 123. 41 SÓNIA GODINHO ressalta que o Parlamento Europeu, órgão com funções legislativas, orçamentais, consultivas e de

controle político, “é o único que goza de legitimidade democrática directa, na medida em que é eleito por sufrágio

universal e directo dos cidadãos europeus. A representação dos cidadãos é feita com base num princípio de

proporcionalidade degressiva com um limite mínimo de 6 deputados e um limite máximo de 96 por cada Estado,

sendo que a composição máxima do PE será de 750 deputados.” Para a autora, “o reforço dos seus poderes,

resultante da sua equiparação ao Conselho como órgão legislativo e orçamental (art. I-20, n. 1) e principalmente do

estabelecimento do procedimento de co-decisão (processo legislativo ordinário nos termos adoptados no art. I-34, n.

1) como regra na aprovação dos actos legislativos europeus constitui um avanço indiscutível de democracia no seio

da União.” Porém, a mesma autora alerta que, apesar disso, ainda subsistem decisões legislativas europeias que

prescindem do acordo do Parlamento Europeu, ou que tem sua participação meramente consultiva. GODINHO,

Federalismo e Constituição Europeia: será a Constituição Europeia uma Constituição Federal?, in MARTINS

(Coord.), Constitucionalismo Europeu em Crise? Estudos sobre a Constituição Europeia, Lisboa, 2006. p. 54-55. 42 BALAGUER CALLEJÓN, Los Tribunales Constitucionales en el Processo de Integración Europea, in, Revista de

Derecho Constitucional Europeo, 2007, n. 7. Disponível em: http://www.ugr.es/~redce/. Acesso em 05 nov. 2010.

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suplantar as identidades nacionais, substituindo-as. A construção de uma identidade europeia

deve ser dada a partir da ideia de cidadania e de pertencimento, de um estatuto jurídico comum43.

A partir das conclusões de HABERMAS, entende-se que é preciso avançar, no sentido de

criação de um espaço público europeu, uma cidadania europeia, uma unidade entre os cidadãos

integrantes deste grande bloco. Nas palavras do autor “la opacidad en los procesos de toma de

decisión a escala europea y la ausencia de posibilidad de participación em ellos produce

desconfianza entre los ciudadanos44. É preciso constituir-se um vínculo de solidariedade entre as

pessoas, uma identidade comum capaz de ser projetada em suas instituições, a fim de que se

desenvolva um sentido de pertencimento e participação política pelos cidadãos ao nível de

instituições européias e não, apenas, nacionais.

De nada adianta falar de uma constituição europeia quando não se constrói conjuntamente

um sistema democrático, um espaço em que haja um debate público sobre problemas comuns, em

que sejam mediados os conflitos. A constituição não é fruto apenas de uma vontade política, nem

pode, em Estados Democráticos de Direito, ser imposta. São necessárias condições políticas,

culturais, jurídicas e sociais para que se permita falar de um direito constitucional comum. Talvez

ainda não seja a hora de haver uma constituição europeia, eis que tais condições ainda não

existem, bem como inexiste um espaço público de discussão e interrrelação pessoal entre os

cidadãos europeus e seus representantes. Porém, é preciso caminhar para a criação de um espaço

público de decisões fundamentais na Europa, combatendo a fragmentação da cidadania europeia

nos espaços públicos estatais45.

O problema da Europa hoje são as competências que deve assumir para tomar as decisões

fundamentais capazes de fazer frente à globalização. E para isso precisa adotar mecanismos ágeis

e rápidos de decisão, com a transferência maior de competências para as instituições europeias, a

qual necessariamente deve vir unida a uma maior democratização dessas instituições, eis que o

43 BALAGUER CALLEJÓN, La Constitución Europea trás El Consejo Europeo de Bruxelas y El Tratado de Lisboa, in,

Revista de Derecho Constitucional Europeo, 2007, n. 8, p. 11-41. Disponível em: http://www.ugr.es/~redce/. Acesso

em 05 nov. 2010, p. 33-35. 44 HABERMAS, op. cit., p. 6.

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déficit democrático da Europa é algo bastante presente. É uma questão não só de funcionalidade e

operacionalidade como também de democracia.

4. Considerações finais

Frente a todas as considerações, fica clara a existência de um déficit democrático na União

Europeia, provocado pelo descaso à cidadania, visto que as instituições comunitárias, por tentar

subsistir a uma ordem globalmente imposta, deixam à deriva o cidadão, seus anseios e

perspectivas, tornando-o uma engrenagem a mais da máquina comunitária, sendo que ele é a peça

principal desta engrenagem, ou seja, o formador da sociedade.

Há uma situação crescente de declínio da governabilidade tanto das democracias avançadas

quanto das democracias em desenvolvimento, ocasionada pela crise fiscal e pelo processo de

globalização, que desterritorializa e potencializa que novas instituições de poder, grande parte

delas alheias aos estados nacionais, passem a desestruturar toda a teia institucional constituída na

modernidade. A perda da governabilidade e do apoio da sociedade civil por um governo é um

problema grave, senão fatal, já que a governabilidade é confundida com a legitimidade do poder,

ou seja, com o apoio dos governantes perante a sociedade civil.

Sabe-se que tradicionalmente, nos regimes democráticos, a governabilidade é obtida a partir

dos seguintes fatores: a) da capacidade de suas instituições jurídico-políticas intermediar os

interesses estatais e os interesses da sociedade civil; b) do oferecimento de medidas de

responsabilização e accountability por parte dos políticos e dos burocratas em favor da sociedade;

c) de uma limitação das demandas sociais e do seu atendimento pelo governo; d) da existência de

um contrato social básico, nos moldes hobbesianos, capaz de garantir às sociedades atuais

padrões básicos de legitimidade e governação46.

Agora, é preciso avançar para uma maior governabilidade na União Europeia,

aprofundando e incrementando instituições jurídico-políticas capazes de intermediar os interesses

45 BALAGUER CALLEJÓN, La Constitución, cit., p. 20.

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sempre conflitantes internos de cada país, de seus diversos grupos sociais, regiões e etnias, como

também os interesses heterogêneos das nações. Aumentar o espaço de participação dos cidadãos

europeus na gestão e no controle dos órgãos e instituições supranacionais. Ou seja, é preciso

manter o modelo europeu de democracia, de accountability e de respeito aos direitos

fundamentais, adequando-o agora para o âmbito supranacional.

Há uma transformação, em que não se pode mais aplicar no processo de integração europeia

modelos antigos. É preciso criar novas categorias, porque se está frente de uma nova realidade. E

é necessário compreendê-la para, a partir daí elaborar estas novas categorias.

Alguns afirmam que a, a partir da crise fiscal deste início de século, a Europa está em parte

estagnada, e precisa encontrar formas criativas de avançar. Para PETER SLOTERDIK, está em voga

a forma de transição neste novo milênio da modernidade, capaz de se chegar a “uma nova criação

de forma política, para lá do Império – acima do Império – acima dos Estados-nação -, e então

uma coisa se torna clara: a política do futuro depende em larga medida de uma modernização da

função visionária ou profética da inteligência”47.

Para fazer frente às novas demandas, é preciso aumentar o poder político, o âmbito de

competência da União Europeia, bem como encontrar novas formas de participação cidadã e

accountability de seus representantes, com vistas a superar o déficit democrático dos órgãos

comunitários. Esta é a única saída para os Estados europeus manterem seu sistema de vida e sua

cultura constitucional e política, com a garantia dos direitos fundamentais, em especial dos

direitos sociais.

Nesse contexto há de interpretar-se a cidadania europeia paralela à cidadania dos Estados-

membros e desta dependente, pois os direitos que a integram serão reconhecidos

automaticamente a quem for nacional de um Estado-membro. Nas palavras de MARCELO REBELO

DE SOUSA, “o acolhimento dos direitos políticos dos cidadãos europeus, bem como do próprio

46 PEREIRA, A reforma do estado nos anos 90: lógica e mecanismos de controle, Brasília, 1997, p. 45-46. 47 SLOTERDIK, Se a Europa Acordar. Reflexões sobre o programa duma potência mundial no termo de sua ausência

política, Trad. de MANUEL RESENDE, Lisboa, 2008, p. 51.

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conceito de cidadania europeia, representa um passo na evolução do Direito Comunitário e de

todo o processo de integração europeia”48.

Logo, a democratização da União Europeia reclama instituições políticas capazes de

representar e/ou intermediar interesses entre instituições europeias e sociedade civil, canais de

ligação entre a representação e a cidadania, a fim de proporcionar uma relação dialógica entre os

atores envolvidos e decisões mais afinadas com o interesse público.

Sabe-se que o desafio de consolidação da democracia e o seu aprendizado é um caminho

árduo e tortuoso, a ser conquistado dia após dia. No dizer de CLAUDE LEFORD, seguido por

MARILENA CHAUÍ, democracia é uma constante invenção, a ser inventada no cotidiano, criando-

se novos direitos e reafirmando-se os já estabelecidos, reinstituindo-se o social e o político. Tem

um caráter aberto e subversivo, questionando suas instituições e se recriando a todo o momento49.

Devido a tais fatores, novas alternativas devem ser buscadas para reformular o atual quadro

social. A cidadania deve sofrer uma renovação em sua configuração clássica, atrelada ao Estado

Nacional. Deverá estar assentada em critérios democráticos de participação política que não a

confine apenas na representação e no ato de votar, tanto nas instituições nacionais como

comunitárias. Implica, portanto, em uma articulação entre democracia participativa e

representativa, sendo que para esta ser possível, é necessário que o cenário político comunitário e

nacional seja redefinido e ampliado.

Uma das razões fundamentais da sedução que a noção de uma nova cidadania europeia

exerce hoje em dia é a possibilidade de que ela traga respostas aos desafios deixados pelo

fracasso tanto de concepções teóricas, como de estratégias políticas que não foram capazes de

articular essa multiplicidade de dimensões que, nas sociedades contemporâneas, integram hoje a

busca de uma vida melhor. Dessa capacidade de articular os múltiplos campos onde se trava hoje

48 SOUSA, op. cit., p. 128. 49 LEFORT, A invenção democrática: os limites do totalitarismo, São Paulo, 1983; CHAUÍ, Cultura e democracia, 7.

ed., São Paulo, 1997, p. 209.

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a luta pela construção da democracia e pelo seu aprofundamento, depende o futuro da nova

cidadania europeia enquanto estratégia política, social e econômica.

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TRENT’ANNI DI REPUBBLICA TURCA DI CIPRO

DEL NORD* (Almeno sono cessate le violenze)

Augusto Sinagra

Professore Ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università “Sapienza” di Roma

ABSTRACT: Il 15 novembre prossimo si compirà il 30° anniversario della proclamazione della Repubblica Turca

di Cipro del Nord, nella pienezza e indipendenza delle sue funzioni giuridiche e politiche; proclamazione di

indipendenza unanimemente votata il 15 novembre 1983 dal Parlamento turco-cipriota, espressione della libera

volontà popolare della Comunità turca di Cipro.

Si tratta di una circostanza che dovrebbe indurre a riflettere essenzialmente e preliminarmente su due punti: il

primo è che l’esistenza dello Stato turco-cipriota non può essere negata perché diversamente significherebbe

negare la realtà (per finalità politiche di illecita sopraffazione) e che da ciò deriva come diretto corollario che

rispetto alla “questione cipriota” non c’è da ricercare ancora una soluzione. La soluzione è stata adottata il 15

novembre 1983, e dopo ormai trent’anni tale soluzione si è consolidata e non può essere messa in discussione.

Al più potrà porsi il problema di ricercare una diversa soluzione per la cosiddetta “questione cipriota”, quale

potrebbe essere quella di uno Stato federale fortemente decentrato e con competenze centrali relative alle sole

politiche coessenziali alla statualità (monetaria, estera, di difesa)

PAROLE CHIAVE: Cipro turca; questione cipriota; riconoscimento internazionale; secessione; Repubblica Turca

di Cipro del Nord; Trattato di garanzia del 1960

Il 15 novembre prossimo si compirà il 30° anniversario della proclamazione della

Repubblica Turca di Cipro del Nord, nella pienezza e indipendenza delle sue funzioni

giuridiche e politiche; proclamazione di indipendenza unanimemente votata il 15 novembre

1983 dal Parlamento turco-cipriota, espressione della libera volontà popolare della Comunità

turca di Cipro.

Si tratta di una circostanza (che è un fatto, non una opinione) che dovrebbe indurre a

riflettere essenzialmente e preliminarmente su due punti: il primo è che l’esistenza dello Stato

turco-cipriota non può essere negata perché diversamente significherebbe negare la realtà (per

finalità politiche di illecita sopraffazione) e che da ciò deriva come diretto corollario che

rispetto alla “questione cipriota” non c’é da ricercare ancora una soluzione. La soluzione è

stata adottata, come detto, il 15 novembre 1983, e dopo ormai trent’anni tale soluzione si è

consolidata e non può essere messa in discussione. Al più potrà porsi il problema di ricercare

una diversa soluzione per la cosiddetta “questione cipriota”, quale potrebbe essere quella di

* Studio apparso in rete il 2 gennaio 2013 sulla Rivista “Eurasia”.

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uno Stato federale fortemente decentrato e con competenze centrali relative alle sole politiche

coessenziali alla statualità (monetaria, estera, di difesa).

Tale soluzione fu proposta con il famoso piano Annan che presupponendo

correttamente l’esistenza di una piena e legittima statualità turco-cipriota nell’Isola,

sottoposto a referendum fu approvato a larghissima maggioranza dalla Comunità turco-

cipriota, ma respinto con pari larghissima maggioranza dalla Comunità greco-cipriota.

La verità, che pur si tace, è che i greco-ciprioti pretendono di trattare -se pur con

larghezza (ma c’é poi da fidarsi dei greci?)- la Comunità turco-cipriota dell’Isola come

minoranza. Al contrario la Comunità turco-cipriota deve essere intesa come componente

politicamente, storicamente e giuridicamente pari (anche se non numericamente) alla

Comunità greco-cipriota; in altri termini, come Comunità co-fondatrice della Repubblica di

Cipro creata con l’Accordo tri-partito anglo-greco-turco di Zurigo del 1960 che, ponendo fine

al dominio coloniale inglese (rimangono tuttavia sull’Isola ancora oggi due munite basi

militari britanniche), riconosceva alla Comunità turco-cipriota dell’Isola parità politica,

storica e giuridica rispetto alla Comunità greco-cipriota, creando la Repubblica unitaria di

Cipro su base bi-comunitaria e bi-zonale.

L’altro aspetto sul quale occorre riflettere nell’occasione del trentesimo anniversario

della creazione della Repubblica Turca di Cipro del Nord, è che, appunto, da trent’anni

sull’Isola sono cessate le violenze e i massacri greco-ciprioti in danno dei turco-ciprioti. E

questo non pare un risultato da poco, il cui merito va ascritto al pur tardivo (se fosse avvenuto

prima, si sarebbero risparmiate molte altre vite umane) intervento militare turco del 20 luglio

e 8 agosto 1974, deciso per la deliberata inerzia delle Autorità britanniche inutilmente

sollecitate dal Governo di Ankara, che pure avevano il dovere di intervenire a difesa

dell’ordine costituzionale di Cipro e dell’integrità fisica delle persone come previsto dall’art.

14 del Trattato di garanzia del 1960 che in tal senso facoltizzava le tre Potenze garanti: non

intervenne il Governo di Atene la cui allora Giunta militare aveva proprio essa scatenato il

colpo di Stato del 5 luglio 1974 ponendo a Capo dello Stato il famigerato Nikos Sampson,

ricercato per pluriomicidi; non intervenne il Governo di Londra per evidente opportunismo

politico; non poteva che intervenire, dunque, il Governo di Ankara. L’intervento di questo fu

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qualificato come legittimo con Risoluzione del 26 luglio 1974 dell’Assemblea parlamentare

del Consiglio d’Europa.

Si è detto che cessarono i massacri scatenati dalle Forze armate greche e greco- cipriote

e dalle forze terroristiche greche dell’EOKA e, poi, EOKA bis. Azioni finalizzate alla

realizzazione della megali idea dell’enosis, cioè l’annessione dell’Isola di Cipro alla Grecia.

Esattamente come i greci fecero a Creta nel 1904 dove la maggioritaria popolazione turca fu

interamente sterminata o costretta per il terrore a fuggire in Turchia e in altri luoghi.

Ora, da parte greca, oltre alla abnorme pretesa di trattare la Comunità turco-cipriota

come minoranza, si pretende anche di porre termine alla Garanzia militare del Governo di

Ankara: ciò senza offrire alcuna credibile garanzia circa il non ripetersi del tentativo di

soluzione cretese a Cipro.

Da parte greca si fa valere l’eccessiva presenza militare turca a Cipro in funzione di

garante dell’integrità e dell’indipendenza dello Stato, oltre che dell’integrità fisica degli

abitanti turchi e turco-ciprioti, ma non si dice che quanto alla sua politica difensiva (che nel

passato è stata ben chiaramente aggressiva) le Autorità greco-cipriote seguono il modello

elvetico e cioè dopo il normale servizio militare le persone vengono congedate

temporaneamente con facoltà di portare con se le armi, con successivi e ripetuti richiami per

addestramento e aggiornamento nell’uso delle nuove armi con la conseguenza che oggi, come

ieri e in qualsiasi momento, le Autorità greco-cipriote possono mettere in campo circa 92 mila

soldati ready combat!

La legittimità dell’esistenza dell’indipendente Repubblica Turca di Cipro del Nord trova

il suo fondamento anche nella pertinente Risoluzione della Organizzazione per la

Cooperazione e la Sicurezza in Europa che afferma la legittimità dell’autodeterminazione dei

popoli e del suo eventuale successivo e conclusivo atto di secessione, sulla base della

verificata situazione che vede una etnia presente sul territorio e nel quadro di uno Stato

unitario non pienamente partecipe della vita politica, democratica ed amministrativa dello

Stato stesso. E tale era la situazione della Comunità turco-cipriota sull’Isola quando fu

proclamata la Repubblica Turca di Cipro del Nord. Con l’aggravante specifica, nel caso di

Cipro, di una preordinata, deliberata e violenta esclusione fin dai primissimi anni ’60 della

Comunità turco-cipriota da ogni partecipazione politica e amministrativa alla vita dello Stato;

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così come specificamente disponeva la Costituzione di Cipro del 1960. Non può, quindi,

dubitarsi del legittimo esercizio dello ius secessionis da parte della Comunità turca di Cipro.

La vicenda del Kosovo è emblematica in tal senso. Quel che è singolare, però, è che

mentre una numerosa pluralità di Stati ha “riconosciuto” il nuovo Stato kosovaro anche a

seguito del molto discutibile parere reso il 22 luglio 2010 dalla Corte Internazionale di

Giustizia, così riconoscendo legittima la secessione del Kosovo dalla Serbia, la Comunità

internazionale, in ciò sollecitata fin all’inizio dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, non

“riconosce” lo Stato turco-cipriota che ha rapporti diplomatici con la Turchia e altri Stati ed

ha relazioni economiche, commerciali e culturali con molti Stati (l’Italia è il suo quarto

partner commerciale), oltre ad essere Stato membro della Conferenza Internazionale Islamica.

Si tratta di due evidenti situazioni dispari e tale disparità è la evidente conseguenza delle

convenienze o delle sconvenienze politiche che finiscono con il prevalere sulla regola

giuridica, sulla logica, sul buon senso e soprattutto su di un parametro pur minimo di giustizia

quanto meno in termini, appunto, di parità di trattamento.

Della irrilevanza di qualsiasi atto di “riconoscimento” che si pretende giuridicamente

necessario a fini “costitutivi” e/o “dichiarativi” dell’esistenza dello Stato, non sembra proprio

il caso di parlarne per non riesumare antiche memorie tardo-medioevali da Respublica

Christiana (oggi forse sostituita proprio dall’ONU in quella sua specifica funzione

prevaricatrice).

Lo Stato turco-cipriota esiste e vive nella sua soggettività giuridica, nella sua sovranità

politica e nella sua indipendenza esterna non già perché “riconosciuto”, ma in quanto Ente

capace di realizzare, attraverso le sue Istituzioni politiche e democratiche, una effettiva ed

esclusiva capacità di governo e di controllo del suo territorio definito da frontiere politiche

certe e militarmente garantite. Si tratta di uno Stato che vive in quanto Ente collettivo politico

capace di “azionare” l’ordinamento giuridico internazionale perché direttamente titolare di

diritti e destinatario di obblighi; in quanto Ente collettivo politico di forma e contenuto

statuale, le norme del suo ordinamento giuridico entrano inevitabilmente in gioco nel sistema

e secondo le regole del diritto internazionale privato per quel che riguarda i rapporti inter-

soggettivi tra persone fisiche e giuridiche.

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Si dice che i greco-ciprioti furono cacciati dai turchi e costretti a trovare rifugio nel sud

dell’Isola, ma non si dice che la divisione dell’Isola in due realtà territoriali ed etniche si era

determinata per effetto dell’Accordo di Vienna del 1975 intervenuto tra il Presidente turco-

cipriota Rauf R. Denktas e l’Arcivescovo (Dio ci perdoni) Makarios, con il patrocinio delle

Nazioni Unite, e relativo alla separazione delle due Comunità con il volontario spostamento

dei greci al sud e dei turchi al nord; e ciò a seguito del ricordato e doveroso intervento militare

turco che oggi verrebbe chiamato certamente “intervento umanitario”. Ma questo per i turchi

... non vale perché nel profondo della sub-cultura largamente diffusa permane ancora

l’immagine del turco con la scimitarra in mano o il ricordo delle scorrerie dei Saraceni (che

turchi non erano), o ancora il ricordo del trattamento riservato a Marcantonio Bragadin.

Anche se da quei fatti di Famagosta sono passati più di cinquecento anni. Specularmente ci si

potrebbe chiedere, come fece Indro Montanelli: quanto ancora dobbiamo sopportare dai Greci

dopo tremila anni per un Socrate o un Platone?!....

E’ questa sub-cultura che tende ad addebitare ogni responsabilità e ogni eccidio ai turchi

tanto da accusarli, in occasione dell’intervento militare del 20 luglio 1974, di “crimini di

guerra e contro l’umanità”. Qui davvero è il “bue che dice cornuto all’asino” con una

affermazione tanto priva di ogni pur minimo riscontro, quanto mai prima osata pronunciare.

Si accusano i turchi anche di uso di esplosivi al napalm contro la popolazione inerme ed altre

nefandezze, ma al di la della menzogna non si ricorda, tra i tanti analoghi casi, il consapevole

sacrificio del Cap. Pilota Ercan (dal quale prende il nome l’Aeroporto internazionale della

Repubblica Turca di Cipro del Nord) il quale, colpito dalla contraerea greca, per evitare che

l’aereo precipitasse su di un centro abitato proprio da greco-ciprioti, continuò a condurre

l’aereo per portarlo in zona disabitata e morendo nello schianto.

L’aspetto paradossale della “questione cipriota” consiste, poi, nel fatto che il Consiglio

di Sicurezza dell’ONU ritiene ancora in vigore la Costituzione del 1960 dell’allora Stato

unitario bi-zonale e bi-comunitario cipriota che all’art. 111 preclude l’adesione di Cipro a

qualsiasi Organizzazione internazionale della quale già non facciano parte i due Stati di

“riferimento”, e cioè la Grecia e la Turchia; con conseguente e radicale illegittimità della

adesione di Cipro all’Unione europea, salvo che, come è ovvio, non si capisca che l’adesione

all’Unione europea ha riguardato e riguarda soltanto la Repubblica greco-cipriota; circostanza

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questa confermata dal fatto che gli obblighi discendenti da tale adesione e la relativa

normativa dell’Unione europea non trovano e non possono trovare alcuna applicazione ed

efficacia nell’ambito territoriale di pertinenza dello Stato turco-cipriota.

Se, poi, si volesse ritenere che la Costituzione del 1960 non è più la Costituzione di

Cipro poiché “superata” dagli eventi politici che hanno caratterizzato la complessiva vicenda,

non si capisce la ragione per la quale debba venire in linea di conto la sola successiva

Costituzione greco-cipriota che in alcun modo può riguardare e vincolare la Comunità turco-

cipriota alla cui elaborazione e votazione essa non ha mai partecipato. Tale Costituzione

riguarda solo la Repubblica greco-cipriota, con la ulteriore ed inevitabile conseguenza di

prendere atto e “riconoscere” anche l’esistenza, la legittimità e l’effettività dello Stato turco-

cipriota. Profili, questi, in alcun modo “travolti” dalla “sentenza” del 21 marzo 2011 della

Corte europea di Strasburgo, resa nel caso “Loizidou” che evocò in giudizio il Governo turco

di Ankara per pretesa violazione del diritto alla tutela dei suoi beni. La Corte di Strasburgo

con questa sua pronuncia palesemente politica ritenne fondata la legittimazione passiva dello

Stato turco e correlativamente intese come inesistente la Repubblica Turca di Cipro del Nord

(ritenuto uno “Stato fantoccio”) per il solo fatto -di per sé inespressivo- della presenza, per

esigenze difensive, di contingenti militari turchi sull’Isola.

Si dice, poi, che a Nicosia/Lefkosa permane l’unico “muro” in Europa dopo la caduta di

quello di Berlino. Chi si lamenta di questo è evidentemente afflitto da sindromi murarie

poiché non distingue tra funzione e funzione che può essere rappresentata da un muro o da

qualsiasi altro strumento di divisione. Non è accettabile un muro come quello di Berlino che

divideva un popolo, una lingua, un comune sentire, una comune tradizione e un comune

territorio. Al contrario, è moralmente, oltre che politicamente, da difendere ogni altro muro,

come quello di Nicosia/Lefkosa, che divide due popoli differenti per lingua, tradizioni, storia,

religione, costumi e aspirazioni, e che garantisce attraverso l’effetto separatorio, che non si

ripetano ulteriori violenze e massacri.

Da ultimo si fa valere anche (a titolo di ulteriore responsabilità dei turchi) che la

Comunità turca di Cipro ha un tenore di vita, di sviluppo e di crescita ben inferiore a quello

della Comunità greca dell’Isola. Anche a tale riguardo si dice solo una parte della verità e si

sottace l’altra e che cioè i responsabili di tale situazione (vera fino ad un certo punto perché il

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tenore di vita e il tasso di sviluppo nella Repubblica Turca di Cipro del Nord é in costante

crescita) sono -e da sempre- le Autorità greche e greco-cipriote che strangolano la Comunità

turca dell’Isola attraverso le peggiori forme di embargo, di sabotaggio economico e di

ostacolo allo svolgimento di liberi commerci.

Basti ricordare due circostanze: una relativa all’inizio della “questione cipriota” quando

le Autorità greche e greco-cipriote impedivano alla Croce Rossa Internazionale di fornire

bende e garze ai turco-ciprioti massacrati in quanto ciò era ritenuto “materiale bellico

strategico”; l’altra (tra le tante) ancora presente e che vede l’impossibilità di collegamenti

aerei e marittimi diretti della Repubblica Turca di Cipro del Nord con molti Stati a causa

dell’embargo e del sabotaggio greco e greco-cipriota. Sabotaggio del quale è complice

consapevole la Comunità internazionale la quale, non riconoscendo i passaporti turco-ciprioti,

pretenderebbe di fare del territorio a nord dell’Isola di Cipro una specie di gigantesco campo

di concentramento a cielo aperto.

A ciò cerca di supplire il Governo di Ankara che munisce della sua bandiera gli

aeromobili e le navi turco-cipriote, come munisce del suo passaporto i cittadini turco-ciprioti.

E anche questo è preso a pretesto per denunciare asserite interferenze turche a Cipro del Nord,

e per affermare falsamente, come ha fatto la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo,

che la Repubblica Turca di Cipro del Nord sia uno “Stato fantoccio” in quanto propaggine del

potere statuale turco di Ankara.

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I LICENZIAMENTI COLLETTIVI DOPO LA

RIFORMA 2012 ALLA LUCE DELLA DIRETTIVA

N.98/59/CE

Andrea Sitzia Ricercatore di Diritto del Lavoro nell’Università di Padova

ABSTRACT: La legge n. 92 del 2012 ha apportato alcune modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi,

consistenti in una serie di cambiamenti alla procedura prescritta dalla legge n. 223 del 1991.

Questa riforma riveste una portata rilevante in termini sia pratici che di sistema. Essa, infatti, da un lato, si

colloca all’interno di un’ importante revisione degli ammortizzatori sociali, con abolizione, seppure non

immediata, dell’indennità di mobilità, dall’altro interviene su due profili, oggetto di massimo interesse da parte

del legislatore comunitario e molto significativi della regolazione: quello della correttezza dello svolgimento

della procedura di informazione e consultazione e quello, strettamente complementare al primo, delle

conseguenze sanzionatorie in caso di vizi della medesima

PAROLE CHIAVE: Lavoro; Licenziamenti collettivi; Riforma 2012; Obblighi di consultazione

1. L’intervento del legislatore nella materia dei licenziamenti collettivi:

profili generali

La legge n. 92 dell’estate 2012, attraverso i commi da 44 a 46 dell’art. 1, ha apportato

alcune modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi, consistenti in una serie di ritocchi

alla procedura prescritta dalla legge n. 223 del 1991.

In particolare, la riforma ha inciso sui seguenti profili:

1) con riferimento alla fase iniziale della procedura di informazione e consultazione si

consente ora espressamente la “sanatoria” di eventuali vizi della comunicazione di apertura

della procedura medesima (art. 1, co. 45, che incide sull’art. 4, co. 12, della legge n. 223 del

1991);

2) con riferimento alla fase finale della procedura viene modificato il termine per

l’effettuazione della comunicazione degli elementi prescritti dall’art. 4, co. 9 della legge n.

223 ai soggetti ivi previsti, assegnando ora un termine (non più contestuale) di 7 giorni dalla

comunicazione dei licenziamenti (art. 1, co. 44, che incide appunto sul co. 9 dell’art. 4 della

legge n. 223);

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3) con riferimento alla disciplina sanzionatoria in caso di licenziamenti collettivi

illegittimi viene riscritto l’art. 5, co. 3, della legge n. 223, raccordandone la regolazione alla

riforma dell’art. 18 St. lav.;

4) si prescrive l’applicazione del doppio termine di impugnazione del licenziamento

previsto dal testo, anch’esso novellato, dell’art. 6 della legge n. 604 del 1996 (art. 1, co. 46).

Nel loro complesso, queste correzioni di disciplina sono state giudicate per lo più1

“modeste”, ma a ben guardare, quale che sia la valutazione di impatto legislativo2, questa

parte della riforma riveste comunque una portata rilevante in termini sia pratici che di sistema.

Infatti, da un lato, si colloca all’interno di una profonda revisione degli ammortizzatori

sociali, con abolizione, seppure non immediata, dell’indennità di mobilità3, dall’altro

* Questo saggio è destinato al volume curato da CESTER, I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, di

prossima pubblicazione. 1Si veda al riguardo, in particolare, la valutazione del disegno di legge data da ICHINO in

http://it.paperblog.com/pietro-ichino-valuta-il-disegno-di-legge-sul-lavoro-1016855/ ove l’A. assegna un

punteggio di 4 su 10 in termini di valutazione circa la coerenza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo

(espressamente posto dal legislatore) del superamento del dualismo tra lavoratori protetti e non protetti nella

direzione della c.d. flexsecurity; diversamente, lo stesso A., ritiene che la modifica potrà avere un “peso pratico”

significativo (in questo caso il voto assegnato è pari ad 8 su 10). Si veda, analogamente, MARAZZA, L’art. 18,

nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, in Arg. dir. lav., 2012, 3, I, pp. 612 ss., qui pp. 634 ss. In senso

radicalmente difforme evidenzia un «gravissimo peggioramento della disciplina» ALLEVA, Punti critici della

riforma del mercato del lavoro, in http://www.paneacqua.info/2012/04/punti-critici-della-riforma-del-mercato-

del-lavoro/. 2 In letteratura esistono alcuni studi che ricercano le implicazioni che i costi del licenziamento possono avere

sulla produttività, sulle dinamiche occupazionali e sulle scelte delle imprese di rimanere o meno all’interno del

mercato; in particolare, la dottrina economica ha analizzato se la presenza o meno dell’art. 18 possa essere causa

di un minore o maggiore sviluppo dimensionale dell’impresa. Per un’analisi in chiave economica relativa all’art.

18 (nel testo antecedente la riforma dell’estate 2012) cfr. SCHIVARDI, TORRINI, Identifying the effects of firing

restrictions through size contingent differencies in regulation, in Labour Economics, 2008, 15, pp. 482 ss.; si

veda altresì KUGLER, PICA, Effects of employment protection on worker and job fows: Evidence from 1990

reform, in Labour Economics, 2008, 15, pp. 78 ss., i quali, nell’esaminare la propensione di crescita, hanno posto

l’accento sulla variazione del comportamento delle imprese dopo la riforma del 1990. I risultati cui giungono gli

studi citati sembrano sottolineare che la propensione di crescita attorno al limite dimensionale diminuisce solo

del 2% e che anche in assenza del limite posto dall’art. 18 St. Lav. la struttura delle imprese italiane non

subirebbe un cambiamento sostanziale. 3 Per un’analisi critica delle ricadute della riforma dell’indennità di mobilità sulle procedure di licenziamento

collettivo cfr. FERRARO, Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella riforma del mercato del lavoro, in

Mass. giur. lav., 2012, pp. 494 ss.; analogamente cfr.. SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di

personale, in FEZZI, SCARPELLI (a cura di), Guida alla riforma Fornero, 2012, in http://www.wikilabour.it, p. 92;

PELLACANI, Le modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi, in PELLACANI (a cura di), Riforma del

lavoro, Milano,, 2012, pp. 267 ss., qui pp. 277s.; più in generale, sulla riforma degli ammortizzatori sociali di cui

alla seconda parte della legge n. 92 del 2012 cfr. VALLEBONA, La Riforma del Lavoro 2012, Torino, 2012 nonché

CINELLI, Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, 2012, in

http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Il-dibattito-sulla-riforma-italiana-del-mercato-del-lavoro-/3206.aspx;

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interviene (per lo meno con riferimento alle modifiche apportate dai commi 45 e 46 dell’art.

1, sopra enumerate come prima e terza) su due profili, oggetto di massima attenzione da parte

del legislatore comunitario, molto significativi della regolazione: quello della correttezza dello

svolgimento della procedura di informazione e consultazione e quello, intimamente

complementare al primo, delle conseguenze sanzionatorie in caso di vizi della medesima.

Ragioni sistematiche inducono a ritenere preferibile anteporre all’analisi della riforma

del diritto nazionale una ricostruzione sintetica (e limitata ai profili rilevanti ai fini

dell’interpretazione delle norme interne oggetto dell’intervento legislativo) del parametro

comunitario di riferimento.

2. Il paradigma comunitario di riferimento: gli obblighi di informazione e

consultazione nella direttiva n. 98/59/CE

La direttiva n. 98/59/CE sui licenziamenti collettivi ha introdotto, come noto, una serie

di vincoli procedimentali all’esercizio dei poteri imprenditoriali4. Tali vincoli sono funzionali

alla predisposizione di un apparato di diritti di informazione e consultazione, a favore dei

SANDULLI, Il sistema pensionistico tra una manovra e l’altra. Prime osservazioni sulla legge n. 214 del 2011, in

Riv. dir. sic. soc., 2012, pp. 1 ss. Per una condivisibile critica all’impianto generale dell’intervento normativo in

materia di licenziamenti collettivi si veda FERRANTE, Modifiche nella disciplina dei licenziamenti collettivi, in

MAGNANI, TIRABOSCHI (a cura di), La nuova riforma del lavoro, in Le nuove leggi civili, Milano,, 2012, pp. 271

ss., il quale lamenta la totale assenza, nella novella, di un serio irrobustimento delle politiche attive di lavoro. 4 Al fondo della direttiva sui licenziamenti collettivi, così come delle direttive sui trasferimenti d’impresa (n.

77/187/CEE, modificata dalla dir. N. 98/50/CE e poi sostituita dalla direttiva n. 2001/23/CE), sui Comitati

Aziendali Europei (n. 94/45/CE, abrogata e sostituita dalla dir. n. 2009/38/CE) e di quella che istituisce un

quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori (n. 2002/14/CE), si pone

l’intendimento del legislatore comunitario di porre le premesse per una presenza sindacale non solo rivendicativa

ma anche propositiva; per un’analisi in questo senso cfr. ZOLI, La tutela delle posizioni strumentali del

lavoratore, Milano, , 1988, p. 78. Più di recente si veda LAULOM, Le cadre communautaire de la représentation

des travailleurs dans l’entreprise, in LAULOM (a cura di), Recomposition des systèmes de représentation des

salariés en Europe, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2005, p. 47; LO FARO, Le Direttive in materia

di crisi e ristrutturazioni di impresa, in SCIARRA, CARUSO (a cura di), Il lavoro subordinato, in Trattato di diritto

privato dell’Unione Europea dir. da AJANI e BENACCHIO, Torino, 2009, pp. 398 ss. Più in generale, in ordine al

tema della procedimentalizzazione dei poteri datoriali, si veda SUPPIEJ, CESTER, Rapporto di lavoro, voce del

Digesto, IV ed., Discipline priv., Sez. Comm., XII, Torino, 1996; con riferimento al licenziamento collettivo cfr.,

tra i tanti, TOPO, I licenziamenti collettivi, in CARINCI, PIZZOFERRATO (a cura di), Diritto del lavoro nell’Unione

europea, in Diritto del lavoro, Commentario dir. da CARINCI, Milano, Utet, 2010, pp. 714 ss.; PILATI, Le sanzioni

nei licenziamenti collettivi, in CARINCI (a cura di), Il lavoro subordinato, in BESSONE (dir. da), Trattato di diritto

privato, Torino, 2007, tomo III (a cura di S. MAINARDI), pp. 485 ss.; DE LUCA TAMAJO, BIANCHI D’URSO,

Licenziamenti individuali e collettivi nella giurisprudenza della Cassazione, Milano, 2006; SANTUCCI, I

licenziamenti collettivi tra questioni interpretative e nuove regole, Milano, Giuffré, 2005; TOPO, I poteri

dell’imprenditore nelle riduzioni di personale, Padova, 1996.

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rappresentanti dei lavoratori in azienda5, la cui attivazione è obbligatoria, per il datore di

lavoro, nell’imminenza di eventi, quali appunto il licenziamento collettivo, che possono

comportare mutamenti definitivi dei rapporti di lavoro.

3. L’oggetto e il fine della procedura di consultazione

L’art. 2 della direttiva 98/59 individua lo scopo e il contenuto minimo della

consultazione che il datore di lavoro deve avviare, «in tempo utile»6, ove preveda di effettuare

licenziamenti collettivi.

Lo scopo della consultazione è quello di «giungere ad un accordo» (art. 2.1) ed il suo

oggetto deve essere quello di esaminare «le possibilità di evitare o ridurre i licenziamenti

collettivi, nonché di attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure sociali di

accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei

lavoratori licenziati» (art. 2.2).

La direttiva introduce un vero e proprio «obbligo a trattare del datore di lavoro che,

partendo dai motivi addotti per “giustificare” i licenziamenti programmati, coinvolge sia la

ricerca di soluzioni, in tutto o in parte, alternative alla espulsione dei lavoratori eccedenti, sia

la predisposizione di misure atte a contenerne gli effetti sul piano sociale così come su quello

5 La cui definizione/identificazione viene demandata, ai sensi dell’art. 1.1, lett. b) della direttiva, alla normativa o

alla prassi in vigore negli Stati membri. La scelta di non intervenire nell’individuazione dei rappresentanti dei

lavoratori è una costante nel diritto dell’Unione Europea ed è funzionale, come evidenzia ampia parte della

dottrina, ad evitare di introdurre determinazioni eteronome in un settore così delicato e sensibile, in cui difetta

una prassi comune fra i diversi Stati membri (si veda, per una ricostruzione comparativa aggiornata a livello

europeo, Eurofound, Industrial Relations and Working Conditions Developments in Europe 2010, Publications

Office of the European Union, Luxembourg, 2011, consultabile alla pagina Web

http://www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2011/50/en/1/EF1150EN.pdf). Per un’efficace sintesi di queste

problematiche cfr. ROCCELLA, TREU, Diritto comunitario del lavoro, V ed., Padova, Cedam, 2009, spec. pp. 425

ss. ed ivi ampli riferimenti bibliografici; LO FARO, Le Direttive in materia di crisi e ristrutturazioni di impresa,

cit., p. 399; CARABELLI, La gestione delle eccedenze di personale in Europa. Gli Studi-Paese a confronti: il

quadro giuridico, Documenti CNEL, Roma, 1995, p. 35. Per una critica all’approccio comunitario sul punto, cfr.

HEPPLE, Community measures for the protection of workers against dismissal, in Common Market Law Review,

1977, p. 491.

6 Si noti che il diritto all’informazione “in tempo utile” è stato inserito tra i diritti fondamentali sanciti dalla

Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea firmata a Nizza nel 2000 e adattata a Lisbona nel 2007. In

ordine all’interpretazione del vincolo del “tempo utile” la Corte di Giustizia si è pronunciata indirettamente nel

Caso Junk del 2005 (Corte giust., 27 gennaio 2005, causa C-188/03, Irmtraud Junk c. Wolfang Kühnel, in Foro

It., 2005, IV, col. 186 ss., con nota di R. COSIO, Il licenziamento collettivo nel diritto europeo: le precisazioni

della Corte di giustizia), con una sentenza relativa all’interpretazione della nozione di licenziamento la cui

validità è condizionata dal previo espletamento delle procedure previste dalla direttiva.

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individuale dei singoli lavoratori coinvolti (programmi di riqualificazione e riconversione)»7.

Sul datore di lavoro, più in particolare, grava l’obbligo di fornire ai rappresentanti dei

lavoratori «tutte le informazioni utili»8 affinché questi possano formulare «proposte

costruttive» (art. 2.3).

La tutela del lavoratore, in questo modo, si gioca sul piano del controllo e della

partecipazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori, atteso che la garanzia, per i

lavoratori, consiste nella possibilità (reale ed effettiva) attribuita ai loro rappresentanti di

conoscere, discutere e negoziare le motivazioni, le modalità ed i contenuti della decisione

aziendale di espellere, per ragioni tecnico-organizzative e produttive, parte dei dipendenti.

4. Il problema del rapporto tra procedura di consultazione e autonomia

delle scelte datoriali

L’art. 2.3, lett. b.i), come si è detto, impone al datore di lavoro di indicare per iscritto le

ragioni del progetto di licenziamento. Questo aspetto è di massima rilevanza, in quanto pone

il problema di capire se la direttiva intenda o no porre dei limiti alla libera determinazione

delle scelte datoriali.

A questo proposito è costante in dottrina l’affermazione secondo la quale la procedura

di consultazione non incide sull’an delle scelte datoriali ma è rivolta a valutarne e, ove

possibile, attenuarne, le conseguenze sul piano sociale e occupazionale. In altri termini, si

ritiene che la direttiva non ponga alcun limite alla libera determinazione

datoriale/imprenditoriale.

Questa conclusione viene dedotta dal fatto che la direttiva fornisce una definizione “a-

causale”9 di licenziamento collettivo, donde «qualsiasi decisione economico-organizzativa

7 Così GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, in AA.VV., I licenziamenti per riduzione di

personale in Europa, Bari, 2001, p. 21. 8 La direttiva indica espressamente l’oggetto delle informazioni che il datore di lavoro deve fornire in forma

scritta ai rappresentanti dei lavoratori «nel corso delle consultazioni». In particolare, si tratta dei motivi del

progetto di licenziamento, del numero e delle categorie dei lavoratori eccedenti e di quelli abitualmente

impegnati, il periodo entro il quale si prevede di effettuare i licenziamenti e i criteri di scelta dei lavoratori, ove

questi siano per legge o per prassi nazionali determinati dal datore di lavoro, e infine il metodo per il calcolo di

eventuali indennità di licenziamento diverse da quelle previste dalla legislazione o dalla prassi nazionale. 9 L’art. 1.1, lett. a) della direttiva 98/59/CE definisce il campo di applicazione della medesima attraverso un

duplice criterio quantitativo e qualitativo. Sotto il profilo qualitativo, ai sensi e per gli effetti della direttiva, per

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dell’impresa legittima l’adozione di atti di risoluzione dei rapporti di lavoro»10. Detto questo,

occorre comunque evidenziare che di a-causalità può parlarsi «soltanto nel senso che qualsiasi

motivo non personale è idoneo a giustificare il licenziamento collettivo, non anche nel senso

di escludere la necessità di una verifica della veridicità ed effettività dei motivi giustificativi»;

«in altre parole al legislatore comunitario non interessa quali siano i motivi non personali che

inducono il datore di lavoro al licenziamento collettivo, ma interessa che essi esistano

effettivamente»11

. La direttiva, in sostanza, imponendo al datore di lavoro di comunicare ai

rappresentanti dei lavoratori (ed all’autorità pubblica competente) le ragioni del progettato

licenziamento, conferisce in qualche misura un rilievo al profilo causale dei recessi, nella

misura in cui il datore di lavoro è comunque chiamato a «certificare la non sussistenza di

motivi personali attraverso la dichiarazione della sussistenza di motivi non personali»12

.

Questo implica due conseguenze massimamente rilevanti, delle quali si dovrà tenere

conto nell’interpretazione della riforma effettuata dal legislatore italiano.

In primo luogo occorre chiedersi quale sia la conseguenza nel caso in cui, a monte del

licenziamento dichiarato “collettivo”, si pongano ragioni di carattere soggettivo. Qualora,

invero, le ragioni del recesso non siano inerenti alla persona del lavoratore, la direttiva

impone (in presenza dei prescritti, concorrenti, requisiti di tipo quantitativo) l’attivazione

della procedura di consultazione, che, diversamente, non è obbligatoria, con la conseguenza

che i recessi seguiranno le regole previste dagli ordinamenti nazionali per i licenziamenti

individuali.

Un eventuale ampliamento, da parte degli ordinamenti interni, del campo di

applicazione delle regole in materia di licenziamento collettivo, peraltro, è sì consentito, ma a

condizione che possa considerarsi come un trattamento “più favorevole per i lavoratori” (art.

5 della direttiva). La valutazione del carattere migliorativo o peggiorativo di una tale

operazione normativa dipende da una complessa operazione di confronto tra il livello di

licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non

inerenti alla persona del lavoratore. 10 Così GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, cit., p. 10. 11 Così CARABELLI, Relazione di sintesi sul tema «I licenziamenti collettivi», in Atti delle Giornate di Studio

dell’AIDLASS, Baia delle Zagare 25-26 giugno 2001 su «Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro», Milano,

Giuffré, 2002, p. 331. 12 CARABELLI, Relazione di sintesi, cit., p. 331.

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protezione riconosciuto (dall’ordinamento interno) al licenziamento individuale rispetto a

quello riconosciuto al licenziamento collettivo13.

La seconda implicazione di quanto sopra rilevato è che la nozione comunitaria di

licenziamento collettivo presuppone (e autorizza) comunque una verifica delle ragioni

produttive e organizzative14 nel senso che l’esplicitazione delle stesse non solo «consente di

visualizzare con chiarezza il rapporto di corrispondenza e, in ultima analisi, di congruità tra

situazione dell’impresa, scelte dimensionali e tipologie dei rapporti di lavoro coinvolti nel

licenziamento progettato, ma ha anche un effetto di “autolimitazione” preliminare e, in certa

misura, essenziale per tutto lo svolgimento della procedura. Dichiarando i motivi e le altre

coordinate quantitative e qualitative del progetto di licenziamento, il datore di lavoro tipizza

(tra tutte quelle ascrivibili all’esercizio della libertà d’impresa) le rationes e gli effetti delle

proprie scelte dimensionali oggetto del confronto con i rappresentanti dei lavoratori, oltre che

dell’intervento dell’autorità pubblica competente. Sicché, ben può dirsi che la veridicità e la

completezza delle informazioni fornite costituiscono altrettanti requisiti formali del corretto

adempimento dell’obbligo datoriale di consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, con la

conseguenza che ove non siano pienamente rispettati il meccanismo partecipativo risulterà

falsato e violato, facendo scattare le conseguenze sanzionatorie dell’art. 6»15.

Gli Autori citati ritengono che i requisiti di veridicità e completezza delle informazioni

fornite costituiscano requisiti “formali” dell’adempimento. Sul punto ci si permette di

distaccarsi parzialmente in quanto, per le ragioni sopra specificate, i requisiti predetti si ritiene

che assumano un carattere sostanziale.

13 Sul punto cfr. GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, cit., p. 33 s., i quali mettono in

luce molto opportunamente che il confronto evidenziato nel testo presenta difficoltà estremamente significative

anche in considerazione delle profonde “diversità strutturali” che solitamente caratterizzano i due sistemi

normativi (il sistema di regolazione dei licenziamenti collettivi tende ad essere proiettato verso gli effetti sociali

e verso la valenza collettiva dei licenziamenti espressione della libertà d’impresa del datore di lavoro, mentre le

regole relative ai licenziamenti individuali sono solitamente racchiuse nella dimensione del rapporto individuale

di lavoro con conseguente verifica della giustificatezza dei licenziamenti stessi). 14 Questa verifica, peraltro, nella prospettiva comunitaria, è funzionale alla sola necessità di applicare le

procedure di informazione e consultazione, e non al controllo di legittimità dei licenziamenti sul piano della loro

giustificatezza; sul punto cfr. R. DEL PUNTA, I licenziamenti per riduzione di personale: un primo bilancio

giurisprudenziale, in Lav. Dir., 1993, p. 143. 15 Così GAROFALO, CHIECO, Licenziamenti collettivi e diritto europeo, cit., p. 24.

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5. Il meccanismo sanzionatorio previsto dalla direttiva

La procedura di consultazione non deve essere considerata dall’imprenditore quale

vuota formalità, ma deve essere presa sul serio. La Corte di Giustizia, nel 1994, con due

importanti sentenze16 a conclusione di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione

nei confronti del Regno Unito per non corretta trasposizione delle direttive in materia di

licenziamenti collettivi e trasferimento d’impresa, ebbe ad affermare che «qualora una

disciplina comunitaria non contenga una specifica norma sanzionatoria di una violazione delle

sue disposizioni o rinvii in merito alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative

nazionali, l’art. 5 del Trattato impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte a

garantire la portata e l’efficacia del diritto comunitario. A tal fine, pur conservando un potere

discrezionale quanto alla scelta delle sanzioni, essi devono vegliare a che le violazioni del

diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini

analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e

che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di

proporzionalità e di capacità dissuasiva»17.

L’art. 6 della direttiva 98/59 prevede che «gli Stati membri provvedono affinché i

rappresentanti dei lavoratori e/o i lavoratori dispongano di procedure amministrative e/o

giurisdizionali per far rispettare gli obblighi previsti dalla presente direttiva»18.

La direttiva n. 98/59 ha fissato, dunque, in caso di licenziamenti collettivi, una serie di

vincoli di tipo procedurale senza vincolare, sotto il profilo sostanziale, le scelte

16 Corte giust., 8 giugno 1994, causa C-383/92, Commissione c. Regno Unito e Corte giust., 8 giugno 1994,

causa C-382/92, Commissione c. Regno Unito. Per un commento si veda in particolare LORD WEDDEBURN OF

CHARTON, Il diritto inglese davanti alla Corte di giustizia. Un frammento, in Dir. rel. ind., 1994, 4, pp. 691 ss. e

LYON-CAEN, Il Regno Unito: allievo indisciplinato o ribelle indomabile, ivi, 1994, 4, pp. 679 ss. 17 Così il punto 40 della sentenza resa nella causa C-383/92, in tutto e per tutto analoga alla seconda. 18 Questa formulazione è risultata in seguito al non accoglimento della proposta della Commissione, che faceva

invece riferimento esplicito «all’annullamento dei licenziamenti collettivi, indipendentemente dalla esperibilità

di altre procedure». Cfr. al riguardo l’art. 5-bis della proposta modificata di direttiva del 31 marzo 1992, in

GUCE n. C 117/10 dell’8 maggio 1992. Il Comitato economico e sociale ebbe a rilevare, sul punto, che in

determinate circostanze non appariva adeguata la sanzione dell’annullamento e auspicava metodi diversi o

aggiuntivi per assicurare l’applicazione della direttiva.

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dell’imprenditore, che rimane libero di procedere ai licenziamenti19 e più in generale, di

organizzare la propria attività economica nel modo che ritiene più opportuno20.

6. Sulla natura individuale o collettiva dei diritti di informazione e

consultazione

L’ultimo aspetto su cui è necessario soffermarsi con riferimento alla disciplina

comunitaria richiede di verificare se il diritto all’informazione e consultazione è destinato ai

rappresentanti dei lavoratori o ai lavoratori considerati individualmente. Dall’impianto

letterale della direttiva emerge la prima soluzione (si vedano, in senso difficilmente

equivocabile, il decimo considerando e gli artt. 1.1, 2 e 39).

La natura collettiva del diritto all’informazione e consultazione deriva anche da una

interpretazione teleologica della direttiva, di recente chiaramente affermata dalla Corte di

Giustizia. L’informazione e la consultazione, invero, sono volte a consentire, da un lato la

presentazione di proposte costruttive in merito almeno alla possibilità di evitare o ridurre i

licenziamenti collettivi e di attenuarne le conseguenze nonché, dall’altro, la presentazione di

eventuali osservazioni all’Autorità pubblica competente; i rappresentanti dei lavoratori si

trovano quindi nelle condizioni più favorevoli al perseguimento dello scopo stabilito dalla

direttiva. La Corte di Giustizia ha chiarito che il diritto all’informazione e alla consultazione

va esercitato tramite i rappresentanti dei lavoratori21, atteso che il diritto è concepito a

vantaggio dei lavoratori intesi come collettività e presenta, pertanto, natura collettiva.

19 Corte giust., 7 settembre 2006, cause riunite da C-187/05 a C-190/05, punto 35. 20 Così Corte giust., 7 dicembre 1995, causa C-449/93, Rockfon c. Specialarbejderforbundet i Danmark, acting

on behalf of Søren Nielsen et alii, punto 21. Diversamente, parte minoritaria della dottrina ritiene che l’art. 6

della direttiva, se pure non prescrive espressamente le sanzioni prefigurate dalla proposta di direttiva, richiede

pur sempre sanzioni effettive. Richiamando le sentenze del 1994 questa dottrina afferma che la norma

sembrerebbe «evocare sanzioni di tipo reintegratorio piuttosto che meramente risarcitorio. Invero, poiché i

vincoli procedimentali introdotti dalla direttiva devono poter operare prima dell’attuazione delle “libere” scelte

dimensionali dell’impresa, sembra ragionevole ritenere che l’obbligo di assicurarne il rispetto (ex art. 6) possa

risolversi nell’imporre agli stati membri l’introduzione di meccanismi sanzionatori idonei a rimuovere i

licenziamenti collettivi intimati in violazione dei diritti di informazione e consultazione dei rappresentanti dei

lavoratori ovvero senza il corretto svolgimento della fase amministrativa di confronto» (in questo senso

GAROFALO, CHIECO, op. cit., p. 35). 21 Corte giust., 16 luglio 209, causa C-12/2008, Mono Car Styling SA c. Odemis et aa., in Giur. it., 2010, pp.

1338 ss., con nota di BRIZZI, Procedure di informazione e consultazione del personale in caso di licenziamenti

collettivi: l’interpretazione della Corte di giustizia, nonché in Dir. rel. ind., 2009, 4, pp. 1157 ss., con nota di

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7. La Riforma della legge n. 223 del 1991: la possibile “sanatoria” dei vizi

della comunicazione di apertura della procedura

Si è anticipato che l’art. 1, co. 45, della legge n. 92 del 2012 ha integrato l’art. 4, comma

12, della legge n. 223 del 1991, attribuendo ad un, non meglio identificato22, «accordo

sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo» lo specifico potere

di sanare gli eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura.

Questa modifica intende disattivare la “trappola procedurale”23 costituita

dall’interpretazione più rigida dell’art. 4, commi 2 e 3, della legge n. 223 del 1991, secondo

cui l’omissione della comunicazione contenente l’indicazione dei motivi dell’eccedenza, e di

tutti gli altri elementi prescritti dal co. 3 dell’art. 4, non può dirsi sanata dall’accordo

sindacale comprensivo dell’individuazione dei lavoratori da licenziare24, con conseguente

riconoscimento della sanzione, azionabile anche da parte dei singoli lavoratori25,

dell’inefficacia della procedura.

COSIO, Procedure di informazione e consultazione in caso di licenziamento collettivo; sul tema cfr. anche COSIO,

I licenziamenti collettivi, in FOGLIA, COSIO (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, Milano, 2011,

pp. 281 ss.; in precedenza si veda, analogamente, Corte giust., 18 gennaio 2007, causa C-385/2005,

Confédération générale du travail et a. e Corte giust., 8 giugno 1994, causa C-383/92, Commissione c. Regno

Unito. 22 La legge non chiarisce alcunché in ordine ai caratteri che l’accordo sindacale deve avere per poter dispiegare il

previsto effetto “sanante”. Una lettura complessiva dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991 (anche inseguito alla

novella legislativa) non sembra consentire altra interpretazione se non quella per cui l’accordo in parola debba

essere quello, gestionale, già previsto e disciplinato dalla norma medesima. In questo senso ANGIELLO,

Licenziamenti collettivi, in CARINCI, MISCIONE (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. prat. lav.,

2012, Suppl. al n. 33, p. 86. 23 Così la definisce ICHINO, in http://it.paperblog.com/pietro-ichino-valuta-il-disegno-di-legge-sul-lavoro-

1016855, cit. Per un approccio critico nei confronti dell’intervento legislativo sul punto cfr. SCARPELLI, I

licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 96. 24 Cfr. al riguardo Cass., 18 luglio 2001, n. 9743 nella motivazione della quale si evidenzia che le comunicazioni

prescritte dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991 servono a consentire alle rappresentanze sindacali una

partecipazione con efficacia adeguata al ruolo loro assegnato nell’ambito di una vicenda dalla quale esce mutata

la stessa struttura dell’azienda (cfr., analogamente, Cass., 6 aprile 2012, n. 5582, in FI, 2012, I, col. 1734; Cass.,

16 settembre 2011, n. 18943, in LG, 2012, 4, pp. 367 ss., con nota di GALLOTTI, CUSMAI, Obbligo di correttezza

e trasparenza nella comunicazione dei motivi di apertura di mobilità; Cass., 2 marzo 2009, n. 5034, in Riv. it.

dir. lav., 2009, 3, II, pp. 768 ss., con nota di MARINELLI, La Corte di Cassazione e l’obbligo di comunicazione

nella procedura di mobilità; Cass., 9 settembre 2003, n. 13196, in Riv. giur. lav., 2004, II, pp. 752 ss.). Per una

critica all’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato si veda, da ultimo, MAZZOTTA, voce Licenziamento

collettivo, in Enc. Dir. annali, Vol. V, Milano, 2012, pp. 778 ss. 25 La legittimazione del lavoratore licenziato ad agire in giudizio per far valere omissioni o inesattezze delle

informazioni rese alle rappresentanze sindacali è stata riconosciuta più volte dalla giurisprudenza di legittimità;

si veda di recente Cass., 21 settembre 2011, n. 19233 in Foro it., 2011, I, col. 2963 ss. Sul tema, in dottrina, si

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Ampia parte della giurisprudenza, peraltro, già nel regime normativo precedente alla

riforma dell’estate 2012, ammetteva un temperamento, ritenendo che sufficienza e

adeguatezza della comunicazione di avvio della procedura andassero valutate in relazione alla

finalità di corretta informazione delle rappresentanze sindacali, con la conseguenza che il

raggiungimento in concreto di un accordo gestionale rilevasse per valutare la completezza

della comunicazione iniziale26

.

Nella citata prospettiva giurisprudenziale non si tratta propriamente di una “sanatoria”

dei vizi della procedura, ma dell’attribuzione di rilevanza interpretativa al successivo accordo.

Si ritiene, in sostanza, che il giudice debba verificare comunque l’adeguatezza dell’originaria

comunicazione di avvio della procedura, non potendo escludersi che questa possa risultare

non di meno insufficiente ove il sindacato non sia stato posto in condizione di partecipare alla

trattativa con piena consapevolezza di ogni rilevante dato fattuale per l’obiettiva insufficienza

o reticenza di tale comunicazione27.

Il testo dell’art. 1, comma 45, della legge di riforma risolve il problema solo

parzialmente. La norma invero, se pure riconosce espressamente all’accordo sindacale la

possibilità di sanare eventuali vizi della comunicazione di avvio della procedura28, non

veda FOGLIA, Diritto di informazione e consultazione nella procedura di licenziamento collettivo, in Arg. dir.

lav., 2005, 1, pp. 169 ss.; critico VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., p. 66. 26 Cass., 11 gennaio 2008, n. 528, in Guida Dir., 2008, 7, p. 22 ss., con nota di TATARELLI, Le carenze di apertura

della procedura sono sanate con un accordo sindacale; Cass., 8 novembre 2007, n. 23275, in Riv. it. dir. lav.,

2007, II, pp. 432 ss., con nota di GALARDI, Sull’obbligo di comunicazione nei licenziamenti collettivi; Cass., 11

luglio 2007, n. 15479; Cass., 2 agosto 2004, n. 14721, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, pp. 475 ss., con nota di SITZIA,

Licenziamento collettivo, cassa integrazione guadagni e vizi procedurali: un significativo contrasto fra sentenze

di cassazione; Cass., 5 giugno 2003, n. 9015, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, pp. 105 ss., con nota di BONI,

Licenziamenti collettivi e oneri procedurali: verso una svolta giurisprudenziale?; Cass., 20 novembre 1996, n.

10817, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, pp. 625 ss., con nota di MARINO, Procedure di consultazione sindacale nei

licenziamenti collettivi e omissione delle formalità previste dalla legge. Sulla questione si veda FOGLIA, Diritto

di informazione e consultazione nella procedura di licenziamento collettivo, cit., p. 171 ss.; ANGIELLO, La

violazione degli obblighi di comunicazione nel licenziamento collettivo, in Lav. giur., 2004, pp. 1121 ss.; ICHINO,

Il contratto di lavoro, vol. III, Tratt. CM, Milano, Giuffré, 2003, pp. 543 ss.; MONTUSCHI, Procedure e forme:

comunicare è bello?, in Arg. dir. lav., 2000, pp. 651 ss.; MARINO, Sulla violazione dell’obbligo di

«comunicazione» in caso di licenziamento per riduzione del personale, in Giust. civ., 1999, II, pp. 2477 ss.;

ZOLI, La procedura di licenziamento collettivo e il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, in AA.VV., I

licenziamenti collettivi, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1997, pp. 310 ss. 27 Cass., 11 luglio 2007, n. 15479, cit. 28 In dottrina è stato sottolineato che la norma che attribuisce all’accordo gestionale forza “sananate” è

certamente espressione di un “rafforzamento” dell’accordo sindacale in sede di procedura per licenziamento

collettivo, ma deve leggersi come iscritta nell’ambito dell’obiettivo di flessibilizzazione perseguito dal

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chiarisce se ai fini dell’efficacia sanante basta il mero fatto della stipula di un accordo

gestionale (ex art. 5 della l. n. 223 del 1991), oppure se è, invece, necessaria, in linea con la

giurisprudenza sopra richiamata, un’esplicita manifestazione della prevista “sanatoria”,

consapevolmente espressa dalle rappresentanze sindacali.

La soluzione della questione richiede di tener conto del sistema comunitario di

riferimento in materia di diritti di informazione e (seria, trasparente ed effettiva) consultazione

dei lavoratori nel caso di licenziamento collettivo, sistema che, in ragione di quanto

evidenziato sopra al riguardo, non consente che siano sanate le carenze o reticenze

informative più rilevanti, mentre certamente consente una integrazione di informazioni

inizialmente carenti, nel corso della procedura.

Per ragioni di coerenza con il modello comunitario, dunque, si può ritenere che la norma

nazionale riformata debba interpretarsi nel senso che la stipulazione di un accordo sindacale29

non ha tuttora, di per sé, efficacia sanante30: la norma, invero, attribuisce alle parti31 la

“possibilità” di stipulare uno specifico accordo “di sanatoria” dei vizi di cui abbiano avuto

consapevolezza e che intendono espressamente superare32. Del resto, l’attribuzione di un

legislatore. In questo senso si veda CESTER, Licenziamenti: la metamorfosi della tutela reale, in CARINCI,

MISCIONE (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. prat. lav., 2012, Suppl. al n. 33, pp. 547 ss. 29 Si ricorda, incidentalmente, che la novella incentiva la stipula dell’accordo sindacale anche attraverso la

previsione di un contributo addizionale a carico del datore di lavoro nel caso in cui l’accordo non venga

raggiunto. Nello specifico, in tutti i casi di recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato (dal 1° gennaio

2013) il datore di lavoro è tenuto a versare all’INPS una somma pari al 50% del trattamento mensile dell’Aspi

per ogni 12 mensilità di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni. Questo contributo non è dovuto, fino al 31

dicembre 2016, nei casi in cui sia dovuto il contributo di cui all’art. 5, co. 4, della legge n. 223 del 1991. Dal

2017, in caso di licenziamenti collettivi senza accordo sindacale, il contributo di licenziamento sarà moltiplicato

per 3 (cfr. art. 2, commi 31, 33 e 35 della legge n. 92 del 2012). Si veda in proposito, PELLACANI, Le modifiche

alla disciplina dei licenziamenti collettivi,cit., p. 269. 30 Efficacia sanante che può riguardare solo i vizi relativi al contenuto della comunicazione (completezza,

specificità, termini) e non altri vizi che riguardino l’espletamento e la conclusione della procedura. 31 I soggetti, cioè, di cui al comma 2 dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991 (cfr. sul punto CARINCI, Complimenti,

dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, Relazione

tenuta al Convegno “La Riforma del mercato del lavoro”, 13 aprile 2012, Roma, Facoltà di Giurisprudenza,

Università Roma Tre, reperibile in http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Il-dibattito-sulla-riforma-italiana-del-

mercato-del-lavoro-/3206.aspx). 32 L’affermazione di cui al testo è supportata anche da un argomento letterale atteso che la legge specifica che i

vizi sono sanati non dall’accordo purchessia, ma “nell’ambito di un accordo”, il che lascia ritenere che la

sanatoria può operare solamente nel caso in cui i dati non comunicati nella dichiarazione di apertura della

procedura vengano comunicati e discussi nel corso dell’esame congiunto e l’accordo sia conseguentemente

raggiunto nella piena consapevolezza anche di detti dati. In questo senso CESTER, Il progetto di riforma della

disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. dir. lav., 2012, 3, I, pp. 547 ss., qui p. 582; analogamente

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“potere” alle parti lascia intendere che la sottoscrizione dell’accordo collettivo non abbia di

per sé efficacia sanante33.

Resta da chiedersi se l’accordo in parola debba necessariamente essere un accordo

specifico, diverso e separato rispetto all’accordo di chiusura della procedura, oppure se possa

essere incluso nell’ambito di quest’ultimo. Un’interpretazione, anche letterale, della norma

dovrebbe consentire di ritenere potenzialmente ammissibili entrambe le soluzioni atteso che il

legislatore richiede soltanto che l’accordo sia concluso “nel corso” della procedura (e quindi

non successivamente ad essa)34.

8. (Segue). La Riforma della legge n. 223 del 1991: la nuova disciplina

sanzionatoria per il caso di licenziamento collettivo illegittimo

Il co. 46 dell’art. 1 della riforma dell’estate 2012 concerne la materia sanzionatoria. La

novella può essere schematizzata come segue:

1) ove il licenziamento collettivo sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si

applica il regime sanzionatorio di cui all’art. 18, co. 1, St. lav. come riformato;

2) in caso di violazione delle procedure richiamate all’art. 4, co. 12, della legge n. 223

del 1991, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto art. 18;

3) in caso di violazione dei criteri di scelta si applica il regime reintegratorio di cui al

quarto comma del medesimo art. 18.

Al fondo dell’intervento del legislatore può leggersi l’obiettivo di realizzare un

riavvicinamento delle diverse fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

(individuale e collettivo)35, con il conseguente abbandono del precedente regime

MARESCA, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche all’art. 18 Statuto dei

Lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, 2, I, pp. 452 ss.; VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., p. 66;

TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo, IV ed., Padova, 2012, p. 460; ANGIELLO, Licenziamenti

collettivi, cit., p. 85. 33 Cfr., per una valutazione critica della norma sul punto, FERRANTE, Modifiche nella disciplina dei

licenziamenti collettivi, cit., p. 279. 34 Si veda, sul punto, ANGIELLO, Licenziamenti collettivi, cit., p. 86 il quale, condivisibilmente, ammette che

l’accordo con efficacia sanante possa essere incluso nell’accordo conclusivo della fase di consultazione. 35 Secondo Cass., 7 novembre 1998, n. 11251 (in Riv. crit. dir. lav., 1999, pp. 82 ss., con nota di MUGGIA) «il

discrimine tra il licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo e il licenziamento per

riduzione di personale dipende unicamente dall’elemento numerico e non invece dalla diversa tipologia delle

ragioni dell’impresa». La giurisprudenza di legittimità, peraltro, pare essersi definitivamente assestata nel senso

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sanzionatorio unitario per il licenziamento collettivo, che viene ora raccordato con la

articolata disciplina prevista per i licenziamenti individuali36.

Il riallineamento, però, non è totale in quanto, mentre con riferimento alla violazione

della prescrizione della forma scritta per il licenziamento individuale e collettivo è prevista la

medesima sanzione dell’inefficacia, assistita dalla tutela reale piena di cui al primo comma

del nuovo art. 18 St. lav., le conseguenze per il caso di sussistenza degli altri vizi sono

diversificate.

Nel caso di violazione della procedura sindacale la sanzione (che in passato era quella

della tutela reale) è ora quella indennitaria forte (da 12 a 24 mensilità) del comma 5 dell’art.

18, cioè il terzo livello di tutela, mentre, nel licenziamento individuale per motivo oggettivo,

la violazione della nuova procedura preventiva, da svolgersi avanti la Direzione Territoriale

del Lavoro, comporta la tutela indennitaria debole del comma 6 (da 6 a 12 mensilità, una

tutela indennitaria dunque dimidiata rispetto a quella operante per il licenziamento collettivo).

Il maggior “costo” della violazione procedimentale nel licenziamento collettivo esprime

una valutazione del legislatore in termini di maggiore gravità, stante, in questo caso, la diversa

funzione della procedura. Una tale diversa graduazione delle tutele dovrebbe consentire una

tenuta della riforma in termini di legittimità costituzionale, considerato che la tutela reale non

può dirsi imposta né dalla Costituzione37

, né (per le ragioni viste al superiore § 2.3 di questo

capitolo) dal diritto comunitario, che impone esclusivamente una sanzione efficace, quale

verosimilmente può dirsi quella introdotta dalla novella.

di riconoscere al licenziamento collettivo la natura di istituto autonomo (cfr. Cass., 22 novembre 2011, n. 24566,

in Riv. it. dir. lav., 2012, II, pp. 618 ss., con nota di CALAFÀ, Sul definitivo assestamento della nozione di

licenziamento collettivo). Sul tema, amplius, prima della riforma, GAROFALO, Eccedenze di personale e conflitto:

profili giuridici, in Dir. lav. rel. ind., 1990, pp. 235 ss.; MAGRINI, Licenziamenti individuali e collettivi:

separatezza e convergenza delle tutele, ivi, 1990, pp. 313 ss.; con riferimento alla novella FERRANTE, Modifiche

nella disciplina dei licenziamenti collettivi, cit., pp. 272 ss. 36 In dottrina l’operazione legislativa è stata criticata in ragione del fatto che alle violazioni di tipo formale viene

attribuito rilievo superiore rispetto a quelle di tipo sostanziale. In questo senso PAPALEONI, Prime considerazioni

critiche sul progetto di riforma del mercato del lavoro: “Mons tremuit, etmus parietur”, 2012, in

http://csdle.lex.unict.it/docs/generic/Il-dibattito-sulla-riforma-italiana-del-mercato-del-lavoro-/3206.aspx.

Critiche sono espresse anche da SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 97. 37 In questo senso VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., p. 68; altra dottrina ha evidenziato che «a fronte

dei licenziamenti c.d. economici, individuali o collettivi, la reintegrazione – che non sia consensuale – non ha

molto senso» (così GHERA, Il ruolo dei giuristi e la riforma dei licenziamenti, in

http://www.pietroichino.it/?p=22113&print=1).

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Non solo. Il sistema normativo italiano, per la verità, continua a consentire una tutela (di

fatto) “reale” per il caso di violazione della procedura di informazione e consultazione, ma

questa tutela risulta oggi di prerogativa esclusiva delle Organizzazioni sindacali tramite lo

strumento di cui all’art. 28 St. lav.38: ciò in quanto la revisione operata dalla novella riguarda

solamente le tutele azionabili dai singoli lavoratori e non l’art. 28 St. lav., che resta immutato.

Questo effetto della riforma, se certamente rappresenta una netta inversione di tendenza

rispetto al passato, non sembra porsi in contrasto con la sistematica del diritto comunitario,

atteso che, per le ragioni sopra evidenziate (cfr. § 2.4 di questo capitolo), la giurisprudenza

comunitaria ha affermato la natura collettiva dei diritti di informazione e consultazione39.

Fermo quanto sopra, restano da esaminare due ulteriori, rilevanti, profili.

Il regime sanzionatorio di cui si è detto viene definito dal legislatore attraverso il rinvio

al “terzo periodo” del settimo comma dell’art. 18 St. lav., che a sua volta rinvia al comma 5.

Un simile “giro di parole” (il significato etimologico del termine periodo è, appunto, girare

intorno), se pure consente di ritenere chiaramente individuata la sanzione indennitaria forte

del comma 540, non sembra essere il semplice effetto di una imprecisione lessicale/strutturale

dell’impianto normativo. In dottrina, invero, è stato evidenziato che «sorge il sospetto che

questa complicazione letterale nasconda in realtà l’intento di escludere che anche la totale

omissione della procedura – un vizio che, come dire, comporterebbe la totale inconsistenza

del licenziamento collettivo come tale – possa in qualche modo determinare l’applicazione

della tutela reintegratoria»41.

Il problema si pone in quanto il richiamo del solo terzo periodo del settimo comma può

essere letto nel senso di esprimere la volontà di escludere dal rinvio la restante porzione del

medesimo comma 7. Se così fosse, il sistema acquisterebbe questo significato:

38 Nel testo si parla di tutela sostanzialmente “reale” per riferirsi all’ordine di rimozione degli effetti che può (e

continuerà a poter) essere disposto dal giudice ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 28 St. lav.; in questo senso

anche SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 98; FERRANTE, Modifiche nella

disciplina dei licenziamenti collettivi, cit., p. 282, il quale, nel concordare in ordine alla sopravvivenza del

sistema reintegratorio consentito all’azione collettiva, manifesta qualche perplessità sul piano della coerenza

concettuale del sistema normativo così come risulta dal mancato coordinamento delle due, diverse, tutele. 39 Cfr. Corte Giust., 16 luglio 2009, Mono Car, cit. 40 Cfr. MARAZZA, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, cit., p. 634. 41 Così CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, cit., p. 584.

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a) la violazione della procedura non dovrebbe permettere al lavoratore licenziato (al di

fuori dell’ipotesi della violazione dei criteri di scelta) di chiedere ed ottenere la reintegra nel

posto di lavoro, nemmeno, sembrerebbe, per il caso in cui il giudice dovesse accertare che il

fatto posto a base del licenziamento non sussiste (parrebbe trattarsi dell’ipotesi di non

effettività della riduzione o trasformazione di attività o lavoro che determina la situazione di

eccedenza, da comunicare alle rappresentanze sindacali).

La possibilità di chiedere ed ottenere la caducazione del licenziamento in caso di

violazione della procedura diventa (o meglio resta), per i motivi già evidenziati, prerogativa

esclusiva delle Organizzazioni Sindacali ex art. 28 St. lav.;

b) il giudice del lavoro non sembrerebbe essere abilitato neppure, nel caso di

licenziamento collettivo, ad accertare il carattere disciplinare o discriminatorio del

licenziamento.

In relazione al primo profilo l’effetto sopra sottolineato sembra essere in linea con il già

rilevato intendimento del legislatore di fare salvo il principio di insindacabilità delle scelte

organizzative del datore di lavoro, consentendo a quest’ultimo la possibilità di realizzare

comunque la scelta riduttiva, confinando l’operatività della tutela reintegratoria reale di cui al

novellato comma 4 (azionabile dai lavoratori), solamente al caso della violazione dei criteri di

scelta. In relazione a quest’ultimo profilo (attinente alla violazione dei criteri di scelta), parte

della dottrina42 ha evidenziato che la grande discrezionalità valutativa rimessa al giudice in

materia di criteri di scelta sposterà su questo piano le incertezze operative oggi gravanti sul

datore di lavoro in relazione ai vizi di carattere formale43. La, condivisibile, notazione circa il

rischio di contenzioso sui criteri di scelta, impone di rilevare che un’efficace meccanismo di

disinnesco della criticità posta in evidenza si rinviene nella nuova disciplina sulla revoca del

42 ANGIELLO, Licenziamenti collettivi, cit., p. 89, il quale ritiene che, si affermerà, verosimilmente, la prassi di far

seguire alla procedura di mobilità una conciliazione individuale con i singoli lavoratori licenziati. 43 Analogamente, nel senso indicato nel testo, FERRARO, Ammortizzatori sociali e licenziamenti collettivi nella

riforma del mercato del lavoro, cit. In senso contrario, esprime un giudizio positivo con riferimento a questa

disposizione della novella SCARPELLI, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, cit., p. 98.

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licenziamento, ammessa dal co. 10 dell’art. 18 St. lav., il cui tenore letterale non sembra

consentire di escluderne l’applicazione ai licenziamenti collettivi44.

Diverso problema si pone invece con riferimento al secondo profilo posto in evidenza,

concernente il mancato richiamo del sistema sanzionatorio generale di cui al nuovo art. 18 St.

lav. nel caso della (accertata) sussistenza di ragioni disciplinari o discriminatorie del

licenziamento intimato. L’interpretazione letterale della norma (che sembra dunque stabilire

una inibizione del richiamato potere al giudice), rischia di provocare una scopertura del

sistema normativo capace di porre il nostro ordinamento in contrasto con i principi generali

costituzionali e comunitari, sia per l’evidente disparità di trattamento che si verrebbe a

determinare, sia per la violazione dei diritti fondamentali in caso di licenziamento

discriminatorio e violazione dei principi di cui all’art. 13 del Trattato dell’Unione Europea,

dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e della direttiva n. 2000/78/CE.

Inoltre, l’intenzione, che appunto sembra emergere dalla novella, di operare una

scissione del licenziamento collettivo rispetto alla sua struttura causale tipica (caratterizzata,

nel sistema comunitario, dall’assenza nel recesso di ragioni soggettive) sembra porre

concretamente la questione sopra anticipata al § 2.3 di questo capitolo, anche in termini di

coerenza dell’ordinamento rispetto all’art. 5 della direttiva di riferimento.

Posto quanto sopra, si tratta di capire quale regime sanzionatorio debba essere applicato

dal giudice nel caso in cui quest’ultimo accerti la natura disciplinare o discriminatoria del

licenziamento qualificato come collettivo dal datore di lavoro. La lettera della legge può

condurre a due diverse soluzioni.

In una prima prospettiva, valorizzando la ricostruzione proposta da autorevole dottrina,

secondo cui le previsioni dei periodi finali dei commi 6 e 7 dell’art. 18 St. lav. sono parziali e

superflue45, il problema potrebbe agevolmente essere risolto stante l’autonoma rilevanza dei

diversi vizi, sempre, gradatamente azionabili, dal lavoratore ricorrente.

44 Sulla revoca del licenziamento si vedano, in questo volume, i contributi di CORSO e di BARRACO. Resta inteso,

evidentemente, che, per quanto concerne la materia dei licenziamenti collettivi, la revoca è da ritenersi ammessa

esclusivamente con riferimento ai singoli licenziamenti individuali intimati a conclusione della procedura. 45 Così VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, cit., pp. 56 ss.; analogamente ANGIELLO, Licenziamenti

collettivi, cit., p. 88, il quale ammette che il lavoratore possa sempre chiedere al giudice, anche in caso di vizio

formale, una pronuncia sulla sostanza.

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Diversamente, qualora si ritenesse di valorizzare la lettera e la (apparente) volontà del

legislatore risultante dal nuovo comma 3 dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 (che sembra

escludere, per i motivi sopra specificati) la possibilità di farsi applicazione dei commi da 1 a 4

dell’art. 18 St. lav.), dovrebbe potersi ammettere una residua operatività, nel caso in parola,

della sanzione della nullità di diritto comune.

9. (Segue). La Riforma della legge n. 223 del 1991: il termine per

l’effettuazione delle comunicazioni finali e l’applicazione del termine di

impugnazione di cui al novellato art. 6 della legge n. 604 del 1996 (rinvio)

La novella dell’estate 2012 ha apportato due ulteriori ritocchi alla disciplina dei

licenziamenti collettivi.

Primo. Viene istituito un termine di 7 giorni, sostitutivo dell’originaria previsione di

contestualità ex art. 4, co. 9, della legge n. 223 del 1991, per la comunicazione finale della

procedura, contenente l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità con l’indicazione, per

ciascun soggetto, del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di

inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle

modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all’art. 5, co. 1, della legge n.

223 del 1991. Detto termine di 7 giorni decorre dall’intimazione dei licenziamenti. La

formulazione normativa pone un problema operativo in quanto non si comprende da quale

licenziamento il termine debba correre nel caso in cui i licenziamenti non avvengano in

un’unica soluzione. In dottrina si ritiene che la norma vada interpretata attribuendo rilievo al

primo licenziamento46.

Questa modifica normativa intende superare definitivamente la lettura meramente

cronologica della “contestualità” fatta propria da ampia parte della giurisprudenza47.

46 In questo senso cfr. TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo, cit., p. 460. 47 In giurisprudenza veniva riconosciuta l’illegittimità dei licenziamenti nel caso di un intervallo di pochi giorni

tra l’intimazione e la successiva comunicazione finale. In questo senso si vedano, fra le tante, Cass., 1° dicembre

2010, n. 24341, in Foro It., 2011, I, col. 1135; Cass., 28 gennaio 2009, n. 2166, in Mass. giur. lav., 2009 pp. 465

ss.; Cass., 23 gennaio 2009, n. 1722; diversamente Cass., 8 marzo 2006, n. 4970 aveva ritenuto che la norma,

non specificando la misura cronologica della contestualità fra le comunicazioni, non esigesse che le

comunicazioni avvenissero nello stesso giorno.

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La regola della contestualità, peraltro, come evidenziato in dottrina, non costituiva il

mero portato di una imposizione burocratica ma serviva a «cristallizzare, in un reciproco

confronto, criteri di scelta dei licenziandi e scelte concrete, così da non lasciare troppo spazio,

dopo la comunicazione dei licenziamenti, per un adattamento dei criteri a misura di scelte già

compiute»48.

Secondo. L’ultima modifica attiene ai termini per l’impugnazione (stragiudiziale e

giudiziale) del licenziamento collettivo, che sono stati ricondotti interamente al sistema

vigente (anch’esso novellato) per il licenziamento individuale, con superamento della

precedente regola sul termine per l’impugnazione stragiudiziale, contenuta nell’art. 5, co. 3,

della legge n. 223 del 1991, che era pur sempre analoga a quella operante per il licenziamento

individuale.

48 Così CESTER, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, cit., p. 584, il quale in

ogni caso rileva che la novella, sul punto, è coerente con lo spirito generale della riforma. La maggior parte della

dottrina si è comunque espressa in senso favorevole alla riforma di cui al testo. Si veda al riguardo VALLEBONA,

La riforma del lavoro 2012, cit., pp. 67 s. nonché ANGIELLO, Licenziamenti collettivi, cit., p. 85.

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NOTA ALLA SENTENZA DELLA CORTE DI

GIUSTIZIA (27 novembre 2012, Causa C-566/10)

Anna Lucia Valvo

Professore ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università Kore di Enna

1. Curioso destino quello dell’Italia che da Stato fondatore dell’Unione europea si

vede, oggi, costretta a ricorrere alla Corte di giustizia per ottenere l’uso della lingua italiana

quanto meno nei bandi di concorso interni all’Unione stessa. E, benché la Corte di giustizia

abbia stabilito (ammesso che ve ne fosse stato bisogno) che le lingue ufficiale dell’Unione

europea siano 231 e che la Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea deve essere pubblicata in

tutte le lingue ufficiali, la sentenza in commento, che indica una vittoria più apparente che

reale per l’Italia, in realtà la dice lunga su come stanno veramente le cose in Europea.

La vicenda trae origine dalla pubblicazione di alcuni bandi di concorso per

amministratori e assistenti nel settore dell’informazione, della comunicazione e dei media, a

cura dell’EPSO (European Personnel Selection Office) che è un organismo creato nel 2002 con

Decisione (2002/620/CE) del Parlamento e del Consiglio, con lo scopo specifico di occuparsi

della organizzazione delle procedure di assunzione dei funzionari UE.

Nel maggio del 2007, dunque, l’EPSO ha proceduto alla pubblicazione dei detti bandi di

concorso nella GUUE esclusivamente in lingua inglese, francese e tedesca.

Nei bandi in questione era stabilito che per l’ammissione al concorso e ai fini dello

svolgimento dei test di preselezione, per l’ammissione alle prove scritte e per lo svolgimento

di queste era richiesta, come prima lingua, la conoscenza approfondita di una delle lingue

ufficiali dell’Unione europea e “a scelta” la conoscenza soddisfacente del tedesco,

dell’inglese o del francese.

I bandi, inoltre, specificavano che tutte le comunicazioni fra i candidati e l’EPSO

sarebbero state nelle tre lingue indicate.

Nota a sentenza pubblicata sulla Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 43, Roma, 2013. 1 Bulgaro, spagnolo, ceco, danese, tedesco, estone, greco, inglese, francese, irlandese, italiano, lettone, lituano,

ungherese, maltese, olandese, polacco, portoghese, romeno, slovacco, sloveno, finlandese, svedese.

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Nei successivi mesi di giugno e luglio del 2007, l’EPSO procedeva con la

pubblicazione in Gazzetta, in tutte le lingue ufficiali, di due modifiche dei bandi precedenti,

nei quali però faceva rinvio alla versione integrale dei bandi già pubblicati in lingua inglese,

francese e tedesca.

2. L’Italia ha proposto ricorso al Tribunale chiedendo l’annullamento dei bandi in

questione contestando, da un canto, la mancata pubblicazione della versione integrale di

questi nelle 23 lingue ufficiali e, dall’altro, la limitazione arbitraria della scelta della seconda

lingua alle sole tre indicate anziché a tutte le lingue ufficiali dell’Unione europea, oltre che la

limitazione alle tre citate lingue per le comunicazioni con i candidati.

A sostegno delle ragioni italiane intervenivano nel primo grado di giudizio, la Lituania

e la Grecia.

Il Tribunale ha rigettato il ricorso ritenendo che la successiva pubblicazione delle

modifiche (che, tuttavia, per la versione integrale rinviava ai bandi pubblicati in sole tre

lingue) in tutte le lingue ufficiali era da considerare come rimedio alla mancata pubblicazione

integrale; l’Italia ha impugnato la sentenza per errore di diritto dinanzi alla Corte di giustizia.

La Corte di giustizia, in accoglimento delle istanze dell’Italia, ha annullato la sentenza

del Tribunale e, decidendo nel merito, ha annullato i bandi dell’ EPSO, anche se, in ossequio al

principio del legittimo affidamento (dei candidati selezionati) ha ritenuto di non annullare i

risultati del concorso.

3. In buona sostanza, la Corte di giustizia, sul punto della mancata pubblicazione della

versione integrale dei bandi nelle 23 lingue della UE, ha stabilito che la Gazzetta Ufficiale

deve riportare le pubblicazioni nelle dette lingue sul presupposto che il regime linguistico

dell’Unione europea definisce come lingue ufficiali e come lingue di lavoro delle Istituzioni

europee tutte le citate 23 lingue. Inoltre, lo Statuto dei Funzionari dell’Unione europea

stabilisce che i bandi di concorso devono essere pubblicati nella GUUE.

La Corte di giustizia ha ritenuto che la pubblicazione integrale del bando

esclusivamente in inglese, francese e tedesco fosse discriminatoria e incongrua nei confronti

dei potenziali candidati di lingua madre differente dalle tre indicate e che questi ultimi, al di là

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delle difficoltà di reperimento della Gazzetta ufficiale in una delle tre dette lingue, sono da

ritenere svantaggiati e, dunque, discriminati rispetto ai candidati di madre lingua inglese,

francese o tedesca, sotto il duplice profilo della corretta comprensione di quanto indicato nel

bando (e, dunque, della concreta individuazione dei requisiti richiesti ai fini della

partecipazione al concorso) e dei termini entro i quali inviare la domanda di partecipazione al

concorso.

4. Sul punto della restrizione alle sole tre indicate lingue nella “scelta” della seconda

lingua come requisito di partecipazione al concorso, la Corte di giustizia si è espressa nel

senso che una limitazione di tal genere deve trovare una giustificazione nell’effettivo

“interesse del servizio” stabilendo che “eventuali regole che limitano la scelta della seconda

lingua devono prevedere criteri chiari, oggettivi e prevedibili” onde consentire ai potenziali

candidati l’esatta conoscenza, e con congruo anticipo, delle competenze linguistiche in modo

da poter partecipare ai concorsi con le adeguate conoscenze linguistiche da questi richieste.

Poiché, tuttavia, né le Istituzioni interessate ai concorsi hanno adottato specifici

regolamenti interni aventi ad oggetto le modalità di applicazione relative ai regimi linguistici

e né la Commissione ha indicato l’esistenza di atti interni relativi alla limitazione ad alcune

con esclusione di altre nella scelta della seconda lingua ai fini della partecipazione ai concorsi

e né i bandi impugnati davano adeguata contezza circa i criteri sottesi alla indicazione della

sola lingua inglese, francese e tedesca, la Corte di giustizia ha ritenuto di accogliere le

doglianze dell’Italia con conseguente annullamento della sentenza di primo grado emanata dal

Tribunale.

5. Ancora una volta la Corte di giustizia dell’Unione europea si è resa garante

dell’innalzamento degli standard di tutela dei diritti dei cittadini europei.

La circostanza, tuttavia, rappresenta ben poca consolazione per l’Italia e per il peso

che essa riesce ad esprimere all’interno di una Unione ormai indiscutibile ostaggio di una

sorta di trilaterale europea (franco-anglo-tedesca) vocata alla cura non già dei cittadini, bensì

dei centri finanziari e monetari nazionali e internazionali così ben rappresentati in Italia dal

Prof. Mario MONTI affettuosamente premuroso verso banche e banchieri (ma non bancari).

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OLTRE IL LISSABON URTEIL: LA SAGA DELLE

“PENSIONI SLOVACCHE” E L’APPLICAZIONE

DELL’ULTRA VIRES REVIEW SECONDO IL GIUDICE

COSTITUZIONALE CECO

Fausto Vecchio Assistant Professor nell'Università Kore di Enna

Affermando il principio secondo cui, in nome dell’interpretazione orientata verso il

rispetto del diritto europeo (europarechtsfreundlichkeit), l’ultra vires review è subordinato

all’accertamento di una violazione grave e sufficientemente qualificata del principio di

attribuzione, la sentenza Honeywell del Bundesverfassungsgericht sembrava aver

definitivamente superato le polemiche di quanti avevano visto nelle affermazioni del Lissabon

urteil un pericoloso precedente: il fatto che i giudici costituzionali si siano sforzati di

elaborare un articolato iter argomentativo per evitare di dover dare concreta applicazione alla

minaccia dei controlimiti è stato interpretato come una nuova prova del buon funzionamento

dei meccanismi di “diplomazia giudiziaria” e in ultima analisi come una prova della

sostanziale innocuità della pronuncia del 2009. Tuttavia, dichiarando che una sentenza della

Corte di giustizia non può trovare applicazione perché adottata fuori dal quadro delle

competenze europee, una recentissima pronuncia (PL ÙS 5/12 del 31 gennaio 2012) del

Tribunale costituzionale ceco mostra la precarietà degli equilibri tra gli ordinamenti e riporta

d’attualità i timori di quanti hanno letto come una minaccia alcuni passaggi della dottrina che

ha ispirato la giurisprudenza tedesca.

Il retroscena di questa questione deve essere ricercato in un accordo internazionale

stipulato al momento della proclamazione di indipendenza della Repubblica Ceca e della

Slovacchia e finalizzato alla regolazione del trattamento previdenziale degli ex cittadini

cecoslovacchi. In particolare, secondo questo accordo, il regime applicabile in materia di

pensioni avrebbe dovuto essere individuato sulla base del criterio di residenza del datore di

lavoro. Applicando questo criterio si è dunque determinata una complessa situazione per cui

Nota a sentenza pubblicata sulla Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 43, Roma, 2013.

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cittadini cechi si sono trovati affidati al (più povero) sistema previdenziale slovacco e hanno

ottenuto pensioni più basse di quelle che avrebbero ricevuto se fossero stati inseriti nel

sistema pensionistico nazionale. Nel tentativo di risolvere questa contraddizione, il giudice

costituzionale ceco (con la decisione PL ÙS 405/02), in nome del principio di eguaglianza e in

nome dell’obbligo costituzionale di garantire la sicurezza materiale agli anziani, ha sancito

l’obbligo di integrare le pensioni slovacche dei cittadini cechi che avessero permanentemente

risieduto sul territorio nazionale. Nell’evidente intento di non dare seguito a questo

provvedimento, il supremo tribunale amministrativo ha interpellato la Corte di giustizia con

due questioni pregiudiziali con le quali si chiede di verificare se l’obbligo di integrazione non

configuri una lesione del Regolamento CEE 1408/71 (con cui, in seguito all’ingresso della

Repubblica ceca nell’Unione, si era provveduto a europeizzare l’accordo internazionale alla

base della vicenda) o, in alternativa, se esso non configuri una lesione del principio di non

discriminazione in ragione della nazionalità. Di fronte ad una questione pregiudiziale non

priva di profili strumentali, il giudice europeo ha mantenuto un basso profilo e, dopo aver

escluso che l’europeizzazione dell’accordo ceco - slovacco impedisca di per se stessa la

possibilità di un reintegro, si è semplicemente limitato a sostenere che la soluzione del giudice

costituzionale è comunitariamente illegittima nel momento in cui riconosce ai soli cittadini

nazionali (e non anche agli altri cittadini comunitari) il diritto all’integrazione: secondo

quanto stabilito dalla Corte del Lussemburgo nel caso Landtova (C-399/09), in seguito

all’adesione all’Unione europea tocca alle istituzioni nazionali (secondo le regole del diritto

interno) scegliere se eliminare del tutto il supplemento integrativo oppure se estenderlo anche

a quei cittadini comunitari che per ipotesi si trovino a subire gli effetti dell’accordo. Forte di

questa decisione, con la sentenza 3 Ads 130/2008-204, il Tribunale amministrativo si è

sostanzialmente autoattribuito la competenza a operare la scelta prospettata dal giudice

europeo e ha statuito che l’ingresso nell’Unione europea ha modificato il quadro di

riferimento. Così, richiamandosi alla stessa giurisprudenza costituzionale (in particolare alla

decisione PL ÙS 50/04 e PL ÙS 19/08), ha concretamente denegato il diritto al reintegro e ha

proferito una sentenza provocatoria con cui ha esplicitamente sfidato i magistrati di Brno a

dichiarare l’inapplicabilità di un provvedimento fondato su una norma europea. Alla stessa

maniera, disconoscendo le ragioni dei giudici costituzionali, le istituzioni politiche ceche

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hanno immediatamente optato per la prima alternativa e hanno provveduto a positivizzare una

norma per cui, in ragione degli obblighi disposti dall’ordinamento europeo, si è esclusa la

possibilità di integrare le pensioni slovacche.

Da questa intricata situazione di partenza, prende lo spunto il ricorso individuale di un

cittadino ceco che chiede l’annullamento delle decisioni con cui i tribunali amministrativi gli

hanno negato l’integrazione di una pensione ottenuta in un momento successivo all’adesione

all’Unione. In particolare, egli lamenta che la decisione 6 Ads 52/2009-88 del supremo

tribunale amministrativo, disapplicando le indicazioni del giudice costituzionale (in favore di

quanto statuito dallo stesso tribunale amministrativo nel caso 3 Ads 130/2008-204), avrebbe

leso il suo diritto alla protezione giudiziale, il suo diritto alla sicurezza materiale nella fase

dell’anzianità ed il suo diritto all’eguaglianza.

Di fronte all’opportunità di tornare a pronunciarsi su una vicenda in cui un utilizzo

strumentale del diritto europeo è stato finalizzato alla riduzione delle prerogative individuali e

alla sovversione delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, i giudici di Brno,

piuttosto che limitare le loro censure alle scorrettezze delle istituzioni ceche, scelgono di

coinvolgere anche la Corte di giustizia in una polemica squisitamente interna. Infatti, invece

che rivendicare per sé (escludendo quindi quella degli altri soggetti istituzionali che a vario

titolo sono intervenuti nella vicenda) la competenza a operare la scelta prospettata dal giudice

europeo, i magistrati cechi preferiscono richiamarsi ai precedenti del

Bundesverfassungsgericht e inaspettatamente dichiarano che il provvedimento europeo è ultra

vires: partendo dal discutibile presupposto che il Regolamento non offre una adeguata

copertura per l’intervento del giudice europeo, essi statuiscono che «based on the principles

explicitly stated by the Constitutional Court in judgment file no. PL. ÚS 18/09, we cannot do

otherwise than state, in connection with the effects of ECJ judgment of 22 June 2011, C-

399/09 on analogous cases, that in that case there were excesses on the part of a European

Union body, that a situation occurred in which an act by a European body exceeded the

powers that the Czech Republic transferred to the European Union under Art. 10a of the

Constitution» e quindi concludono che «this exceeded the scope of the transferred powers,

and was ultra vires». Come se ciò non bastasse, i giudici cechi sembrano promettere il futuro

annullamento del provvedimento normativo adottato (che pur non essendo immediatamente

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annullabile per ragioni procedurali è definito «obsolete» perché fondato sul presupposto di un

atto ultra vires) e paiono addirittura orientati a voler sostenere che, al di là della lesione del

principio di attribuzione, la pronuncia europea potrebbe essere considerata inapplicabile

(anche) perché contraria ad uno dei principi su cui si regge l’ordine costituzionale nazionale:

pur senza addentrarsi in un autentico identity review, la sentenza qualifica come un

“abbandono” del principio audiatur et altera pars la scelta con cui la Corte di giustizia non ha

ammesso l’informale lettera di spiegazioni attraverso la quale i giudici cechi, nel caso

Landtova, avevano inusitatamente preteso di prospettare il loro punto di vista.

Passando dalla descrizione al piano valutativo, i profili di criticità di questa decisione

sono evidenti. Infatti, anche volendo mettere in secondo piano la scelta di non interpellare (né

in questo caso, né nei precedenti) la Corte del Lussemburgo, l’applicazione dei controlimiti

non pare in questo caso sorretta da nessuna ragione tecnica: contrariamente a quanto viene

presupposto dalla decisione, i primissimi commentatori hanno correttamente evidenziato

come il Regolamento comunitario offra una solida base di competenza1. Inoltre, l’inusitata

dichiarazione di “obsolescenza” della legge mostra una volontà polemica che mal si concilia

con un giudizio. Infine, la decisione di non ammettere la lettera di spiegazioni è

processualmente inoppugnabile e, in presenza di un chiaro rifiuto delle forme codificate di

dialogo, appare difficile giustificare la permalosità con cui i giudici accolgono il rifiuto dei

loro colleghi.

Alla luce di queste considerazioni paiono legittime alcune conclusioni. In primo luogo,

questa vicenda mette in luce i limiti e le contraddizioni dell’attuale modello di relazioni tra gli

ordinamenti e testimonia la facilità con cui dichiarazioni bellicose come quelle del Lissabon

urteil, lungi dall’essere innocue, possano finire con il fornire basi di legittimità a decisioni

inaccettabili. In secondo luogo, anche a non voler drammatizzare una pronuncia che

difficilmente verrà ripresa in futuro, il fatto per cui una corte tradizionalmente considerata non

ostile all’integrazione sovranazionale assuma posizioni a dir poco estremistiche è una

testimonianza del momento di difficoltà vissuto dal processo europeo e dovrebbe comunque

rappresentare un segnale di allarme.

1 Sul punto si veda J. KOMAREK, Playing with Matches: the Czech Constitutional Court’s Ultra Vires

Revolution, in www.verfassungblog.

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Recensioni

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Rule of law – La possibilità del contenuto morale del diritto, di G.

COGLIANDRO, Giuffrè, Milano, 2012, p. 1- 434

Nella collana diretta da Guido ALPA, notoriamente dedicata a temi di Diritto privato e di

Diritto pubblico, si è aperta una nuova sezione o intersezione di filosofia del Diritto e Diritto

internazionale. Essa viene inaugurata dall’opera qui recensita, affidata ad un giovane e valente

studioso, il cui curriculum accademico e scientifico si è svolto in varie Università italiane,

anglo-americane e tedesche, come risulta dalla prefazione a firma del Direttore della collana,

p. IX-XIV. Trattasi evidentemente di uno studio non inquadrabile nel puro e semplice Diritto

della tradizione anglo-americana di common law, essendone molto più ampio l’orizzonte di

vera e propria teoria generale dell’ordinamento giuridico inteso in senso lato nelle sue

dimensioni interne ed internazionali. L’espressione rule of law, presente nell’intitolazione del

Volume, ha assunto ormai un valore simbolico di carattere quasi universale, sia in ragione

della tradizione storica moderna e post-moderna, sia dei contesti settoriali e regionali in cui si

pone. Tant’è che essa appartiene al linguaggio giuridico corrente, come modo per designare

l’antica regula iuris di origine gius-romanistica, ma altresì qualsiasi disposizione normativa

utilizzata dalle alte Corti ordinarie interne ed internazionali del mondo giuridico

contemporaneo. Nel cosiddetto colloquio o dialogo tra le Corti supreme dei vari paesi, come

la House of Lords e la Supreme Court statunitense ovvero tra le Corti europee ed americane

specializzate nella tutela dei Diritti umani e delle libertà fondamentali.

La tematica della rule of law è tutta giocata sulla intersezione con il sottotitolo del

volume, riferito ai contenuti probabilistici possibili o virtuali della stessa con riferimento al

suo contenuto “morale”. Tale espressione è da intendersi ovviamente in senso lato come

equivalente a quella di “etica”, nelle sue dimensioni civili e politiche oltre che in quelle

sociali ed economiche. Il Volume ovviamente va ben oltre i contenuti del Diritto positivo

italiano e quindi deliberatamente fuoriesce dalla prospettiva dei rapporti etico-sociali presenti

nel testo costituzionale italiano vigente (art. 29 e seguenti), come dai “rapporti di equità” cui

rinvia ugualmente il testo del codice civile come parte dell’autonomia contrattuale e dei poteri

giurisdizionali. Dalla lettura sintetica della “rule” in senso singolare o del “rule” in senso

plurale emerge la connessione con la “norma base” o “l’ipotesi fondamentale” di qualsiasi

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ordinamento giuridico, cui l’autore dedica la sua attenzione in una prospettiva metodologica e

di merito chiaramente universalistica, in saggio equilibrio tra le prospettive del monismo e del

pluralismo giuridico. Tanto gli consente di non attestarsi su posizioni estremistiche, in virtù

delle quali regole a contenuto “non morale”, potrebbero condurre a ritenere leggi dei

Parlamenti o sentenze dei giudici come prive del loro titolo di legittimazione. E quindi

deliberatamente si esclude che il contenuto non etico del diritto possa condurre

all’affermazione di un Diritto “non riconoscibile” in quanto costituito da “no rules” e da “no

law”.

Ciò premesso il ricco ed articolato contenuto dell’opera costituisce per più aspetti una

rivisitazione dell’intera tematica della giuridicità, o addirittura un vero e proprio giacimento

culturale a strati sovrapposti, dall’antico al moderno e infine l’attenzione gravita sulle visioni

generali post-moderne contemporanee. Tanto risulta dalle tre parti in cui l’opera si articola. La

prima concerne la problematica della rule of law come mezzo d’incorporazione della giustizia

nel potere e nel Diritto, e nelle qualità che esso esprime in termini di “prestigio” e di “virtù”

come base della obbligazione giuridica, parte prima, p.1 – 162. La trattazione estremamente

critica e problematica appare bene attenta ai limiti del Diritto come spazio aperto ai valori

della morale e dall’apertura dello stato di Diritto avvalori interni ed esterni rispetto ad esso.

Sulla base di tali premesse generali, collaudate da ampie discussioni sull’incrocio tra Diritto e

razionalità e sue prospettive meta-fisiche e teologiche, quasi in simbiosi di risultati tra nuovo

gius-positivismo e nuovo gius-statualismo, in un sistema di carattere mondiale fondato sulla

comunicazione operativa e dialogica tra le sue varie parti. A seguire la parte seconda sembra

costituire una sintesi felice delle conclusioni della Scuola di Oxford e Scuola di Francoforte

(cap. XIII-XVIII, p.163 – 290).

Per lo studioso e l’operatore giuridico del settore gius-pubblicistico, sia interno che

internazionale la parte più interessante è senz’altro la terza (cap. XIX-XXV, p.291 - 434).

Occupandosi dei criteri razionali propri di una rule of law ottimale o perfetta l’autore ne vede

alcune applicazioni pratiche secondo l’agenda di otto regole in discussione in otto problemi.

Fra essi particolare significato assumono gli ultimi tre capitoli rispettivamente dedicati al

Diritto internazionale e al Human rights, nonché alla sfera pubblica internazionale ed alle

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pertinenti conclusioni. Si tratta di una visione complessiva della cosiddetta società globale

nella quale il potere di produrre regole di Diritto appartiene ugualmente a soggetti storici e

consolidati, come a “nuovi attori” della governance sia governativa che giudiziaria. L’Autore

dedica grande spazio ai grandi attori dell’economia monetaria e del commercio internazionale

(FMI–WTO – Banca Mondiale) ma si occupa altresì delle nuove autorità internazionali

emergenti come i gruppi di Stati definiti in sigla G20- G8-G14. Trattasi di un sistema

complessivo a pluralità di centri di poteri, ancora in attesa di un suo equilibrio complessivo,

talora sbilanciato sul versante dei poteri tecnici finanziari e delle autorità giudiziarie di

salvaguardia dei Diritti naturali e fondamentali.

Nell’ampio apparato dottrinale è fondamentale l’analisi compiuta dall’Autore sulle

Scuole classiche del gius-naturalismo europeo del ‘6-700 e del conseguente gius-positivismo

del ‘8-900. Ragioni pratiche inducono l’Autore a prendere le mosse dalle classiche posizioni

di Tommaso HOBBES (De-Cive, 1642). Di tale testo esiste una traduzione italiana comparsa

nello stesso anno di pubblicazione dell’opera qui recensita. Facendo ponte su quattro secoli di

dottrina, la Scuola filosofica giuridica romana è ben rappresentata dal nostro autore. Facendo

seguito su opere precedenti egli si presenta come una vera e propria autorità del settore. E da

questo libro, appare giusto augurare un gran successo di pubblico e di discussione accademica

e politica, in attesa di una meritata ulteriore seconda edizione, ad esito del dibattito pubblico

già apertasi su un’opera dottrinale di tanto spessore.

Prof. Massimo Panebianco

Ordinario di Diritto internazionale

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