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Note e discussioni L’occupazione tedesca dell’Italia Enzo Collotti Esattamente a trent’anni di distanza dalla pubblicazione del nostro studio su L ’Ammini- strazione tedesca dell’Italia occupata1uno stu- dioso tedesco di una più giovane generazione riprende l’argomento con un lavoro di carat- tere generale, che estende l’orizzonte di quel nostro primo lavoro, approfondisce aspetti particolari, porta alla luce nuove fonti, pro- spetta ipotesi interpretative nuove2. L’autore di quel vecchio saggio che oggi stende queste note non può che rallegrarsi che quel primo studio trovi oggi una ripresa e una continua- zione nello studio dello storico tedesco, al di là del fatto che in esso possa trovare conferma o meno della validità, in tutto o in parte, del suo pionieristico lavoro. E chiaro infatti che a distanza di trent’anni tra i due lavori si frap- pone l’esistenza di fonti nuove, di una pro- spettiva storiografica certamente più ricca, di ipotesi interpretative e comparate fondate oggi su un più ampio spettro di possibilità, di diversi ambiti e temperie culturali. Sotto quest’ultimo profilo non è da tacere che lo studio apparso nel 1963 rispondeva a interro- gativi fortemente legati ai primi passi di una storiografia che, al di là del persistente e ne- cessario legame sentimentale con la Resisten- za, ambiva a uscire dal livello delle astrazioni e delle generalizzazioni per identificare i sog- getti reali che erano stati protagonisti delle vi- cende del biennio 1943-1945, cercando di dare una prima sistemazione unitaria alle vicende dell’occupazione tedesca attraverso la sua struttura portante; mentre l’ottica con la qua- le Klinkhammer si pone di fronte alle stesse vicende è inevitabilmente più esterna, più di- staccata, al punto da apparire talvolta anche accademica. Detto questo, che non vuole in alcun modo sminuire l’importanza del lavoro dello stori- co tedesco, ben noto per la sua partecipazio- ne a diversi convegni e dibattiti in Italia che si collocano tra i materiali preparatori della sua lunga fatica3 e che è indubbiamente tra i più informati conoscitori della pubblicistica ita- liana e dei termini del dibattito italiano4, con- verrà per prima cosa dare brevemente conto dell’impianto del suo volume. 1 Enzo Collotti, L'amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945. Studio e documenti, Milano, Lerici, 1963 (Isti- tuto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia). 2 Lutz Klinkhammer, L ’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 (edizione tedesca: Zwischen Bündnis und Besatzung. Das nationalsozialistiche Deutschland und die Republik von Salò 1943 bis 45, Tübingen, Max Niemeyer Verlag). 3 Particolarmente significativo tra questi contributi mi pare l’intervento di Klinkhammer al convegno di Belluno, Le strategie tedesche di occupazione e la popolazione civile, ora in Massimo Legnani, Ferruccio Vendramini (a cura di), Guerra guerra di liberazione guerra civile, Milano, Angeli, 1990 (Insmli). 4 Si veda la rassegna di L. Klinkhammer, Die italienische Gesellschaft 1943-1945 zwischen Widerstad und Kollaboration, “Neue Politische Literatur”, 1994, n. 3. Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

Note e discussioniquell’interesse di potere di Rahn la finzione della sopravvivenza dell’alleanza non avreb be avuto corso; ora, il problema non sta in 7 Franz Neumann, Behemoth

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Page 1: Note e discussioniquell’interesse di potere di Rahn la finzione della sopravvivenza dell’alleanza non avreb be avuto corso; ora, il problema non sta in 7 Franz Neumann, Behemoth

Note e discussioni

L’occupazione tedesca dell’Italia

Enzo Collotti

Esattamente a trent’anni di distanza dalla pubblicazione del nostro studio su L ’Ammini­strazione tedesca dell’Italia occupata1 uno stu­dioso tedesco di una più giovane generazione riprende l’argomento con un lavoro di carat­tere generale, che estende l’orizzonte di quel nostro primo lavoro, approfondisce aspetti particolari, porta alla luce nuove fonti, pro­spetta ipotesi interpretative nuove2. L’autore di quel vecchio saggio che oggi stende queste note non può che rallegrarsi che quel primo studio trovi oggi una ripresa e una continua­zione nello studio dello storico tedesco, al di là del fatto che in esso possa trovare conferma o meno della validità, in tutto o in parte, del suo pionieristico lavoro. E chiaro infatti che a distanza di trent’anni tra i due lavori si frap­pone l’esistenza di fonti nuove, di una pro­spettiva storiografica certamente più ricca, di ipotesi interpretative e comparate fondate oggi su un più ampio spettro di possibilità, di diversi ambiti e temperie culturali. Sotto quest’ultimo profilo non è da tacere che lo studio apparso nel 1963 rispondeva a interro­

gativi fortemente legati ai primi passi di una storiografia che, al di là del persistente e ne­cessario legame sentimentale con la Resisten­za, ambiva a uscire dal livello delle astrazioni e delle generalizzazioni per identificare i sog­getti reali che erano stati protagonisti delle vi­cende del biennio 1943-1945, cercando di dare una prima sistemazione unitaria alle vicende dell’occupazione tedesca attraverso la sua struttura portante; mentre l’ottica con la qua­le Klinkhammer si pone di fronte alle stesse vicende è inevitabilmente più esterna, più di­staccata, al punto da apparire talvolta anche accademica.

Detto questo, che non vuole in alcun modo sminuire l’importanza del lavoro dello stori­co tedesco, ben noto per la sua partecipazio­ne a diversi convegni e dibattiti in Italia che si collocano tra i materiali preparatori della sua lunga fatica3 e che è indubbiamente tra i più informati conoscitori della pubblicistica ita­liana e dei termini del dibattito italiano4, con­verrà per prima cosa dare brevemente conto dell’impianto del suo volume.

1 Enzo Collotti, L'amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945. Studio e documenti, Milano, Lerici, 1963 (Isti­tuto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia).2 Lutz Klinkhammer, L ’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 (edizione tedesca: Zwischen Bündnis und Besatzung. Das nationalsozialistiche Deutschland und die Republik von Salò 1943 bis 45, Tübingen, Max Niemeyer Verlag).3 Particolarmente significativo tra questi contributi mi pare l’intervento di Klinkhammer al convegno di Belluno, Le strategie tedesche di occupazione e la popolazione civile, ora in Massimo Legnani, Ferruccio Vendramini (a cura di), Guerra guerra di liberazione guerra civile, Milano, Angeli, 1990 (Insmli).4 Si veda la rassegna di L. Klinkhammer, Die italienische Gesellschaft 1943-1945 zwischen Widerstad und Kollaboration, “Neue Politische Literatur”, 1994, n. 3.

Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

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In nove densi capitoli, frutto dello spoglio di un ingente materiale conservato presso gli archivi politici e militari tedeschi, presso l’ar­chivio centrale dello Stato, l’archivio del mi­nistero degli Esteri e l’archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’esercito in Roma, presso gli archivi statunitensi e presso minori sedi archivistico-documentarie, Klin- khammer ricostruisce le grandi linee, la strut­tura e le logiche della politica di occupazione dell’Italia, una politica che ebbe la sua speci­ficità, a non dir altro, nel tentativo di far rivi­vere dopo l’8 settembre del 1943 la finzione dell’alleanza del Patto d’acciaio e che costrin­se l’Italia, secondo il paradosso analizzato nel capitolo conclusivo, nella anomala condi­zione di “alleato occupato”.

Klinkhammer studia con dovizia di parti­colari i progetti di occupazione dell’Italia al verificarsi della secessione dalla guerra del­l’Asse, le possibili alternative che si ponevano al Reich (“Soluzione politica o militare?”) per fronteggiare la rottura dell’alleanza, l’insedia­mento degli organismi tedeschi in Italia nella loro molteplicità, il ruolo centrale del “pleni­potenziario del Reich”, ambasciatore Rahn, gli obiettivi prioritari dell’occupazione (reclu­tamento di manodopera e sfruttamento delle risorse economiche), il ruolo della Repubblica di Salò, il problema della repressione antipar­tigiana e delle rappresaglie contro la popola­zione civile, le pratiche di reclutamento coat­to, di deportazione (di lavoratori forzati, di ci­vili, di ebrei) e infine di sterminio.

Klinkhammer non trascura nessuno dei momenti essenziali delle vicende degli anni presi in considerazione, a proposito delle quali vanno ricordati, tra i contributi più re­centi di studiosi tedeschi, anche il lavoro di

Schreiber sugli internati militari catturati dai tedeschi al momento dell’armistizio, an­teriore alla pubblicazione del libro di Klink­hammer5, e il lavoro più recente di Andrae sulle stragi della Wehrmacht in Italia, che re­ca numerose conferme alla ricostruzione di Klinkhammer ma scioglie anche, a sfavore della Wehrmacht, talune incertezze interpre­tative ancora persistenti nel suo studio6.

Mi pare che il libro di Klinkhammer sia at­traversato da due motivi fondamentali: il pri­mo è rappresentanto dall’analisi della strut­tura del potere all’interno del regime nazista a partire dalla sua fase decisionale e del modo in cui essa si riflesse nella concreta situazione dell’occupazione dell’Italia. Il secondo è co­stituito dall’intersezione, dall’interferenza e dal continuo intrecciarsi della politica tede­sca con le iniziative della Repubblica di Salò, che risulta inevitabilmente una delle protago- niste del libro, che propone con forza la que­stione del collaborazionismo della Rsi, una circostanza che non può non farci sottolinea­re il deplorevole ritardo nel quale si trovano gli studi italiani, che ancora non sono riusciti a darci una compiuta ricostruzione dell’estre­ma incarnazione del fascismo storico.

Il primo motivo segnalato — la struttura di potere del sistema d’occupazione — mira a restituire, nell’ottica dell’autore, una cor­retta metodologia di approccio alla comples­sa fenomenologia, fatta di sovrapposizioni e giustapposizioni, degli organismi che si af­fiancarono e spesso reciprocamente si intral­ciarono nell’iniziativa che ciascuno di essi sviluppava nella parte di gestione dell’Italia occupata che specificamente gli competeva. Contro ogni possibile interpretazione del po­tere nazista come di un tutto monolitico, se-

5 Gerhard Schreiber, / militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1945-1945. Traditi-Disprez- zali-Dimenlicati, Roma, Sialo Maggiore dell’esercilo-UITicio storico, 1992 (edizione originale Die italienischen Militär- Internierten im deutschen Machtbereich 1945-1945. l'errateti. Verachtet. Vergessen, München, R. Oldenbourg Verlag, 1990).6 Friedrich Andrae. Auch gegen Frauen und Kinder. Der Krieg der deutschen Wehrmacht gegen die Zirilheroelkerung in Italien 1945-1945, München-Zürich, Piper, 1995.

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condo una linea di pensiero che si può fare ri­salire al lontano Behemoth di Neumann7, Klinkhammer si richiama esplicitamente al­l’interpretazione policratica del sistema nazi­sta, facendo dell’occupazione dell’Italia nul- l’altro che un terreno di verifica di questa ipotesi. Per le stesse ragioni Klinkhammer critica la storiografia italiana di avere dato viceversa una rappresentazione monolitica dell’occupazione tedesca, funzionale, per così dire, alla visione in bianco e nero delle parti in conflitto. Benché dalla valutazione che egli formula nei confronti del mio lavoro, pur non condividendone interamente l’imposta­zione, mi senta escluso da questo tipo di rilie­vi, mi siano consentite comunque almeno due precisazioni: anzitutto mi pare di avere espli­citamente sottolineato già nel mio libro del 1963 i conflitti esistenti tra i diversi organismi tedeschi, sia come conflitti di competenza, sia come conflitti di orientamento. Mi basti rin­viare almeno a due circostanze: in primo luo­go, dove tratto dell’insediamento dell’ammi- nistrazione militare e della fissazione delle ge­rarchie e delle competenze tra i diversi uffici (capitolo quarto); in secondo luogo a propo­sito dello specifico comportamento del gene­rale Leyers, delegato di Speer, sul problema degli scioperi operai e della opzione da lui so­stenuta a favore di una migliore politica sala­riale per prevenire gli scioperi o per non com­promettere gli interessi dell’economia di guerra contro la politica più inflessibile soste­nuta da altri esponenti dell’amministrazione tedesca (capitolo sesto, pp. 199-201). Ele­menti che non potevano non emergere da una corretta lettura delle fonti. Se poi mi si imputasse di non avere formalizzato questi contrasti nell’ipotesi policratica, inviterei semplicemente a storicizzare il problema: il mio libro fu uno dei primissimi lavori sulla politica d’occupazione tedesca in Europa, li­mitate erano ancora anche le possibilità di la­

vorare in campo comparato ma soprattutto lo stesso sviluppo dell’interpretazione del na­zionalsocialismo e della storia comparata dei fascismi era ben lungi dallo stadio di maturi­tà e di formalizzazione odierno. Con questo non mi voglio sottrarre ad una valutazione dell’uso che di queste categorie fa Klinkham­mer. Su questo devo essere franco: nonostan­te l’intelligenza e la ricchezza problematica del suo lavoro, ho l’impressione che ci sia una sorta di rigidità e di puntigliosità accade­mica nell’esibizione della griglia interpretati­va, al di là della sua riconosciuta utilità come strumento di guida ai fini della ricostruzione della struttura dell’occupazione e degli esiti della stessa.

Soprattutto ho l’impressione che la chiave interpretativa venga usata con una certa for­zatura, più calata sulla realtà della vicenda italiana che dedotta dalla sua specificità. I conflitti di interesse, le rivalità tra gruppi di potere, gli sconfinamenti di competenze sono tutte circostanze reali, che vanno sottolineate e di cui bisogna tenere conto; ma non bisogna capovolgere il senso delle cose: non sono que­sti i fattori che determinano gli obiettivi della politica tedesca (nel caso specifico come in al­tri casi). Il rischio di radicalizzare l’identifica­zione di questi fattori con gli obiettivi della politica potrebbe portare al risultato di nega­re 1’esistenza stessa di una politica e di dissol­verne la sostanza nella frantumazione degli interessi particolari. Per fare un esempio, a p. 100, sintetizzando un pensiero già espresso in precedenza, si afferma che “il ministero degli Esteri era fondamentalmente interessa­to a tenere in piedi la finzione dell’alleato ita­liano, perché ad essa era legato il perpetuarsi del potere del plenipontenziario del Reich”. Sembrerebbe di dover dedurre che senza quell’interesse di potere di Rahn la finzione della sopravvivenza dell’alleanza non avreb­be avuto corso; ora, il problema non sta in

7 Franz Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Feltrinelli, 1977 (ed. orig. New York, Oxford University Press, 1942).

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questi termini: la scelta di fare sopravvivere la finzione dell’alleanza aveva un carattere pregiudiziale e ben più generale, era una scel­ta politica di Hitler, non era un fatto stru­mentale; strumentali erano solo le modalità che Ribbentrop e Rahn potevano scegliere per rafforzare in questo contesto le proprie prerogative. Sembrano sfumature di linguag­gio, ma in realtà non lo sono. La posizione di Rahn, cui Klinkhammer dedica un apposito capitolo, il quarto, non fu forte solo perché egli seppe darsi un certo livello di autonomia operativa o perché era in grado di mobilitare una robusta dose di ambizioni, lo fu soprat­tutto perché egli era il depositario e il sosteni­tore di una alternativa, la strategia della col­laborazione con la Repubblica sociale italia­na, che meglio sembrava rispondere agli obiettivi politici e propagandistici del Terzo Reich di trarre il massimo profitto dalla si­tuazione italiana con il minimo dispendio di forze. Se il quartier generale di Hitler non avesse espresso e condiviso questa linea il po­tere di Rahn da solo non sarebbe stato suffi­ciente a imporla.

Cosi come la presenza della Repubblica so­ciale italiana rappresentò, a suo modo e in ter­mini contraddittori, un limite allo strapotere dei tedeschi, non c’è motivo di dubitare che in teoria le rivalità tra i diversi poteri concor­renti producessero falle e disfunzioni nel mec­canismo dell’occupazione. Ma di fatto, è pro­prio vero che l’esito delle rivalità interne tra gli organi tedeschi produsse sempre e dappertut­to un allentamento della repressione sulla si­tuazione del paese occupato, come Klinkham­mer ha tenuto a ripetere anche in recenti inter­viste di stampa8? Ho qualche dubbio che si possa sostenere sino in fondo una tesi del ge­nere; mi pare che quanto l’autore scrive nel ca­pitolo ottavo a proposito de\Yescalation della violenza e della repressione antipartigiana va­

da in una direzione opposta: mi pare addirit­tura un caso tipico in cui proprio dall’autono­mia dei singoli centri di potere derivava la sel­vaggia competizione destinata a sfociare in una radicalizzazione che andava spesso anche al di là delle intenzioni originarie. A parte il fatto che la relativa moderazione attribuita al­la Wehrmacht rispetto alla violenza repressiva di SS e polizia (p. 334) risulta alla fine ridi­mensionata, se non interamente annullata, da­gli ordini di Kesselring o di von Zangen (p. 357).

Un altro importante settore di verifica dei risultati dell’occupazione è offerto dallo sfruttamento dell’economia e dal recluta­mento della manodopera. Ed è proprio sotto questo profilo — mi pare di capire (cfr. p. 17) — che Klinkhammer constata la maggiore divergenza rispetto ai risultati del mio lavo­ro: laddove io offrirei la visione dell’apparato tedesco come di una perfetta macchina pre­datrice, egli constata viceversa quanto gli ap­parati tedeschi siano rimasti al di sotto delle loro potenzialità di saccheggio, sottolineando lo scarto tra le intenzioni (che io enfatizzerei) e le realizzazioni effettive. Peraltro i risultati che Klinkhammer offre del fallimento dell’opera di reclutamento di lavoratori realizzata dagli uffici di Sauckel confermano, se non nelle ci­fre, certo nella sostanza, i dati da noi a suo tempo reperiti (pp. 176-177): quindi anche per me la perfetta macchina di rapina era mancata al suo compito. Anche qui però quel­lo che lascia perplessi è il fatto di riportare l’e­sito complessivo di questo fallimentare bilan­cio essenzialmente ai conflitti interni agli or­gani tedeschi: è vero che il generale Leyers co­me rappresentante di Speer o le stesse autorità militari non condividevano il metodo delle razzie praticato da Sauckel, per ragioni di op­portunità o anche solo per impraticabilità tec­nica ed effettiva. Ma quale parte va attribuita

8 Così per esempio nell’intervista a cura di A. Di Lellis ne “Il Messaggero” del 7 dicembre 1993. Naturalmente, va da sé che il titolo con il quale il quotidiano romano presentava il testo (Quando la rivalità inceppa la repressione), titolo che semplifica ed estremizza la sostanza del discorso di Klinkhammer, non è a lui imputabile.

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in questo fallimento all’atteggiamento della popolazione, alla inefficienza, all’indolenza o alla scarsa collaborazione degli stessi uffici della Rsi? Klinkhammer ovviamente è ben consapevole dell’esistenza di questi problemi, ma ancora una volta tende a mio avviso a ri­solverli dando una risposta in fin dei conti monocausale, come se l’apparato tedesco, ol­tre ad essere caratterizzato dalla presenza di spinte e di interessi contrastanti, fosse anche, paradossalmente, autarchico, in tal modo sot­tovalutando la spinta della popolazione a sot­trarsi al reclutamento per il lavoro per conto dei tedeschi.

Un analogo rischio di astrattezza e di uni­lateralità ritorna nel capitolo sesto a proposi­to delle depredazioni nell’industria e della re­pressione degli scioperi operai. Klinkham­mer valuta che la reazione tedesca agli scio­peri del marzo 1944 fu nel complesso “mode­rata”, soprattutto in rapporto alla capacità di colpire dell’apparato tedesco e al panora­ma comparato europeo, al rapporto tra mi­nacce e rappresaglie effettivamente praticate (pp. 224-225). Le sue considerazioni possono anche essere accolte nel contesto generale. Resta sempre il fatto che la sua ricostruzione tiene troppo poco conto dei protagonisti di­retti della vicenda, ossia degli operai, che do­vevano essere i destinatari della rappresaglia. Ora, soprattutto in frangenti come quelli di cui si tratta (non stiamo parlando di un nor­male seppur aspro conflitto di lavoro!), l’in­treccio tra l’agire della struttura dell’occupa­zione e la società su cui essa scaricava il suo impatto costituisce un nodo indissolubile, che condizionava la stessa capacità di reazio­ne dei tedeschi, per cui solo da un simile nes­so può scaturire un giudizio che altrimenti ri­schia di apparire freddo, calato dall’esterno, scientifico quanto si vuole ma anche privo

di quella drammaticità che fa parte integran­te della storia e di questa storia in particolare. Accettiamo volentieri che i giovani storici te­deschi correggano quelli che considerano i nostri eccessi emotivi e verifichino dati e sta­tistiche alla luce delle fonti più aggiornate, ma essi farebbero bene anche a non dimenti­care che si possono correggere le cifre e resti­tuire una dimensione più realistica ai fatti in sè senza che necessariamente ciò debba modi­ficare il giudizio sul contesto nel quale essi si verificarono.

Una delle parti più convincenti del libro mi pare quella relativa ai rapporti tra la struttu­ra dell’occupazione e la Repubblica sociale italiana, che ha incontrato per altri versi la critica di qualche recensore italiano9. Si trat­ta, in altri termini, della valutazione del colla­borazionismo della Repubblica di Salò, a proposito del quale anche su questa rivista sono state espresse riserve in occasione del convegno di Brescia sul collaborazionismo, muovendo forse dall’equivoco di ritenere che anche il sottoscritto prospettasse la con­siderazione dell’esperienza di Salò unicamen­te sotto il profilo del collaborazionismo e non come uno dei suoi volti10. Questa problema­tica, che è oggetto specifico del capitolo setti­mo (Strategie di mobilitazione: la “rinascita” del fascismo), in realtà percorre tutto il libro, dalle premesse alle conclusioni. E non poteva essere diversamente, sia che si consideri la formula dell’“alleato occupato” come una delle caratteristiche specifiche dell’occupa­zione dell’Italia nel rapporto comparativo con le altre situazioni dell’occupazione in Eu­ropa, sia che si analizzi “il condominio italo- tedesco” (p. 14) e le sue ripercussioni sulla politica dell’occupazione. Per la verità, anche la formula del “condominio italo-tedesco” appare fuori misura, senz’altro forzata, alla

9 II riferimento è alla recensione di Mario Giovana, in “Il Presente e la storia”, n. 45, giugno 1994, in particolare alle pp. 278 sg.10 II riferimento è alla nota di M. Legnani, Fonti e storiografìa del collaborazionismo, “Italia contemporanea”, 1992, pp. 146-148.

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luce delle conclusioni cui perviene lo stesso Klinkhammer; un altro caso in cui sorge l’im- pressione che l’autore voglia polemicamente contrapporsi alla storiografia italiana consi­derata eccessivamente politicizzata o troppo schiacciata suH’immagine del monolitismo del sistema d’occupazione.

In effetti, la valutazione del collaborazio­nismo della Rsi tra le carte della linea politica rappresentata da Rahn è sicuramente uno dei parametri per valutare la misura di realizza­bilità di questa stessa “soluzione politica”; a chi volesse obiettare che non si può ridurre la Rsi alla sola dimensione del collaborazio­nismo la risposta sarebbe anche troppo ov­via, sfonderebbe una porta aperta. Ma non si può nello stesso tempo polemizzare contro il ruolo collaborazionista della Rsi e rivendi­care l’antagonismo contro i fascisti nella “guerra civile”, quasi a dimenticare che il contenitore nel quale agivano i fascisti era delimitato dalla presenza dell’occupazione tedesca. Tornando sui temi classici della Rsi, che per primi erano stati affrontati da Deakin11, Klinkhammer registra puntual­mente i momenti conflittuali con l’autorità tedesca — la “socializzazione”, la “pacifica­zione”, la formazione di un nuovo esercito, il problema degli internati militari e il dilem­ma di trasformarli in lavoratori o in nuovi soldati — che si rivelarono sistematicamente altrettanti momenti in cui le autorità tede­sche poterono fare prevalere la loro prospet­tiva e i loro interessi, con buona pace dell’i­dea del “condominio” . Ma tutto questo non esclude né che la Rsi si giovasse di una sua base di “consenso”, per limitato che fos­se, né che essa fornisse un supporto ausiliario alle forze dell’occupazione, proprio e soprat­tutto nella lotta contro i partigiani.

Nel complesso il libro rappresenta uno sforzo di lavoro cospicuo e un contributo considerevole allo studio dell’occupazione te­desca, cui non si può certo rimproverare il fatto di procedere talora per campionatura regionale e territoriale (sicuramente nel caso del capitolo ottavo dedicato alla lotta contro i partigiani), come appare inevitabile. In que­sto caso non va rimproverato a Klinkham­mer di non avere affrontato sul piano genera­le il problema della controguerriglia, di quel­la che i tedeschi chiamavano la Bandenbe- kaempfung, ma si dovrebbe solo auspicare di potere presto disporre di un lavoro genera­le come quello avviato felicemente da Carlo Gentile con la sua dissertazione11 12.

Un’ultima osservazione critica muoverei a Klinkhammer, viceversa, per quanto riguar­da l’esclusione totale dalla sua ricerca delle cosiddette Zone d’operazione, 1’Alpenvorland e 1’Adriatisches Kuestenland. So benissimo che una trattazione specifica della particolare politica che fu attuata in queste aree avrebbe comportato la necessità di avviare non una ma altre due ricerche particolari; e tuttavia, proprio alla luce dell’impostazione che l’au­tore ha dato alla sua ricerca, non poteva mancare un cenno più approfondito alla vi­cenda delle due Zone d’operazione. Ciò in primo luogo con riferimento alla dimensione comparata della ricerca, che avrebbe potuto operare un primo livello di comparazione in­terna nell’ambito degli stessi territori che pri­ma dell’8 settembre erano stati accomunati sotto la sovranità italiana e in cui fra l’altro, proprio nel momento costitutivo delle Zone d’operazione, particolarmente forte fu la pressione dei Gauleiter della Ostmark. In se­condo luogo, con riferimento diretto alla Re­pubblica sociale, alla cui giurisdizione quei

11 Frederick William Deakin, The Brutal Friendship. Mussolini, Hitler and thè Fall of Italian Fascism, London, Weiden- feld and Nickson, 1962 (tradotto da Einaudi nel 1963 con il titolo Storia della Repubblica di Salò; nel 1990 è stato ri­stampato come La brutale amicizia: Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano).12 Cfr. Carlo Gentile, Der Krieg gegen die Partisanen in Italien 1943-1945, Magisterarbeit discusso presso l’Università di Colonia con il professor Wolfgang Schieder nel 1993.

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territori furono sottratti con un gesto che contribuirebbe fortemente a ridimensionare ulteriormente l’ipotesi del “condominio” . In terzo luogo, dal punto di vista della condotta stessa della lotta contro i partigiani, se si con­sidera che nell’area del Litorale Adriatico fu esplicitamente prevista l’estensione dei meto­di di guerra adottati per lo spazio dell’est eu­ropeo non come fatto eccezionale ma come condotta sistematica, con un’ulteriore possi­bilità di comparazione dei livelli di distrutti­vità che dall’est all’ovest tendevano ad inve­

stire anche lo spazio dell’Italia. Infine, se è vero come scrive lo stesso Klinkhammer che i territori occupati servivano da terreno di sperimentazione per la loro futura colloca­zione nel Nuovo ordine europeo (p. 9), la sor­te delle Zone d’operazione, anche indipen­dentemente dalla loro destinazione definiti­va, non pare estranea alla considerazione del ruolo subalterno che l’Italia era destinata ad assumere nella prospettiva del Nuovo or­dine europeo.

Enzo Collotti

STUDI STORICISommario del n. 1, 1995

La storiografia spagnola dal secolo d’oro alla rivoluzione liberale

Giovanni Muto, Anna Maria Rao, Presentazione; Jean Frédéric Schaub, La penisola iberica nei secoli XVI e XVII; la questione dello Stato; Bartolomé Yun Casalina, Cambiamento e continuità. La Castiglia nell'impero durante il secolo d'oro; Lluis Roura Aulinas, Riformismo contro rivoluzione? Verso la fine di un falso dilemma nella storiografia spagnola sulXVIII secolo; Irene Castells Olivan, La rivoluzione liberale spagnola nel recente dibattito storiografico.

Opinioni e dibattiti

Anna Maria Rao, La rivoluzione francese e la scoperta della politica; Valerio Castronovo, Lo sviluppo economico in Italia nel cinquantennio repubblicano. Problemi aperti.

Il presente come storiaFrancesco Barbagallo, Giovanni Bruno, Problemi dello sviluppo e ceto politico nel Mezzogiorno di fine Novecento.

RicercheAldo A. Settia, Assetto del popolamento rurale e coppie toponimiche nell'Italia padana (secoli IX-XIV); Alberto Rinaldi, Alcune considerazioni sulla storia del paesaggio agrario emiliano.

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SPAGNA CONTEMPORANEASommario del n. 7, 1995

Studi e ricercheJusto G. Beramendi, Xosé M. Núñez Seixas, N a c io n a lis m o g a l le g o y s o c ie d a d : u n a in te rp re ta c ió n g e n e ra i (1 8 4 0 -1 9 9 4 )\ Francesco Tamburini, L ’in d ip e n d e n z a d i C u b a n e lla c o s c ie n z a d e l l ” e s tre m a s in is t ra ' i ta lia n a (1 8 9 5 -1 8 9 8 ); Silvia Monti, T e a tro e g u e rra c iv ile . I l l in g u a g g io d ra m m a t ic o De Urgencia; Daniele Pasquinuc- ci, L e s c u o le d i fo rm a z io n e d e i q u a d r i d e l p a r t i to c o m u n is ta s p a g n o lo d u ra n te la g u e rra c iv ile .

IntervistaO re s te M a c r ì tra F ire n z e v o c ia n ia e d e rm e t ic a e is p a n is m o ita lia n o , a c u ra d i Ve­ro n ic a O ra z i

Rassegne e noteErmanno Caldera, L a s o c ie tà s p a g n o la fra i l 181 0 e i l 1 8 2 0 v is ta d a l p a lc o s c e n i­co-, Càndida Calvo Vicente, E l c o n c e p to d e c o n s e n s o y s u a p l ic a c ió n a l e s tu d io d e l ré g im e n f ra n q u is ta ; Afonso Botti, U n “ c a s o ” s to r io g ra f ic o : la Breve historia de España.

AltrispanismiAlexandra Wilhelmsen, Regina A. Mezei, E s p a ñ a c o n te m p o rá n e a e n lo s E s ta d o s U n id o s y C a n a d á : la h is to r io g ra fía re c ie n te .

Fondi e Fonti

Vittorio Scotti Douglas, L 'A rc h iv io G e n e ra l d e S im a n c a s , fo n te m is c o n o s c u ita p e r la s to r ia d e l re g n o d i G iu s e p p e B o n a p a r te \ Alfonso Bullón de Mendosa, D o c u ­m e n to s p a ra e l e s tu d io d e la s ú lt im a s C o r te s d e l A n t ig u o R é g im e n (1 8 3 3 ): c i r c u ­la r d e l M in is tro d e la g u e rra y re s p u e s ta d e l M a rq u é s d e la s A m a r il la s .

Recensioni

II p ro b le m a s to r ic o d e llo S ta to n a z io n a le in I ta lia e S p a g n a (M. Mugnaini); E l m o ­v im ie n to c a tó lic o e n M a llo rc a (F. Montero).

Schede

di A. Botti, L. Casali, N. Del Corno, M. Mugnaini, D. Saresella, E. Scardovi, C. Si- perman.

Cuestión de detalle (A. Botti)

Notiziario

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L ’affaire Dreyfus nella recente storiografia francese

Francesco Germinario

Un capitolo delle “guerres franco-françaises”

L’interesse degli storici per Y affaire Dreyfus ri­mane sempre molto elevato. Recentemente una studiosa dell’ebraismo francese ha stabili­to, senza alcuna pretesa di esaustività, che, nel solo ventennio 1973-1993, la bibliografia in­ternazionale sull’argomento si è arricchita di quasi duecento pubblicazioni, cinquanta delle quali uscite in Francia1. Si tratta di una biblio­grafia, dunque, che, fiorente già ai tempi in cui Y affaire si sviluppò2, è ormai difficile da pa­

droneggiare, anche per gli specialisti dell’argo­mento. Accanto alle numerose ricerche pro­dotte dagli storici è inoltre da aggiungere la tuttora sempre viva pubblicistica antidreyfu- sarda — certamente marginale e di nessun va­lore scientifico e storiografico — prodotta dai circoli della destra radicale francese3.

La ricorrenza nel 1994 del centenario delle origini de\Yaffaire non poteva che provocare una nuova stagione di ricerche, associata alla ristampa dei saggi dei dreyfusardi più in vista, da Zola a Blum a Lazare e via dicendo, provo­cando una “course commemorative”4 che ha

1 Monique Lévy, Vingt ans d’études historiques sur l ’Affaire. Aperçu bibliographique 1973-1993, “Archives juives”, 1994, n. 27, p. 88; ma si veda anche id., Bibliographie des travaux historiques concernant l'Affaire Dreyfus parus de 1973 à fé­vrier 1994, “Cahiers de la Commission française des archives juives”, Nouvelle série 1, ciclostilato a cura della Commis­sion française des Archives juives.2 Laurent Gervereau et Christophe Prochasson, Une nouvelle histoire de l’Affaire est-elle possible?, in Id. (a cura di), L’af­faire Dreyfus et le tournant du siècle (1894-1910), Paris, Musée d’histoire contemporaine-Bdic, 1994, p. 8).3 Risulta ancora diffuso nei circuiti del radicalismo di destra francese il volume di Henriette Dardenne, Lumières sur l ’Affaire Dreyfus, Paris, Nouvelle Editions Latines, 1964. La Dardenne, figlia di Godefroy Cavaignac, uno dei ministri della Guerra ai tempi delV affaire, nonché acceso antidreyfusardo, è autrice anche di altri nove volumi manoscritti sul­l’argomento, depositati alla Bibliothèque Nationale di Parigi, assieme alle carte del padre (Les Editeurs, Avant-propos des Editeurs, ivi, p. 7). Infine, Jean Roget, L'Affaire Dreyfus. Ce que tout français doit en connaître, Paris, Editions du Trident, s.d. (1994), ristampa anastatica dell’ed. Librairie de l’Action Française, Paris, 1925; nel 1990, infine, alla festa del Front national erano regolarmente vendute copie del libro di André Figueras, Ce canaille de D... reyfus, (cfr. Marc Knobel, Il y a toujours des antidreyfusards!, “L’Histoire”, numero speciale dedicato a L ’affaire Dreyfus vérités et men­songes, 1994, n. 173, p. 118).4 Cosi Christophe Prochasson, Une commémoration discrète: quelques livres pour un Centénaire, “Mil neuf cent”, 1994, n. 12, p. 225. Per le ristampe delle memorie di alcuni dei protagonisti del fronte dreyfusardo, si veda almeno Léon Blum, Souvenirs sur l ’Affaire (nuova ed. a cura di Pascal Ory), Paris, Gallimard, 1981, nuova ed. 1994; Alfred Dreyfus, Cinq années de ma vie, con una Préface di Pierre Vidal-Naquet e una Postface di Jean-Louis Lévy, Paris, La Découverte, 1994; Daniel Halévy, Regards sur l ’affaire Dreyfus, a cura di Jean-Pierre Halévy, Paris, Failois, 1994; Octave Mirbeau, L ’affaire Dreyfus, Paris, Séguier, 1994; Pierre-Victor Stock, L'affaire Dreyfus. Mémorandum d’un éditeur, Paris, Stock, 1994; Emile Zola, J ’accuse, Paris, Mille et un nuit, 1994; Id., L ’Affaire Dreyfus: la vérité en marche, Paris, Imprimerie Nationale éditions, 1994. Per quanto concerne altri contributi storiografici di rilievo, oltre alla bibliografia citata più avanti, sono da segnalare anche il ponderoso Jean-Denis Bredin, L ’affaire, Paris, Julliard, 1985, nuova edizione rivedu-

Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

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supplito all’equivoca decisione delle autorità politiche francesi di escludere Xaffaire da qualsiasi commemorazione ufficiale. La quantità di titoli pubblicati ha reso evidente come diversi aspetti connessi alXaffaire Dreyfus siano ancora da sottoporre al vaglio degli storici5.

Eppure appare indubbio come la persisten­za di quest’interesse — ben oltre le canoniche scadenze temporali — sia da riconnettere alla situazione che caratterizza da alcuni anni la storiografia contemporaneistica francese, nel­la fattispecie quella interessata alla storia della cultura e dei movimenti di estrema destra. In­fatti, si tratta di una situazione contrassegnata da una vivacità di studi e di ricerche concretiz­zatasi in numerose pubblicazioni, alcune delle quali di qualità storiografica notevole, desti­nata a segnare anche il futuro degli studi sto­rici6. Probabilmente, allo stato attuale la sto­riografia francese sull’estrema destra è tra le più attrezzate a livello intemazionale, una ve­ra e propria tappa obbligata per tutti coloro che vogliano cimentarsi con la storia dell’e­strema destra dell’ultimo secolo.

Non è questa la sede per un’analisi minu­ziosa dei motivi che hanno originato questa vivacità di studi. Richiamiamo tuttavia bre­vemente due aspetti della questione. Il primo

è che alla prima generazione di storici france­si dell’estrema destra e del nazionalismo (Gi- rardet e Rémond)7, padri fondatori della ri­cerca sulla destra, tra gli anni settanta e ot­tanta si è aggiunta una generazione di storici e politologi (Birnbaum, Milza, Berstein, Wi- nock, Taguieff, Rioux, Rousso, Sirinelli, Vi­gne, il compianto Nguyen), alcuni dei quali — è il caso di Taguieff — conosciuti anche in Italia, autori di ricerche fondamentali sul fascismo francese, il nazionalismo, l’antise­mitismo ecc. Un caso abbastanza raro, ma indicativo sia dell’interesse suscitato dall’ar­gomento, sia della felice situazione degli stu­di, è la nutrita presenza di studiosi stranieri, come Marrus, Paxton, Burrin, Soucy; su tut­ti, poi, Eugen Weber, uno dei decani degli studi sul nazionalismo francese, autore della prima e non ancora superata storia dellMc- tion Franpaise%, e Zeev Sternhell, le cui tesi storiografiche sulla destra francese tra il bou- langismo e gli anni trenta hanno provocato un dibattito internazionale ancora vivo9.

Il secondo aspetto concerne l’oggetto della ricerca e spesso è stato sottovalutato da que­gli storici che hanno richiamato l’attenzione sull’esistenza di un fascismo francese. Proba­bilmente l’interesse storiografico verso l’e­strema destra francese si spiega col fatto

ta, Fayard-Julliard, 1993; E. Cham, L ’affaire Dreyfus: histoire, politique, société, Paris, Lgf, 1994; Vincent Duclert, L'af­faire Dreyfus, Paris, La Découverte, 1994; nonché l’utilissimo Michel Drouin (a cura di), L’affaire Dreyfus de A à Z, Paris, Flammarion, 1994. Di nessuna utilità, ai fini del nostro discorso, Jean Doise, Un secret bien gardé. Histoire mi­litaire de l’affaire Dreyfus, Paris, Seuil, 1994.5 Laurent Gervereau, Christophe Prochasson (a cura di), Une nuovelle histoire de l ’Affaire est-elle possible?, in Id. (a cura di), L’affaire Dreyfus et le tournant du siècle (1894-1910), cit. p. 8.6 Si veda per tutti Jean-François Sirinelli, Eric Vigné, Histoire des droites en France, 3 voli., Paris, Gallimard, 1993; il volume postumo di Victor Nguyen, Aux origines de l'Action Française. Intelligence et politique vers 1900, Paris, Fayard, 1991, destinato a rimanere una pietra miliare per quanto riguarda le biografie di Maurras; Pierre Birnbaum, "La France aux Français". Histoire des haines nationalistes, Paris, Seuil, 1993, un’acuta rilettura di alcuni aspetti della cultura na­zionalista francese.7 René Rémond, La Droite en France, Paris, I ed. Aubier-Montaigne, 1954, IV ed., 1982 (trad. italiana, Milano, Mursia, 1970, condotta sulla III ed. francese); Raoul Girardet, Le nationalisme français. Anthologie 1871-1914, nuova edizione, Paris, Seuil, 1983, con importanti Indications bibliographiques. Perspectives de recherche et essais d'interpretations, pp. 271-276.8 Eugen Weber, L'Action Française, Paris, Fayard, 1985.9 Per una ricostruzione del dibattito su Sternhell, si veda da ultimo il nostro Fascisme et idéologie fasciste. Problèmes historiographiques et méthodologiques dans le modèle de Zeev Sternhell, “Revue française d’histoire des idées politiques”, 1995, n. 1.

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che la Francia ha visto la presenza di diverse soluzioni di estrema destra.

Non essendosi mai fatta Stato — tranne che negli anni di Vichy —, rimasta sempre, quale cultura politica di opposizione, all’in- terno del panorama dell’estremismo di destra europeo, quello francese si è qualificato per il suo pluralismo, ossia per la presenza di più ipotesi politico-istituzionali. Che, dalV affaire Dreyfus al Front national degli anni ottan­ta-novanta, nelle estreme destre che si sono via via avvicendate nello scacchiere politico esagonale ci siano evidenti fili rossi a livello teorico-politico, è un dato individuato dalla più recente ricerca storiografica10 11.

Non vi è dubbio però che, mentre nelle na­zioni che hanno visto la formazione di regimi fascisti, questi ultimi hanno monopolizzato l’universo ideologico, pesando notevolmente anche nelle vicende politiche successive dell’e­stremismo di destra, in Francia lungo l’arco di poco più di un sessantennio, fra il boulangi- smo e Vichy, si sono avvicendati o hanno con­vissuto ipotesi politiche diverse e talvolta an­che escludentesi l’un l’altra, come il monarchi­smo di Maurras e il plebiscitarismo di Derou- lède, il conservatorismo repubblicano di Bar- rès e le richieste di un “Roi du TravaiP’ del gio­vane Valois, il variegato mondo delle leghe fa- scisteggianti degli anni trenta e il tradizionali­smo pétainista. Anche nell’ultimo periodo, co­me hanno dimostrato i risultati elettorali del primo turno delle presidenziali, il Front natio­nal di Le Pen, pur essendo di gran lunga il maggior collettore di voti dell’estrema destra, non gode ancora della posizione di monopolio esclusivo — com’era stato per il Msi in Italia, lungo quarant’anni — del mercato elettorale di riferimento, dovendo scontare la piccola ma fastidiosa concorrenza del vandeano e tra­

dizionalista Philippe de Villiers. È l’ultima ri­prova di come in Francia vi siano modi diversi per collocarsi all’estrema destra.

Il concetto storiografico fondamentale at­torno a cui hanno ruotato quasi tutte le ricer­che sull’estrema destra francese è quello di “guerres franco-françaises” ' 1, ossia la con­vinzione che la storia della Francia a partire dalla rottura rivoluzionaria dell’Ottantanove sia leggibile come uno scontro permanente fra una cultura che accetta il razionalismo, la democrazia politica, i diritti dell’uomo e l’egualitarismo e un’altra, quella dell’estrema destra, appunto, organicista, irrazionalista, xenofoba e antisemita, fondata sul senso del­la comunità (la “terre et les morts” di Barrés), critica della modernizzazione e dell’indu­strialismo, reinterpretati quali segnali di una irrimediabile decadenza della nazione.

De la Révolution française à Vichy, l ’histoire de la France moderne peut [...] se lire comme un combat entre les forces favorables à la démocratie politique et celles qui lui sont hostiles, ces dernières préférant le maintien d'une identité organique du corp social à l ’expression individuelle d’une volonté générale is­sue du suffrage universel. Sous leurs multiples for­mes, les courants antidémocratiques invoquent à cha­que fois la permanence d’une solidarité communau­taire pour récuser le principe d’un rationalisme con­substantiel à la nature humaine se réclamant toujours du siècle des Lumières et légitimant le prin­cipe ‘un homme, une voix’.12

Le “guerres franco-françaises” toccano l’ac­me durante la Terza repubblica, per poi ri­prodursi col poujadismo e, nell’ultimo decen­nio, col Front national.

Delle “guerres franco-françaises” l’affaire può essere considerato una battaglia campa­le13, la più violenta battaglia di fine secolo fra

10 Pierre Birnbaum, "La France aux Français". Histoire des haines nationalistes, cit.11 Cfr. “Vingtième siècle” , 1985, n. 2; ma si veda anche la sintesi del concetto in Pierre Birnbaum, "La France aux Fran­çais", cit. p. 83.12 Pierre Birnbaum, "La France aux Français", cit., p. 83.13 Pierre Birnbaum, La citoyenneté en péril: les juifs entre intégration et résistance, in Id. (a cura di), La France de l ’af­faire Dreyfus, Paris, Gallimard, 1994; Michel Winock, Une question de principe, ivi, p. 543.

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le due France, oppure un’anticipazione della politica antisemita di Vichy14, in quanto ri­mette in discussione l’emancipazione giuridi­ca degli ebrei, avvenuta nel 1791. Emblemati­ca in proposito è la posizione di La Tour du Pin, un teorico importante della cultura poli­tica antirepubblicana, il quale propone di ri­nunciare all '“idée moderne” per cui la territo­rialità costituisce la nazionalità. La proposta di La Tour du Pin è quella di revocare agli ebrei la nazionalità, riconoscendo anche sot­to l’aspetto normativo il dato ‘naturale’ del­l’estraneità dell’ebreo alla nazione francese15. Simile a questa l’analisi di Paul de Cassa- gnac, qualche anno prima che Vaffaire scop­piasse in tutta la sua drammaticità: quan­d’anche gli ebrei lo volessero,

ils neporraientpas [...] être [...] français [...]. Car il ne suffit pas d'habiter un pays, même pendant des longues années, pour qu 'il devienne une patrie. Il y a autre chose dans la patrie, que la contexture physi­que et géographique du territoire. [...] La patrie est

une chose toute morale [...]: Jamais, jamais ils n 'arriveront à être exclusivement Français, et le juif allemand, italien ou africain, qui viendra frapper à leur porte, sera toujours beaucoup plus leur conci­toyen que vous ou moi16.

Non meraviglia, quindi, che uno studioso deH’antisemitismo francese in alcuni momen­ti de\Yaffaire abbia voluto intravedere la pro­va di un immaginario occidentale che, ben prima del 1945, si era ormai assuefatto alla concezione dell’ebreo come nemico da esclu­dere dalla comunità nazionale, ed eventual­mente da sopprimere17.

Certamente sarebbe un errore ricondurre Vaffaire Dreyfus solo all’interno della storia dell’antisemitismo, accantonando tutti que­gli aspetti che in esso man mano si rivelaro­no, come la nascita della figura dell’intellet­tuale contemporaneo, lo sviluppo dell’in­fluenza della stampa quotidiana e di massa, lo scontro fra propagande avversarie18, e, si pensi alla figura di Bernard Lazare19, l’im-

14 Pierre Birnbaum, L'affaire Dreyfus. La République en péril, Paris, Gallimard, 1994, p. 14.15 René de La Tour du Pin, Vers un ordre social chrétien, nuova edizione Paris, Editions du Trident, 1987, pp. 266-272.16 Paul de Cassagnac, La question juive, “L’Autorité”, 28 maggio 1895, cit. da Antisémitisme et sursaut républicain dans la presse pendant l'Affaire Dreyfus, Paris, Collection Dossiers de Documentation, n. 21, Centre National de Documen­tation Pédagogique, p. 56 (corsivo nel testo). Dello stesso tono la posizione di Jules Soury, uno dei teorici dell’antise­mitismo bioantropologico di fine secolo. Durante il processo di Rennes nel 1899 Soury dichiara a Barrés che i dreyfu- sardi “ont raison, car un Juif n'est jamais un traître, il n’est pas de notre nation, comment la trahirait-il? Tous sont des traîtres: ils sont de la patrie où ils trouvent leur plus grand intérêt. Je crois que le Juif est une race; bien plus, une espèce... Je crois vraiment que le Juif est né d’un anthropôpoide spécial comme le noir, le jaune, le peau-rouge". Cosi Barrés riporta un colloquio con Soury in Maurice Barrés, Mes Cahiers 1896-1923, Paris, Plon, 1960, cit. dalla nuova edizione 1994, p. 125.17 Georges Bensoussan, L ’idéologie du rejet. Ênquete sur "Le monument Henry" ou archéologie du fantasme antisémite dans la France de la fin du XIXe siècle, Paris, Manya, 1994, p. 65.18 Pierre Birnbaum, Introduction, a Id. (a cura di), La France de l ’affaire Dreyfus, cit., p. 8; ma su questo si veda anche Norman L. Kleeblatt, L'affare Dreyfus: una testimonianza visiva; Phillip Dennis Cate, "Le Cri de Paris": l'arte grafica e l ’affare Dreyfus, ambedue in Norman L. Kleeblatt ( a cura di), L ’affare Dreyfus. La storia, l ’opinione, l ’immagine, To­rino, Bollati Boringhieri, 1990, rispettivamente, pp. 3-61, pp. 108-153; la documentazione iconografica in Laurent Ger- vereau, Christophe Prochasson ( a cura di), L’affaire Dreyfus et le tournant du siècle (1894-1910), cit.; Antisémitisme et sursaut républicain dans la presse pendant l’affaire Dreyfus, cit.; Pierre Birnbaum, L'affaire Dreyfus. La République en péril, cit.

Su Bernard Lazare, si veda, da ultimo, Nelly Wilson, Bernard-Lazare. L ’antisémitisme, l ’affaire Dreyfus, et la recher­che de l identité juive, trad. dall’inglese di Christiane et Douglas Gallagher, Paris, Albin Michel, 1985; Jean-Denis Bre- din, Bernard Lazare de l'anarchiste au prophète, Paris, Editions de Fallois, 1992. Per quanto concerne le ristampe di al­cuni saggi di Lazare dedicati al problema dell’antisemitismo o dell 'affaire, si veda L’antisémitisme. Son histoire et ses causes, a cura di Jean-Denis Bredin, Paris, Les Editions 1900, 1990; Philippe Oriol, L’affaire Dreyfus. Un erreur judiciai­re, Paris, Allia, 1993; Philippe Oriol (a cura di), Juifs et antisémites, Paris, Allia, 1992; Contre l’antisémitisme, in Carol Sandrei (a cura di), Le fumier de job, Strasbourg, Circé, 1990.

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pulso dato allo sviluppo della militanza sio­nista nell’ebraismo europeo. In ogni caso, però, sia sotto l’aspetto della storia delle idee che sotto quello della Francia contem­poranea, non v’è dubbio che le tappe più si­gnificative de\Yaffaire siano da collocare nei capitoli della storia dell’antisemitismo euro­peo.

Decisamente utile nella collocazione dz\Y affaire Dreyfus, lungo il binario della storia della Francia contemporanea, il con­cetto di “guerres franco-franfaises” si rivela naturalmente meno maneggevole nel valuta­re le forme di antisemitismo che caratteriz­zarono l’affaire. Riconosciuto che la storia dell’antisemitismo in Europa dal Medioevo all’età contemporanea è stata scandita da diverse tappe, dalFantigiudaismo di matrice cristiana aH’antisemitismo di stampo biolo­gico, “che fa a meno di qualsiasi teologia e cerca le sue ragioni nella scienza”20, riman­gono a nostro avviso ancora incerte le ma­trici dell’antisemitismo che caratterizzò Yaf­faire.

L’ipotesi avanzata a suo tempo da Polia­kov su un “antisemitismo francese [che] rical­cava in parte l’antisemitismo germanico, [ma] corrispondeva anche in buona parte a una tradizione diversa e nasceva da fonti autoctone”21, è stata accettata dalla storio­grafia successiva che, soprattutto con Stern- hell, ne ha marcato gli aspetti anticapitalisti­ci, populistici e socialisteggianti. Basandosi sulla vasta pubblicistica dei maggiori teorici

dell’antisemitismo francese dell’ultimo ven­tennio del secolo (Drumont, Chabauty, Mo- rès, Toussenel, Barrès), Sternhell ha mostra­to come l’antisemitismo fosse da rileggere al tempo stesso quale forma della rivolta contro una società borghese supposta sulla via della decadenza, nonché quale uno degli aspetti che avrebbe dovuto caratterizzare una socie­tà socialista22. Rispetto a quello precedente, quindi, l’antisemitismo de\Yaffaire assumeva forti connotazioni sociali protestatarie e po­pulistiche. L’antisemitismo diventa una de­clinazione ideologica dei ceti declassati che vivono la modernizzazione capitalistica in modo terrorizzante, associandola all’idea di decadenza. In Drumont, ad esempio, svolgo­no un ruolo fondamentale categorie come quelle di “degenerazione”, “decomposizio­ne”, “decadenza” ecc.23.

Un altro aspetto deH’antisemitismo dell’e­poca è inoltre da individuare nella sua visione cospirazionistica della storia. La visione co- spirazionistica della storia costituirà, com’è noto, uno degli ingredienti della cultura anti­semita del Novecento (si pensi ad Evola)24. Nell’addebitare ad un complotto di ebrei (o di massoni) tutti quei momenti della storia che vengono vissuti come catastrofici (dalle crisi economiche alle sconfitte militari) s’in­crociavano le accuse medievali di omicidio ri­tuale o di avvelenamento dei pozzi25 con l’in­terpretazione della rivoluzione francese quale complotto avanzata da Barruel e fatta pro­pria dai teorici controrivoluzionari26. Nel co-

20 Léon Poliakov, Storia dell’antisemitismo. III. Da Voltaire a Wagner, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 356.21 Léon Poliakov, Storia deli antisemitismo. IV. L'Europa suicida, 1870-1933, Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 36.22 Zeev Sternhell, La droite révolutionnaire. Les origines françaises du fascisme 1885-1914, Paris, Seuil, 1978, cit. dalla ristampa, 1984, in particolare il cap. IV su L'antisémitisme de gauche, pp. 174-214.23 Michel Winock, Edouard Drumont et Cie. Antisémitisme et fascisme en France, Paris, Seuil, 1982, p. 8; Pierre Birn­baum, La fin de la France. Le juif pervertisseur dans le paradigme Drumont, in Zeev Sternhell (a cura di), L'Eternel re­tour. Contre la démocratie l ’idéologie de la décadence, Paris, Pfnsc, 1994, pp. 198-199.24 Si veda, da ultimo, Pierre-André Taguieff, Les Protocoles des Sages de Sion. Faux et usage d ’un faux, Paris, Berg In­ternational, 1993.25 Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione XIV-XVIII secolo, Bari-Roma, Laterza, 1992.26 Si permetta di rimandare al nostro Cospirazionismo e antisemitismo. Appunti su “Les Protocoles des Sages de Sion. Faux et usage d’un faux" di P.-A. Taguieff, “Teoria politica”, 1993, n. 3, pp. 135-147. Per quanto concerne la presenza della visione cospirazionista della storia nella cultura politica francese, cfr. da ultimo, Michel Leroy, Le mythe jésuite.

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spirazionismo l’identificazione dell’ebreo quale traditore per antonomasia diviene as­solutamente fondamentale. Per un verso, l’e­breo è l’immagine del traditore perché ha già tradito una volta (Cristo); per l’altro, essendo stato condannato ad errare in eterno a causa del suo primo tradimento (la maledizione di­vina contro Assuero), non può radicarsi sta­bilmente sul suolo di una nazione. Ne conse­gue che l’ebreo, a causa del suo sradicamento congenito, non potendo pienamente vivere il senso profondo della nazionalità, è facilmen­te indotto a complottare contro gli interessi della nazione in cui risiede. Condotto a mo­netizzare i sentimenti, a causa del suo mer­cantilismo semitico (Drumont), privo del senso di nazionalità, l’ebreo ha tutti i prere­quisiti per tradire la sicurezza e gli interessi della nazione in cui risiede momentaneamen­te. L’immagine evangelica dell’ebreo quale serpente, ipocrita, ecc. è riformulata in una visione tutta politica e collocata in un imma­ginario laicizzato, quello nazionalista. Come avrebbe osservato Barrés, che Dreyfus fosse capace di tradire lo si poteva intuire dalla razza d’appartenenza: “C’est parce que il est ‘ju i f (puisque il s ’appelle ’Dreyfus’) que Dreyfus est forcément un traître [...] C’est parce qu’on prouvera qu'il est un traître [...] qu’on montrera derrière Dreyfus la présence de l ’Allemagne, normale, puisque Dreyfus est juif’’21. A sua volta, gli statuti della Fédéra­tion nationale antijuive, una delle tante leghe antisémite che pullularono nella Parigi di fine secolo, parlano chiaramente di “complot oc­

culte” ad opera dell’oligarchia finanziaria di religione israelitica28. Siamo, insomma, ai Protocolli degli anziani Savi di Sion ante litte- ram. Ad avviso di Birbaum,

les Protocoles s ’inscrivent [...] dans le contexte particulier de l’histoire politique française. Fabri­qués probablement en France, en 1897 ou 1898, en plein affaire Dreyfus, ils abondent de détails concer­nant la vie politique française et s ’intégrent par con­séquent immédiatement au cadre particulier des ' ‘guerres franco-françaises ’ ’.29

Un problema storiografico aperto: l’antisemitismo cattolico

Una delle tendenze storiografiche più recenti ha inteso ridimensionare la diffusione del­l’antisemitismo cattolico, pur riconoscendo che l’antisemitismo cattolico nella Francia di fine secolo “est une réalité spécifique' ’30, in cui convivono la tradizione dell’ “insegna­mento del disprezzo”, secondo la notissima definizione di Jules Isaac, il più recente anti­semitismo economico e la lettura cospirazio- nistica che vede negli ebrei gli ispiratori della politica laica e anticlericale della Terza re­pubblica. “Cependant il serait contraire à la réalité d’ignorer les tensions à l’intérieur du monde catholique qui est lontain d’être unani­me derrière l(a) Croix [il quotidiano dei Pa­dri assunzionisti, ferocemente antisemi­ta]”31. Questa ipotesi storiografica era stata affacciata a suo tempo già da Poliakov. At-

De Béranger à Michelet, Paris, Puf, 1993, un contributo importante per comprendere come nell’immaginario cospirazio- nista dell’antisemitismo francese di fine secolo vengano a riproporsi quasi tutte le categorie concettuali tipiche della po­lemica antigesuitica nella Francia napoleonica.‘7 Emmanuel Chadeau, L'épargne nationale trahie?, in Pierre Birnbaum (a cura di), La France de l ’affaire Dreyfus, cit. -s Pierre Birnbaum, Affaire Dreyfus, culture catholique et antisémitisme, in M. Winock (a cura di), Histoire de l'extrême droite en France, Paris, Seuil, 1993, p. 95."9 Pierre Birnbaum, "La France aux Français". Histoire des haines nationalistes, cit., p. 104.

Jean-Marie Mayeur, Les catholiques français et l ’affaire Dreyfus, in Laurent Gervereau et Christophe Prochasson (a cura di), L ’affaire Dreyfus et le tournant du siècle (1894-1910), cit., p. 157.

Jean-Marie Mayeur, Les catholiques français et l ’affaire Dreyfus, cit., p. 160; ad un ridimensionamento dell’antisemi­tismo di matrice cattolica tende anche B. Joly, Les antidreyfusards croyaient-ils Dreyfus coupable?, “Revue historique”, 1994, n. 590, pp. 418-421.

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L'affaire Dreyfus nella recente storiografia francese 451

tento a rimarcare le voci socialisteggianti e di sinistra deH’antisemitismo, Poliakov ave­va già rilevato che se era accertato che se “diversi scritti dell’epoca lasciano pensare che verso il 1890 l’antisemitismo si avviasse a diventare in Francia una sorta di monopo­lio cattolico” , era anche verosimile che “non tutti i cattolici la pensavano nello stesso mo­do e soprattutto aveva i suoi campioni l’an­tisemitismo laico, scientista, integralmente razzista”32.

Recentemente è stato osservato che la po­litica antisemita di Vichy spinge “à relativiser l’antisémitisme catholique pendant l’affaire Dreyfus”33, mentre ad avviso di Winock “dans la genealogie des idées antidreyfusar­des, nous rencontrons des penseurs, critiques certes du libéralisme et de la Révolution, mais étrangers à la mouvance contre-révolutionnai­re. C’est le cas d’Auguste Comte (et de son maître Saint-Simon), c'est le cas de Taine et de Renan [...] Le XIXe siècle a produit une pensée organiciste détachée du modèle catholi­que traditionnel, où concourent le darwinisme social, l’anthropologie, la biologie et autres sciences en plein essor”34. In genere, poi, non sono mancati i contributi in cui si sotto­lineava l’esistenza di un filodreyfusismo di matrice cattolica.

Il dato storiografico da cui è comunque dif­ficile prescindere è che gran parte dell’antise­

mitismo, almeno quello di matrice più spicca­tamente nazionalista, utilizza un universo cul­turale e categorie d’analisi esplicitamente cat­toliche35. Prima che dalle posizioni antisemite e antindustrialiste de “La Croix”, il caso em­blematico è quello di Drumont. Alle posizioni economiche drumontiane in genere non è sta­ta quasi mai data la dovuta attenzione; a fron­te di alcune discutibili sottovalutazioni36, le pagine storiograficamente più significative ri­mangono ancora quelle di Stemhell37. Nella pubblicistica di Drumont non mancano i ri­chiami a Proudhon; però il suo anticapitali­smo antisemita affonda le radici nella cultura cattolica tradizionale, mentre la critica del de­naro e dell’usura risente dei richiami a S. Tommaso e a S. Giovanni Crisostomo38. In altri termini, la critica del liberalismo e della società borghese affaristica, in nome di valori organicistici e antindustrialistici, risulta debi­trice della tradizione cattolica e tenta di inne­stare su quest’universo cattolico i risultati del­le scienze naturali e “laiche” quali l’antropo­logia, la psicologia, la biologia.

Molto correttamente è stato rilevato come, rispetto all’antisemitismo tedesco, in gran parte fondato su argomentazioni bioantro- poligiche e razziali stricto sensu, quello fran­cese pare privilegiare altre angolazioni39. I tentativi di Charcot di riconnettere i disordi­ni nervosi ad un supposto carattere ereditario

32 Léon Poliakov, Storia dell’antisemitismo IV. L'Europa suicida 1870-1933, cit., pp. 49-50.33 Philippe Levillain, Les catholiques à l ’épreuve: variations sur un verdict, in Pierre Birnbaum (a cura di), La France de l ’affaire Dreyfus, cit., p. 417. Ma cosi anche Richard Millman, La question juive entre les deux guerres. Ligues de droite et antisémitisme en France, Paris, Colin, 1993, p. 25.34 M. Winock, Une question de principe, in Pierre Birnbaum (a cura di), La France de l ’affaire Dreyfus, cit., p. 555 (cor­sivo nostro).35 Pierre Sorlin, "La Croix" et les juifs. Grasset, Paris, 1967; Pierre Pierrard, Juifs et catholiques français, Paris, Fayard, 1970; Jean-Marie Mayeur, Les catholiques dreyfusards, “Revue historique”, aprile-giugno 1979.36 Christophe Prochasson, Dreyfusards et antidreyfusards, “L’Histoire”, ottobre 1988, citato da Antisémitisme et sur­saut républicain, cit., p. 37. Leggermente diversa l’opinione di Yves Chevalier, L'antisémitisme. Le juif comme bouc émissaire, Paris, Le Cerf, 1988, secondo il quale Drumont “a donné son impulsion définitive à l'antisémitisme français” (p. 296).37 Z. Sternhell, Maurice Barrés et le nationalisme français, nuova edizione, Bruxelles, Complexe, 1985, pp. 241-243; Id., La droite révolutionnaire, cit., pp. 177 sg.3® Edouard Drumont, La France juive, Paris, Flammarion, s.d., ma ristampa dell’edizione 1886, vol. I, pp. XIII-XIV.39 Léon Poliakov, Storia dell’antisemitismo. IV. L'Europa suicida ¡870-1933, cit., p. 36.

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452 Francesco Germinario

israelitico risultano circoscritti40. Lapouge medesimo, teorico francese dell’arianesimo e della contrapposizione fra il carattere eredi­tario del dolicocefalo biondo opposto a quel­lo dei semiti, non esiterà a criticare le tesi di Drumont41.

L ’énoncé antisémite puise peu, en France — sostie­ne Angenot in quello che può essere considerato uno degli studi più brillanti suirantisemitismo francese apparsi negli ultimi anni —, son autorité dans les sciences et disciplines insituées: l ’anthropo­logue antisémite à la Vacher de Lapouge reste un ty­pe marginal; l ’antisémitisme français, de caractère publicistique-littéraire a peu de recours à des argu­ments raciaux (au sens strict) et n’en a pas l ’usage essentiel2.

Anche Renan, un altro intellettuale cui si ispireranno alcuni settori della cultura di de­stra, evita di connettere il concetto di razza a quello di sangue, spostando l’attenzione sul primato della cultura e del linguaggio43. Se- nonché, la motivazione di questa diversa col- locazione culturale fornita da Angenot risul­ta storiograficamente poco convincente:

les Drumont et consorts ont pour image celle de gens de lettres, d’essayistes, ne s ’appuyant pas sur un savoir positif (ce qui est antinomique de l’i­dée d’écriture littéraire), mais sur une méditation polyphonique qui est dans la tradition de la “litté­rature d’idées’’. Ils sont loin d’afficher le style Herr Professor de leurs homologues germaniques. L ’ac­ceptabilité “littéraire’’ de leurs écrits ne s ’y prête­rait pas dans une culture française rebelle au mé­lange des genres44.

I motivi andrebbero probabilmente indivi­duati invece sul versante dell’ispirazione cat­tolica che sostiene quasi tutta la doxa antise­mita francese: un’ispirazione, del resto, che i maggiori pubblicisti antisemiti rivendicano in modo esplicito. La critica della democrazia e della società borghese quale decadenza re­cupera certamente sintagmi e concetti tipici di scienze come la biologia, la sociologia, l’antropologia e via dicendo, inserendoli però in un panorama culturale fondamentalmente cattolico e tradizionalista. Per i vari Dru­mont, Morès e Kimon la decadenza di una società ormai in mano alla finanza cosmopo­lita può essere frenata solo attraverso un roll back che restauri i costumi e le culture di una Francia profonda identificata col pre 1789. La Francia è stata una potenza fino a quando è stata una nazione cattolica; allo stato attua­le, invece,

Ce qui caractérise la décadence de la France c ’est qu’ [...] elle s ’est détruite presque d’un seul coup [...] c’est un événement que l’élimination de tout ce qui représente le côté chrétien, le côté conserva­teur, le côté traditionnel, le côté vieille France45.

Il cattolicesimo è dunque qualcosa di più di un instrumentum regni, è un vero e proprio cemento ideologico-culturale che può tenere uniti i francesi. Per la cultura nazionalista non esiste una razza francese: la Francia è un paese segnato dall’identità cattolica; la francesità è la cattolicità46. Ad essere estranei a questa identità — e dunque alla nazione —

40 Cfr. Marc Angenot, Ce que l ’on dit des juifs en 1889. Antisémitisme et discours social, Saint-Dénis, Puv, 1989, pp. 144 sg.; Pierre Birnbaum, La fin de la France. Le juif pervertisseur dans le paradigne de Drumont, in Z. Sternhell (a cura di), L ’éternel retour, cit., pp. 203-204.41 M. Angenot, Ce que l’ont dit des juifs, cit., p. 143.42 M. Angenot, Ce que l’ont dit des juifs, cit., p. 65.43 P. Birnbaum, “La France aux Français". Histoire des haines nationalistes, cit., p. 140.44 M. Angenot, Ce que l’ont dit des juifs, cit., p. 141 (corsivo nel testo).45 Edouard Drumont in “La Libre Parole”, 19 giugno 1910, citato da Pierre Birnbaum, La fin de la France..., in Z. Sternhell (a cura di), L’éternel retour, cit., p. 197.

Disons-le une fois pour toutes: il est inexact de parler au sens strict d'une race française. Nous ne sommes poil une race, mais une nation . Maurice Barrés, Scenes et doctrines du nationalisme, Paris, 1902, citato dalla ristampa Paris, Editions du Trident, 1987, p. 20.

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L'affaire Dreyfus nella recente storiografia francese 453

sono quelle religioni (protestanti ed ebrei) o quelle culture politiche razionaliste e indivi­dualiste (illuministi e massoni) che hanno prodotto l’atto anticristiano per antonoma­sia, quell’Ottantanove che ha scandito il rein­gresso di Satana nella storia.

Citoyenneté et nationalité viennent ainsi se confon­dre en un ensemble catholique cohérent uni par la religion qui incite, par exemple, au refus asbsolu d’une citoyenneté publique reposant sur une laïcité de type rationaliste que les juifs ou les protestants sont supposés vouloir mettre en oeuvre pour porter un coup définitif à l'identité nationale47.

In altri termini, l’antisemitismo francese di fi­ne secolo non ha bisogno di ricorrere alle ri­letture in senso razzistico dei progressi delle scienze naturali perché ha nel cattolicesimo la propria idea-forza. Come osserva lo stesso Angenot, Drumont e gli altri pubblicisti anti­semiti come Pontigny e Cornheilan,

sont des catholiques plus ou moins avoués, mais les mythes d’origine religieuse ont subi chez eux une laï­cisation prononcée, une transposition en termes ‘so­ciologiques’48.

Sempre Drumont, poi, si considerava non un valente giornalista, ma un sociologo cat­tolico impegnato nella disamina della crisi ideale e politica della società francese49. An­che in un pubblicista antisemita come Ki- mon, le cui misture fra isteria, nervosismo, degenerazione morale ed ebraismo risentono della cultura positivista, traspaiono i miti antigiudaici medievali50. In conclusione, si ha l’impressione che la scissione fra tradizio­ne culturale controrivoluzionaria cattolica e

nuovo organicismo laico sia apparente, mentre in realtà si procede ad una specie di cristianizzazione delle scienze positive in fun­zione antisemita, innanzitutto, e di critica della decadenza della società borghese e libe­rale in secondo luogo.

Un ultimo aspetto per concludere. E or­mai un dato assodato dalla storiografia che la virulenza antisemita che caratterizza l’op­posizione dei circoli nazionalisti al fronte re­visionista e dreyfusardo è solo la punta di un iceberg di una precedente pubblicistica am­piamente diffusa da almeno un quindicen­nio. A parte il famigerato successo della France juive (con quasi 200 ristampe in poco più di un ventennio) di Drumont, prefatore, oltretutto, della traduzione francese di un al­tro “classico” della pubblicistica antisemita, il Talmudjude di August Rolhing, è molto in­dicativo che già due anni prima “La libre pa­role” aveva sviluppato una virulenta campa­gna contro la presenza di ufficiali ebrei nell’e­sercito51. Qualche anno prima, infine, la stampa nazionalista e cattolica aveva dato un tono decisamente antisemita al tracollo fi­nanziario della società per la costruzione del canale di Panama, in cui erano implicati alcu­ni banchieri ebrei e numerosi deputati52 53. Nel 1889, poi, Georges Corneilhan, autore di un pamphlet antisemita, Juifs et opportunistes, aveva invitato gli ufficiali a diffidare della lealtà dei loro colleghi ebrei33. Sono, questi, tutti aspetti di ciò che si potrebbe chiamare l'affaire Dreyfus avant l’affaire, e sui quali la storiografia sviluppatasi nell’ultimo venten­nio può essere giudicata soddisfacente. Il fat­to che questa diffusa letteratura antisemita si

47 P. Birnbaum, "La France aux Français", cit., p. 46; ma cfr. anche Id., Affaire Dreyfus, culture catholique et antisé­mitisme, in M. Winock (a cura di), Histoire de l ’extrême droite en France, cit., pp. 121-122.48 M. Angenot, Ce que l’ont dit des juifs, cit., p. 50, ma cfr. anche pp. 38-40.49 Cfr. Edouard Drumont, Préface al Testament d’un antisémite, Paris, Dentu, 1891, pp. VI-VII.50 M. Angenot, Ce que l’ont dit des juifs, cit., p. 40.51 Pierre Birnbaum, Dreyfus avant Dreyfus: Drumont et la mise en scène de l ’affaire, “Mil neuf cent” (fascicolo mono- grafïco intitolato Comment sont-ils devenus dreyfusards ou anti-dreyfusards) 1993, n. 11, p. 73.52 Cfr. da ultimo, Jean-Yves Mollier, Le scandale de Panama, Paris, Fayard, 1991.53 M. Angenot, Ce que l ’ont dit des juifs, cit., pp. 41-42.

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proponga quale bandiera di protesta dei ceti declassati, di quei settori della società — es­senzialmente appartenenti al terziario e a un sottoproletariato marginale — che guardano con terrore ai processi di modernizzazione economico-sociale e alle istituzioni repubbli­cane, ha talvolta condotto la storiografia a considerare questa pubblicistica come un fe­nomeno collaterale, oppure a vedere i suoi esponenti quali déracinès alla ricerca di una collocazione sociale, prima che politica. An­che Winock, uno dei maggiori specialisti del nazionalismo francese, non è sfuggito alla tentazione di presentare Drumont nella veste

di un paranoico54. In realtà, per la prima volta nella storia dell’Europa contempora­nea stava emergendo una vera e propria cul­tura antisemita di tutto rilievo, che vedeva la presenza di intellettuali di prestigio e accade­mici, di riviste e di luoghi di aggregazione po­litica. Insomma, con Yaffaire l’antisemitismo pare assumere quasi una propria dignità intel­lettuale legittimata sia dalla profluvie di scritti sia dalla presenza nel campo antidreyfusardo di numerosi maitre-à-penser dell’epoca.

Francesco Germinario

54 Cfr. ad esempio, Michel Winock, che in Edouard Drumont et Cie. Antisémitisme et fascisme en France, cit., definisce “aliénation mentale” la “juivomanie" di Drumont (p. 8). Ma, per questa critica, cfr. ciò che scrive M. Angenot, Ce que l’ont dit des juifs, cit., p. 148.

STUDI ECONOMICI E SOCIALIRivista di vita economica - Centro Studi “G. Tomolo”

Sommario del n. 1, gennaio - marzo 1995

Editoriale

Romano Molesti, / trent’anni della rivista “Studi economici e sociali” .

Articoli

Antonio Fazio, L'opera di Guido Carli-, Antonio Brancaccio, Come ammodernare l ’apparato statale; R. Molesti, Cristianesimo e profitto; Léon Lesaffre, Gli affari e il Vangelo; Mario Andreazza, Stato e democrazia nel pensiero di Giuseppe Toniolo; Giovanni Motzo, Le attribuzioni del Ministero per le Riforme Istituzionali; Jean Ruffier, Daniel Villavicencio, Solidarietà locali: un bene nascosto; Stefano Gambaro, Il mercato dei buoni ordinari del Tesoro: un’analisi econometrica.

Note e rassegne

Antonio Cremonesi, Gli enti conferenti tra il pubblico e il privato: contributi e proposte; Silvio Trucco, Tra economia e storia: pubblicato un volume di Studi in memoria di Gino Barbieri; Vittorio Campetti, Rinasce la prestigiosa rivista “Nuova economia e storia''.

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Madri nubili e tribunali Legislazione e sentenze in età liberale

Patrizia Montani

Accostarsi al problema della maternità “ille­gittima” e del dibattito sorto tra Ottocento e Novecento attorno alla questione della ricer­ca della paternità, assumendo quali “indica­tori” gli orientamenti e la progettualità legi­slativa, da un lato, e l’interpretazione fornita alla norma giuridica dall’altro, rappresenta un’occasione per guardare da un’angolazio­ne inconsueta un settore di indagine peraltro poco indagato, che offre utili approcci nell’a­nalisi delle trasformazioni della società italia­na a cavallo tra i due secoli e dei meccanismi che sottendono i rapporti tra i sessi. A questo proposito, il riferimento a fonti di carattere giudiziario consente di cogliere, accanto alle trasformazioni istituzionali che accompagna­rono le politiche di assistenza rivolte ad una particolare categoria di “bisognosi”, anche la formulazione, da parte delle donne coin­volte in una maternità extramatrimoniale, di istanze e consapevolezze inedite rispetto al passato.

Gli anni compresi tra l’Unità e l’avvento del fascismo rappresentano un decisivo pe­riodo di svolta riguardo agli interventi assi­stenziali rivolti alle madri nubili e ai loro figli. Durante questo arco di tempo, si attuò infatti un profondo capovolgimento delle risposte istituzionali tradizionalmente fornite alle donne che si trovarono ad affrontare il dram­

matico problema di una gravidanza fuori del matrimonio.

Alla soluzione di accogliere le “illecita­mente incinte” nei reparti destinati alle cosid­dette “gravide occulte”, consentendo loro di partorire nel più completo anonimato e di la­sciare poi il bambino in ospizio, allo scopo di salvaguardare così l’onore personale e fami­liare, si sostituì la graduale ‘responsabilizza­zione’ della donna, che in vari modi veniva persuasa, e in certi casi costretta, ad occupar­si in prima persona del figlio1.

Va detto subito che a queste trasformazio­ni istituzionali non corrispose un mutamento dell’atteggiamento comune verso la madre nubile, la quale continuò a sopportare tutto il peso dei pregiudizi e della colpevolizzazio- ne che alla fine dell’Ottocento, e più ancora all’inizio del Novecento, venivano riservati a colei che infrangeva una delle norme sociali più profondamente radicate: quella che proi­biva alle donne l’esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio. Ma va aggiunto, so­prattutto, che tale processo di responsabiliz­zazione delle madri fu avviato e perseguito quasi contemporaneamente al divieto di in­traprendere indagini giudiziali di paternità nei casi di filiazione naturale, stabilito dal- l’art. 189 del nuovo Codice civile (entrato in vigore nel 1865) nel quale era stato inserito

1 Sulla configurazione di questo processo e sulle tappe che lo contrassegnarono restano tuttora valide le considerazioni di Gianna Pomata, Madri illegittime tra Ottocento e Novecento. Storie cliniche e storie di vita, “Quaderni Storici”, 1980, n. 44, pp. 497-542.

'Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

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con significative perplessità, modellandolo sull’analogo art. 340 del Codice francese. L’art.189 consentiva la ricerca della paternità solo in seguito al ratto o allo stupro violento della madre, qualora vi fosse stata coinciden­za con l’epoca del concepimento. In tutti gli altri casi — quali per esempio la notoria con­vivenza dei genitori naturali, o 1’esistenza di prove scritte o testimonianze inconfutabili — veniva assicurato all’uomo il diritto di non occuparsi della prole nata fuori del ma­trimonio, favorendo e legalizzando così la completa irresponsabilità maschile2. Sebbene il principio proibitivo in materia di paternità naturale non fosse del tutto estraneo alla tra­dizione giuridica del nostro paese (fino al 1865 i codici delle due Sicilie, il Parmense, l’Estense e — in forma più temperata — l’Al- bertino, ammettevano il divieto di compiere indagini di paternità nei casi di filiazione ex­tramatrimoniale) con l’art. 189 i legislatori optarono per la scelta che più duramente pe­nalizzava le madri illegittime e i loro bambi­ni. Nessuna considerazione venne infatti ri­servata alla proposta di chi, all’interno della Commissione incaricata di redigere il nuovo Codice, pur favorevole alforientamento proibitivo, suggeriva di attenuare il rigore dell’articolo in questione consentendo le in­dagini qualora fosse esistito un principio di prova scritta, cosi come già ammetteva il Co­dice albertino3.

Ai sempre più frequenti appelli indirizzati alle donne affinché non sfuggissero a quello

che nel corso dell’Ottocento si era via via chiaramente configurato come loro ‘supremo dovere’, si accompagnarono quindi provve­dimenti rivolti alla loro identificazione, nel tentativo di aggirare con ogni mezzo l’artico­lo del Codice che avrebbe dovuto tutelare l’a­nonimato di quelle che, nell’impossibilità di provvedervi autonomamente, intendevano affidare il loro bambino ad un istituto. Per scongiurare il pericolo di ricorso ad aborti e infanticidi per cause legate all’onore, infatti, la legge italiana garantiva anche, all’art. 376, il diritto aH’anonimato alle madri illegit­time che si fossero rivolte ad un brefotrofio per l’affidamento del figlio. In seguito alla chiusura delle Ruote, avvenuta nella maggior parte dei brefotrofi dell’Italia centro-setten­trionale a partire dagli anni settanta del seco­lo scorso, per consegnare un bambino all’o­spizio occorreva presentarlo munito del certi­ficato rilasciato dallo Stato civile del comune di nascita, nel quale l’esposto veniva presen­tato come “figlio di padre ignoto e di donna che non consente di essere nominata” .

Le donne che si trovavano a vivere una gravidanza extra-matrimoniale nel periodo considerato furono dunque gradualmente private di quelle forme tradizionali di ‘prote­zione’ che fino ad epoche recenti avevano consentito loro di sottrarsi al disonore e alla pubblica riprovazione mediante la separazio­ne dal figlio, ‘prezzo’ doloroso ma necessario per potersi reinserire nella società4. E questa tradizionale ‘protezione’ venne meno senza

2 Sui termini del dibattito sorto all’interno della Commissione coordinatrice incaricata di redigere il nuovo Codice cfr. Anna Maria Isatia, La questione femminile nelle discussioni parlamentari postunitarie: il codice civile del 1865, “Dimen­sioni e problemi della ricerca storica”, 1991, n. 2, pp. 163-187. Per una panoramica sulla bibliografia coeva e per capire quale fosse lo “stato della questione” intorno alla ricerca della paternità si può fare riferimento alla voce “filiazione naturale” in II digesto italiano, Torino, Utet, 1892 e a quella “paternità (ricerca della)”, in II nuovo digesto italiano, To­rino, Utet, 1939.3 Relativamente alle legislazioni vigenti prima deH’unificazione del diritto operata dal Codice del 1865, cfr. Mariano D’Amelia (a cura di), Commentario del Codice Civile, Firenze, Barbera, 1940, voi. I, p. 561 e sg.; Vittorio Mori, Appunti su l ’azione di paternità naturale nel diritto canonico antico e moderno, in “Il Filangieri”, 1890, parte I, p. 569. Sulle pre­cauzioni che accompagnavano la possibilità di risalire al padre di un figlio illegittimo, cfr. Pasquale Del Giudice, Le indagini sulla paternità e il progetto Scialoja, “Rivista di diritto civile”, a. Ili, 1911.4 Sul venir meno delle tradizionali forme di protezione e sulla progressiva responsabilizzazione delle nubili maggiorenni e delle vedove in seguito all’approvazione del Codice Pisanelli, cfr. le considerazioni di Maura Palazzi, Solitudini fem-

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Madri nubili e tribunali 457

che, contemporaneamente, venissero adotta­ti adeguati provvedimenti legislativi (primo fra tutti, appunto, la ricerca della paternità, a favore della quale si consolidò, negli anni successivi all’approvazione dell’art. 189, un largo movimento di opinione) che ponessero le madri nubili nella possibilità di vivere di­gnitosamente la propria condizione.

Anzi, tutte le tappe che segnarono questa progressiva responsabilizzazione della donna (chiusura delle Ruote, obbligo di sottoporsi a visita sanitaria prima di poter essere ammes­se all’assistenza, obbligo di provvedere al fi­glio per i primi quattro o sei mesi prima di poterlo affidare all’ospizio, obbligo di presta­re servizio come balia interna per un periodo piuttosto lungo, per ‘sdebitarsi’ con il brefo­trofio per l’assistenza ricevuta) furono carat­terizzate da elementi di forte penalizzazione nei confronti delle madri, tacendo, o comun­que lasciando del tutto in secondo piano, la necessità di far sì che anche l’uomo fosse chiamato a rispondere di un figlio nato fuori del matrimonio.

Esemplare, a questo riguardo, lo scambio di pareri, di notizie statistiche, di informazio­ni mantenuto nel corso degli anni presi in esame dalle diverse amministrazioni provin­ciali del Regno, tenute a provvedere a questo

ramo della pubblica beneficenza, in virtù del­la legge comunale e provinciale del 18655. Nella corrispondenza intercorsa durante tut­ti gli anni considerati tra i funzionari periferi­ci dello Stato incaricati di provvedere a que­sto ramo della pubblica assistenza, erano piuttosto frequenti le considerazioni sulla op­portunità di giungere definitivamente alla ri­cerca amministrativa della maternità, invo­cata quale unica soluzione efficace per fron­teggiare il problema dell’infanzia illegittima e abbandonata. Alcune province chiedevano che indagini sulla persona della madre fosse­ro compiute tramite una visita al suo domici­lio e non attraverso le informazioni che lei, o chi per lei, avrebbe dovuto fornire al momen­to della presentazione del bambino al brefo­trofio. La Deputazione provinciale di Trevi­so, ad esempio, proponeva di introdurre la visita domiciliare alla madre, “che non [avrebbe potuto] ricusarla”, fatta dal diretto­re del brefotrofio o da un suo delegato. Lo scopo di tale disposizione sarebbe stato quel­lo di accertare “lo stato civile e sanitario della madre e quanto possa essere utile a sapersi intorno alle condizioni di famiglia, di am­biente e di moralità della medesima”6.

Questo orientamento palesemente unidire­zionale degli addetti ai lavori (in contraddi-

minili e patrilignaggio. Nubili e vedove fra Sette e Ottocento, in Marzio Barbagli e David I. Kertzer (a cura di), Storia della famiglia italiana 1750-1950, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 130-158.5 L’art. 237 della legge aveva infatti stabilito di affidare alle amministrazioni locali tutte le spese del mantenimento degli esposti, in attesa di un’apposita normativa in materia. Nonostante il loro carattere provvisorio, però, le disposizioni del 1865 costituirono a lungo il quadro legislativo entro il quale si continuò ad operare, poiché nessuno dei vari progetti di legge tesi a modificare il servizio di assistenza all’infanzia abbandonata, presentati in Parlamento nel corso del periodo considerato, si concluse con esito positivo. Su questi argomenti si veda Maura Piccialuti Caprioli, Il Patrimonio del po­vero. L'inchiesta sulle Opere pie del 1861, “Quaderni storici”, 1982, n. 45, pp. 918-941; Id. Amministrazione pubblica ed istituzioni assistenziali dal 1871 al 1911, in A. Caracciolo (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Il La­zio, Torino, Einaudi, 1991, pp. 367-442; Stefano Sepe, Per una storia dell’attività dell'amministrazione statale nel settore dell'assistenza. Ipotesi di lavoro, in Mariapia Bigaran (a cura di), Istituzioni e borghesie locali nell'Italia liberale, Milano Angeli, 1986, pp. 127-145; Arnaldo Cherubini, Beneficenza e solidarietà. Assistenza pubblica e mutualismo operaio, Mi­lano, Angeli, 1991. Lo stato di grave incertezza legislativa in cui versavano le istituzioni preposte all’assistenza dell’in­fanzia abbandonata non venne modificato nemmeno dalle profonde trasformazioni impresse alla gestione della benefi­cenza dalle leggi crispine del 1890, come ha osservato Stefano Sepe, L'esercizio del controllo in applicazione alla legge 17 luglio 1890, n. 6972, in Isap (a cura di), Le riforme crispine. L ’amministrazione sociale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 149- 228.6 Osservazioni della Deputazione Provinciale di Treviso sul disegno di legge sull’Assistenza agli esposti e all’infanzia ab­bandonata approvato al Senato il 12 dicembre 1907, Treviso, 9 aprile 1908.

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zione con il diritto alla riservatezza ricono­sciuto dal Codice alle madri nubili, come si è già osservato), emerse con tutta chiarezza nel 1907, in occasione della approvazione in Senato del disegno di legge a favore dell’in­fanzia illegittima e abbandonata, presentato dai ministri Giolitti e Orlando. All’art. 6 il progetto — uno degli innumerevoli tentativi, peraltro mai riusciti, di intervenire con una legge unitaria sul problema degli esposti — prescriveva il controllo sanitario delle donne che si rivolgevano ad un brefotrofio, senza tuttavia ufficializzarne l’obbligatorietà, per non compromettere “il loro diritto alla liber­tà personale e all’inviolabilità del domicilio”. A questo proposito la Deputazione provin­ciale di Napoli osservò che “non si compren­de, se non come erroneo, anzi pericoloso avanzo di sentimentalità, questo rispetto per la libertà individuale! E certo che, se cosi com’è concepita resterà la legge, le partorien­ti chiuderanno l’uscio sul viso dello indiscre­to sanitario, se pur non lo incolperanno con una querela di diffamazione!”1.

L’insistenza delle istituzioni in merito alla necessità di giungere ad una responsabilizza­zione delle madri nubili e la presenza sempre più pervasiva dello Stato — nelle sue dirama­zioni più periferiche — in quella che si era gradualmente configurata come la sfera ‘pri­vata’ della vita dei cittadini, rispondevano in effetti ad esigenze diverse. Non si trattava soltanto, evidentemente, di migliorare le con­dizioni delle migliaia di bambini che annual­mente venivano affidati ai brefotrofi e di as­sicurare loro una maggiore dignità sociale; e nemmeno di ridurre e contenere le spese ne­cessarie al loro mantenimento, benché tale aspetto del problema rivestisse un’importan­za certamente non secondaria. Si trattava an­che, piuttosto, come ha osservato Chiara Sa­

raceno, di operare una sorta di auto-prote­zione rispetto a comportamenti considerati “fuori-norma” e, in definitiva, della volontà di “codificare attraverso precisi interventi le­gislativi, la normalità della vita e dei rapporti privati”7 8.

È assai significativa, in proposito, la pre­occupazione manifestata dalle numerose am­ministrazioni dei brefotrofi che nei primi an­ni del Novecento cominciarono a sollecitare l’avvicinamento delle madri nubili al loro bambino mediante la concessione di sussidi di allevamento e che specificavano immanca­bilmente nei loro regolamenti di negare ogni aiuto alle donne viventi in concubinato. Seb­bene non si possa certo escludere la possibili­tà che a dettare il rifiuto di corrispondere gli aiuti in tali casi fossero anche ragioni di eco­nomia, tenuto conto che le donne viventi con il padre del bambino avevano forse minor bi­sogno di assistenza, è d’altra parte inequivo­cabile il timore di avallare con sussidi situa­zioni ‘scandalose’ e irregolari e, in qualche caso, si arrivava a corrispondere premi in de­naro alle madri che nel giro di poco tempo si fossero sposate con il padre del bambino.

La politica dei sussidi rappresentò senza dubbio una delle novità istituzionali più rile­vanti, che per la sua carica innovativa può es­sere considerata almeno pari a quella prece­dente di qualche decennio e relativa alla chiu­sura delle Ruote per l’accettazione degli esposti. ‘Pagare le donne perché facessero le madri’, come ha scritto Gianna Pomata, si­gnificava capovolgere completamente il mo­do di affrontare il problema dei concepimenti extra-matrimoniali rispetto al passato, quan­do le poche protagoniste di una maternità il­legittima che osavano allevare da sole il figlio erano spesso accusate di rappresentare un esempio intollerabilmente provocatorio e

7 Provincia di Napoli, Assistenza agii esposti e all’infanzia abbandonata. Osservazioni sul progetto di legge già approvato al Senato del Regno e in discussione davanti alla Camera dei Deputati, 1908 [corsivo nel testo].8 Chiara Saraceno, La famiglia: i paradossi della costruzione del privato, in Philippe Ariés, George Duby, La vita privata. Il Novecento, Bari, Laterza, 1988, pp. 33-78.

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scandaloso. Alla domanda sulle cause che dettavano l’abbandono degli illegittimi, con­tenuta nel questionario diramato nel 1866 dal ministero deH’Interno a tutte le prefetture del Regno, il prefetto di Arezzo rispondeva ad esempio:

Per quanto la ignota provenienza della maggior parte dei trovatelli permette di conoscere, l’esposi­zione degli illegittimi ha la sua principale e perma­nente ragione dalla volontà degli stretti parenti congiunti della madre, che non sanno sopportare una tale testimonianza vivente dei trascorsi di es­sa, in un sentimento di onore della madre ¡stessa, e nei consigli dei Parrochi, che non di rado si oppon­gono anche alla restituzione dei figli naturali per non tenere uno scandalo nel popolo9.

Senza dubbio il provvedimento — a Peru­gia prevedeva ad esempio il pagamento di un anno di baliatico alle madri nubili che de­cidevano di tenersi il figlio per il periodo del­l’allattamento e la possibilità di protrarre il soccorso per altri due anni, se durante il pri­mo periodo la donna effettuava il riconosci­mento del bambino — era stato dettato an­che da considerazioni di risparmio. E evi­dente che pagare sussidi alle madri per i pri­mi tre anni era molto più conveniente che provvedere al mantenimento del bambino affidato al brefotrofio fino ai dodici o ai quattordici anni d’età.

D’altra parte, trasformazioni così radicali nel modo di affrontare il problema dovevano necessariamente essere accompagnate e so­stenute anche da un profondo mutamento della sensibilità comune rispetto a questioni quali la maternità e l’atteggiamento verso l’infanzia. Malgrado restasse invariato il sen­timento di condanna nei confronti delle ma­

dri illegittime, la società del tempo era ormai molto più disposta a comprendere la donna che accettava di occuparsi del bambino, ri­spetto a quella che — compiendo un gesto avvertito come ‘contro natura’ — sceglieva di separarsene. E d’altra parte erano proba­bilmente le stesse madri a farsi portatrici di questi valori, cominciando a rifiutare la sepa­razione dal figlio come unica soluzione prati­cabile nei casi di “illegittimità” 10.

Riguardo alla possibilità che l’esposizione fosse il frutto di una scelta deliberata, sono infatti necessarie alcune precisazioni. L’im­pressione, che si ricava dall’analisi delle testi­monianze forniteci dalle madri che si rivolge­vano al brefotrofio, è che spesso queste non avessero alcun bisogno di essere ‘responsabi­lizzate’, come allora si usava dire. Ad emer­gere con decisione dalla lettura dei documen­ti è lo sforzo costante, da parte di queste don­ne, di non recidere definitivamente il legame con il figlio che affidavano all’ospizio. E ac­canto alla ‘presenza’ delle madri i documenti d’archivio testimoniano anche l’assenza pres­soché costante degli uomini: quando nelle narrazioni delle storie vissute dalle donne che si rivolgevano all’ospizio veniva fatto ri­ferimento all’uomo che le aveva ‘sedotte’, era quasi sempre un’immagine negativa a venire raffigurata e ciò anche nei casi in cui ad esporre la situazione non erano le protagoni- ste in prima persona, ma figure di interme­diari, quali il parroco o il sindaco del paese, che più difficilmente possono essere sospetta­te di fornire testimonianze parziali o faziose. Se nella maggior parte delle storie narrate era la madre a compiere ogni sforzo per non se­pararsi dal bambino, il padre era general-

9 Prefetto di Arezzo a ministero degli Interni, Arezzo,3 novembre 1866, in Archivio della Provincia di Arezzo (APA), Affari Generali 1866-1875, voi. 11, fase. 1, [corsivo mio].10 Sull’elaborazione teorica della cultura del materno e sull’accezione che ne venne data dalle donne impegnate nel mo­vimento emancipazionista italiano, cfr. Annarita Buttafuoco, Tra cittadinanza politica e cittadinanza sociale. Progetti ed esperienze del movimento politico delle donne nell’Italia liberale, in Gabriella Bonacchi, Angela Groppi (a cura di), Il di­lemma della cittadinanza. Diritti e i doveri delle dome, Roma-Bari, Laterza 1993, pp. 104-127; Anna Rossi Doria, Rap­presentare un corpo. Individualità e “anima collettiva" nelle lotte per il suffragio, ivi, pp. 87-103.

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mente colui che abbandonava, che tradiva, che dimostrava indifferenza:

B. Maria fu Giuseppe, anni 24, domiciliata e resi­dente a Marsciano, espone quanto appresso: essa ebbe la sventura di accompagnarsi con un girovago di professione canta storie, che la menò seco per va­rie parti d’Italia. Dalla loro illegittima unione il giorno due ottobre u.s. nacque una figlia alla Ma­ternità di Bologna, alla quale dette il nome di Anna. Per insistenza tanto del suo seduttore che del diret­tore della Maternità, nel termine di cinque giorni denunciò la nascita al Municipio, dichiarandosi madre naturale della suddetta bambina. Ora il vile suo seduttore l’ha abbandonata e dall’autorità di P. S. di Bologna è stata rimpatriata a Marsciano per mancanza di qualunque mezzo di sussistenza. Per le ragioni suesposte fa rispettosa istanza alla S. V. affinché mossa a pietà dello stato miserevole in cui versa si compiaccia accordare un sussidio di ba­liatico della durata di almeno tre anni, sussidio che la Congregazione suole accordare alle sventurate che non unite da alcun vincolo matrimoniale, né conviventi con l’uomo che le ha rese madri, ricono­scano la propria prole1 ’.

È evidente, pertanto, che tutto il proble­ma rappresentato dall’individuazione di adeguate forme di assistenza alle madri nu­bili era ‘viziato’ fin dall’origine dalle dispo­sizioni del Codice e che era fortemente di­scriminatorio responsabilizzare la madre

proprio nel momento in cui la legge la pri­vava della possibilità di rivalersi nei con­fronti del padre del bambino e di ottenere il riconoscimento formale di una responsa­bilità comune. E del resto la disparità di trattamento riservata alle donne, in caso di filiazione naturale, era stata individuata fin dall’inizio dagli stessi legislatori, se al­l’interno della stessa Commissione coordi­natrice incaricata dell’elaborazione del nuo­vo Codice civile erano emerse posizioni apertamente contrarie all’introduzione del­l’articolo in questione e se già all’indomani dell’approvazione dell’art. 189 numerosi esponenti della cultura giuridica italiana si erano dichiarati favorevoli ad un sua revi­sione. Ma nonostante il fervore del dibattito sorto attorno alla questione della ricerca della paternità — che rimase un obiettivo costantemente perseguito anche dal movi­mento politico delle donne, malgrado resi­stenza al suo interno di posizioni contra­stanti11 12 — nessuno dei vari disegni di legge elaborati nel corso di tutto il periodo consi­derato e finalizzati ad una revisione dell’ar­ticolo 189 si concluse con un esito positi­vo13. E ciò malgrado l’estrema cautela inter­pretativa che caratterizzava tutte le propo­ste legislative, tale da rendere questi progetti — se mai fossero stati approvati — difficil-

11 B. Maria a direttore Brefotrofio, Marsciano, 25 novembre 1909, in Archivio di Stato di Perugia (ASP), Brefotrofio, Carteggio relativo agli esposti, n. 55, 1.12 Particolarmente vivace fu, ad esempio, il dibattito che trovò spazio nelle pagine del quotidiano “La Vita” nella pri­mavera del 1908, nel corso del quale i due differenti punti di vista emersero in tutta la loro contrapposizione. Al riguar­do cfr. Annarita Buttafuoco, Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emencipazionista dall’Unità al fascismo, Arezzo, Dipartimento di studi storico-sociali dell’Università degli Studi di Siena, 1988, p. 183, alla quale rimando anche per le informazioni editoriali sul quotidiano romano.13 II primo progetto legislativo in proposito fu quello presentato da Salvatore Morelli nel 1875, che chiedeva la semplice abrogazione dell’articolo 189. A questo progetto seguirono, nell’ordine, quelli dei seguenti parlamentari: Gianturco (1893); Zanardelli e Cocco-Ortu (1900); Sorani (1902); Orlando (1906); Scialoja (1910) e Meda e Nava (1914, ripresen­tato nel 1920). Solo nel 1939, con la presentazione del primo libro del nuovo Codice civile, fu ratificato un allargamento dei casi in cui la ricerca della paternità poteva essere effettuata. Oltre all’eventualità del ratto e dello stupro violento della madre, l’art. 267 del nuovo Codice consentiva le indagini nei seguenti casi: 1) quando vi fosse stata la notoria con­vivenza dei genitori all’epoca del concepimento; 2) quando la paternità fosse indirettamente risultata da precedente sen­tenza civile o penale, o da non equivoca dichiarazione scritta dell’uomo; 3) quando vi fosse possesso di stato del figlio. L’azione giudiziale veniva comunque riservata solo al figlio, che poteva promuoverla entro i due anni successivi al rag­giungimento della maggiore età. Cfr. Mariano D’Amelia (a cura di), Commentario del Codice Civile, cit., voi. I, pp. 565- 567.

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mente “utilizzabili” dalle donne14. Preoccu­pazione costante, da parte dei legislatori, era infatti quella di circoscrivere e di limita­re l’azione della donna, per evitare di favo­rire con eccessive concessioni le madri nubili che non offrivano sufficienti garanzie mora­li. Ma a giustificare il rigore dei legislatori era stata soprattutto la volontà di non tur­bare, con una disposizione più “morbida” nei confronti dei figli naturali, la serenità e la stabilità della famiglia coniugale, le cui fondamenta sarebbero state minate dall’a­zione giudiziale di paternità avanzata dal fi­glio nato da una relazione extra-matrimo­niale. Lo stesso Giuseppe Pisanelli, nel cor­so della presentazione davanti alle Camere del testo del nuovo Codice redatto dalla commissione da lui presieduta, faceva osser­vare a chi rilevava l’eccessiva severità del- l’art. 189:

La critica si può portare solo su questo punto, se sia utile o no vietare le indagini di paternità. Ma, signori, da un secolo in quà non vi è alcuno che du­biti dell’importanza di questa sanzione, imperoc­ché se per poco si aprisse l’adito alle indagini sulla paternità, oh! l’onore di quanti cittadini e la pace di quante famiglie potrebbero essere turbati! Oh quale incubo per tutta la società sarebbe una somi­gliante disposizione di legge! Adunque questo punto non può in alcun modo essere censurato e respingerebbe ogni attacco.15

L’introduzione dell’art. 189 nel nuovo Codi­ce si inseriva pertanto coerentemente nel ruo­lo privilegiato che i legislatori attribuivano alla famiglia coniugale, nucleo generatore dell’intera società, la cui stabilità veniva esplicitamente fondata su un principio di

autorità maschile fortemente gerarchico e inappellabile. Preoccupazioni di tal genere rendevano necessarie, anche nei progetti di riforma, significative limitazioni, che com­promettevano gravemente l’efficacia dei provvedimenti. Nel progetto di legge presen­tato da Gianturco nel 1891 (e riproposto con lievi modifiche nel 1893) veniva preclusa ad esempio la prova testimoniale quando non fosse già esistito un principio di prova scritta. Ma, soprattutto, era negata alla madre ille­gittima la possibilità di intentare autonoma­mente l’azione, poiché la donna — si sostene­va — “avrebbe portato in giudizio tanta acredine di parole e di accuse da turbare la se­renità dei giudici” . Il diritto di proporre l’a­zione giudiziale era riservato solo al figlio, che durante la sua minore età doveva essere assistito da un curatore speciale, previa deli­berazione favorevole del Consiglio di tutela. Inoltre, il provvedimento stabiliva di non consentire azione di paternità quando la ma­dre nubile non avesse conservato ‘condotta illibata’ fino al momento della seduzione.

L’attenzione al comportamento sessuale della madre (presente anche nei disegni di legge elaborati negli anni successivi) non era però dettata dalla preoccupazione di evitare — in caso di plurium concubentium — il ri­schio di assegnare la responsabilità di un bambino a chi non era il vero padre. Infatti l’azione giudiziale era vietata anche nei casi in cui la donna avesse avuto relazioni sessuali con altri prima della seduzione seguita da gravidanza, ossia quando ciò non poteva in­fluire sulla identificazione del vero padre. Si trattava, piuttosto, della volontà da parte dei legislatori di dettare precise norme in ma-

14 Unica eccezione, la proposta presentata nel 1875 dall’onorevole Salvatore Morelli, che nel corso della sua carriera politica aveva sempre manifestato una speciale attenzione alle ragioni delle donne e alla cosiddetta questione femminile. Peraltro, la radicalità e l’improvvisazione del progetto Morelli si risolsero in un grossolano errore di tattica politica. Sulla figura di Salvatore Morelli si veda Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile ¡848-1892, To­rino, Einaudi, 1963, in particolare alle pp. 37-40: cfr. inoltre Guido Verucci, L ’Italia laica prima e dopo l’Unità. Anti­clericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari, Laterza, 1981, passim. Più recentemente Ginevra Conti Odorisio, Salvatore Morelli: emancipazionismo e democrazia nell'Ottocento europeo, Napoli, Esi, 1992.15 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 17 febbraio 1865.

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teria di morale e di onore femminile : proibire l’azione di paternità quando la donna non fosse rientrata entro un rigido modello di moralità appare dunque una sorta di ‘puni­zione’ che, oltre la madre, colpiva pesante­mente anche il figlio.

Ma è soprattutto la disposizione che nega­va alle madri nubili la possibilità di avanzare autonomamente e liberamente l’azione di pa­ternità a favore del figlio, contenuta in quasi tutti i progetti di riforma elaborati in materia alla fine dell’Ottocento e i primi venti anni del Novecento, a precisare l’orientamento che muoveva i legislatori, i quali anche quan­do proponevano riforme favorevoli alle don­ne, sembravano voler sottolineare F impossi­bilità, per costoro, di “pensarsi” come desti­natarie di un diritto universale, che come tale non avrebbe dovuto essere subordinato a me­diazioni e contrattazioni. E sebbene non si possa escludere che cautele e limitazioni ri­spondessero anche alla necessità di vincere le resistenze di un Parlamento ostile al cam­biamento, non si può evitare di considerare che una tale disposizione appariva tanto più iniqua in quanto a procedere contro il padre del bambino potevano essere solo quelle ma­dri nubili, che avevano accettato di occuparsi da sole del figlio, sopportando tutte le conse­guenze morali e materiali che sarebbero se­guite.

Quasi tutte le proposte di legge per la ricer­ca della paternità (ad esclusione di quella pre­sentata da Sorani nel 1902 e dell’altra avan­zata dai cattolici Meda e Nava nel 1914 e ri­proposta nel 1920) prevedevano anche la possibilità di un’azione separata, distinta e completamente diversa dalla prima: quella per danni derivanti da seduzione. Nel primo caso si trattava di accertare un’effettiva

“azione di stato” e il bambino che veniva ri­conosciuto figlio di una determinata persona acquisiva rispetto a questa precisi diritti, quali il nome, il concorso al mantenimento e la possibilità di succedere ai suoi beni. Nel secondo caso, invece, si trattava di una sem­plice azione personale di risarcimento, nella quale era solo la madre ad essere beneficiata, senza che lo stato dell’eventuale figlio nato dalla seduzione venisse modificato. Il prov­vedimento era ritenuto necessario per mette­re ordine ad una pratica giuridica sempre più diffusa: per rimediare all’eccessivo rigore del Codice si era infatti gradualmente affermata la consuetudine di consentire alle madri nubi­li che si fossero rivolte ai tribunali la possibi­lità di reclamare un’indennità dai loro sedut­tori, avvalendosi di quanto stabilito da un ar­ticolo quanto mai indeterminato e generico del Codice civile16.

Appellarsi al tribunale per ottenere il risar­cimento dei danni, così come previsto dal- l’art. 1151 Codice civile, da parte delle madri nubili inabilitate dalla legge a far dichiarare in giudizio la paternità del bambino, divenne relativamente frequente a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, come testimoniano sia la ricerca d’archivio, sia la letteratura giuridica. In effetti, il ricorso alla legge da parte di don­ne che si qualificavano vittime di seduzione in seguito a mancata promessa matrimoniale, rientrava in una consuetudine giuridica che affondava molto lontano le sue radici, e fino al 1889 questo tipo di reato continuava ad es­sere contemplato dal Codice penale sardo­italiano, che all’art. 500 puniva con la carce­razione e con una sanzione economica colui che si era reso responsabile della seduzione, tramite promessa non mantenuta, di una fan­ciulla minore dei diciotto anni17. A ben guar­

16 Si trattava dell’art. 1151, che recitava: “Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per col­pa del quale è avvenuto a risarcire il danno”.17 Questo filone di indagine è stato inaugurato da Sandra Cavallo, Simona Cerutti, Onore femminile e controllo sociale della riproduzione, “Quaderni Storici”, 1980, n. 44, pp. 346-383. Più recentemente, David I. Kertzer, Gender Ideology and Infant Abandonment in Nineteenth-century Italy, “Journal of Interdisciplinary History”, 1991, n. 22, pp. 1-25. Mar-

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dare, però, le analogie sono più apparenti che di sostanza e il ricorso alla giustizia, da parte delle madri nubili di fine Ottocento, presenta in realtà caratteristiche di modernità, piutto­sto che di tradizione. A mutare profonda­mente e ad imprimere un carattere di novità all’iniziativa dèlie donne che chiedevano l’ap­plicazione dell’art. 1151, era il quadro nor­mativo che, a partire dall’entrata in vigore del Codice Pisanelli, faceva da sfondo a vi­cende di seduzioni e di mancati matrimoni. Le madri nubili che alla fine dell’Ottocento si rivolgevano ai tribunali erano ormai prive di quelle garanzie di tutela familiare e istitu­zionale, sulle quali avevano potuto contare in passato e che hanno recentemente suggeri­to a Margherita Pelaja — nell’analisi da lei condotta sull’attività del Tribunale del Vica­riato nella Roma pontificia — l’ipotesi di un uso della sessualità come risorsa per affretta­re e facilitare il processo matrimoniale18. Nel periodo successivo, ormai, la contrattazione sessuale si risolveva per le donne quasi sem­pre in una sconfitta, che aveva per sbocco una situazione per loro assai penalizzante. Ed era allora per fronteggiare le pesanti con­seguenze derivate da questa situazione, che le donne coinvolte in una gravidanza extrama­trimoniale si rivolgevano ai tribunali, ade­guando le soluzioni tradizionali ai nuovi bi­sogni e insinuandosi nelle contraddizioni del­la legge per affermare in qualche modo la lo­ro individualità. Il ricorso all’art. 1151 sem­bra dunque aver rappresentato, anche per gli stessi magistrati, una sorta di scappatoia volta a ridurre il rigore dell’art. 189, testimo­

nianza di uno scarto tra la severità della legge e l’indirizzo più liberale dell’interpretazione ad essa fornita dalla giurisprudenza19.

Nelle sentenze d’appello — cui gli uomini convenuti in giudizio facevano spesso ricor­so, sostenendo che la decisione del tribunale si sarebbe scontrata con il loro preteso “dirit­to” a non rispondere del concepimento avve­nuto fuori del matrimonio — i magistrati ri­badivano sovente che l’azione di danno avan­zata dalla donna sedotta e resa madre non trovava alcun ostacolo nell’art. 189, trattan­dosi in realtà di due azioni distinte e indipen­denti e aggiungendo però ai danni morali de­rivanti dalla seduzione anche quelli materiali per “dispendi di gravidanza e di parto” .

Nel 1912 la Corte di Cassazione di Firenze motivò con le seguenti parole le decisione di accordare ad una cameriera maggiorenne — G. C., che alcuni anni prima era stata sedotta e resa madre dal figlio secondogenito del no­bile vicentino presso cui prestava servizio — un risarcimento di 5.000 lire per i danni sof­ferti:

La corte di rinvio in base di questa conclusione considerò che, non potendosi più disputare sul fat­to della seduzione, dovevasi riconoscere che una certa quantità di danni vi era stata, perché quel fatto mise la C. nella condizione di non poter più provvedere onestamente e definitivamente al pro­prio avvenire, e soggiunse che non si doveva inol­tre dimenticare che costei diede alla luce un bam­bino, perché, se il fatto della nascita dello stesso non potevasi di fronte alla nostra legislazione po­sitiva, attribuire al P., tuttavia ben poteva e dove­va essere tenuto calcolo come elemento di danno

gherita Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1994. Relativamente al profondo significato simbolico del risarcimento in denaro previsto nei casi di oltraggio alla verginità femminile, si vedano le in­teressanti osservazioni di Giorgia Alessi, la quale, riferendosi a periodi precedenti, ricorda tra l’altro l’antichissimo “ri­specchiamento simbolico” della dote di riparazione con il bene violato (G. Alessi, Il gioco degli scambi: seduzione e ri­sarcimento nella casistica cattolica del XVI e XVII secolo, “Quaderni Storici”, 1990, n. 75, pp. 805-831). Sulle ragioni che determinarono la depenalizzazione del reato di seduzione, alla fine dell’Ottocento si veda Giovanni Fiandaca, voce Se­duzione con promessa di matrimonio, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1988.18 Margherita Pelaja, Matrimonio e sessualità, cit., passim.19 Cfr. in proposito le tuttora valide considerazioni di Paolo Ungari, Il diritto di famiglia dall’Ottocento ad oggi. Dalle costituzioni giacobine al codice civile del 1942, Bologna, Il Mulino, 1970, in particolare alle pp. 147-174.

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risarcibile, sebbene per il parto solamente, e non già anche per la educazione e mantenimento del fi­glio, come pretendeva l’attrice, perché a riguardo di quest’altro punto, non essendo provata la pa­ternità del P., non si poteva a costui addossare un carico che alla sola paternità è imposto dalle di­sposizioni della legge20.

Un simile orientamento trovava ormai larga applicazione sia nella dottrina, sia nella pra­tica giudiziaria, che interpretavano così in senso favorevole alle donne una disposizione del Codice Pisanelli non espressamente fina­lizzata a risolvere questo tipo di conflitti. Ta­le interpretazione, anzi, contraddiceva in fondo l’orientamento “liberale” della legisla­zione varata in Italia all’indomani dell’Unità, dove — in virtù di una affermata uguaglianza giuridica dei due sessi davanti alla legge, che chiamava anche le donne non sottoposte al­l’autorità di un marito a rispondere delle con­seguenze dei loro atti — si era ritenuta op­portuna la cancellazione anche in sede penale dell’antico reato di seduzione21. Ritengo, in altre parole, che il ricorso all’art. 1151 in que­sti casi non fosse tanto giustificato dalla vo­lontà di riparare al disonore della donna, ma dettato invece dal bisogno di circoscrive­re le palesi incoerenze di una legislazione che sanciva l’irresponsabilità maschile in caso di paternità naturale proprio contemporanea­mente a quel processo di responsabilizzazio­ne della madre nubile, inaugurato, come si è visto, negli ultimi trent’anni dell’Ottocento, con la chiusura delle Ruote nei principali ospizi per l’infanzia abbandonata.

Ma oltre a fornire un’utile chiave interpre­tativa del problema considerato, l’analisi del­le sentenze e della letteratura giuridica rap­presenta anche un’occasione per cogliere gli orientamenti prevalenti nella cultura del tem­

po circa la sessualità femminile, la doppia morale, la possibilità o meno, per le donne, di scelte consapevoli e responsabili. A preva­lere, in generale, era un’immagine stereotipa­ta dei ruoli sessuali: da una parte l’idea di una virilità forte, volitiva, insidiosa, in cui la pas­sione non escludeva la razionalità; dall’altra parte quella di una femminilità soccombente, passiva e dove la passionalità — quando ve­niva presa in considerazione — giungeva ad offuscare tutto il resto. E quasi sempre in ba­se a questi modelli predeterminati che i giudi­ci riconoscono alla donna, convinta dall’uo­mo con inganni e “subdole arti” ad abbando­nare il proprio naturale pudore, il diritto al risarcimento. Viene cioè sottolineato come, in questo genere di vicende, non si possa qua­si mai parlare di una parità di colpa, poiché “la donna è normalmente passiva nella scelta sessuale, mentre l’uomo è attivo e ha iniziati­va, perché nella donna più forte è il sentimen­to naturale del pudore e più forti sono ritegni d’indole sociale, onde maggiori e più forti le resistenze, le quali non si vincono quindi sen­za l’impiego da parte dell’uomo di mezzi maggiori e prevalenti, che costituiscono per­tanto colpa maggiore e prevalente”22. Altro­ve, l’opera di seduzione maschile viene para­gonata a vera e propria violenza morale, che agisce sulla volontà della donna, annullando­la. Non viene cioè riconosciuta la possibilità che la donna potesse aver voluto la relazione sessuale semplicemente perché — al pari del­l’uomo — presa dal desiderio. In altre parole, mi sembra possibile cogliere nelle considera­zioni formulate dai giudici a commento di questo tipo di vicende, una sorta di “rassicu­rante” negazione della sessualità femminile.

In un altro caso, riferito alla sentenza con la quale la Corte d’Appello di Genova con­

20 Corte di Cassazione di Firenze, 29 gennaio 1912, “Monitore dei Tribunali”, 1912, serie II, voi. XV, p. 689.21 II Codice Penale Zanardelli aveva infatti sostituito al reato di seduzione quello di corruzione di minorenne, punibile nei casi in cui la vittima aveva meno di sedici anni.22 A. Giacobone, 7 diritti della doma sedotta, Varzi, Tip. de’ Grandi, 1891, citato da A. Cautela a commento della sen­tenza emessa nel maggio 1893 dalla Corte d’Appello di Trani, “Giurisprudenza Italiana”, 1893, p. I, sez. II, p. 353.

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fermava nel 1898 quanto già precedentemen­te riconosciuto dal tribunale di Savona, dan­do ragione a una madre nubile che si procla­mava vittima della seduzione, si legge:

la seduzione giuridicamente equivale a violenza non materiale come nello stupro, ma morale, più pericolosa e temibile, violenza che non distrugge la volontà ma la piega, la fuorvia in guisa da ren­dere la vittima uno strumento vivo e voluto dal suo seduttore: esiste il suo consenso, ma non è consenso libero e spontaneo, ma consenso deter­minato dall’impero della volontà altrui, che la vit­tima subisce, credendo di agire per impulso della volontà propria23.

Va da sé che rappresentare in questi termini le circostanze che avevano spinto la donna proponente l’azione al rapporto sessuale, era funzionale all’esito che si sperava avesse la vicenda e dunque il ricorso a tali argomen­ti, da parte dei magistrati, testimonia anche il favore riservato da certa giurisprudenza alle protagoniste di questo tipo di azioni. Le stes­se donne, inoltre, avevano tutto l’interesse a presentarsi come soggetti inconsapevoli e soggiogati da una volontà più forte della pro­pria, per far si che l’uomo venisse riconosciu­to responsabile della seduzione e dei danni conseguenti. Più difficile è capire fino a quale misura simili giudizi sulla sessualità femmini­le, da parte dei magistrati, fossero frutto di tattiche processuali, per cosi dire, e quanto vi fosse invece di intimo convincimento. L’in­fluenza del positivismo nella cultura giuridi­ca del tempo e la sua teorizzazione di una “fi­siologica” inferiorità femminile, giustificava­no, ad esempio, la minore imputabilità della donna, soprattutto riguardo a reati che ave­vano a che fare con la sfera dei sentimenti e

della sessualità dove, si supponeva, era inevi­tabile che le protagoniste agissero in preda a passioni incontrollabili24. Il fatto che dalla seduzione fosse nato un bambino, del quale solo la donna aveva deciso di occuparsi, non bastava evidentemente a far si che l’uo­mo fosse tenuto a risponderne in qualche mi­sura, comunque fossero andate le cose. Per venir riconosciute meritevoli di risarcimento occorreva dimostrare anche di essere state as­soggettate alla volontà dell’uomo, presentan­dosi come un “soggetto passivo di tale inge­nuità ed inesperienza, da poter essere ingan­nata” 25. Le azioni per danni derivanti da se­duzione riproducevano dunque inalterato il vecchio concetto di tutela tradizionalmente applicato alle donne, che riconduceva anche le nubili maggiorenni ad una condizione di subalternità rispetto all’uomo, a dispetto del­le timide, ma significative aperture del Codi­ce Pisanelli. I paradossi in cui si incorreva nel richiamarsi ai principi di quella pretesa “uguaglianza giuridica” ratificata dal Codi­ce, erano il risultato delle contraddizioni di cui la stessa legislazione si faceva portatrice e che proprio nel capitolo della filiazione na­turale trovavano la loro più chiara esplica­zione. Era infatti mistificatorio proclamare l’uguaglianza giuridica della nubile maggio­renne rispetto all’uomo e contemporanea­mente introdurre una norma che la lasciava sola ad affrontare il problema di una mater­nità illegittima, impedendole così di vivere di­gnitosamente e serenamente la propria con­dizione e obbligandola ad aggirare la durezza della legge facendo ricorso ad una disposizio­ne che, per essere applicata, aveva bisogno di proclamare l’inferiorità della donna e il suo bisogno di essere “tutelata” .

23 Corte d’Appello di Genova, 11 ottobre 1898, “Monitore dei tribunali”, 1899, serie II, voi. II, p. 131.24 Cfr. in proposito Marina Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell'immaginario penalistico dell’uomo, “Democrazia e diritto”, 1993, n. 2, pp. 99-143."5 Cosi secondo la Corte d’Appello di Venezia, che nel 1911 aveva rigettato l’azione proposta da un’operaia — L. R., impiegata presso il lanificio Marzotto di Vicenza — nei confronti di un suo compagno di lavoro, perché “ad onta della sua età giovanile [era] troppo addestrata nelle battaglie dell’amore”, Corte d’Appello di Venezia, 1 marzo 1911, “Il Fi­langieri”, 1911, pp. 774-775.

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Una simile interpretazione dell’art. 1151 lasciava spazio a pesanti contraddizioni, le cui maggiori conseguenze ricadevano soprat­tutto sui figli “illegittimi” , come testimoniato anche dal caso precedentemente citato. Seb­bene il processo giungesse inevitabilmente ad accertare il rapporto di paternità che lega­va il “seduttore” al figlio nato dalla relazio­ne, ciò contribuiva soltanto a rafforzare l’i­potesi del danno, poiché 1’ art. 189 impediva di imporre ad un uomo un’indesiderata pa­ternità e di determinare tra lui e la prole un vincolo di stato civile, dal quale sarebbero derivati precisi diritti e doveri reciproci26 27. E ciò anche in presenza di circostanze che avrebbero dovuto fugare qualsiasi dubbio o incertezza, per esempio quando vi fosse stata ammissione di paternità da parte dell’uomo, o una lunga e notoria convivenza della cop-

• 27pia .Anche autorevoli esponenti della cultura

giuridica, del resto, non mancavano di rile­vare con molta acutezza quale fosse il reale significato delle azioni per danni derivanti da seduzione. Riflettendo in margine ad una sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Catania, il noto giurista Carlo Felice Gab­ba analizzava con estremo rigore gli assunti fondanti questo tipo di azioni giudiziali. Gabba osservava che, poiché oggetto del giudizio non era affatto la seduzione pura e semplice, ma la seduzione implicante gravi­danza, era ovvio che l’azione relativa era da considerarsi “un’azione di paternità natu­rale, sotto forma di causata gravidanza [...]; come può infatti il giudice persuadersi della causata gravidanza, ove il convenuto neghi di esserne causa, se non con opportuni mezzi di prova? E qual prova è questa se non della

paternità illegittima?”. Pertanto concludeva che dal punto di vista strettamente giurispru­denziale, l’applicazione di tale articolo a fa­vore delle madri nubili costituiva un clamo­roso errore. Dal punto di vista politico, tut­tavia, ciò non era da deplorarsi, dal momen­to che i tribunali intendevano cosi forzare l’interpretazione della legge in nome dell’ “imperiosa giustizia” . Sebbene su posizioni conservatrici, cioè, anche un giurista dell’au­torevolezza e della fama del Gabba ricono­sceva la necessità di “far quella giustizia dei seduttori di donna onesta che la legge purtroppo non [consentiva]”28.

Questa ‘favorevole disposizione’ della ma­gistratura nei confronti delle madri nubili — assieme all’acquisizione, da parte di queste ultime, di quella consapevolezza necessaria per far fronte all’ordine esistente e per rivol­gersi alle istituzioni non più soltanto per chie­dere assistenza e beneficenza, ma per ottenere giustizia — era, probabilmente, frutto del crescente valore assegnato alla maternità e alla missione materna della donna da ampi settori della cultura italiana. Ed era inoltre l’accresciuta sensibilità nei confronti dell’in­fanzia a non consentire più, come avveniva in passato, il sistematico abbandono in ospi­zio dei bambini nati fuori dal matrimonio e a rendere necessario un ripensamento dei modi più adatti per far fronte al problema delle na­scite illegittime, dal momento che le soluzioni tradizionali non erano più proponibili.

Da quanto detto finora si comprende bene che l’esito di questi procedimenti giudiziari non fosse tanto dettato da un’apertura nei confronti delle madri nubili, ma rappresen­tasse piuttosto il minimo che si potesse loro concedere, indipendentemente dalla consi-

26 Ciò non escludeva, tuttavia, che nei casi in cui entrambi i genitori avessero effettuato il legale riconoscimento del figlio naturale, la legge riservasse “di preferenza” al padre il diritto di esercitarne la tutela, secondo quanto stabilito dall’art. 184 Codice civile. Cfr. Nicola Stolti, Diritto Civile, Torino, Utet, 1921, voi. V, pp. 716 sg.27 11 Codice non riconosceva in proposito alcun valore alle prove testimoniali e solo un’esplicita dichiarazione scritta obbligava il genitore a provvedere al figlio naturale, escludendo peraltro anche in questo caso l’attribuzione in giudizio della paternità e limitando gli obblighi verso la prole ai soli alimenti.28 Carlo Felice Gabba, “Il Foro Italiano”, 1897, I, p. 718.

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stenza degli indennizzi che le protagoniste di un’azione giudiziale si vedevano talvolta ri­conoscere dai tribunali.

Se la donna coinvolta in una maternità ex­traconiugale fu gradualmente persuasa ad occuparsi personalmente del figlio, senza che parallelamente venisse ‘responsabilizza­to’ anche l’uomo; se dunque il peso e la re­sponsabilità di un figlio naturale venivano ri­versati tutti sulla madre — che poteva conta­re solo su un soccorso temporaneo e di bassa entità da parte delle istituzioni e che, se lavo­ratrice, percepiva di regola un salario molto inferiore a quello di un lavoratore — acco­gliere favorevolmente le istanze di una madre nubile che ricorreva in tribunale rappresenta­va il minimo che si potesse concedere, piutto­sto che prefigurare una ‘favorevole disposi­zione’ nei suoi confronti. Ritengo, in altre pa­role, che a fronte delle trasformazioni istitu­zionali intervenute nelle politiche di assisten­za alle madri nubili, si rendesse necessario concedere un aiuto a quelle di loro che si ri­volgevano ai tribunali. E la soluzione del ri­sarcimento per seduzione si rivelava essere quella meno “costosa” in termini di stabilità sociale, proprio perché non incideva sugli equilibri familiari, che restavano immutati.

Una simile ipotesi è suggerita dall’analisi delle ben più rare azioni di paternità a favore del figlio intentate direttamente dalla donna, che riteneva poter rientrare nei casi previsti dall’art.189 Codice civile, perché rapita o violentata dall’uomo che indicava quale pa­dre del bambino. Anche se gli scarsi casi rile­vati nella letteratura giuridica non consento­no di formulare una tipologia, mi sembra tut­tavia plausibile ritenere che potesse essere proprio l’atteggiamento sfavorevole dimo­strato dalla giurisprudenza a scoraggiare l’i­niziativa di quelle donne che avrebbero potu­to richiamarsi alla legge vigente.

Nel 1887 la Corte d’Appello di Napoli esa­mina la vicenda di Luisa Maestro, la quale, agendo sia in nome proprio sia in nome del figlio naturale Nicola, aveva tre anni prima

citato in tribunale le eredi di Gennaro Bevi­lacqua, chiedendo venisse giudizialmente ri­conosciuta la paternità di questi nei confronti del figlio e quindi attribuita al bambino l’in­tera eredità dell’uomo, “stante la indegnità delle convenute a succedere”. Nel corso del dibattimento era stato accertato che all’età di diciotto anni Luisa — dimorante fin da bambina presso la famiglia dell’uomo, pro­babilmente in qualità di domestica — era sta­ta costretta a “difendere il suo onore dagli appetiti sessuali” di Gennaro Bevilacqua, fuggendosene di notte e rifugiandosi presso l’abitazione di una persona di fiducia della madre. Da qui però la ragazza era stata vio­lentemente rapita da due sicari del Bevilac­qua, che l’avevano condotta in una casa di campagna di proprietà dell’uomo, dove — rinchiusa e “rigidamente custodita” dal rapi­tore e da due vecchi pastori — era rimasta per circa diciotto mesi in balia della violenza “rigorosa, feroce ed immanente” del suo pa­drone, che solo alla nascita del figlio Nicola l’aveva lasciata finalmente libera. Luisa ag­giungeva inoltre che il Bevilacqua era morto circa tre anni dopo, senza aver potuto rico­noscere il figlio, come avrebbe desiderato, per impedimento della madre e della sorella, e senza aver fatto testamento. La Corte, valu­tando tutti questi elementi, ritenne di dover rifiutare l’accoglimento della domanda della Maestro, basandosi sui seguenti ragionamen­ti: veniva prima di tutto sottolineato che il concepimento del bambino era avvenuto di­versi mesi dopo il rapimento della donna, quando — pur perdurandone le conseguenze — al reato di ratto previsto dall’art. 189 era subentrato quello di sequestro di persona: “in questo caso, ammettere le indagini in ba­se al ratto, quando questo si tramutò in se­questro di persona, e per un figliolo nato e concepito all’epoca di questo, significherebbe ammettere, sotto la mentita forma del ratto, un’azione di paternità che sostanzialmente ri­guarda il sequestro della persona, ipotesi non prevista dalla legge, e che dando luogo alla

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possibilità del plurium concubentium non può essere base di un’azione vagante nel campo delle presunzioni e delle congetture29”. Con­siderata poi la durata del sequestro e Faffida- mento della custodia ai due pastori, sarebbe venuta a mancare la condizione necessaria a questo tipo di azioni, ossia “la permanenza della rapita nell’esclusivo potere del rapito­re” . Anche nelle legislazioni precedenti, so­steneva la Corte, “bastava la semplice possi­bilità che un altro avesse avuto agio di usare la donna divenuta incinta per rigettare la pre­sunzione di paternità derivante dalla custodia ventris mulieris’’30.

A nulla valeva provare, come pure Luisa Maestro fece, che “il sacrificio [era stato] compiuto nel modo più violento e brutale e fino con percosse e scudisciate” e che, in se­guito, il Bevilacqua non avesse mai fatto mi­

stero della sua paternità, che la sua stessa ma­dre riconoscesse il bambino per suo nipote, al punto di mantenerlo in casa propria assieme agli altri, e dando di tanto in tanto “qualcosa da vivere” a Luisa. Tutto ciò — osservava la Corte — non era sufficiente per il Codice ita­liano ad “imporre una paternità a chi non la vuole” .

Alla liberalità dimostrata dalla pratica giuridica verso quelle madri nubili che si limi­tavano a chiedere il risarcimento dei danni morali e materiali per seduzione, corrispon­deva dunque un estremo rigore verso coloro le quali, proponendo azione di paternità a fa­vore del figlio, avrebbero potuto far vacillare i principi di stabilità sociale e di salvaguardia degli interessi patrimoniali delle famiglie agiate, che erano all’origine dell’introduzione dell’art. 189 nella legislazione unitaria.

29 F.S. Gargiulo, Nota in margine alla sentenza emessa dalla corte d’Appello di Napoli, 11 marzo 1887, “Foro Italia­no”, 1887, voi. XII, sez. I, p. 70130 F.S. Gargiulo, Nota in margine, cit. La “custodia del ventre”, ossia la sicurezza che nessun altro uomo, oltre quello in­dicato come padre, avesse avuto rapporti sessuali con la madre del bambino nato fuori del matrimonio, era una delle con­dizioni che nelle legislazioni di alcuni stati preunitari rendevano possibile la ricerca della paternità. Accanto a questa veni­vano generalmente richieste la agnizione paterna e il possesso di stato del figlio. Cfr. Nicole Amaud-Duc, Le contraddizioni del diritto, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne. L'Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 51-88.

IL PENSIERO ECONOMICO MODERNOSommario del n. 1-2, giugno 1995

Articoli

A. Fazio, La finanza pubblica in Italia; R. Zangheri, Fra cronaca e storia: il primo movimento socialista italiano in alcuni giudizi contemporanei; G. Ratti, La privatizzazione delle aziende pubbliche locali-, L. Fornaciari Davoli, Università e imprese nell'attuale fase di evoluzione; V. Saba, Storia e politica del lavoro-, P. Pasture, E. Lamberts, Il sindacalismo cristiano in Europa: passato, presente e prospettive future-, R. Orsini, L’economia posizionale: limiti e forme della crescita.

Osservatorio

V. Campetti, Rinasce la prestigiosa rivista "Nuova economia e storia”-, S. Trucco, Un volume di Studi in memoria di Gino Barbieri.

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La ‘resistenza civile’Note su donne e seconda guerra mondiale

Madelon de Keizer

In quanto storica che si occupa della seconda guerra mondiale, con un interesse particolare per la resistenza all’occupazione tedesca all’in- temo dei Paesi Bassi (1940-1945), non mi han­no mai completamente convinto le analisi fat­te dagli storici sulla nascita e sullo sviluppo della Resistenza in paesi occupati come la Francia, il Belgio e l’Olanda. Secondo queste analisi, all’origine della Resistenza ci sono sta­te delle azioni compiute da singole persone contro l’oppressione. Dopo un po’ questi indi­vidui hanno formato gradualmente dei gruppi organizzati di resistenza che finalmente, nel corso del 1943 e del 1944, sono cresciuti fino a diventare la ‘Resistenza’, un’istituzione ba­sata sull’impegno collettivo. Gli storici hanno distinto parecchie categorie di resistenza, eti­chettandole a seconda della natura degli atti di resistenza che venivano compiuti dal singo­lo o dal gruppo: resistenza militare, resistenza passiva, resistenza attiva, resistenza spirituale, resistenza simbolica, e così via. La resistenza militare è stata considerata come il tipo di re­sistenza più efficace, ma anche alla resistenza passiva, simbolica e spirituale in quanto atti di patriottismo sul fronte interno è stato tribu­tato, in generale, il debito riconoscimento. Benché fosse noto che certi gruppi avevano giocato un ruolo più rilevante di altri, e certe

regioni del paese avevano dispiegato una resi­stenza maggiore di altre, gli storici tendevano a dare delle interpretazioni della Resistenza di carattere generale e nazionale. Queste inter­pretazioni a tesi della storia della Resistenza durante l’occupazione tedesca vennero larga­mente influenzate da considerazioni politiche proprie del periodo postbellico.

In completo accordo con queste concezio­ni, l’attività delle donne veniva collocata al­l’interno del sostegno, della cura, della logi­stica necessaria a quanti lavoravano effetti­vamente nella Resistenza. Negli anni settan­ta, le storiche femministe hanno centrato la loro attenzione sulle donne nella Resistenza, sia colmando i vuoti nella nostra conoscenza dei ruoli svolti da alcune protagoniste, sia analizzando i compiti che nella Resistenza le donne ricoprirono. Si discusse allora sulla questione se fosse ammissibile o meno chia­mare le azioni compiute dalle donne nel con­testo della famiglia (per esempio, la cura delle persone nascoste, il farsi carico della fami­glia) ‘Resistenza’. Quando, negli anni ottan­ta, “lo specchio fu rotto” — come ha scritto lo storico francese Henry Rousso, per signifi­care che la Resistenza come concetto nazio­nale era andata in frantumi1 —, gli storici della seconda guerra mondiale rivolsero una

Testo dell’intervento presentato al seminario internazionale “Donne, guerra, Resistenza nell’Europa occupata” (Mila­no, 14-15 gennaio 1995), promosso dalla Società italiana delle storiche, dallTnsmli, dagli Archivi riuniti dalle donne, dall’Unione femminile nazionale col patrocinio della Regione Lombardia e del Comitato provinciale dell’Anpi.1 Henry Rousso, The Vichy Syndrome. History and Memory in France since 1944, Cambridge (Mass.)-London, 1991, p. 28 (ed. or. La syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, Paris, Seuil, 1990).

Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

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maggiore attenzione al collaborazionismo. Di donne in quanto madri, vittime, o colla- borazioniste si occupò la storiografia femmi­nista. Attualmente la rappresentazione delle donne è un concetto chiave per ampliare le nostre conoscenze sui caratteri di genere della guerra e della Resistenza.

Nel frattempo, nessuna ricerca veramente nuova è stata fatta sui ruoli e le posizioni oc­cupate dalle donne nella Resistenza. Questo tema ha dovuto aspettare una ‘nuova’ storia, postnazionale della Resistenza, che utilizzas­se nuovi concetti sociologici e psicologici di società oppressa.

In questo saggio vorrei prendere in esame il concetto di resistenza civile. Gli storici della seconda guerra mondiale hanno dimo­strato recentemente un interesse crescente per una lettura funzionalistica della Resi­stenza. Mi riferisco in particolar modo a un libro dello storico francese Jacques Sé- melin2. La sua visione della resistenza civile ha inspirato anche la relazione di Anna Bra­vo “Madri in guerra. La manutenzione della vita nell’Italia occupata 1943-1945”, da lei presentata al convegno di Arezzo del giugno 1994, ma che, dato il tema di quel convegno, non ha ricevuto al momento l’attenzione che meritava3.

La concezione che Bravo ha della materni­tà come di una “forma specificamente fem­minile di resistenza civile” è molto utile per capire le rappresentazioni e le autorappresen­tazioni ideologiche e storiografiche della po­sizione e del comportamento delle donne du­rante la guerra. Tuttavia vorrei rilevare che questa visione del comportamento delle don­

ne non tiene in considerazione le loro svaria­tissime motivazioni e reazioni, né di quelle che parteciparono alla Resistenza, né di quel­le che con la Resistenza non ebbero rapporti. La categoria della “maternità” proposta da Anna Bravo rischia di generare un’interpre­tazione piuttosto statica del loro comporta­mento e delle loro opinioni. Cercherò di di­mostrare che la ricerca sulle donne e la guerra e sulle donne e la Resistenza può essere inve­ce infinitamente arricchita se si cerca di capi­re il comportamento delle donne situandolo nel contesto dell’evoluzione della resistenza civile.

Innanzitutto, comunque, vorrei approfon­dire il concetto di resistenza civile in quanto tale, che a mio modo di vedere apre la via a un ripensamento della Resistenza e anche a una ricollocazione degli atteggiamenti e del comportamento delle donne in quella che fu una guerra totale. A questo fine, proporrei di adattare o, più precisamente, di estendere, il concetto di resistenza civile al periodo suc­cessivo al 1943. Nel far ciò occorre tenere presente l’impatto avuto dal cambiamento della politica tedesca nei confronti delle po­polazioni nei paesi occupati, che da allora in poi vennero direttamente colpite nella loro vita quotidiana.

Per sostenere la mia argomentazione mi ri­ferirò ad alcune questioni da me poste in uno studio da me presentato a Bruxelles nel no­vembre del 1994, che era il risultato di una ri­cerca condotta in parallelo alla mia tesi sulla storia del giornale della resistenza “Het Pa- rool”, diffuso in Olanda durante l’occupazio­ne tedesca4. Dovendo riscrivere questa tesi

2 Jacques Sémelin, Unarmed agaist Hitler: Civilian Resistance in Europe 1939-1943, Westport, Connecticut-Praeger, 1993 (ed. or. Sans armes face à Hitler, Paris, Editions Payot, 1989; trad. it. Senz’armi di fronte a Hitler, Torino, Sonda, 1993). Cfr. anche R. Kedward, Resistance in Vichy France: a Study of Ideas and Motivations in the Southern Zone (1940- 1941), Oxford, Clardendon Press, 1978; Id., In search of the Maquis: Rural Resistance in Southern France (1942-1944), Oxford, Clarendon Press, 1993.3 Convegno internazionale di studi per il cinquantesimo anniversario dei massacri in provincia di Arezzo (Civitella della Chiana, San Pancrazio, San Polo e Vallucciole) “Per una memoria europea dei crimini nazisti, dopo la fine della guerra fredda”, (Arezzo. 22-24 giugno 1994).4 Madelon de Keizer. Het Parool 1940-1945: verzetsblad in oologstijd, Amsterdam, Cramwinckel, 1991.

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La ‘resistenza civile’ 471

per un editore americano, ho ricostruito la storia di questo giornale della Resistenza sia dal punto di vista della Resistenza civile che dell’opinione pubblica. In altri termini, ho raccontato la storia di “Het Parool” in con­nessione al cambiamento di atteggiamenti, opinioni e mentalità della popolazione olan­dese durante l’occupazione tedesca5. Nello studio presentato a Bruxelles, l’analisi quan­titativa dei gruppi di persone che durante la Resistenza diffondevano questo giornale mi ha spinto ad utilizzare anche la categoria di genere. Infatti, le descrizioni e le spiegazioni di cui disponevo circa il carattere ovviamente di genere della resistenza nel suo complesso e, in particolare, della partecipazione delle don­ne alla distribuzione di moltissimi giornali della resistenza diffusi nel paese a partire dal 1943, sono risultate essere insufficienti e inadeguate. Se invece si guarda al comporta­mento e agli atteggiamenti delle donne nella seconda guerra mondiale come parte della storia della resistenza civile, vale a dire come la conseguenza dell’inevitabile e assoluta- mente essenziale coinvolgimento della fami­glia nella Resistenza civile durante gli ultimi anni di guerra, essi possono assumere un vol­to completamente nuovo.

Le resistenze

A partire dagli anni settanta molti studiosi hanno proposto un prospettiva più analitica e comparativa della storia della seconda guerra mondiale. Essi, in primo luogo, hanno indicato la necessità, allo scopo di cogliere le continuità negli atteggiamenti, nelle ideolo­gie e nelle istituzioni, di andare oltre i confini angusti del periodo 1939-1945. In secondo luogo, hanno posto l’esigenza di utilizzare

nell'analisi delle esperienze delle popolazioni un metodo più scientifico al posto della limi­tata visione politica e morale degli atteggia­menti delle popolazioni adottata sino ad allo­ra dagli storici della guerra e della Resisten­za, che consisteva nel percepirli in termini o di resistenza o di collaborazionismo. Si sono pertanto presi in esame gli stati d’animo delle popolazioni dei paesi in guerra, come anche il loro comportamento, la loro opinione e i loro modi di sentire.

Questo cambiamento di prospettiva ha in­coraggiato la nascita di una ‘nuova storia’ della Resistenza che tenga in considerazione la varietà dell’opposizione interna all’occu­pazione tedesca e veda la Resistenza come un fenomeno storico-sociologico, da studiare con metodi sociologici e socio-psicologici. La Resistenza in tal modo viene vista come la reazione di un’intera società all’aggressione. Di conseguenza possono essere tracciati dei quadri più dinamici dell’evoluzione della Re­sistenza, o delle ‘resistenze’, come dice giusta­mente Semelin6. Le visioni storiche tradizio­nali, dominate dalla dicotomia collaborazio- nismo/Resistenza, sono state gradualmente abbandonate. Al momento attuale, l’approc­cio più promettente sembra essere quello di un’analisi dei movimenti di Resistenza in rapporto con i loro contesti sociali e psicolo­gici. Le manifestazioni di opposizione collet­tiva vengono viste come l’espressione clande­stina e organizzata di un’opinione che non può essere detta ad alta voce.

Sémelin ha definito resistenza civile il pro­cesso spontaneo di lotta di una società disar­mata contro l’aggressione. Anche se questo fenomeno comprende la resistenza disarmata di certi individui o gruppi al servizio di obiet­tivi bellici o della lotta paramilitare, il suo studio riguarda essenzialmete le azioni auto-

Madelon de Keizer, Resistanee. Public Opinion and tlw Resistanee Press: thè Oliteli Resistanee Paper Het Parool (ili prossima pubblicazione presso la Princeton University Press), presentalo al Colloque internalional “La Résislance el les Européens dii Nord” (Bruxelles, 23-25 novembre 1995).6 J. Sémelin. Unarnicil aguinsi Hitler, cit., p. 25.

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472 Madelon de Keizer

nome di resistenza civile esplicitamente rivol- r te ad obiettivi civili7. La resistenza civile, os- c sia la resistenza non armata, può avere origi- s ne nelle istituzioni (come il governo e le sue camministrazioni, i partiti politici, le chiese, i csindacati e le associazioni) e nelle masse. La r massa della popolazione può esprimerla at- I traverso scioperi, dimostrazioni e altre forme {di disobbedienza civile. i

Quella di resistenza civile è una locuzione i che ne sostituisce altre usate in passato, come t guerra psicologica o resistenza passiva nel si- s gnificato di non violenta, per indicare dei fe- c nomeni per lo più ritenuti complementari alla c resistenza militare — vista come la vera Resi- 1 stenza. Quelle locuzioni esprimono una sot- t tovalutazione della capacità della resistenza i civile di sostenere e rafforzare lo scontro mi- i litare e contemporaneamente non rendono £ giustizia a uno degli scopi della resistenza ci- £ vile che è quello della mobilitazione sociale e t della non-cooperazione. Quest’ultima forma i di resistenza civile è abitualmente definita re- t sistenza non-violenta. Tuttavia essa fu non- 1 armata per mancanza di armi, non rifiutava 1 la violenza come principio strategico. Questo ì tipo di resistenza civile autonoma ha lo sco- 1 po, per dirla con Sémelin, “di conservare Fin- i tegrità della società civile, la coesione dei 1gruppi sociali della società civile, la difesa ]delle libertà fondamentali e il rispetto per i < diritti individuali e per le conquiste sociali e < politiche”8. Raramente essa si rivolse aperta- i mente contro le forze di occupazione. “L’o- i biettivo di questa lotta spontanea fu invece quello di preservare l’identità collettiva delle 1 società aggredite, vale a dire i loro valori fon- 1 damentali”9. <

L’analisi comparativa di Semelin della re- 1 sistenza civile in Europa va dal 1939 alla pri- ]

7 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., p. 2.8 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., p. 30.9 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., p. 3.10 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., pp. 33-34.11 J. Sémelin, Unarmed Against Hitler, cit., pp. 77-80, 83-84.

mavera del 1943, quando F‘opinione pubbli­ca’ dei paesi occupati cambiò radicalmente in seguito alla battaglia di Stalingrado. Invece di una resistenza civile allo scopo di ‘non ce­dere’, si ebbe allora una resistenza la cui di­namica generale divenne di liberazione10. Durante la prima fase della guerra, ogni po­polo sotto occupazione dovette recuperare una certa “coesività nel resistere” che fu in­nanzitutto il risultato della progressiva e set­toriale mobilitazione di vari gruppi profes­sionali e sociali. Il mutato atteggiamento dei nazisti nel 1943 costituì un importante contributo a questo processo di recupero. La sempre crescente pressione delle autorità tedesche sulla società civile cambiò conside­revolmente le relazioni tra oppressore e op­pressi. In linea generale, la gente incominciò a sentire l’impatto che l’occupazione tedesca aveva sulla sua vita quotidiana, come risulta­to dello sfruttamento delle risorse umane e materiali. Dal settembre 1942 in avanti, cen­tinaia di migliaia di uomini tra i 18 e i 50 anni vennero reclutati per il lavoro obbligatorio. In Olanda i provvedimenti tedeschi a questo riguardo provocarono un grande sciopero al­la fine di aprile 1943, al quale prese parte mezzo milione di persone. Da quel momento, la coesione interna della popolazione crebbe rapidamente. Si verificarono numerosi casi di solidarietà verso gli arruolati per il lavoro obbligatorio in tutti gli ambienti sociali. La resistenza organizzata incominciò ad acquisi­re le sue reali proporzioni1 '.

La nuova fase di crescita della coesione in­terna dei paesi occupati, che va dal 1943 alla fine della guerra, non è argomento del libro di Sémelin. Va sottolineato che la natura del­la resistenza civile cambiò notevolmente do­po quella data non solo nei Paesi Bassi, ma

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La ‘resistenza civile’ 473

anche in Francia e in Belgio. Nei Paesi Bassi venne decisa dal maggio del 1940 la Zivilver- waltung e la popolazione venne sottoposta a una pesante nazificazione. Questa fu una del­le principali ragioni per cui la stampa della Resistenza assunse una funzione primaria. Il processo di unificazione di una ventina di gruppi di Resistenza, che andava dalla resi­stenza paramilitare all’aiuto a coloro che si volevano nascondere, ebbe come risultato la formazione di un organismo unitario della Resistenza che dall’estate del 1944 in avanti lavorò in stretta collaborazione col governo olandese in esilio.

E essenziale capire che dal 1943 in avanti, accanto ai movimenti organizzati di resistenza e con fini di assistenza, la famiglia divenne un elemento istituzionalizzato della resistenza ci­vile, coinvolto in una battaglia di natura poli­tica, partecipe del generale processo di crescita della coesività interna della società e di difesa della sua stessa identità. Approfondirò dun­que l’interpretazione dell’indispensabile e, in questa fase della guerra, logico coinvolgimen­to della famiglia nella Resistenza. Esso va vi­sto come il legame finale della reazione a cate­na che, come in un esperimento chimico, per citare Semelin, coagulò certi gruppi sociali nell’azione prima del 194312.

La resistenza civile e la famiglia

Durante i primi due o tre anni dell’occupa­zione tedesca dei Paesi Bassi, la famiglia ven­ne deliberatamente tenuta fuori gioco dagli individui che facevano la Resistenza. I mariti non parlavano con le mogli delle azioni clan­destine cui partecipavano, e i figli e le figlie mantenevano il silenzio con i genitori. Qual­siasi coinvolgimento di membri della fami­glia nella loro attività clandestina era consi­derato una minaccia per l’incolumità dell’in­tero gruppo di Resistenza di cui ciascuno fa­

ceva parte e viceversa. La protezione della fa­miglia rispetto alla violenza, che si giocava all’esterno, ben corrisponde alla concezione prebellica della famiglia come parte della sfe­ra privata, interessata alla politica solo indi­rettamente, attraverso i suoi membri maschi. Vorrei dire però che questo fatto era altret­tanto coerente con la natura del fenomeno iniziale della Resistenza e ha molto a che ve­dere con la politica di riconciliazione portata avanti durante il primo periodo dell’occupa­zione.

Nella fase iniziale della guerra, individui singoli incominciarono a cercare di influire sulla pubblica opinione attraverso la diffu­sione di volantini contro l’oppressore, fracas­sando le finestre dei collaborazionisti e com­piendo altri atti di resistenza simbolica (in­clusi piccoli atti di sabotaggio), rivolti più contro i collaborazionisti olandesi che contro i tedeschi. Scioperi spontanei, come quello ben noto del febbraio 1941 ad Amsterdam, non portarono a un fondamentale cambia­mento nella natura della prima resistenza ci­vile. I primi gruppi di resistenza nel 1940- 1941 erano mal organizzati e i pochi, preva­lentemente paramilitari, che si distinsero in qualche modo furono costretti a pagare pe­santemente per il loro dilettantismo. Man­cando qualsiasi esperienza sulla resistenza al­l’occupazione di un paese straniero, si dovet­tero inventare nuovi comportamenti e nuove regole.

Malgrado ciò, durante questo periodo di formazione, si ebbero atti spettacolari di resi­stenza compiuti da alcuni gruppi sociali o professionali che potevano ricorrere a una forte coesività sociale, come i medici, i mem­bri del vecchio esercito olandese, le chiese cattoliche e protestanti, il movimento giova­nile socialista, il Partito comunista. La stam­pa della Resistenza (per la quale lavorarono ex giornalisti, ex leader politici e intellettuali) giunse a svolgere un ruolo chiave nel mutare

12 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., pp. 84.

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l’orientamento del popolo olandese che, per quanto fondamentalmente antitedesco, mira­va a un compromesso con le autorità tede­sche.

Le cose cambiarono radicalmente alla fine del 1942. Due importanti eventi contribuiro­no al mutamento sia del comportamento che dell’atteggiamento della gente. In primo luo­go gli umori della società olandese cambiaro­no profondamente quando parve che le trup­pe alleate avessero successo nel loro contrat­tacco in Nord Africa e in Russia. Dopo la battaglia di Stalingrado del gennaio del 1943, la convinzione che la Germania avreb­be vinto la guerra venne via via sostituita da una fiducia crescente nella liberazione finale dall’occupazione tedesca da parte degli eser­citi alleati. Nello stesso momento in cui le pro­spettive della popolazione olandese cambiava­no, le autorità tedesche incominciarono a im­porre una feroce politica di sfruttamento.

La repressione dell’invasore può creare coesione13. Fu ciò che successe esattamente in Olanda a partire dal dicembre 1942. La si­tuazione economica del paese stava deterio­randosi rapidamente, ma i rapporti tra l’op­pressore e l’oppresso andavano anche peggio a causa delle misure prese dalle autorità tede­sche contro gli studenti e i maschi adulti che venivano reclutati per il lavoro obbligatorio in Germania. “A quel punto”, conclude Se- melin, “molte erano le famiglie colpite. Ciò che [la gente] trovava intollerabile era di esse­re strappata brutalmente e arbitrariamente dal suo ambiente” 14.

Con la primavera del 1943, la famiglia ave­va perduto la sua ‘innocenza’ politica e la sua posizione relativamente neutrale di ‘compro­messo’. In tutto il paese c’erano famiglie col­pite o che potevano essere colpite dalle stesse misure decise dalle forze di occupazione, e

13 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., p. 8714 J. Sémelin, Unarmed against Hitler, cit., p. 8015 Si noti che le misure tedesche contro i maschi olandesi portazione del 1940-1943 che portò alla morte del 75 per

dappertutto, quasi contemporaneamente, le madri impararono come difendere i loro uo­mini. La famiglia era coinvolta nella catena delle manifestazioni di resistenza civile che era incominciata nell’estate del 1940. In un contesto nazionale e internazionale modifica­to, la resistenza civile non poteva limitarsi a certi gruppi sociali e professionali la cui coe­sione era abbastanza forte e che avevano in­teressi abbastanza importanti da spingerli a fronteggiare l’oppressione tedesca15. L’istitu­zione che rappresentava uno dei valori basi­lari della società — la famiglia — doveva es­sere difesa contro il pericolo della deporta­zione di migliaia di uomini in Germania. E per questo che la famiglia divenne l’ambito della resistenza civile per eccellenza.

Non è il caso di approfondire qui il discor­so sulle molteplici manifestazioni di resisten­za civile della famiglia. Esse sono ben note. Uomini e donne, nel loro ruolo di mariti e di mogli o di figli e figlie, ne furono attori a diversi livelli, a seconda della loro età e della posizione sociale e professionale che occupa­vano in quel momento. Attraverso travesti- menti e falsificazioni, la concezione di genere e la visione tradizionale della famiglia e dei ruoli — e delle posizioni delle donne al suo interno — condivisa peraltro con le forze di occupazione tedesche —, veniva stravolta per trarre in inganno i persecutori.

La famiglia divenne l’ambito per eccellen­za in cui realizzare due importanti obiettivi della resistenza civile. Innanzitutto essa di­venne il luogo dell’effettiva resistenza ai ten­tativi tedeschi di deportare un’alta percen­tuale di uomini per il lavoro obbligatorio. Prima del 1943 degli ebrei erano stati tenuti nascosti occasionalmente da famiglie, ma per svariate ragioni questo si era verificato sfortunatamente solo in pochi casi. Quando

differivano completamente dalla politica di isolamento e de­cento degli ebrei (140.000 nel 1940) nei Paesi Bassi.

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La ‘resistenza civile' 475

la Resistenza si sviluppò dopo il 1943, la fa­miglia divenne il luogo cui coloro che lavora­vano nella Resistenza ricorrevano per avere cibo, per nascondersi e fare riunioni. In se­condo luogo, la stessa famiglia fu diretta- mente minacciata e, come istituzione sociale fondamentale, doveva essere difesa il più possibile per prevenire la totale disintegrazio­ne della società.

Ricoprendo queste funzioni nel contesto della resistenza civile, la famiglia non poteva essere più tenuta al di fuori della politica. An­che se il compromesso rimaneva l’atteggia­mento di fondo della popolazione, ora che la famiglia era soggetta alla repressione tede­sca si compì l’ultima funzione della resistenza civile: la politicizzazione ‘totale’ della società come prerequisito per la resistenza all’aggres­sore.

Anche se concordo con Anna Bravo sul fatto che le azioni delle donne dopo il 1943 devono essere considerate nel contesto della resistenza civile, vorrei mettere in discussione la sua definizione del loro coinvolgimento nella Resistenza: secondo lei, la forma speci­ficamente femminile della resistenza civile sa­rebbe ‘una sorta di maternage di massa’. An­che in Olanda si può rilevare quanto Bravo osserva per l’Italia e cioè che, a partire dal settembre 1943 in avanti, il primato della funzione materna sembra acquistare sempre più rilievo. Questo ‘dilagare’ della funzione materna (il “maternage di massa” di Anna Bravo) nel contesto della famiglia e l’emerge­re del privato nella sfera pubblica sembra spiegarsi con l’evoluzione della resistenza ci­vile nel 1943. Ad ogni modo, io ritengo che, come gli atti organizzati di resistenza com­piuti da funzionari, medici, giornalisti, e altri gruppi sociali e professionali prima del 1943, le attività delle donne dopo il 1943 debbano essere considerate come reazioni alle intimi- dazioni del regime tedesco. La famiglia non era più un luogo privato: era stata fatta a pez­zi sia dai tedeschi che dalla Resistenza. Per sopravvivere, doveva aprirsi alla società. Co­

me abbiamo visto, le donne non ricoprirono nessun ruolo specifico nel processo di crescita della resistenza civile nel periodo precedente al 1943. Certo, singole donne presero parte ai primi gruppi di Resistenza anche se su sca­la relativamente ridotta. Dopo l’inizio della politica tedesca ddVArbeitseinsatz, comun­que, la famiglia divenne una nicchia di resi­stenza nella quale le donne avevano il loro posto come gli uomini; mogli e figlie giunsero a svolgere un ruolo funzionale alla resistenza civile. Più di 300.000 uomini si tennero na­scenti nel periodo 1943-1945 (la popolazione olandese a quell’epoca era di circa 9 milioni); almeno altrettanti uomini e donne furono probabilmente coinvolti nelle attività di cura di costoro.

L’evoluzione della storia della stampa del­la Resistenza mi pare che suffraghi la mia tesi della necessità di una lettura più funzionali- stica delle donne e della guerra. Prima del 1943 le donne si impegnarono sporadicamen­te per la stampa della Resistenza, il cui obiet­tivo era di mantenere la coesione sociale so­stenendo opinioni fortemente antitedesche. Nel corso del 1943 gli obbiettivi della stampa della Resistenza si ampliarono. Nella prima­vera di quell’anno, i tedeschi requisirono tut­te le radio e ciò assegnò alla stampa della re­sistenza il compito ulteriore di fornire infor­mazioni affidabili. Esso fu realizzato attra­verso la diffusione di quotidiani o di settima­nali ciclostilati di due o tre pagine. Di soliti una matrice di questi settimanali o quotidiani veniva portata da coloro che lavoravano in un giornale della Resistenza in diverse posta­zioni di stampa, dove essa veniva ciclostilata. Ciascuno di queste postazioni di stampa si assumeva la responsabilità della diffusione delle copie che tirava. Questa procedura nuo­va — dal 1941 la produzione dei giornali era stata sempre centralizzata — richiedeva che molte più persone lavorassero per la stampa della Resistenza. Il lavoro era relativamente facile. Quando la liberazione parve essere alle porte nell’agosto del 1944 — solo il Sud dei

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Pesi Bassi venne liberato nel settembre del 1944; il resto del paese lo fu nella primavera del 1945 —, questa forma di stampa clande­stina crebbe fino ad assumere proporzioni enormi. La gente si rivelò desiderosa di distri­buirne copie e vennero diffusi centinaia di migliaia di bollettini di informazione della Resistenza.

La produzione di massa di bollettini di in­formazione fu innanzitutto una reazione alla politica tedesca di oppressione. Fu però an­che un sottoprodotto dello sciopero delle ferrovie che dal settembre del 1944 aveva re­so impossibili i viaggi a lunga distanza. Oc­corre notare che fu proprio la tecnica di ci- clostilatura, tesa ad ampliare la diffusione dei giornali della Resistenza, che comportò la necessità di ricorrere alla famiglia. I ciclo­stili venivano sistemati nelle case della gente. Dal 1943 in avanti, la partecipazione delle donne (in special modo quelle che erano sta­te segretarie o dattilografe, ecc.) alla produ­zione e diffusione dei bollettini di informa­zione crebbe in modo significativo. Come ho dimostrato nella mia ricerca, l’incremen­to della partecipazione femminile non fu tanto la conseguenza della necessità di sosti­tuire gli uomini le cui vite erano messe in pe­ricolo da\Y Arbeitseinsatz. La scala di massa della produzione e della distribuzione rese semplicemente possibile la partecipazione di più donne, specialmente se esse non ave­vano un lavoro.

La politica di occupazione e la natura della reazione della resistenza civile alle intimida­zioni dei tedeschi determinò un coinvolgi­mento della famiglia — uomini e donne, figli e figlie — nella Resistenza. La famiglia non era più soltanto un rifugio dove nascondersi; essa venne esposta all’offensiva aperta della

opinione pubblica e insieme divenne uno strumento per formare l’opinione pubblica allo scopo di favorire la formazione e il man­tenimento della coesione e deH’integrità della società civile.

Le donne stesse interpretarono allora il lo­ro coinvolgimento nella sfera politica duran­te la seconda guerra mondiale — il raggiungi­mento della maggiore età come cittadine — come uno specifico contributo femminile alla patria , come una ‘maternità’ politica da con­tinuarsi, in una forma o nell’altra, nel mondo del dopoguerra. Complementare a questa autorappresentazione fu la ideologia della fa­miglia nel welfare state, in cui alla madre era assegnata una funzione essenziale. Reagendo a questa rappresentazione e autorappresen­tazione delle donne come madri, le femmini­ste abbandonarono negli anni settanta la ca­tegoria della funzione materna intesa in que­sto senso. Comunque, le rappresentazioni tradizionali delle donne nella Resistenza non sono mai state praticamente messe in di­scussione dalla storiografia16. Le modalità di partecipazione delle donne alla Resistenza furono varie (dal sabotaggio alla cura dei bambini ebrei nascosti) almeno quanto le ne­cessità e i bisogni che di volta in volta le chia­mavano in causa. La categoria di “maternage di massa” è una costruzione ideologica che non riconose pienamente la risposta delle donne all’appello della nazione alla resisten­za civile, che penetrò violentemente nella sfe­ra privata. La partecipazione di massa delle donne alla Resistenza dopo il 1943 deve esse­re spiegata in termini di resistenza civile.

Madelon de Keizer

[ traduzione dall’inglese di Paola Redaelli]

Marjan Schwegman, Jolande Withuis, Moederschap, van springplank tot obstakel. Vrouwen, natie en burgerschap in Twintigste-eeuws Nederland, in Françoise Thébaud (a cura di), De twintigste eeuw, in Georges Duby, Michelle Perrot, Geschiedenis van vrouw [edizione olandese, parzialmente modificata, di Françoise Thébaud (a cura di), Il Novecento, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, Laterza, Roma-Bari, 1992], pp. 557-583.

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Donne della Resistenza Una ricerca in corso

Dianella Gagliani Elda Guerra Laura Mariani Fiorenza Tarozzi

Le linee del progetto: domande, problemi, metodi e finalità

In queste pagine presentiamo le linee del pro­getto e alcuni primi risultati della ricerca su “Resistenza e ‘passione’ politica delle donne in Emilia Romagna”, nella convizione della produttività e della utilità di un confronto anche intorno a lavori ancora in corso di svolgimento1.

La ricerca è nata da un incontro tra parti- giane e storiche — donne diverse per forma­zione e appartenenza generazionale — per meglio comprendere il significato dell’espe­rienza femminile nella Resistenza, un incon­tro che ha portato le une a compiere quello che percepiscono come uno degli ultimi gesti della loro storia politica e le altre, vale a dire noi stesse, a interrogare quel nodo cruciale della storia recente per approfondire esiti, eredità, discontinuità nelle relazioni tra i ge­neri e nelle storie individuali di vita. Ma an­che a ripensare l’intera vicenda della guerra, della Resistenza e del dopoguerra attraverso

un diverso approccio e una diversa prospetti­va, quella della storia delle donne, per rileg­gere processi, scansioni, questioni che hanno segnato i momenti fondativi e il successivo svolgersi della storia dell’Italia repubblicana.

Tale incontro e tale desiderio di scambio, che già di per sé costituiscono un dato di ri­flessione per una possibile storia del formarsi di tradizioni femminili, hanno trovato collo­cazione in una particolare congiuntura stori­ca e politica: una ricorrenza simbolica forte — il Cinquantenario della Resistenza e della fine della seconda guerra mondiale — ha coinciso con l’emergere di una attenzione e di prime elaborazioni intorno ai caratteri e ai problemi della formazione dell’identità na­zionale, da una parte, e, dall’altra, con un in­terrogarsi intorno al nodo dei rapporti tra storia e memoria o, meglio, delle divisioni, delle stratificazioni, ovvero della pluralità delle memorie.

All’interno delle nuove tendenze della sto­riografia contemporaneistica meritano per noi una particolare sottolineatura le acquisi-

Intervento presentato al primo congresso della Società italiana delle storiche “Identità e appartenenza. Donne e rela­zioni di genere dal mondo classico all’età contemporanea. Famiglie, vita pubblica, linguaggi” . Va ricordato che alla rea­lizzazione della ricerca partecipano: Magda Abbati, Luisa Baraldi, Giuliana Bertagnoni, Lucia Bonini, Monica Casini, Silvia Corigliano, Mirella Piazzi, Angela Politi, Rossella Ropa, Carla Tonini, Adele Vaicavi, Mara Valdinosi, Cinzia Venturoli, Angela Verzelli, Paola Zappaterra.1 Con questo testo descriviamo l’origine e le linee del progetto e indichiamo i primi risultati della ricerca. Non è stato possibile sviluppare compiutamente tutti i nodi e i temi emersi e, specialmente, non ha trovato trattazione il tema, in verità centrale, della violenza, che qui compare quasi esclusivamente solo per la parte che si riferisce alla scelta femmi­nile della Resistenza armata.

Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

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478 Dianelia Gagliani, Elda Guerra, Laura Mariani, Fiorenza Tarozzi

zioni introdotte, a partire dagli anni novanta, dalle indagini intorno alla seconda guerra mondiale e, in specie, alla Resistenza, le quali hanno ridisegnato — è il caso di Una guerra civile di Claudio Pavone2 — le classiche cate­gorie di politica e di storia politica, su cui la storia delle donne ha avviato una discussione e una rielaborazione pur in riferimento preva­lente ad altri periodi e contesti. Il nostro pro­getto, dunque, si colloca all’incrocio tra le ten­denze della storiografia contemporaneistica “generale” e i risultati raggiunti dagli studi di storia delle donne la cui prospettiva, piutto­sto e anziché come vittime, le esamina come soggetti di azione e agenti di cambiamento, e si indirizza, in particolare, alla tensione tra soggetto e contesto, libertà e necessità.

E questo, in una succinta sintesi, il back­ground generale del nostro progetto, che, a sua volta, muove da alcune questioni e pre­messe. La prima riguarda i tratti propri del­l’esperienza femminile nelle guerre del Nove­cento e, in particolare, nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza. Già la prima guerra mondiale — sappiamo — aveva rap­presentato, a causa delle stesse dimensioni e della durata del conflitto, che avevano confe­rito una funzione essenziale al “fronte inter­no”, un salto di qualità nel rapporto tra le donne e la guerra; la seconda guerra mondia­le sembra portare alle estreme conseguenze tale rapporto e segnare quella che si configu­ra come una ulteriore discontinuità.

Dai nuovi studi stanno, infatti, emergendo le differenze non solo quantitative ma anche qualitative introdotte da una guerra ‘del tut­to’ totale, caratterizzata da bombardamenti massicci o a tappeto, dall’occupazione mili­tare “nemica” di interi territori, da deporta­zioni di massa, stragi ed eccidi di popolazioni

inermi, dallo scatenarsi della “guerra civile” — per il fenomeno dei molteplici e diversi “collaborazionismi” — e dagli sviluppi di lotte di Resistenza. Chiaramente, viene a es­sere discussa e a necessitare di una ridefini­zione la stessa categoria del fronte di guerra: nei fatti, dove finisce il fronte esterno e dove inizia il fronte interno? Ciò non può non con­durre a una riconsiderazione dei soggetti che ne sono coinvolti.

La nuova collocazione delle donne e l’im­portanza da esse acquisita in tale guerra ‘del tutto’ totale, naturalmente con differenze na­zionali legate ai diversi sviluppi della guerra stessa in ciascun Paese — ma qui facciamo soprattutto riferimento ai territori che conob­bero l’occupazione militare e le lotte di Resi­stenza —, hanno condotto e conducono a ri­discutere la dicotomia classica guerra/uomini, pace/donne, così forte neH’immaginario col­lettivo, per rivedere, nei “fatti”, la divisione dei ruoli, il rapporto tra maschile e femmini­le, donne e uomini, anche per quanto si rife­risce alla scelta e alla collocazione di campo.

La scelta della Resistenza come esperienza innanzitutto individuale e come assunzione personale di responsabilità, cui si legava ine­vitabilmente una rielaborazione soggettiva del proprio percorso, delle proprie aspettati­ve e attese del futuro, coinvolse senza alcun dubbio entrambi i sessi; ma per le donne essa si pose in modo speciale, in quanto ciascuna si trovò nella condizione di dover individuare e “inventare” la propria presenza e la propria collocazione, anche al di fuori dei tracciati tradizionali (in armi o senz’armi? a casa o in brigata? e così via). Quali siano stati, poi, i modi in cui ciò sia avvenuto — tra l’utilizzo del “registro materno” di cui parla Anna Bravo3 e l’invenzione di nuove trame di vita

2 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.3 Anna Bravo, Simboli del materno, in Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, La- terza, 1991. Cfr. ora Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne ¡940-1945, Roma-Bari, Laterza, 1995.

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Donne della Resistenza 479

possibili — è ancora in parte da indagare nel­le diverse articolazioni nazionali e locali. Non vi è dubbio, infatti, che la forma più eclatante, e anche più problematica e inquie­tante, riguardi il rapporto delle donne con le armi e l’esercizio della violenza, che abbiamo sopra richiamati e che non possono essere espunti dall’analisi4.

La seconda domanda del nostro progetto è rivolta agli effetti e alle ricadute dell’espe­rienza femminile nella Resistenza, nei decen­ni ad essa successivi, per quanto attiene ai mutamenti o alle persistenze nei paradigmi delle relazioni tra i generi. E una questione, quella del significato e dei lasciti delle guerre nella storia delle donne, ancora controversa5 ed essa implica per noi una analisi sia sul pia­no politico, riguardo, cioè, ai modelli di co­struzione della cittadinanza; sia sul piano so­ciale, riguardo alle condizioni materiali di vi­ta — dalla lotta per la parità salariale, alle politiche sociali elaborate dalle donne e/o ad esse rivolte —; sia sul piano delle costru­zioni simboliche del maschile e del femminile. In particolare ci interessa cogliere identifica­zioni, tensioni, rotture tra questi diversi piani e i singoli percorsi di vita (su questo tema, si vedano anche le considerazioni svolte al pun­to successivo).

La terza questione, infine, già posta in sede storica, riguarda la possibilità di individuare un “modello femminile emiliano” con tutte le sfaccettature che l’attenzione alla soggettivi­tà comporta. Non si tratta, quindi, di costrui­re un’impalcatura rigida, un nuovo modello

in cui ridurre e costringere l’esperienza delle donne della regione, bensì di una chiave in­terpretativa ed esplorativa di quella che si in­dividua come la persistenza di una “passio­ne” politica che travalica il periodo della Re­sistenza. Passione politica da intendersi come passione del pubblico, in cui si concentrano e si fondono un desiderio di uscita dal privato — concepito come segregazione e discrimina­zione —, una volontà e un bisogno di ingres­so nel pubblico e una coscienza della “voce”, nel significato che ne ha dato Hirschman, di intervento attivo, politico, fonte e presuppo­sto del cambiamento6.

Nell’assumere la passione politica — nei termini complessi e non riduttivi che richia­mavamo — come connotato forte per una possibile storia nel medio periodo della sog­gettività femminile nella regione emiliana e come elemento per una comparazione più ampia di carattere nazionale (e non solo), la Resistenza sembra rappresentare un anello centrale, un momento che costituisce o sem­bra costituire un passaggio essenziale di quel­la storia.

L’essenzialità di tale passaggio si configu­ra già come uno dei primi risultati del nostro lavoro; per esprimerci con un paradosso: l’andare oltre il mito della Resistenza ci ri­porta, di nuovo, alla Resistenza. E ciò è signi­ficativo, ma anche denso di complessità e problematicità, riferendoci a una regione nel­la quale la memoria della vicenda resistenzia­le è sembrata di frequente assumere, più che i caratteri della storia, quelli propri del mito.

4 Sul rapporto donne e armi, donne e guerra, si veda Jean B. Elsthain, Donne e guerra, Bologna, Il Mulino, 1991 (ed. orig. 1987) e Chiara Saraceno, Né estranee né innocenti (introduzione all’edizione italiana), ivi, pp. 29-35; Paola Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico, in Gabriele Ranzato (a cura di), Guer­re fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 305-329.5 Cfr., per le posizioni in qualche modo estreme, Françoise Thébaud, La Grande guerra: età della donna o trionfo della differenza?, in Georges Duby, Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, Roma-Bari, La- terza, 1992, pp. 25-90 e Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi, cit.6 Del nostro gruppo ha individuato e analizzato questo aspetto Dianella Gagliani, Un vocabolario per l'attivismo poli­tico delle donne. Introduzione, in Anna Appari, Laura Artioli, Dianella Gagliani (a cura di), Paura non abbiamo... L'U­nione donne italiane di Reggio Emilia nei documenti, nelle immagini, nella memoria, Istituto per i Beni culturali della Re­gione Emilia Romagna, 1993, pp. 17-81.

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Anticipando ora alcuni primi risultati della nostra ricerca, si deve sottolineare che anche ri­guardo alle relazioni tra i generi e ai singoli per­corsi di vita, quell’evento sembra assumere la forma di un’accelerazione fortissima, tale da comportare una eccezionale e inedita rielabo­razione soggettiva nella percezione di sé e nei modi di concepire la vita e il mondo. Non è semplice né automatico il passaggio dall’ecce­zionaiità alla normalità ed anche la ricerca di nuovi equilibri nel dopoguerra e negli anni suc­cessivi è come se lasciasse qualcosa di irrisolto, un residuo, una incrinatura che le ricomposi­zioni, pure avvenute rispetto alle politiche della famiglia, alle costruzioni sociali del genere e al permanere della divisione dei ruoli, non riesco­no a riassorbire completamente.

La strada maestra scelta per esplorare tali questioni è stata in primo luogo la raccolta di storie di vita delle donne che hanno scelto la Resistenza, con una focalizzazione sulla ge­nerazione che in quei mesi era sulla soglia dei vent’anni e che nel corso di quella espe­rienza struttura uno degli elementi fonda- mentali della sua identità — senza escludere, tuttavia, anche ai fini di una comparazione per cogliere eventuali modificazioni, alcune della generazione più anziana. Questa scelta metodologica consente di passare dalla testi­monianza rispetto aVCevento che costituisce molta parte dei primi lavori sulla Resistenza, a un allargamento dello sguardo che ricom­prende l’evento stesso all’interno di una rico­struzione biografica più ampia. La narrazio­ne orale cosi intesa permette di legare l’ecce­zionaiità della guerra e della Resistenza al prima e al dopo, di esplorare le tensioni tra storia pubblica e storia privata e tra i modelli codificati ed ereditati di costruzione del gene­re e le concrete storie di vita, e di individuare le forme e i modi in cui si è data per ciascuna la rielaborazione soggettiva dei ruoli e della

percezione di sé. Essa consente, inoltre, di analizzare le stratificazioni complesse della memoria (i silenzi, gli oblìi, le codificazioni, le rielaborazioni) e di esplorare, attraverso le modalità stesse del racconto, le forme di autorappresentazione e i processi di interio­rizzazione di esperienze diverse e molteplici.

In tale prospettiva, la storia di vita non è tanto e soltanto testimonianza o raccolta di memoria, quanto e soprattutto momento es­senziale per la ricostruzione della complessità dei percorsi biografici in relazione al contesto e ai contesti e per l’individuazione di come questi e i loro mutamenti sono percepiti, inte­riorizzati, rielaborati dalla memoria in quan­to “atto narrativo nel presente” .

Se pur muove da nuove domande e fa uso di nuovi strumenti, la nostra ricerca non si si­tua, tuttavia, in un vuoto di rappresentazione dell’esperienza femminile nella Resistenza, bensì, con caratteri propri, s’inscrive in una tradizione di racconto che in forme diverse si è dipanata nel corso dei cinquanta anni successivi a quell’“evento” . Sembra, anzi, difficile, quasi assurdo, tornare a parlare del­l’esperienza delle donne emiliane nella Resi­stenza, tanto è già stato scritto e detto; ma, in sede storica, si rendono necessarie alcune considerazioni e puntualizzazioni intorno ai caratteri di tale pubblicistica.

Va innanzitutto accennato — giacché non possiamo qui svolgere una rassegna esausti­va, del resto ancora impossibile per la disper­sione di questi materiali — al fatto che essi sono molto diversi e non assimilabili tra loro, ciascuno da analizzare all’interno dei propri specifici ambiti di appartenenza. Essi vanno dalla memorialistica vera e propria, a testi­monianze raccolte in occasioni di convegni o sollecitate per lavori di ricostruzione stori­ca, a narrazioni orali, a romanzi, autobiogra­fie e biografie7:“un arcipelago di scritture”

7 Accanto ai “materiali” di carattere eminentemente memorialistico si collocano le opere di ricostruzione storica e do­cumentaria, in parte basate su di essi, come i volumi di Luciano Bergonzini (La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 5 voli., 1967-1980); un numero altissimo di pubblicazioni di storia

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ancora in parte da scoprire e soprattutto da mettere in relazione l’una con l’altra.

Una presenza così ricca e complessa di vo­ci rappresenta una indubbia testimonianza del fatto che in questa regione anche le donne sono state costruttrici di memoria, e non solo di quella privata, ma anche della memoria pubblica e delle sue politiche. Se consideria­mo le scansioni dei decennali, i momenti cele­brativi forti, non possiamo che verificare ini­ziative tese in primo luogo ad inscrivere la presenza femminile nella memoria e nella sto­ria, a far si che la rappresentazione della Re­sistenza non ne cancellasse uno dei suoi sog­getti essenziali.

Si deve, certo, interpretare questa volontà di trovare e lasciare testimonianza, come un'uscita dal privato, anche nel significato di un desiderio di riconoscimento di sé come soggetto storico; ma, indubitabilmente, la so­glia dal privato al pubblico è varcata in forme ancor più determinate là dove si decide di scrivere e pubblicare le proprie memorie o si progettano opere che raccontino in modo “corale” quei percorsi e quelle vicende. La “dimensione epica e corale” pare, infatti, co­stituire un carattere specifico della letteratura di questa terra, che riprende la tradizione del Plutarco al femminile con le sue finalità peda­gogiche di diffusione di modelli di vita e ge­rarchie di valori; ma pone al centro “eroine”

più umili, non dissimili dalla maggioranza delle donne, diverse da esse, tuttavia, per la dedizione alla causa “giusta”8.

Senza dimenticare la tendenza da parte di molte protagoniste della Resistenza a dare forma artistica alle loro esperienze attraverso altri linguaggi espressivi, dalla pittura al tea­tro, se consideriamo altre forme di discorso o di memoria pubblica, si confermano la visibi­lità e la presenza delle donne nelle politiche della memoria, condotte da associazioni, isti­tuzioni, singoli e singole. Non solo: si aprono anche prospettive sulla immagine e l’immagi- nario del femminile del tutto inedite. Pensia­mo alla monumentalistica resistenziale intor­no a cui si è ora avviata una riflessione e, in particolare, alla rappresentazione della parti- giana con la cartuccera, figura eccentrica ri­spetto alle rappresentazioni tradizionali, nel­le quali la figura femminile assume un signifi­cato allegorico e viene rappresentata come immagine dell’attesa, o della mater dolorosa, o delle donne come massa indistinta. La grande statua in bronzo, che a Bologna af­fianca quella maschile dalle identiche dimen­sioni, trasmette una immagine di forza e sal­dezza e, chiaramente, non espunge come estraneo al femminile l’uso delle armi e l’eser­cizio della violenza, quasi a volerci trasmette­re un ruolo paritario tra i sessi nella difesa della città dai suoi nemici9. Ancora a propo-

locale; ¡ lavori di Luigi Arbizzani sulla dimensione “operaia, contadina, di massa” della Resistenza emiliana, in cui si sottolineano soprattutto i dati quantitativi della presenza femminile; i volumi focalizzati sulla storia delle donne nella Resistenza, risultato della ricerca regionale svoltasi in occasione del Trentesimo anniversario, e che costituiscono una sorta di antecedente della nostra ricerca. Si devono, poi, ricordare, alcuni censimenti quantitativi, come quello curato da Milena Brugnoli e Claudia Antonini per il Bolognese, ancora inedito, e iniziali raccolte di storia di vita (Marco Mi­nardi, Ragazze dei borghi in tempo di guerra. Storie di operaie e antifasciste dei quartieri popolari di Parma, Parma, Isti­tuto storico della Resistenza, 1991).8 Del nostro gruppo è Laura Mariani ad aver riflettuto su questa letteratura della Resistenza e ad averne colto la “co­ralità” come elemento centrale. Su questo argomento e su ulteriori considerazioni che qui non possiamo sviluppare, cfr. L. Mariani, Memorie e scritture delle donne, in Brunella Dalla Casa, Alberto Preti (a cura di), Bologna in guerra. 1940- 1945, Milano, Angeli, 1995, pp. 419-460. Sulle biografie delle donne illustri cfr. Ilaria Porciani, Il Plutarco femminile, in Simonetta Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Mi­lano, Angeli, 1989, pp. 297-317 e Gianna Pomata, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, “Quaderni storici”, 1990, n. 74, pp. 341-385.9 E ciò a maggior ragione, se si considera che le statue della partigiana e del partigiano, opera del 1953 di Luciano Min- guzzi, furono create dalla fusione del bronzo della statua di Mussolini che campeggiava sullo stadio comunale. A questo

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sito delle politiche della memoria, è significa­tiva anche la storia, per molti versi esempla­re, del monumento di Villa Spada — inaugu­rato nel 1975 nei pressi del luogo dove venne lasciato ed esposto il corpo massacrato di Ir­ma Bandiera —, concepito come “opera aperta”, un teatro della memoria, nel quale ogni generazione potesse apportare e lasciare un segno10.

Non è possibile sviluppare qui estesamente questo argomento e le sue implicazioni; ci in­teressa, tuttavia, porre la questione che pro­babilmente anche la costruzione di una me­moria e il desiderio di una storia propria sia­no state e siano parte — rappresentandone una delle forme — di quella “passione politi­ca” delle donne, intesa come volontà e richie­sta di una presenza forte e di una corrispetti­va immagine sulla scena pubblica. Anche questi elementi costituiscono, forse, un’altra delle caratteristiche di questa regione e un al­tro modo di porsi delle donne come soggetti, ed essi necessitano indubbiamente di essere attraversati dalle domande che provengono da altri filoni della storia delle donne e della loro storia politica, nonché di essere confron­tati con altre realtà, nazionali e regionali.

Indagare le politiche della memoria, i loro effetti suirimmaginario, le forme assunte dal­la rappresentazione deh’esperienza femmini­le, l’azione di costruttrici e custodi della me­moria, a noi pare un anello importante per comprendere le diverse forme di azione sulla scena pubblica e i modelli di costruzione del­la cittadinanza. Come dicevamo, il problema per noi, oggi, non si pone semplicemente nei

termini di colmare una assenza, ma in quelli più complessi di indagare i modi in cui quella esperienza è stata rappresentata e di operare confronti tra ciò che si è scelto di mettere in rilievo e ciò che è rimasto nell’ombra e nel si­lenzio, a volte perché troppo duro e doloroso per poter essere raccontato e trovare cittadi­nanza in un universo di senso condiviso.

Vi è un altro nesso attinente al rapporto tra storia e memoria e alle forme in cui l’espe­rienza della Resistenza è stata tramandata, che merita alcune riflessioni, in particolare, riguardo alla questione dell’identità naziona­le, cui agli inizi si accennava, e ai suoi legami con l’identità regionale e locale11. Siamo di fronte ad un problema complesso che non è nostro compito sciogliere, ma che non si può completamente eludere.

Un primo elemento che possiamo già ora discutere concerne il valore nazionale di un li­bro come quello di Renata Viganò, L ’Agnese va a morire12, in cui è messa in campo una fi­gura femminile la cui complessità non può es­sere semplicemente racchiusa nel modello del materno rassicurante. Ma, accanto a questa testimonianza “forte”, ci troviamo di fronte a testimonianze, per così dire, “deboli”, sen­za tuttavia essere irrilevanti. Si potrebbe so­stenere che esse sono rilevanti per la trasmis­sione di una memoria giorno per giorno, non di una memoria di più lungo periodo e, spe­cialmente, per la costruzione di una memoria locale, non già nazionale e neppure, forse, re­gionale.

La messe di memorie, opuscoli, libri, rac­colte di testimonianze e immagini, editi nel

proposito cfr. Nazario S. Onofri, V. Ottani, Dal Vittoriale allo stadio. Storia per immagini dell'impianto sportivo bolo­gnese, Bologna, Consorzio Cooperative Costruzioni, 1980.10 Del nostro gruppo è Elda Guerra a lavorare intorno alla monumentalistica della Resistenza. Cfr. anche, per alcune considerazioni, Patrizia Dogliani, Monumenti alla Resistenza. Bologna e il suo territorio, in La Premiata Resistenza. Con­corsi d’arte nel dopoguerra in Emilia Romagna, Bologna, Istituto per i Beni culturali della Regione Emilia Romagna, 1995, pp. 21-38.11 Per una riflessione intorno a questi temi nella storia d’Italia, si veda S. Soldani, Gabriele Turi, Introduzione in S. Soldani, e G. Turi, Fare gli italiani, La Nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1994, voi. I, in particolare pp. 23 sg.12 II volume fu edito da Einaudi nel 1949.

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corso di cinquant’anni in un numero altissi­mo di comuni della regione emiliana, con una circolazione ristretta all’interno dello stesso territorio, sembrano rinviare alla ne­cessità, che coinvolge uomini e donne, di una memoria e di una storia locali ai fini di una trasmissione che conservi nelfimmediato e in quel luogo quei valori — ciò che ci ricon­duce alla “passione politica”, e ne chiarisce alcuni suoi aspetti —, piuttosto che alla vo­lontà di dare valore nazionale (e anche regio­nale) alla propria esperienza.

Si potrebbero e dovrebbero collegare a tale memoria altre questioni che attengono alla storia politica della regione, dalle sue diversi­ficate vicende preunitarie, al suo inserimento e al suo ruolo nel Regno sabaudo, fino alla sua collocazione e alla sua immagine nell’Ita­lia repubblicana. In questa sede è sufficiente accennare a tale complessità, mentre i carat­teri locali, che si richiamavano, si rivelano senz’altro utili per introdurre il discorso sul­l’Archivio della memoria delle donne che co­stituisce una delle finalità principali del no­stro progetto. Vi sono altre ragioni, oltre a quelle cui finora si è accennato, che motivano la necessità della costruzione di un archivio. La prima, immediatamente percepibile da chiunque si appresti a indagare le donne nella Resistenza, riguarda non solo la dispersione delle fonti e delle stesse ricostruzioni e riela­borazioni; ma anche e specialmente l’assenza di un pur minimo inventario del materiale sparso in vari Istituti, biblioteche, centri e as­sociazioni diversi e con regole di accesso e consultabilità differenziate.

La seconda ragione è connessa alla conser­

vazione delle fonti. Per fare un esempio, e di un certo rilievo, della maggior parte dei que­stionari predisposti per il convegno tenuto nel 1977 su “Donne e Resistenza in Emilia Romagna”, — compilati da centinaia di resi­stenti delle diverse aree regionali e utilizzati da Franca Pieroni Bortolotti e Paola Gaiotti De Biase per le relazioni poi pubblicate, che tut­tora rappresentano un punto di riferimento indiscusso e di eccezione13 —, si era persa ogni traccia. Oggi, e questa è per noi una grande soddisfazione, essi sono stati ritrovati o, al­meno, se non siamo in grado di affermare ca­tegoricamente di averli tutti rintracciati — poiché vi sono discordanze fra le organizzatri­ci del convegno del 1977 riguardo al loro nu­mero —, possiamo, tuttavia, sostenere che senz’altro la maggior parte di essi è stata recu­perata14.

La terza ragione si inscrive nella questione più generale della formazione e della costru­zione degli archivi, storicamente e anche at­tualmente legate al privilegio conferito ad al­tre rilevanze e, pertanto, insufficienti o inade­guate per una storia delle donne. A partire da una gerarchia per la quale ciò che conta è la conservazione di fonti connesse prevalente­mente a una particolare nozione della storia politica, non ci si è dati e non ci si dà suffi­ciente cura di raccogliere, da parte delle isti­tuzioni a questo deputate, documenti e carte che illuminino altri settori e percorsi. Questo pone un duplice problema: da un lato la crea­zione di “nuovi” archivi, dall’altro la ridefi­nizione di quelli esistenti sia in termini di rac­colta sia in termini di criteri e linguaggi di ca­talogazione15.

13 Franca Pieroni Bortolotti, Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia (1943-1945), Mi­lano, Vangelista, 1978; Paola Gaiotti De Biase, La donna nella vita sociale e politica della Repubblica 1945-1948, Milano, Vangelista, 1978.14 Si tratta di questionari costruiti secondo una metodologia essenzialemente sociologica. Cfr. per una descrizione e una prima riflessione, D. Gagliani, La centralità dei soggetti per una nuova storia politica. Una discussione e un caso: le donne nella Resistenza ieri e oggi (in corso di stampa nella serie “Materiali sulla società italiana” della Fondazione Basso).15 Su questo tema si vedano le diverse voci di storiche e archiviste: Giulia Barrerà, Linda Giuva, Stephanie Jed, “Agen­da”, rispettivamente nei nn. 6 (1992); 12 (1994) e 13 (1995).

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Cosa conserverà il nostro archivio? Si deve innanzitutto precisare che esso si configura come un archivio aperto, nel quale sarà versa­to il materiale che abbiamo raccolto per la nostra ricerca; ma che è concepito per arric­chirsi ulteriormente nel futuro, se le protago- niste, le istituzioni, le associazioni, altre ricer­catrici vorranno, come ci auguriamo, am­pliarlo, con fonti che documentano le diverse esperienze femminili nella guerra, compren­dendo anche le donne dell’“altra parte” . Al termine della nostra ricerca esso conterrà oltre cento storie di vita registrate su nastro con la relativa trascrizione; alcune di esse sa­ranno videoregistrate; fotografie delle prota- goniste e del loro ambiente di vita; scritti, me­morie, lettere, epistolari, nonché il materiale anche non cartaceo che esse ci vorranno con­segnare. Questi materiali verranno raccolti in dossier biografici per ciascuna protagonista, che comprenderanno anche le eventuali testi­monianze rese dalle stesse donne nel passato ad altri ricercatori e ricercatrici, in modo da configurarsi come una sorta di storia della memoria individuale, dei suoi mutamenti e stratificazioni16.

Inoltre, l’archivio conserverà una prima mappatura dei materiali giacenti innanzitut­to presso gli Istituti storici della Resistenza, i principali depositari, in generale, dei docu­menti relativi al periodo. Già in corso, tale censimento sta portando al ritrovamento di fondi e carte insospettati, sconosciuti a volte agli stessi responsabili istituzionali. Per quel­la dispersione e quell’interesse eminentemen­te locale, cui prima si accennava, una mappa- tura a largo spettro delle testimonianze coeve

e delle ricostruzioni e raccolte successive pre­senta non piccole difficoltà e per questo ab­biamo chiesto e stiamo chiedendo la collabo- razione di altri Istituti, di associazioni parti- giane, amministrazioni locali e provinciali, centri, musei e biblioteche. Già nel primo stu­dio organico della Resistenza italiana, Ro­berto Battaglia sottolineava che carattere precipuo della Resistenza in Emilia Roma­gna fu il suo essere “di massa” e il soggetto di tale caratterizzazione era individuato nella famiglia contadina, ben esemplificata dai Cervi e, in particolare, nella sua componente maschile, di cui si coglievano gli scambi attivi con il mondo urbano, le curiosità intellettua­li, l’ansia di riscatto sociale e culturale e una tensione verso spazi di libertà17.

Le chiusure del dopoguerra, connesse alla guerra fredda, e i lasciti culturali precedenti resero problematica negli stessi studi tale apertura a un mondo considerato dai più co­me immobile, chiuso in se stesso, incapace di recepire la “storia” e, quindi, a maggior ra­gione, di esserne protagonista. Superati, se pur solo in parte, tali pregiudizi, poiché è an­cora difficile porre e cogliere le differenze tra gli stessi soggetti “classici”, noi oggi siamo in grado di leggere quella caratterizzazione re­gionale — l’essenza “di massa” della Resi­stenza emiliana — collocando in primo piano il soggetto femminile. Senza una decisa pre­senza delle donne, non è possibile, infatti, una Resistenza “di massa” — il termine non ci è caro, ma qui ne facciamo uso per confrontarci con categorie della storia “gene­rale” e da essa trarre per noi indicazioni che la mettono in discussione.

16 A litoio esemplificativo, si ricordano le testimonianze raccolte da Luciano Bergonzini per il Bolognese, La Resisten­za, cit.. in particolare i volumi I, 1967, e V, 1980); per il Reggiano, quelle apparse nel volume di Avvenire Paterlini, Partigiane e palliale della provincia di Reggio Emilia (Reggio Emilia, Libreria Rinascita, 1977); per il Parmense, le storie di vita raccolte da Marco Minardi (Ragazze dei borghi, cit.). Stianto attualmente acquisendo il fondo di tredici storie di vita di partigiane raccolte da Anna Gagliardi nel 1993. Già da un primo confronto tra le testimonianze raccolte alcuni decenni or sono — ad esempio da Luciano Bergonzini - e le storie di vita raccolte nel corso della nostra ricerca, stanno emergendo differenze anche contenutistiche, nel rilievo dato a un aspetto piuttosto che a un altro, meritevoli di una ana­lisi particolare.1 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, in particolare la 2a edizione del 1964.

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Riguardo ai dati numerici che si ricavano dai riconoscimenti ufficiali di partigiane, pa- triote e benemerite, conferiti al termine della guerra, siamo avvertite della loro incomple­tezza, giacché sappiamo che molte non ne fe­cero richiesta, ritenendo “naturale” il loro agire o rifiutando una “premiazione” che collocava quell’agire in uno spazio ufficiale o precipuamente militare in cui non si ricono­scevano o, ancora, non volendo confondersi con quanti facevano carte “false” per ricever­lo. Non possiamo, tuttavia, rimanere indiffe­renti di fronte alle 11.000 partigiane ricono­sciute in Emilia rispetto al totale di 35.000 sul piano nazionale, un dato quantitativo che necessita di una analisi qualitativa al cui centro si devono porre almeno due que­stioni: le donne avevano qui un diverso atteg­giamento nei confronti delle istituzioni? Op­pure, la Resistenza ne coinvolse di fatto un numero altissimo?

È un nodo, questo, che può essere risolto solo con indagini prosografiche a partire in­nanzitutto dagli elenchi delle partigiane rico­nosciute: un lavoro di enormi proporzioni che richiede forze e finanziamenti ben mag­giori dei nostri e tempi molto ampi. A mag­gior ragione se l’indagine volesse ampliarsi a quelle 30.000 donne che Luigi Arbizzani ha conteggiato come i soggetti delle manifesta­zioni e dei movimenti “di massa” nel biennio 1943-194518. Stiamo pensando di procedere per aree campione — una scelta che deve, tut­tavia, tenere anche conto delle possibilità rea­li di accesso a tali dati — e una ricerca con Data Base sugli elenchi delle partigiane rico­nosciute è attualmente avviata, all’interno del nostro gruppo, per la provincia di Forlì19.

La nostra raccolta di storie di vita avrebbe tratto un sicuro giovamento da indagini già

effettuate sui dati numerici. Ma attendere questi avrebbe significato procrastinare di molti anni la ricerca e attendere oltre poteva significare non riuscire, poi, a svolgere la ri­cerca stessa. Del resto, l’indagine qualitativa ha le sue proprie rilevanze e, come si vedrà nel paragrafo successivo, consente di sfatare molti luoghi comuni e di porre nuove que­stioni.

Non ci dilungheremo oltre sulle questioni di metodo legate alla ricerca; ricorderemo che la individuazione delle resistenti è andata avanti e procede mediante l’interscambio con le partigiane, che poi si srotola a catena, in considerazione della nostra decisione iniziale di avere rappresentate forme diverse di attivi­tà nella lotta e provenienze sociali e geografi­che differenziate. Va da sé che si tratta di una operazione quanto mai complessa, sulla qua­le stiamo imparando che non ci si può irrigi­dire.

I nodi interpretativi

E ricorrente, per designare il rapporto fra donne e Resistenza, così come già per il lega­me con il Risorgimento, — e anche Franca Pieroni Bortolotti, così attenta alla presenza e alla espressione di una soggettività femmi­nile forte e consapevole, ribelle rispetto alle rappresentazioni e alle politiche del fascismo e del clerico-fascismo, cade talvolta in questa trappola linguistica20—, l’uso del termine contributo.

Al di là della scontata gerarchia concettuale che tale termine traduce, come hanno rilevato Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, esso tende a oscurare due elementi: il primo, ormai consolidato nel dibattito storiografico, è rela-

18 Luigi Arbizzani, Le lavoratrici delle campagne durante il fascismo e la Resistenza nella Valle Padana, “Annali dell’I­stituto Alcide Cervi”, 13, 1991, si veda anche L. Arbizzani, Azione operaia, contadina, di massa, Bari, De Donato, 1976.19 È Giuliana Bertagnoni che sta svolgendo questa ricognizione, impegnata, con Mara Valdinosi, nel Forlivese a racco­gliere le storie di vita delle partigiane.20 F. Pieroni Bortolotti, Le donne della Resistenza antifascista, cit.

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tivo all’essenzialità delle azioni femminili con­siderate le caratteristiche di quel tipo di guer­ra; l’altro, meno esplorato, si connette alla complessità e alla molteplicità dell’esperienza delle donne in quella vicenda, ed è uno dei ri­sultati centrali che sta emergendo dalla nostra ricerca. Sia la complessità sia la molteplicità si manifestano nella ricostruzione del percorso esistenziale e/o politico che porta all’ingresso nella Resistenza e, dunque, alla “scelta”, vale a dire — come si accennava all’inizio — a quel gesto di assunzione di responsabilità soggetti­va e individuale in un contesto di eccezione, quello successivo all’8 settembre 1943, quan­do, lo Stato e le istituzioni tradizionali non rappresentarono più il quadro di normalità che pre-orienta le scelte quotidiane21.

Da un primo esame di alcune delle intervi­ste effettuate, l’elemento della scelta è centra­le: nel racconto di sé le donne scelgono e scel­gono consapevolmente. Anzi, alcune sottoli­neano il carattere particolarmente forte in termini di autonomia che la scelta assume per le donne:

Penso che sia più difficile per una donna, per il fat­to che loro [gli uomini] erano quasi obbligati [...] perché quelli di leva dovevano prendere una stra­da: o da una parte o dall’altra [...] invece per una donna è stata una scelta sua22.

Ma se questo sembra essere un elemento co­mune, diversi sono i percorsi e le cronologie che portano al passaggio dalla scelta di cam­po all’azione e diverse sono le azioni stesse.

La prima differenza a emergere è quella ge­nerazionale, tra le donne pienamente adulte nel 1943 e che si erano formate nell’opposi­zione antifascista e quelle più giovani. Per le prime è la guerra o sono i giorni tra il 25 luglio e F8 settembre a costituire il momento

in cui avviene una sorta di ricapitolazione, ri­spetto a un sentimento di opposizione già av­vertito consapevolmente, con la decisione conseguente di agire. Cosi fu, sappiamo, per Renata Vigano, quarantenne negli anni di guerra, la cui opposizione al fascismo affon­dava le radici negli anni tenta. Per Prima Ve- spignani, nata nel 1910, il momento dell’in­gresso nella Resistenza rappresenta una con­tinuità “naturale” rispetto alla scelta prece­dente, avvenuta con l’iscrizione al Partito co­munista clandestino:

[La scelta l’avevo fatta] già prima... a 19 anni nel 1928 [...] la scelta l’avevo già fatta. [...] e sapevo, ero cosciente di quello che andavo incontro, per­ché era un rischio... perché... era un rischio iscri­versi al partito, non è stato come dopo la Libera­zione [quando] prendere la tessera del partito era facile, ... è stata una cosa... anche rischiosa. Sape­vo, ero cosciente di quello che andavo incontro23.

Per Diana Sabbi e Lia Roveda, donne appar­tenenti alla generazione delle ventenni, ma diverse per provenienza sociale e appartenen­ze culturali, la scelta si presenta come una sorta di passaggio, da una coscienza ancora non perfettamente definita nei suoi contorni, o, per usare la loro espressione, da un senti­mento interiore di opposizione esistenziale, ad una più precisa consapevolezza politica.

Diana, proveniente da un paese della cin­tura bolognese, figlia di un birocciaio e di una sarta, sarta lei stessa, di tradizioni fami­liari antifasciste, legate specialmente alle fi­gure degli zii materni (uno “socialista anar­chico” , gli altri comunisti, che avevano cono­sciuto il carcere), parla della sua formazione, delle letture che faceva a voce alta alla sera, a tutta la famiglia riunita, di romanzi “proibi­ti” come La madre, I miserabili, Furore, i “classici” della formazione dei comunisti di

21 Per il significato assunto dall’8 settembre 1943, si veda C. Pavone, Una guerra civile, cit., in particolare il primo ca­pitolo, La scelta, pp. 3 sg.22 Così si è espressa Adriana Fava, nell’intervista raccolta da Lucia Bonini.23 Intervista raccolta da Fiorenza Tarozzi.

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base negli anni trenta, che gli zii avevano co­minciato a passarle:

Questo mi ha aiutato molto a capire, anche se era­no romanzi... erano belli, perché erano romanzi belli, insomma. Però, voglio dire, non era il marxi­smo, non era il leninismo [...], questo poi l’ho im­parato dopo la guerra, perché prima non lo sapevo neanche [...]. Poi questa mancanza di libertà io l’ho sentita, questa oppressione... parlo sempre del perché ho fatto la scelta: questa oppressione, che la gente non poteva dire mai quello che pensa­va. [...] Interiormente sentivo che non era giusto, ecco, che mancava qualcosa alla gente, e la cosa che mancava, oltre — voglio dire — allo star me­glio, perché c’era una miseria terribile, ecco era questo soffocare ogni idea della persona24.

Lia Roveda, proveniente dalle classi medie, studentessa, di formazione cattolica, rievoca le leggi razziali, le compagne di scuola che se ne dovettero andare, l’insegnamento del padre, carabiniere, che alla sua domanda su che cosa volesse dire ariani rispose: “Che siamo tutti matti!” . Lia, che avrebbe studiato la gramma­tica greca, che odiava, per insegnarla, su sugge­rimento del padre, a una ragazza ebrea, rac­conta, oggi, a proposito del suo antifascismo:

quel che pensavo, io lo sapevo benissimo, cioè: questo è il male... non male in senso politico che non sapevo distinguere, che cosa fosse la politica neppure lo sapevo, ma male... e... quindi... un vuo­to orribile. Da quel momento ho cercato che cosa dovevo contrapporre a questo male, male in senso umano [...]. L’antifascismo era ansiosa ricerca di qualcosa che riempisse quel vuoto che lasciava il fascismo, ecco sì, questo me lo ricordo benissimo. Cercavo dentro di me qualche cosa che riempisse un vuoto, quindi lo cercavo già prima [...] e al mo­mento che è iniziata la guerra... bisognava fare qualcosa, è ovvio. Era la guerra nazifascista, que­sto l’abbiamo capito subito..., la follia di Hitler l’avevamo capita perfettamente... perfettamente,

non lo so, ... beh, insomma, l’avevamo capita e quindi dovevamo cercare di fare qualcosa, che a vent’anni qualcosa bisogna pur fare25.

In alcuni casi, sempre per le più giovani, è l’8 settembre il momento in cui si compie il pri­mo gesto, quello che segna l’iniziazione alla propria storia di partigiana.

Paola Tolomelli, operaia in una fabbrica bolognese, rileva questo passaggio — e la sua sottolineatura, nel parlato, della parola “inizio” è significativa — con una rievoca­zione forte, quasi un flash cinematografico, della scena che si presenta ai suoi occhi e a quelli di una sua compagna, mentre percorre­vano in bicicletta le strade dietro alla stazione di Bologna, della disfatta dell’8 settembre.

Avevo 16 anni nel 1943, avevo 16 anni, là è stato l’inizio, dopo la disfatta, quando il re abbandonò tutto l’esercito... e allora passavamo e ci fermava­mo... i tedeschi — era l’inizio proprio — quando stavano rastrellando tutti quelli che venivano via dall’esercito e scappavano [...] allora lì avevano formato questi vagoni, queste tradotte e le riempi­vano di militari che riuscivano a racimolare, [...] le riempivano e li chiudevano dentro e allora noi quando, quando passavamo, [...] allora li si sentiva chiamare aiuto, mettevano fuori i biglietti dai va­goni, insomma noi con molto coraggio, direi con incoscienza più che altro, andavamo ad aprire questi vagoni26.

E chiaramente messa in discussione, già da un primo sguardo alle forme e alle cronologie della scelta, l’immagine massificata e indi­stinta delle donne, in virtù della quale per molto tempo si è potuto parlare de La donna nella Resistenza o de La donna e la Resisten­za, o, ancora, de II contributo della donna alla Resistenza, appiattendo sul genere ogni indi­vidualità. Una analisi attenta dei racconti femminili conduce a una articolazione e a

24 Intervista raccolta da Elda Guerra.25 Intervista raccolta da Fiorenza Tarozzi.26 Paola Tolomelli era sedicenne nel 1943. L’intervista è stata raccolta da Fiorenza Tarozzi.

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una modificazione anche di quell’assunto “totalizzante” che lega la scelta delle donne alle tradizioni politiche della famiglia, o la appiattisce, per quante provengono dal mon­do popolare, su una unica motivazione, quel­la di classe.

A volte, la tradizione politica familiare gio­ca un importante ruolo, ma si deve sottolinea­re che non sempre è il padre la figura principa­le di riferimento. Abbiamo visto che per Dia­na Sabbi furono gli zii, e ciò può, forse, non contraddire quell’assunto, considerata la dif­fusione della famiglia estesa. Per Maria Bassi, comunque, fu il padre di una amica, giacché il suo — un mezzadro cattolico romagnolo — non aveva avvertito l’esigenza di rompere il silenzio politico e culturale degli anni del fa­scismo. Per Vittoria Gandolfi, di Campagno­la di Reggio Emilia, fu un insegnante magi­strale, il qùale avrebbe deviato la traiettoria prampoliniana della tradizione familiare ver­so il cattolicesimo democristiano27. Nella sto­ria di Lia Roveda troviamo, come abbiamo visto, il padre; ma accanto a lui si collocano altre figure, tra cui centrali alcuni professori di liceo e uomini di chiesa.

L’analisi necessita di approfondimenti, ma non si può già da ora non porre la questione se siano state le donne — in specie quante erano ventenni nel 1943-1945 — a scegliere i propri interlocutori, quasi che la loro ribel­lione esistenziale fosse alla ricerca del “porta­tore” del messaggio “organizzato” della ri­bellione.

Sarebbe chiaro, allora, che più che alla fa­miglia, ci si dovrebbe riferire alla comunità di appartenenza, o all’ambiente di vita più ge­nerale, o anche, o piuttosto, a un malessere delle più giovani, rintracciabile fin dalla fine degli anni trenta in altre realtà e connesso a un contrasto che si rivelerebbe lacerante tra

un desiderio di una maggiore libertà persona­le e di una autonomia di percorso — che l’in­cipiente società di massa non poteva non ge­nerare — e la traiettoria tradizionale di vita femminile riproposta e imposta dai modelli imperanti. Anche quell’insistere, da parte di molte donne che scelsero la Resistenza e con­tinuarono a impegnarsi politicamente negli anni successivi, sulle ingiustizie e le discrimi­nazioni subite in particolare nella scuola che non avevano potuto frequentare oltre gli an­ni delle elementari (per molte solo i primi tre) sembra rinviare al desiderio di una crescita individuale e di una libera espressione della persona, ostacolato e bloccato da un regime politico e sociale ingiusto. La motivazione di classe sembra cosi essere sostenuta da una tensione verso la libertà. In tal caso, tro­verebbero un punto di congiunzione, nelle singole esperienze personali, l’“antifascismo esistenziale” e l’“antifascismo organizzato” , i due dei tre antifascismi individuati da Gui­do Quazza28.

La scelta della Resistenza implica rotture e trasgressioni che coprono un arco molto va­sto di possibilità: da quella della partigiana combattente, alle forme che oggi si definisco­no di “resistenza civile” e di cui una impiega­ta bolognese rappresenta un esempio signifi­cativo:

Dovrei elencare altre persone che furono da me agevolate o aiutate attraverso lasciapassare, docu­menti, entrate in ospedale. Ma non è il caso di dir­lo e non per modestia, ma perché tutto quello che feci in quell’epoca ormai lontana, lo feci solamen­te perché mi sentivo di farlo, senza essere coman­data da nessuno. Era un problema che riguardava solo me e la mia coscienza di vera italiana29.

Non è qui possibile dar conto dei molteplici percorsi, ancora molto da esplorare e che si

27 Intervista raccolta da Adele Vaicavi.28 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Milano, Feltrinelli, 1976.29 Testimonianza di Margherita Menin raccolta da L. Bergonzini, La Resistenza a Bologna, voi. V, cit., p. 913.

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rivelano più complessi di quanto finora si sia sospettato: dalla figura della staffetta al ruo­lo di mediazione svolto all’interno delle co­munità, là dove appare che sono le resistenti a doversi fare carico, ad esempio, di spiegare la presenza e l’azione partigiana di fronte alla rappresaglia nazifascista.

Abbiamo, pertanto, preferito considerare qui — certamente in un rapporto non rigido tra le generazioni — quelle che appaiono co­me due esperienze in qualche modo “estre­me”; quella delle ragazze che entrano in bri­gata e si inseriscono nella resistenza armata e quella delle donne più adulte che danno vita alla resistenza civile, con la complessità, tut­tavia, che cercheremo di mettere in luce.

“Mai avrei immaginato che le donne po­tessero impugnare un’arma”, dice una parti­giana combattente che poi quelle armi impu­gnò, anche se la memoria, su questo argo­mento, mantiene oggi un significativo silen­zio. Un’altra, Maria Bassi, racconta di come i tedeschi, che occupavano la sua casa, le in­segnassero per gioco a sparare, e significati­vamente conclude: “loro scherzavano, io me­no!”.

Anche Gina Negrini sceglie immediata­mente la lotta armata in brigata. Ha diciotto anni, una grande rabbia in corpo per le ingiu­stizie subite in quanto figlia illegittima e vuo­le essere anche lei “un soldato”, e il suo nome di battaglia sarà — è significativo — Tito.

E stato il momento più bello della mia vita, perché mi sentivo padrona della vita e della morte, di tut­to mi sentivo padrona. Mi sentivo in grado di far qualsiasi cosa, che poi non è stato vero, però mi sentivo libera [...], e poi... eravamo... bravi, posso dirlo con parole semplici, bravi eravamo, molto bravi... [...]. Si può morire per un’esperienza così.

Dopo, trattati da banditi... è per quello che ci sia­mo ritirati, arricciati30.

Emerge dal racconto delle partigiane com­battenti l’insistenza sull’amore fraterno al­l’interno della brigata partigiana, la quale viene così a costituire una sorta di comunità di fratelli, che può essere letta come contrap­posta a quella esterna, gerarchica e patriarca­le: si vive lontano da casa e dal lavoro, in un gruppo di pari, connotato essenzialmente, ol­tre che dall’esperienza comune eccezionale, dall’età, dal fatto di ritrovarsi, ragazzi e ra­gazze, a vivere insieme in forme comunitarie.

Il desiderio manifesto, che in alcuni casi di­venta realtà, di andare in brigata esplicita l’accettazione della gerarchia tra lotta arma­ta e altre forme di azione. Andare in brigata significava la con/partecipazione paritaria di ciò che era più rilevante secondo il modello di costruzione della cittadinanza — proprio della tradizione politica occidentale — fon­dato sul cittadino in armi: far uso delle armi diveniva, dunque, accesso pieno alla cittadi­nanza politica31. Rimaneva così in ombra per le partigiane combattenti — rivalutata solo nella coscienza di oggi — l’importanza cruciale ed essenziale di altre forme di azione, quale quella dei Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai volontari della libertà, la cui denominazione “subalterna” non piac­que a molte e venne, in alcune situazioni — è il caso di Ravenna — reinterpretata come “difesa del diritto delle donne di essere parti­giane”32.

Ci sembrano calzare pienamente per la ge­nerazione più adulta, anche se non volevano riferirsi solo ad essa, i versi dell’Anagrafe tri­sta, la poesia che Renata Viganò pose come incipit a Donne della Resistenza33 e che co-

30 Intervista raccolta da Laura Mariani.31 Sulla costruzione di tale modello, si veda in particolare J. B. Elshtain, Dome e guerra, cit.32 Testimonianza di Valeria Wachenhusen, in L. Mariani, Quelle dell'idea. Storie di detenute politiche 1927-1948, Bari, De Donato, 1982, pp. 166-167.33 II testo fu edito a Bologna per i tipi della Steb nel 1955.

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struì sulla contrapposizione tra le “normali” traiettorie di vita femminile e lo stravolgi­mento provocato dalFirrompere in esse della “storia”, di cui è parte essenziale e conse­guente la scelta, al tempo stesso responsabile e tragica, della Resistenza:

E invece uscivano dalla casa, / ogni impresa cara era finita. / Andavano fuori dalla vita /per entrare nella Resistenza. / Rinunciarono ai mobili nuovi / comperati con tanti stenti / non pensarono agli in­grandimenti / inclinati nelle comici. / Non guarda­rono occhi di madri / già in pianto per altri dolori. / Dalla vita si misero fuori / per essere nella Resi­stenza.

Donne della Resistenza non è un libro di sto­ria né di memoria. E costruito su quattordici brevi “medaglioni” biografici condotti su un duplice piano narrativo: quello della storia di vita che avrebbe potuto essere e quello della storia di vita che è stata. L’una, immaginaria, rappresentata secondo le convenzioni di quella che Heilbrun chiama la trama obbliga­ta delle vite femminili34; l’altra, reale, dove l’elemento chiave è dato dalla radicalità della scelta e dal destino che ad essa consegue e che allarga tragicamente l’orizzonte delle possibi­lità delle vite femminili.

Qui considereremo solo un caso, estremo, quello di Margherita Agoleti, moglie di Ante­nore Cervi — uno dei sette fratelli uccisi a Reggio Emilia nel dicembre 1943 —, nel cui racconto la storia si presenta con i caratteri di una tragedia annunciata. Aldo le aveva detto: “Ricordati bene, io sarò uno dei primi a morire, ma si arriverà a vedere i morti lun­go le strade”; Ferdinando, all’indomani dell’8 settembre, l’aveva messa in guardia: “Non c’è da scherzare, purtroppo sono tempi duri, possono passare i tedeschi e voi donne dovete vestirvi da vecchie, possono fare brut­ti scherzi, nascondete l’oro”35. Arriva, poi, il

terrore in casa, i fratelli Cervi saranno arre­stati, tradotti in carcere e fucilati. La grande casa Cervi, luogo di convegno per i resistenti, non è più sicura: i fascisti premono e minac­ciano perché sia abbandonata; ma vi fu una assunzione collettiva di responsabilità da parte dei sopravvissuti, ormai solo le donne, i bambini e il vecchio Alcide. Genoveffa, la madre, che prima che la tragedia irrompesse era stata una eccezionale portatrice di cultura e svago nella grande famiglia mezzadrile — leggeva, facendo le diverse voci, I Promessi sposi, o la Bibbia, o / reali di Francia, o la Di­vina commedia — non resse al dolore. Quan­do i fascisti, nel novembre del 1944, cercaro­no di nuovo di incendiare la casa: ella “risentì quella notte, quegli spari, quei figli con le ma­ni alzate nel cortile, e gli addii, e il furgone che parte. Così cadde di colpo e il cuore non resse”. Margherita si troverà più sola e con un carico maggiore di sofferenza a gestire quella grande casa, e la sua è chiaramente una resistenza civile, nel significato di una azione continuata e politicamente motivata in un contesto abnorme.

La storia di Margherita Agoleti ci aiuta anche a leggere la resistenza civile non già co­me una resistenza senza armi contrapposta a una resistenza armata. La sera dell’arresto, il più anziano dei fratelli Cervi aveva consegna­to alla donna una pistola, un gesto che legava simbolicamente chi lottava con le armi a chi lottava senza. Margherita non fece uso di quella pistola, ma non la disdegnò. La resi­stenza inerme poteva diventare armata in quella realtà di violenza e terrore, come av­venne per la pacifica Agnese di Renata Viga­no.

Il passaggio dalla guerra alla pace, dal mo­mento eccezionale a quello quotidiano si pre­senta come un ulteriore elemento di comples­sità. Indubbiamente si pone, anche in questo

34 Carolyn Heilbrun, Scrivere la storia di una donna, Milano, La Tartaruga, 1990 (ed. orig., 1988).35 Margherita Cervi, Non c’era tempo per piangere, Reggio Emilia, Camera del lavoro, 1994.

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caso, un problema della memoria e delle sue eventuali contraddizioni interne: di frequen­te, la rievocazione di tale passaggio avviene su un registro basso, che tende a riportare l’e­sperienza a una sorta di “ordinaria eccezio­nalità” . Al tempo stesso, in questo tono bas­so, denso di episodi e di fatti, appaiono come in controluce le difficoltà di una scelta e di una esperienza per tanti versi estreme.

Sappiamo che le partigiane rappresentano un problema all’indomani stesso della Libe­razione, tanto che in Piemonte le garibaldine sono invitate a non sfilare, come ci racconta nella sua densa narrazione Tersilla Feno- glio36. In Emilia Romagna, invece, le donne sfilano, partecipano alla consegna delle armi, indossano una divisa, si fanno fotografare con essa.

Se tale diverso esito derivi da un atteggia­mento diverso da parte delle formazioni “Garibaldi” dell’Emilia o da una più decisa affermazione femminile è un nodo ancora da sciogliere; come deve essere chiarito il pro­blema della reazione pubblica a tale eccentri­ca visibilità femminile: vi furono anche qui commenti scandalizzati e insultanti come si verificò in altri luoghi? Per ora sappiamo co­me alcune partigiane vissero quella loro pre­senza: un episodio naturale, emblematica­mente raffigurato dal rapporto con la divisa, considerata da alcune un simbolo di parità, mentre da altre viene ridimensionata a indu­mento portato per necessità senza avvertire il bisogno di una sanzione sul piano simbolico- militare. La parità, per queste ultime, non è una questione di divisa, ma sembra essere un elemento già acquisito, caratterizzante il microcosmo della brigata37.

Per riprendere il nodo del rapporto tra esperienza resistenziale, costruzione della cittadinanza e passione politica, è significati­

vo il fatto che — nei dibattiti, nei convegni, nelle discussioni private — le partigiane del­l’Emilia Romagna sostengano che le donne nel dopoguerra non “tornarono a casa” . Del resto il “ritorno a casa delle donne” si presenta come un concetto riduttivo e par­ziale, poiché non riesce a cogliere né la com­plessità dei mutamenti intervenuti né il peso delle persistenze.

Può essere emblematica la testimonianza di Vittorina Dal Monte, che ha continuato senza sosta l’esperienza politica negli anni successivi e che affronta la questione in una duplice prospettiva. A proposito della frase ricorrente “e le donne tornarono a casa”, Vittorina sostiene che può essere vera solo se la si interpreta come l’affermarsi anche tra le donne delle diverse appartenenze ideo­logiche e di partito che contrassegnò la poli­tica del dopoguerra, ma se: “con questo si vuol dire che le donne si rinchiusero in casa non è vero. Non è vero perché [...] sono stati anni di lotte incredibili. Era un susseguirsi di lotte continue. Abbiamo fatto delle cose incredibili... ”, e qui elenca una lista intermi­nabile di iniziative, manifestazioni, riunioni, e altre attività nel ‘pubblico’.

Per alcune la passione e l’azione politica assurgono a luogo della continuità della Re­sistenza, un luogo dove è possibile, da un la­to, una crescita personale — Annunziata Cesani, la mondina di Imola, diviene ammi- nistratrice pubblica a Milano; Diana Sabbi, la sarta, entra nella segreteria provinciale della Camera del lavoro di Bologna, e cosi via — e nel quale si riversano, dall’altro, le aspettative e le “attese del futuro” . Ciò, probabilmente, in sostanziale sintonia con quanto stava verificandosi nell’universo ma­schile, anche se dell’accesso al ‘pubblico’ delle donne si devono ancora studiare le di­

36 Si veda la testimonianza in A. M. Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemon­tesi, Milano, La Pietra, 1976, p. 160.37 Per i modi cosi diversi di concepire la divisa, si veda l’intervista di Emma Casari (raccolta da Dianella Gagliani) e quella di Diana Sabbi (raccolta da Elda Guerra).

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verse forme38 ed individuare pienamente i costi sul piano personale e privato39, nonché le differenze con i coetanei per quanto si ri­ferisce allo stesso nodo della “delusione” postbellica. L’uscita dalla Resistenza non fu, infatti, uguale per tutte e alcune traietto­rie indicano un carico di sofferenza specifica femminile che conferisce ulteriore e diverso significato al termine stesso della “delusio­ne” . Ci fu chi alla Liberazione non fece im­mediatamente ritorno a casa, perché sapeva o sentiva che sarebbe stata ritenuta respon­sabile di eventuali lutti. Ci fu chi, per mesi, pianse “per un nonnulla” , chi si ammalò: ognuna si ritrovò, sul piano privato, sola. Le resistenti non elaborarono la loro espe­rienza in termini di sesso, non riuscirono a individuare, quindi, un terreno comune di solidarietà e, poiché la ‘voce’ non le sorres­se, fu il corpo a ribellarsi40.

Ma c’è anche un’altra questione, che ac­comuna percorsi di ‘uscita’ che appaiono così differenziati. Franca Pieroni Bortolotti, nel suo lavoro, sottolineava la consapevo­lezza della scelta e insisteva sul fatto che le donne avevano una ragione in più di oppor­si al fascismo in risposta alle politiche del regime e alla sua rappresentazione delle

donne. Tuttavia, la mediazione politica, che si sarebbe operata nel dopoguerra, tra istanza paritaria e persistenza di una conce­zione tradizionale dei rapporti tra i sessi e dei ruoli familiari, avrebbe teso a ridurre l’e­sperienza femminile in confini stretti e avrebbe lasciato sullo sfondo, consegnando­lo irrisolto alle generazioni successive, il no­do della libertà personale: contraddizione, questa, già inscritta nella stessa esperienza resistenziale, che si presenta come una straordinaria accelerazione, in cui convivo­no il vecchio e il nuovo. Da un lato, si ripe­tono comportamenti che rinviano al tradi­zionale “registro materno” e si rinnovano antiche forme di rivolta femminili (lotte contro il caroviveri, assalti agli uffici pub­blici per bruciare i registri di leva, e così via); dall’altro, si affaccia nell’immaginario una nuova figura: quella di una giovane donna combattiva, che vive lontano da ca­sa, occupa con la sua libertà di movimento il territorio (si pensi allo “spazio” della staf­fetta) e condivide la sorte dei suoi compa­gni.

Dianella Gagliani Elda Guerra Laura Mariani Fiorenza Tarozzi

38 Sembra che anche qui, come centrale, si affermi la dimensione dell’assistenza, la quale merita ulteriori considerazioni. Si veda D. Gagliani, Welfare state come umanesimo e antipatronage. Un'esperienza delle dome nel secondo dopoguerra, in D. Gagliani, Mariuccia Salvati (a cura di), La sfera femminile. Percorsi di storia delle dome in età contemporanea, Bo­logna, Clueb, 1992, pp. 163-177. Sulla cittadinanza delle donne nel secondo dopoguerra, i suoi percorsi, le sue contrad­dizioni, cfr. Anna Rossi-Doria, Le donne sulla scena politica, in Storia dell’Italia repubblicana, voi. I, La costruzione della democrazia, Torino, Einaudi, 1994, pp. 779-846.39 Si veda, per la complessità delle linee di confine e delle contraddizioni tra ‘pubblico’ e ‘privato’, Angela Verzelli (a cura di), Il voto alle donne. Testimonianze delle donne elette nel Consiglio comunale di Bologna dal governo Cln ad oggi, Bologna, Mongolfiera, 1989.40 Su questi temi sta lavorando Laura Mariani. Cfr. L. Mariani, L ’uscita dalla Resistenza. Trasformazioni dell’identità e traumi della memoria, relazione presentata al Seminario internazionale su “Donne, guerra, Resistenza nell’Europa oc­cupata” organizzato dalla Società italiana delle storiche, dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di libera­zione in Italia, dall’Unione femminile nazionale e dagli Archivi riuniti delle donne (Milano, 14-15 gennaio 1995).

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Biografie femminili e storia politica delle donne

Patrizia Gabrielli

In un panorama storiografico poco disponi­bile a recepire innovazioni e sperimentazioni, territorio quasi interdetto ai soggetti femmi­nili, la storia politica delle donne si è svilup­pata con ritardo ed è stata contrassegnata da non poche difficoltà. Gli studi di Franca Pieroni Bortolotti, eccezione nella storiogra­fia italiana, hanno costituito per un lungo pe­riodo una vera e propria pietra miliare. Par­tendo dalle analisi della storica fiorentina, studiose e ricercatrici, impegnate in differenti settori della trasmissione e della formazione, hanno dato luogo ad una serie di ricerche in­centrate per lo più sulle origini e lo sviluppo dell’associazionismo femminile. Si è così ri­costruito un quadro della presenza geografi­ca e della vivacità politica del movimento del­le donne, dei suoi caratteri e delle sue correnti interne.

La debolezza teorica della storiografia po­litica ha determinato un vuoto di elaborazio-

ne ed una mancanza di autorevolezza sul piano scientifico che ha, almeno in parte, spinto le studiose ad uscire dai canoni uffi­ciali per esplorare territori inediti, sperimen­tare differenti metodi, affrontare nuove te­matiche1. Il dialogo con le altre scienze so­ciali ha arricchito le metodologie di indagine mentre la messa a punto di categorie inter­pretative, quali cittadinanza, appartenenza, sfera pubblica, mutuate dalla sociologia e dalla politologia, permettendo il superamen­to del pesante interrogativo sulla “presenza- assenza” delle donne nello spazio politico, ha dato nuovo vigore alla produzione sto­riografica2. La ricerca si è andata cosi orien­tando verso nuove questioni che hanno mes­so in luce la peculiarità della presenza femmi­nile nel contesto pubblico ed il suo rapporto con le istituzioni, nonché le interrelazioni tra strutture di genere e il loro evolversi in rap­porto agli eventi, si pensi ai lavori di Anna

Il presente lavoro è frutto di un ampliamento dell’intervento svolto al seminario “Sulla storia politica delle donne. Pro­blemi di metodo, ipotesi di ricerca. I campi, la scrittura, i documenti”, promosso dalla Fondazione Istituto Antonio Gramsci, Archivio storico delle donne Camilla Ravera e dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso, svoltosi a Roma il 30 aprile del 1993, presso la sede della Fondazione Istituto A. Gramsci.1 Sull’argomento cfr. “Memoria”, Sulla storia politica delle donne, 1991, n. 3.2 Sul tema della cittadinanza e la definizione della sfera pubblica femminile, oltreché sul rapporto tra rappresentan­za e rappresentazione cfr. Simonetta Soldani (a cura di), Discutendo di diritti e cittadinanza, interventi di Angela Groppi, Paola Di Cori, Alessandra Pescarolo, Michela Nacci, “Agenda”, nn. 10-11, 1994, pp. 13-35. Cfr. anche Ga­briella Bonacchi, A. Groppi, (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, La- terza, 1993; Dianella Gagliani, Mariuccia Salvati, (a cura di), La sfera pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne in età contemporanea, Bologna, Clueb, 1992; si veda anche Mary P. Ryan, Women in Public. Between Banners and Ballots, 1825-1880, Baltimore and London, Johns Hopkins University Press, 1980 con particolare riferimento alle pp. 3-18.

Italia contemporanea”, settembre 1995, n. 200

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Bravo seconda guerra mondiale3. Anche l’autorappresentazione, ampiamente affron­tata dalle storiche anglosassoni, ha suscitato interesse. La biografia e l’autobiografia, in­fatti, affermatesi in Italia con un certo ritar­do, vanno discostandosi dal modello del sag­gio storico-politico. La biografia come gene­re narrativo incentrato sull’esperienza sog­gettiva sembra aver varcato i confini che la relegavano nell’ambito dei generi minori per entrare a tutto titolo nella disciplina4.

Sebbene molte questioni restino ancora aperte e alcuni limiti da superare, la storia politica delle donne ha conosciuto una sta­gione produttiva e grazie alle concrete attivi­tà di ricerca ha potuto approfondire con maggiore consapevolezza le questioni riguar­danti le fonti e le metodologie e individuare nuovi campi di indagine, ridefinendo il suo statuto scientifico. Proprio questo patrimo­nio di studi permette di rivisitare la storia po­litica, di riflettere sui suoi paradigmi costitu­tivi, di ampliarne gli orizzonti e le tematiche.

Quale senso le donne hanno attribuito alla politica, come l’hanno definita, quali sono state le modalità del loro agire: sono quesiti ormai centrali nella storia politica delle don­ne, ai quali anch’io ho fatto riferimento nel corso della mia ricerca sulle militanti comu­niste5. Uno dei temi privilegiati è stato quello della “scelta politica”, ossia la messa a fuoco dei canali attraverso i quali le donne giungo­no alle organizzazioni e ai partiti politici. Si tratta quindi di cogliere l’intreccio di motiva­

zioni e la sovrapposizione di fattori che sot­tostanno all’ingresso nel territorio politico. Da qui l’attenzione alle origini sociali, ai rap­porti di parentela, ai livelli d’istruzione e, più in generale, culturali, ai contesti propri del mondo del lavoro ed ai momenti della socia­lizzazione, ossia a queU’insieme di fattori che sono a fondamento dei processi formativi delle singole militanti.

Una importante questione riguarda poi il significato che “il fare politica” ha avuto nel­la vita di ognuna, aspetto da tempo indagato dalla storia orale6. Raccolte di testimonianze di militanti politiche e di partigiane, infatti, hanno consentito di dare una risposta ad al­cune domande relative alla scelta politica, quali i mutamenti nell’autopercezione e la strutturazione nella memoria dell’esperienza politica, facendo emergere le differenze di ge­nere. Molto resta ancora da indagare sulle fonti scritte. Non soltanto sulle biografie e le autobiografie sulle quali il nostro paese non può vantare una forte tradizione, ma al­tresì sui diari e sulle corrispondenze. Non vanno infine trascurati materiali documenta­ri di carattere pubblico, quali gli atti proces­suali: da questi possono emergere nuovi dati sulla mentalità e sui rapporti tra le donne e il potere politico, le forme molteplici della dis­sidenza e le reti informali che la alimentano — si pensi ad esempio alle ricchezza di infor­mazioni che possono presentare le carte del Tribunale speciale recentemente aperte alla consultazione.

3 Cfr. Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1991; A. Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 1995.4 Sulla tardiva affermazione del genere biografico e sui suoi sviluppi si veda Alceo Riosa (a cura di), Biografia e storio­grafia, Milano, Angeli, 1983; Cesarina Casanova, Revival biografico tra autori e lettori, “Movimento operaio e socialista”, 1989, n. 19, pp. 119-128; Mario Isnenghi, Parabola dell’autobiografia. Dagli archivi della "classe" agli archivi dell"‘io", “Rivista di Storia Contemporanea”, 1992, nn. 2-3, pp. 382-401. Per una rassegna critica sull’autorappresentazione fem­minile si rimanda a Luana Mattesini, Scrivere di sé: una rassegna critica sull’autobiografia femminile, “Nuova Dwf” , 1993, nn. 2-3 pp. 28-47. Sul genere biografico come forma di scrittura femminile cfr. Gianna Pomata, Storia particolare e storia universale: in margine ad alcuni manuali di storia delle donne, “Quaderni Storici”, 1990, n. 74 pp. 341-385.5 “Comuniste negli anni venti: biografie ed esperienze politiche di ‘rivoluzionarie professionali’” è il titolo provvisorio della mia tesi di dottorato in Storia dei partiti e dei movimenti politici, presso l’Università degli Studi di Urbino.6 Per un bilancio sulle ricerche prodotte in questo ambito si rimanda a Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, con riferimento particolare alle pp. 19-42.

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Il rapporto con la politica e i suoi risvolti quotidiani e personali assumono uno spesso­re rilevante nella vicenda delle comuniste ita­liane. Le finalità ed il modello del partito ri­voluzionario, insieme alla clandestinità de­terminata dal regime, impongono una disci­plina ferrea. Le norme degli statuti sono chiare: al militante, uomo o donna che sia, è richiesta una presenza continua ed attiva, pena la sospensione o l’espulsione dal parti­to. La pratica politica, quasi ridotta alla co­spirazione, dato il regime di illegalità, richie­de consapevolezza, capacità di cogliere le oc­casioni, discernere tra i momenti favorevoli e quelli pericolosi. E quindi necessario saper stabilire rapporti, creare reti e legami di soli­darietà, “mettersi in gioco” mantenendo un controllo di sé notevole. La vita e la politica divengono una sola cosa e la militanza si tra­sforma, in alcuni casi, in una vera e propria dedizione. Anche per questi motivi, la scelta politica non è questione marginale; essa im­pone ritmi e tempi di vita diversi, mette in contatto con nuove realtà e situazioni, impli­ca l’assunzione di nuove responsabilità: tra­sformazioni rilevanti nella vita quotidiana che sottointendono processi di ridefinizione dell’identità. Queste fasi di transizione, scan­dite dal passaggio a differenti forme di vita, costituiscono terreni fecondi d’indagine, iti­nerari di ricerca che invitano a scavare nella definizione dell’identità di genere, nelle sue trasformazioni e negli scarti tra la definizione di una presunta femminilità, le sue implica­zioni sul piano simbolico e l’assimilazione che i soggetti ne fanno. La vita e le esperienze di ogni singola acquistano cosi un rilievo im­portante, demoliscono gli stereotipi sulla im­provvisa “illuminazione”, sulla scelta “salvi­fica”, lasciando intravvedere processi a lungo sedimentati nelle coscienze. Fattori di diversa natura, si mescolano e si incrociano, piccole e grandi questioni entrano in gioco; stimoli trasmessi dai familiari o da persone care, qualche volta da figure quasi sconosciute, dalle letture, dalla “strada”, vengono inca­

merati, lasciati decantare per poi emergere rielaborati dal trascorrere del tempo.

La tipologia delle fonti acquista in questo ambito di ricerca una dimensione non secon­daria. Accanto alla documentazione tradi­zionalmente usata dalla storia politica, come la stampa e le direttive politico-organizzati­ve, si è scelto di dare rilevanza a documenti di diversa natura e provenienza. Un materia­le eterogeneo, quindi, raccolto negli archivi nazionali e locali, alcuni di carattere privato. Alle carte di polizia si è quindi accostata la documentazione prodotta dal partito come direttive di lavoro, circolari e pubblicistica. Un nucleo cospicuo di documenti è costituito da materiali prodotti dalle singole militanti: riflessioni politiche inedite, autobiografie, ro­manzi e racconti autobiografici, corrispon­denza.

In queste note mi soffermerò in particolare sulle sollecitazioni e sugli spunti di riflessione scaturiti dall’uso delle fonti di carattere auto­narrativo, nella maggior parte autobiografie edite, tralasciando i problemi di reperimento e le scelte metodologiche adottate nello stu­dio delle altre fonti utilizzate nel corso della mia ricerca. La documentazione autobiogra­fica, strettamente connessa al “vissuto” dei protagonisti, permette di indagare la politica al di là degli aspetti normativi e prescrittivi; di soffermarsi sulla rielaborazione, nell’espe­rienza quotidiana, del termine politica e dei suoi valori; di tenere conto della dimensione soggettiva della militanza. Si è trattato quin­di di mettere insieme dei tasselli, tessere pic­cole trame, cogliere aspetti minuti e quotidia­ni dell’esistenza. L’analisi e la valutazione di questa frammentata gamma documentaria ha confermato i miei dubbi e le mie perplessi­tà sul modello propagandato e sulla rappre­sentazione che le militanti hanno dato di loro stesse. Soprattutto risulta essere sempre me­no convincente il ricorso a stereotipi che ten­tano di uniformare in un blocco monolitico le donne, tralasciando i diversi soggetti, le sin­gole individualità, le loro specifiche motiva­

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zioni e i loro progetti di vita. L’attenzione al­le vicende biografiche pone delle questioni di metodo che vanno al di là dell’applicazione di categorie predeterminate e i modelli si pre­sentano inadeguati data “la irriducibilità de­gli individui e dei loro comportamenti a siste­mi generali di norme”7. Il ricorso alla docu­mentazione di carattere autobiografico pre­senta una realtà storica articolata, un panorama mosso e vario, assai poco riducibi­le a categorie rigide a norme e schematizza­zioni generali. Il tentativo è appunto quello di valorizzare l’individuo come agente della storia, oltrepassando “il determinismo astratto delle strutture”8.

La mia ricerca riguarda un gruppo di don­ne, circa mille di diverse età, appartenenti a varie aree geografiche e sociali. Operaie, ca­salinghe, sarte, impiegate e maestre, con esperienze di vita, con ambizioni e aspettative assai diverse, confluite nel Pc d’I nel corso degli anni venti: un piccolo universo di don­ne, composto da molteplici individualità, che esige l’applicazione di chiavi di lettura di- versificate e dove il ricorso ad impalcature ri­gide mostra tutta la sua parzialità. Pubblico\ privato, donna militante\donna comune, di- pendenza\autonomia, alla luce delle singole storie di vita risultano essere dicotomie diffi­

cilmente riscontrabili. Emergono infatti in­trecci e sovrapposizioni piuttosto che statiche polarità.

Scrivere un’autobiografia è un tentativo di produrre qualcosa di durevole, di salvare la propria vicenda, spirituale e concreta, dall’o­blio. L’atto autobiografico ha anche un altro obiettivo: conservare un patrimonio di idee e di tradizioni capaci di creare un legame tra generazioni diverse. Un gesto di per sé im­portante, frutto della coscienza della propria identità e della consapevolezza del proprio vissuto. Eppure, leggendo la documentazione prodotta dalle donne comuniste si resta in primo luogo colpiti dalla mancanza della principale funzione autobiografica, che Gianfranco Folena ha definito come “la rico­struzione egocentrica dell’esperienza vissu­ta”9. Nella maggioranza dei casi l’autrice, at­traverso il racconto della propria vita, rico­struisce la storia del partito e dei suoi militan­ti, l’interiorità resta nascosta; la dimensione umana è quindi fortemente subordinata a quella storico-politica. Anche in questo caso potremmo parlare di “atrofia dell’io” 10 11. Bre­vi le parti dedicate all’infanzia, alla vita fami­liare, anche se questa ha una funzione impor­tante per l’iniziazione alla politica, come le fonti d’archivio testimoniano11. La presa di

7 Giovanni Levi, Les usages de la biographie, “Annales. Esc”, 1989, n. 6, p. 1325.8 Eleni Varikas, L'approche biographique dans l ’histoire des femmes, “Les Cahiers du Grif” , 1988, nn. 37-38, p. 4L9 Gianfranco Folena, L'autobiografia, il vissuto, il narrato. Premessa, “Quaderni di retorica e poetica”, 1986, n. 1, p. 3.10 L’espressione è di Maria Antonietta Saracino, L ’autobiografia di una Nazione, “Quaderni di retorica e poetica” , cit., p. 240. Sul carattere “relazionale” dell’autobiografia femminile, tanto da essere definita da Roland Barthes “dispersiva” e “non rappresentativa”, e in generale sulla sua specificità cfr. M. G. Masón, The Other Voice: Autobiographies of Wo- men Writers, in James Olney (a cura di), Autobiography: Theoretical and Criticai Essays, Princenton, Princenton Uni­versity Press, 1980, pp. 207-235; Bella Brodzki, Celeste Schenk, Introduction, in Id. (a cura di), Life/Lines. Theorizing Women's Autobiography, Ithaca and London, Cornell University Press, 1988, pp. 1-15. Si veda nello stesso volume an­che lo studio di Doris Sommer sulle testimonianze di donne latino-americane, “No Just Personal Story": Women’s Te­stimonios and thè Plural Self, pp. 107-130.11 Dalla ricerca condotta sulla documentazione compresa nel Casellario politico centrale risulta che una buona parte delle militanti è inserita in un contesto familiare politicizzato: i padri, i fratelli, i mariti, in qualche caso le madri, sono stati militanti o simpatizzanti nelle organizzazioni del movimento operaio. Confermano questo dato le interviste raccol­te da Bianca Guidetti Serra, Compagne, Torino, Einaudi, 1977, 2 voli.; si vedano inoltre sulle autobiografie redatte dai militanti comunisti in occasione dell’iscrizione al partito il saggio di Marco Boarelli, Il mondo nuovo. Autobiografie di comunisti bolognesi 1945-1955, “Italia Contemporanea”, 1991, n. 182, pp. 51-66 e Marco Minardi, Ragazze dei borghi in tempo di guerra. Storie di operaie e antifasciste dei quartieri popolari di Parma, Parma, Istituto storico della Resisten­za, 1991.

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coscienza si identifica, quasi si sovrappone, con la iniziazione alla militanza, segnando il passaggio ad un cambiamento radicale della propria vita. La narrazione si sviluppa sulle esperienze svolte, gli incarichi ricevuti, le pro­ve superate. L’ingresso nel pubblico si confi­gura come una rottura dei luoghi e degli spazi della vita di ogni giorno. Nella maggioranza delle autobiografie gli affetti restano sullo sfondo, spesso sono assenti; gli amici non ci sono, i militanti sono di frequente i soli per­sonaggi che popolano il racconto, i tempi del­la propria vita sono scanditi da quelli della storia del partito. La soggettività è quindi fortemente compressa.

Assenze e silenzi hanno un valore rilevante per la ricercatrice. Scrivere la propria biogra­fia, infatti, non significa soltanto ritrovare nella memoria gli eventi vissuti proponendo al lettore un riassunto della propria esperien­za esistenziale, si tratta piuttosto, riprenden­do una nota definizione di Georges Gusdorf di “un atto creativo” 12. Il narratore racconta la propria esistenza reinterpretandola. Nella sezione degli eventi narrati giocano un ruolo fondamentale le gerarchie di valori e di idee dominanti nel contesto storico-sociale in cui la biografia è prodotta. “L’interpretazione proposta dal documento diventa allora essa stessa oggetto di studio; per quanto parziale, tendenziosa, insufficiente possa essere, è co­struita e pensata come attendibile per il pub­blico a cui è diretta; ne illumina conoscenza del mondo e degli uomini, rapporto con i va­

lori e transazioni, e l’immagine dell’attore ne risulta in tal modo ‘complicata’” 13. Nel caso delle comuniste italiane sia la dimensione omnicomprensiva e totalizzante della mili­tanza, sia i caratteri della rappresentazione del femminile nella propaganda divengono le lenti attraverso cui guardare all’esperienza senza correre il rischio di deformarla.

La donna contadina o l’operaia, che si ca­ratterizzano per il loro coraggio, hanno ri­nunciato alle caratteristiche più emblemati­che del loro stesso sesso, per divenire un sog­getto asessuato. Semplice ed altera, la “rivo­luzionaria di professione” è un’eroina virtuosa14. La rappresentazione edificante è rafforzata dalla mimetizzazione del corpo femminile, scevro da ogni attrattiva, privo di un qualsiasi richiamo all’erotismo: “[...] tu quel giorno mi apparisti come una donna modestissima, senz’altro ornamento che la tua semplicità, la tua rinuncia che noi non co­nosciamo e che fa di te una personalità quasi impersonale” 15. Era questa l’immagine che la stampa offriva di Nadieska Krupskaia, ma non erano diverse i ritratti delle altre espo­nenti del movimento comunista internazio­nale, rappresentazioni concrete delle “donna nuova”. Donne pronte al sacrificio e alla lot­ta, vere e proprie combattenti, votate al sacri­ficio e alla rinuncia. Immagini femminili lon­tane, se non addirittura estranee alla vita rea­le, con le quali il confronto risultava difficile ed azzardato, per queste ragioni lo sforzo compiuto da alcune per tendere a quel mo-

12 Sul tema della memoria e dell’autorappresentazione esiste un’ampia bibliografia, si rimanda soltanto a L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1987; si vedano inoltre l’ormai classico studio di Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski con Postfazione di L. Passerini, Milano, Edi­zioni Unicopli, 1987; Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l'oblio, Bologna, Il Mulino, 1991; Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986; Andrea Battistini, Lo specchio di Dedalo. Autobiografìa e biografìa, Bologna, Il Mulino, 1990.13 Maria Carla Lamberti, La biografia e l’autobiografia di Francesco Bai, “Quaderni storici”, 1990, n. 73, p. 236 .14 Françoise Navailh, Il modello sovietico, in Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne. Il Novecento, a cura di Françoise Thébaud, Roma-Bari, Laterza, 1992. Sulla rappresentazione femminile nell’iconografia sovietica e le sue tra­sformazioni nel passaggio dalla fase rivoluzionaria all’età staliniana, nonché sull’ascendente che su di essa ebbero le tra­dizioni folkloriche del mondo slavo cfr. Victoria E. Bonnell, L ’immagine della donna nell'iconografìa sovietica dalla ri­voluzione all’età staliniana, “Storia Contemporanea”, 1991, n. 1, pp. 5-55.15 Enriette Roland Holst, La moglie di Lenin, “L’Ordine Nuovo”, 10 novembre 1921.

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dello fu faticoso16. La femminilità tradizio­nale espressione del vecchio mondo borghese era stata cancellata; la donna era anzitutto lavoratrice e sempre più simile all’uomo: “la nuova umanità industriosa [era] fatta di gemelli” 17. Al di là delle suggestioni rivolu­zionarie l’immagine della “comunista” si ali­mentava anche di un retroterra culturale di matrice nazionale. L’Italia non mancava di avere, infatti, una sua tradizione in materia. Socialiste ed emancipazioniste avevano con­trastato la vanità e la valorizzazione delle qualità fisiche per porre l’accento sulle doti interiori, quali l’intelligenza e la nobiltà dello spirito, propagandando uno stile sobrio, te­so, in armonia con la tradizione cattolica, “a svalutare il corpo” 18. In questo modello asessuato propagandato dalla stampa fem­minile si misuravano le difficoltà e i disagi che l’accesso alla dimensione pubblica gene­rava nelle donne. Questo duro impatto, do­vuto al confronto con esperienze e ritmi di vita differenti da quelli usuali e dalla man­canza di una tradizione femminile significati­

va, dava origine a tentativi di inserimento che potevano tradursi anche in una sorta di mimetizzazione. Ma questo processo, oltre al senso di inadeguatezza provato dalle don­ne, offre un quadro del disagio maschile. Di­sgregando il consueto paradigma donna-pri­vato, uomo-pubblico, il corpo femminile ir­rompeva nel sociale rendendo incerti i confini che delineavano le identità di genere. Il timo­re di perdere la propria specifica connotazio­ne sessuale, di essere cioè de-mascolinizzati, in alcuni casi, produceva come reazione il tentativo di omologare il femminile al ma­schile19.

Il corpo femminile per i suoi confini incerti è considerato vulnerabile; suscettibile di cam­biamenti esso è portatore di disordine e quin­di rifiutato. Elemento non omogeneo rispetto al panorama politico, dominato dall’univer­salità maschile, il corpo delle donne “sessua- lizza” la scena pubblica, imponendo verifiche e trasformazioni ad uno spazio considerato neutro20. Per entrare in questo territorio era quindi necessario camuffarsi prendendo le

16 In particolare allo stereotipo comunista, alla sua subordinazione alla direzione politica e alla distanza di questo mo­dello dalle aspettative delle donne accenna Christiane Dufrancatel, La femme imaginaire des hommes, in C. Dufrancatel et al., L'Histoire sans qualités, Paris, Editions Galilée, 1979, pp. 182-183.17 L’espressione è di F. Navailh, Il modello sovietico, cit., p. 278.18 Michela De Giorgio, Le italiane dall'Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 148. Si vedano anche le parti sulla “nazionalizzazione della moda” in Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 295- 301, con particolare riferimento a p. 297 dedicata alla propaganda contro il lusso e la moda promossa, nel primo do­poguerra, dalle fasciste della prima ora.19 Cfr. Paola Di Cori, Il doppio sguardo. Visibilità dei generi sessuali nella rappresentazione fotografica (1908-1918), in Diego Leoni, Camillo Zadra (a cura di), La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 778. Il corpo femminile e il suo valore anche sul piano simbolico hanno costituito importante materia di studio nel cam­po della storia delle donne e delle relazioni di genere, per un introduzione al tema cfr. G. Pomata, La storia delle donne: una questione di confine, in Giovanni De Luna, Peppino Ortoleva, Marco Revelli, Nicola Tranfaglia, Il mondo contem­poraneo. Gli strumenti della ricerca. Questioni di metodo, II voi., pp. 1455-1464.20 Cfr. P. Di Cori, Rappresentare il corpo e la sessualità. Un problema teorico nella storia e nella politica delle donne, in D. Gagliani, M. Salvati, La sfera pubblica, cit., p. 25-40; uscito di recente nel corso della stesura di questo lavoro il saggio di P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico, in Gabriele Ranzato (a cura di), Guerre fratricide, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 304- 329; Anna Rossi Doria, (a cura di), La libertà delle dome. Voci della tradizione politica suffragista, Torino, Rosemberg e Sellier, 1990; Id., Il voto alle donne: una storia di contraddi­zioni, in Maria Luisa Boccia, Isabella Peretti, Il genere della rappresentanza, Roma, Editori Riuniti, pp. 20-41. Un appro­fondimento di questi temi viene dalla ricerca, ancora in corso, di Laura Mariani, sulle partigiane bolognesi. La studiosa ha offerto una sua anticipazione nella relazione L'uscita dalla Resistenza. Trasformazioni dell'identità e traumi della memoria, presentata al Seminario intemazionale “Donne, guerra, Resistenza nell’Europa occupata” promosso dalla Società italiana delle storiche, dall’ Unione femminile nazionale, dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e dagli Archivi riuniti delle donne (Milano 14-15 gennaio 1995).

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distanze da oggetti che, per il loro valore sim­bolico, rimandassero al concetto di femmini­lità.

La moda quindi, considerata un segno del­la degenerazione borghese, simbolo della tanto deplorata vanità femminile, veniva bandita e questo anche per un preciso dise­gno politico: offrire un’immagine della diri­gente vicina, anche sotto il profilo dei costu­mi e dello stile di vita, alle donne miseramen­te abbigliate dei ceti popolari. Un severo giu­dizio sulla vanità ed il rifiuto della moda sembrano essere delle costanti nell’autorap- presentazione delle militanti. La stampa così come le scritture private offrono quindi una medesima immagine, anche se non mancano delle sfumature. Queste rappresentazioni in­fatti risultano sovente contraddittorie se po­ste a confronto con le fotografie, che ritrag­gono donne curate nelfabbigliamento, in po­se studiate, in atteggiamenti ricercati, e con i resoconti della polizia, che descrivono donne eleganti. Al di là deH’immagine codificata molti elementi fanno riflettere sulla validità e la piena accettazione del modello. Piccoli indizi lasciano intravvedere delle smagliature che aprono uno squarcio sull’autonomia del­le scelte e offrono un’immagine della militan­te, forse contraddittoria, ma certamente più ricca e complessa di quella propagandata.

Il corpo femminile e la sua presenza nella sfera pubblica sono dunque questioni tutt’al- tro che marginali: negato o mascherato, fon­te di preoccupazione o di disagio, esso occu­pa parte dello scenario politico e dell’imma­ginario. Durante il fascismo il corpo femmi­nile sembra entrare con maggiore irruenza nella scena pubblica, abilmente utilizzato per ingannare il nemico. Il corpo cosi come gli abiti o gli accessori femminili, consapevol­mente gestiti, divengono una importante ri­sorsa e rendono più agevole il lavoro clande­

stino. Sotto le gonne, tra i capelli, nelle cap­pelliere, nelle borsette, sono accuratamente celati i materiali della propaganda, le relazio­ni della Centrale ai funzionari periferici, le di­rettive di lavoro e innumerevoli informazioni in cui il carattere politico e quello privato si confondono. Il corpo femminile diviene uno strumento valido per sfuggire all’occhio vigi­le dei tutori dell’ordine. Accanto alla rappre­sentazione del “femminile” agitata dalla pro­paganda vi è l’immagine modellata al di fuori del partito, dagli avversari politici. Gli agenti di Pubblica sicurezza nei loro resoconti tra­smettono un ritratto vivace e trasgressivo che non si allontana da quello della “popola­na ribelle” . Donne “animose nel carattere” al centro di complicate reti di rapporti, che non poche preoccupazioni danno ai tutori dell’or­dine; donne scaltre capaci di negare anche l’e­videnza dei fatti raggirando le leggi; donne pericolose e tentatrici, vere e proprie sovver­titrici dei valori morali, minacciose dell’ordi­ne sessuale vigente. Queste differenti rappre­sentazioni, intrecciandosi, sono state interio­rizzate costringendo così in rigidi schemi le narrazioni autobiografiche. Al di là dello sguardo moralistico e “turbato” dell’agente di Polizia, queste vite femminili sono assai poco rispettose dei codici e delle norme com­portamentali propri della società del tempo. Le militanti hanno contravvenuto alle aspet­tative sociali, si vedono così costrette a giusti­ficare il loro operato, per questo, pur defi­nendosi in alcuni casi degli spiriti ribelli, pon­gono l’accento sulla loro totale dedizione alla causa. La rappresentazione più frequente è quella della “madre devota”, una sorta di maternità allargata che dal chiuso delle pare­ti domestiche si estende alla società, un mo­dello di donna dedita al sacrificio che non contraddice l’immagine tradizionale di “colei che si dona”21.

21 Sulla questione si è soffermata A. Rossi Doria nel ciclo di lezioni Vite per la causa. L ’autorappresentazione delle suf­fragiste, nell’ambito del corso “Raccontare, raccontarsi”, promosso dalla Società italiana delle storiche in collaborazio­ne con l’Università di Siena, presso la Certosa di Pontignano (Siena, Il Settimana, 26-31 agosto 1991). Sulla tendenza ad

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I vuoti in questi scritti sono numerosi, ma il non detto e la resistenza a svelarsi sono da­ti significativi. Come ci ricorda Virginia Woolf il “dirsi e il non dirsi” costituisce una strategia necessaria per poter “essere, esistere e sopravvivere nel mondo altrui”. Sono presenti anche nelle narrazioni rigida­mente codificate smagliature, spie dalle quali è possibile cogliere le contraddizioni e le sen­sazioni di disagio. Penso ad esempio al di là del tono esaltante, tra la sfida e 1’ orgoglio, con il quale viene raccontata la militanza, al timore di “sconfinare” dal modello. L’at­titudine al lavoro, quella di brava educatrice dell’infanzia, insieme con altre capacità con­siderate tipicamente femminili, come la “cu­ra” degli altri, sono ricorrenti nella docu­mentazione raccolta. Lucia Canova, riba­dendo il ruolo della donna nella famiglia, senza nascondere un certo compiacimento ha affermato: “Io avevo quattro fratelli, pa­pà e mamma — la mamma è morta nel 1930 —; ho sempre fatto quello che si doveva fare in casa, però ho sempre partecipato alla vita politica”22. Anche Rita Majerotti, se da un lato si proponeva come una donna lontana dagli schemi, dedita ad uno stile di vita non comune al suo sesso, dall’altro dichiara­va esplicitamente le sue attitudini “femmini­li”, di brava casalinga dotata di senso prati­co, capace di preparare “un risottino”, quasi a voler ricomporre quei due universi tanto distanti nell’immaginario collettivo: la mili­tante e la donna, la prima confinata nella scena pubblica, la seconda in quella privata. Anche la corrispondenza apre importanti squarci sulla soggettività e sulla politica; es­sa lascia trasparire legami di amicizia intel­

lettuali e sodalizi; si racconta di sacrifici e di dolori, ma anche di entusiasmi. Le lettere offrono spunti sulle trasformazioni che in­tervengono nella vita delle singole, informa­no sui ritmi di vita, le abitudini, le conquiste di spazi di autonomia e di libertà. In alcuni casi si tratta di lettere scritte in carcere, al confino o nel corso dell’emigrazione; mo­menti straordinari, vissuti con il sentimento dell’angoscia causato dalfallontanamento dai propri cari e dal proprio paese. Continui sono infatti i riferimenti e le domande sulla salute dei parenti e dei conoscenti, i racconti dettagliati sulla propria giornata con il ri­chiamo ad oggetti che assumono il significa­to di una sorta di proiezione della vita fami­liare. È il caso della bolognese Lea Giacca- glia che informava i genitori sulle sue abitu­dini alimentari, comunicando che aveva cucinato “i tortellini”, quasi a richiamare nella memoria, per trovarvi conforto, le tra­dizioni domestiche. Tuttavia, per quanto do­lorose, queste separazioni costituiscono mo­menti di conquista: si aprono nuovi spazi e si viene a contatto con costumi differenti. Queste donne vivono lontane dalla famiglia, soprattutto quelle che emigrano, si costrui­scono una nuova vita; prendono in affitto una casa, frequentano nuove amicizie, esco­no, libere dagli orari e dai vincoli familiari. Sono cambiamenti importanti che costringo­no ad una continua verifica delle proprie convinzioni e credenze.

Sarebbe però riduttivo pensare al genere autobiografico come ad una fonte da privile­giare soltanto per avere accesso alla sfera pri­vata, per recuperare alla storia i sentimenti e le emozioni23. Questa documentazione è illu-

autorappresentarsi come ribelli ma anche brave lavoratrici o attente amministratrici delle risorse domestiche cfr. A. Bra­vo, L. Passerini, Simonetta Piccone Stella, Modi di raccontarsi e forma di identità nelle storie di vita, “Memoria”, 1983, n. 8, pp. 101-113.22 Lucia Canova [intervista], in Anna Maria Bruzzone, Rachele Farina, La Resistenza taciuta, Milano, La Pietra, 1976, p. 228.23 Nelle lettere spesso “pubblico” e “privato” si confondono lasciando emergere le capacità di negoziazione delle donne come dimostra ad esempio Jane Couchman, What is “PersonaC about Sixteenth Century French Women’spersonal Wri- tings?, “Atlantis”, 1993, n. 1, pp. 16-22.

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minante anche ai fini di una più profonda comprensione delle motivazioni che sosten­gono l’adesione all’ideale e all’organizzazio­ne. Il Pc d’I entra nella vita delle singole come momento di speranza e di conforto tanto che, come nel caso di Norma Balelli, si giunge a definire il partito come una nuova famiglia capace di sostituire le persone care assenti. Al di là dell’aspetto simbolico, concretamen­te si sovrappongono e si intersecano nel par­tito relazioni di parentela, affetti e solidarietà ereditate da fasi di socializzazione anteceden­ti l’organizzazione politica. L’appartenenza ad una stessa città, allo stesso borgo creano un groviglio di conoscenze e legami che dan­no forza all’organizzazione e alle singole mi­litanti24. Sulla base di queste antiche tradizio­ni Consolina Montagnana accorre ad assiste­re al parto di Teresa Noce che, giovane, inti­morita e preoccupata, anche per l’assenza del suo compagno detenuto a San Vittore, si sen­te sperduta. Consolina, “che di figli ne ha fat­ti sette”25, è presente per dare il suo conforto e la sua esperienza.

La stessa disciplina prescritta dagli statuti si carica nella vita quotidiana di maggiore elasticità; l’attività ha delle modalità assai poco rituali, mentre la figura della “rivolu­zionaria di professione” assume le sembianze di un soggetto sfaccettato, assai meno rigido di quanto la pubblicistica abbia propaganda­to. I silenzi presenti nella narrazione vengono quindi, almeno in parte, colmati dalle lettere. L’amicizia che, nella maggioranza dei casi, non entra in scena nelle autobiografie, è inve­ce rintracciabile in alcune lettere affettuose

scritte durante la vecchiaia. Giuseppina Mar- tinuzzi, ad esempio, per molti anni intrattiene con l’amica Emilia un rapporto epistolare, dal quale si intravvedono i risvolti quotidiani della vita politica e sociale. Così la grande guerra assume i toni di un vero e proprio dramma collettivo, mentre la nascita del nuo­vo partito si colora delle tinte forti della spe­ranza, rimettendo in moto energie sopite. Ca­milla Ravera sollecita “Nuvola”, Serena Sei- denfel, affettuosamente chiamata “Nuvolet­ta” a pubblicare le sue memorie, mentre Cesira Fiori mantiene, durante gli ultimi anni della sua vita, un rapporto epistolare con Alba Spina, al quale prende parte anche il compa­gno di Cesira, Umberto Cumar. Lontane e in difficili condizioni di salute le due amiche si confrontano sulle cure termali, le terapie più efficaci per i propri malanni, si intratten­gono sulla solitudine e si scambiano tenerezze:

Alba cara, tu sei tanto saggia per gli altri: com­prendiamo come la tua vita solitaria non sia un ideale, comunque siamo certi che tu ami 1’esistenza anche se amara. Certo sarebbe stato bene che avessimo potuto realizzare il sogno ed il progetto che avevamo prospettato anche al P.[artito], per organizzare una casa di riposo per vecchi persegui­tati che lo avessero voluto26.

E in un’altra lettera Cesira scriveva:

Cara Alba più che sorella, tu non sai la tenerezza che ci danno le tue lettere: fra tanti amici tu sei la più costante e premurosa e noi te ne siamo, non c’è parole per esprimerlo, ma te ne siamo grati, grati27.

24 Cfr. Adriano Ballone, Il militante comunista torinese (1945-1955). Fabbrica, società, politica: una prima ricognizione, in Aldo Agosti (a cura di), I muscoli della storia. Militanti e organizzazioni operaie a Torino 1945-1955, Milano, Angeli, 1987, con particolare riferimento a p. 148; A. Ballone, Una sezione, un paese: appunti per una storia del militante comu­nista 1921-1981, “Rivista di storia contemporanea”, 1981, n. 3, con particolare riferimento pp. 417-433; Maurizio Gri- baudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987, con particolare riferimento alle pp. 101-123.25 Teresa Noce, Vivere in piedi, Milano, Mazzotta, 1978, p. 137.26 Lettera di Cesira Fiori a Alba Spina, Roma, 1 dicembre 1971, in Fondazione Fiori, Palestrina, Roma (archivio in ordinamento).27 Lettera di C. Fiori a A. Spina, Roma, 22 maggio 1969, loc. cit.

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L’amicizia ha forti implicazioni anche nel settore politico; sono proprio le relazioni per­sonali a determinare l’ingresso nel partito e a dare ai progetti politici ed esistenziali — i due termini spesso si confondono — quell’insie­me di affetti ed energie umane senza le quali la loro realizzazione risulterebbe difficile, se non impossibile28.

Più volte è stata sottolineata la carenza di fonti sul movimento politico delle donne, problema strettamente connesso alla man­canza di un progetto di memoria storica da parte dello stesso movimento, le cui cause so­no individuabili in differenti fattori sia inter­ni esterni29. Le comuniste italiane degli anni venti non costituiscono in questo quadro un’ isola felice.

Nel 1951 Camilla Ravera, dirigente del partito e massima esponente del movimento femminile comunista, pubblica La donna dal primo al secondo Risorgimento, con il chiaro intento di colmare il vuoto sulla esperienza politica delle donne e di valorizzare il prota­gonismo delle lavoratrici che si era espresso fin dagli albori dell’Ottocento30. Ravera re­cupera l’idea di coniugare sviluppo democra­tico ed emancipazione femminile — infatti il volume si apre con una citazione di Stuart Mili — e articola il suo discorso secondo la linea lanciata da Togliatti, all’indomani della liberazione, sintetizzata nella formula “la donna ha bisogno della democrazia, la demo­crazia ha bisogno della donna”. Nelle copio­se pagine dedicate alle lotte delle lavoratrici proletarie, l’autrice non manca di abbozzare una interpretazione critica della linea del Psi. Si tratta di giudizi severi che in parte of-

fuscano l’opera delle militanti socialiste. Stando a questa ricostruzione bisognerà at­tendere la formazione del Partito comunista, ed in particolare dell’egemonia dell’area gramsciana, affinché l’emancipazione femmi­nile possa essere inserita, anche se con qual­che limite, nei programmi politici dei partiti operai. Camilla Ravera recupera, anche se sommariamente, l’esperienza delle comuniste italiane, ma allo stesso tempo contribuisce a formalizzare la cesura tra queste ed il movi­mento delle donne in Italia. Occorre tuttavia precisare che, al di là degli intenti politici ed autocelebrativi, Ravera, come le altre donne, politiche o studiose, che si accingevano a ri­costruire la storia del movimento per l’eman­cipazione femminile, doveva fare i conti con la mancanza di memoria storica, di tracce di eventi e soggetti che avevano popolato la prima stagione del femminismo italiano. A questo si accompagnava, come Franca Piero- ni Bortolotti ha sottolineato, l’esperienza di­retta che Camilla, come altre esponenti del partito, aveva avuto negli anni venti. La crisi conosciuta in quella fase dal movimento delle donne, il progressivo ridimensionamento dei suoi programmi, nonché della sua presenza sull’arena politica, contribuirono a far sì che “una intera generazione di comunisti è stata convinta di essere la prima forza politi­ca a parlare in Italia dell’emancipazione fem­minile su basi ‘materialistiche’, vale a dire ri­vendicando il diritto al lavoro e non solo le leggi di tutela”31. La donna dal primo al secon­do Risorgimento fu seguita da altre pubblica­zioni di minore importanza, ma soltanto ne­gli anni settanta si assiste alla nascita di un

“8 II tema dell’amicizia e della solidarietà ha per un lungo periodo richiamato l’attenzione della storiografia delle donne: le reti di amicizia e le relazioni tra le emancipazioniste sono state messe in luce da Annarita Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di un’istituzione laica, Milano, Angeli, 1988; Laura Mariani, Il tempo delle attrici, Bologna, Editoriale Mongol­fiera, 1991.29 A. Buttafuoco, Vuoti di memoria. Sulla storiografìa politica in Italia, “Memoria”, 1991, n. 31, pp. 61-72.30 Camilla Ravera, La donna dal primo al secondo Risorgimento, Roma, Edizioni di cultura sociale, 1951. La seconda edizione, Breve storia del movimento femminile in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1978, rivista ed ampliata, presentava una parte dedicata alio sviluppo del neofemminismo in Italia.31 Franca Pieroni Bortolotti, Femminismo e partiti politici in Italia 1919-1926, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 152.

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interessante, anche se “modesto”, per dirlo con Nadia Spano, recupero della storia e del­la identità delle donne comuniste. Una ricer­ca fortemente sollecitata dalla esigenza del partito che celebra i cinquant’anni della sua fondazione. Il Cinquantenario si caratterizza “come momento di forte campagna di con­quista esterna, con carattere di massa, dun­que, che impegni tutto il partito”32. Il prose­litismo tra le masse femminili non era ovvia­mente escluso dal progetto. Nel febbraio del 1970, infatti, Rita Montagnana dava ai com­pagni alcuni suggerimenti ricostruendo le li­nee salienti della politica femminile del Pei33. Al progetto parteciparono anche le di­rigenti più giovani. Sull’onda dei ricordi, ria­prendo vecchi album o esplorando la memo­ria si rintracciavano tra le sue pieghe i nomi dimenticati e, in alcuni casi, si individuava il solco di una scelta che aveva attraversato le generazioni femminili di una stessa fami­glia34. Si rispolveravano così antiche figure, si riaffacciavano alla memoria aneddoti e storie lontane, ma la raccolta di testimonian­ze o la stesura delle biografie non esaurivano i programmi per le celebrazioni. La Commis­sione preposta dava precise indicazioni di la­voro: “[...] si tratta di un Cinquantenario, cioè di una misura precisa del tempo che po­ne per un partito che ha questa età problemi di particolare natura: l’avvicendarsi e ravvi­cinarsi e l’unificarsi di generazioni”35. Adria­na Seroni, tenendo fede alle direttive, elabo­rava un progetto piuttosto ambizioso: “un opuscolo molto vivace e ricco” per celebrare “i cinquanta anni del Pei e l’emancipazione

delle donne italiane” che offrisse la ricostru­zione “compatta” della politica femminile comunista36. Il lavoro veniva affidato a Na­dia Spano, esponente di punta del partito fin dalla “svolta di Salerno”, attenta osserva­trice della “condizione femminile” e scrupo­losa responsabile del lavoro tra le donne. In un secondo momento Seroni chiese anche la collaborazione di Fiamma Camarlinghi.

La ricerca si inseriva in un clima politico vivace ed allo stesso tempo delicato per il “movimento femminile”, legato ai partiti della sinistra storica. La nascita del movi­mento femminista, autonomo rispetto ai par­titi politici e profondamente critico verso le antenate e la tradizione socialista e comuni­sta, poneva problemi di non secondaria im­portanza alle comuniste. Vi era quindi il biso­gno di recuperare terreno e credibilità politi­ca, di valorizzare l’esperienza trascorsa, di mostrare alle giovani generazioni l’infonda­tezza delle loro critiche, ponendosi come le originarie artefici delle battaglie per l’eman­cipazione femminile ma, sostiene Nadia Spa­no, “quell’opuscolo riflette le idee che aveva­mo allora, delle idee sbagliate che il femmini­smo era un femminismo borghese eccetera ...noi non [eravamo] femministe ma emanci- pazioniste, e [per la] emancipazione economi­ca prima di tutto”. Così quella ricerca sorta da una precisa esigenza politica e condotta in breve tempo, con una scarsa disponibilità di fonti documentarie, incentrò la tradizione delle comuniste italiane sui temi del lavoro e sulla rivendicazione della parità di diritti con gli uomini, fece di quel movimento un qual-

32 Riunione della Commissione per il Cinquantesimo anniversario della fondazione del Pei, 23 aprile 1970, in Fonda­zione Istituto Gramsci (d’ora in poi FG), Archivio Partito comunista, Commissione per le celebrazioni del Cinquante­nario, fase. 1.33 Rita Montagnana alla Segreteria del Comitato centrale del Pei, Torino, 22 febbraio 1971, in FG, loc. cit.34 Anita Pasquali ai compagni incaricati per il Cinquantesimo del partito, 2 febbraio 1971, in FG, loc. cit.35 Riunione della Commissione per il Cinquantesimo anniversario della fondazione del Pei, 23 aprile 1970, in FG, loc. cit.36 Adriana Seroni a Giancarlo Pajetta, Roma, 15 settembre 1970, in FG, loc. cit. Si veda anche la lettera del 15 ottobre 1970, ivi.

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cosa di unico e raro senza radici o anteceden­ti nella storia del paese, ovvero — come la stessa Spano ha affermato — “quella valoriz­zazione nasceva dalla negazione della tradi­zione delle altre”37. Si ignoravano l’elabora­zione e la pratica del movimento delle donne e si dimenticavano quelle voci che, pur ade­rendo al partito comunista, non avevano condiviso pienamente la linea della “intransi­genza paritaria” .

Nel corso degli anni settanta però l’ampio sviluppo del movimento femminista, anche per il suo “fare del racconto personale una pratica politica”, contribuì a legittimare “il diritto all’autobiografia”38. La decisione di molte dirigenti e attiviste di pubblicare le proprie autobiografie o di rilasciare testimo­nianze orali era in fondo un modo di darsi valore e di entrare a far parte della storia. NeH’esaminare la mancanza di un progetto di memoria storica oltre ai limiti del movi­mento delle donne in Italia, non si possono negare le censure e i silenzi dettati da esigenze politiche. L’oblio è caduto su alcune espe­rienze periferiche, interessanti e feconde ma poco ortodosse rispetto alla linea del partito. Le dirigenti più anziane, figure a volte dotate di un ricco patrimonio di esperienze, le più attive e consapevoli nel campo della politica femminile, sono state sommerse dalla dimen­ticanza e dal silenzio. In alcuni casi la ragio­ne principale dell’emarginazione è facilmente individuabile, un nome per tutte, forse il ca­so più eclatante: Ortensia De Meo, alla quale toccò la medesima sorte del marito Amadeo Bordiga. A questo si accompagnano altri no­mi di donne dubbiose e dissidenti che intra­presero vie dolorose e cammini tortuosi met­tendo alla prova se stesse, forse perdendo di vista lungo il percorso l’obiettivo di parten­

za: costruire un “mondo nuovo”, rispettoso dei bisogni degli uomini, delle donne e del­l’infanzia. Per molte questa meta si identifi­cava con la libertà e la realizzazione persona­le. È il caso di Rita Majerotti, autrice di un romanzo autobiografico — un vero e pro­prio manifesto a favore dell’emancipazione delle donne — per la quale l’adesione ai va­lori deH’emancipazionismo e del socialismo giungeva in seguito ad una faticosa ricerca introspettiva che la portava a prendere co­scienza della propria subordinazione sessua­le. Attraverso questo percorso interiore Rita scopriva le proprie aspirazioni e si liberava dai vincoli dell’educazione repressiva, si ri­volgeva all’esterno, denunciando le ragioni storiche dell’oppressione e chiamando le donne a raccolta:

A 17 anni già scrivevo oltre al mio diario riflessioni sui vari momenti e benché non conoscessi nulla della vita, al di fuori di quella del pensiero, ma ben presto ne feci l’amara esperienza. E allora in­cominciai a scrivere e lottare perché le altre donne non avessero a soffrire come io avevo sofferto per la mia ingenuità e a guardarmi intorno per com­prendere come una società diversamente e razio­nalmente organizzata potrebbe risparmiare all’u- manità tanto, infinito dolore, tante colpe, tante in­famie, tanta miseria materiale e spirituale39

L’attenzione al momento storico-politico in cui la biografia è prodotta, il contesto nel quale si inserisce ed infine l’impatto con il pubblico, non sono certo elementi di secondo piano al fine di una corretta analisi. A mag­gior ragione nel caso delle donne impegnate nella politica, le forme di propaganda, i ritua­li politici, l’ iconografia, nonché 1’ analisi dei repertori biografici possono aprire importan­ti squarci sulla rielaborazione della memoria

37 Intervista a Nadia Spano, Roma, gennaio 1990.jS L’espressione è di Jurij Lotman, ripresa da Luisa Passerini è titolo di un suo saggio pubblicato in L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988, pp. 1-33.39 Note autobiografiche, manoscritto, in FG, Archivio storico delle donne (d’ora in poi Asd), Majerotti (in ordinamen­to).

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ed il continuo dialogo che in questo specifico territorio si instaura tra presente e passato. L’identità pubblica non è un qualcosa di sta­bile, né tantomeno di naturale, essa si nutre del rapporto con gli altri ed è costruita anche in relazione a delle strategie capaci di cogliere “la buona interpretazione dell’uomo politi­co” propria di ogni fase sociale40.

Nel caso specifico quindi analizzando il modello tramandato della militante, non si può prescindere né dal clima politico del se­condo dopoguerra, momento in cui si sono poste le fondamenta della memoria storica del partito — perché è in questa fase che si operano gli eventuali tagli e le censure — né tantomeno dal clima degli anni settanta, in cui la memorialistica ha avuto la sua espan­sione. In modo specifico occorre riflettere sulla cultura prodotta dal femminismo e sulla radicale critica che questo, come i movimenti giovanili, rivolge alla sinistra storica41. An­che con queste incrostazioni culturali è dove­roso fare i conti nella rivisitazione di questa vicenda storica. Il “partito nuovo”, nato dal­la Resistenza, ha la necessità di legittimarsi come difensore delle libertà democratiche. In una società fortemente intrisa di valori tradizionali, deve operare delle scelte anche sul piano culturale e simbolico oltreché poli­tico. Nelle diverse forme della propaganda la figura dell’onesto lavoratore padre di fami­glia fa pendant con quella della brava mas­saia, la donna irreprensibile su ogni piano; le immagini fotografiche ritraggono le diri­genti accanto ai propri figli, mentre alle scuo­le di partito le responsabili dei corsi vigilano sulla “buona condotta” delle allieve. Anche i biografi di Abigaille Zanetta non rinunciano

a lodare le sue eccellenti capacità di dirigente politica e di casalinga:

La Ille era veramante una Grande Signora nella sua Piccola Casa. Riusciva a tutto, e non si capiva come facesse. La politica, ch’era la sua più alta e sentita missione, non le impediva di occuparsi a fondo della Scuola e di tutti i suoi problemi; l’una e l’altra non le impedivano di essere una impareg­giabile donna di casa e di dedicarsi, insieme, ad una infinità di opere di bene, pubbliche e private. Ricamava maestrevolmente, lavorava di cucito e alle trine a punto armeno e a punto fobello (Valse- sia) con rara perizia. Il suo piccolo alloggio, sem­pre un modello di pulizia e di ordine, la consacra­va massaia perfetta in ogni senso. Profondamente innamorata dei fiori li coltivava con competenza e passione, tanto che la sua terrazza sembrava nella primavera-estate, una magnifica serra. Trovava il tempo per tutti, anche per leggere le migliori opere letterarie di ogni genere”42.

Le storie di vita raccontano di donne assai meno stereotipate, la cui vita familiare si pre­sentava travagliata a causa dei difficili rap­porti con i coniugi o con i figli.

Lea Giaccaglia era in carcere quando la fi­glioletta Luce moriva in Urss in un asilo dei “bambini rivoluzionari”; sempre in quegli anni Teresa Meroni si separava dal figlio Vladimiro affidandolo alle cure delle orga­nizzazioni sovietiche. Alcuni legami matri­moniali, a causa della lontananza e delle dif­ficili prove inflitte dall’isolamento, si erano rotti, in qualche caso tragicamente. Altre vi­cende, di natura squisitamente politica, pre­occupavano il partito. Vi era infatti chi, come Elodia Manservigi, aveva conosciuto le “pur­ghe staliniane”, e qualche altra, come Felicita

40 Si veda Annie Collivard, Identités stratégiques, “Actes de la recherche en Sciences sociales”, giugno 1988, n. 73, pp. 29-40. Ricco di spunti interessanti è lo studio incentrato sull’analisi dei repertori biografici di J. Park, Les Caractéristi­ques des militantes britanniques pour le droit de vote des femmes au début du siede, “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 1990, n. 89, pp. 56-62.41 Sui rapporti interni al movimento delle donne in Italia e l’immagine che si andò plasmando della militante dell’Udi cfr. Vania Chiurlotto, Strani soggetti, Cultura e politica delle donne e la sinistra in Italia (Atti del seminario nazionale di Roma 4 e 5 maggio 1992), “IG Informazioni”, 1992, n. 3, pp. 171-180.42 Bruno Fortichiari, Mario Malatesta, Abigaille Zanella 1875-1945, Milano, Off. Grafi A. Saita S. A„ 1948, p, 39-40,

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Ferrerò, ne era stata in qualche misura tocca­ta. Si trattava di episodi imbarazzanti sui quali per un lungo periodo si preferi tacere. Vi era poi un’altra questione: le comuniste entrate nel Pc d’I nel corso degli anni venti erano espressione di una cultura e di un agire politico superato dagli eventi; la loro ricon­versione sulla scena politica in molti casi si presentava piuttosto ardua. Vi fu chi tentò l’impresa e si trovò a disagio, come nel caso di Bice Ligabue, segretaria della federazione modenese nei primi anni venti, che, narrando la sua esperienza in riferimento al secondo dopoguerra, ha ricordato: “Quando mi sono trovata di fronte a questa gioventù, io mi so­no trovata un nulla”43. Le loro esperienze di vita insieme con la radicalità del loro proget­to politico costituivano un pesante fardello che male si coniugava con l’impostazione del partito togliattiano. Tutte queste ragioni contribuirono a negare loro un posto nel pantheon comunista.

Il ricorso alle fonti di carattere letterario ha costituito un valido strumento per la sto­ria delle donne, ha contribuito al suo amplia­mento ed al suo sviluppo permettendo di su­perare in parte le difficoltà determinate dal “vuoto di memoria” — per riprendere un’e­spressione di Annarita Buttafuoco — che ha caratterizzato il movimento politico delle donne in Italia. Tuttavia la carenza di archivi e di una produzione letteraria, presente inve­ce in altri paesi, costituisce ancora oggi un li­mite alla ricerca. Ma le donne e la loro storia non sono del tutto assenti dagli archivi dei

partiti, delle istituzioni statali o della pubbli­ca amministrazione. Nel caso dei partiti poli­tici volgendo lo sguardo a momenti non pie­namente valorizzati dalla storiografia — penso alle attività pratiche, alla concreta or­ganizzazione dell’informazione e della pro­paganda — lo scenario si popola di figure femminili, come nel caso del Soccorso rosso internazionale. Già nel corso degli anni venti infatti in Italia e all’estero iscritte e simpatiz­zanti intervengono nei comitati, nei patrona­ti, nei club a sostegno dei detenuti politici. Riprendendo quella tradizione propria del movimento delle donne che aveva esteso il ruolo “di cura” all’intera società, riformu­lando il concetto di assistenza ed ampliando l’elaborazione sui diritti, esse tessevano un’ ampia rete a favore dell’infanzia44. Questo impegno è tutt’altro che marginale se posto a confronto con la riformulazione del concet­to di politica avanzata dalle donne, dove il privato sembra dilatarsi superando le rigide barriere che lo dividono dal pubblico. Anche nel caso delle comuniste quindi è nelle zone di confine tra politico e privato che è possibile rintracciare la presenza femminile45.

La ridefmizione del rapporto tra “pubbli­co” e “privato” consente una rilettura delle sedi della politica ampliando i margini di stu­dio e mettendo a fuoco meglio le vicende e i luoghi in cui le donne furono protagoniste. Una particolare attenzione meritano i mo­menti dell’aggregazione sociale, non soltanto le società di mutuo soccorso e le leghe di me­stiere, ma anche le associazioni a scopo ludi-

43 Intervista registrata a Modena il 5 dicembre 1971 da Luciano Casali con la collaborazione di Gabriella Rossi, in FG, Asd Camilla Ravera(in ordinamento), p. 20. Nella documentazione prodotta dal Pei negli anni del secondo dopoguerra sono presenti i richiami, di carattere politico e disciplinare, rivolti alla prima generazione di militanti.44 Sull’attività svolta in tal senso dal movimento delle donne cfr. A. Buttafuoco, Le Mariuccine, cit.; Id., Tra cittadi­nanza politica e cittadinanza sociale. Progetti ed esperienze del movimento politico delle donne nell'Italia liberale, in G. Bonacchi, A. Groppi, Il dilemma della cittadinanza, cit., pp. 104-127. Sull’attività delle comuniste nel Soccorso rosso internazionale cfr. P. Gabrielli, La solidarietà tra pratica politica e vita familiare nell’esperienza delle comuniste italiane, “Rivista di Storia contemporanea”, 1993, n. 1, pp. 34-56.45 M. Salvati, Introduzione, in D. Gagliani, M. Salvati (a cura di), La sfera pubblica femminile, cit., p. 13. Si veda anche Leonore Davidoff, Al di là della dicotomia pubblico privato: pensando ad una storia femminista per gli anni novanta, “Pas­sato e presente”, 1993, n. 27, pp. 133-152.

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co ed educativo. Luoghi dalle identità incer­te, ai margini tra il pubblico e il privato, mo­menti di socializzazione ed al tempo medesi­mo strutture di base dell’aggregazione politi­ca, sulle quali un indagine approfondita con­sentirebbe la ricostruzione di una mappa dettagliata delle espressioni molteplici del “fare politica”, lasciando emergere diversità e convergenze tra i generi nelle modalità di accesso alla sfera pubblica e nella elaborazio­ne e rivendicazione dei diritti.

Un territorio fecondo di indagine riguarda l’attività svolta nel campo dell’istruzione e dell’educazione. Molte ragazze all’indomani dell’Unità d’Italia sono chiamate ad attende­re alla formazione del “buon cittadino”. È un compito nuovo nel quale le donne metto­no alla prova le loro capacità, si assumono nuove responsabilità, in un quadro in cui i confini tra modernità e tradizione sono an­cora incerti. A cavallo tra Ottocento e Nove­cento, alle maestre, netta maggioranza della “classe magistrale”, vengono affidati compi­ti che hanno i caratteri di un prolungamento delle funzioni tipicamente femminili e mater­ne, mentre tuttavia esse contribuiscono alla diffusione della cultura nazionale entrando nelle maglie delle politiche istituzionali46. Giovani volenterose, animate dal desiderio di migliorare il proprio status, popolano gli edifici scolastici fatiscenti e malsani dei co­muni rurali, vivono la contraddizione pro­fonda tra i desideri, le ambizioni di afferma­zione personale e lo scarso riconoscimento

ricevuto dalle istituzioni; educano all’amor di patria, porgono agli allievi i primi rudi­mentali insegnamenti sullo Stato e i diritti- doveri del cittadino, mentre sono, in virtù del loro sesso, escluse dalla cittadinanza. So­no contraddizioni laceranti che aprono, in molti casi, ripensamenti e riflessioni sul ruo­lo sociale appena conquistato e sui personali progetti di vita. Questi temi hanno avuto an­che nella mia ricerca sulle comuniste italiane un certo rilievo contribuendo a sciogliere no­di importanti sia riguardo all’identità delle singole, sia alla scelta politica.

Alcune militanti mosse dalla passione per lo studio, considerato unico possibile mezzo di evasione dal mondo gretto che le circonda, conquistano con fatica la licenza magistrale, ottengono i primi incarichi di lavoro lontane dalla famiglia, ma la loro carriera si dimostra ben presto, come rileva una delle protagoni- ste, Adalgisa Breviglieri, “così poco cosparsa di rose” . Compiono i loro primi spostamenti, conoscono nuove realtà sociali, acquistano dimestichezza con le autorità alle quali si ri­volgono per i loro bisogni o per le necessità che l’incarico comporta.

I disagi, le umiliazioni, il rigido controllo morale ed il contatto con un’ infanzia soven­te povera e bisognosa di cure contribuiscono a far maturare un senso di ribellione che dà l’avvio alla loro maturazione politica. Una parte non trascurabile delle future militanti comuniste svolge quindi “l’apprendistato della politica” nell’ambiente magistrale, per

46 La scuola e l’istruzione, veicolo di modelli femminili, ma anche momenti determinanti la nascita di una nuova figura professionale — quella della maestra o dell’insegnante — hanno richiamato da dieci anni a questa parte l’attenzione della storiografia: per motivi di spazio rimando a Simonetta Soldani (a cura di), L ’educazione delle donne, Milano, An­geli, 1991; Id., Le donne, l'alfabeto, lo Stato. Considerazioni su scolarità e cittadinanza, in D. Gagliani, M. Salvati (a cura di), La sfera pubblica femminile, cit., pp. 113-135; Id. Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, Gabriele Turi (a cura di), Fare gli Italiani, Bologna, Il Mulino, 1993, voi. I, pp. 67-130. Cfr. inoltre Giorgio Bini, Romanzi e realtà di maestri e maestre, in Storia d ’Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1195-1224; Ester De Fort, / maestri elementari italiani dai primi del Novecento al fascismo, “Nuova rivista storica”, 1984, nn. 5-6, pp. 527-576; Si­monetta Uliveti, La donna nella scuola dall’Unità ad oggi. Leggi, pregiudizi, prospettive. Dall’Unità agli inizi del secolo, “Nuova D w f’, 1977, pp. 20-47. Si veda anche Delfina Dolza, Per un contributo allo studio delle classi medie in Piemonte nei primi decenni del secolo: il caso delle insegnanti, in Umberto Levra, Nicola Tranfaglia (a cura di), Torino tra liberali­smo e fascismo, Milano, Angeli, 1987, pp. 15-117; Marcello Dei, Le radici storiche delle maestre. Indagine sulle origini sociali degli insegnanti elementari dai primi decenni del V00, “Polis”, 1993, n. 1, pp. 95-119.

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poi confluire nelle file socialiste47. Molte in­fatti entrano nelle associazioni, altre alimen­tano il dibattito sulle questioni relative alla scuola e all’educazione pubblicando sia su giornali e riviste specializzate, sia sulla stam­pa locale e nazionale, altre ancora si fanno promotrici del movimento nelle loro città. È il caso di Adalgisa Breviglieri di Ancona, che segue con assiduità l’attività del sindaca­to magistrale, impegnandosi dal 1912 nella redazione del periodico locale “Vita magi­strale marchigiana” ed interviene sui temi dell’istruzione sulle colonne de “Il Lucife­ro” . Né sembra differente l’esperienza di Antonietta Progni Cordare di Trapani, che per circa dieci anni conduce la lotta per la conquista della parità salariale e più in gene­rale per un migliore trattamento economico, scegliendo come tribuna “Drepanitana”, la rivista da lei stessa fondata e diretta dal 1912. Alla direzione del giornale Antonietta Cordare accompagna un impegno organiz­zativo e propagandistico costante: partecipa a congressi, conferenze, stabilisce relazioni con le esponenti del movimento magistrale delle altre città; viaggia, prende parte alle riunioni nazionali e locali, costruendosi le opportunità per uscire dai confini angusti della sua regione. Non manca da parte di al­cune militanti un impegno sul piano pedago­gico o il tentativo di mettere a punto diffe­renti metodi d’insegnamento. Giuseppina Martinuzzi, attiva conferenziera della Socie­tà pedagogica triestina, redige un piccolo manuale mnemonico e qualche anno più tar­di tenta la pubblicazione di nuovi libri di te­sto per le classi elementari ispirati a principi educativi laici.

Il ruolo di insegnante ed educatrice sembra strutturare la loro personalità per porsi a fondamento della identità politica. Giuseppi­na Martinuzzi sosteneva di essere “divenuta socialista perché maestra”. Cesira Fiori ma­turava la sua coscienza di socialista nel con­tatto quotidiano con i bambini delle miserri­me campagne laziali. Rita Majerotti condu­ceva la sua prima battaglia politica proprio a favore del miglioramento salariale della “classe femminile magistrale” . Una volta iscrittasi al partito socialista Rita non si spo­gliò dell’abito professionale, impegnandosi in un’attività volta all’alfabetizzazione e alla diffusione del “verbo rivoluzionario” tra i militanti. L’educazione, in particolare quella impartita alle ragazze, restava al centro dei suoi interessi politici, tantoché i suoi discorsi e i suoi articoli ne portano traccia ed il ro­manzo fin dalle prime pagine introduce que­sta tematica:

Oh come vorrei che le madri rammentassero quan­to sia pericolosa e fatale l’ignoranza assoluta dei problemi sessuali nelle giovanette lanciate nel mondo, inermi contro le prepotenze, le viltà, le menzogne, le insidie! Quanto, secondo il costume della morale corrente, sia errata l’educazione che si dà alla donna!48.

La professione di maestra ha quindi una funzione significativa nell’esperienza delle singole, sia per il nuovo ruolo sociale acquisi­to, sia per i cambiamenti di vita che compor­ta la conquista di piccoli ma significativi mar­gini di indipendenza e soprattutto per la visi­bilità e la padronanza che alcune sembrano acquisire sulla scena pubblica.

47 Sull’impegno sociale e politico svolto da alcune maestre o insegnanti si vedano Lidia Mangani, Fanny Dal Ry. Una maestra elementare tra femminismo e pacifismo, “Storia e problemi contemporanei” , 1989, n. 4, pp. 87-107; Vittorio Po­ma, Una maestra tra i socialisti: l ’itinerario politico di Maria Giudice, “Rivista milanese di economia”, 1991, n. 20, pp. 5- 89; Emma Scaramuzza, La maestra italiana tra Ottocento e Novecento. Una figura esemplare di educatrice socialista: Lin­da Malnati, in Lino Rossi (a cura di), Cultura, istruzione e socialismo nell'età giolittiana, Milano, Angeli, 1991, pp. 99- 119; Carla Tonini, Una vita pel magistero: Gida Rossi e ‘Le memorie di una vecchia zitella', “D w f’, 1994, nn. 2-3, pp. 51- 75.48 Manoscritto di R. Majerotti, Il romanzo di una maestra, p. 7, in FG, Asd C. Ravera, Majerotti.

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Biografie femminili e storia politica delle donne 509

Scuola ed educazione, ma anche assisten­za e sviluppo delle politiche di welfare, sono terreni fecondi ai fini di un ampliamento della storia politica delle donne49. Gli archi­vi dei provveditorati — di non facile consul­tazione — così come i fondi concernenti la Pubblica istruzione — molti ancora da in­ventariare — presentano rilevanti opportu­nità per l’approfondimento degli studi, non soltanto per ricostruisce i livelli di vita economici e sociali, già affrontati in sede storiografica, ma anche per delineare le car­riere. Anche le richieste di trasferimenti pos­sono fornire dati utili ai fini di un’analisi puntuale degli spostamenti della campagna alla città e delle occasioni per aprirsi a nuo­ve conoscenze e a differenti opportunità di vita. I trasferimenti si inseriscono quindi nei progetti di costruzione delle carriere e possono contribuire a comprendere le stra­tegie messe in atto dai ceti medi femminili per la conquista di nuovi status. I rapporti con le autorità scolastiche possono costitui­re campi fertili di studio al fine di una più ampia comprensione delle scelte soggettive, nonché delle modalità di azione e delle stra­tegie messe in atto dalle donne verso le po­litiche statali. Comprendere gli effetti pro­dotti dallo sviluppo dello Stato nazionale e

dai processi di trasformazione del paese nel­le esistenze femminili, consente di discernere le continuità dalle rotture, di cogliere le con­traddizioni insite nel concetto stesso di mo­dernizzazione50.

Alcuni temi inoltre, quali “le reti di rela­zione”, alle quali la storia delle donne fin dal­le sue prime battute ha fatto riferimento, co­stituiscono tuttora un terreno d’indagine da coltivare anche nell’ambito della storia poli­tica. Rapporti di amicizia e di conoscenza in­terni al movimento delle donne, sia sul piano nazionale che su quello internazionale, cosi come le relazioni tra emancipazioniste e sin­goli esponenti del mondo politico, permetto­no di approfondire la conoscenza della “cul­tura” del movimento, ma anche di ricostruire una mappa dell’esistenza e della capacità di diffusione del femminismo nelle diverse loca­lità e nei singoli settori della realtà sociale ita­liana. Si tratta quindi di ricostruire un tessu­to politico e sociale che consenta di guardare con maggiore consapevolezza alle vittorie e alle sconfitte subite dal movimento politico delle donne, alla sua radicalità e al suo mode­ratismo nel contesto degli orientamenti pre­valenti nella società civile e in rapporto alle politiche statali.

Patrizia Gabrielli

49 Sulla centralità della categoria gender nelle ricerche sulle origini del welfare rimando a Seth Koven, Sonya Michel (a cura di), Mothers of a New World. Maternalìst Politics and the Origins of Welfare States, New Y ork-London, Routledge, 1993; per gli sviluppi della storiografia statunitense sul tema si veda la rassegna di studi di Elisabetta Vezzosi, Genere e welfare state nella storiografia statunitense, “Passato e presente”, 1994, n. 33, pp. 113-127. Per una panorama sugli orientamenti e gli esiti della ricerca in Europa Gisela Bock, Pat Thane (a cura di), Maternity and gender Policies: Women and the Rise of the European Welfare States, 5091880-1950, Routledge, London, 1991; G. Bock, Povertà femminile, ma­ternità e diritti della madre nell’ascesa dello stato assistenziale (1890-1959), in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne, Il Novecento, cit.50 Su questo tema offrono interessanti spunti A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senz’armi. Storie di donne. 1943- 1945, Roma-Bari, Laterza, 1995; A. Rossi Doria, Donne, femminismo, processi di trasformazione, “I viaggi di Erotodo”, 1994, n. 22, pp. 271-281.